Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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(pagine) GIANGRANDE LIBRI
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2023
LA GIUSTIZIA
OTTAVA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una presa per il culo.
Gli altri Cucchi.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Un processo mediatico.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Senza Giustizia.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Qual è la Verità.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli incapaci.
Parliamo di Bibbiano.
Scomparsi.
Nelle more del divorzio.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Mai dire legalità. Uno Stato liberticida: La moltiplicazione dei reati.
Giustizia ingiusta.
L’Istituto dell’Insabbiamento.
L’UPP: l’Ufficio per il Processo.
Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.
Le indagini investigative difensive.
I Criminologi.
I Verbali riassuntivi.
Le False Confessioni estorte.
Il Patteggiamento.
La Prescrizione.
I Passacarte.
Figli di “Trojan”.
Le Mie Prigioni.
Il 41 bis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Diffamazione.
Riservatezza e fughe di notizie.
Il tribunale dei media.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Il Caso Eni-Nigeria spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Giulio Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Biondo spiegato bene.
Piccoli casi d’Ingiustizia.
Casi d’ingiustizia: Enzo Tortora.
Casi d’ingiustizia: Mario Oliverio.
Casi d’ingiustizia: Marco Carrai.
Casi d’ingiustizia: Paola Navone.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Comandano loro.
Toghe Politiche.
Magistratopoli.
Palamaragate.
Gli Impuniti.
INDICE SESTA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di Marta Russo.
Il mistero di Luigi Tenco.
Il Caso di Marco Bergamo, il mostro di Bolzano.
Il caso di Gianfranco Stevanin.
Il caso di Annamaria Franzoni
Il caso Bebawi.
Il delitto di Garlasco
Il Caso di Pietro Maso.
Il mistero di Melania Rea.
Il mistero Caprotti.
Il caso della strage di Novi Ligure.
Il caso di Donato «Denis» Bergamini.
Il caso Serena Mollicone.
Il Caso Unabomber.
Il caso Pantani.
Il Caso Emanuela Orlandi.
Il mistero di Simonetta Cesaroni.
Il caso della strage di Erba.
Il caso di Laura Ziliani.
Il caso Benno Neumair.
Il Caso di Denise Pipitone.
INDICE SETTIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il caso della saponificatrice di Correggio.
Il caso di Augusto De Megni.
Il mistero di Isabella Noventa.
Il caso di Pier Paolo Minguzzi.
Il Caso di Daniel Radosavljevic.
Il mistero di Maria Cristina Janssen.
Il Caso di Sana Cheema.
Il Mistero di Saman Abbas.
Il caso di Cristina Mazzotti.
Il caso di Antonella Falcidia.
Il caso di Alessandra Matteuzzi.
Il caso di Andrea Mirabile.
Il caso di Giulia e Alessia Pisanu.
Il mistero di Gabriel Luiz Dias Da Silva.
Il caso di Paolo Stasi.
Il mistero di Giulio Giaccio.
Il mistero di Maria Basso.
Il mistero di Polina Kochelenko.
Il mistero di Alice Neri.
Il mistero di Augusta e Carmela.
Il mistero di Elena e Luana.
Il mistero di Yana Malayko.
Il caso di Luigia Borrelli.
Il caso di Francesca Di Dio e Nino Calabrò.
Il caso di Christian Zoda e Sandra Quarta.
Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.
Il mistero di Davide Piampiano.
Il mistero di Volpe 132.
Il mistero di Giuseppina Arena.
Il Caso di Teodosio Losito.
Il mistero di Michelle Baldassarre.
Il mistero di Danilo Salvatore Lucente Pipitone.
Il Caso Gucci.
Il mistero di «Gigi Bici».
Il caso di Elena Ceste.
Il caso di Libero De Rienzo.
La storia di Livio Giordano.
Il Caso di Alice Schembri.
Il caso di Rosa Alfieri.
Il mistero di Marina Di Modica.
Il Caso di Maurizio Minghella.
Il caso di Luca Delfino.
Il caso di Donato Bilancia.
Il caso di Michele Profeta.
Il caso di Roberto Succo.
Il caso di Pamela Mastropietro.
Il caso di Luca Attanasio.
Il giallo di Ciccio e Tore.
Il giallo di Natale Naser Bathijari.
Il giallo di Francesco Vitale.
Il mistero di Antonio Calò e Caterina Martucci.
Il caso di Luca Varani.
Il caso Panzeri.
Il mistero di Stefano Gonella.
Il caso di Tiziana Cantone.
Il mistero di Gilda Ammendola.
Il caso di Enrico Zenatti.
Il mistero di Simona Pozzi.
Il caso di Paolo Calissano.
Il caso di Michele Coscia.
Il caso di Ponticelli.
Il caso di Alfonso De Martino, infermiere satanico.
Il caso di Sonya Caleffi, la serial killer di Lecco.
Il caso di Rosa Bronzo, la serial killer di Vallo della Lucania.
Il mistero di Marcello Vinci.
Il mistero di Ivan Ciullo.
Il mistero di Francesco D'Alessio.
Il caso di Davide Cesare «Dax».
Il caso di Tranquillo Allevi, detto Tino.
Il caso Shalabayeva.
Il Caso di Giuseppe Pedrazzini.
Il Caso di Massimo Bochicchio.
Il giallo di Grazia Prisco.
Il caso di Diletta Miatello.
Il Caso Percoco.
Il Caso di Ferdinando Carretta.
Il mistero del “collezionista di ossa” della Magliana.
Il Milena Quaglini.
Il giallo di Lorenzo Pucillo.
Il Giallo di Vincenzo Scupola.
Il caso di Vincenzo Mosa.
Il Caso di Alessandro Leon Asoli.
Il caso di Santa Scorese.
Il mistero di Greta Spreafico.
Il Caso di Stefano Dal Corso.
Il mistero di Rkia Hannaoui.
Il mistero di Stefania Rota.
Il Mistero di Andrea La Rosa.
Il Caso Valentina Tarallo.
Il caso di Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi.
Il caso di Terry Broome.
Il caso di Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro.
Il Mistero di Giada Calanchini.
Il Caso di Cinzia Santulli.
Il Mistero di Marzia Capezzuti.
Il Mistero di Davide Calvia.
Il caso di Manuel De Palo.
Il caso di Michele Bonetto.
Il mistero di Liliana Resinovich.
Il Mistero del Cinema Eros.
Il mistero di Sissy Trovato Mazza.
I delitti di Alleghe.
Il massacro del Circeo.
Il mistero del mostro di Bargagli.
Il mistero del Mostro di Firenze.
Il Caso di Alberica Filo della Torre.
Il mistero di Marco Sconforti.
Il mistero di Giulia Tramontano.
Il mistero di Alvise Nicolis Di Robilant.
Il mistero di Maria Donata e Antonio.
Il caso di Sibora Gagani.
Il mistero di Franca Demichela.
Il mistero di Stefano Masala.
Il caso di Emanuele Scieri.
Il caso di Carol Maltesi.
INDICE OTTAVA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il mistero di Pierina Paganelli.
L’omicidio Donegani.
Il mistero di Mario Bozzoli.
Il mistero di Fabio Friggi.
Il giallo della morte di Patrizia Nettis.
La vicenda di Gianmarco “Gimmy” Pozzi.
La vicenda di Elisa Claps.
Il mistero delle Stragi.
Il Mistero di Ustica.
Il caso di Piazza della Loggia.
Il Mistero di piazza Fontana.
Il mistero Mattei.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
I nomi dimenticati.
LA GIUSTIZIA
OTTAVA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il mistero di Pierina Paganelli.
Estratto dell'articolo di Mirco Paganelli per il
Messaggero giovedì 19 ottobre 2023
Chi ha ucciso Pierina Paganelli? Da due settimane a Rimini non ci si domanda
altro. Per ora gli approfondimenti degli investigatori, coordinati dal pm della
Uno Bianca Daniele Paci, si sono concentrati sui conoscenti più stretti della
78enne. In particolare sulla nuora che, per la sua presunta relazione
extraconiugale con un vicino di casa, pare avesse avuto degli attriti con la
suocera.
[…] ancora non vi è alcun indagato ufficiale. Ma il cerchio si stringe. Pierina
conosceva bene l'assassino. «Ciao» o qualcosa di simile è ciò che le ha detto
una voce maschile prima dell'aggressione avvenuta nel piano interrato del
condominio in cui la donna viveva. La voce è stata registrata da una telecamera
privata presente in un box auto.
L'ex infermiera, a detta dei vicini ben voluta da
tutti, è stata brutalmente uccisa la sera del 3 ottobre scorso […] Diciassette
le coltellate inferte dopo quel saluto all'apparenza amichevole. L'autopsia ha
stabilito che i primi quattro fendenti sono stati quelli letali. Gli altri sono
serviti all'assassino (o agli assassini) per infierire sul corpo esanime
dell'anziana signora. L'arma del delitto non è ancora stata trovata. […]
Il delitto è avvenuto nel vano tagliafuoco tra il piano dei garage e il vano
scale condominiale. L'azione sembra essere il risultato di un piano ben preciso
messo in piedi da chi conosceva Pierina e le sue abitudini. […] I vicini
raccontano di una donna pacifica, mite. Eppure qualcuno voleva la sua fine. Nel
corso dei giorni la polizia ha sentito più volte la nuora della 78enne, Manuela
Bianchi, che vive sullo stesso pianerottolo e che da qualche tempo era diventata
amica intima di un vicino di casa, Louis Dassilva, di origini senegalesi.
È stata la parente a rinvenire il cadavere la mattina dopo l'assassinio. Bianchi
ha però un alibi, il fratello Loris, che ha raccontato di essere stato a cena
dalla sorella fino alle ore 23, ovvero fino a circa un'ora dopo che Pierina
venisse ammazzata, […] i loro appartamenti sono stati ispezionati a più riprese
dalle forze dell'ordine. A casa della nuora, in particolare, sono stati
prelevati due taglierini. Ma i figli della pensionata, tra cui il marito di
Manuela Bianchi che è in riabilitazione dopo un grave e misterioso incidente
stradale avvenuto a maggio, sono convinti che l'assassino non sia da ricercare
tra i familiari. […]
Tra gli ultimi elementi raccolti dagli agenti della Squadra mobile vi sono dei "pizzini"
che la nuora e il presunto amante si sarebbero scambiati nei giorni scorsi. «Ci
spiano», c'era scritto in un foglietto passato dall'uomo sotto la porta della
dirimpettaia. Perché quell'avvertimento? Gli inquirenti hanno archiviato, poi,
il filmato della farmacia di fronte al condominio che ritrae l'auto della
pensionata rientrare a casa alle 22.08. Alcuni hanno scorto un'ombra muoversi
nei pressi del garage; forse l'assassino che si assicurava dell'arrivo della sua
preda, pronto a tenderle l'agguato nel silenzio dell'interrato. […]
Omicidio Rimini, donna uccisa a coltellate: il figlio era stato aggredito e ridotto in fin di vita. Enea Conti su Il Corriere della Sera mercoledì 4 ottobre 2023.
Il corpo della vittima, Pierina Paganelli, 78 anni, trovato sulla rampa di un garage condominiale. Il figlio era stato soccorso in strada a maggio: si pensò al pirata della strada ma ora si indaga su un possibile aggressore
Prima la tragedia e poi il giallo. A Rimini è stato trovato il cadavere di una donna di 78 anni, Pierina Paganelli, rinvenuto sulla rampa di accesso del condominio in cui abitava in via del Ciclamino, zona residenziale della periferia, uno tra i quartieri più tranquilli della città, vicino alle campagne.
Il corpo trovato e le indagini
Dai primi riscontri, la donna sarebbe stata uccisa a coltellate sul collo e sulla schiena. Al momento non risulterebbero persone fermate. Il cadavere è stato rinvenuto dalla moglie del figlio che ha poi lanciato l'allarme. L'abitazione dei due coniugi si trova infatti nell'appartamento di fronte a quello della vittima. Il corpo della donna era riverso sulla rampa delle scale che permette agli inquilini del palazzo di accedere al garage e alle cantine. Sul posto il pm di turno Daniele Paci e la Polizia Scientifica per rilievi.
Il mistero dell'aggressione nei confronti del figlio
La vittima è una testimone di Geova e andava spesso a trovare il figlio, che si trova ricoverato in gravissime condizioni alla clinica Sol et Salus. La drammatica vicenda dell'uomo, Giuliano Saponi, è molto nota in città: era stato soccorso in fin di vita in una zona vicina a quella in cui abitava, all'alba dello scorso 7 maggio, ed era stato salvato grazie all'intervento dei passanti. In un primo momento si era creduto ad un pirata della strada, anche se Saponi sul volto presentava segni compatibili con un'aggressione. Sul caso indaga ancora la Procura di Rimini. L'ex marito della donna vive invece a Monaco Di Baviera.
(ANSA mercoledì 18 ottobre 2023) - "Ciao" e poi le urla. Non si sente nitidamente, ma si intuisce che una voce maschile prima saluta Pierina e poi l'accoltella. Dura qualche secondo la registrazione della telecamera di sorveglianza, installata da un condomino in via Del Ciclamino, che la sera del 3 ottobre scorso ha captato le urla di Pierina Paganelli, la 78enne testimone di Geova uccisa con 17 coltellate nel suo garage di Rimini. La registrazione è disturbata perché ascoltandola si capisce che la telecamera è a diversi metri di distanza da dove la vittima è stata aggredita.
Inoltre è in un garage chiuso, ma con porta forata che lascia passare suoni e luci. La telecamera è rivolta verso l'interno, installata da un condomino nella sua proprietà privata. Quella registrazione è da tempo stata acquisita dagli investigatori della squadra mobile di Rimini che, coordinati dal sostituto procuratore Daniele Paci stanno cercando il bandolo di un omicidio misterioso. La registrazione potrà essere utile se dai laboratori romani della polizia scientifica si riuscirà ad ottenere un suono più nitido di quello originale, se dovesse essere confermata la voce maschile e il saluto confidenziale, si rafforzerebbe l'ipotesi che l'omicida è una persona conosciuta ed in confidenza con la vittima.
Un uomo. Ieri sera intorno alle 22 intanto in via del Ciclamino la squadra scientifica e la mobile sono tornati nel garage scena del crimine per dei rilievi fonometrici. I rilievi fonometrici servono anche per conoscere il rumore di fondo di un locale o per misurare il livello massimo di rumore derivante da una sorgente, alla stessa ora e con le stesse condizioni.
Omicidio di Rimini, il presunto amante della nuora: “L’immagine di Pierina morta mi tormenta”. Il Resto del Carlino il 20 ottobre 2023.
Cappello e occhiali scuri, Louiss Dassilva il presunto amante di Manuela Bianchi (nuora della vittima) e vicino di casa di Pierina Paganelli, la 78enne uccisa a coltellate la sera dello scorso 3 ottobre nei sotterranei di via del Ciclamino 31 a Rimini, ha risposto alle domande dei giornalisti davanti a telecamere e microfoni. Con lui c’era il consulente della difesa Davide Barzan.
"Al fine di fare chiarezza sulla morte di Pierina – le prime parole di Dassilva – abbiamo deciso di lasciare tutto all'avvocato Barzan e investigatore privato. Con Pierina avevo un rapporto normale, come una persona normale, da vicini di casa: era tutto perfetto".
L’uomo di origini senegalesi, che con la moglie Valeria Bartolucci abita sullo stesso pianerottolo in cui si trova l’appartamento di Pierina e quello della nuora di quest’ultima, Manuela Bianchi, che abita lì insieme al marito Giuliano e alla figlia ha negato lo scambio di bigliettini con Manuela aggiungendo: "Vi interessa chi ha fatto del male alla povera Pierina o volete scavare nella vita della gente?"
"A noi interessa fare chiarezza sull'omicidio di Pierina – ha ribadito il legale –, non ci interessa sapere se Louiss ha avuto o meno un rapporto extra coniugale con Manuela. Non è indagato, come non lo è Manuela. Stiamo procedendo con il modello 44".
Alla domanda su cosa abbia fatto la sera del 3 ottobre, Dassilva ha risposto: "Sono stato a casa, a letto tutta la sera. Avevo fatto un incidente con la moto. Sono stato prima all'ospedale e poi a letto perché il ginocchio mi faceva molto male".
Poi ha spiegato il rapporto con la 78enne uccisa: “Con Pierina mi salutavo con un ‘ciao’. Avevamo un rapporto sereno e andavamo d'accordo. Andavo d'accordo con tutti qui. A qualcuno non piace quando dico che sono straniero, sto lontano da casa, so stare al posto mio. Quello che mi interessa è andare d'accordo con tutti".
Poi una domanda sul rapporto con i parenti di Pierina: dopo l'incidente di Giuliano, è stato molto vicino a loro, a Manuela. Li aiutava anche a cucinare?
"C'era un buon rapporto di vicinato – ha aggiunto Dassilva - avevo visto che non avevano tempo o voglia di cucinare. A me piace lavorare e cucinare".
L'ultima volta in cui ha visto Pierina? "Non lo ricordo. Quando sono sceso e l'ho vista mi sono sentito male. Una donna che è sempre stata bella, preparata anche se anziana sempre con i capelli sistemati. Quella che mi sono trovato di fronte è stata un’immagine che ti colpisce subito, vai in panico. Non era come l'avevo conosciuta, non l’ho riconosciuta. Quelle immagine mi tormenta, non dormo la notte". Il Resto del Carlino
Quegli insoliti incidenti tra i conoscenti di Pierina. Emergono nuovi dettagli e insolite coincidenze in merito al delitto di Pierina Paganelli: perché tanti incidenti tra lei, suoi conoscenti e in generale nella zona? Angela Leucci il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Ci sono eventi insoliti e coincidenze drammatiche a margine dell’omicidio di Pierina Paganelli, avvenuto a Rimini lo scorso 3 ottobre. Si è a lungo parlato di alcuni presunti contrasti della vittima con la nuora Manuela Bianchi, ma né quest’ultima né altri conoscenti della donna sono indagati attualmente.
In questi giorni è stato sequestrato dagli inquirenti lo smartphone della figlia di Manuela, nipote di Pierina, mentre al fratello Loris Bianchi, nella cui auto sono state trovate tracce biologiche dalla natura ancora sconosciuta, è stato sequestrato un raschietto, uno strumento di lavoro.
Il primo dettaglio misterioso che emerge ora, è che tre settimane prima della sua scomparsa, pare che Pierina, al telefono in viva voce sul balcone, potrebbe aver pronunciato la frase: “Manuela è una zocc… e suo fratello è il suo protettore”. La frase, è stato detto inizialmente a Quarto Grado, sarebbe stata ascoltata involontariamente e riportata dalla vicina Valeria Bartolucci, che però ha smentito: “Mai detta quella frase a Loris né a Manuela. Questa frase non l’ho mai, mai, riferita a nessuno”. Dal canto suo Loris ha ribattuto: “Parlerò con Valeria, ho capito male io, ma non mi pare. Era un giorno particolare, posso aver capito male o lei potrebbe essersi espressa male”.
Sicuramente i giorni dell’omicidio sono stati concitati nel condominio di via del Ciclamino in cui si è consumato il delitto. Ed è stato riportato che Loris avrebbe pronunciato con più soggetti la frase: “Giustizia è stata fatta”. In realtà, l’uomo ha spiegato a Quarto Grado: “Ho voluto fare l’investigatore, nel senso che mi è venuto l’istinto di fare così, di vedere una reazione. È stato un viaggio mentale del momento”. In altre parole, Loris pare stesse cercando di capire se qualcuno nutrisse astio nei confronti di Pierina.
Quello che è certo è che la zona e i suoi abitanti sono stati al centro di insoliti incidenti nel tempo: nei giorni scorsi è emerso come una donna, a poche decine di metri di distanza, sia stata accoltellata. Tra il 2005 e il 2006 il condominio è stato oggetto di un incendio doloso, pare appiccato da un gruppo di piromani: l’innesco però si trovava sotto l’auto guidata da Pierina al tempo. La stessa Pierina nel 2023 ha avuto un incidente con la Panda nel suo stesso garage.
C’è poi il misterioso incidente occorso il 7 maggio scorso a Giuliano Saponi, figlio di Pierina: non si sa ancora se si sia trattato di un’aggressione, ma gli inquirenti sembrano propendere per un incidente stradale. La moglie Manuela poi, il 23 luglio, era scivolata in bagno, rompendosi le costole e un dito del piede, mentre il giorno prima dell’omicidio il vicino Louis Dassilva ha avuto un incidente in moto, risultando ferito al costato e al ginocchio sinistro.
L’omicidio Donegani.
Omicidio Donegani, gli zii uccisi dal nipote e abbandonati a pezzi nel bosco. Aldo Donegani e Luisa De Leo uccisi dal nipote dell'uomo, Guglielmo Gatti nel 2005. I loro resti vennero ritrovati nei boschi, fatti a pezzi nella speranza di non essere ritrovati. A quasi vent'anni di distanza manca ancora il movente. Giuseppe Spatola il 3 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
La sparizione e le ipotesi
La svolta con i corpi fatti a pezzi
Il suo garage come mattatoio
Il movente mancante
Lunedì primo agosto 2005: a Brescia il caldo afoso della pianura impregnava ogni passo. In città davanti al civico 15 di via Ugolini, il citofono dei coniugi Aldo Donegani, 77 anni, e Luisa De Leo, 61, continuava a suonare a vuoto da giorni. Nessuna risposta al cancello così come al telefono più volte fatto squillare da Luciano De Leo, un nipote della coppia che, per inciampo della vita, è un carabiniere in servizio a Castelfidardo.
La sparizione e le ipotesi
De Leo avrebbe dovuto trascorrere qualche giorno di vacanza con gli zii. Ma non li trova: spariti nel nulla come inghiottiti dall’afa bresciana. È lui a chiamare i vigili del fuoco e a far scattare le denuncia. E dire che per giorni De Leo aveva cercato inutilmente notizie degli zii contattando anche l'altro nipote della coppia, Guglielmo Gatti, 41 anni. Gatti, uomo riservato e solitario, abitava al secondo piano della villetta dei due. Il primo agosto rincasò diverse ore dopo il tentativo di De Leo di rintracciare la coppia. Sul citofono aveva appeso un biglietto “torno dopo le 17“ e così avvenne.
Al parente disse di non vedere gli zii da qualche giorno. Quando i Vigili del Fuoco entrarono nell’appartamento tutto era in ordine: l'auto dei coniugi Donegani, una Renault Clio di colore nero, era nel garage di casa, con chiavi inserite nel cruscotto e funzionante, così come la casa era in ordine fino all’ultimo cassetto. Davanti al giallo di una scomparsa inspiegabile le autorità non persero tempo e le ricerche di polizia e carabinieri scattarono subito. Inizialmente le ipotesi di lavoro degli inquirenti furono tre: da una parte la coppia si poteva essere allontanata volontariamente, e a sostenere questa pista c'era la testimonianza di un loro amico che tempo prima aveva raccolto una confidenza in tal senso di Aldo e Luisa, oppure erano rimasti vittime di un incidente durante una delle loro tante escursioni lungo i sentieri di montagna. Terzo scenario investigativo era quello peggiore: un duplice omicidio a cui però sarebbe servito un movente e una mano assassina.
Insomma un giallo che nell’estate del 2005 presto catalizzò l’attenzione della stampa nazionale. E inevitabilmente ogni cronista si ritrovò a parlare, filtrato dalle sbarre del cancello chiuso della villetta di via Ugolini, con il nipote Guglielmo, studente fuoricorso di Ingegneria al Politecnico di Milano e orfano da pochi mesi.
La svolta con i corpi fatti a pezzi
La svolta due settimane dopo la denuncia, il 17 agosto, quando in una scarpata di 400 metri in Val Paisco, sui monti dell’alta Val Camonica tra le province di Brescia e Bergamo furono trovati una decina di sacchetti dell'immondizia contenenti i resti fatti a pezzi dei corpi di Aldo e Luisa Donegani. Tra i poveri resti della coppia anche le cesoie con tracce di sangue delle vittime. All’appello però mancavano solo le teste, ritrovate settimane dopo da alcuni cercatori di funghi all’imbocco delle gallerie della statale 510, sul lago d’Iseo.
Da qui l’arresto di Guglielmo Gatti, incastrato da prove considerate inequivocabili: la testimonianza di un ragazzo di 14 anni, che il primo agosto, due giorni dopo la scomparsa dei Donegani, verso le 15,30 si trovava in macchina col padre sul passo del Vivione, vicino al luogo del ritrovamento dei corpi e che riconobbe in Guglielmo Gatti il conducente dell'auto, una Fiat Punto blu che li aveva sfiorati, rischiando un incidente frontale. Altro elemento fondamentale fu la testimonianza di Cristina Cominelli, proprietaria dell'hotel Il Giardino di Breno, in Val Camonica, che ricordava l'arrivo di Guglielmo Gatti nel suo hotel verso le 3 di notte tra il 31 luglio e il primo agosto.
Il suo garage come mattatoio
La prova regina del massacro arrivò dall'esame del box del 41enne, definito "il mattatoio" dal procuratore Giancarlo Tarquini: ogni angolo era segnato da residui di sangue. Secondo quanto riferito dagli investigatori, la prova con il luminol, una sostanza che rivela la presenza di sangue anche in quantità infinitesimali, dette risultati inequivocabili. "Quando abbiamo acceso le lampade tutto il garage è diventato blu, sia per terra che sulle pareti, fino all'altezza di un metro", dissero gli inquirenti. In quella stanza Gatti sezionò i corpi dei due coniugi imbracciando le cesoie poi gettate con i poveri resti.
Gatti, accusato di duplice omicidio premeditato, vilipendio e occultamento di cadavere è stato condannato in via definitiva all'ergastolo con sentenza resa definitiva dalla Cassazione il 12 febbraio 2009. Ora sconta la sua pena nel carcere milanese di Opera, dove passa il tempo leggendo libri, proprio come faceva quando si sedeva in balcone, nella casa di via Ugolini.
Dalla mattanza alla nuova vita: si ristruttura la "villa degli orrori" di Brescia
Lui si è sempre dichiarato innocente. Ma per il procuratore capo, il nipote è stato "l'artefice di un piano ben congegnato e spietato", che sarebbe sfociato in un delitto perfetto se "non ci fossero stati tempi rapidissimi nelle indagini": la velocità ha consentito il ritrovamento dei resti prima che la strada verso il Vivione venisse chiusa e gli animali contribuissero alla sparizione dei resti della coppia.
Il movente mancante
Dopo 18 anni però manca ancora un movente. Per gli inquirenti ad armare la mano di Gatti fu l'odio per gli zii, tanto esuberanti loro quanto chiuso e taciturno lui. "Il nostro convincimento sul movente è supportato da quello che Gatti ci ha raccontato in passato, soprattutto sui rapporti freddi, gelidi che c'erano tra lui e gli zii. Non si facevano neanche gli auguri a Natale", avevano spiegato gli investigatori. Rancori e dissapori ventennali tra le due famiglie che risalirebbero a quando lo zio Aldo aveva sposato in seconde nozze la donna che veniva in casa a fargli le pulizie, Luisa De Leo, di sedici anni più giovane e divorziata. Un giallo con un colpevole ma, apparentemente, senza movente. E ora che la villa del massacro, venduta all’asta nel 2017, sarà restaurata, Brescia cerca di lasciarsi alle spalle l’orrore della mattanza di via Ugolini.
Il mistero di Mario Bozzoli.
Scena del crimine. La scomparsa, il sospetto, il processo indiziario: il giallo della fonderia. Angela Leucci il 22 Agosto 2023 su Il Giornale.
La scomparsa di Mario Bozzoli, in provincia di Brescia è, secondo gli inquirenti e i giudici del primo grado di giudizio, un omicidio. C'è un condannato, ma i futuri gradi di giudizio potrebbero valutare anche altri accusati
Tabella dei contenuti
La scomparsa
Le indagini
La condanna
“La verità verrà a galla”. Era la frase scritta sotto una foto di Mario Bozzoli affissa all’interno della fonderia di sua proprietà a Marcheno, in provincia di Brescia. La vicenda della scomparsa di Bozzoli è stata al centro di un processo indiziario per omicidio, un procedimento in cui sono state mosse accuse ben precise in base alle prove nelle mani degli inquirenti, in particolare le riprese delle telecamere di videosorveglianza, alcune testimonianze e un audace esperimento che forse in futuro farà la storia della giustizia italiana per la particolarità del contesto e degli esiti.
La scomparsa
Mario Bozzoli aveva 50 anni all’epoca della scomparsa. Era comproprietario, insieme al fratello Adelio, di una fonderia. Aveva una moglie, Irene, un figlio. E due nipoti, figli di Adelio, che lavoravano con lui. L’8 ottobre 2015 alle 19.13 telefonò alla moglie: solo pochi minuti dopo fu l’ultima volta in cui fu visto. All’interno della fonderia, perché le telecamere di videosorveglianza non l'avrebbero mai ripreso in uscita.
Le ricerche partirono subito e la notizia venne diffusa in tutta Italia. Ma, appena messa al corrente, la ex del nipote Giacomo Bozzoli, Jessica G., contattò gli inquirenti, affermando che Giacomo nutrisse animosità nei confronti dello zio. Zio che, per sua stessa ammissione, dopo un litigio, aveva salvato per un periodo sullo smartphone come “Mer…”. Tuttavia Giacomo Bozzoli ha sempre smentito di aver avuto un ruolo nella scomparsa, e ha continuato a farlo durante il processo per il presunto omicidio: ha invece descritto Mario Bozzoli come il suo maestro in fonderia.
Intanto però accadde anche un altro fatto notevole. A 6 giorni dalla scomparsa di Mario Bozzoli e nel giorno in cui avrebbe dovuto testimoniare agli inquirenti sparì anche l’operaio più “anziano” in servizio alla fonderia, Giuseppe Ghirardini. Il corpo dell’uomo, con la sua auto, fu ritrovato 2 giorni dopo in un boschetto nei pressi di Ponte di Legno: nei pressi del corpo una capsula di cianuro con cui si sarebbe suicidato. Gli inquirenti supposero che Ghirardini fosse il “Beppe” di cui parlavano al telefono altri due operai, cui sono state rivolte delle accuse all’interno del caso Bozzoli, e a casa dell’uomo furono trovate 8 banconote da 500 euro: queste ultime tuttavia potrebbero essere state gli arretrati degli straordinari.
Le indagini
Gli inquirenti analizzarono, come detto, le telecamere di videosorveglianza. Che però erano fisse su alcuni punti ciechi: così vennero concentrate le attenzioni su Giacomo Bozzoli che insieme al fratello Alex possedeva i codici delle telecamere e che l’8 ottobre 2015 venne visto entrare e uscire più volte dalla fonderia con il suo suv tra le 19.33 e le 19.55. Fuori dalla fonderia è stata inquadrata invece una sorta di fumata bianca. Al processo Giacomo Bozzoli affermò che le telecamere sarebbero state puntate dallo zio, in particolare nello spogliatoio dei dipendenti e su un deposito, perché c’era stato il fondato sospetto di furti di materiale.
A pesare sulle posizioni di Giacomo Bozzoli furono però anche delle testimonianze. In primis quella della zia Irene, che raccontò come il marito avesse avuto degli screzi con i nipoti e il fratello Adelio: Mario Bozzoli avrebbe temuto furti da parte di un’azienda concorrente fondata dai nipoti “In un’occasione - ha raccontato Irene Zubani - mio marito mi ha raccontato che si stava lamentando della produzione dell’azienda e aveva detto che avrebbe fatto una denuncia, e in quell’occasione Giacomo gli rispose che se avesse fatto questa denuncia lui avrebbe fatto del male a nostro figlio”.
Non solo. Jessica G., ex di Giacomo Bozzoli, ha raccontato di come, durante la loro relazione, lui l’avrebbe costretta a fare la roulette russa con una rivoltella a tamburo di proprietà di Adelio Bozzoli. “Aveva più volte palesato odio per lo zio. Mi ha ripetuto più volte che il suo intento era quello di uccidere lo zio”, ha raccontato la donna agli inquirenti. E poi ha svelato un presunto piano omicidiario in incidente probatorio: “Io avrei dovuto prendere la sua auto, transitare in autostrada così il Telepass avrebbe segnato il passaggio dell'auto e lui avrebbe dovuto aspettare lo zio fuori casa. Si sarebbe procurato stivali di un numero più grande, avrebbe aspettato lo zio e lo avrebbe colpito da dietro a sorpresa. Poi si sarebbe nascosto nel bosco e il giorno successivo mi avrebbe chiamato da una cabina telefonica e io sarei dovuta andare a prenderlo”.
E gli inquirenti hanno supposto non solo che Mario Bozzoli sia stato ucciso, ma che a ucciderlo sia stato il nipote Giacomo: inizialmente credettero che il corpo sarebbe stato trasportato fuori dalla fonderia da una vettura. Ma poi ipotizzarono che il cadavere possa essere stato distrutto nel forno. Tuttavia la perizia affidata alla dottoressa Cristina Cattaneo stabilì, nell’analisi delle scorie, che all’interno del forno non c’erano tracce di resti umani.
Così il giudice del tribunale di Brescia Roberto Spanò dispose un esperimento molto particolare: nel forno della fonderia venne bruciato un maiale. Ne risultò la completa distruzione della carcassa e una fumata bianca, proprio come quella inquadrata dalle telecamere la sera della scomparsa: non fu quindi escluso che la presunta distruzione del corpo di Mario Bozzoli possa essere avvenuta nel forno, che non fu fermato né analizzato nell’immediatezza della scomparsa dell’uomo. In una puntata di Quarto Grado l’ex generale del Ris Luciano Garofano ha spiegato: “Che la professoressa Cattaneo non abbia trovato dei resti umani, genetici, è possibile. In quel forno c’erano temperature elevatissime, materiale eterogeneo, che può aver disseminato quei resti in una modalità tale che non ha consentito il loro ritrovamento”.
La condanna
Il processo di primo grado si è concluso alla fine di novembre 2022 con la condanna all’ergastolo, con un anno di isolamento diurno, per Giacomo Bozzoli. Sono inoltre stati richiesti approfondimenti dalla procura per il fratello Alex Bozzoli accusato di falsa testimonianza, per l’operaio Aboagye Akwasi accusato di favoreggiamento, e per l’operaio Oscar Maggi accusato di concorso in omicidio e distruzione di cadavere. Akwasi e Maggi erano le due persone che nell’intercettazione furono ascoltati parlare di tale “Beppe”. Il tribunale di Brescia quindi ha concluso per il primo grado che “Giacomo Bozzoli ha ucciso lo zio distruggendo il corpo nel forno in concorso con altri”, ma bisognerà vedere se questo giudizio, così come saranno vagliate le posizioni degli altri accusati, sarà confermato in appello e poi in Cassazione.
Il "test del suino" per risolvere il "giallo" dell'omicidio di Bozzoli
Nella requisitoria il pm Silvio Bonfigli aveva affermato: “Con Giacomo Bozzoli c'era Giuseppe Ghirardini, che poi si è tolto la vita. Il suo è stato un suicidio parlante: si è suicidato per aver aiutato Giacomo a uccidere Mario Bozzoli e lo ha fatto quando ha capito di essere l'anello debole. Non era depresso, viveva nell'attesa di rivedere il figlio. Non aveva alcun motivo”.
E mentre al processo Giacomo Bozzoli aveva detto di aver pensato che lo zio si fosse allontanato con una donna o fosse stato rapito, il tribunale ha stabilito l’“infondatezza delle ipotesi dell’allontanamento volontario e del suicidio”. Inoltre “la presenza degli abiti di ricambio negli spogliatoi e dell’auto parcheggiata nel cortile della fonderia mal si sposava con l’eventualità di una scelta deliberata”, oltre il fatto che “il mancato rinvenimento del cadavere si poneva poi in aperto contrasto con l’ipotesi dell’atto autolesionistico”. La tesi della giustizia è stata quindi che Mario Bozzoli sia stato assassinato e “iI fatto che il muletto sul quale si trovava la vittima fosse ancora acceso fa propendere per un agguato teso in prossimità del reparto fusione”. Angela Leucci
Il mistero di Fabio Friggi.
Morto a casa dell'amica. "Aveva il cranio spaccato". Il corpo di Fabio Friggi era ai piedi di una scala Macchie di sangue in altre zone dell'abitazione. Diana Alfieri il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.
La sparizione e l'appello social della sorella con tutti i dettagli utili a ritrovarlo («Alto 1,75 Peso: 70/75 kg Rasato con la barba brizzolata incolta, occhi azzurri, occhiali neri. Probabilmente indossa pantaloni bermuda in jeans e canotta nera con righe sui fianchi bianche e rosse o una maglietta nera con fantasia»). E poi il ritrovamento e l'inizio di un giallo.
È stato trovato in casa di un'amica con il cranio fratturato Fabio Friggi. Era scomparso il 17 agosto, ora i carabinieri di Pavia hanno avviato un'indagine sulla morte del quarantaquattrenne, il cui corpo è stato rinvenuto in casa di una ragazza in via delle Orchidee, a Trivolzio (Pavia). Il ritrovamento del cadavere è avvenuto nel pomeriggio di venerdì e a dare l'allarme è stata l'amica. La donna, che lo ospitava e che vive nella casa insieme alla madre, ha riferito di avere trovato l'amico morto al suo risveglio. Il corpo si trovava ai piedi delle scale interne dell'appartamento, motivo per cui si è parlato in un primo momento dell'ipotesi di una caduta.
La sorella di Fabio Friggi ne aveva denunciato la scomparsa su Facebook: in un post aveva spiegato che il fratello si era allontanato da casa il 17 agosto a bordo di una Fiat Panda Bianca verso le 17. L'uomo, residente a Motta Visconti e originario di Casorate Primo, conosceva la ragazza che lo ospitava da molto tempo: in passato la giovane, che ha vent'anni meno di Friggi, avrebbe denunciato l'uomo per molestie sessuali che sarebbero avvenute quando lei era ancora minorenne. Secondo quanto emerso, sarebbero state rinvenute macchie di sangue in altre zone della casa. È stato disposto il sequestro dell'abitazione per consentire altri accertamenti.
Il cadavere del 44enne è stato trasportato all'istituto di medicina legale dell'Università di Pavia: l'autopsia potrà chiarire se le lesioni al cranio siano compatibili con una caduta dalle scale. «Mi dovevo trovare con mio fratello, ci sentivamo tutti i giorni, per questo ho lanciato subito l'allarme per la sua scomparsa»: così Cristina Friggi, sorella di Fabio ha raccontato all'Ansa perché il 17 agosto aveva lanciato un appello sui social per ritrovare l'uomo. Ma ieri Cristina ha dovuto pubblicare un altro tipo di messaggio: «Purtroppo mio fratello è stato ritrovato venerdì senza vita, ringrazio tutti coloro che hanno condiviso». Per il resto, «non so ancora nulla, i carabinieri non mi hanno ancora detto nulla» ha detto ancora Cristina, spiegando di non conoscere l'amica di Trivolzio di cui era ospite il fratello: «Non conosco questa persona, non sapevo che mio fratello avesse un'amica a Trivolzio». Il 44enne era separato da anni dalla moglie e aveva una figlia di 14 anni: «Non sarebbe sparito senza farle sapere nulla» ha concluso Cristina. Poi il ritrovamento di Fabio senza vita e con il cranio fracassato a chiarire l'agghiacciante silenzio.
Il giallo della morte di Patrizia Nettis.
La tragica morte di Patrizia Nettis e il rispetto che ora ci vuole. La notizia della sua morte è stata come un pugno nello stomaco dal quale fatichiamo ancora a riprenderci, con la quale siamo incapaci ancora di fare i conti senza commuoverci: sgomento davanti alla narrazione fiorita attorno alla sua storia. MIMMO MAZZA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2023
L’ultimo messaggio che ho ricevuto da Patrizia Nettis risale al 28 aprile scorso. Mi chiedeva, come tante volte in passato e sempre con il solito modo cordiale ed educato, di dare spazio anche sul sito della Gazzetta ad un comunicato stampa che aveva scritto e inviato per il Comune di Fasano. Due mesi dopo, il 29 giugno, Patrizia è stata trovata priva di vita nella sua casa di Fasano. Da allora ne abbiamo lette e sentite di tutti i colori. Patrizia collaborava da oltre 10 anni con il nostro giornale, era una colonna delle pagine di cronaca e di sport, lei che era una sportiva sin dentro il midollo, un esempio per tanti, uno sprone per molti sempre a disposizione della Gazzetta. La notizia della sua morte è stata come un pugno nello stomaco dal quale fatichiamo ancora a riprenderci, con la quale siamo incapaci ancora di fare i conti senza commuoverci.
Ecco perché non riusciamo più a nascondere lo sgomento, anzi lo sdegno, al cospetto della narrazione fiorita attorno alla morte (e alla vita) di Patrizia. Intendiamoci, non vogliamo – né possiamo – dare lezioni di deontologia o di giornalismo o di rispetto: saranno altre istituzioni – preposte per legge – a stabilire se è giusto e corretto marchiare a fuoco con lo stigma eterno del web il figlioletto della povera Patrizia, che domani o tra dieci anni si imbatterà googlando il nome di sua madre in inaudite infamie; se atti delle indagini preliminari aperte e coordinate dalla Procura di Brindisi possano essere concessi in pasto a un’opinione pubblica spesso impreparata a comprenderli, documenti che nulla aggiungono al nocciolo della questione ma servono solo ad alimentare una morbosa e inutile curiosità sulla vita privata di una donna; se il nome di una persona eccezionale quale Patrizia era, possa continuamente essere infangato senza che lei – purtroppo – possa difendersi.
Difendiamo Patrizia perché era una di noi: si, è vero. Lo facciamo perché il sorriso di Patrizia non merita tutto questo accanimento – proprio nelle giornate contro la violenza alle donne, complimenti! – dalla dubbia utilità ai fini investigativi; lo facciamo perché mai vorremmo che quello che viene fatto a Patrizia, con la scotomizzazione di ogni suo gesto, persino di ogni singolo messaggio scambiato tra chi la frequentava, venisse fatto a noi e a chiunque, anche ai protagonisti dello show delle ultime ore, ai quali non auguriamo di vedere esposte sul palcoscenico mediatico le rispettive vite private e le proprie chat. E perché in fondo è arrivato probabilmente il momento di alzare un argine in grado di separare in maniera visibile l’attività giornalistica dall’intrusione invasiva, illecita, immotivata nella vita privata, anzi privatissima, pur comprendendo la sete di giustizia dei suoi familiari.
Patrizia non era un personaggio pubblico ma una persona come tante altre, piene di vita e con qualche debolezza, esattamente come tutti noi. Vogliamo sapere se la sua morte è stata conseguenza di un reato ma, consapevoli che niente e nessuno ce la restituirà e la restituirà soprattutto a suo figlio e ai suoi genitori, coltiviamo la speranza che nel frattempo cessi lo show e cali il silenzio.
«Se hai bisogno ci sono» mi scriveva spesso Patrizia. Cara Patrizia, ci siamo anche noi.
E’ morta a 41 anni la giornalista pugliese Patrizia Nettis: appassionata di sport, aveva un figlio piccolo. Anna Puricella su La Repubblica il 30 giugno 2023.
Scriveva per la Gazzetta del Mezzogiorno e nella sua carriera era stata addetto stampa del Comune di Alberobello. Più di recente era stata assunta dal Comune di Fasano come specialista della comunicazione istituzionale
È morta all’improvviso, all’età di 41 anni, Patrizia Nettis. Era giornalista professionista, scriveva per la Gazzetta del Mezzogiorno – ma non solo – e nella sua carriera era stata addetto stampa del Comune di Alberobello. Più di recente era stata assunta dal Comune di Fasano come specialista della comunicazione istituzionale, a tempo indeterminato. Nettis era soprattutto esperta e appassionata di sport: non solo ne scriveva con perizia, seguendo personalmente tornei e gare, ma lo praticava pure.
E lo faceva a livello agonistico, come nel caso dell’amatissimo nuoto: sui suoi canali social si fotografava spesso a bordo vasca, negli impianti pugliesi ma non solo, e per un tempo era stata anche istruttrice a Gioia del Colle, sua città d’origine. Il cloro e l’acqua erano la sua seconda casa, lo sfogo costante e il motivo che la portava spesso fuori dalla regione, a gareggiare bracciata dopo bracciata, affrontando il limite in vasca come in mare aperto. “Il nuoto è la cors(i)a che aggiusta sempre la mia vita, anche quando sono distratta”, scriveva in un post di aprile dopo l’ennesimo successo in acqua.
Era un’atleta a tutti gli effetti, Patrizia Nettis, e non solo riguardo al nuoto. Altra sua grande passione era la corsa, partecipava spesso a competizioni in vari comuni pugliesi, ma non solo: era stata diverse volte a Parigi per la maratona, e anche in quel caso l’approccio era stato da autentica sportiva. La medaglia che aveva conquistato nel giorno della sua ultima partecipazione, la scorsa primavera, l’aveva dedicata al figlio Vittorio – “gli avevo garantito che ce l’avrei fatta e non potevo deluderlo”, aveva scritto su Facebook – e sempre il figlio aveva ringraziato quando all’inizio dell’anno aveva ricevuto il premio come miglior giornalista nell’ambito della Festa del volley pugliese: “Non so se sono all’altezza di questo premio – aveva commentato – Non me lo aspettavo, non avrei mai potuto immaginarlo, nemmeno nel più assurdo dei sogni. Sono onorata, sono commossa. Sono innamorata del mio mestiere. E sono fortunata a fare un lavoro che è la mia passione”.
La sua improvvisa scomparsa ha lasciato sgomenti familiari e amici, e anche lettori e sportivi. “Ora corri, nuota, scrivi, sogna e non soffrire più”, il saluto dell’ex sindaco di Giovinazzo Tommaso Depalma. Il Comune di Alberobello, per il quale Nettis aveva lavorato come addetta stampa ai tempi della giunta guidata da Michele Longo, si associa al cordoglio: “Di lei non dimenticheremo la dedizione al lavoro svolto con impegno e intelligenza che ha dato lustro all’immagine di Alberobello – recita il post di Facebook – Il suo ricordo rimarrà indelebile nella nostra comunità addolorata”. In lutto anche la città di Fasano, ultimo luogo di lavoro di Nettis: “L’ufficio stampa e comunicazione, nonché il Comune di Fasano, perde una brillante risorsa, e, ancor prima, una donna di talento e sapere. Giunga alla famiglia Nettis il sentito cordoglio del sindaco, dell’amministrazione comunale e dei colleghi tutti”.
Inchiesta e un indagato per Patrizia Nettis, la giornalista di Gioia del Colle trovata morta a Fasano. Il corpo della collega, che collaborava con la Gazzetta, è stata ritrovato in casa la notte del 29 giugno. Ora il legale della famiglia ha presentato denuncia e la riesumazione della salma per l'autopsia. STEFANIA DE CRISTOFARO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 agosto 2023.
Istigazione al suicidio e stalking: la Procura di Brindisi ha iscritto il nome di un imprenditore sul registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta aperta per fare chiarezza sulla morte di Patrizia Nettis, 41 anni, giornalista professionista che per la Gazzetta del Mezzogiorno scriveva di sport, e che lo scorso mese di maggio si era trasferita a Fasano dopo aver ottenuto un incarico nell’ufficio stampa del Comune, arrivato in seguito al lavoro svolto come responsabile della comunicazione dell’Amministrazione cittadina di Alberobello. A Fasano, in quella che era diventata la sua nuova casa, è stata trovata senza vita il 29 giugno scorso.
L’indagato era stato già sentito in qualità di persona informata sui fatti. L’iscrizione, avvenuta alla fine di luglio, è un atto necessario per procedere allo svolgimento di accertamenti tecnici irripetibili sul telefonino cellulare in uso all’uomo che, stando a quanto emerso dalle indagini affidate ai carabinieri della compagnia di Fasano, sarebbe stato una delle ultime persone ad avere avuto contatti con la giornalista, appassionata di volley e nuoto che aveva praticato a livello agonistico e di cui era istruttrice. Lo scorso gennaio era anche stata premiata dalla federazione regionale di pallavolo come miglior giornalista.
Per i pm titolari del fascicolo, Giovanni Marino e Giuseppe De Nozza, risulta necessario ricostruire i contatti di Patrizia Nettis, riconducibili agli ultimi giorni e alle ore precedenti al ritrovamento del cadavere. Al momento, il telefonino della giornalista, un Iphone 14, non sarebbe “accessibile” per via del sistema di protezione che impedisce la lettura del registro delle chiamate e della messaggistica di WhatsApp.
Se da un lato l’ispezione cadaverica effettuata dal medico legale, nell’immediatezza dei fatti, sembra aver confermato il gesto volontario, dall’altro dalle testimonianze di familiari, amici e conoscenti sarebbe emerso il ritratto di una donna solare e sorridente che mai avrebbe lasciato il figlio di nove anni, oltre che di una professionista stimata.
Il legale della famiglia di Patrizia Nettis, Giuseppe Castellaneta, lo scorso 2 agosto, ha depositato in Procura istanza per chiedere la riesumazione del corpo: «Crediamo che l’autopsia sia un passaggio importante per accertare la verità», spiega il penalista. «Non stiamo cercando un colpevole, vogliamo che sia fatta chiarezza, che sia stabilito con certezza quello che è successo: lo dobbiamo ai genitori e al figlio di Patrizia Nettis», prosegue. «Il fatto che i magistrati brindisini stiano lavorando e abbiamo disposto accertamenti è per noi importante e confidiamo nella giustizia per avere le risposte che ad oggi non abbiamo».
Patrizia Nettis, la giornalista morta suicida? "Chi è indagato": sospetti atroci. Libero Quotidiano l'8 agosto 2023
Aveva lasciato tutti senza parole la morte della giornalista della Gazzetta Del Sud Patrizia Nettis che il 29 giugno scorso si è tolta la vita all'interno del suo appartamento a Fasano, in provincia di Brindisi. Aveva 41 anni, un bimbo piccolo e dopo aver svolto il ruolo di addetta stampa del Comune di Alberobello, dallo scorso maggio era entrata a far parte, sempre con lo stesso ruolo e in modo permanente, della pianta organica dell’ente comunale. Lo scorso gennaio era stata premiata dalla federazione regionale di pallavolo come miglior giornalista. Patrizia non aveva nessun motivo per suicidarsi, ha continuato a sostenere chi la conosceva bene chiedendo la verità.
Oggi è arrivata la svolta: c'è un indagato per istigazione al suicidio. Il suo nome è stato iscritto nel fascicolo dell'inchiesta aperta dalla procura di Brindisi. "L'attività d'indagine difensiva che stiamo svolgendo, ex articolo 190 bis", ha spiegato all'Ansa l'avvocato della famiglia, Giuseppe Castellaneta, "è parallela a quella che sta svolgendo la procura di Brindisi".
"L'obiettivo è il raggiungimento di una verità, perché nessuno di noi, tra familiari, colleghi e amici, crede all'ipotesi del suicidio come magari punto apicale di uno stato depressivo o altro", puntualizza il legale. "Non è assolutamente così, perché tutti sappiamo che Patrizia non aveva alcun motivo per togliersi la vita". "Il motivo", continua l'avvocato Castellaneta, "potrebbe essere riconducibile a cause esterne, e noi vogliamo capire quali sono queste cause esterne. E per farlo" spiega, "riteniamo che sia necessario eseguire l'autopsia". L'autopsia, conclude l'avvocato, "è un'iniziativa doverosa per escludere ogni altra ipotesi diversa da quella attualmente presa in considerazione dalla procura".
Il giallo della morte di Patrizia Nettis, dalla casa di Fasano spariti alcuni oggetti. Cesare Bechis su Il Corriere della Sera l'11 agosto 2023.
Riflettori puntati sullo smartphone della giornalista, trovata senza vita in casa lo scorso 29 giugno. Un imprenditore è indagato per stalking e istigazione al suicidio.
Gli investigatori che indagano sulla morte di Patrizia Nettis, la giornalista trovata impiccata verso le 13 del 29 giugno nella sua casa di Fasano (Brindisi), sono alla ricerca di quanto non è stato trovato nell’appartamento della donna al momento della scoperta del cadavere. Non trapela nulla di più su cosa effettivamente sembri mancare all’appello, ma potrebbe avere un valore ai fini delle indagini dei carabinieri.
Il cellulare, un Iphone 14 trovato connesso con un Apple watch, è all’esame dei tecnici in grado di sbloccarlo in modo da superare le barriere di protezione della casa costruttrice e consentire l’accesso ai contenuti, messaggi, mail, foto e video dai quali ottenere possibili elementi utili alle tracce investigative che i pm della Procura di Brindisi (De Nozza e Marino) e i carabinieri di Fasano stanno ormai seguendo e che hanno dato una svolta a un caso che sembrava chiuso.
Un indagato per stalking e istigazione al suicidio
A fine giugno era stata data per scontata la morte di Patrizia Nettis per un atto volontario e ne era stata disposta la restituzione alla famiglia per la sepoltura, ma la vicenda ha trovato di recente nuovi spunti che hanno indotto la Procura a iscrivere un uomo di Fasano, al quale è stato sequestrato il cellulare, nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio e stalking. Mettere a confronto i suoi contenuti con quelli dell’Iphone della giornalista è determinante ai fini dell’indagine perché la sera precedente la sua morte la donna scambiò una telefonata con qualcuno e i vicini di casa la sentirono urlare con esasperazione «mi hai rovinato la vita». Una frase meritevole di essere interpretata correttamente anche perché qualche ora prima Patrizia Nettis aveva avuto un acceso diverbio in strada con due uomini e uno di questi è proprio l’indagato.
La famiglia, tramite l’avvocato Giuseppe Castellaneta, ha intanto portato avanti un’indagine difensiva, parallela al lavoro della Procura brindisina, ascoltando persone e amici di Patrizia. Hanno chiesto ai magistrati la riesumazione del corpo per poter procedere all’autopsia che, dopo il ritrovamento del cadavere, non fu ritenuta necessaria dal momento che l’apparenza dava indicazioni precise sul suicidio avvenuto tramite un lenzuolo attaccato all’inferriata di un soppalco dell’abitazione di Fasano. L’avvocato Castellaneta ha chiarito il senso dell’iniziativa. Ha detto: «Crediamo che l’autopsia sia un passaggio importante per accertare la verità, non stiamo cercando un colpevole, vogliamo che sia fatta chiarezza, che sia stabilito con certezza quello che è successo: lo dobbiamo ai genitori e al figlio di Patrizia Nettis».
Nessun segnale
La giovane donna, a meno di circostanze ancora non conosciute che hanno generato una situazione insostenibile classificata dagli inquirenti come «atti persecutori e istigazione al suicidio» non aveva mai dato segnali che potessero far pensare alla volontà di porre fine alla propria esistenza. Ipotesi che famiglia, parenti e amici hanno scartato sin dal primo momento. Patrizia era un vulcano di iniziative professionali – a maggio aveva ottenuto l’incarico a tempo indeterminato come ufficio stampa del Comune di Fasano – e sportive. Nuotava, correva, partecipava a maratone, scriveva di sport e aveva vinto il premio della Federvolley come “Miglior giornalista”, stava per intervistare Pippo Inzaghi. Ed era legatissima al figlio di nove anni, che vive con l’ex marito.
Il giallo della morte di Patrizia Nettis, dalla casa di Fasano sparito il pc: indagato un imprenditore. Cesare Bechis su Il Corriere della Sera lunedì 14 agosto 2023.
Gli inquirenti non hanno trovato il computer nell'abitazione della giornalista trovata morta il 29 giugno. La misteriosa lite con due uomini prima della tragedia. La famiglia chiede la riesumazione della salma
Alla ricerca di un computer. Aziendale o personale, è comunque quello che stanno tentando di recuperare gli inquirenti di Brindisi che indagano sulla morte per suicidio, questa la prima ipotesi, di Patrizia Nettis, la giornalista 41enne che si sarebbe impiccata il 29 giugno scorso nella sua abitazione di Fasano, in provincia di Brindisi. Potrebbe essere proprio il computer l’oggetto che non era stato trovato durante la perquisizione effettuata subito dopo il ritrovamento del corpo nell’appartamento in cui la professionista viveva dopo aver assunto due mesi prima l’incarico di addetto stampa del Comune. La professionista scriveva di sport ed era una sportiva praticante. Nuotava e partecipava a maratone, stava preparando un’intervista a Pippo Inzaghi e aveva vinto il premio della Federvolley come «Miglior giornalista». Ha lasciato un figlio di nove anni che vive con l’ex marito.
I pm Giuseppe De Nozza e Giovanni Marino della Procura brindisina attribuiscono grande importanza al recupero del computer. Insieme con l’Iphone 14, ritrovato e connesso all’Apple Watch della donna, ma con l’accesso ancora protetto, il pc potrebbe contribuire al recupero di dati ed elementi utili per ricostruire i rapporti personali e professionali, le ultime chiamate, i contatti, i possibili problemi sul lavoro e nella vita privata della 41enne.
L’assenza del computer dalla scena del presunto suicidio, nell’abitazione, e l’impossibilità di accedere al contenuto dell’iPhone di Patrizia Nettis, non consentono agli inquirenti di confermare alcune piste investigative che stanno seguendo e di escluderne altre, né permettono di dare eventuale consistenza alle voci raccolte dai carabinieri della compagnia di Fasano su una telefonata della tarda serata del 29 giugno durante la quale Patrizia Nettis avrebbe detto a un interlocutore ancora sconosciuto «mi hai rovinato la vita». Inoltre, alcuni testimoni hanno riferito di una lite avvenuta in strada quella sera stessa con due uomini.
Uno di questi, un imprenditore locale al quale è stato sequestrato il cellulare, è stato poi iscritto nel registro degli indagati con la duplice accusa di istigazione al suicidio e atti persecutori. La famiglia della giornalista, che non ha mai ritenuto fondata la tesi del suicidio malgrado le apparenze, ha chiesto alla Procura di Brindisi la riesumazione della salma e l’autopsia. I magistrati dovranno esprimersi. A fine giugno era stata data per scontata la morte di Patrizia Nettis per un atto volontario e era stata disposta subito la restituzione della salma alla famiglia per la sepoltura, ma le indagini hanno poi offerto nuovi spunti investigativi tanto da indagare l’imprenditore.
L’avvocato Giuseppe Castellaneta, che ha portato avanti un’indagine difensiva parallela al lavoro della Procura e che assiste la famiglia di Nettis, ha chiarito il senso dell’iniziativa puntualizzando: «Noi crediamo che l’autopsia sia un passaggio importante per accertare la verità. Non stiamo cercando un colpevole — ha precisato —, vogliamo che sia fatta chiarezza, che sia stabilito con certezza quello che è successo».
Il giallo di Patrizia Nettis, la giornalista morta in casa a Fasano. Il padre: «Maledetti i giorni in cui li ha incontrati». Rosarianna Romano su Il Corriere della Sera mercoledì 16 agosto 2023.
Vito Nettis ricorda quasi ogni giorno la figlia, giornalista trovata morta in casa il 29 giugno, usando un hashtag con quel messaggio. Per la sua morte c’è un indagato per istigazione al suicidio e stalking, il giorno prima di morire la 41enne avrebbe litigato con due uomini.
«Cursed be the days she met them» («Siano maledetti i giorni in cui lei li ha incontrati»). Sono queste sette parole a scandire la pagina Facebook di Vito Nettis, padre di Patrizia, la giornalista trovata senza vita il 29 giugno scorso nel suo appartamento a Fasano (Brindisi). Lui, che, insieme a tutta la famiglia, non ha mai accettato la tesi del suicidio, ogni giorno sul suo profilo social pubblica foto e ricordi di sua figlia. E, nella didascalia di ogni post, invece di altre parole, inserisce l’hashtag #cursedbethedaysshemetthem, forse in riferimento a quanti, prima e dopo l’ultima notte di Patrizia, hanno avuto un peso in questa storia. I familiari, infatti, tramite l’avvocato Giuseppe Castellaneta, hanno avviato indagini difensive parallele al lavoro degli inquirenti, per fare nuova luce sulla morte della giornalista. Un lavoro che ha portato all'iscrizione nel registro degli indagati di un giovane imprenditore di Fasano e alla ricostruzione di quanto successo nelle ore precedenti alla morte di Patrizia: la giornalista, secondo quanto si apprende, avrebbe avuto dei diverbi con due uomini. Il padre, nei due mesi trascorsi senza la figlia, ha cercato di ricordarla attraverso parole, articoli scritti su di lei, foto d’infanzia, frammenti «di una storia il cui racconto non avrà mai fine», come scrive lui stesso.
Il ricordo sui social
Il primo post risale al 30 giugno, il giorno dopo la morte della giornalista. Vito Nettis scrive: «Patrizia mi piace ricordarla così, con questi messaggi che ci siamo scambiati il 31 maggio, in occasione della partecipazione ad un programma televisivo. Buon viaggio figlia mia, perché “la vita non è tolta ma trasformata”». A seguire, tante foto che immortalano stralci di vita di sua figlia. Come uno scatto del 3 luglio che inquadra la pila di libri che lei stava leggendo «nell’appartamento che utilizzava come appoggio a Fasano da poco meno di un anno»: «I libri che ho trovato a casa sua. L’ultimo che aveva completato è quello di Federica Pellegrini», si legge nel post di Vito Nettis. E ancora, suo padre pubblica fotografie che inquadrano Patrizia navigare nel mondo dello sport, la sua passione più grande, dalle tante gare che la vedevano coinvolta in prima persona all’incontro con la stessa campionessa olimpica di nuoto. Oppure, condividendo articoli scritti dalla giornalista, ammette: «A due settimane della sua prematura morte ho trovato questo articolo. Lo avevo quasi dimenticato, perché tenere a mente tutte le sue attività era impossibile».
Lo sport, una delle tante passioni di Patrizia
E, infatti, non era semplice contare le passioni che Patrizia aveva. Suo padre prova a riassumerle, però, attraverso memorie della sua vita con e senza sua figlia, dai momenti trascorsi insieme a quelli dove lei è diventata solo un ricordo. Tra questi c’è un video di un paio di giorni fa, dove, in occasione della gara podistica «U gire de la chiazze» a Gioia del Colle, è stata citata anche la giornalista vicina all’associazione «Gioia Running», promotrice dell’evento. E, anche in questo post, compare l'hashtag #cursedbethedaysshemetthem, senza altre parole. La stessa frase, poi, appare anche in calce a tante altre foto, nelle quali Patrizia ha sempre il sorriso. Vito Nettis diffonde quello che può delle pagine della vita di sua figlia, recuperando anche scatti e pensieri che la giornalista stessa condivideva su Facebook. Come un post di maggio, dove – neanche un mese prima di morire - scriveva soddisfatta: «È questa la vita che sognavo da bambino. Benvenuto maggio, quest’anno ancora di più. Qui ci sono io, dove ho sempre sognato di essere».
S’indaga per istigazione al suicidio. Sfilata di testimoni. Al vaglio dei pm la posizione di un imprenditore (accusato pure di stalking). ISABELLA MASELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Agosto 2023
Cinquanta giorni senza Patrizia Nettis. Cinquanta giorni nei quali, oltre al dolore straziante di amici e famigliari che non trovano ragioni, va avanti senza sosta il lavoro di chi sta cercando di dare a quel dolore una risposta. Di rimettere in fila i pezzi di un puzzle che potrebbe raccontare quello che è accaduto nelle ore immediatamente precedenti alla sua morte.
Patrizia Nettis, 41 anni, giornalista di Gioia del Colle, storica collaboratrice della Gazzetta del Mezzogiorno, ex responsabile della comunicazione del Comune di Alberobello e da maggio nell’ufficio stampa del Comune di Fasano, appassionata di volley e nuoto che aveva praticato a livello agonistico e di cui era istruttrice, premiata qualche mese fa dalla federazione regionale di pallavolo anche come miglior giornalista, è stata trovata senza vita nella sua casa di Fasano il 29 giugno.
Un gesto volontario l’ipotesi subito fatta da carabinieri e magistrati. Ma i dubbi su cosa abbia spinto una donna così solare, una sportiva campionessa di gare e di penna, a farla finita in quel modo, hanno convinto la Procura a non chiudere il caso. Istigazione al suicidio e stalking sono i reati che i pm di Brindisi Giovanni Marino e Giuseppe De Nozza ipotizzano nel fascicolo aperto a carico di un uomo, un imprenditore, per comprendere se la morte della giornalista barese sia stata indotta da qualcosa o qualcuno.
E per rispondere a questo quesito il primo atto disposto dai magistrati è stato una consulenza tecnica sul cellulare dell’unico indagato, una delle ultime persone ad aver parlato con Patrizia la sera prima del decesso, che sarebbe stata vista e sentita discutere con due uomini proprio la sera prima di morire.
Il consulente nominato dai pm è al lavoro, ormai da circa un mese, per estrapolare dal cellulare dell’uomo ogni elemento utile a ricostruire quelle ultime ore ma anche ciò che potrebbe essere accaduto nei giorni e nelle settimane precedenti. Dai tabulati, dalle chat, dalla mail che i due potrebbero essersi scambiati, la Procura spera di capire se ci siano eventuali responsabilità responsabilità di terzi sulla morte della donna.
L’indagato, assistito dall’avvocato Marcello Zizzi, era stato già sentito in qualità di persona informata sui fatti, fornendo il suo racconto di quella notte, prima che la Procura gli notificasse l’avviso di garanzia e disponesse la copia forense del suo telefono per gli accertamenti tecnici.
Più difficile sarà estrapolare i dati dal telefono della vittima, pure sequestrato dall’autorità giudiziaria, perché non sarebbe «accessibile» per via del sistema di protezione che impedisce la lettura del registro delle chiamate e della messaggistica di WhatsApp. E poi c’è il giallo del computer portatile della professionista. Il pc non sarebbe stato trovato a casa e neppure nel suo ufficio.
Dal giorno della morte, inoltre, i carabinieri stanno sentendo decine di persone, amici, famigliari, conoscenti e vicini di casa per raccogliere spunti. E forse proprio i racconti di alcuni di loro potrebbero aver dato impulso all’apertura di un fascicolo d’inchiesta.
Per la famiglia di Patrizia Nettis, l’ex marito e i genitori, tutto questo non basta. Chiedono di conoscere la verità su quello che è successo. L’avvocato che li assiste, Giuseppe Castellaneta, ha depositato in Procura una istanza per l’esumazione del corpo, ritenendo che l’autopsia - che dopo l’esame cadaverico esterno i pm hanno ritenuto di non disporre - potrebbe fornire ulteriori decisivi elementi utili alle indagini. Una sollecitazione alla quale i magistrati non hanno ancora risposto.
Fasano, morte giornalista Patrizia Nettis: ritrovato il pc, era nel suo ufficio. Nei prossimi giorni il consulente tecnico passerà al setaccio il cellulare (un iPhone 14), l’Apple Watch e il telefono dell’unico indagato (si tratta di un imprenditore fasanese). MIMMO MONGELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Settembre 2023
Il giallo del computer di Patrizia Nettis, la giornalista trovata morta il 29 giugno nella sua abitazione nel centro storico di Fasano, si dirada come nebbia al sole: il portatile non si era mai mosso da dove era stato lasciato, in Municipio, sepolto da a una montagna di libri in un ufficio de Comune. È stato trovato, casualmente, l’altro giorno da uno degli addetti alla comunicazione istituzionale di Palazzo di città, che lo ha consegnato ai carabinieri.
Si tratta di una MacBook Air che era stato acquistato dal Comune di Fasano nel momento in cui Patrizia Nettis, collaboratrice della «Gazzetta» e grande sportiva, era stata assunta dall’ente. Quel computer era stato dato per scomparso, tant’è che nei giorni seguenti la tragica fine della professionista un dirigente comunale aveva sporto denuncia di smarrimento.
Il fatto che non si trovasse il computer, strumento di lavoro quotidiano ed irrinunciabile per ogni giornalista, ha contributo per settimane ad alimentare una serie di sospetti. Il MacBook invece non si era mai mosso dal posto in cui Patrizia Nettis era solita riporlo a conclusione della sua giornata lavorativa. Solo che, trattandosi di un posto noto solo a lei, a nessuno era venuto in mente di andare a cercare il Mac sotto quel cumulo di materiale di nessun interesse stipato nel cassetto di una delle scrivanie dell’ufficio, al primo piano della Casa comunale, in cui lavorava la giornalista. La stanza non è accessibile a tutti, e la porta di ingresso è dotata di una serratura.
Nei prossimi giorni l’ingegner Sergio Civino, il consulente tecnico a cui i pm di Brindisi titolari dell’indagine hanno dato incarico di passare ai raggi X il cellulare (un iPhone 14) e l’Apple Watch di Patrizia Nettis e il telefono dell’unico indagato (si tratta di un imprenditore fasanese), dovrebbe depositare la sua relazione. I pm titolari dell’inchiesta - il fascicolo è stato aperto d’ufficio per istigazione al suicidio e stalking a seguito degli accertamenti svolti dai carabinieri nell’immediatezza del ritrovamento del corpo - hanno chiesto al perito di provare a recuperare, ammesso che l’operazione sia tecnicamente possibile, il registro delle chiamate effettuate dalla giornalista e dall’imprenditore indagato e la cronologia delle chat e delle conversazioni WhatApp.
Patrizia Nettis, la giornalista trovata morta a Fasano. Spunta una chat tra due uomini: «Avrà una punizione esemplare». Rosarianna Romano sul Il Corriere della Sera sabato 25 novembre 2023.
La trasmissione televisiva Quarto Grado, in onda su Rete 4 ha reso note le chat tra un imprenditore, già indagato e un politico
L’imprenditore: «Che schifo! Ma non la passa liscia. Questa volta non esiste. Ha scherzato col fuoco una, anzi due volte». Il politico: «Comunque malata». È lo scambio dei messaggi tra i due uomini coinvolti nel giallo irrisolto di Patrizia Nettis, giornalista 41enne trovata senza vita il 29 giugno nella sua abitazione di Fasano (Brindisi). Dei due, soltanto l’imprenditore è indagato per stalking e istigazione al suicidio. A rendere note le chat è stata la trasmissione televisiva Quarto Grado, in onda su Rete 4, proprio alla vigilia del 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
La discussione di Patrizia con due uomini
La notte del 29 giugno Patrizia aveva discusso con i due uomini nei pressi della sua abitazione a Fasano. E, sul caso, emergono altre voci. A parlare è un testimone che, il giorno successivo, ha sentito la versione dell’imprenditore: «Insospettito dal fatto che lei quella sera non avesse inviato messaggi, che non si fosse fatta sentire, l'imprenditore si reca sotto casa di Patrizia – racconta -. Vede uscire dal portone il politico. In quel momento, dapprima si nasconde in auto, poi, con una presa di coraggio, decide di avvicinarsi al politico, facendo presente che anche lui ha una storia con Patrizia. Poi la giornalista esce e c’è un confronto a tre. L’imprenditore ammette di aver alzato i toni e di accompagnare Patrizia sotto casa, per poi andarsene. Il politico, invece, va via prima». Sulle relazioni di Patrizia parla anche un’altra amica: «Con l’imprenditore si sono frequentati un mesetto nell’estate del 2022, perché aveva litigato con il politico, decidendo di allontanarlo definitivamente. Poi il politico è tornato, implorando Patrizia di ricominciare la loro storia, non da fuggiaschi», spiega.
L'analisi della chat
Dalle chat esaminate emerge, inoltre, che l’imprenditore e il politico non solo si conoscevano, ma hanno avuto anche uno scambio di messaggi nella notte del 29 giugno. A iniziare la chat è l’imprenditore: «Solo per dirti che lei garantiva che di te non ne voleva sapere nulla», dice al politico. E ancora: «Questa cosa la pagherà cara. Oggi pomeriggio era con me e siamo rimasti soli… Stasera prima di vedervi era al cellulare con me e probabilmente così tutte le sere». E il politico risponde: «Una pazza praticamente». L’imprenditore: «Pazza? L’aggettivo è poco appropriato». E ancora: «Io non so ma a questo punto questa cosa (non si può definire una donna) è da rinchiudere. Hai sbagliato a farla assumere… Ti sei esposto a critiche non indifferenti per una cosa come lei. Magari non sarà neanche riconoscente». E il politico conferma: «Questo è certo». I due uomini hanno parlato ininterrottamente per più di due ore quella notte, dall’1.15 alle 3.34, con circa 400 messaggi.
Infine, l’imprenditore scrive: «Ora ha finito di campare». E aggiunge: «Lei non mi conosce bene. Lei non sa che io sono il più buono sulla faccia della terra, ma il mio lato oscuro non lo conosce. Mi dispiace, ma succederà un casino. Forse le conviene non venire più a Fasano. Non la passerà liscia. Farò di tutto per infangarla e so già come muovermi. Io non sono un tipo vendicativo, anzi. Ma stavolta avrà una punizione esemplare».
Estratto da ilfattoquotidiano.it domenica 26 novembre 2023.
Il giallo irrisolto della morte di Patrizia Nettis, la giornalista 41enne trovata senza vita nella sua abitazione di Fasano (Brindisi) il 29 giugno, si arricchisce di nuovi dettagli svelati da alcune chat tra un imprenditore – attualmente indagato per stalking e istigazione al suicidio – e un politico coinvolti nel caso.
Le chat sono state analizzate e pubblicate dalla trasmissione televisiva Quarto Grado: rivelano uno scambio intenso di messaggi tra i due uomini nella notte del 29 giugno: proprio quella notte, la vittima, Patrizia, aveva discusso con loro nei pressi della sua abitazione a Fasano, secondo un testimone per questioni sentimentali.
L’imprenditore e il politico si sono scambiati oltre 400 messaggi in più di due ore: è proprio il primo ad iniziare la conversazione informando il politico che Nettis non voleva avere nulla a che fare con lui. La tensione sale quando l’imprenditore avverte: “Questa cosa la pagherà cara… Farò di tutto per infangarla e so già come muovermi. Io non sono un tipo vendicativo, anzi. Ma stavolta avrà una punizione esemplare“.
E ancora, l’uomo esprime chiaramente la sua indignazione riguardo alla situazione: “Che schifo! Ma non la passa liscia. Questa volta non esiste. Ha scherzato col fuoco una, anzi due volte”.
[...] Il politico, invece, giudica la situazione con la concisa etichetta di “comunque malata”. Infine, l’imprenditore conclude in modo sinistro: “Ora ha finito di campare. Lei non sa che io sono il più buono sulla faccia della terra, ma il mio lato oscuro non lo conosce. Farò di tutto per infangarla e so già come muovermi. Io non sono un tipo vendicativo, anzi. Ma stavolta avrà una punizione esemplare”.
Non solo, sempre a Quarto Grado, un testimone […] rivela ulteriori dettagli: “Insospettito dal fatto che lei quella sera (del 29 giugno, ndr) non avesse inviato messaggi, che non si fosse fatta sentire, l’imprenditore si reca sotto casa di Patrizia… Vede uscire dal portone il politico. In quel momento, dapprima si nasconde in auto, poi, con una presa di coraggio, decide di avvicinarsi al politico, facendo presente che anche lui ha una storia con Patrizia.
Poi la giornalista esce e c’è un confronto a tre. L’imprenditore ammette di aver alzato i toni e di accompagnare Patrizia sotto casa, per poi andarsene. Il politico, invece, va via prima”. […]
Patrizia Nettis, la giornalista trovata impiccata: la chat, le minacce, la lite. L'avvocato della famiglia: «Forte intervento esterno sulla tragedia». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera giovedì 30 novembre 2023.
I messaggi tra un imprenditore e un politico, le mail, la lite per strada. Tutti i punti oscuri sulla morte della giornalista a Fasano. A breve la perizia sul computer
Cinque mesi dopo, la svolta potrebbe arrivare dall’analisi del pc. Mail, video, messaggi inviati e ricevuti (per motivi professionali e non) da Patrizia Nettis, la giornalista di Gioia del Colle trovata impiccata il 29 giugno scorso nella sua abitazione di Fasano, in provincia di Brindisi. La relazione sul computer è attesa a breve in Procura e potrebbe anche indirezzare le indagini su altri scenari rispetto a quello del suicidio mai condivisa dai genitori della giovane donna e dal legale che li assiste.
I dubbi sul suicidio
«Io e i genitori di Patrizia – dice l’avvocato Giuseppe Castellaneta - siamo sempre più convinti, anche alla luce delle chat telefoniche tra i due uomini, che Patrizia non possa essersi suicidata senza un forte intervento esterno. Per questo motivo attendiamo la copia forense della relazione sui contenuti del pc e riteniamo che solo l'autopsia sarà in grado di dare risposta ai nostri dubbi sulla morte di Patrizia». Non credono al suicidio perché Patrizia era da poco stata assunta dal Comune di Fasano come addetta stampa, era una madre che stravedeva per il figlio di nove anni, era una sportiva praticante, nuotava e correva le maratone e per il giorno dopo stava preparando un’intervista a Pippo Inzaghi. L’avvocato finora ha depositato, senza ricevere riscontri, tre istanze di riesumazione della salma per procedere all’esame autoptico ed è pronto a presentare la quarta.
L'imprenditore e il politico
Il 29 giugno Patrizia Nettis aveva ancora poco da vivere quando gridò: «Mi hai rovinato la vita». A chi si riferiva? Aveva appena lasciato i due uomini con i quali, la sera precedente, aveva avuto un serrato confronto in strada, nelle vicinanze della sua abitazione di via Madonna della Stella. Con entrambi, in periodi diversi, era nata una relazione. Quella stessa notte i due contendenti, pur non avendo mai avuto contatti diretti ma solo una conoscenza indiretta come può capitare in città di 30 mila abitanti, si sono scambiati 400 messaggi in un paio d’ore. Una chat, con molti tratti di violenza verbale verso la donna, che li accomuna trasformandoli da rivali a soci. Uno è il titolare di un impianto sportivo, unico iscritto nel registro degli indagati per istigazione al suicidio e atti persecutori; l’altro è un personaggio politico notissimo, impegnato nell’amministrazione cittadina, ascoltato dagli inquirenti solo all’inizio della vicenda. L’indagato, finora, non è mai stato interrogato dai magistrati della Procura di Brindisi.
La chat e lo sdegno del padre
Vito Nettis, il papà di Patrizia, ha commentato duramente la chat: «Sono rimasto disgustato – ha detto - dal contenuto sessista zeppo di parole poco degne per l’essere umano che le ha scritte, indicato come imprenditore». I contenuti del telefono dell’indagato hanno srotolato parole e fatti che forniscono un quadro più preciso sui rapporti tra i due uomini con Patrizia e la considerazione che ne avevano esplicitata da termini come “cosa” e “pazza”. L’imprenditore arriva addirittura ai toni minacciosi: «Ora ha finito di campare – scrive al politico - lei non mi conosce bene. Lei non sa che io sono il più buono sulla faccia della terra, ma il mio lato oscuro non lo conosce. Mi dispiace, ma succederà un casino. Forse le conviene non venire più a Fasano. Avrà una punizione esemplare».
Estratto dell’articolo di Chiara Spagnolo per “la Repubblica” giovedì 30 novembre 2023.
«Le chat tra i due uomini sono agghiaccianti, sembra che due rivali si fossero trasformati in complici»: nel commento di un amico d’infanzia di Patrizia Nettis c’è un sentimento comune a chi conosceva la giornalista pugliese 41enne, trovata morta il 29 giugno scorso nella sua casa di Fasano.
Ma anche il filo rosso di un’indagine che mira a chiarire se per quel decesso ci siano responsabili. Se Patrizia sia stata “istigata” al suicidio, come si dice in gergo giudiziario in riferimento a uno dei reati più difficili da dimostrare.
O se abbia deciso da sola di togliersi la vita, impiccandosi con un lenzuolo […]. Nel nido che si era scelta a pochi metri dal Comune, dove era stata assunta da qualche mese come responsabile ufficio stampa.
In via Madonna della Stella la sera del 28 giugno ci sarebbe stato un chiarimento tra lei e i due uomini con cui, in momenti diversi, aveva avuto una relazione: prima un noto politico locale, poi un imprenditore.
Tutto dopo la fine del matrimonio con un concittadino di Gioia del Colle, dal quale Patrizia ha avuto un figlio che oggi ha nove anni e vive con i nonni paterni. Se quell’ultimo incontro a tre sia stato talmente violento da spingere Patrizia al suicidio è presto per dirlo. Di certo c’è che quella sera i due uomini […] sono andati via e si sono scambiati dei messaggi ora all’attenzione della Procura di Brindisi.
Le frasi tra i due sono forti, soprattutto le parole dell’imprenditore, che chiama Patrizia «cosa», perché «non merita di essere definita donna», probabilmente dopo aver capito che era ancora legata sentimentalmente all’altro. E promette vendetta: «Farò di tutto per infangarla, so già come muovermi, stavolta avrà una punizione esemplare. Questa è pericolosa, io farò in modo di farle attorno terra bruciata, tanto per iniziare».
Proprio questa chat […] dimostrerebbe che «nelle ore antecedenti al fatto è avvenuto qualcosa di molto violento dal punto di vista psicologico». Il punto ora è capire se quel “qualcosa” abbia influito sulla scelta di Patrizia di togliersi la vita, «ammesso che di suicidio si tratti […]».
Dopo l’incontro chiarificatore, ci sono state almeno tre telefonate con il politico, qualcuna con l’imprenditore, molte senza risposta. Un testimone ha parlato di una voce maschile proveniente dalla casa della giornalista che diceva: «Basta con queste sceneggiate ». Poi il rumore di un portone sbattuto, quindi il vuoto, fino al pomeriggio del 29, quando un amico preoccupato si è fatto aprire la porta dalla colf e la giornalista è stata trovata morta.
[…] il padre di Patrizia, Vito Nettis […],fin dall’inizio ha chiesto indagini più approfondite […], puntando il dito contro il politico, e che ancora oggi dice: «La conoscenza di relazioni sentimentali della vittima non ne scalfisce il ricordo, in quanto è nel pieno diritto di una donna separata, mentre potrebbe disturbare molto le persone vive, soprattutto quelle sposate, eventualmente coinvolte nella vicenda... E forse il vero problema è proprio questo!».
Ovvero, a suo dire, il fatto che uno degli uomini legati a sua figlia sia una figura molto in vista in paese. L’uomo è stato sentito dagli investigatori subito dopo la morte di Patrizia, ma non è indagato. Di lui la giornalista era innamorata, raccontano gli amici di Gioia del Colle. […]
Patrizia Nettis, la giornalista trovata impiccata. Nelle chat tra due uomini: «Non è una donna, non è una mamma, non è nulla». Rosarianna Romano su Il Corriere della Sera sabato 2 dicembre 2023.
Emergono nuovi retroscena nell'indagine sulla morte della 41enne. Un imprenditore e un politico ai quali era stata (in momenti diversi) sentimentalmente legata nella chat la definiscono «pericolosa» e «malata»
«Al lavoro non verrà, si metterà in malattia. Poi studierà un piano… poi e poi e poi. Non so con che faccia si presenterà. Ma domani non verrà».
A scrivere questo messaggio durante la notte del 29 giugno è uno dei due uomini coinvolti nel giallo di Patrizia Nettis, la giornalista 41enne originaria di Gioia del Colle (Bari), trovata il giorno successivo impiccata nella sua abitazione di Fasano (Brindisi), città dove era stata da poco assunta come addetta stampa del Comune. La sera stessa della sua morte, infatti, la professionista aveva avuto una discussione in via Madonna della Stella, a Fasano, con due uomini a cui era stata sentimentalmente legata in due momenti diversi: un noto politico locale e un imprenditore, attualmente l’unico indagato per istigazione al suicidio e atti persecutori. E, dall’esame del telefono di quest’ultimo, spuntano altri messaggi tra i due uomini. I quali, la notte stessa della morte di Patrizia, se ne sono scambiati più di 400.
Le chat tra i due uomini
«Che situazione imbarazzante. A parlare con te alle 3 di notte. Di una “cosa”, di una femmina che non so come descrivere. Non è una donna, non è una mamma, non è nulla», scrive l’imprenditore al politico. E, come ricostruito dal servizio mandato in onda ieri 1 dicembre nella trasmissione “Quarto Grado”, entrambi, poi, si chiedono cosa sarebbe successo il giorno successivo: «Voglio vedere domattina al lavoro», scrive il politico, probabilmente riferendosi all’occupazione di Patrizia come addetta stampa del Comune.
Ma il giorno dopo la giornalista a lavoro non è andata: la mattina il suo ex marito e i suoi genitori l’hanno ritrovata senza vita. Il caso si è chiuso per ora come suicidio. Anche se la famiglia non ha mai creduto a questa ipotesi.
Patrizia nei messaggi viene definita una «cosa» da «rinchiudere», una «maligna malefica» che «non lavava» e «non cucinava», una «poco di buono»: l’imprenditore la chiama «pericolosa» e il politico «malata» ed «egocentrica». «Sono dialoghi schifosi, estremamente sessisti, maschilisti, non degni di esseri umani», ha commentato Rosanna Angelillo, mamma di Patrizia.
L'appostamento dell'imprenditore sotto casa di Patrizia
Secondo la ricostruzione di Quarto Grado, l’imprenditore si era appostato sotto casa della 41enne. E poi, dopo aver visto uscire dall’appartamento della giornalista il politico, avrebbe affrontato la discussione con entrambi. «Secondo lei dovevo credere che stasera alle 11 il marito veniva con il figlio! Cretina», scrive l’indagato all’altro uomo. E ancora: «Che figura che le ho fatto fare… spero che le servirà. Non la passerà liscia. Farò di tutto per infangarla. E so già come muovermi. Io farò in modo di farle terra bruciata. Tanto per iniziare. Poi ti dico il resto».
Intanto, slitta il deposito alla Procura di Brindisi della relazione sul contenuto del computer portatile della giornalista, dal quale potrebbero emergere ulteriori elementi utili a fare luce su questo giallo.
La vicenda di Gianmarco “Gimmy” Pozzi.
La ragazza e la carriola: svolta nel delitto di Ponza. Rita Cavallaro su L'Identità il 2 Agosto 2023
Una ragazza e una carriola. Sono questi i due elementi che segnano la svolta nel giallo di Ponza, dove il 9 agosto 2020 fu trovato morto in circostanze misteriose l’ex campione mondiale di kick boxing Gianmarco “Gimmy” Pozzi. Un incidente, fu questa la prima pista seguita dagli investigatori, che inizialmente credevano che il ragazzo fosse precipitato accidentalmente da un’altezza di tre metri in un’intercapedine in zona Santa Maria tra un muro di un campo incolto e un’abitazione, di notte e in preda alle allucinazioni da cocaina. Un’ipotesi alla quale la famiglia non ha mai creduto, perché Gimmy aveva segni evidenti di un violento pestaggio.
Grazie alle indagini difensive dell’avvocato Fabrizio Gallo e alla tenacia dei familiari di Gianmarco, man mano quella pista è stata smontata pezzo pezzo, manifestandosi per ciò che davvero il caso è: un omicidio volontario, costellato da depistaggi e maturato in un ambiente omertoso che ha creato una cortina fumogena per nascondere i traffici di droga sull’isola. Nonostante i tentativi di celare la verità, i riflettori sulla terribile fine dell’ex campione non si sono spenti, spingendo alcuni testimoni a farsi avanti. Tra questi alcuni amici di Gianmarco, che avevano bollato come false le voci che il buttafuori, la sera della morte, fosse in preda ai deliri della droga. Poi il racconto del proprietario della casa nella cui intercapedine è stato trovato il cadavere, che giura di aver sentito un tonfo sordo compatibile con la caduta di un corpo già morto, visto che non ha udito alcun urlo o lamento. E ancora la rivelazione di una super testimone, sulla cui identità c’è il massimo riserbo, che aveva raccontato ai familiari della vittima di aver visto, nella notte tra l’8 e il 9 agosto 2020, alcune persone spingere una carriola ammantata da un telo nero, dalla quale spuntavano delle gambe, probabilmente proprio quelle di Gimmy.
La donna, che ha garantito di aver riconosciuto una delle persone che trasportavano il cadavere nella carriola, non ha mai voluto mettere a verbale la sua dichiarazione, perché ha paura per se stessa e per i suoi figli. Un racconto, questo, dai contorni inquietanti che, però, sembrava quasi privo di elementi fino a pochi giorni fa, quando davvero quel campo incolto, dopo tre anni dal delitto, ha riportato alla luce la carriola indicata dalla teste. A trovare il macabro “mezzo di trasporto” è stato Paolo Pozzi, il papà di Gimmy, che ogni anno, in occasione della festa di San Pietro e Paolo del 29 giugno, fa una sorta di pellegrinaggio verso il luogo in cui è stato gettato il corpo di suo figlio. Il genitore, dopo aver deposto i fiori sul muretto dell’intercapedine, aveva deciso di fare una passeggiata, scendendo in un punto del campo dove né lui né gli inquirenti erano mai passati. E lì, casualmente, ha notato qualcosa che lo ha fatto trasalire: da alcune sterpaglie spuntava il manico di una carriola, che Paolo Pozzi ha subito ricollegato all’incredibile storia raccontata dalla super testimone.
Quella carriola si trovava a soli 128 metri dal punto dove Gimmy era stato scaricato. Così, dietro consiglio dell’avvocato Gallo, ha chiamato subito la Guardia di Finanza di Ponza, che ha sequestrato l’attrezzo e un sacco nero contenuto al suo interno. Una svolta che, forse, ha spinto qualcuno ad un passo falso e ha dato nuova linfa alle indagini. Perché appena nell’isola si è sparsa la notizia del sequestro della carriola, inviata ai carabinieri del Ris per le analisi scientifiche e l’isolamento del dna dei presunti responsabili della morte di Gimmy, in caserma è arrivata una strana telefonata. Mentre Paolo Pozzi si trovava dalla Finanza per il verbale del sequestro, una ragazza ha chiamato gli inquirenti per puntualizzare alcune circostanze che hanno destato sospetti. “La carriola l’ha usata mio padre, ma non è di mio padre”, ha giurato la giovane, la cui identità al momento non è stata resa nota. Non sarebbe però una ragazza qualunque, ma un profilo rilevante per gli inquirenti, collegato terribilmente al caso Pozzi. Si tratta, infatti, della figlia della signora che, la mattina del 9 agosto 2020, ha pulito la casa in cui Gimmy abitava insieme ad altri tre coinquilini. Un appartamento vissuto da quattro uomini che lavoravano la sera nei locali della movida, trovato immacolato e tirato a lucido quando i carabinieri entrarono per i rilievi.
Quel filo rosso tra la madre che aveva effettuato le pulizie a casa della vittima e il padre che aveva usato la carriola ha fatto sobbalzare gli investigatori, che hanno interrogato la ragazza e convocato altre persone in caserma in questi giorni, in attesa delle risultanze scientifiche sulla carriola e sul telo nero, su cui sarebbero state isolate alcune tracce, che potrebbero dimostrare non solo la tesi sempre sostenuta dalla famiglia Pozzi, ovvero che Gimmy è stato massacrato di botte e trasportato attraverso quel campo per essere gettato già morto o in fin di vita nell’intercapedine. Ma potrebbero perfino collegare i nomi delle persone che hanno aiutato gli assassini a disfarsi del corpo e a mettere in scena la storia della caduta accidentale dal muretto di tre metri. Una versione che avrebbe potuto reggere, complice il fatto che sul cadavere della vittima non fu fatta l’autopsia e che il corpo venne cremato, se non fosse per la perizia effettuata dal professor Vittorio Fineschi, ordinario di Medicina legale all’Università Sapienza di Roma e direttore dell’obitorio comunale della Capitale. Il consulente della famiglia Pozzi, sulla base di tutta la documentazione del caso, ha infatti certificato che Gimmy è stato ucciso.
La vicenda di Elisa Claps.
Danilo Restivo, oggi: dove si trova, i casi di Elisa Claps e Heather Barnett e le prove che lo hanno incastrato. Marco Bruna su Il Corriere della Sera lunedì 13 novembre 2023.
Restivo «rimarrà in prigione per sempre»: è stato condannato all’ergastolo in Inghilterra per l’omicidio Barnett. Le sentenze e le prove che lo hanno incastrato
«Lei rimarrà in prigione per sempre», disse il giudice Ian Burnett rivolto a Danilo Restivo il 30 giugno 2011. Ci mise cinque ore la giuria del tribunale inglese di Winchester a condannare Restivo all’ergastolo per l’omicidio della sarta Heather Barnett, avvenuto quasi dieci anni prima, il 12 novembre 2002.
Oggi Restivo sta scontando la condanna proprio in un penitenziario in Inghilterra.
Le motivazioni della sentenza puntarono sull’efferatezza del crimine, sul fatto che l’assassino avesse dimostrato una depravazione senza limiti, che l’omicidio fosse «pianificato e preparato». Il giudice lesse la sentenza specificando che non esistevano attenuanti nel caso di Restivo, perché il crimine era appunto di una «depravazione inumana»: «La gravità di questo reato è eccezionalmente elevata. L’attenta pianificazione e preparazione, il movente sessuale e il precedente omicidio di Elisa Claps mi spingono alla conclusione che il termine minimo di 30 anni di reclusione non sarebbe appropriato. Lei rimarrà in prigione per sempre».
La depravazione consisteva anche nel fatto che nella testa del killer c’era la consapevolezza che uno dei due figli della vittima - all’epoca i bambini di Heather Barnett, un maschio e una femmina, avevano 11 e 14 anni - avrebbe trovato la madre in un lago di sangue. Restivo calcolò tutto, il suo profilo combaciava con quello di un killer seriale. Andò proprio così. La bimba, Caitlin, aprì la porta del bagno e trovò la mamma riversa a terra. Era una scena orribile.
«Questa storia comincia nel 1993 in una regione dimenticata d’Italia, chiamata Basilicata», scrisse il Guardian alla fine di giugno del 2011. « È una regione che si estende dall’arco al metatarso dello stivale italiano. Quasi interamente montuosa, con strade dissestate e senza turismo, sembra una terra dimenticata dal tempo. È così remoto che è qui che Mussolini scelse di mandare i nemici del suo regime, come Carlo Levi o il mafioso Calogero Vizzini; è qui che negli anni ‘70 fu tenuto prigioniero John Paul Getty III».
Quattro giorni dopo l’omicidio la polizia fece visita a Restivo e gli chiese quali scarpe indossasse il giorno in cui Barnett venne uccisa. L’uomo mostrò un paio di calzature da ginnastica. Erano nella vasca da bagno e puzzavano di candeggina. L’odore era fortissimo. La spiegazione di Restivo - «erano talmente sporche che avevano bisogno di una pulita a fondo» - non convinse gli agenti: le scarpe diventarono così un elemento per le indagini.
Heather Barnett venne picchiata a morte con un oggetto simile a un martello e trascinata nel suo bagno. Restivo le tagliò la gola, le recise i seni. Nella mano destra della donna venne trovata una ciocca di capelli di un’altra donna, nella sinistra una ciocca dei suoi. Era un dettaglio cruciale. Per Restivo i capelli rappresentavano una sorta di feticcio. Amava collezionare ciocche di capelli di giovani donne, abitudine che aveva quando ancora viveva in Italia.
Il trasferimento in Inghilterra
Danilo Restivo si trasferì in Inghilterra, a Bournemouth, nel maggio 2002, per convivere con una donna conosciuta su internet, Fiamma Marsango, 15 anni più vecchia di lui. Si trasferirono proprio di fronte alla casa di Heather Barnett. Se ne andava dall’Italia nel mezzo di una miriade di sospetti che lo vedevamo al centro dell’omicidio di Elisa Claps, la sedicenne scomparsa trent’anni fa a Potenza, il 12 settembre 1993.
Il corpo di Claps venne trovato quasi per caso il 17 marzo 2010 nell’abbaino della chiesa della Santissima Trinità, l’ultimo posto dove venne vista la ragazza. A scoprire il corpo mummificato, ricoperto da tegole e calcinacci, furono alcuni operai chiamati a riparare una perdita d’acqua.
Come ha scritto nella ricostruzione Carlo Macrì sul Corriere, i magistrati e le indagini scientifiche hanno stabilito che Restivo, la mattina di domenica 12 settembre 1993, giorno della scomparsa di Elisa, le aveva dato appuntamento dentro la chiesa della Trinità (era in possesso delle chiavi), nel tentativo di «ottenere un approccio sessuale». Voleva farle un regalo e farsi presentare un’altra ragazza, Paola, amica di Elisa. Erano le 11.30 e don Mimì Sabia, parroco della Trinità per 48 anni, diceva Messa.
Il Dna sul golfino di Elisa Claps
Il 28 maggio 2010 i risultati dell’autopsia sui resti del corpo di Elisa Claps erano ancora secretati ma gli inquirenti comunicarono che sul suo corpo vennero inferti 13 colpi con «un’arma da taglio e a punta». In alcun parti, i suoi capelli apparivano tagliati di netto, come se fosse stata usata una forbice. Restivo rimase ferito a una mano nella colluttazione e si giustificò con la polizia dicendo di essersela procurata nel tentativo di entrare in un cantiere.
La prova schiacciante era il golfino che Elisa Claps indossava la mattina del 12 settembre 1993. Era ormai uno straccio, pieno di polvere, ma risultò cruciale in questa storia. I carabinieri del Ris estrassero un campione del Dna da una macchia di sangue trovata sul golfino che risultò sovrapponibile con quello di Restivo. Non c’erano più dubbi.
Le condanne in Italia
L’8 novembre 2011, nel Tribunale di Salerno, comincia il processo di primo grado a Danilo Restivo, con rito abbreviato. I pm chiedono trent’anni di reclusione, insieme con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e tre anni di libertà vigilata al termine dell’espiazione della pena. Tre giorni dopo, Restivo viene condannato anche al versamento di 700 mila euro alla famiglia Claps a titolo di risarcimento.
Il processo di appello, iniziato a Salerno il 20 marzo 2013 in presenza di Restivo (dall’11 marzo dello stesso anno estradato temporaneamente in Italia), si conclude il 24 aprile 2013 con la conferma della condanna a trent’anni per Restivo, il quale sconterà appunto la pena dell’ergastolo in Inghilterra. Il 23 ottobre 2014 la Corte di Cassazione conferma in via definitiva la condanna, chiudendo una storia di cui rimangono ancora molti lati oscuri.
Caso Elisa Claps, dove si trova ora l'assassino Danilo Restivo. Accusato anche di aver ucciso Haether Barnett, il killer non uscirà dal carcere prima del 2025. Federico Garau l'8 Novembre 2023 su Il Giornale.
Tornato alle luci della ribalta per la scelta contestatissima di celebrare nuovamente una messa nell'edificio religioso in cui il corpo senza vita della giovane studentessa fu rinvenuto e per la serie televisiva targata Rai, l'omicidio di Elisa Claps ha portato l'attenzione degli italiani a focalizzarsi sul destino dell'omicida Danilo Restivo. Per il delitto di Potenza, commesso nel 1993, il 51enne è stato condannato a 30 anni di reclusione, mentre per quello di Charminster a ben 70 anni, per cui dovrà stare dietro le sbarre ancora a lungo.
Omicidio Claps
Elisa Claps scomparve improvvisamente nella mattina del 12 settembre del 1993. La 16enne si stava recando ad una funzione religiosa presso la chiesa della Santissima Trinità di Potenza insieme all'amica Eliana, ma di lei si persero le tracce quando le due si separarono: Elisa, infatti, avrebbe dovuto incontrare un ragazzo più grande.
Solo dopo qualche tempo gli inquirenti compresero che quella persona era Danilo Restivo: allora 21enne, quando quest'ultimo fu interrogato per la prima volta dagli inquirenti iniziò ad attirare su di sé l'attenzione per via di alcune incongruenze sui suoi spostamenti relativi al giorno della scomparsa della ragazza. Tra l'altro proprio in quella circostanza Restivo si recò al pronto soccorso ricoperto di sangue, spiegando di essere rimasto ferito in seguito a una caduta in cantiere. Ciò nonostante gli inquirenti, che non sequestrarono i suoi indumenti, non avevano alcuna prova per incriminarlo e lo dovettero lasciare a piede libero.
Col prosieguo delle indagini emersero degli elementi in grado di gettare ulteriori ombre sul 21enne, che negli anni aveva preso di mira numerose ragazze: oltre alle telefonate mute, con in sottofondo la colonna sonora di Profondo Rosso o "Per Elisa" di Beethoven, Restivo aveva l'abitudine di tagliare e collezionare ciocche di capelli di giovani studentesse.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti sarebbe arrivato a uccidere perché spinto dall'ossessione nei confronti delle sue vittime e fuori di sé per essere stato respinto. Il corpo di Elisa fu ritrovato nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità il 17 marzo 2010 grazie alla segnalazione di alcuni operai intervenuti per riparare una perdita d'acqua.
Omicidio Barnett
Ancor prima del ritrovamento del corpo della studentessa, da uomo libero, Restivo si trasferì a Bournemouth nel Regno Unito per vivere con Fiamma Marsango, una donna più grande di lui di 15 anni con la quale intratteneva una relazione a distanza. Nel 12 novembre del 2002 la vicina di casa Heather Barnett, sarta madre di due figli, fu ritrovata morta nel bagno della sua abitazione: uccisa a colpi di forbice, la 48enne stringeva in mano una ciocca di capelli.
Restivo, che si era recato spesso a casa della vittima ufficialmente per commissionare la realizzazione di alcune tende, finì subito al centro delle indagini e fu inchiodato ben presto alle proprie responsabilità.
Dove si trova ora Danilo Restivo
Nonostante che il delitto di Elisa Claps fosse precedente, Restivo ha subito prima la condanna da parte della giustizia inglese: finito in manette nel maggio del 2010, fu condannato infatti a 40 anni di detenzione già nel 2011. Per il giudizio della Cassazione, in Italia, fu necessario attendere fino al 2014.
Al momento, l'assassino non si trova ancora a metà della pena complessiva di 70 anni, in virtù dei 40 inflitti dalla giustizia inglese e dei 30 comminati dalla giustizia italiana, unitamente all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, alla libertà vigilata per 3 anni al termine della pena e al risarcimento di 700mila euro in favore della famiglia Claps.
Restivo, dal momento della condanna da parte della Crown Court di Winchester, si trova ora ristretto dietro le sbarre di un carcere inglese: uscirà non prima del 2050, quando avrà 78 anni. Stando a quanto reso noto dalla stampa locale, l'uomo non avrebbe mai ammesso le proprie responsabilità, continuando a respingere le accuse per entrambi i delitti e proclamandosi innocente.
Dove nessuno guarda”, testimonianze e video inediti ricostruiscono una nuova verità su Elisa Claps. Pablo Trincia è andato in fondo a questa vicenda con una serie podcast che ore diventa una docuserie in quattro episodi. Alessandra De Vita su Il Fatto Quotidiano il 7 novembre 2023.
Potenza, 12 settembre 1993: è domenica mattina ed Elisa Claps viene inghiottita dal nulla nel momento in cui, sotto lo sguardo di una sua amica, mette piede in chiesa, nel cuore della città. Ci resterà per 17 anni, sepolta nel sottotetto della SS. Trinità da cui il suo corpo uscirà nel marzo del 2010. Per il suo omicidio c’è un colpevole ed è Danilo Restivo ma quello di Elisa Claps rientra tra i casi irrisolti perché schiacciato da ombre e dubbi su responsabilità mai chiarite in questi 30 anni. Pablo Trincia è andato in fondo a questa vicenda con una serie podcast che ore diventa una docuserie in quattro episodi. “Dove nessuno guarda – il caso Elisa Claps” verrà trasmessa il 13 e 14 novembre in esclusiva su Sky Tg24 e Sky Crime e in streaming solo su Now. È diretta da Riccardo Spagnoli che ne ha firmato insieme a Trincia la scrittura.
L’ultimo video inedito della vittima in vita, colpi di scena, depistaggi, segreti ed errori commessi durante le indagini, atti giudiziari mai divulgati, video del killer mai diffusi integralmente e testimonianze inedite saranno divulgati per tornare su un caso che si sarebbe potuto risolvere in pochi giorni ma che è diventato invece un mistero tra i più vergognosi del nostro Paese, durato 17 anni in cui Danilo Restivo ha ucciso ancora. Si parte proprio da lì: dalla scena del ritrovamento, nel 2002, del corpo mutilato di Heather Barnett, una sarta di Bournemouth, nel sud dell’Inghilterra. Sono stati i due figli minorenni a scoprirne il cadavere nel bagno di casa e a correre fuori in cerca di aiuto. A dargli conforto per primi sono i loro vicini. Lui si fa chiamare Denny, è Danilo Restivo. Non è ancora noto alla polizia inglese, ma quella italiana lo conosce bene perché è sospettato della scomparsa di Elisa Claps. Si torna allora a Potenza, nel 1995, quando Restivo è sotto processo in Italia per aver dato falsa testimonianza al Pubblico Ministero subito dopo la scomparsa della ragazza. La famiglia di Elisa, soprattutto il fratello Gildo e la madre Filomena Claps, insistono fin da subito con Polizia e Procura sul fatto che Restivo sia l’uomo su cui indagare ma non vengono presi in considerazione.
Al centro dell’inchiesta di Pablo Trincia c’è la ricostruzione della verità di chi questa storia l’ha vissuta sulla propria pelle, e che riporta informazioni dirette sui fatti, materiale video mai diffuso e documenti processuali. La docuserie, prodotta da Sky Italia e Sky TG24 e realizzata da Chora Media, è un lavoro di ricostruzione dei fatti, pensato sin dall’origine come un continuum fra la forma di racconto del podcast e quella del documentario. La versione audio, disponibile sin dalla fine di agosto, ha raggiunto e mantenuto nel primo mese di lancio la vetta della classifica Top Podcast di Spotify, riportando al centro del dibattito pubblico uno dei casi di cronaca più oscuri del nostro Paese.
“È stato un viaggio incredibile in due città, Potenza e Bournemouth – spiega Trincia – in una saga che sembra non finire mai, piena di dettagli, di colpi di scena, di sviste inaccettabili. È anche stato un viaggio nel dolore di una famiglia perbene, la famiglia Claps, che dopo 30 anni è ancora alle prese con questa storia e con la riapertura della chiesa dove la loro figlia e sorella è stata uccisa e nascosta. Ci ho lavorato con Riccardo Spagnoli che ne ha curato anche la regia e con Lorenzo Degiorgi, direttore della fotografia”. Il regista Riccardo Spagnoli aggiunge: “Oltre alle interviste, la docuserie presenta anche una parte di inchiesta “sul campo” per la quale ho scelto volutamente un approccio registico differente, usando telecamere a mano libera, nel tentativo di trasmettere agli spettatori il sapore del “reale”. Per tirare fuori tuto questo Trincia si cala nella psiche dell’omicida partendo dalle sue vicende giudiziarie inglesi. Questo lavoro restituisce al pubblico il ritratto non solo di una vittima ma anche di una sedicenne amorevole, Elisa Claps che ha sorretto la sua famiglia, dotata di un profondo sentimento di giustizia, nella dolorosa e difficile ricerca della verità.
‘Elisa Claps’, su Sky la docuserie sul delitto che ha scosso l’Italia. A cura della redazione Spettacoli su la Repubblica il 6 novembre 2023.
Dal podcast di Pablo Trincia "una saga che sembra non finire mai, piena di dettagli, di colpi di scena, di sviste inaccettabili". Gli altri appuntamenti del canale Crime
È una delle più incredibili storie di cronaca nera italiana: il caso Elisa Claps, che ora diventa una docuserie in quattro puntate prodotta da Sky Italia e Sky Tg24 e realizzata da Chora Media è "una saga che sembra non finire mai, piena di dettagli, di colpi di scena, di sviste inaccettabili", come l'ha definita Pablo Trincia, autore del podcast Dove nessuno guarda, da cui prende le mosse la serie che sarà trasmessa da Sky Crime.
Una vicenda, e una serie, che si snoda fra colpi di scena, depistaggi, segreti ed errori commessi durante le indagini e che, dice ancora Trincia "è anche stato un viaggio nel dolore di una famiglia perbene, la famiglia Claps, che dopo 30 anni è ancora alle prese con questa storia e con la riapertura della chiesa dove la loro figlia e sorella è stata uccisa e nascosta".
Dal podcast alla serie tv
La storia sarà ripercorsa il 13 e 14 novembre, in esclusiva su Sky Tg24, Sky Crime (la ex Crime+Investigation) e Sky Documentaries e in streaming su Now. Un lavoro che prende le mosse dal podcast dello stesso Trincia, pubblicato in occasione dei trent’anni dalla scomparsa della ragazza di 16 anni.
Una scomparsa inspiegabile
La docuserie è stata scritta a quattro mani dall'autore con Riccardo Spagnoli che ne ha curato anche la regia. Un’inchiesta giornalistica, pensata sin dall’origine come un continuum fra la forma di racconto del podcast e quella del documentario. La serie, in particolare, racconta l’inspiegabile comparsa della giovane studentessa, la mattina del 12 settembre 1993.
Il ritrovamento del corpo
Un mistero che viene risolto, in parte, solo nel marzo del 2010 quando il corpo della ragazza viene ritrovato, ormai mummificato, nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, grazie alla segnalazione di alcuni operai che stavano riparando una perdita d'acqua. Quella chiesa, fino a poco prima era stata controllata dal defunto don Mimì Sabia. E gli inquirenti capiscono subito che il sottotetto è stato molto più frequentato di quanto si potesse immaginare.
Il killer: Danilo Restivo
Il 12 settembre 1993, Elisa dice al fratello dice che sarebbe andata a messa, nella chiesa della Santissima Trinità, con un’amica. Incontra invece Danilo Restivo, 21 anni, che da tempo cercava di conquistarla. Sarà lui a ucciderla. Ma nei successivi 17 anni Restivo, che nel frattempo da Potenza si era trasferito a Bournemouth in Inghilterra dove aveva sposato una donna di 15 anni più grande di lui, Fiamma Marsango, uccide ancora.
Il secondo delitto
Il 12 novembre 2002, la vicina di casa di Restivo, Heather Barnett, 48 anni, madre di due figli che lavorava come sarta, venne trovata morta in bagno. Era stata uccisa a colpi di forbice e in mano aveva una ciocca di capelli. Nel corso delle indagini, la polizia inglese, anche grazie ad un'azione coordinata con la polizia italiana, raccolse una serie di prove contro Restivo. Fu così che si scoprì che era solito pedinare alcune donne.
L’ergastolo
L'uomo venne fermato nel maggio del 2010 e condannato all'ergastolo per il delitto Barnett nel 2011, dopo il ritrovamento dei resti di Elisa Claps nel sottotetto della chiesa potentina. Proprio in Italia l'8 novembre di quello stesso anno cominciò a Salerno il processo in cui Restivo era accusato di omicidio volontario aggravato nell'ambito del caso Claps. Nel 2014 arrivò la sentenza definitiva di condanna a 30 anni di carcere. Attualmente l’uomo sta scontando l’ergastolo in Inghilterra.
Immagini e testimonianze inedite
Trincia è riuscito a ricostruire la vicenda trovando immagini e testimonianze inedite e documenti processuali accessibili, ma che nessuno fino a oggi, inspiegabilmente, aveva mai richiesto e ottenuto. Per raccontare anche chi fosse Elisa nella vita di tutti i giorni.
Le testimonianze
Davanti alle telecamere sfilano Amie Benguit, sorella di Omar Benguit, condannato per l'omicidio di una ragazza che ha coinvolto come sospettato anche Restivo; Filomena Claps, madre di Elisa; Gildo Claps, fratello di Elisa; Nick Gbadamosi, assolto dall'accusa di essere stato complice di Omar Benguit; Tobias Jones, giornalista investigativo; Fabio Sanvitale, giornalista esperto di cold cases, Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l'ha visto?; Barbara Strappato, vicequestore della polizia.
Il ricordo di Elisa
L’uscita del podcast Dove nessuno guarda – Il caso Elisa Claps ha risvegliato il ricordo di Elisa in città, portando centinaia di persone a riunirsi davanti alla chiesa per celebrarne la memoria.
Caso Claps, la docuserie con video e materiale inediti. Dopo la fiction Rai, ricostruzione su Sky. "Sono complementari". Marisa Alagia su Ansa il 6 novembre 2023.
"Abbiamo recuperato anche il filmato di 3 ore della polizia scientifica quando è stato ritrovato il corpo della ragazza 17 anni dopo la sua sparizione nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità di Potenza - ha spiegato lo sceneggiatore Pablo Trincia, presentando oggi la docuserie - Così come abbiamo cercato di delineare meglio la figura di Elisa, di cui finora sembrava esservi solo quella foto appoggiata ad un muro". Di Trincia era già stato pubblicato il podcast sul caso per i 30 anni dalla scomparsa della ragazza, settembre 1993, dopo essere uscita di casa per andare a messa. Ora arriva la docuserie Sky Original, 'Dove nessuno guarda. Il caso Elisa Claps', 4 episodi, due per serata, in onda il 13 e 14 novembre, su Sky Tg4, Sky Crime e Sky Documentaries, in streaming solo su Now, sempre disponibile on demand. La ricostruzione però non parte dal 1993, ma quasi 10 anni dopo, nel 2002, quando viene ritrovato il corpo mutilato di Heather Barnett, una sarta di Bournemouth, nel sud dell'Inghilterra. Vicino abita una coppia e un uomo che si fa chiamare Denny: è Danilo Restivo. La polizia inglese ancora non lo conosce, ma quella italiana sì perché sospettato della scomparsa di Elisa Claps, avvenuta a Potenza 9 anni prima. "Il momento più difficile è stato sicuramente trovare qualcuno disposto a parlare in Inghilterra - ha detto Trincia - Mentre i Claps si sono dimostrati subito disponibili, una famiglia speciale, pulita, per bene". "Quello che ci ha sorpreso invece è l'intensa ondata di emotività che ha accolto il nostro lavoro - ha aggiunto - Ce ne eravamo già accorti quando la folla radunata davanti la chiesa per ricordare i 30 anni dalla sparizione di Elisa è rimasta in silenzio ad ascoltare l'ultima parte del nostro podcast". La scelta su questo caso è caduta proprio per la grande quantità di documentazione esistente 'che consentiva la serializzazione'. "Dopo aver approfondito la storia e aver preso coscienza della enorme quantità di materiale inedito che avevo a disposizione ho deciso di adottare un approccio registico molto essenziale - ha spiegato il regista Riccardo Spagnoli - per dare maggior importanza ai racconti dei protagonisti e alle immagini mai trasmesse prima". Una sfida che parte anche dall'evoluzione del mondo dell'informazione. "Dobbiamo essere costantemente aggiornati - ha detto De Bellis - ma anche andare in profondità, scegliendo temi contemporanei e storie che hanno cambiato la collettività".
Tra gli intervistati nella docuserie, la mamma e il fratello di Elisa, alcune amiche, i giornalisti che seguirono la vicenda, compresa Federica Sciarelli con il suo Chi l'ha visto?, gli investigatori. Trincia ha fatto di tutto anche per coinvolgere Danilo Restivo, l'ex ragazzo che si divertiva a tagliare i capelli all'improvviso alle sconosciute, ora 51enne, condannato in Italia a 30 anni per l'omicidio di Elisa, ma detenuto in Inghilterra per il delitto di Heather Barnett. "Gli abbiamo inviato tre mail - ha detto Trincia - le ha visualizzate ma non ha mai risposto".
La crociata contro la chiesa e la città.
I sacerdoti di Potenza: squallida aggressione a vescovo e fedeli. Storia di Vito Salinaro su Avvenire martedì 7 novembre 2023.
Una «squallida aggressione all'arcivescovo e ai fedeli accorsi per la Messa». Non usano mezzi termini i sacerdoti dell'Arcidiocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo nel definire quanto avvenuto, domenica scorsa, all'ingresso della chiesa della Santissima Trinità del capoluogo lucano, in occasione della celebrazione della prima Messa dal ritrovamento del cadavere della studentessa 16enne Elisa Claps, uccisa nel 1993, il cui cadavere fu ritrovato nel sottotetto dello stesso tempio il 17 marzo 2010.
Il sit-in, promosso dall'associazione Libera con la famiglia Claps, e che ha radunato circa 1.000 persone, si sarebbe dovuto svolgere «nel più assoluto silenzio». Ma si è progressivamente trasformato in una contestazione senza precedenti per toni e modalità contro i celebranti, tra i quali l'arcivescovo Salvatore Ligorio, e i circa 100 fedeli che hanno preso parte alla funzione. Al passaggio dei partecipanti alla celebrazione, la folla ha più volte applaudito ironicamente, ha scandito parole come «vergogna!» e «assassini!», ripetendo il nome di Elisa. Ci sono stati addirittura degli sputi indirizzati ai fedeli. Particolarmente contestato è stato l'arcivescovo per la decisione di tornare a celebrare la Messa in quella chiesa. Libera, lunedì, si è scusata per l'accaduto assumendosi le responsabilità del caso.
«Non si dovrebbe mai dimenticare - scrive in una nota il presbiterio potentino - che il dolore per Elisa non è condiviso solo dalla famiglia Claps, né tantomeno da chi ritiene che offese e volgarità possano onorare la memoria di chi ora vive in Paradiso, atteggiamenti che certamente non appartengono a quanti amano veramente Elisa, ma è un dolore proprio di tutta la comunità potentina e dunque anche di noi presbiteri che, insieme all’arcivescovo, costituiamo la famiglia sacerdotale dell’Arcidiocesi». Per questa ragione, «con l’arcivescovo continuiamo a pregare e ad essere vicinissimi alla famiglia di Elisa».
Per il clero locale, «offendere monsignor Ligorio con epiteti infamanti, degni dei peggiori luoghi comuni, ha significato offendere tutti noi che, tra l’altro, conosciamo la mitezza e l’amore che l’arcivescovo ha per questa terra e la sua sofferenza intima per la tragedia di Elisa». La Messa, sottolinea il presbiterio diocesano, «per chi crede è il modo più autentico per cogliere la vita che continua dopo la morte e vive il tempo dell’eternità. Per chi non crede, essa è comunque esercizio di libertà che andrebbe rispettato in ogni caso». I sacerdoti avvertono dunque «l’urgenza di far giungere anche pubblicamente la vicinanza e la stima per il nostro arcivescovo, non formale ma sostanziale e autentica, unitamente all’affetto per un pastore che ha agito sempre per il bene di tutti».
Caso Claps, il fango non coprirà la verità. In alcuni ambienti della città trapela ancora una volta il tentativo di scaricare sulla famiglia di Elisa sospetti, insinuazioni, pettegolezzi. Michele Finizio su basilicata24.it il 13 Novembre 2023
Chiunque abbia fatto esperienza di conflitto con un qualunque Sistema di potere, spesso si è trovato nella condizione di difendersi da attacchi meschini. L’arma preferita dall’apparato offensivo è il fango. Buttare fango addosso a chi si mette di traverso sulla loro strada. Lo fanno dapprima con insinuazioni e pettegolezzi artatamente affidati, per la diffusione, a persone comuni dotate di mediocrità e cattiveria. Subito dopo armano giornali e tv asserviti all’apparato di potere affinché sparino sull’opinione pubblica argomentazioni a conferma delle insinuazioni e dei pettegolezzi. La semina dei dubbi sulle persone per bene e sulle loro sacrosante battaglie è conclusa. La fase successiva è il raccolto: incassare il consenso sulle proprie mezze verità, mezze menzogne e sui fatti costruiti di proposito per apparire in una luce di verosimiglianza. Intanto tu, cominci ad avvertire quegli sguardi di sospetto che ti circondano.
Quando la battaglia si fa dura o si presenta difficile sin dall’inizio, il Sistema mette in conto altre tattiche offensive: l’isolamento della “pecora nera”. In base al ruolo che occupi nella vita sociale le armi cambiano: non ti fanno lavorare, creano intorno a te il deserto di relazioni, le tue parole e le tue azioni vengono oscurate o ignorate dagli interlocutori. E se non reggi lo scontro devi arrenderti o emigrare.
Abbiamo la sensazione, che qualcosa del genere stia accadendo in questi giorni alla famiglia di Elisa Claps. Le insinuazioni e i pettegolezzi, di cui è stata già vittima negli anni bui della scomparsa della povera ragazza, oggi riguardano “i compensi ricevuti grazie alla fiction televisiva andata in onda su Rai1, i risarcimenti chiesti alla Chiesa e, in fondo, gli esagerati attacchi al clero locale.” Una famiglia, insomma, che dà troppo fastidio e che mette in cattiva luce preti e vescovi: “ma chi si credono di essere questi Claps!” Qualcuno non ha ancora colto il valore e il significato della manifestazione studentesca di sabato scorso.
In alcuni ambienti piccoli, medi e alto borghesi della città, oltre che in alcuni circoli “alternativi”, tutti legati in un modo o nell’altro a un pezzo del Sistema di potere locale, trapela ancora una volta il tentativo di scaricare sui Claps sospetti, insinuazioni, pettegolezzi. Tuttavia, una famiglia che da trent’anni affronta con dignità, coraggio e amore, un dolore atroce, non indietreggerà di fronte a queste bassezze, come ha già dimostrato in passato.
Il dubbio che dietro Salvatore Ligorio, vescovo che se non avesse deciso la riapertura della Trinità, c’entrerebbe poco con tutta la vicenda, ci siano dei cattivi suggeritori, è legittimo. Non a caso alcune dichiarazioni rilasciate dal prelato l’altro ieri, 12 novembre, al Corriere della Sera, richiamano le insinuazioni diffuse nei giorni scorsi in quegli ambienti borghesi. Oggi, sul Corriere, Gildo Claps, fornisce chiarimenti non dovuti. Ad ogni modo l’unica soluzione è che emerga tutta la verità.
Potenza, caso Claps: «La Chiesa non si scuserà mai». Varie le opinioni in città: «Eventuali colpe dei singoli non possono ricadere su tutto il clero». CRISTIANA LOPOMO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Novembre 2023
C’è chi si innervosisce e preferisce non esprimersi. Chi si fa scappare parole grosse, ma senza nemmeno stupirsi. Chi ci invita a smetterla di fare domande: «La Chiesa non c’entra, prendetevela con la Magistratura o gli inquirenti». Un giro per capire come i potentini giudicano quanto detto da Monsignor Ligorio nell’intervista al Corriere della Sera in cui, tra l’altro, ha annunciato la pubblicazione di «un dossier con sentenze, documenti, allegati per fare chiarezza sulle polemiche, dicerie e false notizie che si sono susseguite in questi anni» e ha escluso - come da posizione del suo predecessore Monsignor Superbo - «risarcimenti di alcun tipo» alla famiglia Claps perché «per noi la soluzione bonaria era quella di restare fedeli alla verità». «Non ci sarà dossier che tenga, le scuse sono a prescindere». «Rassegniamoci, non si scuseranno mai» è la - rinnovata - consapevolezza che anima molti. «A meno che - auspica qualcuno - non sarà il Papa a farlo».
Chi incrociamo sui gradini della Trinità taglia corto: «L’errore umano di un singolo non può scaricarsi sulla Chiesa intera. Basta». Un’intervista che a qualcuno ha lasciato «l’amaro in bocca: ancora una volta tendono a giustificarsi». «È di parte, ovvio. Ligorio - dice Ilaria Ferraiolo - non è credibile, anche quando sostiene che la riapertura della Trinità sia stata voluta dalla cittadinanza. Non è così, se un numero minimo di persone legate a quella chiesa per snobismo, elite, politica non rappresenta la collettività che, da quanto è emerso anche dalle manifestazioni, è per la stragrande maggioranza al fianco dei Claps. Non sono mai entrata in quella chiesa. Ora la evito. Deprecabile riaprirla contravvenendo alla missiva di Papa Francesco: doveva essere destinata alla preghiera silenziosa, non a liturgie nei giorni di festa. Ancor peggio la targa in ricordo di don Mimì: il buon gusto imporrebbe di toglierla. Anche dal podcast di Trincia emerge quanto il parroco fosse coinvolto con i Restivo». Un dolore lungo 30 anni, quello sopportato dalla famiglia di Elisa a cui l’autorità ecclesiastica «non rivolgerà mai alcuna scusa, è chiaro. Farlo significherebbe ammettere le loro responsabilità» dice Loredana Lopez che non teme mezzi termini: «vergognosa» l’intervista di Ligorio.
«Ce lo ricordiamo tutti don Mimì. Eppure al netto della persona che era e del potere che potesse avere, chi ha indagato ha sbagliato tutto». Quanto a chi entra nella Trinità: «Che coraggio. Come si fa a non alzare gli occhi al soffitto. È da brividi. Dove sta la tanto auspicata riconciliazione? Quanta pazienza dovrà tenere ancora Gildo? Al suo posto avrei fatto una strage, sarei diventata un killer. Altro che risarcimento bonario». C’è chi ricorda quando sparì Elisa: «Quella notte - dice Piera Riccio - non dormii. Ci vuole rispetto per il dolore dei Claps. Se ognuno di noi si fosse trovato al loro posto, non so che reazione avremmo avuto. Le scuse sono d’obbligo, ma dipende dalla coscienza che si ha. Di certo le parole del Vescovo non potevano essere diverse da quelle pronunciate. Però avrebbe dovuto ascoltare le lacrime di mamma Filomena. La Chiesa, in fondo, non è il massimo della culla dell’amore?». «Rabbia» è la parola che usa Enzo Coppola. Nei giorni della scomparsa di Elisa era tra i radioamatori che si mobilitarono nelle ricerche. Oggi è convinto che: «La Chiesa ha il dovere morale di chiedere scusa, solo perché il fatto è avvenuto dentro la Trinità». Ma clero a parte, la questione è complessa: «La nostra è una città strana, fatta di clientelismo, omertà, connivenze negli uffici, nei palazzi. La mafia - chiosa - non è solo quella che spara, lo sappiamo bene».
L’arcivescovo di Potenza: «Avremmo dovuto gestire meglio i rapporti con i Claps. Ma su Elisa la Chiesa non ha nessuna colpa». Carlo Macrì, inviato a Potenza su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2023.
Salvatore Ligorio: «La famiglia chiedeva un risarcimento, abbiamo sempre detto no»
Dopo tredici anni di silenzi sul caso Claps, la Chiesa di Potenza ha deciso di parlare. L’arcivescovo Salvatore Ligorio conferma l’estraneità della Chiesa e spera nella riconciliazione con la famiglia. Pubblicherete un dossier su tutta la vicenda Claps.
Perché?
«Per aiutare la gente a capire. All’interno ci saranno sentenze, documenti, allegati, per fare chiarezza sulle polemiche, dicerie e false notizie che si sono susseguite in questi anni».
I Claps sostengono che da 30 anni siete «ladri di verità».
«Siamo stati sempre disponibili alla collaborazione e i nostri sforzi sono stati sempre orientati nella ricerca della verità. Alcuni sacerdoti, addirittura, si sono messi in prima linea a collaborare con la famiglia. Non siamo stati dietro le quinte, ma protagonisti impegnati nel percorso di giustizia».
Perché tante difficoltà nel trovare il dialogo con la famiglia Claps? «L’abbiamo sempre auspicato. Ci sono stati tanti incontri con la famiglia. Quando, però, eravamo sul punto di comprenderci Gildo Claps ha continuato ad essere incomprensibilmente diffidente. Probabilmente, siamo noi stati superficiali nelle comunicazioni. Loro vogliono le nostre scuse e ci chiedono di assumerci le responsabilità antecedente il fatto e dopo il fatto. Che ci sia stata un po’ di confusione, una poco approfondita analisi sul fatto, questo sì, ma pensare che siamo complici per quello che è accaduto, mi sembra ingeneroso».
In una lettera la famiglia Claps ha minacciato di adire a vie legali contro l’ex vescovo Superbo per «aver violato il dovere di vigilanza e controllo imposto dal codice canonico. Violazione che ha prodotto alla famiglia Claps un danno ingiusto risarcibile». La vertenza poteva rientrare se «si fosse risolta bonariamente».
«Ci siamo imposti dei principi di giustizia. Il mio predecessore monsignor Superbo ha collaborato sempre per la verità e la giustizia. Per noi la soluzione bonaria era quella di restare fedeli alla verità, senza risarcimenti di alcun tipo».
Don Mimì Sabia, il parroco della Trinità, che ruolo ha avuto nella vicenda?
«Non l’ho conosciuto. Ma da quello che ho compreso è che era una persona dal temperamento forte, vecchio stampo, come forse erano stati educati i sacerdoti della sua epoca i quali pensavano di essere custodi della propria comunità. Se fosse realmente venuto a conoscenza che nel sottotetto della Trinità ci fosse stato un cadavere appartenente in questo caso ad Elisa, non sarebbe sopravvissuto neanche un minuto. Non avrebbe retto alla paura. Gli hanno addebitato accuse improprie».
Nella immediatezza della scomparsa di Elisa si disse che don Mimì «bloccò» la perquisizione della polizia, chiudendo il portone della Trinità.
«Ma chi può avere un potere simile? Quale potere aveva don Mimì per impedire l’apertura della porta della Trinità? È inimmaginabile. E, comunque, è opportuno che si sappia: per cinque mesi, nel 2007, parte della Trinità è stata sotto sequestro. La polizia poteva entrare e fare ogni tipo di attività investigativa».
La mamma di Elisa non ha più messo piede nella Trinità.
«La libertà di coscienza, non può essere mai negata. Rispetto la sua scelta».
Perché ha detto no alle riprese dentro la Trinità, per la fiction «Per Elisa»?
«Non potevo farlo per rispetto da parte nostra per il luogo dove è accaduto il fatto e, soprattutto, per Elisa».
Lo scorso 5 novembre ha celebrato messa nella Trinità. L’hanno attaccata gridandole contro «assassino, vigliacco».
«Sono rimasto basito. Molta di quella gente non era di Potenza. Esponenti di Libera con un megafono, aizzavano la folla. Non è stato dignitoso per loro, in quanto cattolici. Ho chiamato don Ciotti e lui mi ha chiesto scusa. Anche don Marcello Cozzi (ex presidente Libera Basilicata) ha chiesto scusa, privatamente. In quella contestazione fatico a vedere la disponibilità al dialogo, ma ancora una volta vedo solo rabbia. Perché tutti contro la Chiesa? Ci sono responsabilità anche di altri».
Perché ha deciso di riaprire al culto la Trinità?
«Era un momento atteso da tanti fedeli. Ne ho parlato con il Papa concordando sul fatto di non svolgere riti festosi. Di questa decisione la famiglia Claps era al corrente. Ad un certo punto, però, tutto è stato ritrattato senza nemmeno che ne fossi informato».
Don Marcello Cozzi è da sempre vicino ai Claps e questo crea imbarazzo ai vertici della Curia potentina.
«Ha voluto assumere il ruolo di mediatore tra la Chiesa e la famiglia. Senza riuscirci. Forse, una maggiore chiarezza e determinazione da parte sua, avrebbe contribuito a dissipare equivoci che comunque si sono creati. La mamma di Elisa mi ha dato del bugiardo perché non l’ho informata della nomina dei due parroci della Trinità. Don Marcello non è intervenuto per spiegare che tutto ciò non era possibile».
Caso Claps. Il sindaco Santarsiero difende Potenza. Vito Santarsiero su Il Quotidiano del Sud l'8 aprile 2023.
Con riferimento alla tristissima e dolorosissima, in primis per la famiglia, vicenda di Elisa Claps, ritengo opportuno e doveroso sottolineare alcuni aspetti solo al fine di evitare che davvero passi l’immagine di una città insensibile o omertosa o altro ancora.
Non è così, a Potenza siamo sgomenti e stiamo soffrendo molto, in ogni cittadino c’è solo il desiderio di conoscere la verità in ogni dettaglio e vedere puniti in maniera esemplare l’omicida di Elisa e quanti in questa storia sono rimasti coinvolti.
Potenza ha sempre chiesto la verità sulla scomparsa di Elisa, per 16 anni la città ha partecipato commossa a manifestazioni di vario genere ed ogni 12 Settembre la stessa amministrazione comunale ha ricordato Elisa, la sua scomparsa, l’esigenza collettiva di sapere e non dimenticare.
Quando tutto ormai sembrava archiviato abbiamo ufficialmente chiesto alla procura di riaprire il caso e le relative indagini.
Per non dimenticare abbiamo posto una targa in quello che sembrava essere stato l’ultimo luogo ove Elisa fu vista.
Abbiamo visto nascere a Potenza, su iniziativa e con il protagonismo di Gildo Claps, l’Associazione “Penelope” delle famiglie delle persone scomparse, cui subito è giunto il sostegno delle Istituzioni locali e dei cittadini.
Dopo un altro terribile episodio di violenza su una giovane ragazza, abbiamo voluto in città un convegno ed una pubblica riflessione sul “femminicidio”, un momento qualificato come pochi ce ne sono stati nel nostro Paese.
In tale contesto e nella ridda di voci, ipotesi, errate indicazioni (forse anche in buona fede), carenza di notizie certe, speculazioni mediatiche, cose che spesso fanno parlare inutilmente o a sproposito, lasciando però ferite profonde nel tessuto sociale di una comunità che non sarà facile rimarginare, ebbene, in tutto ciò continuiamo a chiedere rigore e restiamo in attesa dei risultati cui porterà l’indagine.
Abbiamo colto in maniera chiara la determinazione e la professionalità con cui la Questura di Potenza ed i magistrati competenti stanno silenziosamente portando avanti le indagini.
Siamo certi che è stata trovata la strada giusta e che i tempi non saranno lunghi.
Vogliamo la verità al di sopra di tutto, senza generalizzazioni.
Non c’è tutela per nessuno, né la città giustifica o comprende sia gli errori investigativi sia la leggerezza di quanti avevano già scoperto il corpo di Elisa rimanendo in un colpevole silenzio.
Con particolare riferimento a ciò, riteniamo comunque esprimere solidarietà al Vescovo, che consideriamo una ricchezza per la nostra città, per le strumentalizzazioni personalmente subite.
Questa la nostra condizione, questo il nostro sentire, non si confonda il rispetto per chi indaga e l’attesa di conoscere la verità con insensibilità o la giustificazione per chiunque.
La città è città normale, con i problemi di tutte le medie città d’Italia e del Mezzogiorno, ed è città che non vuole pagare per i pochi che hanno sbagliato; ed è città che comunque ha saputo, sulla scia della famiglia, tenere sempre alta la tensione e l’attenzione sulla scomparsa di Elisa.
Vito Santarsiero sindaco di Potenza
"Non entrate in quella chiesa". Quelle ombre che restano sull'omicidio di Elisa Claps. La ragazza, a soli 16 anni, fu uccisa da Danilo Restivo il 12 settembre del 1993. Il cadavere rimase occultato nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza per 17 anni. L'intervista al fratello Gildo Claps. Rosa Scognamiglio il 12 Settembre 2023 su Il Giornale.
"Mi auguro che chi è stato connivente del lungo silenzio, che per anni ha logorato la nostra famiglia, ora chieda scusa". A parlare è Gildo Claps, il fratello di Elisa Claps, la 16enne potentina uccisa il 12 settembre del 1993. Il cadavere della giovane rimase occultato nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza fino al 17 marzo 2010, quando fu ritrovato. L’assassino, Danilo Restivo, nell’ottobre del 2014 fu condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione. A giugno del 2011, Restivo era stato condannato all’ergastolo in Inghilterra per l’omicidio di Heather Barnett, uccisa il 12 novembre del 2002 a Charminster, nel Dorset.
A trent’anni dalla morte di Elisa Claps, un podcast podcast di Sky Italia e Sky TG24 realizzato da Chora media e dal giornalista e autore Pablo Trincia - "Dove nessuno guarda", il titolo - ripercorre le tappe dell’intera vicenda. "Gli autori hanno fatto lavoro straordinario sotto tutti i punti vista. Sono riusciti a mettere in fila tutti gli eventi che si sono susseguiti negli anni con la cronologia giusta e dando voce ha tutti i protagonisti. Questo podcast ha il merito di aver risvegliato le coscienze e di aver finalmente onorato la memoria di mia sorella", spiega alla redazione de ilGiornale.it Gildo Claps.
Signor Claps, come commenta la riapertura della chiesa della Santissima Trinità di Potenza?
"L’ennesimo sfregio alla memoria di Elisa. Hanno aperto la chiesa in agosto, con una città deserta, come ladri di verità. Inoltre mi è stato riferito che hanno affisso all’interno dell’edificio una targa in memoria di Don Mimì Sabia, sul cui operato aleggiano ancora molte ombre. Quando proprio il Papa, nella lettera inviata a mia madre, aveva precisato che quella chiesa avrebbe dovuto essere un luogo in ricordo di Elisa. È stato un affronto, non solo alla famiglia ma alla città intera".
Lei ci è entrato?
"Ci sono passato davanti il giorno successivo alla riapertura, ma non mi è balenata neanche per la testa l’idea di varcare anche solo per un secondo la soglia di ingresso. Anzi l’invito che sto rivolgendo a tutti è di non entrare in quella chiesa. Andarci vuol dire oltraggiare la memoria di Elisa, che peraltro era una ragazza di una spiritualità e religiosità straordinarie. Ci sono ancora molte ombre in quel luogo che per 17 anni è stato la tomba di mia sorella".
Cosa glielo fa pensare?
"Senza ombra di dubbio, come emerge dalle risultanze investigative, Restivo non ha provveduto personalmente all’occultamento del corpo di Elisa".
Cosa la spinge ad affermarlo?
"Non c’erano i tempi e presumo che lui fosse agitato. Lì è andato qualcuno e ha fatto un lavoro di fino. Il cadavere di mia sorella era completamente coperto di tegole e materiale di risulta. Inoltre è stato fatto un intervento ineccepibile di foratura delle travi".
E dunque chi potrebbe essere stato?
"Come disse la dottoressa Barbaro Strappato, che si occupò delle indagini, quando il fascicolo sull’omicidio di Elisa fu assegnato alla procura di Salerno, era 'un tecnico'. Ci sono state complicità nell’occultamento del corpo e nei depistaggi successivi, su questo non ci piove".
Crede che queste "complicità" di cui parla potranno mai essere chiarite?
"Non credo. Certi segreti resteranno sepolti sempre. Mi auguro quantomeno ci sia una condanna sociale per i comportamenti omissivi e i silenzi che ci sono stati in questi trent’anni. Spero in un sussulto di coscienza ma non ci scommetto".
Omicidio Elisa Claps, riaperta la chiesa dove fu ritrovata. La famiglia: "Come dei ladri"
La famiglia Restivo ha mai chiesto scusa?
"Mai. Del resto la loro posizione è sempre stata chiara sin dall’inizio: credono all’innocenza di Danilo Restivo che, peraltro, non ha mai confessato l’omicidio di Elisa. Anzi le dirò di più. I genitori hanno sempre sostenuto che io avessi messo in piedi un complotto, addirittura arruolando dei sicari in Inghilterra, per incastrare il figlio".
Ha mai avuto modo di guardare negli occhi l’assassino di sua sorella?
"Io no, per fortuna, ma mia madre sì. Quando ci fu il processo per l’omicidio della povera donna inglese, Heather Barnett, mia madre si presentò in aula con una gigantografia della foto di Elisa per farla vedere a Restivo".
E lui?
"Non ebbe neanche un attimo di cedimento. E credo che mai lo avrà".
Parlava di sua madre Filomena: è stata una vera combattente.
"Mia madre è una donna straordinaria. Ha portato sulle spalle il peso di questa tragedia per trent’anni e non c’è nulla che l’abbia mai fermata nella ricerca ostinata della verità. Nonostante il dolore enorme è riuscita a tenere la famiglia unita e non abbattersi mai. Non posso che stimarla e ringraziarla infinitamente".
Ripensando a questi trent’anni, qual è il momento che le è rimasto più impresso?
"Il giorno successivo al ritrovamento del corpo di Elisa, il 18 marzo 2010. Ricordo che quella mattina il cielo era terso, di un azzurro quasi cristallino. Stavo percorrendo la cripta della chiesa della Santissima Trinità, feci i primi due gradini per accedere al sottotetto e mi fermai: fu il momento in cui realizzai davvero che mia sorella non c’era più. Allora mi voltai verso mio fratello Luciano, che era con me, e gli dissi: 'Vai tu, io non ce la faccio'. Non ho voluto vedere i resti di mia sorella".
Cosa ricorderà per sempre di Elisa?
"Di Elisa ricorderò sempre la sua dolcezza e genuinità. E mi auguro che anche chi ha conosciuto questa storia attraverso la stampa abbia memoria di mia sorella non più come 'il caso Claps' ma ricordi semplicemente Elisa, una ragazza con gli occhiali tondi e il sorriso sempre stampato sul volto".
Elisa Claps dimenticata dalle istituzioni e dai selfisti delle panchine rosse. Il silenzio della politica e la confessione di un uomo: "Io in questa chiesa – della Trinità - sono stato abusato". Michele Finizio il 12 Settembre 2023 su basilicata24.it.
Certa stampa e molti uomini e donne delle istituzioni oggi, nel trentennale della morte di Elisa Claps, non hanno aperto bocca: neanche un rigo, neanche una parola. A parte l’iniziativa del Municipio di Potenza, che ha deciso l’esposizione della bandiera a mezz’asta sugli edifici comunali, la Regione, la Provincia e altri non hanno battuto colpo. Il presidente Vito Bardi non ci sembra abbia detto qualcosa, al momento. Poi, come fanno spesso, leggono l’articolo e corrono ai ripari. Il sito istituzionale della Regione, che di solito pubblica le dichiarazioni e i commenti dei consiglieri regionali e di altri esponenti di enti legati alla Regione, oggi ha il vuoto su Elisa. Evidentemente la redazione di quel sito non ha ricevuto alcun comunicato o dichiarazione da parte di uomini e donne delle istituzioni a vari livelli. Non una parola da parte della Consigliera di parità, silenzio assoluto dalla Commissione pari opportunità e da tutti coloro che si fanno fotografare davanti a panchine e scarpe rosse. Come se la morte di Elisa Claps non fosse stato un femminicidio, come se la povera ragazza non fosse stata vittima di violenza. Come se tutta la vicenda non fosse degna di una parola. Per carità, non facciamo di tutta l’erba un fascio e salviamo le rare eccezioni. E allora? Nonostante le iniziative di questi giorni, nonostante il grande successo del podcast di Pablo Trincia, tutta questa gente ha fatto finta di non vedere e di non sapere. Glielo ricordiamo noi.
Oggi è il trentennale della morte di una bambina violentata e uccisa dentro una chiesa. Un femminicidio che interroga molte coscienze e che reclama risposte mai fornite dalle istituzioni clericali, giudiziarie, politiche. Sarà per questo che, tranne le centinaia di cittadine e cittadini che hanno partecipato alla marcia organizzata dall’attore Ulderico Pesce, gli eredi di quella stagione dei veleni e delle nebbie, si sono dati alla macchia? Sarà per questo che gli scopritori di targhe dedicate a chicchessia, i retorici degli anniversari di decennali e centenari, si sono svincolati da qualsiasi commento? Qual è il problema? Che cosa impedisce a queste persone di dire una parola di conforto alla famiglia, di assumere una posizione, di marcare una presenza in quanto esponenti delle istituzioni? A questa domanda ognuno potrebbe risponde per se stesso. Purtroppo, anche l’Associazione Libera è stata ufficialmente assente alla marcia di questa mattina, divisa tra chi non vuole contraddire il vescovo sulla riapertura della chiesa della Trinità e chi vorrebbe – una minoranza interna – che quel luogo venisse chiuso al culto.
Ma oggi, è importante altro. Quel femminicidio – con tutta la vicenda che l’avvolge – non è solo un fatto giudiziario, un reato, uno psicopatico in galera, conseguenza di una disgrazia o di una sfortuna, non è cosa che riguarda una famiglia. Quel femminicidio è una ferita indelebile agli archetipi della convivenza civile, uno strappo alla fiducia nelle istituzioni laiche e religiose, all’affidabilità del sistema giudiziario, all’autenticità delle relazioni tra cittadini. E’ un macigno che preme sulle spalle dell’intera società potentina e, direi, lucana. Chi non avverte questo peso, chi vorrebbe metterci una pietra sopra per “ricominciare”, non indica la strada giusta per la necessaria redenzione della città Capoluogo. Il perdono è una strada, ma bisogna sapere chi perdonare e per cosa perdonare. Solo la verità, tutta, può unire: le menzogne dividono. Solo la verità, tutta, può restituire la pace e la giustizia. E quella verità va cercata, sempre. Il resto è nebbia sporca, rumore, ipocrisia al banchetto della retorica. Un banchetto a cui ha partecipato chi oggi è stato zitto e nascosto. Stamane, davanti alla chiesa della Trinità, alla manifestazione organizzata da Ulderico Pesce, qualcuno ha confermato pubblicamente davanti a centinaia di persone: “Io in questa chiesa sono stato abusato”.
L’omicidio di Elisa Claps. Una giustizia lunga vent’anni può bastare per la certezza della pena? Letizia Pieri su leggioggi.it. Elisa, sedici anni al momento della scomparsa nel 1993, era iscritta al terzo anno del liceo classico di Potenza. Ultimogenita di tre figli, viveva insieme ai genitori e ai due fratelli. A ricoprire un ruolo pubblico di spicco nelle ricerche che seguirono la sparizione delle ragazza, furono soprattutto la madre e il fratello maggiore Gildo, essendo il padre caduto in una profonda crisi di salute per via dello sconforto causato dalla scomparsa della figlia. Attraverso svariate partecipazioni a trasmissioni televisive, la madre e il fratello di Elisa cercarono fin da principio di sensibilizzare l'opinione pubblica, mantenendo alto il profilo d’attenzione sul caso e stimolando gli inquirenti a vagliare ripetutamente quanto già acquisito, sino a sfociare, soltanto diciassette anni dopo la vicenda, nell’effettiva incriminazione di Danilo Restivo, tutt’ora rimasto l’unico imputato. Nella ricostruzione dei fatti gli inquisitori sono partiti dalla mattina del 12 settembre 1993, quando la giovane uscì di casa per recarsi alla messa insieme ad un'amica, lasciando detto al fratello che sarebbe rientrata entro le 13 per pranzare con la famiglia. Da quel preciso istante, di Elisa si è persa ogni traccia. Secondo alcune testimonianze, la ragazza aveva in realtà pattuito con l'amica nominata di raggiungere la Chiesa della Santissima Trinità, ubicata nel centro cittadino, in vista dell’incontro con un amico che avrebbe dovuto recapitarle un regalo per festeggiare la promozione agli esami riparativi d’inizio anno. In seguito, si è giunti all’identificazione della persona incontrata da Elisa, alias Danilo Restivo, il quale è risultato anche l’ultimo, in ordine cronologico, ad aver visto viva la ragazza. Il giovane fu immediatamente iscritto dagli inquirenti nella lista dei sospettati principali, subodorando la rilevanza di Restivo nella scomparsa della ragazza soprattutto dopo che ne furono evidenziate le incapacità ricostruttive circa gli spostamenti compiuti dopo l'incontro. A corroborare ulteriormente i sospetti si aggiunse poi l’accertamento che attestava come lo stesso Restivo, a qualche ore di distanza dalla sparizione di Elisa, si fosse presentato con gli abiti sporchi di sangue al Pronto Soccorso dell'ospedale potentino per farsi medicare quello che, così come riportato ai medici, doveva essere un semplice taglio alla mano, procuratosi in seguito ad una caduta. Fu subito chiaro, invece, come la ferita sembrasse essere provocata da altro, un oggetto affilato, nello specifico da una lama. Un iniziale errore commesso dagli inquirenti fu quello di non predisporre l’immediato sequestro dei vestiti che il giovane indossava la domenica della scomparsa, che su dichiarazione degli stessi medici di turno erano apparsi vistosamente insanguinati. Le indagini puntarono poi i riflettori sulle vicissitudini private di Restivo, il quale si scoprì non era insolito importunare le ragazze delle quali puntualmente si invaghiva, non di rado somministrando loro prassi abitudinarie equivoche e malsane, come ad esempio le assidue telefonate mute seguite dalla colonna sonora del film Profondo Rosso o dalla celebre melodia Per Elisa di Ludwig van Beethoven. Un’ulteriore consuetudine indiscutibilmente anomala messa in atto da Restivo costituiva nel tagliare celatamente ciuffi di capelli da giovani donne mediante un paio di forbici che era solito portare sempre con sé. Alcune amiche di Elisa Claps dichiararono poi che il ragazzo aveva tentato più volte di corteggiarla senza successo, e che era altresì una pratica del giovane quella di ottenere appuntamenti dalle ragazze dalle quali era attratto con la scusante di offrire loro modesti regali. Alla schiera dei colpevolisti si aggiunse fin da principio Filomena Iemma, madre di Elisa che, dopo essere venuta a conoscenza dell’ appuntamento della figlia con Restivo, puntò prontamente il dito contro il giovane, sostenendo fermamente che non poteva essere stato che Danilo ad aver ucciso Elisa, occultandone poi il corpo. Fu la donna stessa, infatti, ad intervenire ripetutamente sull’operato degli inquirenti, spingendoli ad indagare più a fondo sugli alibi avanzati da Restivo, trovando tuttavia le sue richieste una risposta inascoltata. Soltanto diciassette anni dopo, infatti, i resti della giovane furono ritrovati nel sottotetto della chiesa, la stessa che era stata il luogo esatto dell’incontro avvenuto tra Elisa e Restivo. La chiesa che i familiari della vittima chiedevano, a partire già dalle indagini preliminari, di sottoporre a scrupolosa perquisizione. Con riferimento al caso, nonostante fossero trascorsi così tanti anni dall’omicidio, gli inquirenti sembravano ancora fermi nell’incapacità di trovare sviluppi percorribili. Felicia Genovese, il pm di Potenza titolare dell'indagine, è stata al principio delle ricerche persino posta sotto indagine dalla Procura di Salerno, appunto competente per i magistrati di Potenza, in quanto sospettata di aver insabbiato il caso, venendo poi successivamente prosciolta. Don Marcello Cozzi, referente locale di Libera (Associazioni, nomi e numeri contro le mafie), ha formalmente chiesto anche l'intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano "per chiedere conto al Csm, da lui presieduto, dell'operato di Felicia Genovese, il pm che coordinò le indagini sulla scomparsa di Elisa". Dalla Procura della Repubblica di Potenza il caso è pertanto slittato in mano a quella di Salerno, responsabile di averlo successivamente risolto. I resti di Elisa Claps, come anticipato, furono ritrovati il 17 marzo 2010, occultati in fondo al sottotetto della chiesa potentina della Santissima Trinità, sembrerebbe scoperti in maniera del tutto fortuita da alcuni operai nel corso dei lavori di ristrutturazione eseguiti per infiltrazioni d'acqua. Congiuntamente ai resti umani, furono reperiti anche un orologio, i vestiti e i residui di un paio di occhiali. Il ritrovamento è stato screditato dai familiari come un’irrisoria messa in scena, recriminando agli organi inquirenti il fatto che la scoperta fosse una certezza già acquisita in precedenza e che fosse poi stata debitamente sottaciuta dal parroco della chiesa, don Mimì Sabia. I sospetti avanzati dalla madre di Elisa nei confronti del religioso, poi deceduto, erano stati già resi noti alle forze dell’ordine nel momento stesso in cui il sacerdote aveva respinto la richiesta, avanzata dalla donna, di poter visitare minuziosamente l'interno dell’edificio sacro. Persino più grave fu il clamore che è poi derivato dall’effettiva ammissione del viceparroco il quale, una volta appurata la circostanza del ritrovamento del cadavere da parte dello stesso alcuni mesi prima della sua segnalazione, aveva concretamente affermato di aver taciuto il fatto dal momento che “quel giorno il nostro Arcivescovo era impegnato in un convegno, riprovai al telefono senza dire di cosa si trattasse ma non riuscii a mettermi in contatto. Decisi così che gli avrei parlato l'indomani. Ma la cosa poi mi scivolò di mente”. I dettagli chiarificatori inerenti gli avvicendamenti che condussero al rinvenimento sono trapelati però soltanto in seguito, quando, a gennaio 2013, si è chiuso il sipario sulle indagini della magistratura inerenti le due donne addette alle pulizie, Margherita Santarsiero e Annalisa Lo Vito, autrici della segnalazione al parroco della scoperta rinvenuta nel sottotetto, ora accusate di mancata segnalazione alle autorità, alle quali si attribuivano dichiarazioni discordanti, e che ancora oggi continuano a negare il ritrovamento. Il 19 maggio 2010, Danilo Restivo, già coinvolto ai tempi dell’apertura del caso sulla sparizione della giovane, e successivamente trasferitosi in Inghilterra, a Bournemouth nel Dorset, è stato fermato dalla polizia inglese, dietro l'accusa di omicidio volontario per il brutale assassinio, risalente al 2002, ai danni dell'allora rispettiva vicina di casa, una sarta di nome Heather Barnett. Già da tempo l’uomo era tenuto sotto controllo e sorvegliato dalla pubblica sicurezza locale, la quale lo aveva persino ripreso durante allarmanti pedinamenti dei quali si era reso protagonista, perpetrati in una zona periferica boschiva, nei confronti di altre donne di nazionalità inglese, sempre rigorosamente armato di uno stiletto. Alla data del 28 maggio 2010 gli esiti dell'esame autoptico effettuato sui resti del corpo di Elisa Claps non erano ancora secretati. Gli inquirenti, tuttavia, avevano emesso il comunicato che riportava come la stessa vittima, scomparsa nel 1993, fosse stata uccisa “con 13 colpi di un'arma da taglio e a punta”. Il 29 giugno 2010 alcune foto contenute nella perizia medico legale riuscirono a filtrare alla stampa, e il 6 luglio 2010 Vincenzo Pascali, direttore dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, riportò ai consulenti delle parti rilevamenti di iniziale interesse. Dalle tracce di sperma repertate sul materasso posto vicino al cadavere erano infatti stati estratti due codici genetici, dissimili tra loro, mentre su uno strofinaccio sequestrato nei locali del centro culturale Newma, con sede nella canonica, sottostante al sottotetto, si era riusciti ad estrarre un terzo codice genetico perfettamente sovrapponibile ad uno di quelli rinvenuti dalla superficie del materasso. La notizia, anche se giunta con palese e vergognoso ritardo, segnò un primo passo di svolta che si rivelò però essere di non particolare importanza: le tracce infatti avrebbero potuto rendere possibile risalire ai due individui di sesso maschile responsabili di aver utilizzato il materasso, oggetto di perizia, come alcova. Il 12 settembre 2010, a Potenza, si è tenuta una manifestazione a ricordo di Elisa Claps, da parte dell'associazione Libera, alla quale affluirono centinaia di cittadini scesi in piazza per chiedere giustizia. In quell’occasione si pronunciò il fratello Gildo, ricordando come nel 1996 nel sottotetto della Chiesa della Trinità, e per la durata di circa un anno, si tennero dei lavori durante i quali l'impresa appaltatrice "incernierò dei cassettoni proprio in corrispondenza del cadavere di mia sorella. Ridicolo pensare che nessuno abbia mai visto niente". Gildo Claps sostenne, inoltre, che nel 2008 qualcuno si è reso colpevole di aver rimosso del materiale, molto probabilmente di rilevante tenore probatorio, dal corpo della vittima. Stando alle esternazioni del fratello, anche oggi, pare alquanto inverosimile che lo stesso vescovo fosse totalmente all’oscuro delle manovre, o viceversa pare lecito ritenere che l’alto prelato abbia comunque dimostrato delle inefficienze notevoli nell’attività di controllo degli uomini appartenenti alla propria Diocesi. La richiesta d’intervento al presidente della Repubblica avanzata da Don Marcello Cozzi, referente locale di Libera, avvenne proprio in coincidenza della manifestazione. L'8 ottobre 2010 il giudice per le indagini preliminari di Salerno, dott. Attilio Franco Orio, in accoglimento della petizione promossa dai pm titolari dell'indagine, dott.ssa Rosa Volpe e dott. Luigi D'Alessio, richiedenti una seconda perizia sui resti di Elisa, decise di fissare per il 18 ottobre un secondo incidente probatorio in vista del conferimento del quesito al consulente tecnico d'ufficio (CTU), il comandante del RIS di Parma, tenente colonnello dei Carabinieri Giampietro Lago. Il 25 ottobre 2010 furono rese note delle risultanze aggiuntive: i clasti, ossia i sassi di modeste dimensioni provenienti dal sottotetto e presenti nel solco del tacco della giovane uccisa, dimostravano che Elisa arrivò camminando nel solaio, giungendovi viva, e che soltanto dopo vi fu uccisa. La ragazza sarebbe stata colpita con una forbice di medie dimensioni, unitamente ad una lama tagliente: l'aggressore si accanì sulla vittima oramai agonizzante o del tutto inerme, continuando ad infierire con ripetuti tagli, e probabilmente rivoltandone il corpo, per un tempo relativamente lungo anche dopo l'iniziale attacco. Il bottone rosso ritrovato in prossimità del cadavere di Elisa si ipotizzò essere attribuibile ad un abito cardinalizio; i fori presenti nel tavolato posto al di sotto delle tegole, in corrispondenza del luogo di ritrovamento del corpo, risultarono invece praticati tramite l’utilizzo di un cacciavite spaccato, di piccole dimensioni, inducendo a pensare ad operazioni condotte senza metodo, volte a creare in maniera sbrigativa una feritoia nel sottotetto allo scopo di far disperdere le fetide esalazioni derivanti della decomposizione. Il 9 marzo 2011, nell’attesa del deposito della perizia dattiloscopica effettuata sui dodici reperti prelevati nel sottotetto della Santissima Trinità, ai fini comparativi tra le impronte digitali ritrovate sugli oggetti repertati e quelle di Danilo Restivo, il sito della trasmissione televisiva Chi l'ha visto? ha comunicato il rilevamento di precise tracce del Dna di appartenenza di Restivo sulla maglia che la giovane vittima indossava al momento dell’uccisione. Nel corso poi della puntata l'avvocato della famiglia Claps espresse la precisazione che rivelava come l’accertamento derivasse dal fatto che sul medesimo indumento fossero state repertate oltre alle tracce ematiche, anche quelle salivari del sospettato. Il 2 luglio 2011 è seguito l’officio del funerale di Elisa celebrato da don Marcello Cozzi e da don Luigi Ciotti. Su espresso desiderio dei familiari della ragazza, le esequie si tennero all'aperto, e per la giornata fu proclamato il lutto cittadino. Il 30 giugno 2011 Danilo Restivo veniva invece condannato alla pena dell’ergastolo dal tribunale (Crown Court ) di Winchester per l'assassinio di Heather Barnett, uccisa il 12 novembre 2002 a Charminster, un villaggio del Dorset, dove da anni risiedeva l’uomo. Nel pronunciare la sentenza, nella quale veniva affermato senza ombra di dubbio che lo stesso imputato era considerato colpevole anche per l’omicidio dell’italiana Elisa Claps, il giudice Michael Bowes riportava nei confronti di Restivo le seguenti parole accusatorie: "Lei non uscirà mai di prigione [...]. Lei è recidivo. È un assassino freddo, depravato e calcolatore [...] che ha ucciso Heather come ha fatto con Elisa Claps [...]. Ha sistemato il corpo di Heather come fece con quello di Elisa. Le ha tagliato i capelli, proprio come Elisa [...]. Merita di stare in prigione per tutta la vita". E finalmente l'8 novembre 2011, presso il Tribunale di Salerno, ha ufficialmente avuto inizio il processo a carico dell’imputato, tramite procedura con rito abbreviato. Nel corso della prima udienza i pm, evidenziando la subentrata prescrizione per i reati più gravi a carico di Restivo, i quali avrebbero automaticamente potuto far scattare l'ergastolo, hanno avanzano la richiesta di 30 anni di reclusione, il massimo richiedibile, unitamente all'interdizione perpetua dai pubblici uffici oltre ai tre anni di libertà vigilata al termine dell'espiazione di pena. L'11 novembre 2011, confermando le richieste dei pubblici ministeri, i giudici hanno decretato la condanna in primo grado di Restivo a 30 anni di carcere, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici ed alla libertà vigilata per tre anni a fine pena, in aggiunta alla predisposizione del versamento di 700.000 euro alla famiglia Claps a titolo d’indennizzo. Il processo di appello è iniziato a Salerno il 20 marzo 2013, con la partecipazione del condannato, il quale dall'11 marzo 2013 è stato temporaneamente estradato in Italia. Nonostante la sussistenza del verdetto a trent'anni, l'indagine della Procura di Salerno sulla scomparsa di Elisa Claps, sulle modalità del ritrovamento del cadavere e sulle presunte complicità di cui avrebbe goduto Restivo, resta ancora aperta. L'11 novembre 2011, l'avvocato della famiglia Claps, prima della lettura della sentenza in primo grado, ha rimarcato come nel caso dell'omicidio di Elisa, lo stesso Restivo non potrà ottenere l'ergastolo "per colpa della Chiesa che, in questi 18 anni, ha permesso che siano stati prescritti i reati concorrenti". Ora dunque, si prospetta la settimana decisiva per il processo d’appello. E anche la seconda sentenza pare avviarsi alla fine. Come da calendario, quello stabilito dai giudici, il primo intervento in aula è stato riservato al co-difensore, Marzia Scarpelli, mentre il prossimo 23 aprile toccherà ad Alfredo Bargi. Prima dell’avvocato Scarpelli, però è intervenuto lo stesso imputato, il quale richiedeva già da settimane di essere ascoltato dai giudici dinanzi al parterre dei giornalisti. Nonostante, infatti, il processo si sia svolto sino ad ora a porte chiuse, perché proveniente dal rito abbreviato già selezionato in primo grado, i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Salerno hanno optato per l’accettazione della domanda del richiedente, aprendo la celebrazione processuale a pubblico e media. Il codice di procedura penale infatti riserva la possibilità del dibattimento pubblico dietro specifica richiesta dell’imputato. Il rigetto della rivendicazione mossa da Restivo, nonostante fosse stato considerato una “nullità” di regime intermedio, avrebbe infatti potuto consentire ai difensori del condannato in primo grado di sfruttare la decisione sfavorevole per un ipotetico ricorso in Cassazione. In questo modo, il processo d’appello per l’omicidio della studentessa potentina che fino alle precedenti udienze ha continuato a svolgersi in camera di consiglio, già a partire da martedì scorso è avvenuto a porte aperte. Diversa, invece, è stata la questione che regolamenta la presenza delle telecamere in aula, dal momento che per l’approvazione non soltanto il pm ma anche le parti civili dovevano mostrarsi d’accordo. “Questa richiesta andava fatta all’inizio del processo -ha opposto alla decisione presa dai giudici l’avvocato della famiglia Claps, Giuliana Scarpetta- la pubblica accusa ha parlato a porte chiuse, io ho parlato a porte chiuse, perché solo Danilo Restivo deve parlare in udienza pubblica?” Secondo l’accusa l’intento di Restivo risponde allo scopo, dal punto di vista legale “proceduralmente scorretto”, di voler far sentire esclusivamente la propria versione dei fatti. “Quella fatta dai legali di Restivo è una mossa che mi lascia perplessa. -ha proseguito l’avvocato dei Claps- Un conto sarebbe stato chiederlo all’inizio del procedimento, come ritualmente doveva essere richiesto, ma francamente aspettare che la pubblica accusa e le parti civili abbiano terminato di parlare e poi fare la richiesta di continuare il processo a porte aperte non ci pare giusto”. Il legale Giuliana Scarpetta, da sempre convinta della colpevolezza di Danilo Restivo, è tornata infatti alla conferma evidente della responsabilità dell’uomo nell’uccisione di Elisa, “Non lo diciamo noi. Lo dicono gli atti e lo ha ribadito la richiesta di conferma di condanna fatta nel processo''. In aula ha seguito infatti il turno della parte civile, impegnata anch’essa nella ripresa del processo di appello a Salerno per l'omicidio della giovane Claps. Nella scorsa udienza, al termine della lunga requisitoria, il pg applicato, Rosa Volpe, ha confermato la richiesta della condanna a 30 anni di reclusione inflitta in primo grado nel novembre 2011. Danilo Restivo, salda la rispettiva posizione di unico imputato, ha reso dichiarazioni spontanee nella prima udienza dedicata alla rispettiva difesa. L’ultima data fissata per lo svolgimento processuale di appello contro l’incriminato rimane fissata al 28 aprile. La data è stata stabilita dal presidente della Corte d'Assise Federico Cassano e potrebbe slittare solo nel caso in cui vengano accolte le richieste dei difensori di Danilo Restivo. Sono infatti numerose le istanze presentate dai due legali, Alfredo Bargi e Marzia Scarpelli, alla Corte. Prima fra tutte l'esame dell'imputato ed il parziale rinnovo del dibattimento all’interno del quale rivalutare le perizie seguendo una corrente difensiva antitetica rispetto al quadro accusatorio. All'inizio del dibattimento la Corte si è riservata il compito di emettere la decisione soltanto in seguito alle udienze dedicate alle parti, ovvero la requisitoria del pg, le parti civili (la famiglia Claps) e appunto la difesa (16 e 23 aprile). Ed è proprio all’interno di queste motivazioni, antecedentemente allo scioglimento della riserva da parte della Corte, che si è inserito l’intervento di Restivo. Martedì 16 aprile, all'inizio dell'udienza pubblica l’uomo ha deciso di leggere una lettera diretta alla madre della studentessa di Potenza. "Io non ho ucciso e non ho idea di chi sia stato”, ha sostenuto l’imputato. Restivo ha proseguito la lettera rivolta a Filomena Iemma, spiegando come la stessa, e così la rispettiva richiesta di udienza pubblica, non rappresentassero affatto "un gesto di sfida" e viceversa ha espresso cordoglio per la ragazza uccisa, porgendo le "condoglianze" alla famiglia. "Il mio desiderio è un giorno quello di portare i fiori sulla tomba di Elisa", ha così citato un passaggio della missiva l’imputato. Filomena Iemma ha fermamente deciso di non ascoltare le parole dell'uomo, preferendo così uscire dall'aula durante la lettura integrale del testo a lei indirizzato. Gildo Claps, invece, si è limitato a dichiarare: "da Restivo non mi aspetto nessuna verità". Annoverati tra i materiali che i legali di Danilo Restivo intendono portare all'attenzione della Corte del processo d'Assise d'Appello, "la cartina di Potenza" e svariate fotografie. "Materiale che verrà illustrato in aula -hanno confermato i difensori ai cronisti- fotografie che riguardano la ricostruzione di tutta la vicenda processuale. Elementi utili a dimostrare la tesi difensiva". Il momento atteso da anni sembra dunque arrivato. Era del tutto palese che il potentino, come annunciato più volte dai suoi stessi legali, avrebbe ribadito in aula la propria innocenza, suscitando lo sdegno congiunto dei familiari della vittima. Tuttavia l’appello al killer di Elisa è arrivato del tutto inaspettato. Tutti gli indizi continuano infatti a convergere sulla colpevolezza di Restivo, nulla sembra poter indicare altrove l’assassino. L’imputato, tuttavia, al fine di riuscire a fornire l’unica ammissibile propria versione dei fatti, ha ricalcato un copione già largamente utilizzato da chi rivela una colpevolezza pressoché insindacabile: quello della discolpa seguita all’attribuzione della responsabilità a terza persona, come ovvio del tutto ignota. E lo fa senza vergogna, davanti alla stampa. Quella di martedì scorso è stata una delle ultime udienze. A seguito delle dichiarazioni rese da Restivo, in aula ha preso la parola l’avvocato co-difensore Marzia Scarpelli, essendo riservato l’intervento del collega Alfredo Bargi, come anticipato, nel corso della prossima udienza in programma il 23 aprile. Il calendario delle udienze è stato stabilito anche in base ai patti siglati per la consegna del detenuto dall'Inghilterra all'Italia dal momento che si prescrivono tempi assai brevi, e comunque sempre e soltanto quelli considerati di esclusiva, stretta, necessità. Al momento non si sono rese note contestazioni ufficiali, tuttavia si sono potute registrare non poche difficoltà nel regime di detenzione di Danilo Restivo in Italia da parte dei rispettivi uffici difensivi. Nel rimarcare tali complicazioni, rilasciando dichiarazioni ai giornalisti a margine del processo d'Assise d'Appello a Salerno, uno dei legali difensori, Marzia Scarpelli, ha così confermato: "Sicuramente è stato complicatissimo riuscire a fare dei colloqui. Restivo ha vissuto una settimana in un regime di semi isolamento, impossibilitato anche a ricevere gli indumenti di biancheria intima. Abbiamo difficoltà -ha proseguito Scarpelli- anche ad avere scambi di carteggio nel corso dei colloqui. Noi abbiamo rappresentato alla direzione che era opportuno svolgere i colloqui in maniera tranquilla. Nessuna protesta ufficiale, i motivi di contrasto in questo processo sono già tanti". Prenderà invece ufficialmente avvio il primo ottobre il processo per falso in perizia che la Procura di Salerno contesta al medico legale Vincenzo Pascali. E' stato lo stesso indagato a chiedere il giudizio immediato. In qualità di consulente della Procura salernitana, infatti Pascali non aveva rilevato tracce biologiche sui vestiti di Elisa Claps mentre successivamente, attraverso consecutiva perizia, i Carabinieri del Ris hanno repertato il dna di Danilo Restivo sul maglione in questione. Questo è soltanto il primo dei due filoni paralleli scaturiti dall'inchiesta principale della Procura di Salerno sull'omicidio della giovane. Il secondo ha direttamente a che fare con il ritrovamento dei resti della ragazza avvenuto presumibilmente (senza ombra di dubbio a parere di chi scrive) prima del 17 marzo 2010. Lo scenario procedurale complesso ed articolato del caso Claps non si esaurisce qui, il 6 maggio, sempre con giudizio immediato, inizia infatti anche il processo alle due donne delle pulizie, Margherita Santarsiero e Annalisa Lo Vito, accusate di aver trovato i resti della vittima nel sottotetto della Santissima Trinità prima della data ufficiale e di non averne fatto menzione alle autorità. Entrambe le donne continuano a negare, e in ambedue i procedimenti citati la parte offesa rimane la famiglia Claps. Dal drammatico episodio l’unico epilogo, per il momento, contrassegnato da segni positivi riguarda l’istituzione, su segnalazione del fratello maggiore Gildo e dietro il supporto dei membri restanti della famiglia di Elisa, della prima associazione dei familiari delle persone scomparse: l’Associazione Penelope. L’eccessiva durata dei processi e l’incertezza della pena continuano indubbiamente a costituire i problemi più gravi e irrisolti del nostro sistema di giustizia. Non sorprende infatti che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia comminato nei confronti dell’Italia 276 condanne, per una somma complessiva di 17 milioni di euro, proprio in virtù della peculiare lentezza processuale nostrana e dei danni che la giustizia, in tal modo, arreca ai cittadini. Nel caso Claps, nemmeno i diciassette anni intercorsi tra l’omicidio ed il ritrovamento del corpo della vittima, la condanna dell’imputato in primo grado e l’inflizione nei confronti del medesimo della pena dell’ergastolo per un estraneo delitto, peraltro significativamente speculare, sembrano non poter bastare alla certezza risolutiva. “Non può esservi infatti né certezza, né effettività della pena, se non vi è prima ancora, certezza ed effettività del processo penale”, scriveva il celebre giurista Vittorio Grevi. Nel caso di un efferato omicidio, poi, la sicurezza processuale va rimarcata persino con maggiore veemenza. Sempre secondo Grevi, dal momento che in Costituzione non esiste alcuna “copertura” dell’Istituto della prescrizione, non può seriamente parlarsi di un diritto costituzionale dell’imputato ad essa. Per lo stesso motivo, dunque, si possono lecitamente avanzare dubbi circa la stessa liceità dell’attuale disciplina della prescrizione del reato in quanto oggettivamente in contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito costituzionalmente dall’articolo 112. E’ d’obbligo, infatti, rammentare la precisazione che tende a discernere la prescrizione del reato da quella del procedimento, concernendo entrambe le discipline due diversificati fenomeni, al giorno d’oggi ancora spesso infelicemente mescolati all’interno del solo istituto della prescrizione del reato. Come ricordava lo stesso Grevi però mentre la disciplina è rimasta inalterata a partire dal codice Rocco, lo stesso non può dirsi per la struttura processuale, la quale, ad oggi, risulta fortemente mutata. L’istituto che legittima la prescrizione del reato ha senso, pertanto, solo e soltanto se, a distanza di molto tempo dalla notizia criminis o nel caso la stessa addirittura non sia stata registrata così non avviando alcuna indagine giudiziaria, possono effettivamente considerarsi cadute le ragioni sottostanti alla punizione. Per quanto invece attiene al procedimento in senso stretto, il decorso dei tempi della prescrizione in seguito all’avviamento dell’azione penale, per giunta di fronte ad una condanna già emessa, la prescrizione arriva ad assumere i caratteri di un vero e proprio danneggiamento alla giustizia. Accertata così l’incapacità del sistema penale italiano di poter infliggere la pena dell’ergastolo all’imputato Restivo, si spera che si possa mantenere alto il profilo della giustizia, di fronte soprattutto al rispetto per il dolore di una famiglia che ha subito una perdita ancora impunita, almeno confermando la condanna in primo grado nei confronti di una persona che non sembra mostrare alcun segno di probità. Letizia Pieri
Il caso di Elisa Claps e Danilo Restivo, dall’inizio: «Com’è stato possibile che nessuno abbia visto quel corpo, in chiesa?». Carlo Macrì su Il Corriere della Sera sabato 2 settembre 2023.
La storia dell’omicidio di Elisa Claps, scomparsa nel settembre del 1993 e uccisa da Danilo Restivo, che oggi sta scontando un ergastolo in Inghilterra per un altro assassinio. In occasione del trentennale, la storia di Elisa Claps è stata raccontata nel podcast “Dove nessuno guarda”
Ancora oggi, a tredici anni dal ritrovamento dei suoi resti, scoperti nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, nel centro storico di Potenza, l’omicidio di Elisa Claps resta intriso di misteri. L’assassinio della studentessa scomparsa il 12 settembre del 1993, a 16 anni, è uno di quei casi (o forse l’unico), dove depistaggi, errori giudiziari e investigativi e una cappa di omertà, hanno certificato collusioni che si sono estese dalla Chiesa di Potenza, alla città tutta.
I depistaggi sul caso Claps sono stati tantissimi: ad iniziare dalle attività di sviamento per allontanare dall’inchiesta l’unico sospettato: Danilo Restivo, l’ultima persona a vedere viva Elisa, dopo averle dato un appuntamento in chiesa. Il giovane, figlio del direttore della biblioteca di Potenza, è stato poi condannato a trent’anni di carcere con l’accusa di aver ucciso Elisa, con tredici coltellate.
La scoperta dei resti della studentessa nell’abbaino della chiesa, il 17 marzo del 2010, è avvenuto per puro caso. A scoprire il corpo mummificato, ricoperto da tegole e calcinacci, sono stati alcuni operai chiamati a riparare una perdita d’acqua. Il corpo di Elisa era lì, a due passi da casa sua, mentre tutti la cercavano ovunque. Eppure la “Santissima Trinità” era stata perquisita da cima a fondo, sin da subito. Nessuno, però, si era spinto sino ad arrivare nel sottotetto.
I motivi? Restano un mistero. La ricostruzione fatta dai magistrati e le indagini scientifiche hanno stabilito che Danilo Restivo, la mattina di domenica 12 settembre 1993, giorno della scomparsa di Elisa, le aveva dato appuntamento dentro la chiesa della Trinità (era in possesso delle chiavi), nel tentativo di «ottenere un approccio sessuale». Voleva farle un regalo e farsi presentare un’altra ragazza, Paola, amica di Elisa. Erano le 11,30 don Mimì Sabia, parroco della Trinità per 48 anni, diceva Messa.
«Elisa mi disse:”lascia stare Paola” – fu il racconto di Restivo. Poi uscì dalla chiesa e se ne andò». In realtà non andò così. La ragazza intuì subito le intenzioni del ventunenne e cercò riparo rifugiandosi nel sottotetto della chiesa. Il giovane la raggiunse e la colpì alle spalle. Mentre la colpiva inveiva e urlava e, sicuramente, sputacchiava, lasciando sui vestiti della sua vittima tracce di saliva. La ragazza tentò di difendersi.
Il taglietto sulla mano e la falsa testimonianza
Restivo rimase ferito nella colluttazione ad una mano, giustificando la ferita nel tentativo di entrare in un cantiere. Interrogato nelle ore successive alla scomparsa di Elisa disse di averla incontrata in chiesa e, dopo averla salutata, si era messo a girovagare da solo per la città. Restivo, però, si recò invece in ospedale per farsi medicare la ferita alla mano: un piccolo taglietto. Ci andò alle 13,45. Non seppe mai giustificare quel «buco» tra le 12 (l’ora in cui sarebbe morta Elisa) e le 13,45. Gli inquirenti non credettero alla sua deposizione, visto che nessuno lo vide in giro a quell’ora. In mancanza di altri elementi, però, lo condannarono solo per falsa testimonianza.
Il ritrovamento del corpo di Elisa Claps e l’impronta
Il ritrovamento del corpo di Elisa segnò un punto a favore delle indagini. Dopo diciassette anni, il golfino che Elisa Claps indossava la mattina del 12 settembre 1993, quando uscì per incontrarsi con Restivo, era diventato uno straccio ma, nonostante ciò, fu un elemento di prova affidabile per incastrare l’assassino. I carabinieri del Ris estrassero un campione del dna da una macchia di sangue trovata sul golfino che risultò sovrapponibile con quello di Restivo. Prova schiacciante perché dopo essersi ferito nella colluttazione l’omicida lasciò l’«impronta» del suo sangue sul vestito di Elisa.
Restivo, però, nel frattempo si era trasferito a Londra, nel tentativo di rifarsi una vita in Gran Bretagna, lontano dai sospetti che a Potenza non l’avevano mai abbandonato. E senza vergogna prima della sentenza della Corte d’Appello di Salerno che lo condannava a 30 anni, si rivolse a mamma Filomena dicendole: «Mi dispiace di cuore della morte di vostra figlia Elisa, vi giungano le mie più sentite condoglianze». La signora non volle sentirlo e lasciò l’aula prima che cominciasse a parlare. Arrivò anche a dire: «Il mio desiderio è quello un giorno di poter portare dei fiori sulla tomba di Elisa e di poter pregare».
L’omicidio di Heater Barnet, a Londra, e la moglie Fiamma
Anni dopo Danilo Restivo finì anche nel mirino degli investigatori inglesi. Il 12 novembre 2002 (il 12 ricorre sempre), venne seviziata e uccisa a Bournemouth, nel Dorset, duecento chilometri a sud di Londra Heather Barnet, una sarta di 48 anni. In mano aveva una ciocca di capelli non suoi. Danilo Restivo era il vicino di casa della donna, viveva a Londra con la moglie Fiamma Basile Giannini: fu arrestato due volte e due volte rilasciato. Negò sempre tutto. La polizia inglese è stata spesso a Potenza per indagare sugli intrecci dei due delitti. Venne fuori che Restivo avesse il «vizio» di tagliare ciocche di capelli alle donne. Per quel delitto fu condannato all’ergastolo che sta scontando in un penitenziario inglese.
L’omertà di Potenza e la chiamata del Papa
La famiglia Claps sin da subito si era detta convinta della responsabilità di Danilo Restivo, quale autore dell’omicidio della ragazza. Filomena Iemma, mamma di Elisa ha sempre puntato il dito sui depistaggi messi in campo dalla chiesa per allontanare i sospetti dal giovane assassino. Alla lettura della sentenza di condanna all’ergastolo per Restivo, mamma Filomena confidò a Fabrizio Caccia del Corriere: «Mi sono pentita di aver fermato la mano di mio marito 18 anni fa. Avremmo dovuto già allora farci giustizia da soli con Danilo Restivo e invece è passato tutto questo tempo…». La mamma della vittima, poi, si è sempre opposta all’apertura della chiesa chiusa dalla magistratura, dopo la scoperta dei resti di Elisa.
Nei giorni scorsi l’arcivescovo di Potenza Salvatore Ligorio ha autorizzato la riapertura al culto della “Santissima Trinità”, scatenando l’ira dei familiari della ragazza uccisa. «Mi aspetto che nessun cittadino di Potenza entri in quella chiesa» — ha tuonato la mamma della vittima. E il figlio Gildo: «Hanno agito come dei ladri, in silenzio. D’altronde da trent’anni sono dei ladri di verità».
Il delitto Claps sconvolse Potenza. In città il clima di omertà, non ha aiutato le indagini. A far sentire la sua vicinanza alla famiglia è stato Papa Francesco. Dopo la condanna a Restivo, telefonò a Filomena, proprio mentre la donna si trovava accanto al marito Antonio, ricoverato in ospedale per una grave malattia. La madre di Elisa gli aveva inviato una lettera dicendo di voler conoscere tutta la verità sulla morte della figlia. E, vicino alla firma, aveva lasciato il numero del telefonino. Il Papa non tardò a farsi sentire e la chiamò. «Sono Papa Francesco, volevo salutarla e dirle che domani reciterò una messa per Elisa, in occasione del suo compleanno», le disse il Pontefice.
Lo scorso 11 luglio il Pontefice si è nuovamente fatto sentire con una lettera indirizzata a mamma Filomena: un invito «al dialogo con la Curia di Potenza per trovare un accordo sulla riapertura della chiesa della Trinità». La signora Claps si era detta disponibile per un nuovo approccio, ma la riapertura nella scorse settimane della chiesa, senza un confronto tra le parti, l’ha fatta andare su tutte le furie. «La Curia deve chiedere scusa prima alla famiglia Claps e poi alla città intera» — ha affermato Filomena Iemma.
La pm Genovese e il mistero della Chiesa della Santissima Trinità
Lo scontro tra la famiglia Claps e la Chiesa di Potenza, negli anni, ha animato tutta la vicenda. Sin dal primo minuto della scomparsa di Elisa, si è avuta la sensazione che qualcosa all’interno della “Trinità” fosse avvenuto. È stato taciuto ogni dettaglio e nascosto ogni possibile indizio che potesse in qualche maniera portare alla scoperta del corpo della ragazza. La scomparsa di Elisa era stata bollata come inspiegabile e misteriosa. Il suo ritrovamento nell’abbaino della chiesa ha aperto, però, scenari oscuri.
Gli inquirenti sospettarono che dietro l’omicidio della giovane ci fosse un coinvolgimento di personaggi mai sfiorati dall’inchiesta. Fu all’epoca l’ex questore Romolo Panico a riaprire il caso. L’ex arcivescovo di Potenza Ennio Appignanesi fu il primo a sospettare che qualcosa dentro la chiesa era accaduto. «C’è stata tanta, troppa omertà dietro la scomparsa di Elisa» — disse all’epoca il monsignore.
La domanda ricorrente in quegli anni era: com’è stato possibile che quel corpo sia potuto restare così tanto in quel posto senza che nessuno se ne fosse accorto?
All’epoca della scomparsa della giovane la titolare delle indagini era il sostituto procuratore Felicia Genovese. «Tutto quello che era di mia competenza è stato fatto» affermò la pm, accusata da un pentito, Gennaro Cappiello, di aver insabbiato alcune indagini, tra le quali quelle sull’omicidio di Elisa Claps. Addirittura si disse che Michele Cannizzaro, marito della pm, avesse stretto un accordo con il padre di Restivo: cento milioni di lire per far insabbiare l’inchiesta sul figlio. «Accuse infondate» hanno accertato i magistrati di Salerno, competenti ad indagare sui colleghi di Potenza. Scrissero i magistrati di Salerno: «Sin dai primi giorni le indagini sono state svolte in maniera penetrante e rigorosa. Sono state anche disposte intercettazioni ambientali e telefoniche sull’utenza di Danilo Restivo, unico indagato per la morte di Elisa».
Per la scomparsa di Elisa Claps si mobilitarono anche i Servizi segreti. Il loro intervento ha reso più fosco lo scenario dell’inchiesta già di per se ricca di depistaggi e omertà. Un rapporto del Sisde del 18 novembre del 1997, firmato dall’allora direttore Vittorio Stelo, faceva riferimento alla figura di un prete che avrebbe avuto un ruolo nella scomparsa di Elisa Claps. Il sostituto procuratore Felicia Genovese, fece formale richiesta per ottenere l’informativa, ma non ricevette nessuna risposta. Anzi,in un primo momento, i Servizi negarono l’esistenza del documento con il nome del confidente. Le richieste della pm, furono però insistenti, tanto da costringere un’altra struttura dell’organismo segreto a consegnare il documento all’accusa. Nella relazione dei Servizi c’era scritto che si stavano facendo indagini su un prete di Potenza. L’attività segreta, però, non portò però a nessun risultato. Le stranezze, in questa vicenda, si moltiplicarono di giorno in giorno.
Don Mimì Sabia e le perquisizioni «tragiche»
Un ispettore di polizia Mario Leone, aveva anche lui ricevuto una confidenza che gli indicava che «sarebbe stato opportuno ispezionare la chiesa della Santissima Trinità. Il corpo di Elisa è ancora lì e lì che dovete controllare». Anche in questo caso l’attendibilità della relazione di servizio del poliziotto non fu tenuta in considerazione. Era il 10 maggio 2001. Solo due mesi dopo, il 20 luglio, i magistrati decisero di dare un’occhiata dentro la chiesa e iniziarono a ispezionare negli scantinati e nelle case diroccate che si trovavano nelle vicinanze. Non trovarono nulla. Nessuno, però, cercò nell’abbaino. A distanza di anni alcuni poliziotti che parteciparono a quei sopralluoghi definirono quelle perquisizioni una «tragedia».
Nella chiesa della Trinità, infatti, i sopralluoghi della polizia evidentemente, non furono fatte in maniera approfondita. Parroco del’epoca era don Mimì Sabia, deceduto nel corso delle indagini, all’età di 84 anni. Don Mimì fu l’unico sacerdote a governare la chiesa della Trinità. Aveva un carattere allegro, ma non ha mai permesso a nessuno di celebrare Messa nella sua chiesa che considerava la sua casa. Nelle ore successive alla scomparsa di Elisa – qualcuno disse di averla vista per l’ultima volta proprio in chiesa a parlare con Restivo – don Mimì chiuse al culto il Tempio e partì per Fiuggi a farsi i bagni termali. Sul ruolo e sulle responsabilità avute da don Mimì, però, non si è mai voluto andare a fondo, nonostante un particolare suona ancora oggi come un terribile indizio, forse all’epoca sottovalutato.
Don Vagno ruolo delle donne delle pulizie
Nel sottotetto della Trinità, gli inquirenti trovarono un bottone rosso porpora dai contorni tondeggianti a alcune fibre rifrangenti. Dello stesso tipo di quello che mancava all’abito del sacerdote, all’epoca sequestrato dalla polizia. Un’altra incongruenza che mette a dura prova la credibilità della Chiesa potentina furono allora le parole del vice parroco della Trinità, il brasiliano don Vagno. Quaranta giorni prima del ritrovamento dei resti di Elisa nel sottotetto, il sacerdote fu informato dalle due donne delle pulizie Margherita Santarsiero e sua figlia Annalisa Lo Vito, della presenza di un cadavere nell’abbaino della chiesa.
Don Vagno decise di controllare personalmente quella notizia. Si precipitò sopra e vicino a quei resti scorse un paio di occhiali e un teschio. Don Vagno pensò ai riti satanici e di quel ritrovamento il vice parroco non fece cenno con nessuno. Quando la polizia lo interrogò, si affrettò a sostenere che avrebbe voluto informare monsignor Agostino Superbo, vescovo di Potenza e vicepresidente Cei, ma dopo qualche tentativo per rintracciarlo, la cosa gli passò di mente. All’epoca la polizia ipotizzò anche che il sottotetto negli anni precedenti la scoperta dei resti fu frequentato assiduamente: addirittura ci furono feste come dissero alcuni ragazzi del centro Newman. «I ragazzi erano soliti appartarsi in quei luoghi e avrebbero utilizzato il buio del sottotetto per qualche momento di intimità».
Le risposte evasive dell’amica del cuore di Elisa, Eliana De Cellis
La stessa amica del cuore di Elisa Claps, Eliana De Cellis fu evasiva nelle sue risposte date nel processo per falsa testimonianza dov’era indagato Danilo Restivo. Messa alle strette dal pubblico ministero Felicia Genovese disse: «Ho paura che quello che è successo a Elisa possa capitare a me». Il presidente del collegio dell’epoca, Michelini, non intese approfondire quelle risposte. Nessuno, poi, si è mai preoccupato di indagare su quella pagina del diario di Elisa, strappata di netto quasi a voler cancellare quale mistero? Evidentemente il corpo di Elisa Claps doveva rimanere nascosto per sempre, sepolto da travi e pietre. Così sperava chi l’ha uccisa.
La scoperta dei resti della studentessa, però, è stato come se parlassero. E, a ridar voce a questa vicenda è un podcast scritto da Pablo Trincia, Riccardo Spagnoli e Alessia Rafanelli dal titolo “Dove nessuno guarda — Il caso Claps”. A novembre il podcast diventerà una docuserie di quattro episodi per Sky Tg24. A breve, poi, a Potenza, inizieranno le riprese della fiction sul caso Claps, che andranno in onda su Rai 1, per la regia di Marco Pontecorvo. Mentre il 12 settembre, sempre a Potenza, a trent’anni dalla scomparsa, sarà presentato il libro-diario sulla vita di Elisa “Io sono Elisa Claps”.
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Avete vinto voi.
Avete vinto voi che quella mattina del 12 settembre costruiste quell’orribile sepolcro al cadavere della povera Elisa.
Avete vinto voi che con mille espedienti e sotterfugi riusciste a far deviare e a depistare le indagini.
Avete vinto voi che siete stati bravi a coprire per almeno diciassette anni le responsabilità dell’assassino.
E avete vinto anche voi che alla fine avete restituito – certo – Elisa all’abbraccio della sua famiglia, ma come se fosse stato un cagnolino ritrovato quasi per caso.
Avete vinto tutti voi, chiunque voi siate, qualunque sia il mondo a cui appartenete e qualunque sia il ruolo sociale o istituzionale dietro cui vi nascondete.
Avete vinto perché i vostri nomi e i vostri volti non potremo mai dirli ad alta voce o non li conosceremo mai, perché siete stati bravi a far prevalere le ragioni delle vostre rispettive caste sulle ragioni del dolore, perché il vostro anonimato è riuscito a convincere tanti che una responsabilità c’è solo quando c’è una sentenza, ed infine perché la disputa dolorosa sulla riapertura di quella chiesa si è trasformata, nostro malgrado, in una micidiale arma di distrazione di massa. Noi qui a dividerci in fazioni, mentre lì, dietro le quinte, nell’ombra, come sempre è accaduto in questi trent’anni, chissà quanti ad osservare in silenzio, con cinica soddisfazione, perché ormai nessuno più guarda nella loro direzione.
Avete vinto, dunque, e per questo siete tutti colpevoli.
Chiedo perdono alla mia città perché dinanzi alle superficiali semplificazioni e alle colpevoli generalizzazioni non ho saputo gridare abbastanza che in questa storia il silenzio di tanti preti può aver certamente significato un’assenza ma non necessariamente complicità, omertà e connivenza.
Chiedo perdono ai miei confratelli preti, perché non sono stato bravo a spiegargli i dettagli scomodi di questa triste vicenda, da dove nasce quella indubbia terribile, fondata e legittima ombra di sospetto che si è addensata su qualcuno fra noi e perché ad un certo punto il dolore della famiglia di Elisa si è trasformato in lecita rabbia e ostilità.
Chiedo perdono alla famiglia di Elisa perché non ho saputo affermare il primato del loro dolore dinanzi a qualunque altra motivazione, e non ho saputo neanche annunciare il vangelo per il quale quel primato è sempre “terra sacra dinanzi a cui togliersi i calzari”.
Credo nella chiesa della SS. Trinità come luogo nel quale “custodendo la memoria di Elisa” in modo “non festoso” ma “silenzioso”, come ha detto Francesco, si possano porre i segni della fede cristiana e i segni laici di “promozione della vita” per restituirla alla celebrazione della speranza piuttosto che ad un museo di morte.
Cara Elisa, ti prego, favoriscili tu quei “cammini di riconciliazione e di guarigione” che auspica Francesco, perché noi da soli quaggiù non ce la facciamo, e getta tu un ponte fra le due sponde di questa unica grande ferita sanguinante, perché io sono stato incapace.
don Marcello Cozzi
Omicidio Claps Assolto don Cozzi: non diffamò la pm Genovese. Lagazzettadelmezzogiorno.it il 6 dicembre 2011.
Il giudice per le indagini preliminari di Perugia ha archiviato la querela per diffamazione presentata da Felicia Genovese – ex pm di Potenza, che indagò sulla scomparsa di Elisa Claps, nel 1993, e ora in servizio a Roma – e dal marito, Michele Cannizzaro, contro l’ex leader di Libera Basilicata, il sacerdote don Marcello Cozzi, per un articolo pubblicato nel 2007 sulla rivista «Micromega». Lo ha reso noto l’associazione Libera, spiegando che - secondo il gip – nell’articolo firmato da don Cozzi, «non si travalicava il corretto esercizio del diritto di critica, diritto costituzionalmente protetto».
In particolare - secondo quanto fa sapere l’associa - zione Libera in una nota - nell’atto di archiviazione della procura perugina, in merito ad alcuni passaggi dell’articolo che i coniugi Genovese e Cannizzaro avevano ritenuto oggetto di querela perché affermazioni direttamente lesive della loro immagine ed onorabilità, nella sentenza si legge «che risponde ugualmente al vero che nel corso delle indagini svolte inizialmente dalla Genovese con riferimento all’omicidio Claps, il pm Genovese omise di disporre un’attività di perquisizione diretta presso l’abitazione del Restivo o sulla sua persona, fatto che, peraltro in sede di richiesta di archiviazione da parte del pm di Salerno, tale omissione fu considerata circostanza neutra». Inoltre sempre nelle motivazioni dell’atto si legge che «vi è un fondo di veridicità anche con riferimenti ai contatti tra il Cannizzaro ed alcuni esponenti malavitosi».
Ed è lo stesso autore a riconoscere che «tutto questo non è reato, tanto è vero che la posizione di Cannizzaro è stata archiviata nel 1999 dal pm Vincenzo Montemurro» e ad esprimere un suo successivo personale giudizio «restano per le perplessità su quali contatti e frequentazioni abbia il marito di un magistrato antimafia». In ragione di tutto questo il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Perugia ha ritenuto ininfluente il supplemento investigativo richiesto dai coniugi Genovese–Cannizzaro in quanto non possono incidere sul nocciolo della questione, concernete le modalità di esercizio di critica di don Marcello Cozzi nell’articolo oggetto di querela.
Diffamò Cannizzaro, Don Marcello Cozzi condannato dalla Corte d’Appello.
Di Redazioneufficiostampabasilicata.it Mercoledì 27 aprile 2022 – Michele Cannizzaro, ex direttore generale dell’ospedale San Carlo di Potenza e marito di Felicia Genovese – pm che indagò sulla scomparsa della studentessa Elisa Claps nel 1993, il cui cadavere è stato ritrovato solamente il 17 marzo 2010 – ha vinto l’appello contro il sacerdote don Marcello Cozzi, allora esponente di Libera in Basilicata.
La notizia la riporta Cronache Lucane nell’edizione di oggi.
La Corte di Appello di Potenza, presieduta dal giudice Roberto Spagnuolo, – si precisa nell’articolo – ha condannato don Marcello Cozzi per il danno morale subito dal dottor Cannizzaro a seguito di un articolo a firma dell’esponente di Libera Basilicata pubblicato nel 2008.
Nella sentenza viene spiegato che pur tenendo conto della «qualifica ricoperta da don Marcello Cozzi nell’ambito dell’associazione Libera ed al conseguente ipotizzato esercizio del diritto di cronaca da parte sua, con la conseguente rarefazione del perimetro di legittimità rispetto al diritto di cronaca, non possono ritenersi circostanze idonee a scriminarlo». Nell’articolo firmato da don Cozzi, c’era un passaggio sul pm Genovese (moglie di Cannizzaro) che secondo la ricostruzione del pentito Cappiello avrebbe omesso di disporre un’attività di perquisizione diretta presso l’abitazione di Danilo Restivo o sulla sua persona dopo una telefonata avvenuta tra il padre di Restivo e il marito della Genovese. Non solo.
L’esponente di Libera Basilicata avrebbe fatto riferimento anche ai presunti contatti tra Cannizzaro ed alcuni esponenti malavitosi. A tale riguardo, don Cozzi scrisse che “tutto questo non è reato”, aggiungendo però le sue “perplessità su quali contatti e frequentazioni abbia il marito di un magistrato antimafia”.
Ebbene per i giudici della Corte di Appello era necessario dare atto «del contenuto dei provvedimenti giudiziari che hanno preso posizione sugli accadimenti narrati (…) e di dover dare conto degli sviluppi giudiziari». Secondo la Corte alcune dichiarazioni di don Cozzi , pur provenienti da un soggetto rivestente un ruolo di primazia nel- l’ambito dell’associazione Libera, «rimangono pur sempre un giudizio di natura soggettiva.
Ne deriva, a parere di questa corte, una valutazione di sostanziale illeicità del contegno tenuto da don Cozzi, per come concretatosi nella redazione dell’articolo (…)., sia dal punto di vista del mancato rispetto della verità oggettiva delle notizie offerte che dal punto di vista della rilevanza sociale di esse». Ed è soprattutto su questo ultimo punto che i giudici hanno constato «la sofferenza morale del dottor Cannizzasro».
Il risarcimento dovuto all’ex Dg del San Carlo si basa su determinati parametri: notorietà del diffamante, carica pubblica o ruolo istituzionale o professionale ricoperto dal diffamato, natura della condotta diffamatoria.
La Corte di Appello di Potenza ha ritenuto una diffamazione «di media gravità». In quanto il «dottor Cannizzaro era persona molto in vista, oltre che per l’attività imprenditoriale svolta con successo nell’ambito della sanità locale, vuoi soprattutto, per aver ricoperto ruoli di alta amministrazione, quale quello di Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza, fino a poco tempo prima rispetto alla pubblicazione di tale articolo». Viene quindi stabilita – conclude l’articolo – la condanna per don Cozzi «per il danno morale» nei confronti del dottor Cannizzaro per la somma di 30mila euro.
Potenza: articolo diffamatorio nei confronti di Michele Cannizzaro, due persone condannate. Da ondanews.it il 27 Aprile 2022
Arrivano due condanne dal Tribunale di Potenza per un articolo pubblicato su un quotidiano regionale lucano, per i giudici diffamatorio.
I destinatari delle condanne sono don Marcello Cozzi di Potenza, presidente dell’Associazione “Libera contro le Mafie”, e Paride Leporace, ex direttore di un quotidiano regionale.
La persona offesa è Michele Cannizzaro, manager navigato della sanità privata, che negli anni ha anche ricoperto il ruolo di direttore generale dell’ospedale “San Carlo” di Potenza, oltre che consigliere comunale del capoluogo lucano. Si tratta di un articolo dove si parlava della scomparsa e della morte di Elisa Claps, la giovane potentina il cui corpo venne ritrovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità di Potenza, dopo la scomparsa datata 12 settembre 1993, e di alcune inchieste giudiziarie come quella denominata “Toghe Lucane” portata avanti da Luigi De Magistris quando era in servizio a Catanzaro.
Il collegamento con Cannizzaro è legato al fatto che la moglie, Felicia Genovese, all’epoca lavorava al Tribunale di Potenza. Secondo Michele Cannizzaro, il tenore delle notizie riportate nell’articolo giornalistico avrebbero portato a una “grave mortificazione e disagio con una campagna di stampa diffamatoria, con danni morali di non poco conto”, tanto che lo stesso aveva chiesto ai giudici di avere un risarcimento danni di ben 600mila euro da don Marcello Cozzi.
La condanna per diffamazione invece obbliga don Cozzi e Leporace a versare 3mila euro a Cannizzaro a titolo del danno morale subito, oltre agli interessi legali e spese di giudizio. Per don Cozzi è stata aggiunta anche una pena pecuniaria di altri 3mila euro. Secondo i giudici, il referente di “Libera” ha oltrepassato il perimetro di legittimità del diritto di critica e cronaca con una ricostruzione dei fatti personale, senza dare atto del contenuto dei provvedimenti giudiziari che hanno preso posizione su quanto accaduto. Claudio Buono
Delitto Claps: le tappe della vicenda: Dalla scomparsa della ragazza alle motivazioni della Cassazione sulla condanna di Danilo Restivo
Redazione ANSA 10 settembre 2018
Queste le date più significative della vicenda relativa all'omicidio di Elisa Claps, conclusa con la condanna definitiva a 30 anni di reclusione per Danilo Restivo:
12 settembre 1993: è domenica, intorno alle ore 12.45 si perdono le tracce della studentessa potentina di 16 anni.
10 settembre 1994: per false dichiarazioni viene arrestato Danilo Restivo, il ragazzo di 21 anni, che per ultimo ha incontrato la studentessa nella chiesa della Santissima Trinità di Potenza.
6 ottobre 1994: un vigile urbano di Policoro (Matera) dice che Elisa si trova in Albania, ma dopo pochi giorni sfuma la ''pista albanese''.
7 marzo 1995: Restivo viene condannato per false dichiarazioni.
11 maggio 1999: su un sito voluto dalla famiglia, arriva un falso messaggio scritto da Elisa, che raccontava di trovarsi in Sudamerica. Gli investigatori scoprono che l'ha scritto Restivo.
12 novembre 2002: in Inghilterra, una sarta, Heather Barnett, viene uccisa e seviziata. Scotland Yard indaga per omicidio Restivo (vicino di casa della donna) che si è trasferito a Bournemouth.
14 settembre 2009: gli agenti inglesi sono a Potenza per interrogare alcune persone coinvolte nel caso Claps.
17 marzo 2010: nella chiesa della Santissima Trinità vengono trovati resti umani: sono di Elisa Claps. Ma il cadavere potrebbe essere stato scoperto già qualche tempo prima e il fatto taciuto.
20 maggio 2010: Restivo è arrestato in Inghilterra e formalmente imputato per l'omicidio di Heather Barnett.
26 maggio 2010: Giovanni Di Stefano, il legale di Omar Benguit, l'uomo condannato all'ergastolo in Gran Bretagna per l'omicidio della studentessa coreana 'Oki', chiede al Tribunale di Bournemouth l'incriminazione di Danilo Restivo anche per questo caso.
27 maggio 2010: La magistratura di Salerno dispone l'arresto di Restivo, ritenendolo responsabile dell'uccisione di Elisa Claps.
8 novembre 2010: Restivo compare davanti alla Crown Court di Winchester e si dice ''non colpevole'' per l'omicidio Barnett. Il processo a suo carico viene fissato per il 4 maggio 2011.
9 marzo 2011: dalla superperizia dei Ris emerge che sulla maglia di Elisa Claps e' stato trovato il dna di Restivo.
13 aprile: arriva una nuova conferma dalla perizia dei Ris. Il dna trovato sulla maglia di Elisa Claps appartiene a Restivo ''al di là di ogni ragionevole dubbio''.
18 aprile: a Salerno comincia l'incidente probatorio. Partecipa anche la madre di Elisa Claps, Filomena Iemma.
11 maggio: prima udienza davanti alla Crown Court di Winchester per l'omicidio Barnett. Restivo è in aula.
13 maggio: la Procura di Salerno chiude le indagini preliminari per l'omicidio Claps. L'unico indagato è Danilo Restivo.
3 giugno: la Procura di Salerno chiede il rinvio a giudizio per Danilo Restivo. L'accusa è di omicidio volontario pluriaggravato 29 giugno: il Gup Elisabetta Boccassini accoglie la richiesta di rito abbreviato per Danilo Restivo
30 giugno: Danilo Restivo viene condannato all'ergastolo per l'assassinio di Heather Barnett il 12 novembre 2002 a Bournemouth nel Dorset. Lo decide il giudice inglese Michael Bowes.
2 luglio: a 18 anni dalla sua scomparsa, a Potenza in piazza don Bosco si svolgono i funerali di Elisa.
11 novembre 2011: Danilo Restivo e' condannato a 30 anni di reclusione al termine del processo a suo carico, con rito abbreviato. Poco dopo Restivo cambia difensori: al posto di Mario e Stefania Marinelli arrivano Alfredo Bargi e Marzia Scarpelli.
11 marzo 2013: Restivo arriva in Italia, in regime di estradizione provvisoria dalla Gran Bretagna, per partecipare al processo d'appello.
16 aprile: nel corso del processo di secondo grado, Restivo ribadisce la sua innocenza, porge le sue condoglianze alla famiglia Claps ed esprime il desiderio di ''poter portare dei fiori sulla tomba di Elisa''. La madre della vittima lascia l'aula. La Corte conferma la condanna a 30 anni di reclusione.
23 ottobre 2014: Ultimo atto in Cassazione: la Suprema Corte esclude l'aggravante della crudeltà, ma conferma la pena di 30 anni di reclusione. La sentenza diventa così irrevocabile.
12 febbraio 2015: La Cassazione deposita le motivazioni della sentenza irrevocabile nei confronti di Restivo. Scrivono i giudici: delitto di "straordinaria gravità" compiuto da una persona pienamente capace "di intendere e volere", come provano anche "la lucida strategia difensiva posta in essere" e "l'autocontrollo mostrato in giudizio".
Dalla scomparsa alla condanna di Restivo: tutte le tappe della vicenda Claps. Dubbi e certezze di una tragedia iniziata una domenica di oltre vent’anni fa. La Stampa il 23 Ottobre 2014
12 settembre 1993
In una domenica mattina, intorno alle ore 12.45, si perdono le tracce della studentessa potentina di 16 anni. Era uscita poco più di un’ora prima con l’amica Eliana De Cillis: quest’ultima dichiarerà poi di averla lasciata poco dopo, perché Elisa doveva incontrare, proprio nella chiesa della Santissima Trinità un ragazzo, Danilo Restivo. Il giovane raccontò agli investigatori (e ha sempre ripetuto) di aver parlato con la Claps per pochi minuti e di averla salutata intorno a mezzogiorno. La ragazza fu vista per l’ultima volta poco meno di un’ora dopo, da un suo coetaneo che abitava nel suo stesso edificio. Poi, svanì: tre quarti d’ora dopo le 13 Restivo si fece medicare nell’ospedale San Carlo di Potenza per una ferita ad una mano, che disse di essersi procurato cadendo.
22 dicembre 1993
Viene arrestato per false dichiarazioni un ragazzo albanese, Eris Gega, di 20 anni, che, secondo un testimone, era con Elisa intorno alle 13.45. Sarà scarcerato il 12 gennaio 1994.
10 settembre 1994
Sempre per false dichiarazioni, viene arrestato Danilo, il ragazzo di 21 anni, che per ultimo
ha incontrato la studentessa nella chiesa della Santissima Trinità di Potenza.
6 ottobre 1994
Un vigile urbano di Policoro (Matera) dice che Elisa si trova in Albania, ma dopo pochi giorni sfuma la ’’pista albanese’’.
7 marzo 1995
Restivo viene condannato per false dichiarazioni.
11 maggio 1999
Su un sito voluto dalla famiglia, arriva un falso messaggio scritto da Elisa, che raccontava di trovarsi in Sudamerica. Gli investigatori scoprono che l’ha scritto Restivo.
12 novembre 2002
In Inghilterra, una sarta, Heather Barnett, viene uccisa e seviziata. Scotland Yard indaga per omicidio Restivo (vicino di casa della donna) che si è trasferito a Bournemouth. Il 30 giugno 2011 Danilo viene condannato all’ergastolo: secondo il giudice ha ucciso senza ombra di dubbio anche Elisa.
14 settembre 2009
Gli agenti inglesi sono a Potenza per interrogare alcune persone coinvolte nel caso Claps.
17 marzo 2010
Nella chiesa della Santissima Trinità, durante lavori di ristrutturazione per infiltrazioni d’acqua, vengono trovati resti umani, oltre a un orologio, alcuni vestiti e i resti di un paio di occhiali. Con molta probabilità sono di Elisa. I parenti la giudicano una messa in scena, ritenendo che fosse avvenuto in precedenza e tenuto nascosto dal parroco della chiesa, don Mimì Sabia, che non ha mai permesso ai genitori di «vedere l’interno della chiesa».
25 ottobre 2010
Dopo numerose perizie, gli esperti sostengono che i sassolini provenienti dal sottotetto e presenti nel solco del tacco della Claps dimostrano che Elisa arrivò viva, camminando, e che poi fu uccisa lì. Elisa sarebbe stata colpita con una forbice di medie dimensioni e da una lama tagliente; l’aggressore si accanì tagliando, probabilmente rivoltandone anche il corpo.
2 luglio 2011
Viene officiato il funerale di Elisa da don Marcello Cozzi (coordinatore della rete Libera) e da don Luigi Ciotti. Per la giornata viene proclamato il lutto cittadino.
8 novembre 2011
Presso il Tribunale di Salerno, ha inizio il processo a Danilo Restivo, con rito abbreviato. Dal momento che i reati più gravi a suo carico sono già tutti prescritti, su richiesta dei pm, i giudici lo condannano a 30 di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e la libertà vigilata per tre anni a fine pena, oltre al versamento di € 700.000 alla famiglia Claps.
20 marzo 2013
Comincia il processo d’appello dopo l’estradizione temporanea di Restivo in Italia.
24 aprile 2013
La Corte di Appello di Salerno respinge la tesi della difesa e conferma la condanna a 30 anni di carcere. Gli avvocati: ricorso in Cassazione.
23 ottobre 2014
La Cassazione conferma i 30 anni di carcere per Danilo Restivo. Sparisce l’aggravante della crudeltà per mancanza di prova, ma la pena non cambia.
Omicidio di Elisa Claps. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
L'omicidio di Elisa Claps è un fatto di cronaca nera in cui fu vittima una studentessa, nata a Potenza il 21 gennaio 1977 e uccisa a sedici anni. Scomparve nella città natale il 12 settembre 1993, e se ne persero le tracce per oltre sedici anni fino a quando il cadavere della ragazza fu rinvenuto nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza il 17 marzo 2010. Le indagini successive appurarono che la morte della giovane avvenne lo stesso giorno della sua scomparsa per mano di Danilo Restivo, che, nel periodo in cui la sorte di Elisa Claps era ancora sconosciuta, fu giudicato colpevole anche dell'uccisione, compiuta nel 2002 in territorio britannico, di una vicina di casa, Heather Barnett.
Storia
Elisa Claps, ultimogenita di tre figli nati da un commerciante e un'impiegata, era una studentessa al terzo anno del liceo classico di Potenza. La mattina di domenica 12 settembre 1993 Elisa uscì di casa per recarsi a una funzione religiosa nella vicina chiesa insieme ad un'amica, promettendo a Gildo, uno dei due fratelli maggiori, che sarebbe rientrata entro le ore 13 per raggiungere la famiglia nella casa di campagna dei Claps, a Tito, e pranzare tutti insieme.
Secondo le testimonianze, la giovane aveva in realtà concordato con l'amica in questione di recarsi presso la chiesa della Santissima Trinità, sita nel centro di Potenza, per incontrare un amico che doveva consegnarle un regalo per festeggiare la promozione agli esami di riparazione. Da quel momento di lei si persero le tracce.
Le indagini
L'inchiesta venne inizialmente assegnata alla Procura della Repubblica di Potenza e il caso affidato alla PM Felicia Genovese. Fu scoperto che la persona incontrata da Elisa era Danilo Restivo, ventunenne originario di Erice, Sicilia, trasferitosi da ragazzino a Potenza con la famiglia, dove il padre Maurizio aveva assunto l'incarico di direttore della Biblioteca nazionale potentina. Restivo risultò essere stato l'ultima persona ad aver visto la ragazza; la ricostruzione dei suoi spostamenti dopo l'incontro, che il giovane fece ascoltato dagli inquirenti, fece sorgere alcuni sospetti nei suoi confronti.
Alcune ore dopo la sparizione di Elisa infatti Restivo si presentò con gli abiti insanguinati al Pronto Soccorso dell'ospedale cittadino per farsi medicare un taglio alla mano, raccontando ai medici d'essersi ferito in seguito ad una caduta accidentale avvenuta nel cantiere vicino alla chiesa della Santissima Trinità, dove si stavano costruendo delle scale mobili. La ferita, tuttavia, sembrò essere stata provocata da una lama. I vestiti che il giovane indossava quella domenica apparvero vistosamente insanguinati, ma non vennero sequestrati immediatamente; Restivo si rese irreperibile per i due giorni successivi giustificandosi con la necessità di aver dovuto sostenere un esame universitario a Napoli. Una volta rintracciato dagli inquirenti Restivo affermò di aver parlato con Elisa per qualche minuto, chiedendole consiglio su come comportarsi con una comune amica della quale s'era innamorato e che, inoltre, Elisa gli avrebbe confidato che fosse spaventata a causa di un individuo che l'aveva importunata mentre stava entrando in chiesa; dopodiché, secondo il racconto di Restivo, la ragazza si sarebbe allontanata mentre lui s'era trattenuto a pregare.
Gli inquirenti scoprirono che Restivo aveva l'abitudine di importunare le ragazze delle quali si invaghiva, effettuando spesso telefonate mute nelle quali si sentiva la colonna sonora del film Profondo rosso o il brano Per Elisa di Beethoven. Un'altra abitudine di Restivo era quella di tagliare di nascosto ciocche di capelli a giovani donne con un paio di forbici, che portava sempre con sé. Alcune amiche di Elisa dichiararono che Restivo aveva tentato di corteggiarla senza successo e che era abitudine del giovane cercare di ottenere appuntamenti dalle ragazze da cui era attratto con la scusa di offrire piccoli doni, diventando poi aggressivo e violento nel momento in cui queste rifiutavano i suoi approcci.
Quando apprese che la giovane aveva avuto un appuntamento con Restivo, la madre di Elisa focalizzò la sua attenzione contro il ragazzo, dichiarando che, con ogni probabilità, Danilo aveva ucciso Elisa e ne aveva occultato il corpo. La donna perciò chiese ripetutamente agli inquirenti d'indagare a fondo su Restivo, ma senza esito.
Nel frattempo, nel 2002, il fratello di Elisa, Gildo, in accordo con tutta la famiglia, ebbe l'idea di creare la prima associazione dei familiari delle persone scomparse: l'Associazione Penelope.
Il ritrovamento del cadavere
Il 17 marzo 2010, diciassette anni dopo la sparizione, i resti di Elisa Claps vennero ritrovati occultati in fondo al sottotetto della chiesa potentina della Santissima Trinità (la stessa dove Elisa si era recata il giorno della scomparsa). Il cadavere venne scoperto per caso da alcuni operai durante lavori di ristrutturazione per infiltrazioni d'acqua; oltre ai resti umani, vennero trovati anche un orologio, gli occhiali, gli orecchini, i sandali e quel che resta dei vestiti della giovane. Il reggiseno appariva tagliato ed i jeans aperti, suggerendo che la ragazza avesse subito un'aggressione a sfondo sessuale prima di essere uccis.
Il ritrovamento venne giudicato dai familiari della vittima una messa in scena, ritenendo che fosse avvenuto in precedenza e che fosse stato tenuto nascosto dal parroco della chiesa, don Domenico "Mimì" Sabia; la madre di Elisa dichiarò di sospettare del religioso, poi deceduto nel 2008, perché non le avrebbe mai permesso di ispezionare i locali della chiesa mentre il fratello di Elisa chiese al vescovo di Potenza di «dire finalmente la verità su quanto accaduto».
Particolare scalpore derivò anche dal fatto che, appurata la circostanza del ritrovamento del cadavere da parte del viceparroco alcuni mesi prima della sua segnalazione, questi abbia affermato di aver taciuto il fatto poiché a detta dello stesso quel giorno l'Arcivescovo era impegnato e non riuscì a raggiungerlo telefonicamente, decidendo di riprovare il giorno dopo, cosa che non fece perché gli passò di mente. Maggiori dettagli su come si giunse alla scoperta del cadavere trapelarono solo in seguito, quando – a gennaio 2013 – si chiusero le indagini della magistratura sulle due donne delle pulizie che avevano avvertito il parroco della scoperta fatta nel sottotetto, e che rilasciarono dichiarazioni discordanti.
Il 19 maggio 2010 Danilo Restivo, nel frattempo trasferitosi in Inghilterra a Bournemouth, nel Dorset, venne fermato dalla polizia con l'accusa di omicidio volontario con riferimento al brutale assassinio del 2002 ai danni dell'allora sua vicina di casa, la sarta Heather Barnett. Da tempo era tenuto sotto controllo e pedinato dalla polizia locale, che lo aveva anche ripreso mentre in una zona boschiva – armato di uno stiletto – pedinava con atteggiamento sospetto donne inglesi.
Alla data del 28 maggio 2010 i risultati dell'autopsia sui resti del corpo di Elisa Claps erano ancora secretati ma gli inquirenti comunicarono che Elisa Claps era stata raggiunta da 13 colpi inferti da un'arma da taglio e a punta.
Il 29 giugno 2010 alcune foto contenute nella perizia medico legale filtrarono alla stampa. Il 6 luglio 2010 Vincenzo Pascali, direttore dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, riferì ai consulenti delle parti che dalle tracce di sperma trovate sul materasso posto vicino al cadavere erano stati estratti due profili genetici – diversi tra loro – e su uno strofinaccio sequestrato nei locali del centro culturale Newman (che ha sede nella canonica, sotto al sottotetto) si riuscì ad estrarre un terzo profilo genetico sovrapponibile ad uno di quelli individuati sul materasso. Pertanto, sarebbe stato possibile risalire a due individui di sesso maschile che utilizzarono tale materasso come alcova.
Il 12 settembre 2010, a Potenza, si tenne una manifestazione a ricordo di Elisa Claps da parte dell'associazione Libera, con centinaia di cittadini che scesero in piazza per chiedere giustizia. Il fratello Gildo dichiarò che nel 1996 nel sottotetto della chiesa della Trinità – per la durata di circa un anno – si tennero dei lavori durante i quali l'impresa appaltatrice "incernierò dei cassettoni proprio in corrispondenza del cadavere di mia sorella. Ridicolo pensare che nessuno abbia mai visto niente"; sostenne inoltre che nel 2008 qualcuno doveva aver rimosso del materiale che copriva il corpo. Pertanto chiese conto di ciò al vescovo ritenendo che doveva sapere qualcosa oppure che non fosse in grado di gestire i membri della sua Diocesi, concludendo con l'opinione: "Il ritrovamento è stato solo una messinscena".
In quella stessa occasione Don Marcello Cozzi, referente locale di Libera, invocò l'intervento dell'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per chiedere conto al Consiglio Superiore della Magistratura, da lui presieduto, dell'operato di Felicia Genovese, il PM che coordinò le indagini nel periodo potentino, in quanto sospettata di aver volontariamente insabbiato il caso. La stessa però venne successivamente prosciolta dall'accusa. Il caso era comunque stato trasferito alla Procura di Salerno. Si era inoltre più volte occupata del caso la trasmissione Rai Chi l'ha visto?, con uno specifico intervento sinottico di Marco Travaglio.
L'8 ottobre 2010 il GIP di Salerno, Attilio Franco Orio, in accoglimento della richiesta dei PM titolari dell'inchiesta che domandavano una seconda perizia sui resti di Elisa, Rosa Volpe e Luigi D'Alessio, fissò per il 18 ottobre un secondo incidente probatorio per il conferimento del quesito al CTU, il comandante del RIS di Parma, il tenente colonnello dei Carabinieri Giampietro Lago.
Il 25 ottobre 2010 vennero rese note alcune risultanze aggiuntive: i clasti (sassolini) provenienti dal sottotetto e presenti nel solco del tacco di Elisa Claps dimostravano che Elisa arrivò viva, camminando, nel luogo dove fu poi uccisa; la giovane successivamente sarebbe stata colpita con una forbice di medie dimensioni e da una lama tagliente; l'aggressore si accanì tagliando, probabilmente rivoltandone anche il corpo, per un tempo relativamente lungo dopo l'aggressione, con Elisa moribonda o già morta; il bottone rosso trovato vicino al suo cadavere potrebbe essere appartenuto con molta probabilità a un abito cardinalizio; i fori presenti nel tavolato posto sotto le tegole, in corrispondenza del luogo di ritrovamento del cadavere, risultavano praticati con un cacciavite spaccato, di piccole dimensioni, e fecero pensare a operazioni condotte senza metodo per creare frettolosamente una feritoia nel sottotetto allo scopo di far disperdere i miasmi. Fu condotta una perizia dattiloscopica sui dodici reperti prelevati nel sottotetto della chiesa Santissima Trinità, per comparare le impronte digitali trovate sugli oggetti repertati con quelle di Danilo Restivo. Venne inoltre prelevato un campione di DNA rinvenuto sulla maglia indossata dalla vittima, che dalle analisi risultò appartenere a Restivo.
Il 9 marzo 2011 nel corso della puntata di Chi l'ha visto? l'avvocato della famiglia Claps precisò che sulla maglia erano state ritrovate tracce di sangue e di saliva appartenenti a Restivo. Il 2 luglio 2011 venne officiato il funerale di Elisa da don Marcello Cozzi e da don Luigi Ciotti. In occasione dell'evento venne proclamato il lutto cittadino. Su espresso desiderio dei familiari della ragazza, le esequie si tennero all'aperto.
Processi
Il processo in Inghilterra
Il 30 giugno 2011 Danilo Restivo venne condannato all'ergastolo dalla Crown Court (tribunale) di Winchester per l'assassinio di Heather Barnett, uccisa il 12 novembre 2002 a Charminster, un villaggio del Dorset nei pressi di Bournemouth.
Restivo infatti si era trasferito in quel villaggio, diventando vicino di casa di Heather. La donna venne trovata assassinata nella propria abitazione e le indagini portarono a ipotizzare il coinvolgimento dell'uomo, pista alimentata dal fatto che la dinamica dell'omicidio presentasse delle analogie con quelle che portarono alla morte di Elisa. A complicare ulteriormente la posizione di Restivo fu la scoperta di atteggiamenti sospetti da parte dell'uomo che collezionava ciocche di capelli di giovani donne, abitudine che praticava quando ancora viveva in Italia; alcuni campioni infatti vennero ritrovati nelle rispettive scene del crimine.
Nel pronunciare la sentenza - in cui si afferma che senza ombra di dubbio Restivo ha ucciso anche Elisa Claps - il giudice Michael Bowes ha inoltre detto a Restivo: "Lei non uscirà mai di prigione [...]. Lei è recidivo. È un assassino freddo, depravato e calcolatore [...] che ha ucciso Heather come ha fatto con Elisa [Claps, n.d.r.] [...]. Ha sistemato il corpo di Heather come fece con quello di Elisa. Le ha tagliato i capelli, proprio come Elisa [...]. Merita di stare in prigione per tutta la vita".
Danilo Restivo sta scontando la pena in Inghilterra con una condanna a 40 anni di carcere per l'omicidio di Heather Barnett, avvenuto successivamente al delitto Claps, quando l'imputato si era già trasferito nel Regno Unito.
Il primo processo in Italia
L'8 novembre 2011, presso il Tribunale di Salerno, ha inizio il processo di primo grado a Danilo Restivo, con rito abbreviato. Nel corso della prima udienza i PM, facendo notare che i reati concorrenti più gravi a carico di Restivo - che avrebbero potuto far scattare l'ergastolo - sono tutti prescritti, avanzano la richiesta di 30 anni di reclusione, ossia il massimo possibile, unitamente all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e tre anni di libertà vigilata al termine dell'espiazione della pena. L'11 novembre 2011 Restivo viene condannato a 30 anni di carcere, l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e la libertà vigilata per tre anni a fine pena, oltre al versamento di 700000 € alla famiglia Claps a titolo di risarcimento.
Il processo di appello, iniziato a Salerno il 20 marzo 2013 e celebrato in presenza di Restivo (dall'11 marzo 2013 estradato temporaneamente in Italia), si conclude il 24 aprile 2013 con la conferma della condanna a trent'anni per Restivo, il quale sconterà la pena dell'ergastolo in Inghilterra. Il 23 ottobre 2014 la Corte di Cassazione conferma in via definitiva la condanna a 30 anni inflitta nei confronti di Restivo nei precedenti gradi di giudizio.
L'inchiesta-bis in Italia
Anche dopo la sentenza di condanna per Restivo a trent'anni, resta ancora aperta l'indagine della Procura di Salerno sulla scomparsa di Elisa Claps, sulle modalità del ritrovamento del cadavere e su eventuali complicità di cui avrebbe beneficiato Restivo. L'11 novembre 2011 l'avvocato della famiglia Claps, prima della lettura della sentenza, ha sottolineato come per l'omicidio di Elisa, Danilo Restivo non avrà l'ergastolo "per colpa della Chiesa che, in questi 18 anni, ha permesso che fossero prescritti i reati concorrenti" di violenza sessuale e occultamento di cadavere. Lo stesso GUP Boccassini in primo grado aveva scritto nella sua sentenza di "condotte di inquinamento probatorio imputabili a famigliari e terzi", di omissioni gravi.
Fu annunciato il processo per falsa testimonianza di due donne delle pulizie della Curia potentina, in quanto mentirono affermando di aver scoperto i resti di un cadavere nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità solo il 17 marzo 2010 mentre vi sono evidenze che inducono la Procura a ritenere che da mesi sapessero che là vi era un cadavere. Due giornalisti, Pierangelo Maurizio del TG5 e Fabio Amendolara della Gazzetta del Mezzogiorno, hanno scoperto che dell'omicidio si era occupato il Sisde, servizio segreto civile, e che sul caso c'era il segreto di Stato. Per queste scoperte, Amendolara è anche stato perquisito più volte su disposizione della magistratura di Salerno che era alla ricerca delle sue fonti.
Riapertura della chiesa della Santissima Trinità
Nel 2022 la famiglia Claps si oppone all'avvenuta riapertura al culto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, ritenendo che in tale edificio non siano state fatte tutte le indagini necessarie per giungere alla verità e che parte di essa rimanga sepolta in tale chiesa coperta da una cortina impenetrabile di omissioni e colpevoli silenzi.
L'omicidio di Elisa Claps nella cultura di massa
Documentari
Il delitto di Elisa Claps viene raccontato nel film documentario Libera nos a malo (2008), diretto da Fulvio Wetzl.
Podcast
Demoni Urbani: Per Elisa (2021), podcast di Francesco Migliaccio
Indagini: Potenza, 12 settembre 1993 (2022), podcast in due puntate a cura di Stefano Nazzi
Scena del crimine. Caso Claps, un giallo durato 17 anni: "Restivo poteva essere fermato prima". Francesca Bernasconi il 19 Settembre 2020 suIl Giornale.
Elisa Claps scomparve nel 1993. I suoi resti furono ritrovati dopo 17 anni nel sottotetto della chiesa dove fu vista per l'ultima volta. Per il suo omicidio, è stato condannato Danilo Restivo. Ma non tutti i nodi si sono sciolti
Aveva solo 16 anni quando scomparve. E la speranza che potesse essere ancora viva è rimasta flebilmente accesa per 17 anni, fino a quando i resti di Elisa Claps sono stati ritrovati nel sottotetto della chiesa Santissima Trinità di Potenza. Per la sua morte è stato condannato Danilo Restivo, ma il caso attorno alla scomparsa e al ritrovamento del corpo di Elisa rimane ancora in parte avvolto nel mistero.
La scomparsa di Elisa Claps
Il 12 settembre del 1993 era una domenica. Elisa Claps, una studentessa di 16 anni, che frequentava il terzo anno del liceo classico di Potenza, era uscita di casa insieme a un'amica, ma entro le 13.00 avrebbe dovuto rientrare per raggiungere la famiglia per il pranzo in campagna. Alle 11.30 si era allontanata dall'amica, Eliana, sostenendo di dover incontrare nella chiesa della Santissima Trinità Danilo Restivo, un ragazzo di qualche anno più grande che le aveva dato un appuntamento la sera prima per consegnarle un regalo. Da quel momento, di Elisa si persero le tracce. Restivo dichiarò successivamente a Chi l'ha visto? di aver incontrato la sedicenne in chiesa, dove si era appena conclusa la messa, ma sostenne di aver visto la ragazza allontanarsi verso la porta principale. "Io- aveva detto-mi sono soffermato in chiesa a pregare". Quando Elisa Claps non si presentò al pranzo, i famigliari si allarmarono: la 16enne era scomparsa. Gli investigatori l'hanno cercato ovunque, tranne nell'ultimo posto dove era stata vista, la chiesa. E infatti, Elisa Claps, era proprio lì, come si scoprirà nel 2010, al ritrovamento dei resti. "È surreale", commenta a ilGiornale.it Fabio Sanvitale, giornalista investigativo ed esperto di cold cases, che insieme all'esperto della scena del crimine Armando Palemegiani ha scritto il libro Il caso Elisa Claps. Storia di un serial killer e delle sue vittime. Ma perché gli inquirenti non perquisirono la chiesa? "Forse fu una forma di rispetto nei confronti del parroco- ipotizza Sanvitale - o l'incredulità in un possibile coinvolgimento della Chiesa". Il giorno della scomparsa, inoltre, il parroco era andato fuori città dopo le messe della mattina, per un viaggio già programmato e quando il fratello di Elisa, Gildo Claps, andò a cercarla in chiesa, la porta che conduce alla parte superiore era chiusa.
I sospetti su Danilo Restivo
Qualche ora dopo la scomparsa di Elisa, alle 13.45, Danilo Restivo si presentò al pronto soccorso dell'ospedale di Potenza per farsi medicare alla mano. Ai medici che gli chiesero spiegazioni, raccontò di essersi ferito cadendo da una scalinata, mentre si trovava, senza un motivo preciso, in uno dei cantieri delle scale mobili, all'epoca in costruzione. La versione del ragazzo, però, non convinse gli inquirenti, dato che "il lasso di tempo che rimane sguarnito di prova a causa delle sue false dichiarazioni corrisponde sinistramente a quello in cui si sono perse le tracce di Elisa Claps". Restivo, infatti, non era riuscito a spiegare i suoi spostamenti dalle 12.00 alle 13.30 di quel 12 settembre e rappresentava anche l'ultima persona ad aver visto la ragazza viva. Nonostante i sospetti, Restivo venne lasciato libero di andare a Napoli per un concorso, poi di lasciare Potenza e perfino l'Italia. Ai tempi della scomparsa di Elisa, il ragazzo era conosciuto per un gesto particolare, che spesso praticava ai danni di diverse ragazze: si appostava dietro di loro, solitamente mentre si trovavano a bordo dei bus, e tagliava delle ciocche di capelli.
Nel 1999 sembrarono riaccendersi le speranze di ritrovare Elisa: al sito dedicato alla ragazza dai familiari arrivò una mail, secondo cui la 16enne si trovava in Brasile, stava bene, ma non voleva rivedere la familia. In realtà, la mail risulterà spedita da Potenza e gli inquirenti sospetteranno proprio Danilo Restivo. Dieci anni dopo, nel 2009, l'informativa conclusiva della procura di Salerno indicò Danilo Restivo come unico accusato per l'omicidio preterintenzionale di Elisa Claps, in conseguenza a una pulsione sessuale.
I testimoni
Nel 1993, a scagionare Restivo, l'ultima persona ad aver visto viva la 16enne, intervennero involontariamente alcuni testimoni. Tre persone, infatti, dichiararono di aver visto Elisa viva, nel lasso di tempo in cui Danilo non aveva un alibi. Il primo dichiarò di averla vista alle 12.45, mentre usciva dalla porta laterale della chiesa, il secondo di averla vista passando in auto e il terzo di averla incrociata più tardi su una scalinata e di averla salutata. Per questo, gli inquirenti si convinsero che Elisa fosse uscita viva dopo l'incontro con Danilo: "Fu un inghippo imprevedibile - spiega Sanvitale - che avrebbe fatto fare confusione a chiunque. Si è trattato di testimoni che, in buona fede, si sono sbagliati. Anche per questo fu difficile venire a capo del caso". Si scoprì, poi, che le versioni dei testimoni erano traballanti e presentavano alcune incongruenze. Il primo, infatti, aveva visto Elisa uscire dalla chiesa con la coda dell'occhio, mentre camminava, segno che poteva facilmente essersi sbagliato. Il secondo descrisse il motorino di Eliana, che però quel giorno non era stato usato dalla ragazza, mentre il terzo dichiarò di aver salutato Elisa, senza aver ricevuto risposta. Quella ragazza, quindi, non era la Claps. Anche l'orario riferito dall'ultimo testimone non combaciava e lasciava aperti i dubbi: Gildo, infatti, all'ora dichiarata dall'uomo, era in fondo alla stessa scalinata e dichiarò di non averlo incontrato. Inoltre, in testimonianze successive, l'orario dell'avvistamento fu cambiato: "Probabilmete, il testimone aveva confuso un momento verificatosi precedentemente, collocandolo la mattina della scomparsa di Elisa", spiega Sanvitale, ricordando come spesso i testimoni oculari siano poco attendibili, perché in generale i ricordi sono molto labili e la memoria è "totalmente e continuamente fallace". "Queste testimonianze hanno fornito un'alibi a Restivo", mandando in confusione le indagini, perché gli inquirenti non hanno colto e approfondito i "campanelli d'allarme" che indicavano le incongruenze.
Il caso di omicidio in Inghilterra
Nel frattempo, Restivo si era stabilito in Inghilterra, a Bournemouth, cittadina a sud ovest di Londra. In quel periodo, proprio nella casa di fronte a quella dove l'uomo abitava con la moglie, era stato scoperto un omicidio: il 12 novembre del 2002, la sarta 48enne Heather Barnett era stata trovata morta in casa. Il corpo era stato mutilato e nelle mani era state trovate due ciocche di capelli non appartenenti alla vittima. Gli inquirenti si erano concentrati su Restivo, che sembrava fosse già stato a casa della donna, per commissionarle delle tende: dopo quell'incontro Heather non era più riuscita a trovare le chiavi di casa e aveva dovuto cambiare la serratura. Inoltre, la strana coincidenza delle ciocche di capelli tagliati aveva fatto fiutare alla polizia inglese una possibile pista relativa a Danilo Restivo. Per questo, dopo un viaggio in Italia effettuato per conoscere i dettagli del caso Claps, gli investigatori avevano chiesto se ad altre donne fossero state tagliate ciocche di capelli a Bournemouth: 5 risposero affermativamente, due delle quali riconobbero Restivo come l'autore dello strano gesto. Il 19 maggio 2010, l'uomo venne fermato dagli agenti inglesi e accusato di omicidio e, il 30 giugno del 2011, venne condannato all'ergastolo. "Lei non uscirà mai di prigione", disse il giorno della sentenza il giudice Michael Bowes, sostenendo che Restivo uccise "Heather come ha fatto con Elisa", riferendosi al caso Claps.
Il ritrovamento dei resti
Il 17 marzo del 2010, nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, durante dei lavori di manutenzione, viene trovato un corpo. È la svolta del caso Claps. I resti, si scoprirà con l'esame del Dna, sono quelli di Elisa. Secondo il procuratore generale di Salerno, "Danilo Restivo uccise Elisa Claps il 12 settembre 1993 colpendola 12 volte al torace con un'arma da punta e taglio, dopo un approccio sessuale rifiutato dalla ragazza". Stando alla ricostruzione, dopo aver colpito Elisa, l'uomo ''l'ha trascinata in un angolo del sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, coprendo il cadavere con materiale di vario tipo, fra cui tegole e materiale di risulta''.
L'autopsia svolta sui resti ha rivelato che la 16enne venne uccisa "proprio la mattina del 12 settembre 1993, esattamente negli stessi luoghi in cui aveva incontrato Danilo Restivo. Il corpo è sempre rimasto nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, dove poi è stato trovato''. Dopo l'omicidio, l'assassino ha tagliato alcune ciocche di capelli. Le conclusioni della perizia, rese note anche da Ansa, che pubblicò il documento risalente al 10 aprile 2010, parlano di "almeno 12 lesioni da punta e taglio", sferrate presumibilmente in due momenti diversi. La ricostruzione, infatti, ipotizza "due momenti lesivi": nel corso del primo, la vittima avrebbe voltato le spalle all'aggressore, che la avrebbe colpita posteriormente, mentre nel secondo momento, l'omicida avrebbe colpito la ragazza ripetutamente. Inoltre, il fatto che la ragazza sia stata trovata con i pantaloni abbassati e il reggiseno slacciato e rotto fa "supporre che l'aggressione mortale possa essere accorsa nel corso di atti sessuali". Alla luce delle nuove rivelazioni, il 22 maggio 2010, fu emesso un mandato di arresto europeo per Danilo Restivo, accusato dell'omicidio di Elisa Claps.
Tra i reperti presi in considerazione dopo i sopralluoghi nel sottotetto, c'era anche la maglietta che Elisa indossava. Lì, la prima perizia genetica aveva trovato tracce di sangue misto, da cui venne estratto il Dna: oltre a quello della 16enne, c'era anche quello di Restivo. "Dentro di me l'ho sempre saputo - aveva commentato la mamma della vittima, Filomena Iemma - Elisa me l'ha sempre fatto capire. Quando sono usciti i primi risultati del professor Pascali, avevo tanta rabbia. Elisa mi aveva detto che su quella maglia bianca c'era la firma dell'assassino. Avevo chiesto due grazie: la prima era quella di riavere indietro i resti di Elisa, la seconda era avere la prova che Danilo fosse l'assassino". Il 13 maggio 2011, la procura chiude le indagini preliminari, con Restivo come unico indagato, e il 2 luglio i familiari possono finalmente dare l'ultimo saluto a Elisa Claps.
Ma attorno al ritrovamento dei resti della 16enne il mistero non è ancora del tutto risolto. Come spiega Fabio Sanvitale, infatti, "Elisa fu trovata prima". Quando trovarono il corpo nel 2010, sopra i resti c'erano alcune tegole come copertura, mentre altre erano appoggiate al muro, segno che qualcuno le tolse prima. Inoltre, qualche anno dopo la scomparsa, vennero fatti dei lavori per sistemare il soffitto a cassettoni della chiesa: uno dei perni inseriti si trovava a pochi centimetri dal braccio di Elisa. Non solo. La parrocchia ospitava anche un centro di aggregazione giovanile: come racconta Sanvitale, nella soffitta in cui è stata ritrovata Elisa, c'era anche un materasso, con evidenti segni di rapporti sessuali. Nessuno, però, accennò mai alla presenza di un corpo in soffitta. L'unica persona che provò a fare qualcosa fu il responsabile di una ditta, incaricata di portare via vecchi oggetti: l'uomo chiamò la polizia, indicando la presenza di un corpo negli scantinati della chiesa. La polizia, a quel punto, andò a perquisirli, ma ovviamente non trovò nulla, perché Elisa non era negli scantinati. Si trattò, forse, di un tentativo di far ritrovare la ragazza, spingendo gli inquirenti sulla pista giusta, ma senza parlare chiaramente. "Elisa poteva essere trovata 17 ore dopo la scomparsa, se si fosse perquisita la chiesa - spiega Sanvitale- o pochi anni dopo, se qualcuno avesse parlato".
I processi in Italia
Il 3 giugno 2011, la procura chiese il rinvio a giudizio per Danilo Restivo: l'accusa è di omicidio volontario aggravato. L'8 novembre dello stesso anno iniziò il processo in primo grado, svolto con rito abbreviato. Dati i molti anni passati dalla scomparsa di Elisa Claps, diversi reati risultarono prescritti e la possibilità dell'ergastolo venne esclusa, facendo richiesta per i 30 anni di carcere. E l'11 novembre 2011, Restivo venne condannato in primo grado a 30 anni. Oltre al carcere, all'uomo venne imposta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, 3 anni di libertà vigilata al termine della pena e il pagamento di 700mila euro come risarcimento.
Due anni dopo si svolse, a Salerno, il processo di secondo grado, che ebbe inizio il 20 marzo 2013. "Se veramente una sola volta, nella vita misera che ad oggi ha condotto, Danilo Restivo vorrà dire la verità e allora vale la pena sopportare l'ennesimo strazio di incontrarlo e di ascoltarlo", aveva dichiarato Gildo Claps, fratello di Elisa, il giorno prima dell'inizio del processo d'appello. L'11 marzo dello stesso anno, Restivo venne estradato temporaneamente in Italia (dall'Inghilterra, dove stava scontando la pena dell'ergastolo per l'omicidio di Heather Barnett) per poter essere presente al processo. Il 24 aprile 2013, il giudice d'appello condannò nuovamente l'uomo ai 30 anni di carcere, pena successivamente confermata anche dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 23 ottobre 2014. Nel libro, Sanvitale e Palemegiani parlano di Restivo come di un serial killer, perché "bastano omicidi con determinate caratteristiche per identificare l'assassino come un serial killer".
I misteri ancora da risolvere
L'assassino di Elisa Claps, ora, è stato trovato e molti dubbi sul caso sono stati sciolti. Ma qualcosa ancora non torna. Per esempio non è ancora chiaro il ruolo della moglie di Restivo, con cui viveva in Inghilterra: quanto conosceva il marito? Sapeva qualcosa degli omicidi? Poi c'è la questione dei presunti ritrovamenti precedenti la data ufficiale del 2010, e in generale dell'omertà attorno al caso Claps. Infine, rimane nebuloso anche il ruolo della famiglia di Restivo: sapeva dell'omicidio di Elisa? Ha fatto qualcosa per coprire il ragazzo? Quando Elisa scomparve, infatti, Danilo tornò a casa coi vestiti sporchi di sangue, che vennero poi lavati. Inoltre, quel giorno, padre, figlio e madre, si chiusero in una stanza per 15 minuti a parlare: cosa si sono detti? Danilo ha confessato l'omicidio? Domande che restano aperte e che avvolgono ancora il caso Claps nel mistero.
Secondo Fabio Sanvitale, quello che colpisce di più di questo caso è che "Restivo poteva essere fermato prima, la donna inglese avrebbe potuto salvarsi. Si poteva lavorare di più, nonostante le difficoltà". Non solo: "Danilo poteva essere fermato prima della morte di Elisa dalla famiglia". Già in passato, infatti, Restivo aveva mostrato dei comportamenti preoccupanti, da telefonate anonime o a sfondo sessuale, al taglio delle ciocche di capelli delle ragazze, fino al ferimento di un compagno di classe. Come risposta di questi comportamenti, la famiglia reagì allontanando il figlio o controllando la quantità delle sue telefonate. "Quello che sconvolge maggiormente è che in tanti avrebbero potuto dire, ma in questo caso, l'omertà delle persone si è incastrata con la chiusura della famiglia".
Elisa Claps, la storia dell’omicidio e quei capelli strappati diventati la firma dell’assassino. Chiara Nava il 13/09/2022 su Notizie.it.
Il 12 settembre 1993 Danilo Restivo ha ucciso Elisa Claps. Un uomo sociopatico, con l'ossessione dei capelli, che strappava alle sue vittime.
Il 12 settembre 1993 Elisa Claps è stata uccisa da Danilo Restivo, che aveva una forte ossessione per i capelli, che strappava alle sue vittime.
Elisa Claps, uccisa da Danilo Restivo nel 1993
Il 12 settembre 1993 Danilo Restivo ha ucciso Elisa Claps e ha lasciato il suo corpo senza sepoltura per 17 anni nella soffitta della chiesa della Santissima Trinità a Potenza, dove è stato trovato il 17 marzo 2010 durante dei lavori di manutenzione.
Elisa Claps venne uccisa quando era al primo anno del liceo classico, a soli 15 anni. Aveva una vita abitudinaria, frequentava la chiesa e le sue amiche. Non usciva con i ragazzi, ma trovava sempre il buono nelle persone che incontrava. Per questo si è fidata di Danilo, compaesano di 21 anni, che la corteggiava da tempo. Il giovane era considerato un ragazzo problematico, ma non pericoloso.
Dopo diversi appuntamenti declinati, l’11 settembre 1993 Danilo aveva chiesto di incontrare Elisa per darle un regalo.
La giovane è andata con l’amica Eliana verso la chiesa. Il 12 settembre tutta la famiglia Claps doveva pranzare fuori, in campagna. I genitori erano partiti presto, mentre Elisa e il fratello Gildo li avrebbero raggiunti per l’ora di pranzo. Elisa, però, non è mai uscita da quella chiesa. Danilo quel giorno è andato al pronto soccorso con gli abiti sporchi di sangue e una ferita alla mano e aveva detto di essersi ferito sulle scale mobili di un cantiere.
Nonostante fosse evidente che la ferita era dovuta ad un’arma da taglio, i suoi vestiti non sono mai stati sequestrati. Non si è mai realmente indagato a fondo su Danilo Restivo.
La scena del crimine e l’autopsia
Il corpo di Elisa è stato trovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza. Indossava ancora i suoi abiti sgualciti, aveva i sandali ai piedi e l’orologio al polso.
Il suo tessuto epidermico mostrava segni di tumefazione, ma era ancora conservato grazie alla parziale mummificazione. Elisa Claps è stata uccisa con dodici colpi inferti con un’arma da punta e da taglio, come svelato dall’autopsia. Nove coltellate sono state inferte posteriormente e tre anteriormente. Inizialmente la ragazza sarebbe stata colpita alle spalle, con colpi al collo e alla parte alta del torace. Quando si è accasciata a terra, Restivo l’ha colpita ancora. Anche le mani della ragazza presentavano tagli. Probabilmente ha subito un tentativo di violenza sessuale. Ad inchiodare Danilo Restivo sarebbe stata una traccia di sangue sulla maglietta di Elisa.
L’ossessione per i capelli e la personalità del serial killer
Danilo Restivo ha portato via con sé un feticcio. Ha tagliato alcune ciocche dei capelli di Elisa, due ciocche intrise di sangue recise dopo la morte. Quella sua ossessione per i capelli è diventata la firma dell’assassino, un uomo sociopatico, disturbato e con turbe sadiche. Quei capelli per lui avevano un significato preciso, quello di placare il suo bisogno di rivivere l’eccitazione dell’azione omicidiaria. Come ogni serial killer, Restivo ha concentrato l’interesse sessuale solo su una parte della vittima. Terminata l’azione, l’assassino entra in una fase depressiva e deve cercare un’altra vittima. Restivo tagliava anche i capelli delle donne sull’autobus.
Il serial killer ha avuto una relazione virtuale con Fiamma Marsango, donna residente nel Regno Unito e più vecchia di lui di 15 anni. Ha deciso di sposarla e di trasferirsi. Il 12 novembre 2002, nella casa di fronte alla sua, è stata trovata morta Heather Barnett, sarta di 48 anni. Il suo corpo è stato mutilato e nelle sue mani c’erano alcune ciocche di capelli. Danilo Restivo era stato a casa della donna per commissionarle delle tende e dopo quell’incontro Heather non aveva più trovato le chiavi di casa. Restivo è stato fermato a maggio 2010 per omicidio e condannato all’ergastolo.
I processi in Italia
L’8 novembre 2011 è iniziato anche in Italia il processo a carico di Danilo Restivo, con l’accusa di omicidio volontario aggravato. A causa della scelta del rito abbreviato e della prescrizione di alcuni reati, è stato condannato a 30 anni. Gli è stata imposta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, tre anni di libertà vigilata al termine della pena e il pagamento di 700 mila euro. Il processo di appello ha confermato la pena, che poi è stata confermata anche in Cassazione. Non è ancora chiaro come sia possibile che per 17 anni nessuno abbia scoperto il corpo i Elisa Claps in quella chiesa.
Caso Claps, la chiesa Trinità in cui fu ritrovato il suo corpo sarà riaperta al culto. La Repubblica il 19 Luglio 2022.
La chiesa della Santissima Trinità di Potenza - nel cui sottotetto, il 17 marzo 2010, fu scoperto il cadavere di Elisa Claps, la studentessa potentina scomparsa il 12 settembre 1993, quando aveva 16 anni - diventerà un nuovo centro di spiritualità: lo hanno deciso l'arcivescovo di Potenza Muro Lucano e monsignor Salvatore Ligorio, nell'ambito di una "riorganizzazione funzionale per rispondere ad esigenze pastorali che riguardano la comunità diocesana ma anche singole parrocchie".
Un'oasi di speranza dopo la morte di Claps
La chiesa - nella quale da alcuni anni sono in corso lavori di ristrutturazione che hanno riguardato anche l'annessa canonica, che è stata abbattuta e sarà ricostruita - alla fine degli interventi edilizi diventerà un'"oasi di fede e di speranza nel cuore del centro storico, monito muto a favore di una gioventù che merita più cura e più attenzione da parte della Chiesa e della società". A tale proposito, monsignor Ligorio ha affidato all'attuale parroco della cattedrale, don Antonio Savone, anche la responsabilità della parrocchia della Trinità.
La famiglia: "Offesa alla memoria di Elisa"
La famiglia di Elisa si è sempre opposta alla riapertura della chiesa. "La posizione della famiglia Claps rimane la stessa di sempre; non è ammissibile, con un colpo di spugna, cancellare 17 anni di omissioni e di menzogne offendendo la memoria di Elisa e la sensibilità di quanti non vorrebbero mai che in quella Chiesa si tornassero a celebrare funzioni religiose": rispose lo scorso anno Gildo Claps, fratello di Elisa, dopo l'annuncio fatto dall'arcivescovo di Potenza sui lavori nella chiesa della Santissima Trinità e sulla sua futura riapertura al culto.
Don Antonio Savone, attualmente guida della cattedrale di San Gerardo, "fin da oggi - è scritto in una nota della diocesi - avrà anche la responsabilità della parrocchia della Trinità appena la chiesa sarà aperta a conclusione dei lavori in corso". Al suo fianco opererà come co-parroco don Giovanni Caggianese. "La chiesa della Trinità - prosegue il comunicato -, con la recente storia alle sue spalle legata alla tragedia di Elisa Claps, avrà come specifico indirizzo pastorale quello di proporsi ai credenti, ai cercatori di Dio e ai cittadini tutti, come centro di spiritualità, di preghiera e di riflessione". Il corpo di Elisa fu ritrovato 17 anni dopo la sua scomparsa nel sottotetto della chiesa. Per il suo omicidio è stato condannato all'ergastolo Danilo Restivo.
Potenza, riapre la chiesa del caso Claps. Il fratello: "Offesa la memoria di Elisa". Anna Martino su La Repubblica il 16 marzo 2021. Nel 2010 nel sottotetto venne ritrovato il corpo della sedicenne uccisa. Il vescovo: "Speranza per la chiesa diocesana, per la città e per la mamma della cara Elisa con la quale ho avuto contatti assicurandole la mia vicinanza nella preghiera e informandola dell'evoluzione del progetto". La chiesa della Santissima Trinità sarà riaperta al culto. A darne notizia è il vescovo di Potenza, Salvatore Ligorio. Da alcuni giorni sono ripresi i lavori di restauro e consolidamento strutturale che si concluderanno, da previsioni, nella primavera del 2022. La spesa è di 2,4 milioni di euro, fondi in parte regionali e in parte della Conferenza Episcopale Italiana. "La posizione della famiglia Claps rimane la stessa di sempre; non è ammissibile, con un colpo di spugna, cancellare 17 anni di omissioni e di menzogne offendendo la memoria di Elisa e la sensibilità di quanti non vorrebbero mai che in quella Chiesa si tornassero a celebrare funzioni religiose": è la risposta, contenuta in una nota diffusa da Gildo Claps, fratello di Elisa, dopo l'annuncio fatto dall'arcivescovo di Potenza, monsignor Salvatore Ligorio, sui lavori nella chiesa della Santissima Trinità e sulla sua futura riapertura al culto. Gildo Claps ha criticato, definendola "di pessimo gusto", la scelta, nella nota firmata dall'arcivescovo di Potenza, di fare riferimento ai contatti con la madre, Filomena Iemma. "Su quanto accaduto dopo il 12 settembre del 1993 - ha concluso Claps - e all'alba del ritrovamento il 17 marzo 2010 non si è mai raggiunta una verità giudiziaria né tantomeno una verità storica e su questo punto la Curia potentina, prima di parlare di riapertura al culto ha l'obbligo morale di fare chiarezza". Nel centro di Potenza, la chiesa è un simbolo della città per motivi diversi. Monumento dal valore storico-artistico e luogo di culto, da undici anni è anche il luogo in cui venne ritrovato il corpo di Elisa Claps, la sedicenne scomparsa il 12 settembre del 1993 e del cui omicidio fu successivamente accusato Danilo Restivo, condannato definitivamente a 30 anni di carcere nel 2014. Una delle storie più dolorose del capoluogo lucano, una ferita profonda ancora non rimarginata. Il corpo di Elisa venne ritrovato il 17 marzo 2010 da due addette alle pulizie nel sottotetto della chiesa durante dei lavori di ristrutturazione. Le donne vennero accusate di false dichiarazioni e nel 2015 condannate a otto mesi di reclusione. La pena venne poi sospesa e in appello, nel 2018, il reato andò in prescrizione. Ma i dubbi sul ritrovamento del corpo della ragazza persistono. Ogni anno, in occasione dell'anniversario del giorno della sua scomparsa, Libera Basilicata lancia un appello affinché vengano svelati "i volti e i nomi dei protagonisti di quel giorno che ha cambiato la storia di Potenza", ha detto don Marcello Cozzi in uno dei suoi ultimi interventi. La riapertura al culto divide la città, fra favorevoli e contrari. Ligorio, nel sottolineare che la ripresa dei lavori nella chiesa della Santissima Trinità "è frutto del parere concorde dei vescovi lucani, che hanno sostenuto con convinzione la scelta di dare la precedenza a questo intervento", precisa anche di aver parlato del progetto con i familiari di Elisa: "Non mi sfugge la circostanza che questa nota viene inviata agli organi di informazione alla vigilia dell'undicesimo anniversario, il 17 marzo 2010, del ritrovamento del cadavere di Elisa Claps, che era scomparsa il 12 settembre 1993 - scrive il vescovo -. Si tratta di una coincidenza non voluta ma che tuttavia assume un certo significato, in particolare di speranza per la chiesa diocesana, per la città e per la mamma della cara Elisa con la quale ho avuto contatti assicurandole la mia vicinanza nella preghiera e informandola dell'evoluzione del progetto". Per la sconsacrazione della chiesa l'associazione e centro antiviolenza Telefono Donna anni fa ha avviato anche una petizione che ha raccolto un migliaio di firme.
Potenza, la chiesa della Trinità verrà riaperta. L'annuncio alla vigilia dell'anniversario del ritrovamento di Elisa Claps. Il vescovo Ligorio: "Si tratta di una coincidenza non voluta ma con un certo significato, di speranza". Gildo Claps, fratello di Elisa: "Non è ammissibile, con un colpo di spugna, cancellare 17 anni di omissioni e di menzogne". Il Quotidiano del Sud il 16 marzo 2021. Il vescovo di Potenza, Salvatore Ligorio, ha annunciato questa mattina che la chiesa della Trinità, nella quale sono iniziati i lavori nei giorni scorsi, verrà riaperta al culto nella primavera del 2022, quando si concluderanno i lavori di restauro e consolidamento strutturale. “Non mi sfugge la circostanza – dice il vescovo – che questa nota viene inviata agli organi di informazione alla vigilia dell’undicesimo anniversario (il 17 marzo 2010) del ritrovamento del cadavere di Elisa Claps, che era scomparsa il 12 settembre 1993. Si tratta di una coincidenza non voluta ma che tuttavia assume un certo significato, in particolare di speranza per la Chiesa diocesana, per la città e per la mamma della cara Elisa con la quale ho avuto contatti assicurandole la mia vicinanza nella preghiera e informandola dell’evoluzione del progetto”.
Una notizia accolta con indignazione dalla famiglia. “La posizione della famiglia Claps – ha spiegato Gildo – rimane la stessa di sempre; Non è ammissibile, con un colpo di spugna, cancellare 17 anni di omissioni e di menzogne offendendo la memoria di Elisa e la sensibilità di quanti non vorrebbero mai che in quella Chiesa si tornassero a celebrare funzioni religiose. Ritengo una scelta di pessimo gusto riportare la telefonata tra il vescovo Ligorio e mia madre, in cui si lascia intendere che la famiglia abbia espresso piena condivisone nella scelta di riaprire la Chiesa al culto al termine dei lavori stessi. Senza entrare nel merito del fatto che mamma ritenesse la telefonata di natura privata – conclude Gildo – mi vedo costretto a chiarire che il contenuto del colloquio ha riguardato semplicemente la notizia della necessità di intervenire nella ristrutturazione della Chiesa, nessun riferimento è stato fatto rispetto a quale sarà la destinazione futura una volta completati i lavori”.
Caso Elisa Claps: dopo i lavori chiesa Trinità riaprirà al culto. Fratello: «Un'offesa alla memoria». Il vescovo del capoluogo lucano: «Ho parlato con la madre di Elisa». La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Marzo 2021. Nella chiesa della Santissima Trinità di Potenza - nel cui sottotetto il 17 marzo 2010 fu trovato il cadavere di Elisa Claps, scomparsa a 16 anni nel 1993 - sono cominciati lavori di restauro e consolidamento strutturale che dureranno fino alla primavera 2022. Successivamente, la chiesa, che è chiusa da undici anni, sarà riaperta al culto. Lo ha annunciato l’arcivescovo di Potenza, monsignor Salvatore Ligorio. Per l’omicidio di Claps, avvenuto lo stesso giorno della scomparsa, è stato condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione Danilo Restivo, attualmente detenuto in Inghilterra per l’assassinio di un’altra donna, Heather Barnett, compiuto quando l’uomo, originario del Potentino, aveva lasciato l’Italia e si era trasferito Oltremanica. I lavori nella chiesa costeranno circa 2,4 milioni di euro: "I fondi - ha precisato monsignor Ligorio - sono di origine regionale e della Conferenza Episcopale Italiana». Una volta riaperta al culto, la chiesa parrocchiale della Trinità si inserirà «nel quadro della riorganizzazione pastorale prevista per il centro storico di Potenza», ha spiegato. «Ho avuto contatti con la mamma della cara Elisa Claps, assicurandole la mia vicinanza nella preghiera": lo ha reso noto l’arcivescovo di Potenza, monsignor Salvatore Ligorio, parlando dell’inizio dei lavori di restauro e consolidamento della chiesa della Santissima Trinità del capoluogo lucano dove - il 17 marzo 2010 - fu trovato il cadavere della studentessa sedicenne. Nei colloqui con Filomena Iemma - la madre di Elisa, scomparsa il 12 settembre 1993 - monsignor Ligorio l’ha informata dell’inizio dei lavori.
FRATELLO DI ELISA: UN'OFFESA ALLA SUA MEMORIA - «La posizione della famiglia Claps rimane la stessa di sempre; non è ammissibile, con un colpo di spugna, cancellare 17 anni di omissioni e di menzogne offendendo la memoria di Elisa e la sensibilità di quanti non vorrebbero mai che in quella Chiesa si tornassero a celebrare funzioni religiose": è la risposta, contenuta in una nota diffusa da Gildo Claps, fratello di Elisa, dopo l’annuncio fatto dall’arcivescovo di Potenza, monsignor Salvatore Ligorio, sui lavori nella chiesa della Santissima Trinità e sulla sua futura riapertura al culto. Gildo Claps ha criticato, definendola «di pessimo gusto», la scelta, nella nota firmata dall’arcivescovo di Potenza, di fare riferimento ai contatti con la madre, Filomena Iemma. «Su quanto accaduto dopo il 12 settembre del 1993 - ha concluso Claps - e all’alba del ritrovamento il 17 marzo 2010 non si è mai raggiunta una verità giudiziaria né tantomeno una verità storica e su questo punto la Curia potentina, prima di parlare di riapertura al culto ha l’obbligo morale di fare chiarezza».
Caso Claps, un giallo durato 17 anni: "Restivo poteva essere fermato prima". Elisa Claps scomparve nel 1993. I suoi resti furono ritrovati dopo 17 anni nel sottotetto della chiesa dove fu vista per l'ultima volta. Per il suo omicidio, è stato condannato Danilo Restivo. Ma non tutti i nodi si sono sciolti. Francesca Bernasconi, Sabato 19/09/2020 su Il Giornale. Aveva solo 16 anni quando scomparve. E la speranza che potesse essere ancora viva è rimasta flebilmente accesa per 17 anni, fino a quando i resti di Elisa Claps sono stati ritrovati nel sottotetto della chiesa Santissima Trinità di Potenza. Per la sua morte è stato condannato Danilo Restivo, ma il caso attorno alla scomparsa e al ritrovamento del corpo di Elisa rimane ancora in parte avvolto nel mistero.
La scomparsa di Elisa Claps. Il 12 settembre del 1993 era una domenica. Elisa Claps, una studentessa di 16 anni, che frequentava il terzo anno del liceo classico di Potenza, era uscita di casa insieme a un'amica, ma entro le 13.00 avrebbe dovuto rientrare per raggiungere la famiglia per il pranzo in campagna. Alle 11.30 si era allontanata dall'amica, Eliana, sostenendo di dover incontrare nella chiesa della Santissima Trinità Danilo Restivo, un ragazzo di qualche anno più grande che le aveva dato un appuntamento la sera prima per consegnarle un regalo. Da quel momento, di Elisa si persero le tracce. Restivo dichiarò successivamente a Chi l'ha visto? di aver incontrato la sedicenne in chiesa, dove si era appena conclusa la messa, ma sostenne di aver visto la ragazza allontanarsi verso la porta principale. "Io- aveva detto-mi sono soffermato in chiesa a pregare". Quando Elisa Claps non si presentò al pranzo, i famigliari si allarmarono: la 16enne era scomparsa. Gli investigatori l'hanno cercato ovunque, tranne nell'ultimo posto dove era stata vista, la chiesa. E infatti, Elisa Claps, era proprio lì, come si scoprirà nel 2010, al ritrovamento dei resti. "È surreale", commenta a ilGiornale.it Fabio Sanvitale, giornalista investigativo ed esperto di cold cases, che insieme all'esperto della scena del crimine Armando Palemegiani ha scritto il libro Il caso Elisa Claps. Storia di un serial killer e delle sue vittime. Ma perché gli inquirenti non perquisirono la chiesa? "Forse fu una forma di rispetto nei confronti del parroco- ipotizza Sanvitale - o l'incredulità in un possibile coinvolgimento della Chiesa". Il giorno della scomparsa, inoltre, il parroco era andato fuori città dopo le messe della mattina, per un viaggio già programmato e quando il fratello di Elisa, Gildo Claps, andò a cercarla in chiesa, la porta che conduce alla parte superiore era chiusa.
I sospetti su Danilo Restivo. Qualche ora dopo la scomparsa di Elisa, alle 13.45, Danilo Restivo si presentò al pronto soccorso dell'ospedale di Potenza per farsi medicare alla mano. Ai medici che gli chiesero spiegazioni, raccontò di essersi ferito cadendo da una scalinata, mentre si trovava, senza un motivo preciso, in uno dei cantieri delle scale mobili, all'epoca in costruzione. La versione del ragazzo, però, non convinse gli inquirenti, dato che "il lasso di tempo che rimane sguarnito di prova a causa delle sue false dichiarazioni corrisponde sinistramente a quello in cui si sono perse le tracce di Elisa Claps". Restivo, infatti, non era riuscito a spiegare i suoi spostamenti dalle 12.00 alle 13.30 di quel 12 settembre e rappresentava anche l'ultima persona ad aver visto la ragazza viva. Nonostante i sospetti, Restivo venne lasciato libero di andare a Napoli per un concorso, poi di lasciare Potenza e perfino l'Italia. Ai tempi della scomparsa di Elisa, il ragazzo era conosciuto per un gesto particolare, che spesso praticava ai danni di diverse ragazze: si appostava dietro di loro, solitamente mentre si trovavano a bordo dei bus, e tagliava delle ciocche di capelli. Nel 1999 sembrarono riaccendersi le speranze di ritrovare Elisa: al sito dedicato alla ragazza dai familiari arrivò una mail, secondo cui la 16enne si trovava in Brasile, stava bene, ma non voleva rivedere la familia. In realtà, la mail risulterà spedita da Potenza e gli inquirenti sospetteranno proprio Danilo Restivo. Dieci anni dopo, nel 2009, l'informativa conclusiva della procura di Salerno indicò Danilo Restivo come unico accusato per l'omicidio preterintenzionale di Elisa Claps, in conseguenza a una pulsione sessuale.
I testimoni. Nel 1993, a scagionare Restivo, l'ultima persona ad aver visto viva la 16enne, intervennero involontariamente alcuni testimoni. Tre persone, infatti, dichiararono di aver visto Elisa viva, nel lasso di tempo in cui Danilo non aveva un alibi. Il primo dichiarò di averla vista alle 12.45, mentre usciva dalla porta laterale della chiesa, il secondo di averla vista passando in auto e il terzo di averla incrociata più tardi su una scalinata e di averla salutata. Per questo, gli inquirenti si convinsero che Elisa fosse uscita viva dopo l'incontro con Danilo: "Fu un inghippo imprevedibile - spiega Sanvitale - che avrebbe fatto fare confusione a chiunque. Si è trattato di testimoni che, in buona fede, si sono sbagliati. Anche per questo fu difficile venire a capo del caso". Si scoprì, poi, che le versioni dei testimoni erano traballanti e presentavano alcune incongruenze. Il primo, infatti, aveva visto Elisa uscire dalla chiesa con la coda dell'occhio, mentre camminava, segno che poteva facilmente essersi sbagliato. Il secondo descrisse il motorino di Eliana, che però quel giorno non era stato usato dalla ragazza, mentre il terzo dichiarò di aver salutato Elisa, senza aver ricevuto risposta. Quella ragazza, quindi, non era la Claps. Anche l'orario riferito dall'ultimo testimone non combaciava e lasciava aperti i dubbi: Gildo, infatti, all'ora dichiarata dall'uomo, era in fondo alla stessa scalinata e dichiarò di non averlo incontrato. Inoltre, in testimonianze successive, l'orario dell'avvistamento fu cambiato: "Probabilmente, il testimone aveva confuso un momento verificatosi precedentemente, collocandolo la mattina della scomparsa di Elisa", spiega Sanvitale, ricordando come spesso i testimoni oculari siano poco attendibili, perché in generale i ricordi sono molto labili e la memoria è "totalmente e continuamente fallace". "Queste testimonianze hanno fornito un alibi a Restivo", mandando in confusione le indagini, perché gli inquirenti non hanno colto e approfondito i "campanelli d'allarme" che indicavano le incongruenze.
Il caso di omicidio in Inghilterra. Nel frattempo, Restivo si era stabilito in Inghilterra, a Bournemouth, cittadina a sud ovest di Londra. In quel periodo, proprio nella casa di fronte a quella dove l'uomo abitava con la moglie, era stato scoperto un omicidio: il 12 novembre del 2002, la sarta 48enne Heather Barnett era stata trovata morta in casa. Il corpo era stato mutilato e nelle mani era state trovate due ciocche di capelli non appartenenti alla vittima. Gli inquirenti si erano concentrati su Restivo, che sembrava fosse già stato a casa della donna, per commissionarle delle tende: dopo quell'incontro Heather non era più riuscita a trovare le chiavi di casa e aveva dovuto cambiare la serratura. Inoltre, la strana coincidenza delle ciocche di capelli tagliati aveva fatto fiutare alla polizia inglese una possibile pista relativa a Danilo Restivo. Per questo, dopo un viaggio in Italia effettuato per conoscere i dettagli del caso Claps, gli investigatori avevano chiesto se ad altre donne fossero state tagliate ciocche di capelli a Bournemouth: 5 risposero affermativamente, due delle quali riconobbero Restivo come l'autore dello strano gesto. Il 19 maggio 2010, l'uomo venne fermato dagli agenti inglesi e accusato di omicidio e, il 30 giugno del 2011, venne condannato all'ergastolo. "Lei non uscirà mai di prigione", disse il giorno della sentenza il giudice Michael Bowes, sostenendo che Restivo uccise "Heather come ha fatto con Elisa", riferendosi al caso Claps.
Il ritrovamento dei resti. Il 17 marzo del 2010, nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, durante dei lavori di manutenzione, viene trovato un corpo. È la svolta del caso Claps. I resti, si scoprirà con l'esame del Dna, sono quelli di Elisa. Secondo il procuratore generale di Salerno, "Danilo Restivo uccise Elisa Claps il 12 settembre 1993 colpendola 12 volte al torace con un'arma da punta e taglio, dopo un approccio sessuale rifiutato dalla ragazza". Stando alla ricostruzione, dopo aver colpito Elisa, l'uomo ''l'ha trascinata in un angolo del sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, coprendo il cadavere con materiale di vario tipo, fra cui tegole e materiale di risulta''.
L'autopsia svolta sui resti ha rivelato che la 16enne venne uccisa "proprio la mattina del 12 settembre 1993, esattamente negli stessi luoghi in cui aveva incontrato Danilo Restivo. Il corpo è sempre rimasto nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, dove poi è stato trovato''. Dopo l'omicidio, l'assassino ha tagliato alcune ciocche di capelli. Le conclusioni della perizia, rese note anche da Ansa, che pubblicò il documento risalente al 10 aprile 2010, parlano di "almeno 12 lesioni da punta e taglio", sferrate presumibilmente in due momenti diversi. La ricostruzione, infatti, ipotizza "due momenti lesivi": nel corso del primo, la vittima avrebbe voltato le spalle all'aggressore, che la avrebbe colpita posteriormente, mentre nel secondo momento, l'omicida avrebbe colpito la ragazza ripetutamente. Inoltre, il fatto che la ragazza sia stata trovata con i pantaloni abbassati e il reggiseno slacciato e rotto fa "supporre che l'aggressione mortale possa essere accorsa nel corso di atti sessuali". Alla luce delle nuove rivelazioni, il 22 maggio 2010, fu emesso un mandato di arresto europeo per Danilo Restivo, accusato dell'omicidio di Elisa Claps. Tra i reperti presi in considerazione dopo i sopralluoghi nel sottotetto, c'era anche la maglietta che Elisa indossava. Lì, la prima perizia genetica aveva trovato tracce di sangue misto, da cui venne estratto il Dna: oltre a quello della 16enne, c'era anche quello di Restivo. "Dentro di me l'ho sempre saputo - aveva commentato la mamma della vittima, Filomena Iemma - Elisa me l'ha sempre fatto capire. Quando sono usciti i primi risultati del professor Pascali, avevo tanta rabbia. Elisa mi aveva detto che su quella maglia bianca c'era la firma dell'assassino. Avevo chiesto due grazie: la prima era quella di riavere indietro i resti di Elisa, la seconda era avere la prova che Danilo fosse l'assassino". Il 13 maggio 2011, la procura chiude le indagini preliminari, con Restivo come unico indagato, e il 2 luglio i familiari possono finalmente dare l'ultimo saluto a Elisa Claps. Ma attorno al ritrovamento dei resti della 16enne il mistero non è ancora del tutto risolto. Come spiega Fabio Sanvitale, infatti, "Elisa fu trovata prima". Quando trovarono il corpo nel 2010, sopra i resti c'erano alcune tegole come copertura, mentre altre erano appoggiate al muro, segno che qualcuno le tolse prima. Inoltre, qualche anno dopo la scomparsa, vennero fatti dei lavori per sistemare il soffitto a cassettoni della chiesa: uno dei perni inseriti si trovava a pochi centimetri dal braccio di Elisa. Non solo. La parrocchia ospitava anche un centro di aggregazione giovanile: come racconta Sanvitale, nella soffitta in cui è stata ritrovata Elisa, c'era anche un materasso, con evidenti segni di rapporti sessuali. Nessuno, però, accennò mai alla presenza di un corpo in soffitta. L'unica persona che provò a fare qualcosa fu il responsabile di una ditta, incaricata di portare via vecchi oggetti: l'uomo chiamò la polizia, indicando la presenza di un corpo negli scantinati della chiesa. La polizia, a quel punto, andò a perquisirli, ma ovviamente non trovò nulla, perché Elisa non era negli scantinati. Si trattò, forse, di un tentativo di far ritrovare la ragazza, spingendo gli inquirenti sulla pista giusta, ma senza parlare chiaramente. "Elisa poteva essere trovata 17 ore dopo la scomparsa, se si fosse perquisita la chiesa - spiega Sanvitale- o pochi anni dopo, se qualcuno avesse parlato".
I processi in Italia. Il 3 giugno 2011, la procura chiese il rinvio a giudizio per Danilo Restivo: l'accusa è di omicidio volontario aggravato. L'8 novembre dello stesso anno iniziò il processo in primo grado, svolto con rito abbreviato. Dati i molti anni passati dalla scomparsa di Elisa Claps, diversi reati risultarono prescritti e la possibilità dell'ergastolo venne esclusa, facendo richiesta per i 30 anni di carcere. E l'11 novembre 2011, Restivo venne condannato in primo grado a 30 anni. Oltre al carcere, all'uomo venne imposta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, 3 anni di libertà vigilata al termine della pena e il pagamento di 700mila euro come risarcimento. Due anni dopo si svolse, a Salerno, il processo di secondo grado, che ebbe inizio il 20 marzo 2013. "Se veramente una sola volta, nella vita misera che ad oggi ha condotto, Danilo Restivo vorrà dire la verità e allora vale la pena sopportare l'ennesimo strazio di incontrarlo e di ascoltarlo", aveva dichiarato Gildo Claps, fratello di Elisa, il giorno prima dell'inizio del processo d'appello. L'11 marzo dello stesso anno, Restivo venne estradato temporaneamente in Italia (dall'Inghilterra, dove stava scontando la pena dell'ergastolo per l'omicidio di Heather Barnett) per poter essere presente al processo. Il 24 aprile 2013, il giudice d'appello condannò nuovamente l'uomo ai 30 anni di carcere, pena successivamente confermata anche dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 23 ottobre 2014. Nel libro, Sanvitale e Palemegiani parlano di Restivo come di un serial killer, perché "bastano omicidi con determinate caratteristiche per identificare l'assassino come un serial killer".
I misteri ancora da risolvere. L'assassino di Elisa Claps, ora, è stato trovato e molti dubbi sul caso sono stati sciolti. Ma qualcosa ancora non torna. Per esempio non è ancora chiaro il ruolo della moglie di Restivo, con cui viveva in Inghilterra: quanto conosceva il marito? Sapeva qualcosa degli omicidi? Poi c'è la questione dei presunti ritrovamenti precedenti la data ufficiale del 2010, e in generale dell'omertà attorno al caso Claps. Infine, rimane nebuloso anche il ruolo della famiglia di Restivo: sapeva dell'omicidio di Elisa? Ha fatto qualcosa per coprire il ragazzo? Quando Elisa scomparve, infatti, Danilo tornò a casa coi vestiti sporchi di sangue, che vennero poi lavati. Inoltre, quel giorno, padre, figlio e madre, si chiusero in una stanza per 15 minuti a parlare: cosa si sono detti? Danilo ha confessato l'omicidio? Domande che restano aperte e che avvolgono ancora il caso Claps nel mistero. Secondo Fabio Sanvitale, quello che colpisce di più di questo caso è che "Restivo poteva essere fermato prima, la donna inglese avrebbe potuto salvarsi. Si poteva lavorare di più, nonostante le difficoltà". Non solo: "Danilo poteva essere fermato prima della morte di Elisa dalla famiglia". Già in passato, infatti, Restivo aveva mostrato dei comportamenti preoccupanti, da telefonate anonime o a sfondo sessuale, al taglio delle ciocche di capelli delle ragazze, fino al ferimento di un compagno di classe. Come risposta di questi comportamenti, la famiglia reagì allontanando il figlio o controllando la quantità delle sue telefonate. "Quello che sconvolge maggiormente è che in tanti avrebbero potuto dire, ma in questo caso, l'omertà delle persone si è incastrata con la chiusura della famiglia".
Lo strano suicidio di un commissario di Polizia: Anna Esposito come Denis Bergamini? Carla Santoro su L'Ora Legale il 9 maggio 2017. Morte di un commissario forse troppo scomodo: una sola frase dai toni forti per introdurre la vicenda di Anna Esposito e della sulla assurda morte, che a tutt’oggi rimane ancora un mistero fitto, nonostante la relativa inchiesta sia stata archiviata per ben due volte. Era il 12 marzo 2001, verso le ore 09:20, quando alcuni agenti della Polizia di Potenza, “insospettiti” per l’assenza di soli 15 minuti della collega, il commissario Anna Esposito, 1°dirigente della Digos locale, decidono di recarsi presso il suo appartamento nella caserma“.
La trovano supina con il collo stretto dentro una cintura di cuoio annodata a sua volta intorno alla maniglia della porta del bagno.
La prima autopsia colloca la morte della donna alle 23 della sera prima.
Il nodo posizionato anteriormente sul lato destro fa apparire sin da subito il suicidio come anomalo; se si fosse trattato di un impiccamento “ordinario” il nodo sarebbe stato posizionato posteriormente.
Inoltre il corpo non risultava totalmente sospeso, ma in una posizione semi-seduta, con le gambe appoggiate al pavimento.
I poliziotti, nel tentativo di rianimarla, la liberano dal cappio. Ma coloro che dovrebbero essere addestrati per lavoro a determinate procedure, fanno tutto a mani nude compromettendo così la scena del delitto.
L’incongruenza più evidente è costituita dalla cintura larga più di 4 cm. Come è riuscita ad entrare, addirittura annodata, entro lo spazio tra la porta e la maniglia? Il magistrato poi viene chiamato con notevole ritardo, oltre 40 minuti dopo; allo stesso un poliziotto dichiarerà di aver slacciato la cinghia perché travolto dall’agitazione e dall’intento di rianimarla, per poi contraddirsi nel verbale in cui afferma che il corpo era già visibilmente in “rigor mortis”...Nonostante il ritrovamento avvenuto alle 10 di mattina, l’Ansa aveva lanciato la relativa agenzia solo nel tardo pomeriggio e con un titolo già ben preciso, ancor prima che fosse stato effettuato l’esame autoptico: “SUICIDA DIRIGENTE DIGOS QUESTURA DI POTENZA”. La famiglia non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio e a tutt’oggi sta conducendo un’estenuante battaglia per scoprire la verità; Anna era una donna forte, sicura di sé, innamoratissima delle figlie, ma anche del suo lavoro, un mestiere che aveva nel sangue: dopo una brillante carriera di studi era riuscita ad ottenere promozioni fino ad arrivare al ruolo di Dirigente appena compiuti i trent’anni……insomma non aveva alcun motivo per compiere un simile gesto. Proprio quel tragico giorno, Anna lo aveva trascorso con la sua famiglia a Cava de’ Tirreni, nel salernitano; aveva pranzato a casa della madre. Aveva fatto i piatti e pulito la cucina, era allegra come sempre, ricorda la madre; dopo pranzo ha sistemato le sue due bambine per una passeggiata in centro; voleva prendere un gelato ed andare al cinema a vedere un film, che non aveva più visto per l’incontro con alcuni cugini, con i quali si era fermata a chiacchierare. Prima di sera, alle 18,40, Anna si mette in viaggio per Potenza; la madre aggiunge inoltre di aver ricevuto in serata una sua telefonata che le comunicava di essere arrivata rassicurandola che il viaggio fosse andato bene. In merito a tale telefonata la signora Olimpia ha sempre dichiarato di aver avuto la netta sensazione che la figlia non fosse sola, anche perché la telefonata fu bruscamente interrotta. Poi il silenzio. La prima inchiesta viene chiusa come suicidio, così sostengono da subito gli inquirenti trovando conferma in alcuni racconti dei colleghi che parlavano di depressione probabilmente dovuta alle vicende sentimentali. A ciò si è aggiunto il disdicevole comportamento del cappellano della Polizia di Stato, don Pierluigi Vignola, che durante la prima indagine, si era recato dal PM dichiarando che durante una confessione, Anna gli aveva parlato delle sue intenzioni suicide, dichiarazione successivamente ritrattate dal prelato. Troppi i dubbi e le incongruenze e tanti gli errori e le omissioni commesse. È il 2013 quando si torna ad investigare su cosa sia successo ad Anna Esposito ammettendo anche le troppe falle della precedente indagine. A partire da quella scena del crimine che non è stata preservata come si doveva. E da quel corpo manovrato e mosso più volte così da rendere impossibile gli adeguati rilievi del medico legale che comunque definì quell’impiccagione con una cintura legata sulla maniglia di una fragile porta del bagno, ad un metro e tre centimetri di altezza, con il bacino della vittima che sfiorava il pavimento, come un impiccagione atipica. Allo stesso modo si trascurarono troppi indizi che avrebbero potuto portare già allora a una soluzione diversa del caso. Ad esempio, l’agenda da cui Anna non si separava mai che fu rinvenuta sulla scrivania nella sua camera con 4 pagine strappate; ed ancora, messaggi di minaccia, bigliettini che l’Esposito riceveva al lavoro e di cui aveva raccontato ai familiari: chi glieli scriveva? E perchè? Cosa vi era annotato su quelle pagine strappate? Né furono considerati gli intrecci con il caso Claps. Infatti, quel 12 marzo, il commissario Esposito avrebbe dovuto incontrare, nel pomeriggio, avendogli dato appuntamento, Gildo Claps, fratello di Elisa, la ragazza di 16 anni scomparsa a Potenza il 12 settembre del 1993 e il cui cadavere venne ritrovato il 17 marzo del 2010, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità. La Esposito, probabilmente aveva scoperto qualcosa che non la faceva stare tranquilla, tanto da confidare alla mamma in una delle sue ultime visite, che era molto preoccupata in quanto circolavano voci in Questura che qualcuno sapeva dove era il cadavere di Elisa Claps. Purtroppo l’esito della superperizia disposta dalla Procura e depositata il 24 giugno 2015 manda di nuovo a monte la possibilità di giungere alla verità: per il consulente tecnico d’ufficio il Dott. Introna (lo stesso che negò la presenza delle tracce del DNA di Restivo sui resti di Elisa Claps, nonché il medico che escluse l’esistenza di qualsiasi nesso tra il decesso di Stefano Cucchi ed il violento pestaggio a cui fu sottoposto, adducendo la morte del giovane ad improvvisa patologia epilettica) Anna si è suicidata. Lo scorso 24 marzo la Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dai familiari confermando l’archiviazione del caso come suicidio. Aspettando di poter leggere le motivazioni con cui la Cassazione ha deciso in tal senso, riporto il commovente sfogo della mamma di Anna, raccolto e testimoniato da Giusi Lombardo, persona vicina alla famiglia, nonché amministratrice della pagina Fb (Giustizia per Anna Esposito) : “Sono una persona semplice e ho sempre creduto che la verità e la giustizia avrebbero, prima o poi, fatto il loro corso. Ma, dopo tutti questi anni di delusioni, non ho più fiducia nella capacità di giudizio dei magistrati. Io non ho mai preteso vendetta ma giustizia. Nessuno mi ridarà la mia dolce Anna, mamma, figlia e persona esemplare ma, anche se sono consapevole di questo, il mio cuore pretende Verità, quella verità che è stata più volte negata e disconosciuta dai giudici che, sottovalutando prove evidenti in loro possesso, hanno potuto affermare che una donna capace, in possesso di grandi valori, orgogliosa della sua carriera e delle sue due splendide bambine, abbia pensato, anche lontanamente , di togliersi la vita. Io so che non lo avrebbe mai fatto, così come lo sanno tutti quelli che l’hanno conosciuta” Arriverà la verità signora Olimpia. Carla Santoro
Potenza, caso Claps: riaperto il caso della poliziotta "suicida". La donna fu trovata morta impiccata alla maniglia della porta del bagno del suo alloggio il 12 marzo 2001, scrive TGcom24. Quello di Anna Esposito è un suicidio dai molti lati oscuri: la donna, 35 anni, dirigente della Digos della Questura di Potenza, fu trovata impiccata il 12 marzo 2001 alla maniglia della porta del bagno nel suo alloggio nella caserma Zaccagnino. Solo la perseveranza dei familiari ha permesso che a distanza di dodici anni il caso sia stato riaperto. Ora l'ipotesi di reato è quella di omicidio volontario. Quella di Anna da subito era stato catalogato come un suicidio anomalo, a partire dalle modalità. La donna, come racconta il quotidiano "La Stampa", sembrava seduta a terra, ma il corpo era sospeso di pochi centimetri e l'ansa di scorrimento del cinturone invece che nella parte posteriore del collo era sul lato destro. A destare perplessità anche alcuni elementi scoperti durante le indagini effettuate subito dopo la morte della poliziotta: le pagine mancanti dalla sua agenda, l'abito da sera che era stato trovato sul letto, come se la donna si stesse preparando per uscire, e, soprattutto il fatto che l'abitazione e l'ufficio di Anna fossero stati "perquisiti" da qualcuno prima dell'arrivo della polizia. Un altro inquietante sospetto, anche se al momento escluso dalla procura, sarebbe venuto dall'ipotesi di un collegamento con il caso Claps: Gildo Claps, fratello di Elisa, scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, ha raccontato infatti di una telefonata ricevuta proprio da Anna Esposito per fissare un appuntamento. L'incontro sarebbe dovuto avvenire il giorno stesso della morte della poliziotta. Secondo la madre di Anna, la figlia le avrebbe rivelato che qualcuno nella Questura di Potenza sapeva dove fosse sepolta Elisa.
Elisa Claps: riaperte le indagini sulla morte di Anna Esposito: è stato un omicidio? Si chiede Daniele Particelli. A distanza di quasi 13 anni la Procura di Potenza ha deciso di riprendere in mano i fascicoli sulla morte di Anna Esposito, la dirigente della Digos della Questura di Potenza trovata morta all’età di 35 anni il 12 marzo 2001 in quello che fin dai primi istanti era sembrato un caso anomalo di suicidio. La famiglia della donna ha chiesto per anni la riapertura del caso, sostenendo che Anna Esposito fosse stata uccisa e anche grazie all’inchiesta giornalistica di Fabio Amendolara, ora agli atti della Procura, il caso si può considerare riaperto. L’ipotesi di reato è omicidio volontario. Il corpo senza vita della donna, madre di due figlie, fu rinvenuto legato alla porta del bagno dell’alloggio nella caserma Zaccagnino e qui cominciano i particolari oscuri. Scrive oggi La Stampa: Anna sembrava seduta a terra, ma il corpo era sospeso di pochi centimetri, l’ansa di scorrimento del cinturone (lungo poco meno di un metro) era sul lato destro invece che nella parte posteriore del collo. Anche nella perizia chiesta dal pm Marotta, e depositata a dicembre scorso, gli esperti che hanno visionato le foto scattate nell’alloggio di servizio e durante l’autopsia hanno palesato le loro perplessità. Tanti altri elementi fanno pensare che non si sia trattato di un suicidio. Anna, ne sono certi i suoi familiari, non aveva motivi per togliersi la vita. Nell’abitazione, sul letto, gli inquirenti hanno rinvenuto un abito da sera, segno che la donna si stava preparando per uscire. E, ancora, il fatto che l’alloggio fosse stato “perquisito” prima dell’arrivo degli inquirenti. Mancano all’appello, inoltre, alcune pagine del diario in cui Anna Esposito era solita annotare la propria vita e i propri spostamenti. Di quelle pagine, ad oggi, nessuna traccia. A questo si aggiungono le minacce che la donna riceveva costantemente ormai da tempo e, non ultimo, il collegamento col caso di Elisa Claps, la giovane uccisa a Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere nel marzo 2010. Esposito, lo ha rivelato sua madre qualche tempo dopo, era convinta che nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove la ragazzina era stata sepolta. Un altro particolare inquietate, proprio collegato a Elisa Claps. Quel tragico 12 marzo 2001, Esposito avrebbe dovuto incontrare Gildo Claps, fratello della giovane uccisa, ma poche ore prima di quell’appuntamento venne trovata cadavere. Gli elementi per sospettare un omicidio mascherato da suicidio ci sono, ora spetta agli inquirenti il compito di chiarire i punti oscuri e, nel caso in cui dovesse venir accertato l’omicidio, identificare il responsabile.
Caso Claps, sospetti sul suicidio della poliziotta. Potenza, si indaga sulla morte di Anna Esposito. Quel giorno doveva incontrare il fratello di Elisa, scrive Antonio Salvati su “La Stampa”. Quando ne scoprirono il corpo, accanto c’era una penna ma nessun biglietto. Nella sala da pranzo, su un tavolo, un vestito da sera, nero, e un paio di scarpe eleganti. Il letto era in ordine e la luce del comodino illuminava due cellulari e due biglietti ferroviari. È la mattina del 12 marzo del 2001. Anna Esposito, 35 anni, dal 1998 dirigente della Digos della questura di Potenza, viene ritrovata senza vita nel suo alloggio all’interno della caserma Zaccagnino. Ha passato la domenica con le due figlie a Cava dei Tirreni, nel Salernitano, cantando a squarciagola canzoni di Gigi D’Alessio. Poi, stando alla versione ufficiale, torna a Potenza e con il cinturone della sua divisa si impicca alla maniglia della porta del bagno. Suicidio, furono le conclusioni delle indagini che durarono qualche mese. Ora, a distanza di dodici anni, il suo caso è stato riaperto, grazie alla tenacia dei familiari e a un’inchiesta giornalistica di Fabio Amendolara (raccolta nel libro «Il segreto di Anna») messa agli atti della Procura di Potenza. L’ipotesi di reato è omicidio volontario e gli investigatori (il procuratore facente funzioni Laura Triassi ora ha in mano il fascicolo in seguito al recente trasferimento del pm Sergio Marotta che ha ottenuto la riapertura del caso) hanno riletto le carte di un’inchiesta dai tanti lati oscuri. A partire dalle modalità di un suicidio che anche i medici legali indicarono come atipico: Anna sembrava seduta a terra, ma il corpo era sospeso di pochi centimetri, l’ansa di scorrimento del cinturone (lungo poco meno di un metro) era sul lato destro invece che nella parte posteriore del collo. Anche nella perizia chiesta dal pm Marotta, e depositata a dicembre scorso, gli esperti che hanno visionato le foto scattate nell’alloggio di servizio e durante l’autopsia hanno palesato le loro perplessità. Lo stesso pubblico ministero che allora curò le indagini (il pm Claudia De Luca) scrisse nelle tre pagine di motivazioni alla chiusura del caso che «occorre però rappresentare che dei passaggi non chiari nella vicenda fattuale comunque restano». Come, ad esempio, i biglietti del treno e le rubriche dei due telefoni cellulari. E quelle pagine dell’agenda (Anna teneva un diario quotidiano dove annotava in maniera minuziosa tutta la sua giornata) strappate in tutta fretta e mai ritrovate. E l’abito da sera? E i messaggi di minacce che la poliziotta riceva continuamente? Senza contare, poi, che «l’abitazione era stata già rovistata da una serie di persone presenti che aveva proceduto anche a raccogliere alcuni elementi di prova - scrisse il pm De Luca - Così come era già stato rovistato, a parere di chi scrive, l’ufficio della dottoressa Esposito in Questura». Ma c’è dell’altro: Gildo Claps, fratello di Elisa, la ragazza scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, riferì di una telefonata in cui Anna Esposito chiedeva un appuntamento. Incontro mai avvenuto perché fissato il giorno stesso in cui fu trovata senza vita. Un anno dopo la scoperta del cadavere di Elisa Claps, la madre di Anna, rivelò a Gildo che la figlia le avrebbe confidato che nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove la ragazzina era stata sepolta. I sospetti sui collegamenti tra i due episodi sono stati esclusi la scorsa estate dalla procura di Salerno che ha rispedito gli atti in Basilicata per la competenza territoriale.
Si apre il 4 febbraio 2014 un nuovo capitolo del caso Claps. Un tassello importante che potrebbe contribuire a fare chiarezza almeno su alcuni dei tanti interrogativi che aspettano una risposta da oltre vent’anni. Prende il via questa mattina in tribunale a Potenza, il processo nei confronti di Annalisa Lo Vito e Margherita Santarsiero, le donne delle pulizie della Chiesa della Santissima Trinità accusate di false dichiarazioni al pubblico ministero per aver mentito sul ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto, avvenuto ufficialmente il 17 marzo del 2010. Un processo frutto dell’inchiesta bis della procura di Salerno sull’omicidio della sedicenne potentina, relativa proprio alle circostanze che portarono alcuni operai a ritrovare i resti di Elisa Claps in un angolo buio e sporco del sottotetto della Chiesa dove la giovane era stata vista per l’ultima volta. Un processo iniziato nei mesi scorsi a Salerno davanti al giudice Antonio Cantillo, ma poi trasferito nel capoluogo lucano per competenza territoriale. Ad occuparsene sarà un giudice onorario (Got) e non un magistrato. Un ulteriore “anomalia” portata anche all’attenzione del presidente del Tribunale di Potenza, perchè da questo processo, soprattutto grazie ad una lunga lista di testimoni, la famiglia Claps si augura di sciogliere i dubbi che ancora restano sul ritrovamento del cadavere di Elisa. La scelta è stata però confermata e questa mattina il processo dovrebbe prendere regolarmente il via. L’attenzione si concentrerà proprio sulla lista dei testimoni, nella quale dovrebbero trovare spazio anche il vescovo Agostino Superbo e il Questore di Potenza, Romolo Panico.
Caso Claps, parla Danilo Restivo. L'unico indagato per la morte della studentessa di Potenza si difende: "Credevo fosse viva". «Sono rimasto colpito, perché ho sempre ritenuto che Elisa fosse viva da qualche parte». A parlare è Danilo Restivo, l'unico indagato per la morte della giovane studentessa di Potenza scomparsa e uccisa nel 1992. L'uomo, che si è sempre professato innocente, ricorda la ragazza e ripercorre vecchi momenti davanti alle telecamere di "Quarto grado", in onda domenica 16 maggio su Retequattro. Restivo descrive Elisa come «una buona d'animo, gentile e sensibile». E si difende: «Ho detto tutto quello che sapevo e che ho fatto quella domenica pur non essendo stato creduto per qualche imprecisione dettata dallo stato d'animo di quando venivo interrogato per la prima volta in vita mia in questura dai poliziotti e anche quando ho fatto la dichiarazione alla tv». Sul trattamento che gli hanno riservato i media si dice «disgustato dal modo di fare informazione e giornalismo di certi individui della televisione ed anche della carta stampata che, pur di fare audience e vendere copie di giornali, nemmeno controllano o se le inventano le fonti della notizia».
Londra non vuole criminali, e si riaccende il caso Claps, come scrive Pierangelo Maurizio su Libero: Se l’Italia è la culla del diritto, la Gran Bretagna è certamente la patria dei diritti. Eppure, senza che questo susciti scandali, petizioni e titoloni, non ci hanno pensato un attimo. Gli inglesi vogliono rimandarci Danilo Restivo, l’ex ragazzo di Potenza, ora uomo di 42 anni, che sta scontando una condanna definitiva ad un minimo di 40 anni in una prigione di massima sicurezza del Regno Unito, per uno degli omicidi più atroci, l’omicidio di Heather Barnett, e condannato in Italia a 30 anni per l’uccisione di Elisa Claps, trovata nel sottotetto della chiesa della Santa Trinità a Potenza 17 anni dopo che era sparita. Le autorità britanniche hanno avviato la procedura di, letteralmente, “deportazione”, equivalente alla nostra espulsione dal territorio nazionale. Hanno avuto le prime notizie ancora incomplete i difensori italiani, il professor Alfredo Bargi e l’avvocato Marzia Scarpelli. «Siamo in contatto con la collega che in Inghilterra segue il caso. Siamo in attesa di ricevere la documentazione e la traduzione degli atti. Di certo è una procedura abbastanza insolita» dichiara Alfredo Bargi, il legale che insieme a Marzia Scarpelli ha difeso Restivo nel processo d’appello a Salerno per l’omicidio di Elisa. Ma è una vicenda, comunque si concluda, destinata a far discutere. E pure parecchio. La “deportazione” è un provvedimento di natura amministrativa ed è avviata dal Home Office, il ministero dell’Interno. L’udienza preliminare si è già tenuta di fronte al Tribunale dell’immigrazione un paio di settimane fa. La prossima udienza – quella decisiva – è prevista per aprile 2014; poi la sentenza di primo grado. Nel sistema giudiziario anglo-sassone i ricorsi non sono automaticamente accolti; nel giro di alcuni mesi la procedura dovrebbe concludersi e per Danilo Restivo il rischio è piuttosto elevato di essere rispedito in Italia, sulla base di recenti norme britanniche, secondo le quali la patria dell’habeas corpus non considera illegittimo rimpatriare i criminali. Senza complimenti. E senza la permanenza (fino a 18 messi) nei nostri Cie. Ed è la riflessione di carattere generale. Nel caso specifico a difendere Restivo e ad opporsi alla “deportazione” è l’avvocato Gabriella Bettiga. Quella che si vuole applicare al detenuto italiano se non è eccezionale, nel senso che non è fuori dalle regole, è una misura – a detta di tutti gli esperti – certamente non usuale. Dal 2007 il Regno Unito ha dato un deciso giro di vite. Dopo furiose polemiche sul fatto che delinquenti stranieri usciti dal carcere continuassero a godere dell’accoglienza inglese, è stato stabilito che la “deportazione” scatti automaticamente, a pena scontata, per coloro che provengono dai Paesi europei. Per i cittadini europei invece la procedura non è affatto automatica. Può essere avviata dall’Home Office, generalmente finita la pena, in caso di gravi reati e per motivi di sicurezza nazionale, ordine pubblico o salute pubblica. E qui emergono le due anomalie. Restivo è ben lontano dall’aver espiato la condanna, prima all’ergastolo “senza più possibilità di uscire” poi ridotta ad un minimo di 40 anni. L’altra obiezione sollevata dai difensori è la seguente: «Ci chiediamo: quale pericolo rappresenta Restivo se è richiuso in un carcere di massima sicurezza?». Il delitto di Heather Barnett per la sua ferocia tuttora resta una ferita per la tranquilla cittadina di Bournemouth, nel Sud dell’Inghilterra. Alla vittima furono tagliati i seni, adagiati accanto alla testa, l’assassino fece in modo che il suo corpo martoriato nel bagno fosse ritrovato dai figli al ritorno da scuola. «Tu sei un assassino freddo e calcolatore, tu hai macellato la loro madre» disse il giudice a Danilo Restivo. La condanna particolarmente dura aveva un doppio scopo: dimostrare che lo Stato esercita in modo esemplare l’azione penale e risarcire delle sofferenze subite i familiari della vittima. Ora invece le autorità britanniche hanno una certa urgenza di farlo tornare in Italia. Una delle tante stranezze nella lunga storia del “caso Restivo”. Che inevitabilmente riaccenderà in Italia le polemiche. Visto che i due processi, con il rito abbreviato cioè a porte chiuse, che lo hanno condannato a Salerno a 30 anni, hanno aperto più dubbi di quanti ne abbiano risolti. Uno per tutti: quando fu realmente ritrovato il cadavere di Elisa nella chiesa? Chi sapeva e ha taciuto?
In occasione del 21° anniversario dell'omicidio di Valerio Gentile, al Laboratorio Urbano di Fasano si ricorderà la storia di un'altra giovane vita spezzata nel fiore dei suoi anni: quella di Elisa Claps, sedicenne lucana scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere solo nel 2010. L'appuntamento, in programma per venerdì 14 marzo 2014, alle ore 18.30, sarà dedicato alla presentazione del volume "Per Elisa. Il caso Claps: 18 anni di depistaggi, silenzi e omissioni", scritto da Gildo Claps, fratello della ragazza, e da Federica Sciarelli, giornalista e conduttrice del programma televisivo Chi l'ha visto. Il volume, edito da Rizzoli, analizza nel dettaglio il brutale 'caso Claps', ripercorrendo la vicenda dall'inizio e portando in luce anche le verità nascoste nei lunghi anni di ricerca e di giustizia. Il fratello di Elisa, nonchè coautore del volume, sarà intervistato da Chiara Spagnolo, giornalista de La Repubblica.
Gildo Claps candidato a sua insaputa. Avanza su Fb il nome del fratello di Elisa. Giulio Laurenzi, vignettista potentino, ha lanciato sul social network la candidatura del fratello di Elisa Claps a sindaco di Potenza, scrive "Il Quotidiano della Basilicata". La proposta sta raccogliendo parecchi consensi. L'8 febbraio 2014 verrà reso noto un primo elenco di sostenitori. UNA candidatura «a sua insaputa», per offrire un candidato sindaco alternativo ai nomi che solitamente circolano. Un appello pubblico «per chiedere a Gildo Claps di candidarsi sindaco della città di Potenza. Per chi, come me, si sentirebbe rappresentato dalla sua forza, intelligenza e tenacia. Prendo il coraggio a due mani e ci provo, a sua insaputa. Giulio Laurenzi». Così Giulio Laurenzi, vignettista potentino ormai proiettato al nazionale, prova a offrire la sua alternativa. Tra le varie candidature che si vanno palesando in questi giorni, quindi, questa potrebbe essere una di quelle in grado di vivacizzare la campagna elettorale, perchè Claps è considerato un rappresentante forte della società fuori dai partiti. Una proposta che per ora porta solo la firma di Laurenzi, ma che su Facebook - è stata creata la pagina “Gildo Claps sindaco” - sta già raccogliendo diversi consensi. In effetti già cinque anni fa la candidatura di Gildo Claps venne avanzata. Lui stesso, però, dopo poco tempo ritirò la candidatura dopo che qualcuno l’aveva accusato di strumentalizzare la vicenda di sua sorella Elisa. Ma stavolta le cose potrebbero andare diversamente. E benchè non si sappia ancora cosa Gildo Claps pensi di questa candidatura, sono in molti a ritenere su Fb he questa potrebbe essere la proposta migliore. Per il momento si raccolgono le firme per l’appello: un primo elenco sarà reso pubblico il prossimo 8 febbraio.
Un gruppo di cittadini di Potenza ha proposto la candidatura a sindaco, nelle amministrative che si svolgeranno in primavera, di Gildo Claps, il fratello di Elisa, la ragazza uccisa nel 1993, il cui corpo è stato ritrovato nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità nel 2010, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La proposta è nata dal fumettista Giulio Laurenzi, ed è stata illustrata stamani a Potenza, nel corso di un incontro. L'idea, ha spiegato Laurenzi, è nata in un pomeriggio domenicale «nel mio negozio di fumetti, durante un’iniziativa, in un momento di pausa: ho acceso il pc e ho lanciato l’appello in rete, su Facebook. Il mio timore era di restare solo ma i contatti sono stati tantissimi». Sono già un centinaio, in pochi giorni, le firme ricevute: la pagina Facebook ha raccolto 800 adesioni e ventimila contatti. «Domani proporremo a Gildo - ha concluso – la nostra iniziativa e poi lo lasceremo decidere, ma tutto si svolgerà in trasparenza, perchè abbiamo diritto a un sindaco onesto, e soprattutto sarà un segnale per la città».
“Pronto sono Papa Francesco”. Una voce rassicurante, calorosa e paterna. Una sensazione che mamma Filomena non provava da molti anni e che l’ha fatta sorridere dopo tanto tempo, scrive Mara Risola su “La nuova del Sud”. Come un raggio di sole che fa capolino tra nuvoloni neri durante la tempesta. La notizia della telefonata che Papa Francesco ha fatto nei giorni scorsi a Filomena Iemma, madre della giovane studentessa potentina, Elisa Claps, scomparsa a Potenza il 12 settembre del 1993 il cui cadavere è stato ritrovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della Chiesa della Trinità di Potenza, ha trovato conferma nelle parole della stessa signora Iemma. Intervistata da Paolo Fattori, giornalista del noto programma televisivo “Chi L’ha visto”, mamma Filomena ha raccontato ai microfoni di Rai 3 la sua personale esperienza. L’intervista, andata in onda lo scorso mercoledì, ha permesso alla madre di Elisa di esternare il suo riconoscimento nei confronti di un gesto che mai si sarebbe aspettata. Papa Francesco ha fatto quello che la Chiesa Cattolica doveva fare da tempo. Aiutare la famiglia Claps non solo a trovare la verità, ma a riconciliarsi con un’Istituzione verso la quale per circostanze legate alla morte di Elisa e al suo ritrovamento, la famiglia Claps non riusciva più ad avere fiducia. E lo ha fatto in un momento molto delicato, il 20 gennaio alle ore 19, Papa Bergoglio ha composto il numero di cellulare di Filomena, due giorni prima la morte di Antonio Claps, padre di Elisa. Un uomo che ha sofferto in silenzio per la perdita di una figlia e soprattutto per l’assenza di verità. E senza quella verità ha raggiunto Elisa in cielo lo scorso 22 gennaio.
Adottiamo questa città, iniziando dai suoi parchi. Non è solo colpa degli altri: i rifiuti li lasciano i cittadini, scrive Antonella Giacummo su “Il Quotidiano della Basilicata”. Se noi cittadini provassimo a prenderci cura della città? Siamo così abituati a dare la colpa agli altri che abbiamo perso la capacità di prenderci, da cittadini, le nostre responsabilità. E così, vedendo la sporcizia delle nostre strade o dei nostri parchi, senti dire: “Che schifo questo Comune, paghiamo solo tasse per avere rifiuti da tutte le parti”. Breve passeggiata all’interno del Parco di Macchia Romana dedicato a Elisa Claps. E’ un luogo davvero bello, come in città ce ne sono pochi. C’è verde, alberi, tanto spazio per passeggiare, correre. Però poi ti colpisce l’incuria. Perchè tutto quel verde è sporcato da ogni genere di rifiuto. Ci sono bottiglie, buste di patatine, cartoni della pizza, piatti e bicchieri. Insomma, evidentemente quelli che il parco lo frequentano, pranzano e cenano in quel luogo. Ma siccome devono aver insegnato loro che ciò che è pubblico non è “roba nostra”, dopo aver banchettato buttano lì a terra quanto non serve. Non solo: siccome devono trovare particolarmente divertente la distruzione del parco, ti capita di trovare anche le lattine dentro le fontane che da poco sono state sistemate, dopo diversi atti vandalici. Allora una considerazione: è davvero sempre colpa del Comune se è tutto rotto o sporco? Io credo di no. E ribadisco che se il fazzoletto sporco lo butto a terra invece che nel cestino sono io l’incivile, non il Comune. E se fra qualche mese quel parco, come altri in città, sarà in condizioni ancora peggiori, se le fontane non funzioneranno o le altalene saranno spezzate, la colpa sarà anche nostra che non abbiamo saputo vigilare su un bene pubblico. Essere cittadini significa avere rispetto e cura per quello che è di tutti. E non è un modo di dire: un parco è un bene che erediteranno i prossimi cittadini se saremo in grado di insegnare loro la cura per ciò che non ci appartiene in maniera individuale. La “cosa pubblica” è un privilegio che dovremmo essere in grado di custodire e proteggere. Se non siamo in grado di farlo allora non siamo cittadini. E non abbiamo neppure il diritto di sbraitare contro amministratori e politici vari. E faccio allora una proposta: adottiamola questa città. Ne siamo parte, viviamola ma proteggendola. E proviamo, da cittadini, a riprenderci quello come altri spazi. Non aspettiamo che arrivi il Comune - che forse non arriverà - armiamoci di sacchi e guanti e riprendiamoci la nostra città e i suoi spazi. Se non saremo in grado di farlo rischiamo di restare i più infelici d’Italia per sempre.
ELISA CLAPS: RESTIVO COLPEVOLE? FORSE!
L’hanno cercata per ben 17 anni, fino a quando i suoi resti furono trovati il 17 marzo del 2010, nel sottotetto della chiesa della Trinità di Potenza, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Lì dove - la Corte d’assise d’appello lo ha confermato - Elisa fu uccisa da Danilo Restivo. Ed è proprio il luogo del delitto che lo incastra. In cento pagine i giudici della Corte d’assise d’appello di Salerno spiegano perché hanno deciso di confermare la condanna a 30 anni di carcere per l’omicidio di Elisa Claps, la studentessa di Potenza scomparsa e uccisa il 12 settembre del 1993. I giudici hanno respinto in modo fermo la tesi del difensore di Restivo - l’avvocato Alfredo Bargi - che sosteneva di «cogliere nelle pagine della sentenza di primo grado (emessa dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Salerno Elisabetta Boccassini a seguito di rito abbreviato, ndr) una propensione valutativa di tipo colpevolista fatalmente influenzata dal clima mediatico-giudiziario in cui si è sviluppata la vicenda procedimentale prima e processuale poi, per un lunghissimo arco di tempo (circa 18 anni)». Questa pressione mediatica «avrebbe portato inevitabilmente a dirigere le indagini solo su Restivo, trascurando percorsi alternativi che orientavano verso personaggi di maggiore spessore». Il difensore ha contestato anche la prova scientifica: quella traccia di Dna di Restivo trovata sulla maglia che indossava Elisa il giorno della scomparsa. Spiegano i giudici: «La decisione di un caso giudiziario complesso non è mai affidato a un solo elemento di prova, il quale, pur dotato di una eclatante valenza dimostrativa, sia tale, da solo, di orientare in maniera decisiva chi giudica verso la condanna o l’assoluzione». E il Dna trovato sulla maglia «pur non avendo una valenza dimostrativa assoluta - spiegano i giudici - certamente può acquistare molta importanza se posto in relazione a tutti gli altri segmenti del compendio probatorio». Restivo insomma è stato condannato «non per una prova regina», scrivono i giudici, ma «per una serie di indizi dotati della stessa valenza». Per i giudici di Salerno la circostanza che inchioda l’imputato «è il luogo del ritrovamento del cadavere»: il sottotetto della chiesa della Trinità. Proprio il posto in cui vittima e imputato si erano visti il giorno della scomparsa. «È questa evenienza fattuale - sostengono i giudici - adeguatamente collegata in maniera causale, spaziale e temporale agli spostamenti del carnefice e della vittima sino alle 11,30 di quel 12 settembre del 1993 che attinge fortemente la posizione di Restivo, laddove, fino a quel momento, una serie di gravi indizi emersi dalle indagini conducevano a lui ma, obiettivamente, non erano tali da far ritenere raggiunta la prova della sua colpevolezza». È rispetto a questo dato storico che - valutano i giudici - «la prova genetica rappresenta un grave indizio di “chiusura”, un forte elemento di “rafforzamento” del convincimento di responsabilità». Paradossalmente, sostengono le toghe salernitane, «se i resti di Elisa fossero stati rinvenuti in un altro stabile la posizione di Restivo sarebbe stata più difendibile». E ancora: «Altri indizi - si legge nella sentenza - Restivo li ha disseminati anche nell’immediato post delictum. L’imputato infatti non ha saputo giustificare in maniera credibile un taglio che aveva alla mano sinistra». Anna Esposito: riaperto il caso sul suicidio della poliziotta "che sapeva tutto su Elisa Claps". Il fratello della Claps aveva rivelato: "Sapeva dov'era sepolto il corpo".
Anna Esposito fu trovata impiccata alla maniglia della porta il 12 marzo 2001. Commissario capo, dirigente della Digos della questura di Potenza, madre di due bambine, ci furono diverse indiscrezioni secondo le quali l'agente sapeva dove era sepolta Elisa Claps. Altro caso che tenne l'Italia col fiato sospeso: il corpo della ragazza fu trovato 16 anni dopo la scomparsa e dell'omicidio venne infine accusato Danilo Restivo. Sul caso di Anna, al pm Sergio Marotta furono concessi 6 mesi per le indagini, in base all'ipotesi di omicidio volontario. Alla fine l'archiviazione: si è trattato di suicidio. A poco valse il fatto che imbrigliarsi alla maniglia di una porta è uno strano modo per suicidarsi, che i piedi toccavano a terra, che la fibbia della cintura si trovava sulla parte anteriore del collo e non dietro, come sarebbe stato normale. E inascoltate furono anche le dichiarazioni del fratello della Claps a Chi l'ha visto, quelle in cui raccontava che Anna avrebbe confidato alla mamma dov'era il cadavere di Elisa Claps, solo pochi giorni prima di morire. Le indagini si fermarono, perché nulla era emerso dalle relazioni amorose di Elisa con un giornalista, dalla vita familiare della ragazza e dalle ultime ore di vita prima che venisse trovata nel suo appartamento nella caserma Zaccagnino. Ma ora le indagini si riaprono. Dopo che un'inchiesta aveva stabilito l'inesistenza di collegamenti con il caso Claps, sono emersi nuovi elementi. La nuova indagine riparte da un'inchiesta svolta dalla Gazzetta del Mezzogiorno su particolari mai sviluppati dopo la morte di Anna Esposito e sulle carte depositate a Salerno, riguardanti il caso Claps e la condanna di Restivo a trent'anni di carcere.
COME E’ MORTA ANNA ESPOSITO?
«Il segreto di Anna» era legato ad Elisa Claps, scrive Ver.Med. su “Il Tempo”. C’è una penna, accanto a un corpo esanime, immobile perché il soffio di vita non c'è più. Lei è «fredda. Pallida. Il suo volto è sereno, ma il corpo è già rigido». Non c’è però un foglio su cui scrivere. C’è inoltre un diario dove la vittima era solita appuntare, puntuale, tutto ciò che le accadeva, ogni giorno. Mancano delle pagine. Quattro. Stracciate con violenza e magari in velocità, anche. A lanciare l’allarme del dubbio, alcuni pezzettini di carta ancora attaccati agli anelli di metallo. È la mancanza a creare sospetti. E non solo. C’è il cappellano della Questura, don Pierluigi Vignola, a lui Anna aveva confessato un tentativo non riuscito di suicidio. Ma «il 14 marzo Anna è stesa sul tavolo dell’obitorio». Il modus operandi della vittima può essere lo stesso? La signora Olimpia Magliano, mamma di Anna, rivela una confidenza fattale dalla figlia: nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove era stata sepolta Elisa Claps. La ragazza scomparsa e uccisa a Potenza il 12 settembre del 1993. L'assassino? Danilo Restivo. C’è la chiesa della Santissima Trinità poi, dove i fedeli si recano per ricongiungere l’anima a Dio. È proprio lì, nel sottotetto, che il 17 marzo del 2010 è stato ritrovato il corpo della giovane. «Il segreto di Anna» (EdiMavi, pag. 80 euro 13,00) di Fabio Amendolara è un libro inchiesta su un suicidio sospetto: la misteriosa morte di Anna Esposito e gli intrecci con la scomparsa di Elisa Claps. Nell’appartamento di servizio all’ultimo piano della caserma Zaccagnino di Potenza in via Lazio, il 12 marzo del 2001 viene ritrovato il corpo del commissario della Digos. Strangolata da qualcuno che conosceva e poi appesa per il collo con una cinta, alla maniglia della porta del bagno, per simulare un suicidio. «Il corpo è sospeso di pochi centimetri. Il cappio le gira attorno al collo, ma non è serrato e le segna a malapena la pelle». La dottoressa Romeo, Di Santo, Cella e l’ispettore Paradiso, quattro poliziotti esperti, ritrovano il suo corpo, ma non si accorgono del «rigor mortis», strano. I sospetti vanno allontanati dalla Questura. Nella sua prefazione Gildo Claps, fratello di Elisa, racconta la telefonata ricevuta da Anna Esposito il giorno prima della sua morte. «Quello che so con certezza è che tante coincidenze insieme portano inevitabilmente a considerare plausibili anche le supposizioni più ardite». Abbiamo un obbligo morale, portare alla luce la verità. Anna e Elisa, due donne, avevano un sogno nel loro futuro, la vita.
Il segreto di Anna, la poliziotta del caso Claps. Fu trovata impiccata. Caso archiviato: suicidio. Ora si torna a indagare: per omicidio, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. Il caso Claps è un cubo di Rubik insoluto. Quando ti illudi che i quadretti siano ormai tutti della stessa tinta, ecco spuntare un colore fuori posto. E allora sei costretto a ricominciare. Per mesi, per anni. Senza certezze, se non quella che Danilo Restivo è in carcere e lì resterà a lungo. Restivo dopo aver ucciso Elisa Claps «espatriò» in Inghilterra dove massacrò un'altra poveretta. Domanda angosciante: almeno questo secondo delitto poteva essere evitato? Ed è qui che si innesca un giallo nel giallo. Nel 2001 (cioè 9 anni prima del ritrovamento del cadavere della studentessa potentina nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza) il corpo del commissario di Polizia, Anna Esposito, viene trovato «impiccato» alla maniglia di una porta del suo appartamento. Benché gli stessi inquirenti parlino subito di «suicidio anomalo», il caso viene archiviato, evidenziando come possibile movente del «gesto estremo» una non meglio precisata «crisi sentimentale». Ma dietro quella morte c'è forse ben altro di un amore contrastato, di una situazione familiare complessa (ma non certo drammaticamente disperata): dietro quella morte c'è, forse, un collegamento con Elisa Claps che, all'epoca della morte della di Anna Esposito, era scomparsa già scomparsa nel nulla da otto anni. Della studentessa potentina si perdono le infatti le tracce la domenica mattina del 12 settembre 1993, mentre il cadavere delle poliziotta viene ritrovato il 12 marzo 2001. Otto anni durante i quali i sospetti su Danilo Restivo sono tanti, ma non suffiecienti ad arrestarlo; il cerchio su Restivo si stringerà infatti solo successivamente al ritrovamento del cadavere di Elisa avvenuto «ufficialmente» il 17 marzo 2010. Il commissario Esposito, pochi giorni prima della sua morte, telefonò al fratello di Elisa, dicendogli di avere «novità» sulla vicenda della ragazza. Un incontro che non avvenne mai, Anna non ne ebbe il tempo... È questo l'elemento chiave attorno al quale ruota il documentato libro inchiesta, «Il segreto di Anna» (EdiMavi), del giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Fabio Amendolara. Pagine e pagine di presunte «discrepanze nei rapporti giudiziari della polizia e falle investigative». Sullo sfondo le «coincidenze» che collegherebbero la morte del commissario all'omicidio della giovane Elisa. Usatissima nel libro è la parola «depistaggio». La stessa che ha contraddistinto - non senza ragione - l'intera odissea della famiglia Claps che la sua battaglia l'ha sempre combattuta (e vinta) con tenacia e dignità. Ma nel caso Claps sono ancora tante le cose che ancora restano in penombra. Ma non è mai troppo tardi per far entrare la luce. Per questo va salutata con favore la decisione della magistratura lucana di riaprire il fascicolo sulla morte del commissario Anna Esposito. Suo padre ha sempre urlato: «Mia figlia non si sarebbe mai tolta la vita...». E allora non resta che un'altra ipotesi: omicidio, la nuova pista su cui la Procura della Repubblica di Potenza ha deciso di indagare. Qual era il «segreto» che Anna voleva svelare al fratello di Elisa? Chi aveva interesse a chiudere la bocca della poliziotta?
Il cubo di Rubik continua ad avere un colore fuori posto. Il suicidio di Anna Esposito, sapeva dov’era Elisa Claps: l’inchiesta di Fabio Amendolara, scrive Filomena D'Amico su"Stile Firenze”. Anna Esposito, un commissario di polizia di 35 anni viene trovata impiccata alla maniglia della porta del bagno nel 2001 nel suo appartamento a Potenza, il caso venne archiviato da subito come suicidio. Ma i dubbi dei familiari, le discrepanze nelle indagini, le prove mai esaminate e quella strana connessione con la vicenda di Elisa Claps hanno imposto la riapertura del caso dopo 12 anni. Nella sua inchiesta giornalistica, oggi diventata un libro, Fabio Amendolara rilegge tutti gli atti e le deposizioni, ricostruisce le sequenze di quella tragica mattina, appunta una per una le anomalie, gli indizi tralasciati e gli interrogativi mai risolti; finché la sua indagine non si imbatte in un’inquietante coincidenza che lega Anna al caso dell’adolescente scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere il 17 marzo del 2010 nel sottotetto della Chiesa di Santissima Trinità in quella stessa città, Potenza. E’ da qui che prende le mosse il suo libro il “Segreto di Anna” presentato alla Biblioteca dell’Orticoltura di Firenze. Benché dopo anni il colpevole dell’omicidio di Elisa Claps, Danilo Restivo, sia stato assicurato alla giustizia, ancora oggi sulla vicenda permangono fitti coni d’ombra e domande ancora in cerca di risposte. Nel 2009 proprio indagando sul caso Claps, Amendolara cronista di nera della Gazzetta del Meggiorno, scova un’informativa redatta da un sottoposto del commissario Esposito, nel documento il vice sovrintendente scriveva che da una fonte confidenziale aveva appreso che i resti del corpo di Elisa erano nella Chiesa della Trinità di Potenza. Siamo nel marzo del 2001, 19 giorni dopo la morte di Anna e 9 anni prima del ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto della chiesa.
Chi è Anna Esposito? Anna è un commissario capo della Polizia, dirigente della Digos a Potenza con un matrimonio alle spalle e due figli che vivono col padre a Cava dei Tirreni in provincia di Salerno. E’ qui che Anna ha trascorso il week end, l’ex marito riferirà che era serena. Il pomeriggio di domenica rientra a Potenza, sale su all’ultimo piano della caserma nell’appartamento a lei assegnato, ciondola per casa, fa una telefonata alla madre alle 19:40 poi sceglie un vestito nero, calze nere e scarpe eleganti quella sera c’è una festa e lei è stata invitata. La ritroveranno il lunedì mattina a Potenza con il cinturone della divisa legata al collo e appeso alla maniglia del bagno, il corpo semi seduto a terra con i glutei sollevati di pochi centimetri dal pavimento. La polizia di Potenza si orienta senza troppi dubbi sul suicidio, nemmeno la singolare definizione di impiccamento atipico scritta nero su bianco nella relazione dei medici legali da nuovo impulso alle indagini. Una turbolenta storia d’amore appena conclusa e poi quella voce, quella confidenza fatta in un confessionale, di un precedente tentativo d’omicidio sono elementi sufficienti per convincere gli inquirenti. Eppure in quella stanza dove Anna ha trovato la morte una domenica di fine inverno sono molte le cose che non tornano. Il letto non è disfatto e la luce della lampada è ancora accesa, dunque tutto deve essere accaduto dopo il tramonto. Fabio Amendolara nella sua inchiesta mette in fila le anomalie, le contraddizioni e le falle investigative: nell’ appartamento quella mattina c’è un via vai di agenti, ispettori, medici; nessuno di loro pensa ad isolare l’area per preservare le prove. A un certo punto, una collega di Anna tenta persino una manovra di rianimazione sul corpo del commissario manomettendo così la posizione originaria del corpo. Non ci sono foto di come fu effettivamente ritrovata Anna, quando la Polizia Scientifica entra nell’appartamento il corpo della poliziotta è già stato slegato. Accanto al letto tra gli oggetti personali della donna gli ispettori registrano la presenza di due biglietti ferroviari, perché due? Qualcuno aveva viaggiato insieme ad Anna quel pomeriggio? A fianco al corpo una penna ma nella stanza non fu ritrovato nessun biglietto; circostanza alquanto anomala per una come Anna che invece aveva l’abitudine di appuntarsi tutto in un’agenda da cui non si separava mai. Da quella agenda ad anelli sono state sottratte delle pagine, strappate con l’imperizia di chi non si preoccupa di sfilare poi i residui di carta. Non è mai stata fatta un esame grafico sull’agenda che potesse rivelare cosa vi fosse scritto nelle pagine che mancano. In caserma i colleghi della Esposito erano a conoscenza che il commissario riceveva di frequente degli strani biglietti minacciosi; Anna se li ritrovava sulla scrivania dell’ufficio, infilati sotto la porta o anche dentro la borsa. Eppure di questi strani episodi non c’è traccia nel fascicolo d’inchiesta né furono mai prelevate le impronte per compararle con quelle sulla scena del crimine.
Cosa c’entra Anna Esposito con il caso di Elisa Claps?
La città è la stessa, Potenza; il primo vero anello di congiunzione tra i due casi è la figura di un sacerdote, Don Pierluigi Vignola il cappellano della Questura. Il quale sembra sapere particolari riservati della vita della Esposito e dettagli importanti dell’inchiesta che riguarda la sua morte. Don Vignola racconta, Don Vignola omette, spesso a seconda dell’interlocutore. Racconta agli inquirenti di aver raccolto in confessione una confidenza agghiacciante da parte di Anna: quel suicidio con quelle stesse modalità lei lo aveva già tentato un mese prima. Ma Don Vignola è anche colui che nel 1993 il giorno dopo la scomparsa di Elisa celebrò messa nella Chiesa della Santissima Trinità in sostituzione di Don Mimì Sabia, partito per Fiuggi. Circostanza che il prelato ha sempre smentito. Ma il sentiero che da Anna conduce dritto in quella chiesetta di Potenza e al terribile omicidio della Claps è costellato di indizi e coincidenze. Gildo Claps, fratello di Elisa, possiede una scuola d’Inglese, un giorno del 2001 riceve una telefonata: è Anna Esposito che vuole avere delle informazioni su un corso che vorrebbe seguire; non vuole parlarne per telefono. “Le dispiace se passo a trovarla?” chiede Anna. L’appuntamento è per il lunedì pomeriggio dopo il lavoro. La domenica sera Anna muore. Dopo la morte di Anna la signora Olimpia Magliano, mamma di Anna, rivela a Gildo Claps una confidenza fattale dalla figlia: nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove era stata sepolta Elisa Claps. La ragazza scomparsa e uccisa da Danilo Restivo a Potenza il 12 settembre del 1993. L’inchiesta sulla morte di Anna Esposito è stata riaperta e anche grazie al lavoro di Fabio Amendolara emergono oggi nuovi dettagli su questo giallo; una telefonata sarebbe arrivata al 118 prima dell’irruzione dei poliziotti nella appartamento del loro dirigente, forse potrebbe essere questa la chiave del mistero.
Potenza, nuovo giallo su poliziotta morta: «Aveva costole rotte», scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Difficile stabilire con certezza se le ecchimosi trovate siano precedenti alla morte». Ma è necessario un approfondimento su alcune costole fratturate. Verrà effettuato nei laboratori dell’Università di Chieti. Il professor Francesco Introna, medico legale che si occupa della seconda autopsia sul corpo di Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato morto nella caserma Zaccagnino di via Lazio a Potenza il 12 marzo del 2001 in circostanze mai chiarite - lo ha detto in modo chiaro. È questo il risultato dell’esame effettuato l’altro giorno all’Università di Bari con i consulenti tecnici della Procura, della famiglia Esposito e dell’indagato (il giornalista Luigi Di Lauro, ex compagno della poliziotta che si dichiara innocente). È sulle fratture, quindi, che si concentra l’attenzione dell’equipe del professor Introna. Bisogna accertare con precisione scientifica se quelle fratture costali siano state prodotte da una colluttazione. «Bisogna controllarle bene queste fratture e bisogna contestualizzarle - ha detto uno dei consulenti della famiglia Esposito - ma le fratture costali prodotte da un impiccamento da bassa altezza sono un elemento dubbio». «Oggi è incauto se non irresponsabile giungere ad affrettate conclusioni», chiosa uno dei periti dell’indagato (accompagnato dall’avvocato Leonardo Pinto). Il caso all’epoca fu chiuso in fretta ritenendo provato il suicidio. Il commissario fu trovato con la cintura stretta attorno al collo e legata alla maniglia della porta del bagno. La riesumazione della salma è stata disposta dai magistrati della Procura di Potenza Francesco Basentini e Valentina Santoro. Anna è stata trovata impiccata alla maniglia della porta del bagno del suo alloggio con una cintura stretta attorno al collo. L’ipotesi è che si sia trattato di una messinscena. Anna potrebbe essere stata soffocata e poi appesa alla maniglia della porta con una cintura per simulare il suicidio. È giunto a queste conclusioni anche il consulente tecnico della Procura - Giampaolo Papaccio, professore di istologia ed embriologia medica della Seconda università degli studi di Napoli - che ha analizzato le fotografie della prima autopsia. La presenza di macchie ipostatiche in punti anomali del corpo farebbe supporre che Anna sia stata appesa dopo la sua morte. La letteratura medica prevede che le ipostasi - delle macchie violacee che si formano sui cadaveri - nei casi di impiccamento vadano a fissarsi sulle mani e sui piedi. Nel caso di Anna - stando alle fotografie della prima autopsia - le macchie ipostatiche si sono formate anche in altre aree. È uno dei tanti aspetti scientifici da approfondire.
Potenza, morte di Esposito scoperta macchia sul viso, continua Fabio Amendolara. Una macchia rotonda giallastra con un punto rosso molto evidente nella parte superiore, tra l’arco del sopracciglio e l’attaccatura dei capelli: proprio sulla tempia sinistra. A guardarla nell’unica foto in cui compare - che la Gazzetta può pubblicare in esclusiva - sembra una contusione. È come se Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato morto il 12 marzo del 2001 in circostanze mai chiarite (il caso era stato chiuso in fretta come suicidio e riaperto un anno fa, dopo un’inchiesta giornalistica della Gazzetta, con l’ipotesi di omicidio volontario) - fosse stata colpita proprio in quel punto. Quel particolare non è stato descritto in nessun documento dell’inchiesta. Non compare nelle informative degli investigatori e neppure negli atti del sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica, nonostante sia ben visibile in una delle foto di primo piano scattate mentre il corpo senza vita della poliziotta era poggiato sul tavolo d’acciaio dell’obitorio. Il caso all’epoca fu chiuso in fretta come suicidio. Anna fu trovata legata alla maniglia della porta del bagno del suo alloggio, nella caserma della polizia di Stato di via Lazio a Potenza, con una cintura stretta attorno al collo. Con molta probabilità, quindi, l’attenzione degli investigatori si concentrò sul collo della vittima. Gran parte delle informazioni riportate nei documenti investigativi, infatti, riguarda il segno lasciato dalla fibbia della cintura sulla pelle della donna. E furono ben descritte le dimensioni del «solco latente» disegnato dal cuoio sulla gola. «Impiccamento atipico incompleto» lo definirono i medici-legali che effettuarono l’autopsia. Atipico perché la fibbia della cintura non si posizionò - come prevede la letteratura medica - sulla nuca della vittima ma sul lato del collo. E incompleto perché mancò quella sospensione necessaria a permettere lo strozzamento. Tutti gli accertamenti investigativi e scientifici si concentrarono su questi aspetti. Quella piccola contusione all’epoca forse apparve ininfluente. Oggi, però, superata l’ipotesi del suicidio - grazie anche a una consulenza medico-legale disposta dopo la riapertura dell’inchiesta coordinata dai magistrati della Procura di Potenza Francesco Basentini e Valentina Santoro - potrebbe trasformarsi in un dettaglio importante. Ancora oggi potrebbe essere utile accertare se quel livido stampato sulla tempia della poliziotta le sia stato provocato prima o dopo la morte. Ma cosa potrebbe aver prodotto quel segno sulla pelle? Un pugno sferrato da una mano con infilato un anello al dito? Oppure Anna è stata colpita con un oggetto? Al momento si tratta di ipotesi che la nuova inchiesta, però, non potrà ignorare.
Giallo Esposito, spunta un’impronta mai comparata, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Proprio sotto la piastra metallica che fissa la maniglia alla porta del bagno c’era un’impronta digitale che all’epoca fu «isolata» dagli investigatori della polizia scientifica. A quella maniglia 13 anni fa è stata trovata legata con una cintura stretta al collo Anna Esposito, il commissario della polizia di Stato morto in circostanze mai chiarite nella caserma della polizia di via Lazio a Potenza. Quell’impronta digitale all’epoca fu ignorata perché la Procura procedeva per l’ipotesi di suicidio. Un anno fa il caso è stato riaperto - dopo un’inchiesta giornalistica della Gazzetta e la richiesta di riapertura avanzata dai familiari - e ora la Procura ipotizza l’omicidio volontario. Mentre il professor Francesco Introna - che ha ricevuto incarico dai magistrati Francesco Basentini e Valentina Santoro di far luce sulle cause della morte della poliziotta - torna l’interesse su quell’impronta digitale mai comparata. Sulla porta del bagno all’epoca è stata cosparsa polvere di alluminio per «esaltare» le possibili tracce. «Un frammento di impronta - scrivono gli investigatori della polizia scientifica nel verbale di sopralluogo - asportato con adesivo nero dalla superficie esterna dell’imposta del bagno di servizio, in prossimità del bordo destro e sotto la piastra di fissaggio della maniglia di apertura» è tra gli atti finiti in archivio. «Il frammento - si legge nel rapporto giudiziario - è stato prelevato due volte al fine di poterne migliorare le qualità morfologiche e di nitidezza». Già all’epoca, quindi, la qualità dell’impronta era stata migliorata. Oggi le nuove tecniche di laboratorio con molta probabilità potranno permettere ulteriori miglioramenti. Il caso all’epoca fu chiuso in fretta ritenendo provato il suicidio. La poliziotta fu trovata con la cintura stretta attorno al collo e legata alla maniglia della porta del bagno. «Suicidio atipico incompleto», fu definito dai medici-legali. «Atipico» perché la fibbia della cintura fu trovata al lato del collo della poliziotta e la letteratura medica prevede che nella gran parte dei casi la fibbia debba posizionarsi sulla nuca. E «incompleto» perché era mancata la sospensione necessaria a permettere lo strozzamento (il corpo di Anna toccava con i piedi il pavimento e parzialmente anche con i glutei). Ora il professor Introna - che la scorsa settimana ha eseguito la nuova autopsia - sta cercando di accertare con precisione scientifica se Anna è stata appesa alla maniglia della porta quando era già morta.
Potenza, giallo Claps. Ex questore «frainteso» sugli innocenti depistaggi, continua Fabio Amendolara. I chiarimenti dell’ex questore di Potenza Romolo Panìco sugli «innocenti depistaggi», la conferenza stampa «congiunta» convocata «solo dal vescovo» e poi annullata, le sue due relazioni di servizio sul ritrovamento di Elisa Claps (la studentessa scomparsa e uccisa il 12 settembre del 1993, i cui resti sono stati ritrovati «ufficialmente» il 17 marzo del 2010). E le novità sugli operai, emerse durante il processo a Potenza e non durante l’inchiesta della Procura di Salerno, confermate parzialmente in aula dall’imprenditore Antonio Lacerenza. I due testimoni hanno risposto alle domande del pubblico ministero Laura Triassi e a quelle degli avvocati Giuliana Scarpetta (legale della famiglia Claps) e Maria Bamundo (che difende le signore delle pulizie, Margherita Santarsiero e Annalisa Lo Vito, accusate di aver detto il falso al pm di Salerno Rosa Volpe). «Le ulteriori contraddizioni emerse durante l’udienza di ieri confermano che il ritrovamento è stato solo una messinscena», commenta Gildo Claps, fratello di Elisa al termine dell’udienza. La frase «innocenti depistaggi» - pronunciata dal questore Panìco immediatamente dopo il ritrovamento - «fu detta male e io esposi un concetto in maniera banale, ovvero che una parte delle indagini, subito dopo la scomparsa della ragazza, fu anche depistata da elementi frutto della fantasia». Lo ha ripetuto: «Ho esposto un mio concetto in modo errato, banale, e mi sono pentito di averlo spiegato in questa maniera. Intendevo dire – ha precisato Panico – che subito dopo la scomparsa di Elisa non ci furono solo reali depistaggi, come quelli di Danilo Restivo. Furono forniti agli investigatori anche elementi frutto di fantasia che determinarono errori nelle indagini, ma non erano depistaggi voluti». E i depistaggi, innocenti e meno innocenti, sono continuati dopo il ritrovamento. La famiglia Claps ne è convinta. Nel corso di una precedente udienza è emerso che c’era un quarto operaio la mattina del ritrovamento (nell’inchiesta della Procura di Salerno questo importante particolare non era stato accertato). Ieri mattina si è appreso che ora è un dipendente della ditta Lacerenza (l’impresa incaricata dalla Diocesi di effettuare i lavori nel sottotetto). Ma al contrario di quanto emerso precedentemente il testimone sostiene che non è stato il quarto uomo a trovare i resti di Elisa. La ricostruzione dell’imprenditore - che lascia molti punti interrogativi - è questa: da un paio di sopralluoghi emerse la necessità di risistemare il terrazzo della chiesa, allagato per l’ostruzione di una grondaia, ma non il sottotetto. L’umidità in chiesa «non era in corrispondenza con l’angolo nel sottotetto» in cui è stata trovata Elisa. «Vidi che la porta del sottotetto - ha sostenuto Lacerenza - era aperta e chiesi di chiuderla e pulire la grondaia antistante e per questo mi sono rivolto a un’altra ditta specializzata in queste cose, ma fu l’operaio a scegliere di ispezionare anche l’abbaino, e mi chiamò terrorizzato spiegandomi di aver trovato uno scheletro». Sulla presenza del quarto operaio l’imprenditore ha spiegato di averlo saputo solo dalle recenti cronache giornalistiche, chiedendo poi spiegazioni: «Fu chiamato – ha concluso – solo per recuperare alcuni attrezzi ma mi hanno spiegato che non è salito sul sottotetto, e lui stesso me lo ha confermato quando di recente l’ho incontrato, suggerendogli anche di recarsi in Questura per precisare i dettagli di questa vicenda». L’imprenditore ha detto che il quarto uomo è arrivato sul posto quando i resti di Elisa erano già stati ritrovati. L’altro operaio - è la versione di Lacerenza - avrebbe perso tempo a cercare i grattini per il parcheggio. Ma se l’umidità non era in corrispondenza con l’angolo del sottotetto in cui era nascosta Elisa perché fu necessaria quell’ispezione? Perché se i dipendenti appartenevano a un’altra ditta chiamarono Lacerenza e non il loro datore di lavoro? La chiesa della Trinità ha un parcheggio riservato, perché il quarto operaio perse tempo a cercare dei grattini per il parcheggio? Sono gli ulteriori interrogativi a cui il processo dovrà cercare di rispondere.
Omicidio Claps. Don Noel: mai salito nel sottotetto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Don Akamba Noel, sacerdote di origine congolese, ha retto la Chiesa della Santissima Trinità di Potenza tra ottobre 2007 e luglio 2008, in sostituzione di don Mimì Sabia, malato in quei mesi (e morto a marzo del 2008), ma «non è mai salito nel sottotetto dell’edificio» dove nel 2010 fu trovato il cadavere di Elisa Claps. È uno degli elementi emersi nel corso del processo per falsa testimonianza a due donne che si occupavano delle pulizie nella chiesa, che si sta svolgendo a Potenza. Don Noel è stato nominato «cooperatore parrocchiale» dal vescovo di Potenza, monsignor Agostino Superbo, il 4 ottobre 2007: a febbraio dell’anno successivo ha ricevuto poi l’incarico di «amministratore parrocchiale». Rispondendo alle domande dell’avvocato della famiglia Claps, Giuliana Scarpetta, don Noel ha spiegato che «in quei mesi andavo solo a celebrare la messa la mattina e il pomeriggio» senza «occuparmi di altro» e senza «mai aver dato istruzioni o compiti a nessuno, nemmeno alle donne delle pulizie», dicendo di non ricordarsi delle due donne imputate nel processo. Il sacerdote ha quindi raccontato di aver visto del materiale di risulta nel cortile «ma non mi sono mai chiesto l’origine di quel materiale», evidenziando quindi di non sapere «che una parte fu usata per rompere la vetrina di un negozio nei pressi della Trinità». «Ho solo chiesto – ha aggiunto – ad alcuni ragazzi che venivano in chiesa di ripulire il giardino perchè era sporco, e questo fu fatto, ma non davo mai compiti a nessuno, e in molti avevano le chiavi dell’edificio». La storia di Elisa «l'ho appresa dalla stampa», ma «non ne ho parlato mai con nessuno», nemmeno con don Mimì Sabia, precisando «solo di sapere che l’accesso nel sottotetto non era permesso, perchè era sotto sequestro, e mi hanno spiegato che era a causa delle indagini»; quando il cadavere fu ritrovato, nel 2010, il sacerdote era in Congo e fu informato da un «amico sacerdote, don Rodrigo», che adesso vive in Sardegna «spiegandomi che avevano trovato una ragazza morta nella Trinità», ma anche in questo caso «non ne ho mai parlato con nessuno successivamente». Al termine dell’udienza la madre di Elisa, Filomena Iemma, ha fermato don Noel e gli ha detto ironicamente «grazie per tutte le fandonie che hai detto oggi».
Una lettera è rimasta nell’appartamento del parroco, al secondo piano della chiesa della Trinità di Potenza, per 17 anni. Come Elisa. Continua Fabio Amendolara. Anche lei è rimasta per 17 anni chiusa in quella chiesa, ma nel sottotetto. Il giorno del ritrovamento dei resti di Elisa è stata trovata anche la lettera. Come se i due ritrovamenti fossero in qualche modo legati l’uno all’altro dal destino. Su un foglio beige manoscritto, indirizzato alla famiglia Claps, c’erano poche parole impresse con grafia d’altri tempi e inchiostro nero. Frasi di circostanza e un particolare che lasciava intendere che Elisa era andata via. Che si era allontanata di sua volontà. E invece era proprio lì. In quella chiesa. Nel sottotetto, poco più sopra dell’appartamento in cui è stata conservata quella lettera rivolta alla famiglia Claps, ma mai spedita. In basso, sulla destra, una sigla: «D. S.». Gli investigatori hanno sospettato subito di lui. Del parroco. E lo hanno scritto: «Verosimilmente è una lettera di don Domenico Sabìa, conosciuto da tutti come don Mimì». La grafia - sono le valutazioni fatte dagli investigatori durante la repertazione del documento - è la stessa di quella impressa sull’agenda personale del parroco e sulle ricevute dei pagamenti per le piccole spese che il sacerdote conservava in Canonica. La segnalazione della Squadra mobile di Potenza - all’epoca diretta dal vicequestore aggiunto Barbara Strappato - è arrivata poco dopo in Procura a Salerno. Ma, a quanto pare, non è finita tra gli atti dell’in - chiesta. Né tra quelli del processo. «Noi non sappiamo nulla di quella lettera», conferma Gildo Claps, fratello di Elisa. E aggiunge: «Non ne siamo mai stati informati». Era un particolare irrilevante? La data: «19 settembre 1993». Elisa era stata uccisa da una settimana. In quel momento però in città a Potenza tutti sapevano che era solo scomparsa. Tutti tranne Danilo Restivo che, per la giustizia, è l’assassino. E, forse, tranne chi l’ha aiutato a restare nell’ombra per 17 anni. Gli uomini che hanno fornito «le coperture» denunciate da anni dalla famiglia Claps e che ormai non sta cercando più nessuno. Gli investigatori hanno provato a capire se quella lettera, diventata un reperto giudiziario, fosse in qualche modo collegata alla morte di Elisa. E hanno ricostruito gli spostamenti di don Mimì che proprio il pomeriggio di quel 12 settembre era partito per Fiuggi. Il viaggio per le terme era prenotato da tempo. Ma don Mimì era dovuto tornare di corsa a Potenza il 16 per la convocazione in Questura. Disse velocemente di non conoscere Elisa, di conoscere appena Danilo e di non essersi accorto di nulla quella domenica mattina (confermò gli stessi particolari successivamente durante il processo per la falsa testimonianza di Restivo). Don Mimì sarebbe poi ripartito il 17 per completare le terme e avrebbe fatto rientro a Potenza il 24. Quando scrisse la lettera indirizzata ai Claps, quindi, era a Fiuggi. Il sacerdote potrebbe anche averla scritta successivamente, retro-datandola al 19 settembre. E anche se l’ipotesi del depistaggio è la prima che è venuta in mente a chi ha potuto leggere il documento, è difficile credere che in realtà quella lettera fosse rivolta a chi l’avrebbe trovata successivamente. Ma perché impegnarsi a scrivere una lettera per poi non spedirla? E perché conservarla per tutto quel tempo? Sono domande a cui - dopo 21 anni - sarà difficile rispondere.
Luigi Di Lauro, giornalista Rai, indagato per omicidio di Anna Esposito, scrive “Blitz Quotidiano”. C’è un indagato nell’inchiesta sulla morte di Anna Esposito, la commissaria di polizia di Potenza che indagava sulla scomparsa di Elisa Claps e che è stata trovata impiccata con una cintura alla maniglia della porta di casa il 12 marzo del 2001. L’uomo è Luigi Di Lauro, 48 anni, giornalista Rai di Potenza, riferisce Francesco Viviano su Repubblica. Di Lauro è stato iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di “omicidio volontario”. L’ipotesi degli inquirenti è che Anna Esposito sia stata uccisa per “motivi passionali”. Di Lauro prima di sposarsi aveva avuto una lunga e tormentata relazione con Esposito, separata e madre di due bambini. Ricorda Viviano che “Di Lauro, alcuni giorni dopo il “suicidio”, era stato sentito come “persona informata dei fatti” fornendo un alibi “non molto convincente”. Secondo le perizie dei medici legali la donna era morta tra le 21 e le 22 del 12 marzo del 2001 e il giornalista aveva sostenuto di avere incontrato il commissario lasciandola a casa intorno alle 20″. L’iscrizione nel registro degli indagati di Di Lauro è una vera e propria svolta che arriva in una inchiesta in cui non sono mancati, scrive Viviano, “buchi e reticenze anche da parte di alcuni colleghi del commissario Esposito: quelli che senza un motivo plausibile, quel giorno di 13 anni fa andarono nella casa di servizio della Questura di Potenza dove abitava la donna “perché aveva ritardato di qualche ora in ufficio”, inquinando così la scena del delitto senza avvertire il magistrato”. Agli atti dell’inchiesta c’è anche un dettagliato rapporto dell’ex capo della Mobile di Potenza che evidenzia “omissioni nella precedente indagine che fu incredibilmente archiviata come “suicidio”. Ma un suicidio impossibile: il cappio al collo con una cintura di cuoio fissata sulla maniglia di una fragile porta dell’appartamento, a un metro e tre centimetri di altezza, con il bacino della vittima che sfiorava il pavimento. Quando i colleghi di Anna entrarono in casa sfondando la porta, fecero molti errori, e il magistrato di turno trovò tutto sottosopra: cassetti rovistati, anche in ufficio e soprattutto l’agenda personale di Anna con le pagine strappate”.
Il giallo dell’autocensura si abbatte sulla trasmissione “Chi l’ha visto?” in merito al caso di Anna Esposito, la dirigente della Digos di Potenza, trovata morta in casa nel marzo del 2001. Da subito si pensò al suicidio, scrive Luca Cirimbilla su "L'Ultima Ribattuta". Ora, dopo 13 anni, la procura di Potenza ha aperto un fascicolo per omicidio e, secondo “Chi l’ha visto?” una persona risulta iscritta nel registro degli indagati. Senza specificare chi. A fare il nome e cognome, ci ha pensato ieri il giornalista de la Repubblica, Francesco Viviano. Il sospettato è Luigi Di Lauro, giornalista Rai, volto noto del Tg3 della Basilicata che ha avuto una relazione con Anna Esposito. Davvero una strana mancanza per una trasmissione come “Chi l’ha visto?” che da sempre si contraddistingue per dare notizie esclusive ed in anteprima, molto spesso anche decisive per le indagini. La trasmissione sin dal suo debutto ha contribuito allo sviluppo di molti casi, spesso sostituendosi alle autorità competenti. Anna Esposito venne trovata in casa impiccata con una cinta stretta al collo annodata alla maniglia della porta del bagno. Tutto ha fatto pensare, in questi anni, appunto, al suicidio, ma ci sono ancora troppi dubbi. A ricostruire la dinamica del ritrovamento del cadavere è stata proprio l’ultima puntata della trasmissione condotta da Federica Sciarelli. Eppure stavolta sembra che “Chi l’ha visto?” abbia preferito mantenere un certo riserbo nelle indagini. La donna trovata morta in casa sua, all’interno del palazzo-caserma a Potenza, aveva avuto 2 figlie dal matrimonio. Poi arrivò la separazione dal marito e la frequentazione con un uomo. Per la sua morte la Procura di Potenza aprì un fascicolo per istigazione al suicidio. Dieci mesi dopo il decesso il pm Claudia de Luca chiese l’archiviazione del caso, nonostante avesse evidenziato alcuni passaggi poco chiari. Tra le incongruenze, riportate dal padre della vittima intervistato da “Chi l’ha visto?”, ci sarebbe un chewing-gum risultato ingoiato dalla vittima attraverso l’autopsia effettuata sul corpo. Questo farebbe presupporre a uno strangolamento improvviso, prendendo la donna alle spalle, da qualcuno che la vittima conosceva molto bene. A chiamare in causa Di Lauro ci sarebbero alcuni sms scambiati con Anna Esposito due giorni prima della morte. “Sai che ti amo anch’io” le scrisse. Il giornalista Rai, ora sposato, cominciò a frequentare la Esposito quando aveva già una relazione. Proprio il padre della Esposito ha sottolineato come non sia stato effettuato il rilevamento di Dna sulla cinta o l’analisi delle unghie della vittima, in caso di tentativo di difesa. Ad escludere il suicidio ci sarebbe anche la frattura della cricoide, una cartilagine che molto difficilmente si può rompere in un soggetto esile come quello di Anna Esposito e attraverso la dinamica di un suicidio come quello in cui la donna è stata ritrovata, ovvero impiccata da una bassa altezza come la maniglia di una porta. Alcuni colleghi, inoltre, hanno raccontato come la Esposito, nel periodo in cui frequentava Di Lauro, avesse mostrato numerosi segni di violenza sul corpo. L’ex marito e alcuni amici, invece, hanno ricordato che la vittima raccontò loro dei maltrattamenti subiti dall’allora fidanzato e che lui pretendeva prestazioni sessuali molto particolari. Perché la trasmissione della Sciarelli ha chiuso la ricostruzione senza dire il nome dell’iscritto nel registro degli indagati? Un caso di apparente suicidio si è dunque riaperto, ma un alone di mistero si sta riversando sulla strana censura che, questa volta, si è autoimposta la trasmissione “Chi l’ha visto?”.
Come è morta Anna Esposito, commissario capo, dirigente della Digos della Questura di Potenza trovata, il 12 marzo 2001, esanime nel suo appartamento di servizio nella caserma Zaccagnino del capoluogo lucano? Suicidio, sentenziò l’archiviazione dell’inchiesta. Dodici anni dopo le indagini, però, sono ripartite. Il gip del tribunale lucano Michela Tiziana Petrocelli ha dato al pubblico ministero, Sergio Marotta, sei mesi per indagare. Ipotesi: omicidio volontario.
Anna Esposito, nata a Cava de’ Tirreni (Salerno), 35 anni, separata, due bambine, era alla guida della «squadra politica» della questura potentina dal 1998. Prima donna ad assumere quell’incarico. Venne trovata con la gola imbrigliata in un cinturone assicurato a una maniglia di una porta. Uno strano modo per suicidarsi. La stessa autopsia, che confermò nello strangolamento la causa della morte, non potè non far rilevare l’atipicità di quel suicidio: perché i piedi della donna toccavano il pavimento, perché l’ansa di scorrimento della cinta (che misurava solo 93 centimetri) era posta anteriormente sul lato destro, mentre più normalmente avrebbe dovuto disporsi nella parte posteriore del collo. Vicino al cadavere fu trovata una penna, ma nessun foglio. Né biglietti con una qualche traccia che potesse spiegare il suicidio. Le indagini della procura di Potenza misero a soqquadro la vita professionale e personale di Anna Esposito. In particolare furono passate al setaccio le ore antecedenti al momento presunto della morte.
Furono vagliate diverse posizioni, in particolare di un giornalista con cui Anna aveva avuto una storia d’amore. Ma nulla portò a una direzione diversa da quella del suicidio. E così l’inchiesta fu archiviata. Restarono molte domande senza risposte e molti dubbi. E ad alimentare il giallo si aggiunse una dichiarazione fatta da Gildo Claps, il fratello di Elisa, uccisa a Potenza il 12 settembre 1993 da Danilo Restivo, alla trasmissione «Chi l’ha visto?». «La mamma di Anna Esposito - disse in tv Gildo Claps - mi ha detto che la figlia alcuni giorni prima di morire le aveva confidato che in Questura qualcuno sapeva dove fosse sepolta Elisa». Una dichiarazione che fece partire un’inchiesta della Procura di Salerno, dove c’erano le indagini sul caso Claps. Inchiesta che tuttavia ha stabilito l’inesistenza di collegamenti con il caso Claps. La nuova indagine riparte dalle carte rientrate da Salerno e da un’inchiesta giornalistica della Gazzetta del Mezzogiorno su particolari mai sviluppati dopo la morte di Anna Esposito. Sono in tanti sulla scena del crimine quel lunedì mattina di 12 anni fa, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Sono testimoni preziosi di un’inchiesta difficile: quella sulla morte del commissario della polizia di Stato Anna Esposito. L’altro giorno la Procura di Potenza ha ottenuto dall’ufficio gip - come svelato ieri dalla Gazzetta - il «via libera» per la nuova inchiesta. Ora la Procura ha sei mesi di tempo per risolvere il giallo. I primi ad arrivare nell’alloggio del commissario quella mattina sono tre ispettori della Digos e il dirigente dell’Ufficio del personale della Questura di Potenza. Ognuno di loro scriverà una relazione di servizio al capo della Squadra mobile. A coordinare le operazioni di sopralluogo all’epoca c’è una collega di Anna, anche lei è commissario: Teresa Romeo. Scrive: «Preciso che al momento del ritrovamento il corpo era in posizione quasi supina, con le spalle lato anteriore e le mani appoggiate alla porta del bagno, mentre le gambe erano in direzione del corridoio, inoltre la cinghia di cuoio era legata con un solo nodo alla maniglia della porta». Anche gli ispettori Gianfranco Di Santo e Antonio Cella descrivono ciò che hanno visto nell’alloggio del commissario Esposito: «Le spalle erano addossate alla porta del bagno con le gambe distese in direzione del corridoio e stretto al collo abbiamo notato una cintura per pantaloni in cuoio legata alla maniglia della porta del bagno». Nelle due relazioni di servizio le spalle di Anna sono appoggiate alla porta del bagno e le gambe sono distese in direzione del corridoio. Se così fosse la borchia di ferro della cintura si sarebbe posizionata dietro alla nuca della vittima. Ma nella relazione medica l’impiccamento viene descritto come «atipico» proprio perché il segno della borchia non è alla nuca, ma «posta anteriormente sul lato destro». I tre poliziotti hanno visto male? O sbagliano i medici? Il pubblico ministero della Procura di Potenza, Claudia De Luca, che all’epoca archiviò il caso come «suicidio», si accorse della contraddizione e convocò nel suo ufficio il commissario, i due ispettori che hanno firmato la relazione di servizio e un terzo ispettore che era presente al momento del ritrovamento ma che, però, non sottoscrisse l’informativa. Davanti al magistrato la versione dei poliziotti-testimoni cambia. E cambia anche la posizione in cui è stata trovata Anna. Ecco la nuova versione del commissario: «Anna aveva una cintura stratta al collo con un lato annodato intorno alla maniglia della porta del bagno e la spalla sinistra e la testa poggiate sulla porta. Sono rimasta colpita dai pugni chiusi e dall’espressione del volto che mi sembravano determinati». Le spalle non sono più appoggiate alla porta. Nella descrizione spariscono le gambe «in direzione del corridoio» e compaiono due nuovi particolari: i pugni chiusi e l’espressione del volto «determinata». Cambia anche la descrizione dell’ispettore Cella: «Ho notato la Esposito per terra nelle vicinanze della porta del bagno, con una cintura al collo legata da un lato alla maniglia della porta, con la spalla sinistra poggiata sulla porta, la testa leggermente chinata all’indietro». La testimonianza dell’ispettore Di Santo, su questo punto, è identica a quella del collega: cintura legata da un lato al collo e da un lato alla maniglia della porta del bagno, la testa leggermente chinata all’indietro. Di Santo aggiunge il particolare delle gambe: stese per terra. L’ispettore Mario Paradiso, invece, pur avendo scassinato la porta dell’alloggio e nonostante fosse entrato per primo, sostiene di non aver visto il corpo del commissario: «Non ho visto materialmente la posizione in cui è stata trovata la vittima prima che fosse slegata dalla cintura». Sono passati solo quattro giorni dal sopralluogo e resoconti e relazioni sembrano non combaciare completamente con lo stato dei luoghi. La posizione del volto in linea con la maniglia della porta avrebbe favorito lo scivolamento della cintura. Inoltre, la borchia di ferro della cintura, come dimostrano le fotografie della Scientifica e la relazione medica, si è posizionata sul lato destro del collo. Se tutto fosse andato come descritto al magistrato dai poliziotti-testimoni, la borchia - chiudendosi la cintura a mo‘ di cappio - si sarebbe posizionata sulla guancia sinistra e non sulla destra o, al limite, al centro della gola. Sbrogliare questo intoppo potrebbe far ripartire l’inchiesta.
E poi lo scandalo dei rimborsi. Per 40 dei 42 tra ex assessori, consiglieri regionali in carica e non, imprenditori e professionisti indagati per i rimborsi «scroccati» alla Regione Basilicata la Procura di Potenza ha depositato al gip la richiesta di rinvio a giudizio. Esclusi due consiglieri regionali che erano presenti nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari: Enrico Mazzeo Cicchetti ed Erminio Restaino. A loro due si aggiungono Prospero De Franchi e Gaetano Fierro, le cui posizioni erano già state stralciate dal procedimento principale e archiviate. Oltre ai pranzi, agli spuntini, ai viaggi, alle caramelle, alle sigarette, ai soggiorni in camere d’albergo matrimoniali con «persone non autorizzate» e al parquet di casa ci sono le cene politiche in giorni in cui contestualmente si documentano spese effettuate a centinaia di chilometri di distanza. Ci sono richieste di rimborso per cancelleria e per le gomme dell’auto. Ci sono i viaggi con la famiglia o con l’amica spacciati per «missioni» nei ministeri romani. Spese domestiche, regali, ricariche telefoniche. «Peculato», lo chiama il procuratore della Repubblica di Potenza Laura Triassi. È l’inchiesta sulla rimborsopoli che ha messo in ginocchio il consiglio regionale.
Dopo 18 anni Danilo Restivo è stato condannato a 30 anni per l'omicidio di Elisa Claps. I suoi legali annunciano che faranno appello, ma la mamma della giovane chiede ora a Restivo: "Dimmi chi ti ha coperto".
Danilo Restivo, che sta già scontando l'ergastolo in Inghilterra per l'omicidio della sarta Heather Barnet (trovata uccisa nel 2002 con modalità simili, si capirà in seguito, a quelle di Elisa Claps) è stato condannato a 30 anni, massimo della pena per un processo con rito abbreviato, per l'assassinio della giovane studentessa di 16 anni, scomparsa da Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità del capoluogo lucano, il 17 marzo 2010. Danilo Restivo ha avuto anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e la libertà vigilata per tre anni dopo l'espiazione della pena, oltre all'obbligo di pagare 700mila euro di risarcimento provvisionale. Sollievo per i familiari di Elisa Claps, che finalmente, dopo tanti anni, ottengono "giustizia", come spiega la mamma della giovane Filomena, perché è da sempre che sono convinti della colpevolezza di Restivo. Anche per questo la mamma di Elisa Claps afferma che il magistrato "che ha condotto le prime indagini" si dovrebbe "fare un esame di coscienza". Danilo Restivo, infatti, era stato già condannato a poco più di due anni per falsa testimonianza riguardo al caso di Elisa Claps, ma circa 18 anni fa non si riuscì ad arrivare a questa verità accertata ora in ambito processuale. Per la famiglia Claps molti sono ancora i misteri che ruotano attorno alla morte di Elisa, a partire da quelli definiti come "complici morali". Mamma Filomena spiega infatti che ora non ci può essere "perdono", e si appella a Danilo Restivo: "Ora prendi carta e penna e scrivimi la verità, dimmi chi ti ha coperto". Perché la famiglia Claps è convita che qualcuno sapesse da tempo dell'omicidio della figlia, e di dove si trovasse il suo corpo. "E' la verità sulla Chiesa che voglio e che deve venire fuori a tutti i costi" precisa la mamma di Elisa Claps. La Diocesi di Potenza aveva anche chiesto di costituirsi parte civile nel processo, ma il loro legale, Antonello Cimadomo, ha spiegato che la richiesta è stata respinta "perché il giudice ha riscontrato una potenziale conflittualità con le nuove indagini in corso sul ritrovamento del cadavere". Sembra infatti che sia stato aperto un fascicolo "a latere" per capire se oltre a Danilo Restivo qualcun altro ha delle responsabilità in merito al delitto Claps. Il Mattino ricorda poi che ci sarebbero delle conferme riguardo un dossier scomparso sulla morte di Elisa Claps, dove un ex agente del Sisde, scrive il quotidiano che l'ha intervistato, afferma: "L'informativa sul delitto Claps c'era, la firmai io. E' dell'ottobre '97. C'era un prete che sapeva".
Dalla Gazzetta del mezzogiorno si scopre che sul delitto Elisa Claps spunta la massoneria.
Cercavano qualche elemento che potesse aiutarli a sbrogliare l’intricato giallo del ritrovamento dei resti di Elisa Claps nel sottotetto della chiesa della Trinità di Potenza (avvenuto il 17 marzo del 2010, a 17 anni di distanza dal delitto), quando hanno scoperto che uno dei sacerdoti intercettati era in contatto con esponenti di una loggia massonica segreta. Dalle chiacchierate telefoniche di don Pierluigi Vignola gli investigatori della Direzione investigativa antimafia di Salerno non sono riusciti a comprendere «quali siano con precisione i suoi reali interessi».
Gli investigatori della Dia di Salerno segnalano alla Procura - è quanto trapela dall’inchiesta bis del caso Claps, quella che sta cercando di accertare cosa c’è dietro al ritrovamento dei resti di Elisa e quale sia il reale coinvolgimento di appartenenti alla curia potentina - i contatti con un personaggio di Nola, in provincia di Napoli, «con precedenti per la violazione della legge Anselmi», quella che vieta la costituzione di società segrete. Ma anche con altri «appartenenti alla massoneria italiana» o comunque «legati ad ambienti massonici».
E, nonostante fino a quel momento non siano emersi «elementi attinenti alle indagini», per «acquisire ulteriori elementi» il caposezione della Dia di Salerno, Claudio De Salvo, da qualche giorno passato alla Squadra mobile, chiede ai magistrati di poter continuare a intercettare il telefono del sacerdote potentino. È il 13 aprile del 2010. Nell’informativa l’ex capo della Dia scrive anche che «da interrogazione della banca dati Sdi (un sistema informatico a cui possono accedere le forze di polizia, ndr) si rileva a carico dell’interlocutore del sacerdote una segnalazione della Squadra mobile di Benevento, all’interno della quale viene deferito anche don Vignola. Non si conosce però l’esito che hanno avuto queste indagini». Ma quando i pm Rosa Volpe e Luigi D’Alessio inoltrano al gip la richiesta di proroga qualcosa s’inceppa. Il giudice Attilio Franco Orio rileva che l’atto inviato dalla Procura è arrivato in ritardo e le attività di captazione vengono disattivate. Per gli investigatori era «evidente - si legge in un documento dell’inchiesta bis sull’omicidio Claps - quanto sia rilevante e indispensabile per la corretta e completa ricostruzione dei fatti, che non sono solo quelli relativi al giorno dell’omicidio ma anche quelli inquietanti relativi al decorso di ben 17 anni durante i quali il cadavere della ragazza si è decomposto nel sottotetto, captare ogni possibile comunicazione che possa interessare sia gli appartenenti al clero coinvolti nel ritrovamento, sia altri collegati, come don Vignola, viceparroco allorché era in vita don Mimì Sabia». Ma ormai era troppo tardi.
Ma i dubbi e le ombre non mancano. Omicidio Claps. Perito: quella maglia ignorata da Pascali. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una «diabolica» coincidenza di negligenze o i tasselli di un complotto? Tutto è cominciato con il mancato sequestro degli abiti sporchi di sangue di Danilo Restivo; si è proseguito lasciandosi deviare da depistaggi (tutt’altro che innocenti), fino al giallo del ritrovamento del cadavere, scoperto ufficialmente il 17 marzo del 2010, tra visioni di un «ucraino» (così inteso, in verità il prete brasiliano al suo superiore parlava di cranio ndr) nel sottotetto e ricostruzioni contraddittorie delle donne delle pulizie. L’ultima puntata del caso Claps: la scoperta dei Ris del Dna riconducibile a Restivo sulla maglia indossata da Elisa svela l’ennesimo «buco nero» dell’inchiesta. Perché il prof. Vincenzo Pascali, autore della prima perizia, ha ignorato la maglia tra i reperti da esaminare? Chiunque, anche chi non mastica «medicina legale», avrebbe preso in considerazione quell’indumento per cercare tracce biologiche. Il lavoro del genetista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, lo ricordiamo, aveva riscontrato profili genetici isolati che non corrispondevano col Dna di Restivo, consegnando alla Procura di Salerno un dossier «impalpabile» ai fini delle indagini. La magistratura campana ha avuto il merito di non accontentarsi di quei risultati, sfiduciando, di fatto, Pascali e affidando ai Ris il compito di una nuova perizia. Ma se oggi, con la scoperta del Dna riconducibile a Restivo, si è arrivati ad una svolta dell’inchiesta lo si deve soprattutto a Patrizia Stefanoni, dirigente della sezione di genetica forense del servizio di Polizia scientifica e consulente del pubblico ministero. È lei che ha evidenziato le carenze della perizia di Pascali.
Un ex agente del Sisde, il vecchio servizio segreto civile, si occupò dell’omicidio di Elisa Claps, commesso a Potenza il 12 settembre del 1993. E firmò un dossier che nel 1997 svelava la verità sul delitto. «La ragazza era stata uccisa dalla persona verso cui venivano condotte le indagini». Questo era più o meno il contenuto di quel documento investigativo. La «Gazzetta del Mezzogiorno» - che all’epoca (il 31 ottobre del 1997) pubblicò in esclusiva alcune indiscrezioni contenute nel dossier del Sisde - è riuscita a rintracciare l’ex agente segreto in una località che, per ragioni di sicurezza, verrà omessa. L’ex «barba finta» ora svela: «Un prete sapeva dell’omicidio». Lo definisce «un personaggio a latere» dell’inchiesta. Uno che non aveva preso parte al delitto ma che, probabilmente, «sapeva». Un «prete». Giacca di pelle e lunghi baffi bianchi, l’ex agente segreto ha l’aria di uno di quei detective da serial tv americano (all’incontro era presente un inviato del Tg5). Seppure senza mai scriverne il nome, gli 007 nel 1997 puntarono il dito contro Danilo Restivo (in quel momento indagato per il reato di «false informazioni rese al Pubblico ministero»), condannato recentemente all’ergastolo in Inghilterra per il delitto della sarta Heather Barnett e da sempre il sospettato numero uno per l’omicidio Claps. Ma nel trovare conferme gli agenti del Sisde appresero anche altro. Da altri informatori e molto probabilmente all’interno della Chiesa.
Perché i servizi segreti si sono occupati della scomparsa di una ragazza? E con quali risultati? «Il succo dell’informativa è che la scomparsa della ragazza era dovuta al fatto che la Claps era stata uccisa a Potenza. E che il presunto autore era la persona sempre considerata tale. L’informativa diceva che Elisa era stata uccisa il giorno stesso della scomparsa, il 12 settembre del 1993. Ce ne occupammo perché avevamo un informatore e per dare degli input agli investigatori».
E all’epoca c’era già un’altra ipotesi: qualcuno sapeva che il delitto era avvenuto in chiesa. «Noi parlammo di un personaggio a latere. Una persona che doveva sapere dell’uccisione».
Un personaggio a latere? «Ma sì, diciamo che era un prete».
Il vecchio parroco della chiesa della Trinità (luogo del delitto, in cui 17 anni dopo la scomparsa sono stati trovati i resti di Elisa) don Mimì Sabia? «Questo non lo so».
Il suo nome comunque non era nell’informativa? «No, non c’era».
C’era qualche altro nome? «Di solito quelle note informative non contengono nomi».
In quel dossier c’era comunque quanto bastava per risolvere il mistero di Elisa e per attirare l’attenzione sulla chiesa della Trinità. Quell’informativa, però, non arrivò mai agli investigatori dell’epoca. Ed Elisa è stata ritrovata ufficialmente solo il 17 marzo del 2010. Ben 17 anni dopo il giorno dell’omicidio.
E sempre dalla Gazzetta del Mezzogiorno. «Se il rapporto sul caso Claps è stato scritto non può essere sparito». Nicheo Cervone è l’ex agente del Sisde che entrò in contatto con Gildo Claps, fratello di Elisa, qualche anno dopo la scomparsa. Dice di non aver mai lavorato al caso Claps per il vecchio servizio segreto civile ma di aver parlato con Gildo solo «per amicizia». E sostiene che il suo ex collega - che ha svelato in esclusiva alla Gazzetta e al Tg5 l’esistenza di un’informativa che nel 1997 dava indicazioni precise sul delitto (la Gazzetta ne anticipò in esclusiva alcuni contenuti) - è l’unico a poter ricostruire i contenuti di quel dossier. «Che comunque non può essere scomparso».
Agente Nicheo, lei si è mai occupato dell’omicidio Claps?
«Voglio precisare che Nicheo è il nome con cui mi chiamano parenti e amici, non quello di copertura. E non mi sono mai occupato del caso Claps».
Il delitto più intricato commesso a Potenza non l’appassionava?
«I servizi segreti di solito non si occupano di queste cose».
Lei, però, a Gildo alcune domande sulla scomparsa della sorella le ha fatte.
«Ho conosciuto Gildo in modo casuale e diventammo amici. Mi dispiace che pensi che io possa aver tradito la sua amicizia».
Glielo presentò qualcuno?
«Ricordo che fu un maresciallo dei carabinieri in servizio al Reparto operativo di Potenza».
Fu il maresciallo Vincenzo Anobile (l’unico, tra i carabinieri, che si occupò del caso Claps)?
«Francamente non ricordo se fu lui oppure un altro maresciallo che conoscevo».
E s’informò sul caso Claps?
«Gli chiesi della scomparsa della sorella e, aggiungo, non avrei perso occasione per avere anche una sola notizia sul caso Claps. E questo per l’amicizia che mi lega a lui. Purtroppo non è così. Non me ne occupai. Per il Sisde seguivo esclusivamente faccende di criminalità organizzata».
Però fu lei a dire a Gildo che quel dossier non esisteva.
«Quando uscirono le notizie sul giornale mi chiamò perché voleva incontrarmi. Lo invitai a casa dei miei genitori e lì gli dissi la verità, ovvero che per quanto ne sapevo io non c’era nessun dossier».
Quindi dell’informativa del 1997, mi pare di capire, non sa nulla?
«Io sono stato a Potenza fino al 1996, poi ho lavorato in Puglia. Con l’ufficio di Potenza in quegli anni non ho avuto contatti».
E prima del 1997 nessuno le ha mai chiesto di occuparsi del caso?
«Anche prima del 1997 mi occupavo di criminalità organizzata».
E di quel dossier non ha mai neanche sentito parlare?
«Ripeto: per quanto ne so non c’è nessun dossier».
A noi risulta il contrario.
«Se hanno scritto un rapporto quando io non c’ero non posso saperlo. Dalle foto che ho visto sulla Gazzetta mi sembra di riconoscere la persona che è stata intervistata. Non ne faccio il nome per non incorrere in una rivelazione del segreto di Stato. Per la posizione che ricopriva all’epoca nel Sisde, la persona fotografata è l’unica a sapere se era stato fatto un rapporto. Mi sembra strano, conoscendo i meccanismi del Sisde, che sia sparito».
Allora cosa è accaduto?
«Cosa è accaduto non lo so. Ma posso dire che se per uno strano caso informatico il rapporto fosse sparito, il suo contenuto non sarebbe difficile da ricostruire».
L’impressione è che qualcuno abbia voluto che non arrivasse in Procura.
«Io so solo che la persona che riconosco in foto è la stessa che dopo gli articoli della Gazzetta andò in Procura per dire che non c’era nessun rapporto dei servizi segreti. Oggi la cosa più importante sarebbe sapere chi è o chi sono gli informatori alla base di quella nota informativa. Solo così si potrebbe arrivare a capire se ci fu una reale o una eventuale volontà di depistaggio».
Qualcuno sapeva la verità su Elisa Claps, in Questura a Potenza, molto prima della terribile scoperta nel sottotetto della chiesa della città?
Così sembrerebbe, da quanto emerso da una rivelazione fatta dalla mamma di una poliziotta appunto di Potenza, morta nel 2001 in circostanze mai chiarite secondo i familiari. Proprio questo disse infatti la donna, Anna Esposito, all'epoca commissario di polizia nel capoluogo della Basilicata, poco prima di morire, parlando con sua madre, come è stato raccontato in tv alla trasmissione di Rai3 "Chi l'ha visto?".
Anna Esposito avrebbe detto che qualcuno in Questura sapeva la verità su quella ragazzina scomparsa. Le avrebbe confidato che qualcuno già sapeva che Elisa era stata uccisa e sapeva anche dove si trovava il corpo. Solo adesso però quel racconto di Anna è stato rivelato dalla mamma a Gildo Claps, fratello di Elisa, che lo ha raccontato a Rai3.
Anna Esposito morì poco dopo aver fatto questa confidenza scottante alla mamma, nel 2001. Sembrò un suicidio, ma il papà della donna, Vincenzo, è convinto che non fu Anna a togliersi la vita. Si trattò di mobbing? Un procedimento giudiziario dice che Anna aveva confidato a don Pierluigi Vignola, cappellano della Questura, di aver tentato il suicidio in passato. Perché don Pierluigi non lo disse a nessuno?, si chiede il papà di Anna, che ha incontrato più volte quel prete subito dopo la morte della figlia.
Sarebbe stato proprio don Vignola a raccontare a papà Vincenzo di atteggiamenti strani da parte dei colleghi nei confronti della commissaria, di lettere anonime, di pagine strappate dalle sue agende. E, sempre stando alle parole di Vincenzo Esposito, lo stesso prete avrebbe consigliato al padre della commissaria di mandare un esposto anonimo alla magistratura per denunciare i colleghi di Anna. A che scopo? Un nuovo tassello che si aggiunge alla già intricata vicenda di Elisa Claps, che si fa sempre più complessa.
Anna Esposito era un commissario della polizia di Stato. Lavorava a Potenza e coordinava l’ufficio della Digos. È morta in circostanze misteriose il 12 marzo del 2001. «Fu suicidio», secondo la Procura. Ma suo padre Vincenzo, da sempre, sostiene che sia stata uccisa. E ora che sono emersi sinistri collegamenti con il caso di Elisa Claps - la ragazza scomparsa il 12 settembre del 1993 a Potenza e uccisa, secondo i magistrati della Procura di Salerno, da Danilo Restivo, condannato a 30 anni di carcere per il delitto - vuole vederci chiaro. La sua ex moglie, la mamma di Anna, inoltre, ricorda che sua figlia le confidò che in Questura a Potenza c’erano poliziotti che conoscevano il luogo in cui era nascosto il corpo di Elisa (i resti della ragazza sono stati trovati il 17 marzo del 2010 nel sottotetto della chiesa della Trinità a Potenza da alcuni operai mandati lì a riparare un’infiltrazione d’acqua. Ma quella, per la famiglia Claps, è stata solo una «messinscena»).
Gildo Claps si è ricordato che qualche giorno prima di morire quella poliziotta lo chiamò chiedendogli un appuntamento. «Non ho fatto in tempo a incontrarla», dice alla Gazzetta del Mezzogiorno. E non immaginava che la triste storia di quella poliziotta potesse incrociarsi con quella di sua sorella. Poi ha saputo che uno dei sacerdoti intercettati dalla Procura di Salerno per l’inchiesta bis sul caso Claps - quella sulle coperture e i depistaggi che, secondo la Procura, avrebbero aiutato l’assassino di Elisa a eludere le indagini per 17 anni - don Pierluigi Vignola, cappellano della polizia di Stato segnalato per sinistri contatti con appartenenti a una società segreta, aveva avuto un strano ruolo anche nel caso del commissario Esposito. E si è insospettito. Don Vignola racconta al magistrato che indagava per «induzione al suicidio» che il commissario Esposito, in confessione, gli aveva detto che qualche settimana prima aveva tentato di uccidersi stringendosi una cintura al collo. Proprio la stessa modalità che avrebbe usato poi per togliersi la vita.
Ma perché don Vignola non avvisò la famiglia (con cui intratteneva anche buoni rapporti di amicizia)? Non le aveva creduto? Ecco cosa annota il magistrato: «Stupisce non poco il fatto che il cappellano, deputato alla cura spirituale del personale della polizia di Stato, non abbia manifestato, se non a un superiore, almeno alla famiglia o a qualche collega o amica della Esposito di starle vicino, di non perderla di vista in quel particolare grave momento di sofferenza».
Il sacerdote, invece, consiglia al padre di Anna di scrivere un esposto anonimo (le indagini, quando don Vignola incontra Vincenzo Esposito, erano ormai chiuse e il caso era stato archiviato come suicidio). È una strana strategia quella suggerita dal sacerdote. Chi avrebbe dovuto accusare il padre della poliziotta? Don Vignola, sentito in Procura, nega. Poi, davanti all’evidenza - e dopo le contestazioni degli investigatori che sospendono l’interrogatorio per permettere al sacerdote di consultarsi con un legale - confessa: «Rettificando quanto da me detto in precedenza - si legge nel verbale che ha firmato in Procura don Vignola – voglio rappresentare che potrei essere stato io stesso a suggerire a Vincenzo Esposito di scrivere una lettera anonima alla Procura contenente richieste che a mio avviso servivano più a confortare il mio interlocutore che a consentire di scoprire nuovi scenari».
Quegli scenari, però, subito dopo li descrive al pm: «C’erano persone (don Vignola fa anche i nomi di alcuni poliziotti) che manovravano in qualche modo la vita di questa ragazza». Era vero? Cosa aveva appreso il cappellano della polizia sul conto di queste persone? Oppure era stata Anna a riferirgli di quei minacciosi messaggi anonimi che spesso trovava sulla sua scrivania in Questura? E quanto hanno influito sulla decisione di farla finita? Sempre che sia andata davvero così. Il papà di Anna è convinto che il caso vada riaperto. E ora anche Gildo Claps sospetta che scavando in questa storia possa uscire qualche altra verità sull’omicidio di sua sorella: «In quanti sapevano che era in quel sottotetto?»”. È quello che dovranno accertare gli investigatori.
E’ una vita apparentemente felice e realizzata quella di Anna Esposito. Una donna forte, determinata e decisa. Anna era capo della Digos di Potenza e aveva due splendide figlie che vivevano con i nonni a Cava de’ Tirreni. Improvvisamente il 12 marzo del 2001 i genitori ricevettero una chiamata che li avvisa che la donna si era suicidata, impiccandosi con una cintura alla maniglia della porta del bagno della sua casa a Potenza. La famiglia però non crede assolutamente a questa versione. Il commissario di polizia intervenuto in casa di Anna aveva subito slegato la donna con “la speranza di trovarla viva”, ha riferito il padre di Anna, che però era morta ben 10 ore prima. Secondo i periti però questo sarebbe un “suicidio anomalo, ma possibile”, contrariamente alla versione di Enzo Esposito (papà di Anna) che sostiene invece che la cinghia della cintura si dovrebbe trovare nella nuca e non all’altezza della mandibola, come invece era successo per Anna. Un altro aspetto su cui è necessario fare chiarezza è il disordine che è stato trovato nella casa dell’ispettore Esposito, come se qualcuno cercasse qualcosa di preciso. Nei mesi precedenti la morte, Anna riceveva costantemente biglietti anonimi di minaccia. Anna potrebbe essere stata indotta al suicidio? C’è inoltre un’altra stranissima coincidenza che lega la vicenda di Anna alla morte di Elisa Claps. La famiglia Esposito era molto amica di Don Vignola, il parroco che forse saprebbe molte cose sull’omicidio di Elisa. Don Vignola avrebbe dichiarato di aver visto segni di una cinghia sul collo di Anna qualche mese prima della sua morte, come se la donna avesse già tentato il suicidio, senza però riuscirci. Il padre di Anna è molto contrariato dal comportamento del parroco che avrebbe notati segni del genere senza manifestare le sue preoccupazioni alla famiglia Esposito o alle amiche di Anna. Don Vignola in un incontro con Enzo Esposito ha suggerito al padre di Anna di scrivere alla Procura una lettera anonima sulla morte della figlia, e si propone pure per aiutarlo. La mamma di Anna ha nei giorni scorsi contattato Gildo Claps, il fratello di Elisa, raccontandogli le confidenze fatte dalla figlia qualche giorno prima di morire. Anna aveva detto alla mamma che in Questura qualcuno sapeva che fine avesse fatto Elisa Claps, chi l’aveva uccisa e dove si trovava il suo corpo.
Chi ha potuto vederla la descrive come una cintura di cuoio lunga poco meno di un metro. «Quasi nuova». O, comunque, che non «presentava i segni che un nodo, dopo dieci ore di tensione con un peso rilevante, avrebbe dovuto lasciare». Sulle cause del decesso, «asfissia da strozzamento», sembra che non ci siano dubbi. È la dinamica, così come ricostruita all’epoca dagli investigatori, che rende ancor più misteriosa la morte del commissario della polizia di Stato Anna Esposito, la poliziotta che forse aveva appreso dove era stato nascosto il corpo di Elisa Claps e che è morta nel 2001 in circostanze mai del tutto chiarite (l’inchiesta è stata archiviata un anno dopo). Il corpo, senza vita - stando alle ricostruzioni contenute nelle informative degli investigatori che per primi entrarono nell’alloggio del commissario - era seduto sul pavimento. La cinghia di cuoio, con la fibbia di metallo stretta alla gola della poliziotta, era attaccata, dall’altro capo, alla maniglia della porta del bagno. Sia il dottor Rocco Maglietta, sia il professor Luigi Strada, che hanno effettuato l’autopsia, definiscono l’impiccamento «atipico». Perché l’ansa di scorrimento era posta «anteriormente, sul lato destro». Un impiccamento tipico, messo in atto in modo certo dal suicida, «avrebbe portato - spiegano i medici - automaticamente l’ansa di scorrimento a disporsi nella parte posteriore del collo». Nonostante la trazione sia durata per più di dieci ore (i medici fanno risalire la morte alle 23 del 11 marzo 2001. La cintura è stata slacciata alle 9.30 del 12 marzo), e con un peso di circa 65 chilogrammi, chi ha visto la cintura ricorda che «non presentava i segni del nodo».
Anche la lunghezza - poco meno di un metro - appare incompatibile con le modalità del suicidio.
«Lo sviluppo minimo del nodo (ovvero la parte della cintura impegnata dal nodo). - si legge negli atti dell’inchiesta, di cui la Gazzetta del Mezzogiorno è in possesso - doveva essere di circa 24 centimetri». La circonferenza intorno al collo «era di 41». La poliziotta si sarebbe uccisa, quindi, con meno di 30 centimetri di corda, da un’altezza - quella della maniglia - di 103 centimetri da terra. Se le cose sono davvero andate così i piedi del commissario toccavano il pavimento e, solo per pochi centimetri, non toccavano a terra anche i glutei. Ecco come i poliziotti intervenuti sul posto descrivono la posizione: «Le gambe - scrivono nella relazione di servizio - sono leggermente piegate all’altezza delle ginocchia verso sinistra, tanto che i piedi poggiano sul pavimento, rispettivamente quello destro con la parte interna del tallone, quello sinistro con la faccia esterna».
La causa della morte «È dovuta a un’asfissia acuta e meccanica». Che poteva essere stata procurata solo ed esclusivamente dalla cintura? Scrive il dottor Maglietta: «Si è parlato di impiccamento incompleto in quanto il corpo non era totalmente sospeso, bensì in posizione semiseduto, con le natiche sospese». Nella casistica medico-legale, precisa il dottor Maglietta, «è chiaramente indicativa di una volontà suicida». Nonostante le mani libere e i piedi che toccano il pavimento? È un aspetto che le indagini dell’epoca non hanno chiarito completamente.
Il collega ha sentito dire che aveva tentato il suicidio; il sottoposto ha raccontato che gli aveva confidato «di aver fatto una cosa brutta di cui però si era pentita»; il sacerdote ha svelato di aver già visto sul collo della ragazza «i segni della fibbia della cintura». Testimonianze che hanno involontariamente portato gli investigatori verso un’unica conclusione: Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato che forse sapeva di Elisa Claps e che è morta in circostanze mai chiarite - si è suicidata.
Nonostante ci fossero dubbi e aspetti oscuri. Nonostante una consulenza dei medici che effettuarono l’autopsia descrisse il suicidio - Anna Esposito fu trovata impiccata con una cintura di cuoio attaccata alla maniglia di una porta - come «atipico», perché i piedi della donna toccavano il pavimento. E nonostante quanto dichiarò in Procura il dottor Rocco Maglieta, medico-legale, che definì la possibilità che la poliziotta avesse già tentato il suicidio «inverosimile». L’inchiesta è finita in archivio.
L’ispettore Mario Paradiso lavorava all’ufficio del personale. Il 12 marzo del 2001 entrò nell’alloggio del commissario Esposito. Dice agli investigatori: «Non mi spiego questo gesto, anche perché la Esposito era sempre gentile e disponibile. Solo successivamente sono venuto a conoscenza di problemi familiari, sentimentali ed economici e ho appreso dal cappellano della Questura che la Esposito gli aveva confessato di aver tentato il suicidio già in precedenza». Ma questo particolare l’ispettore quando lo apprende? Prima del suicidio? Oppure dopo il 12 marzo? L’ispettore Paradiso verbalizza quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo del commissario. E nessuno gli pone questa domanda.
L’ispettore Antonio Cella lavorava nell’ufficio diretto dal commissario Esposito: la Digos. L’ispettore conferma agli investigatori che il suo dirigente gli riferiva «particolari della sua famiglia» e anche delle sue relazioni amorose. E il precedente tentativo di suicidio? Dice l’ispettore: «Non mi ha detto espressamente di aver tentato il suicidio, ma mi ha riferito di aver fatto una cosa brutta di cui però si era liberata».
Don Pierluigi Vignola all’epoca era il cappellano della Questura di Potenza. Riferisce al magistrato di aver saputo che il commissario Esposito aveva confidato anche ad altre persone quello che aveva detto a lui in confessione: la poliziotta aveva già tentato il suicidio. Ma con chi si era confidata Anna Esposito? Dice il sacerdote: «Erano delle giocatrici di pallavolo di Potenza». Che, però, non risultano tra i testimoni dell’inchiesta. Poi il sacerdote aggiunge: «Il mese prima avevo io stesso visto sul collo di Anna i segni della fibbia della cintura che indossava e che aveva utilizzato per il tentativo di suicidio. Non mi riferì però perché avesse scelto quelle modalità». E lui non glielo chiese?
Il dottor Maglietta, con argomenti scientifici, smentisce al magistrato la «teoria» del precedente tentativo di suicidio. Dice: «Secondo me è inverosimile. Avrebbe dovuto avere segni di ecchimosi per almeno cinque o sei giorni abbastanza evidenti, trattandosi di una cintura larga. Segni che qualcuno avrebbe dovuto notare». Qualcuno oltre al sacerdote.
Elisa Claps, 23 anni di mistero su cui ha osato Amendolara. Ne parliamo col cronista che indagò sul caso, risultando scomodo anche alla Procura. Aveva solo 16 anni quando, il 12 settembre del 1993, scomparve nella sua Potenza. Il suo corpo fu ritrovato 17 anni dopo, nel 2010, nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, nel capoluogo lucano. Per la sua scomparsa e la sua morte è stato riconosciuto colpevole l'amico Danilo Restivo, scrive Leonardo Pisani su “Il Mattino di Foggia” il 12 settembre 2016. Le indagini non hanno mai convinto del tutto Fabio Amendolara che dalle pagine de "La Gazzetta del Mezzogiorno" si spinse talmente oltre le nebbie di quel mistero da suscitare la pesante reazione degli inquirenti che lo accusarono di aver rivelato informazioni riservate (la stessa accusa prefigurata dall'art. 326 del Codice Penale per la violazione dei segreti di Stato) e disposero nel 2012 la perquisizione della redazione del giornale e della casa del cronista, sottoponendolo ad un interrogatorio in Questura durato sei ore. Nel ricordare la tragica fine di Elisa, la disponibilità di Fabio ci offre anche l'opportunità di approfondire l'importanza del giornalismo investigativo che lo impegna a scandagliare, sulle pagine di "Libero", tanti altri misteri di cronaca italiana; per ultimo il suicidio sospetto del brigadiere Tuzi a Arce, in Ciociaria, a cui ha dedicato il suo recente libro "L'ultimo giorno con gli Alamari".
Amendolara, il 12 settembre 1993 scompare Elisa Claps. Una data che è una ferita a Potenza ma non solo ed è una ferita ancora aperta.
«È una ferita aperta perché la giustizia non ha saputo dare risposte logiche e convincenti. Non basta consegnare alla piazza il mostro Danilo Restivo per dire il caso è chiuso, rassegnatevi, metteteci una pietra sopra. Finché non verrà fatta luce su chi ha coperto Restivo, permettendo che i resti di Elisa rimanessero per 17 anni nel sottotetto della chiesa della Trinità, la ferita non potrà rimarginarsi».
Ti sei occupato del caso e Elisa è ritornata poi in altre indagini che hai svolto: notizie false, depistaggi, poi il ritrovamento nella Chiesa della Trinità. Questo pone due domande: per prima cosa, come mai tante verità negate e, seconda cosa poi, il giornalismo investigativo ha ancora senso in Italia? Spesso si assiste alla spettacolarizzazione delle tragedie ma non alla ricerca della verità.
«La spettacolarizzazione fa male alle inchieste giudiziarie tanto quanto a quelle giornalistiche. Il giornalismo investigativo, quello vero, quello che scova nuovi testimoni, che segnala errori e omissioni nelle indagini, che impedisce agli investigatori di girarsi dall'altra parte e di chiudere gli occhi, ha ancora senso e va riscoperto. Ecco, se ci sono tante verità negate dipende anche dal fatto che la stampa molla i casi troppo presto. Senza pressione mediatica gli investigatori si sentono liberi di non agire».
Quanti casi ancora irrisolti e cito solo la nostra Basilicata: la piccola Ottavia De Luise di Montemurro e Nicola Bevilacqua di Lauria. Ma esiste una giustizia di serie A e una giustizia di serie B?
«Purtroppo esiste. Era così ai tempi della piccola Ottavia ed è così ancora oggi».
Allo stesso tempo: esiste una copertura mediatica di serie A per alcuni casi e l’indifferenza per altri?
«Le Procure e gli investigatori dettano la scaletta. Grazie alle fughe di notizie si tengono buoni i giornalisti che, così, ottenuta in pasto la classica velina, non cercheranno notizie scomode. L'informazione è facile da orientare».
Però, Fabio, domanda brutale: trovi difficoltà nelle tue inchieste?
«Le difficoltà che trovano tutti i giornalisti che non si accontentano delle verità preconfezionate. Nel caso di Elisa Claps ad esempio avevo dimostrato che la Procura di Salerno aveva temporeggiato troppo nel chiedere l'arresto di Restivo ma anche che aveva fatto scadere i termini delle indagini preliminari tenendo fermo il fascicolo. La reazione è stata dura: una perquisizione in redazione, nella mia auto e nella mia abitazione. Risultato: mi hanno messo fuori gioco per un po'. Tutte le mie fonti erano scomparse, per paura di essere scoperte».
Penso al tuo ultimo libro: «L’ultimo giorno con gli Alamari: il suicidio sospetto del brigadiere Tuzi a Arce in Ciociaria”. Anche quando lo hai presentato in Basilicata o in Puglia ha attirato attenzione; quindi alla fine il lettore o il pubblico è sensibile a queste tematiche di giustizia negata o, addirittura, di mancanza di vere indagini ufficiali?
«I cittadini non si accontentano mai di false verità o di ricostruzioni illogiche e contraddittorie. Finché non si fornisce loro una ricostruzione credibile - sia essa giudiziaria o anche giornalistica - continueranno a porsi domande su come sono andate davvero le cose. Il caso Claps ne è un esempio lampante. A sei anni dal ritrovamento ci sono ancora manifestazioni pubbliche per chiedere verità e giustizia. E ci saranno finché la storia non verrà raccontata in tutti i suoi particolari».
Giallo Esposito, Amendolara: Suicidio poliziotta non convince. Pubblicato il 3 maggio 2014 da Mary Senatore. “Il segreto di Anna”. E’ un’inchiesta giornalistica su un suicidio sospetto, quello del commissario di polizia Anna Esposito, cavese 35enne, morta a Potenza nel 2001. L’autore è un giornalista lucano de La Gazzetta del Mezzogiorno. Si chiama Fabio Amendolara, ha la stessa età del commissario Anna Esposito e, coincidenza, è arrivato a Potenza il 12 marzo del 2002. “Esattamente un anno prima, il 12 marzo del 2001, Anna moriva in circostanze mai chiarite”, spiega l’autore dell’inchiesta giornalistica. La storia è questa: Anna ha 35 anni e dirige l’ufficio della Digos nella città in cui è scomparsa Elisa Claps. Contatta il fratello della ragazza e gli chiede un appuntamento, ma pochi giorni dopo viene trovata nel suo alloggio senza vita. “Impiccamento atipico”, lo definiscono i medici. Prima ancora che l’indagine giudiziaria venga chiusa, la polizia di Potenza sentenzia: “È suicidio”. In fondo tutti gli elementi sembrano esserci: Anna usciva da una turbolenta storia d’amore e circolavano voci di un precedente tentativo di togliersi la vita. Eppure già poco dopo la morte della poliziotta cominciano a circolare voci secondo cui sarebbe stata uccisa. Questa indagine giornalistica scova discrepanze nei rapporti giudiziari della polizia e mette in evidenza le falle investigative. Indizi tralasciati, reperti non analizzati, impronte mai comparate, testimonianze parziali e mezze ammissioni rendono il caso molto ingarbugliato. Sullo sfondo ci sono le coincidenze che collegano la morte del commissario all’omicidio della giovane Elisa Claps. E’ un libro di giornalismo investigativo all’americana, che ha suscitato interesse nella stampa nazionale: il settimane Oggi ha dedicato due pagine alle scoperte di Amendolara (di recente il giornalista è stato a Istanbul, dove ha partecipato a un Simposio internazionale di giuristi sulle leggi di genere a protezione delle donne). E poi “aperture” di pagina sui grandi quotidiani nazionali. Amendolara non crede al suicidio: “Mi sono accorto subito che le testimonianze non combaciavano e che c’erano aspetti da approfondire”. Lo hanno capito anche gli investigatori, che un anno fa – dopo i primi articoli pubblicati da Amendolara sulla Gazzetta del Mezzogiorno – hanno ripreso a indagare. Ora l’ipotesi non è più suicidio ma omicidio volontario.
Il mistero delle Stragi.
Marco Ventura per il Messaggero domenica 15 ottobre 2023.
Il silenzio urla da quarant' anni, da quel 9 ottobre 1982 in cui Stefano Gaj Taché, un bimbo di 2 anni, fu ucciso nell'attentato alla Sinagoga. Era una bella giornata di sole a Roma e le granate dei terroristi furono scambiate all'inizio per sassi. Il fratello di Stefano, Gadiel, aveva 4 anni e fu investito dalle schegge, lottò per sopravvivere. La sua foto uscito dall'ospedale, in carrozzella e con l'occhio bendato, insieme a quelle di Stefano, è in fondo alle oltre 100 pagine della sua accurata e accorata denuncia senza retorica per la Giuntina, Il silenzio che urla.
«Nel 2011, scoprii che Stefano non compariva nella lista ufficiale delle vittime italiane del terrorismo», racconta Gadiel. «Ma prima di essere un bambino ebreo, lui era un bambino italiano; per molti, invece, quella tragedia riguardava altri, la comunità ebraica... Poi, nel 2015, vidi alla tv le immagini di Charlie Hebdo e dell'attacco al supermarket kosher a Parigi, fu come rivivere la violenza che avevo rimosso. E decisi di farmi portavoce della sofferenza della mia famiglia e riguardare tutti i documenti che nel frattempo erano stati de-secretati». E che cosa ha scoperto? «All'archivio di Stato, la prima lettera che andai a cercare fu quella di Tullia Zevi che segnalava il pericolo alla Sinagoga.
Ancora oggi mi chiedo perché al Tempio non fu prevista la sorveglianza. Per quarant' anni ti raccontano una storia, che il responsabile è un certo Al Zomar per conto di Abu Nidal, e ti destabilizza imbatterti in testimonianze per cui sembra che le cose non siano andate proprio così». Al Zomar fuggì in Grecia, e non fu mai estradato.
«Nel novembre 1982 un'informativa del Sisde, i servizi interni, riportava una confidenza della fidanzata di Al Zomar per cui l'incarico sarebbe arrivato dall'Olp», spiega Gadiel. «In quei mesi c'era fermento, aggressività, di media e politica: si faceva l'equazione Israele-ebrei, una confusione frutto di pregiudizi perché una cosa è Israele, altra le comunità ebraiche. Io sono anzitutto italiano, romano de Roma, de Testaccio».
LA GUERRA La guerra in Libano fece precipitare la situazione. «Durante una manifestazione sindacale, fu scaraventata una bara davanti al Tempio, sotto la lapide che ricordava 1.022 ebrei deportati nei campi di sterminio. Perché là e non davanti all'Ambasciata? Rav Toaff scrisse a Lama, segretario Cgil, che pur deprecando l'episodio rispose che non si poteva sottacere il genocidio in Libano. Una confusione, tra ebrei e Israele, sempre molto pericolosa».
(...) L'antisemitismo è un virus che nasce dall'ignoranza: la differenza tra ebreo e israeliano a molti non è ancora chiara».
Nel libro ci sono foto di Gadiel e Stefano: «Servono a ricordare. Io oggi cammino, corro, scio, ma con dolore La mia gamba è devastata e negli ultimi mesi ho ripreso le stampelle. Il mio corpo, ai raggi X, è un cielo stellato, con tutti i puntini luminosi delle schegge nella gamba, nell'addome, nella testa A volte escono dal piede. Mia madre lo stesso».
Spera che la verità venga fuori? «Difficile che si faccia giustizia dopo quarant' anni, ma spero che la verità emerga. Nelle carte ci sono altri nomi legati ad Al Zomar». Italiani? «Bisogna indagare, a partire dalle 17 informative in cui il Sisde scriveva che ci sarebbe stato un attentato e i terroristi erano aiutati da italiani». Il prossimo 21 settembre, quando si celebrerà solennemente il ricordo dell'attentato, nessuno potrà ignorare «il silenzio che urla» della famiglia Taché.
La strage di Fiumicino del 1973: «Vidi 17 miei amici morire. Nessuno ci aiutò e la PanAm mentì». Viviana Mazza e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera domenica 6 agosto 2023.
L’americana Christi Warner aveva 24 anni quando rimase coinvolta nell’attacco palestinese allo scalo romano: era diretta in Arabia Saudita. Cinquant’anni dopo, ha deciso di raccontare la sua verità sul massacro
A quasi cinquant’anni dalla strage di Pan Am a Fiumicino, una settantatreenne che vive ai piedi delle Montagne Rocciose sta cercando di raccontare l’attentato «dimenticato». Christi Warner, che allora si chiamava B.J. Geisler (poi ha preso il cognome del marito e ha cambiato nome perché non le era «mai piaciuto»), è una degli ultimi quattro passeggeri che uscirono vivi dal massacro del 17 dicembre 1973 all’aeroporto romano e una dei pochissimi non ancora deceduti di vecchiaia. Sta pubblicando un libro, Terror on Pan Am Flight 110 , che porterà alla Fiera di Francoforte a ottobre in cerca di un editore internazionale e che vorrebbe trasformare in un film. Battaglia angosciante eredità di una guerra mai finita. Un episodio tragico parte di un momento storico dove la violenza politica, i sequestri di jet, le trappole esplosive rappresentano il quotidiano. Eventi così numerosi che rischiano persino di cancellarne il ricordo tranne per chi li ha vissuti in prima persona come è toccato a Christi.
«Diciassette miei amici morirono» ci dice al telefono da Colorado Springs. «Eravamo un gruppo di 32 persone, viaggiavamo con Aramco, la compagnia petrolifera, per andare a trovare familiari e amici in Arabia Saudita per Natale». Una foto che condivide con noi mostra lei e altri tre passeggeri davanti alla fontana di Trevi il giorno prima del volo.
Christi Warner, allora 24 anni, e Barbara McKinney, 22, il giorno prima del massacro, mentre tirano la monetina portafortuna nella fontana di Trevi: entrambe sopravvissero. A fianco Russel Turner, 12 anni, e la sua accompagnatrice Muriel Berka, 52, che invece rimasero uccisi
Christi, 24 anni, e Barbara McKinney, 22, lanciano monetine nella fontana: sono sopravvissute. Accanto a loro Muriel Berka, 52 anni, e il dodicenne Russell Turner, che non ce l’hanno fatta. «Russell studiava in America e doveva raggiungere i genitori in Arabia Saudita per le feste: era stato affidato a Muriel all’aeroporto di New York». Muriel aveva un genero che lavorava per Aramco, era la vicina di casa e «una seconda madre» per Christi; mentre Barbara, la nipote di Muriel, era stata sua compagna di scuola. Le aveva seguite in vacanza, il suo primo viaggio fuori dagli Stati Uniti e dal Canada.
L’attacco
Tutto accade nel giro di quaranta minuti. I terroristi palestinesi, arrivati con un volo da Madrid, attaccano la sala di transito del terminal alle 12:50-12:51. «Passano solo quattro minuti prima che prendano degli ostaggi». Tutto facile perché i controlli sono minimi e i fedayn riescono a portarsi le armi fin dalla Spagna. Alle 12:55 corrono sulla pista fino al jet Pan Am. Alle 12:56 si sente la prima esplosione. Lanciano una granata a frammentazione e una al fosforo attraverso la porta anteriore, mossa ripetuta da quella posteriore. Non vogliono dare scampo.
L’ordigno raggiunge la cabina di prima classe, l’esplosione investe l’hostess Diana Perez, in piedi davanti alla scaletta. Muore sul colpo mentre la sua collega Lari Hemel perde conoscenza sotto un mucchio di corpi. «Lei si riprende poco dopo e dice loro di togliersi di mezzo, ma sono tutti morti. Afferra una scarpa e s’accorge che dentro c’era un piede», racconta Christi, rimasta in seconda classe. «Avrei dovuto essere in fondo, ma mi ero spostata nel mezzo che era vuoto e avevo convinto Muriel e Barb a venire con me. Volevo dormire: la sera prima eravamo state al Piper, e dato l’embargo sulla benzina (la famosa austerity, ndr ) c’erano pochi taxi. Solo alle 4 ne avevamo trovato uno per arrivare a Fiumicino in tempo per la partenza alle 8. Più tardi mi diranno che la granata era finita proprio sul sedile che avrebbe dovuto essere il mio: resta ustionata in modo orribile la mia amica Robyn Haggard, una ragazza bellissima, un peperino, e sua cugina Bonnie Presnell, che quella sera spirò per le ferite». Ad aggravare la situazione il tipo di sedili altamente infiammabili. Anche per questo tanti passeggeri perirono in pochissimi minuti. Lezione dura. La tragedia porterà l’industria a cambiare i materiali, dopo la causa condotta dall’avvocato Ralph Nader, famoso per l’attivismo per la sicurezza dei consumatori, prima che come candidato alle presidenziali.
La forza della disperazione
La narrazione prosegue. «Muriel è finita a terra per l’impatto dell’esplosione. La prendo in braccio, anche se sono molto più piccola di lei: in momenti come questo dicono che uno sviluppi una forza sovrumana. È proprio così. Avanzo verso la prima classe ma, arrivata alla tenda, questa si apre di botto e mi trova faccia a faccia con uno dei terroristi. C’è un fumo denso, buio pesto. Una coppia salta fuori dal suo nascondiglio e mi travolge, seguita dal guerrigliero. Non riesco più a trovare Muriel. Poi sento la voce del mio angelo custode: “È tempo di andare”». Nulla da fare per Muriel, non uscirà viva dalla carlinga.
A tentoni, Christi raggiunge l’uscita di sicurezza. «Qui vedo Dominic Franco, uno degli assistenti di volo, che si precipita fuori dal bagno fino all’uscita di sicurezza sul lato opposto al mio. Ha tentato di nascondersi nel carrello delle bevande, ma non c’entrava». Fasi ancora più concitate, Christi sbuca sopra l’ala: «Ci sono sette-otto persone là sopra, erano fuori di sé. Una donna ci grida di scendere perché l’aereo può esplodere. Salto giù, la mia borsa si apre rovesciando il contenuto. “Devo prendere il passaporto”, è la mia prima reazione e mentre lo afferro guardo in alto. Un terrorista a due metri da me mi punta contro la pistola e preme il grilletto, ma non accadde niente. Lui sbatte l’arma contro il palmo della mano. Niente ancora. Per tre secondi ci fissiamo, poi corre verso il jet Lufthansa sulla piazzola poco distante». Il commando è pronto per la fuga a bordo del Boeing tedesco.
Abbandonati nel terrore
Quello che dopo cinquant’anni fa male, sostiene Christi, sono le «falsità raccontate da Pan Am» sull’eroismo di alcuni suoi dipendenti. «Ho visto il capitano e il secondo pilota uscire dalla cabina e scappare verso il terminal, non hanno aiutato i passeggeri a scendere dall’ala - è la sua accusa -. È stato l’ingegnere di volo, Ken Pfrang, ad aiutarmi a farlo prima di cercare rifugio. Intanto io continuo a pensare: “Devo trovare Muriel e Barb”. Così risalgo dalla scaletta sul retro, quando avvisto Robyn e Bonnie che scendevano.
Carbonizzate. La pelle si è letteralmente sciolta e pende dalle braccia, i vestiti sono fusi con il corpo, una vista orribile. Su di me tracce di sangue e altro, ciocche di capelli bruciate. Dopo aver inalato tanto fumo tossico riesco a parlare a stento e ripeto ossessivamente “devo trovare Muriel e Barb”. Robyn e Bonnie rispondono che avevano già controllato, dicevano che erano tutti morti. Loro erano scampate nascondendosi in uno dei bagni, mentre nell’altro c’erano due assistenti di volo. Quelle due ragazze avevano trovato la forza per attraversare l’aereo in fiamme e verificare se ci fossero sopravvissuti. Robyn aveva 15 anni, Bonnie 21».
Il silenzio dell’equipaggio
Degli otto piloti e assistenti di volo, tutti sopravvissuti all’attentato a parte Diana Perez, resta oggi in vita solo Barbara Marnock, che «non ha mai voluto parlare di ciò che accadde». «All’improvviso riprendono gli spari», continua Christi. Alle 13:10 il Boeing Lufthansa è circondato dagli agenti, c’è uno scambio di colpi. Un tentativo della polizia di contrastare gli assalitori, una reazione non sufficiente. Christi rimprovera gli errori commessi dalle autorità in questa vicenda. «Oh, ve ne furono tanti. All’inizio nel terminal gli uomini della sicurezza sono rimasti paralizzati, non hanno fatto nulla quando i terroristi hanno spianato i fucili». Anche perché il presidio a difesa di Fiumicino è debole.
In fuga
A questo punto le tre ragazze si rifugiano sotto un furgone. «C’era un poliziotto italiano nascosto. “Tira fuori la pistola, spara, fai qualcosa!”, gli grido. Lui risponde che non vuole essere coinvolto». Correndo con i polmoni pieni di fumo, dopo aver provato diverse porte chiuse, Christi, Bonnie e Robyn riescono a tornare nel terminal. Lari Hemel è l’ultima a emergere viva, uscendo sull’ala. Franco, nascosto dietro la ruota dell’aereo, l’aiuta a scendere. Sono scene infernali. «Trovano una bambina sulla pista e Lari la porta all’Alitalia». Barb - come scopre più tardi - è salva: seduta vicino all’uscita di sicurezza, è stata spinta subito fuori ed è corsa nei campi. Bonnie, invece, muore quella notte.
Un’altra ragione di risentimento è che - sostiene Christi - Pan Am avrebbe «mentito per evitare di risarcire i sopravvissuti, sostenendo falsamente che l’Arabia Saudita, dove avevano comprato i biglietti, non era parte delle convenzioni che garantiscono un massimo di 75mila dollari ai feriti».
Risarcimenti umilianti
Alla fine, Christie ottiene «circa cinquemila dollari, al netto delle spese legali. Robyn riceve quei 75mila dollari, ma spenderà milioni. Quattro anni dopo avrà un terribile incidente d’auto: il marito e il figlio morirono, oggi è quadriplegica e non ricorda più nemmeno di essere stata sposata. Ma rammenta la notte prima che prendemmo l’aereo a Fiumicino, quando andammo a ballare al Piper».
La rabbia di Christi è simile a quella di altri. Per diverse ragioni. L’azione eversiva è costata la vita a una trentina di persone, comprese la guardia di finanza Antonio Zara, il dirigente Eni Raffaele Narciso, Giuliano De Angelis, la moglie Emma, la figlia Monica di soli 9 anni e l’addetto ai bagagli Domenico Ippoliti, il cui corpo è buttato sulla pista di Atene nella fase successiva dell’incursione criminale.
I misteri
I fedayn, dopo l’eccidio, si impadroniscono del jet Lufthansa che è parcheggiato vicino al Pan Am e costringono il capitano a raggiungere prima la Grecia e, al termine di un’odissea nei cieli, il Kuwait dove si consegnano alle autorità che li trasferiranno in Egitto. Mosse accompagnate da negoziati dietro le quinte. I killer sono rilasciati, nel novembre 1974, grazie all’ennesimo dirottamento mentre la presunta mente dell’attacco, il palestinese Abdel Ghaffour, viene eliminato dall’Olp in una strada di Beirut due mesi prima. Metodo brutale per sbarazzarsi di un ex funzionario messosi a disposizione della Libia. Secondo alcune fonti ha preparato l’assalto su ordine della Libia decisa a punire l’Italia per i rapporti petroliferi troppo stretti con sauditi. Uno - non l’unico - dei possibili moventi in un mare di versioni. Saranno forti le polemiche sulle scarse misure di protezione nello scalo nonostante fossero arrivati segnali d’allarme, così come non si spegneranno mai le accuse sui patti sottobanco siglati dai governi italiani con le fazioni mediorientali per essere risparmiati da altre nefandezze. Illusioni. È un’epoca feroce, l’Europa trasformata in arena, l’aviazione civile obiettivo primario e i dirottamenti diventati la tattica principale del terrore. Gli assassini colpiranno ancora e per lungo tempo. Fiumicino sarà insanguinata nel dicembre 1985 dai sicari di Abu Nidal, un volo Pan Am esploderà con oltre 200 persone a bordo nei cieli di Scozia tre anni dopo. E anche qui tornerà la pista libica, certificata da un processo a carico degli agenti di Gheddafi ma contestata da chi pensa che i veri colpevoli siano altri, con sospetti sugli iraniani, su un nucleo palestinese, su figure sfuggenti responsabili di delitti che attendono ancora giustizia.
L'anniversario della strage. Depistaggi di Stato: da piazza Fontana a Bologna i mandanti delle stragi erano nella Democrazia Cristiana. 43 anni dopo. Si ricordano i morti ma ancora con molta ipocrisia. Il problema non è solo quello dei depistaggi, il problema sono i mandanti. E bisognerà scriverla quella parola: DC. Piero Sansonetti su L'Unità il 3 Agosto 2023
Tra il dicembre del 1969 e il dicembre del 1984 (quindici anni) in Italia ci furono otto grandi attentati dinamitardi che provocarono più di 150 morti e migliaia di feriti. Famiglie distrutte. Terrore. Ed ebbero una influenza significativa sul corso della vita e della battaglia politica. Il terrorismo dinamitardo fu una cosa ben distinta dalla lotta armata. In particolare da quella delle organizzazioni di sinistra, come le Brigate Rosse e Prima Linea.
Una differenza immediatamente comprensibile era questa: la lotta armata (compresa quella realizzata da formazioni straniere, e cioè palestinesi) rivendicava sempre le proprie azioni. E le spiegava. Il terrorismo dinamitardo non le rivendicava mai. Il punto più alto del terrorismo dinamitardo – in termini di violenza e di vittime – fu l’attentato alla stazione di Bologna, avvenuto il 2 agosto del 1980. Ci furono 85 morti, forse 86. Moltissimi feriti. Bologna ci mise anni per riprendersi psicologicamente da quella frustata. Ancora oggi Bologna è segnata dalla strage del 2 agosto.
È molto ragionevole pensare che gli attacchi terroristici ebbero la stessa matrice. Il fatto che non siano mai stati rivendicati, logicamente, ha reso molto complicato accertare la verità. Dietro agli attentati c’è un mistero, che nei dettagli forse non sarà mai risolto. Sembra però ormai risolto il dubbio su chi azionò e guidò queste stragi. Un pezzo dello Stato. Non so perché oggi si stenti tanto a usare questa definizione, che fu coniata già nel dicembre del 1969 dai gruppi della sinistra: “Strage di Stato”. Noi con difficoltà potremo mai conoscere i cognomi e i nomi di chi praticamente realizzò gli attentati, e mai e poi mai sapremo i nomi e i cognomi di chi li ordinò, o non li impedì.
Però sappiamo con una discreta sicurezza che le stragi furono progettate dai servizi segreti e realizzate talvolta in modo diretto talvolta usando come manovalanza piccoli gruppi o singoli militanti della destra fascista. Attenzione a non confondere la destra fascista col Msi, che non era coinvolto nelle stragi, anche se ancora viveva immerso in una ideologia fascista. Così come il Pci non aveva nessuna relazione con i settori della lotta armata di sinistra, anche se il Pci, come le Brigate Rosse, si ispirava ad una ideologia comunista.
Però ancora oggi, insieme ai misteri, c’è reticenza nel parlare del terrorismo stragista. Non so perché si preferisca parlare di stragi fasciste anziché di stragi di Stato. Sebbene sia evidente il fatto che lo Stato ebbe una enorme responsabilità e i fascisti furono pura manovalanza. Forse la reticenza deriva dal fatto che se si ammette che quelle stragi, da Piazza Fontana (12 dicembre 1969) a Bologna (2 agosto 1980) furono volute dallo Stato e dall’establishment (da una parte dello Stato e da settori dell’establishment) bisogna ammettere che esistevano settori di governo, e del mondo politico di governo, che consideravano l’omicidio e la strage come strumenti utilizzabili nella lotta politica.
Non dire le cose con questa crudezza è il segno di una gigantesca ipocrisia. Nessuno di noi saprà mai quali uomini politici di governo erano direttamente o indirettamente implicati in queste azioni, ma non ha senso immaginare che le stragi furono di Stato ma nessuna personalità, o corrente politica, dello Stato porti sulle spalle la responsabilità. E siccome non vorrei risultare ipocrita pure io, scriverò qui di seguito la parola magica: “La Democrazia Cristiana”. Naturalmente dicendo Democrazia Cristiana si dice poco. Si indica un’area. Il Partito di Sturzo e De Gasperi fu anche vittima e bersaglio delle stragi.
Nel 1969, quando iniziò la stagione stragista, l’Italia era in bilico tra una svolta a sinistra e un rimbalzo reazionario. Era in corso l’autunno caldo, che è stata la più formidabile e potente stagione di lotte di tutta la storia dell’Europa. La giovane classe operaia stava mettendo con le spalle al muro la vecchia borghesia. E la borghesia reagiva dividendosi. Una parte voleva spostarsi a sinistra e spingere per un nuovo compromesso socialdemocratico, ed era pronta a cedere soldi e potere. E dietro questa parte della borghesia c’era anche una parte dei partiti di governo, compreso un pezzo della Dc. Un’altra parte della borghesia voleva la linea dura, lo scontro, anche il sangue. Ed ebbe il sangue della Banca dell’agricoltura. E poi il sangue di Pinelli, l’anarchico defenestrato e ucciso nella questura di Milano per accreditare una pista anarchica e scagionare lo Stato.
I depistaggi iniziano quel giorno, e poi procedono, fino a Bologna. Ma i depistaggi non furono per proteggere qualche fascistello, furono per proteggere i mandanti. Il Potere. Il Palazzo. Il Partito. Oggi sento Mattarella che parla di depistaggi di Stato. Vero. Dovrebbe dire però quella parola in più: strage. Strage di Stato. Tutta sulle spalle delle classi dirigenti di quei quindici anni. Anche la strage di Bologna avvenne in un frangente complesso della vita politica. Poco più di un anno prima era finita l’esperienza della solidarietà nazionale, con il Pci in maggioranza per la prima volta dal 1947 e con una travolgente attività di riforme che avevano cambiato il volto sociale del paese (la sanità, l’aborto, la psichiatria, la casa, i salari). Eravamo di nuovo al bivio: riprendere una politica riformatrice e di sinistra, o realizzare una brusca svolta al centro? Vinse la seconda ipotesi. Certamente la strage di Bologna ebbe un peso.
È un grande errore pensare che le stragi avessero un valore e uno scopo di destabilizzazione della vita politica. È sempre stato il contrario. Servivano a stabilizzare. Ad aiutare il potere, non a scalzarlo. Chi destabilizzava il paese, nel ‘69, erano gli operai, che sgretolavano le sicurezze borghesi e cambiavano i rapporti di forza tra classe operaia e capitale. Chi destabilizzava nel 1980 era il Pci, che minacciava una stagione ancora più radicale di riforme sociali che avrebbe intaccato l’impianto liberista proprio mentre in Gran Bretagna trionfava la Thatcher e negli Stati Uniti aveva appena iniziato la sua marcia trionfale Ronald Reagan.
Non mettiamo la testa sotto la sabbia, usando la retorica antifascista per spiegare un fenomeno molto più complesso e che ha minato profondamente la nostra democrazia. Diciamole le cose che sappiamo, usiamo le parole giuste. Fu lo Stato a colpire la società. E furono pezzi dei partiti che dominavano lo Stato.
Piero Sansonetti 3 Agosto 2023
Estratto dell'articolo di Antonio Padellaro per “il Fatto quotidiano il 22 maggio 2023.
“Le Brigate Rosse hanno sparato al politico X, al magistrato Y, al commissario di polizia Z. Vai sul posto e raccontaci tutto. Ricordati che devi farci vedere il sangue. Il terrore della vittima. Il panico dei testimoni. La rabbia della famiglia. La paura della gente”.
Giampaolo Pansa, “Piombo e sangue” (Rizzoli)
Prima di tutto lo sgomento stupito. Possibile che 40 anni fa, non un secolo fa, l’Italia fosse una macelleria a cielo aperto dove il sangue grondava sulle strade in una normalità quotidiana che registrava la contabilità assassina del piombo brigatista e delle stragi fasciste, con le protezioni piduiste e manovrate dallo Stato deviato?
Poi, lo stupore ammirato. Possibile che in quel tempo ci fossero dei giornalisti come Giampaolo Pansa che mettevano il loro inarrivabile talento, impregnato di fatica e sudore, al servizio esclusivo dei lettori della carta stampata che, allora, affollavano le edicole (le stesse che oggi vanno scomparendo e non a caso)?
Noi che frequentavamo “L’Espresso” potremmo raccontare molto del mito di Pansa (Marco Damilano che ha curato il libro insieme ad Adele Grisendi, amatissima moglie di Giampaolo lo fa con sincero affetto e ammirazione). Nella mia memoria è rimasta una definizione che ci racconta molto del suo calvinismo professionale.
Questa: io sono un volontario. E, dunque, la forza di volontà come motore della scrittura, alimentato senza pause dalla fatica (scarpinate e notti insonni) dall’ascolto, dallo studio per non fermarsi mai alla prima impressione, alla prima versione dei fatti che troppo spesso è la minestrina riscaldata che le “fonti ufficiali” cercano di propinare all’informazione seduta e accogliente. Che anni orrendi gli anni di piombo e sangue intrisi di odio […]
E poi tra i killer del commissario Calabresi ecco “la borghesia radicale e progressista che nei confronti della contestazione giovanile si comporta come una vecchia madama, una miseranda carampana, che vada pazza per un amante ventenne”.
Finché si arriva alle pagine caustiche e impietose contro Eugenio Scalfari (di cui sarà vicedirettore a “Repubblica”) uno dei firmatari dell’odioso appello contro Calabresi: “La sinistra dei colletti bianchi, degli intellettuali, dei professori universitari, del giornalismo chic, delle eccellenze politiche e culturali che mise nel mirino quel giovane commissario”.
Ma, soprattutto, la polemica che lo divise da Giorgio Bocca (i due si rispettavano ma non si amavano), altra firma eccellente, convinto che i covi brigatisti fossero una invenzione della polizia e della magistratura.
“Oggi – scrive Pansa nell’appunto del 2018 che apre il libro – un falso di quelle proporzioni non sarebbe più possibile, nessun giornalista, per grande che sia, riuscirebbe a imporre una fake news di queste proporzioni” [...]
Rileggere oggi Pansa è un’immersione nelle pagine più oscure del nostro album di famiglia: piazza Fontana, Pino Rauti e Ordine Nuovo, l’ombra di Moro, il piombo su Walter Tobagi, le adunate del Movimento studentesco con i cruenti scontri di piazza del sabato pomeriggio.
Quella di Pansa è una lezione per il presente e il futuro contro l’imperante conformismo. Tesa, caschi il mondo, ad accertare, a verificare, a scrivere e riscrivere l’oggettiva verità dei fatti. Che poi dovrebbe essere l’unico fine, ossessivo, tenace, appassionato di questo nostro mestiere.
Attentato Pan Am di Fiumicino, la hostess uccisa dai terroristi palestinesi e l’appello della collega 50 anni dopo: «Qualcuno conosce Diana Perez?». Viviana Mazza e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2023
Il velivolo della Pan Am fu attaccato nel 1973 all’aeroporto di Roma da un commando di sequestratori. La collega Ann Blumensaadt cerca tracce di una donna gentile e solitaria, una vita scomparsa (anche dalle memoria)
Diana Perez, la hostess uccisa, in una foto di prima della sua scomparsa. Nella foto grande l’aereo Pan Am 110 attaccato a Fiumicino nel 1973
«Qualcuno conosce Diana Perez, hostess di Pan Am uccisa all’aeroporto di Roma il 17 dicembre del 1973?». L’appello è apparso sull’Hartford Courant, quotidiano del Connecticut, pochi mesi fa, a quasi 50 anni dopo la strage commessa da terroristi palestinesi sul volo in attesa di partire da Fiumicino per Beirut. A lanciarlo è Ann Blumensaadt, 77 anni, anche lei ex hostess della celebre compagnia decisa a onorare la memoria di una collega dimenticata.
L’unica sopravvissuta rimasta
Ann Blumensaadt, 77 anni
Ann fa parte dell’associazione World Wings International, formata da ex attendenti di volo di Pan Am. «Invecchiamo e ogni anno cerchiamo di ricordare i dipendenti della nostra compagnia morti in qualche tragedia». Fino all’anno scorso non esisteva nemmeno una foto di Diana, finché l’Hartford Courant su richiesta di Ann non ne ha recuperata una. Nel 1974, dopo i funerali di Perez, fu preparata una targa che diceva che «la sua dedizione e il suo eroismo non sarebbero stati dimenticati»: doveva essere affissa al terminal dell’aerolinea (che non esiste più) allo scalo Jfk a New York. Anche quella targa è scomparsa. Degli 8 o 9 membri dell’equipaggio del Pan Am 110, nome Celestial Clipper, tutti sopravvissuti all’attentato a parte Diana, resta oggi in vita solo Barbara Marnock, che «non ha mai voluto parlare di ciò che accadde». Alcuni dettagli però sono arrivati da parte di lettori che hanno inviato vecchi ritagli di giornale.
L’esplosivo
Perez era in piedi davanti alla scaletta, fu uccisa quando i terroristi lanciarono l’esplosivo all’interno della cabina di prima classe, ci racconta al telefono Ann dalla sua casa a Greenwich. Un’altra hostess, Laurette Hamel, scampata all’attentato, rammentava che Diane stava cercando di calmare i passeggeri, e le ultime parole che avrebbe detto furono «Stanno salendo a bordo!». Un eccidio costato la vita ad una trentina di persone, tra cui l’agente della Finanza Antonio Zara e il tecnico Domenico Ippoliti gettato dai «pirati» sulla pista di Atene raggiunta dopo che si erano impadroniti di jet tedesco. Tappa di un’odissea dei cieli. Il dirottamento si chiuderà il giorno dopo a Kuwait City.
Il commando e Arafat
Un massacro per il quale nessuno ha pagato: il commando sarà mandato in Egitto e preso in consegna dall’Olp di Arafat. Pagina nera. Episodio a lungo «trascurato» in quanto avvenuto in un periodo di accordi sotto banco con i fedain, tra trame di servizi e manovre di regimi arabi, interessi petroliferi e aeroporti poco protetti davanti ad una minaccia che sarà sempre più devastante. In mezzo alle fiamme la storia di una donna.
Diana era nata in New Jersey, aveva 44 anni, non risulta che avesse famiglia a parte un fratellastro a Cuba, ma era un’abile cavallerizza e possedeva un cavallo di nome Homer che teneva non lontano da New Milford, il paesino del Connecticut dove risiedeva. Aveva iniziato a lavorare per la compagnia giovanissima prima e secondo un amico, che parlò al funerale, non amava viaggiare in Medio Oriente e stava cercando di farsi trasferire sulla rotta per l’Estremo Oriente. Oltre al fatto di vivere in Connecticut, qualcos’altro lega Diana e Ann. «Io facevo parte dell’equipaggio che arrivò a Roma tre giorni dopo quell’evento terribile — ci dice —, stavamo al Metropolitan Hotel vicino la stazione, ci prepararono una gran cena e camminammo fino al Vaticano per la messa di mezzanotte, ma all’atterraggio a Fiumicino passammo davanti a quell’aereo distrutto».
Il pilota in prima classe
Frammenti di vita. E poi quelli della morte che ti sfiora: John D. Parrott, pilota, doveva viaggiare in prima classe ma cedette il posto alla moglie del capitano, Bonnie Erbeck, che rimase uccisa. Sono storie da romanzo terribilmente reali con incroci imprevedibili. Il marito di Ann, Robert Genna, nato a Roma, giunse in America da bambino nel 1955 a bordo dell’Andrea Doria, che l’anno dopo sarebbe affondata, come ci racconta per telefono in perfetto italiano. L’indagine personale di Ann rivela commozione e anche una nostalgia per la vecchia America. A quei tempi Pan Am era la più grossa compagnia americana internazionale — «Se volavi per Pan Am, eri speciale, rispettato»—, quasi un simbolo coinvolto anche nelle missioni della diplomazia statunitense per evacuare cittadini da paesi a rischio, dal Vietnam al Vicino Oriente.
Il Mistero di Ustica.
Le dichiarazioni di Giuliano Amato.
I Commenti
Andare a ritroso.
Giuliano Foschini per “la Repubblica” - Estratti mercoledì 4 ottobre 2023.
Esistono documenti del Sismi, come raccontato a Repubblica dall’ex maresciallo Giuseppe Dioguardi, ancora secretati? E ancora: Paesi esteri, o gli alleati della Nato, hanno negli archivi carte cruciali per poter ricostruire cosa è accaduto la sera del 27 giugno del 1980 sui cieli di Ustica? Ruota a queste due domande l’istruttoria che il Copasir, il Comitato parlamentare per la Sicurezza, ha riaperto dopo l’intervista a Repubblica dell’ex presidente del Consiglio, Giuliano Amato, che chiedeva verità ai francesi che potrebbero aver avuto un ruolo nell’attentato aereo del 1980.
Amato ha confermato quanto già raccontato: «La versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. E il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario».
«Gheddafi – aveva spiegato Amato - fu avvertito del pericolo e non salì sul suo aereo. E il missile sganciato contro il Mig libico finì per colpire il Dc9 dell’Itavia che si inabissò con dentro ottantuno innocenti. L’ipotesi più accreditata è che quel missile sia stato lanciato da un caccia francese partito da una portaerei al largo della costa meridionale della Corsica o dalla base militare di Solenzara, quella sera molto trafficata. La Francia su questo non ha mai fatto luce».
Fin qui quello che l’ex premier ha ricostruito. Ma quello che sta emergendo è che per poter davvero avvicinarsi alla verità - Amato, per dire, ha ribadito di non avere ulteriori elementi da offrire né al Comitato né alla magistratura che, comunque, non ha ritenuto di doverlo ascoltare - è necessario un lavoro sui documenti che al momento sono quasi tutti desecretati. O comunque tutti sono stati messi a disposizione della procura di Roma che negli anni scorsi ha riaperto l’inchiesta sulla morte delle 81 persone che viaggiavano a bordo del Dc9.
«Ma il punto è proprio quello» spiega a Repubblica una fonte del Copasir. «Essere certi che tutti i documenti siano stati letti e soprattutto ne sia stato dato il giusto senso. Perché lì potrebbero esserci delle verità fino a questo momento non o sotto valutate ». Il riferimento non è casuale
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Amato: “Ustica, il Dc9 fu abbattuto da un missile francese. Macron chieda scusa”. Simonetta Fiori su La Repubblica il 2 Settembre 2023.
L’ex premier: “Era scattato un piano per colpire l’aereo sul quale volava Gheddafi, ma il leader libico sfuggì alla trappola perché avvertito da Craxi”. “Adesso l’Eliseo può lavare l’onta che pesa su Parigi”
Dopo quarant’anni le vittime innocenti di Ustica non hanno avuto giustizia. Perché continuare a nascondere la verità? È arrivato il momento di gettare luce su un terribile segreto di Stato- o meglio - un segreto di Stati. Potrebbe farlo il presidente francese Macron, anche anagraficamente molto lontano da quella tragedia. E potrebbe farlo la Nato, che in tutti questi anni ha tenacemente occultato ciò che accadde nei cieli italiani.
Estratto dell’articolo di Simonetta Fiori per “la Repubblica” sabato 2 settembre 2023.
Dopo quarant’anni le vittime innocenti di Ustica non hanno avuto giustizia. Perché continuare a nascondere la verità? È arrivato il momento di gettare luce su un terribile segreto di Stato- o meglio - un segreto di Stati.
Potrebbe farlo il presidente francese Macron, […] potrebbe farlo la Nato, che in tutti questi anni ha tenacemente occultato ciò che accadde nei cieli italiani. Chi sa ora parli: avrebbe grandi meriti verso le famiglie delle vittime e verso la Storia».
[…] Giuliano Amato ha rappresentato quella parte dello Stato che più s’è adoperata per arrivare a una verità giudiziaria e storica sull’abbattimento del Dc9 dell’Itavia il 27 giugno del 1980.
Un traguardo ora lumeggiato dall’inchiesta bis della Procura di Roma, con nuove prove a carico dell’aeronautica francese. […] Amato ci affida la sua ricostruzione di quel tragico incidente, dei tentativi di depistaggio, delle omissioni di politici e militari, nella speranza che possa favorire un nuovo esame di coscienza, in Italia e nel mondo.
Presidente Amato, qual è la sua ricostruzione dei fatti?
«La versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno.
Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. E il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario».
Ma le cose andarono molto diversamente.
«Gheddafi fu avvertito del pericolo e non salì sul suo aereo. E il missile sganciato contro il Mig libico finì per colpire il Dc9 dell’Itavia che si inabissò con dentro ottantuno innocenti. L’ipotesi più accreditata è che quel missile sia stato lanciato da un caccia francese partito da una portaerei al largo della costa meridionale della Corsica o dalla base militare di Solenzara, quella sera molto trafficata. La Francia su questo non ha mai fatto luce».
In qualità di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, sei anni dopo la tragedia del Dc9, ebbe mai informazioni dirette dai comandi militari italiani?
«Da principio i militari si erano chiusi in un silenzio blindato, ostacolando le indagini. E quando da sottosegretario alla Presidenza ebbi un ruolo in questa vicenda, nel 1986, cominciai a ricevere a Palazzo Chigi le visite dei generali che mi volevano convincere della tesi della bomba esplosa dentro l’aeromobile. Era da tempo crollata la menzogna del “cedimento strutturale” […]”».
Erano in azione i depistatori per nascondere la guerra aerea della Nato.
«Ovviamente mi chiedevo perché venissero a dirmi queste falsità. […] C’era qualcosa di molto inquietante in tutto questo. Se tanti militari, tutti con incarichi ufficiali molto importanti, dicevano la stessa cosa palesemente falsa dietro doveva esserci un segreto molto più grande di loro. Un segreto che riguardava la Nato».
Perché lei fu investito della questione di Ustica?
«Fu il presidente del Consiglio Bettino Craxi a chiedermi di occuparmene nell’agosto del 1986. La sollecitazione era arrivata dal presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, su pressione di parlamentari e intellettuali. A quell’epoca navigavamo ancora nel buio».
Si dice che Craxi fu infastidito dalla richiesta di Cossiga: ma come, eri tu presidente del Consiglio nel 1980, quando fu abbattuto l’areo, e ora vieni a chiederne conto a me?
«Io ricordo che Craxi era insofferente alle mie perplessità sulle tesi dei generali. Andavo da lui per avere sostegno sui fatti che secondo me le smentivano e lui mi diceva senza mezzi termini che dovevo evitare di rompere le scatole ai militari. Poi mi faceva fare, perché questo era il nostro rapporto. Ma non era contento».
S’è fatta una idea del perché fosse insofferente?
«Avrei saputo più tardi – ma senza averne prova - che era stato Bettino ad avvertire Gheddafi del pericolo nei cieli italiani. Non aveva certo interesse che venisse fuori una tale verità: sarebbe stato incolpato di infedeltà alla Nato e di spionaggio a favore dell’avversario. In fondo è sempre stata questa la sua parte. Amico di Gheddafi, amico di Arafat e dei palestinesi: uno statista trasgressivo in politica estera».
Ma questo vuol dire che Craxi nel 1980 era stato informato del piano Nato?
«Non direi. Forse aveva ricevuto qualche soffiata e ha avvertito Gheddafi. Ma non credo ne sapesse più degli altri. Ho sempre avuto l’impressione che la politica avesse meno informazioni rispetto agli alti comandi militari. C’è una cosa che pensai allora ma non dissi perché facevo parte del ceto politico e poteva sembrare una giustificazione autoassolutoria».
Cosa pensava?
«Non era del tutto irragionevole che i generali, per tenere al sicuro il segreto, si guardassero bene dal condividerlo con i politici. […] vennero tenuti rigorosamente fuori dal perimetro della verità».
La politica non ebbe la forza morale per imporsi sugli apparati che occultavano i fatti. E forse non aveva interesse ad approfondire.
«Questo è certo: non aveva convenienza a sapere fino in fondo. Che cosa avrebbe potuto significare chiarire subito questa faccenda? O che i politici erano stati complici di un delitto orrendo. O che l’apparato della Nato poteva decidere un atto di guerra in tempo di pace senza prendersi la briga di avvertire il ministro della Difesa […]. Quindi […]ammettere di non contare niente. In ogni modo la verità risultava scomoda. Ed era meglio lasciarla sepolta».
Lei perché non fu convinto dalla tesi della bomba?
«[…] Le relazioni tecniche avevano escluso fin dal primo momento l’ipotesi di una bomba esplosa all’interno. Tutto, dagli squarci nell’aereo ai brandelli dei sedili, accreditava al contrario la tesi di un impatto esterno con materiale esplosivo. E poi rimasi molto colpito da un altro elemento. Lessi la perizia medica sul corpo dell’aviere libico ritrovato sui monti della Sila il 18 luglio del 1980, tre settimane dopo la tragedia del Dc 9: parlava espressamente di avanzato stato di putrefazione. Non poteva essere morto il giorno prima. […] ».
Quindi quello era il Mig libico contro cui mirava l’areo francese la sera del 27 giugno?
«Avendo intuito il pericolo di tutto quel movimento in cielo, il pilota del Mig s’era nascosto vicino al Dc 9 per non essere colpito. Ma tutte le evoluzioni aeree impreviste provocarono l’esaurimento del carburante, per cui il velivolo cadde sulla Sila per mancanza di cherosene. Esiste un’altra versione secondo cui il Mig sarebbe stato colpito dal missile francese e la deflagrazione avrebbe travolto il Dc9, ma questa tesi mi convince di meno».
Lei rese pubbliche le sue opinioni sull’abbattimento del Dc9 a causa di un missile? E sulla coincidenza con la caduta del Mig libico sulla Sila?
«Sì, nel settembre del 1986 andai in Parlamento per rispondere a un’interrogazione fatta al presidente del Consiglio. E fu proprio da quel momento che attirai l’interesse di due mondi contrapposti: da una parte dei generali che venivano a trovarmi a Palazzo Chigi per parlarmi della bomba, dall’altra di un giornalista bravo e ostinato come Andrea Purgatori con il quale sarebbe cominciata una bellissima collaborazione».
Lei prima ha usato l’espressione impersonale: “Si voleva fare la pelle a Gheddafi”. Ma chi? E perché?
«Sul “chi” le ho già detto della presumibile mano francese, che però non può non essere stata autorizzata dagli americani: è impensabile che una sporca azione come questa sia stata progettata mentre i generali americani erano impegnati a giocare a boccette. Sul perché la domanda resta aperta: a distanza di anni non sono riuscito a trovare una risposta».
[…] Lei ebbe un ruolo anche nel recupero del relitto, finanziando nell’87 l’impresa. Ma questo lavoro venne affidato a una ditta di Marsiglia legata ai servizi segreti francesi, la Ifremer. Una decisione che oggi appare improvvida. Perché questa scelta?
«La scelta della ditta non dipese da me, essendo di competenza del giudice che allora faceva l’indagine, il dottor Vittorio Bucarelli. Con quel magistrato ebbi un rapporto piuttosto burrascoso. Qualche anno dopo sarebbe arrivato a querelarmi. Davanti alla commissione stragi, nel 1990, dissi che esistevano delle fotografie del relitto scattate dagli americani prima del recupero, circostanza di cui ero stato messo al corrente proprio dal giudice Bucarelli. Ma questi negò di avermelo detto. E davanti alla mia insistenza decise querelarmi, lasciando il suo incarico».
[…] «Dopo sarebbe arrivato Rosario Priore, un bravissimo giudice istruttore con cui ebbi una forte intesa. Ma anche Priore dovette fermarsi sulla porta della Nato. […] tornato nel Duemila a Palazzo Chigi in veste di presidente del Consiglio, su richiesta di Priore scrissi ai presidenti Clinton e Chirac sollecitandoli a fare luce sulla tragedia area. Ne ebbi risposte gentilissime che mi rimettevano agli organi competenti. Ma più tardi non avrei saputo nulla. Silenzio totale».
[…] La tesi della mano francese ebbe nuova linfa da Francesco Cossiga. Nel 2008, dopo quasi trent’anni di silenzio, disse di aver saputo della guerra aerea e del missile francese dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, i servizi segreti militari. In quella circostanza la coinvolse, raccontando che all’epoca – seconda metà degli Ottanta - Martini aveva informato anche lei, in veste sottosegretario alla presidenza.
«No, accadde esattamente il contrario. Fulvio Martini era uno di quei generali che venivano a trovarmi con assiduità per convincermi della bomba a bordo. Fu però lui a mettermi in guardia sull’opportunità di affidare alla ditta di Marsiglia il recupero del delitto: forse proprio perché sapeva della responsabilità dei francesi. Ma a me non lo disse».
Perché allora Cossiga scelse di coinvolgerla?
«È difficile trovare una risposta. Aveva disturbi bipolari, era un uomo di forti sofferenze e grandi intuizioni. Sono stato a lungo testimone e riequilibratore delle sue intemperanze: cercando di proteggerlo da sé stesso ho anche visto le sue bizzarrie. Devo dire che con quella deposizione nel 2008 diede un grande contributo al raggiungimento della verità. E invece nulla poi è accaduto».
Tra fedeltà alla Costituzione e fedeltà alla Nato in tutti questi anni è prevalsa la seconda?
«Purtroppo sì. E questo non dovrebbe accadere perché la Nato sta dentro l’articolo 11 della Carta, quindi dovrebbe operare in modo da realizzare pace e giustizia fra le Nazioni. Qui invece cosa è successo? Un apparato costituito da esponenti militari di più paesi ha negato ripetutamente la verità pensando che il danno sarebbe stato irrimediabile per l’alleanza atlantica e per la stessa sicurezza degli Stati. E quindi tutte queste persone hanno coperto il delitto per “una ragion di Stato”, anzi dovremmo dire per “una ragion di Stati” o per “una ragion di Nato”. […]».
Ha senso continuare a coprirlo?
«È questo il punto. [….] Ci guadagna la Nato ad apparire ancor più disumana, nascondendo ancora una tragedia del genere? ».
[…] Che cosa si aspetta dalla Francia?
«Mi chiedo perché un giovane presidente come Macron, anche anagraficamente estraneo alla tragedia di Ustica, non voglia togliere l’onta che pesa sulla Francia. E può toglierla solo in due modi: o dimostrando che questa tesi è infondata oppure, una volta verificata la sua fondatezza, porgendo le scuse più profonde all’Italia e alle famiglie delle vittime in nome del suo governo. Il protratto silenzio non mi pare una soluzione».
Giuliano Amato: "La Francia ha abbattuto il Dc9 a Ustica, Macron chieda scusa". Libero Quotidiano il 02 settembre 2023
Secondo l'ex premier Giuliano Amato il Dc9 caduto nel mare di Ustica nel 1980 sarebbe stato abbattuto dai francesi. In un'intervista a Repubblica, Amato afferma: "Era scattato un piano per colpire l’aereo sul quale volava Gheddafi – racconta oggi al quotidiano – ma il leader libico sfuggì alla trappola perché avvertito da Craxi. Adesso l’Eliseo può lavare l’onta che pesa su Parigi. Dopo quarant’anni – prosegue – le vittime innocenti di Ustica non hanno avuto giustizia. Perché continuare a nascondere la verità? È arrivato il momento di gettare luce su un terribile segreto di Stato- o meglio – un segreto di Stati. Potrebbe farlo il presidente francese Macron, anche anagraficamente molto lontano da quella tragedia. E potrebbe farlo la Nato, che in tutti questi anni ha tenacemente occultato ciò che accadde nei cieli italiani. Chi sa ora parli: avrebbe grandi meriti verso le famiglie delle vittime e verso la Storia". Parole, quelle di Amato, che scateneranno polemiche.
E ancora: "a versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. E il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario". "Gheddafi – aggiunge – fu avvertito del pericolo e non salì sul suo aereo. E il missile sganciato contro il Mig libico finì per colpire il Dc9 dell’Itavia che si inabissò con dentro ottantuno innocenti. L’ipotesi più accreditata è che quel missile sia stato lanciato da un caccia francese partito da una portaerei al largo della costa meridionale della Corsica o dalla base militare di Solenzara, quella sera molto trafficata. La Francia su questo non ha mai fatto luce". Affermazioni che potrebbero anche aprire un conflitto diplomatico con Parigi. Infine parla di Craxi: "Ricordo che Craxi era insofferente alle mie perplessità sulle tesi dei generali. Andavo da lui per avere sostegno sui fatti che secondo me le smentivano e lui mi diceva senza mezzi termini che dovevo evitare di rompere le scatole ai militari. Poi mi faceva fare, perché questo era il nostro rapporto. Ma non era contento». «Avrei saputo più tardi – ma senza averne prova – che era stato Bettino ad avvertire Gheddafi del pericolo nei cieli italiani. Non aveva certo interesse che venisse fuori una tale verità: sarebbe stato incolpato di infedeltà alla Nato e di spionaggio a favore dell’avversario. In fondo è sempre stata questa la sua parte. Amico di Gheddafi, amico di Arafat e dei palestinesi: uno statista trasgressivo in politica estera".
I Commenti.
Su Rainews.
Su Dagospia.
Su l’Ansa.
Su l’Adnkronos.
Su Huffingtonpost.it
Su Il Corriere della Sera.
Su Il Fatto Quotidiano.
Su L’Espresso.
Su La Repubblica.
Su La Stampa.
Su Openinline.it
Su L’Identità.
Su L’Indipendente.
Su Il Tempo.
Su Il Giornale.
Su Libero Quotidiano.
Su Panorama.
Su L’Inkiesta.
Su Il Riformista.
Su Il Foglio.
Su Il Dubbio.
Su Rainews.
Estratto dell’articolo di Giuseppe Asta e Antonio Bonanata per rainews.it – articolo del 2 settembre 2023
[…] Mario Naldini e Ivo Nutarelli erano due piloti dell’Aeronautica, in servizio presso la base di Grosseto e in volo la sera del 27 giugno 1980. Lanciarono l’allarme di emergenza generale. La loro testimonianza, prevista dall’inchiesta di Priore, avrebbe quindi fornito utili elementi per far luce su quello che accadde nei cieli del Tirreno la sera del disastro.
Oltretutto, i due piloti – che viaggiavano insieme su un F-104 Lockheed – avrebbero potuto offrire un’utile testimonianza in relazione alle dichiarazioni del loro allievo e collega, Algo Giannelli, in volo la sera del 27 giugno su un altro F-104 e apparso, a detta di Priore, “sempre terrorizzato”. Nutarelli e Naldini restarono vittime di un tragico incidente nella base aerea militare di Ramstein, in Germania, scontrandosi in volo a bordo dei rispettivi velivoli. […]
Su Dagospia.
Dagospia sabato 2 settembre 2023.
REQUISITORIE DEI PM SETTEMBRINO NEBBIOSO, VINCENZO ROSELLI, GIOVANNI SALVI SUL CASO DEL DC9 PRECIPITATO A USTICA
Dal capitolo "Conclusioni che possono trarsi dall'esame congiunto delle indagini tecniche sul relitto e da quelle sui dati radar".
“L'esplosione all'interno dell'aereo, in zona non determinabile di un ordigno è dunque la causa della perdita del DC9 per la quale sono stati individuati i maggiori elementi di riscontro. Certamente invece non vi sono prove dell'impatto di un missile o di una sua testata.
Vi sono però elementi, non trascurabili quanto a numero e di forza non minore di quelli indicanti l'esplosione interna, dell'interferenza di uno o più aerei privi di trasponder con la rotta del DC9 in luogo e momento coincidenti con quello dell'incidente. Tali elementi non sono tali da consentire di per sé da escludere quelli contrastanti, che porterebbero a sostenere l'esplosione interna.
Essi però, congiunti alla debolezza intrinseca di questi ultimi, danno luogo ad un contrasto di elementi di prova sulle cause del disastro che è - a giudizio dei requirenti - insuperabile".
Su l’Ansa.
(ANSA venerdì 15 settembre 2023) - Tutti i documenti del ministero della Difesa sulla strage di Ustica sono stati declassificati e versati all'Archivio di Stato, ad eccezione di 18:11 sono stati consegnati alla procura di Roma il 28 settembre 2020, "onde riceverne il nulla osta di competenza, a premessa del versamento" presso lo stesso Archivio. Per i rimanenti 7 documenti si è in attesa del nulla osta da parte degli enti originatori, "richiesta più volta reiterata, a partire dal 2015, per ottenere l'autorizzazione alla declassificazione e al loro relativo versamento". Lo precisa lo stesso ministero.
La precisazione del ministero arriva in seguito a quanto dichiarato dal maresciallo in congedo dell'Aeronautica Militare, Giuseppe Dioguardi, in un’intervista pubblicata oggi da Repubblica. L'ex militare aveva parlato di documenti classificati del Sismi che ricostruivano quanto accaduto la notte del 27 giugno 1980 nella disponibilità del ministero.
"Tutti i documenti, di qualsiasi argomento, inerenti la strage di Ustica, in ottemperanza alla direttiva del 22 aprile 2014, nota come "Direttiva per la declassifica e per il versamento straordinario di documenti all'Archivio centrale dello Stato" (cd. direttiva "Renzi") - informa la Difesa - sono stati declassificati e versati presso l'Archivio centrale dello Stato".
A seguito della direttiva, "è stata condotta, nel 2014, una ricognizione degli archivi della Segreteria speciale del Gabinetto del ministero della Difesa, dove sono stati rinvenuti 1967 atti riferiti alla vicenda di Ustica. Documenti che sono stati tutti già versati, nel periodo 2015-2016, ad eccezione di soli 18 documenti": gli 11 consegnati alla procura di Roma più i 7 in attesa di nulla osta dagli enti originatori.
"Successivamente - prosegue il ministero - nel corso del 2022, a seguito della ricognizione del "Archivio Lagorio" (Lelio Lagorio era ministro della Difesa all'epoca di Ustica, ndr) è stato rinvenuto un unico documento 'non classificato' riferito alla vicenda in questione. Tale documento, che riporta una situazione a caldo dell'evento, redatta a favore del capo di Gabinetto del tempo, è in fase di versamento, che sarà effettuato alla prima data utile”.
(ANSA venerdì 15 settembre 2023) - Come prevede la legge 124 del 2007 "l'accesso dell'Autorità giudiziaria alle informazioni classificate non è né può essere preclusa" e si evidenzia che, "nel tempo e a tutt'oggi, sono in corso continue interlocuzioni con la procura della Repubblica di Roma in merito allo stato delle valutazioni sui documenti dati in consegna e in attesa della loro restituzione". Così il ministero della Difesa sui documenti in merito alla strage di Ustica.
(ANSA sabato 2 settembre 2023) -"Amato smentisce Amato? Molto non torna nell'intervista di Giuliano Amato che, in maniera intempestiva, considerato lo scenario europeo, l'ex premier ha deciso di rilasciare senza aggiungere alcun elemento nuovo. Sin dal 1986 l'attività istituzionale di Giuliano Amato ha coinvolto la strage di Ustica.
Come presidente emerito della Corte Costituzionale perché Amato non l'ha resa alla competente Procura della Repubblica, invece di raccontarla a un giornale, senza fornire un solo elemento di riscontro? Ma ciò che desta ancor più inquietudine è perché queste sue gravissime "verità" - che coinvolgono addirittura le responsabilità di uno Stato estero - non sono state messe a disposizione della magistratura italiana, nell'ambito del processo a carico dei generali dell'Aeronautica Militare italiana accusati di alto tradimento''.
Così il deputato FDI Federico Mollicone, già consulente della commissione di inchiesta Impedian. ''Come mai - chiede Mollicone - non ha mai riferito questi elementi in suo possesso anche di fronte la Corte d'Assise l'11 dicembre 2001? - Quali sono gli elementi probatori per cui viene data questa versione dei fatti? - Se il presidente Amato è in possesso di questi elementi come mai li ha rilasciati a mezzo stampa e non si è recato alla Procura? - Come mai il 15 novembre 2000 di fronte la Commissione Esteri nella risposta all'interrogazione nel 1986 e nella lettera inviata alla Commissione Stragi Amato non ha fornito questi elementi e ha anzi parlato di rassicurazioni della Francia?
Molte sono le criticità dell'intervista ad Amato. - La relazione della commissione Luttazzi venne superata dal recupero del relitto, che ha iniziato a "parlare" come il ritrovamento di tracce di esplosivo all'interno da parte di un laboratorio dell'Aeronautica come peraltro emerge anche dalla perizia del grande esperto Taylor. - Come faceva Craxi - così come ricordato da Bobo Craxi - a sapere nel 1980 che Gheddafi doveva essere abbattuto quella sera, dato che diventerà premier il 4 agosto 1983, oltre tre anni dopo? Ricordiamo, poi, la sua sortita in Commissione Stragi nel 1990 quando raccontò delle fantomatiche fotografie del relitto dell'aereo scattate dagli americani, attribuendola arbitrariamente al giudice istruttore dell'epoca, Vittorio Bucarelli, determinandone la sostituzione, proprio nel momento in cui il magistrato aveva deciso di procedere al recupero del relitto dell'aereo.
Nella mozione votata il 2 agosto viene richiesto il completamento del processo di declassifica degli atti, un impegno specifico del Parlamento volto proprio alla ricerca della verità continuando il lavoro meritorio della Presidenza del Consiglio ricordato dal presidente Meloni: purtroppo, esistono ancora delle mancanze negli atti, nel periodo temporale da Luglio a Settembre 1980 che potrebbero portare riferimenti importanti. Ad esempio, i cablogrammi di Giovannone, già usciti in uno scoop su La Stampa a firma di Grignetti il 26 giugno 2020, parlano esplicitamente della volontà di una ritorsione palestinese verso un obiettivo italiano, potenzialmente un veivolo di linea. Un documento ufficiale mai considerato in alcun filone giudiziario.
Qualunque sia la verità documentale, è necessario continuare il processo di messa a disposizione degli atti. Come ha detto il Presidente Meloni, se Giuliano Amato ha elementi probatori li metta a disposizione di Governo e Parlamento. Non vorremmo che l'intervento di Amato fosse un tentativo per mettere in difficoltà il governo italiano contro quello francese. Oltretutto su una versione come quella della battaglia aerea mai dimostrata e su cui, anzi, esiste una sentenza che afferma il contrario''.
(ANSA sabato 2 settembre 2023) - "Non abbiamo commenti da fare": così risponde il servizio stampa dell'Eliseo questa mattina alla richiesta di un commento all'intervista dell'ex presidente del Consiglio, Giuliano Amato, in cui si ribadiscono le responsabilità francesi nel disastro di Ustica e si chiede che il presidente Emmanuel Macron presenti le scuse della Francia.
(ANSA sabato 2 settembre 2023) - "Quello che facciamo al Copasir è segreto e non mi permetterei mai di rivelarlo. Amato ha detto delle cose importanti. Noi da sempre chiediamo la desecretazione di tutti gli atti e le pagine non chiare di quegli anni. Amato dice delle cose, in passato ha detto l'esatto opposto". Lo afferma Giovanni Donzelli, vice presidente del Copasir e responsabile organizzazione di Fdi a margine della kermesse dei Conservatori e Riformisti a Reggio Calabria.
"Ci chiediamo - prosegue Donzelli - perchè Amato oggi dica queste cose, lo spiegherà per bene e spiegherà anche perchè in passato ha detto altre cose, ma ben venga quando le persone parlano è una buona notizia e quando ciascuno dice la sua verità è una buona notizia. Il problema è quando le persone stanno in silenzio".
(ANSA sabato 2 settembre 2023) - "Bisogna verificare quello che è successo, questa è la versione dell'ex presidente del Consiglio, vedremo. E' una sua versione e non c'è da commentare". Lo ha detto il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani commentando le parole sulla Francia di Giuliano Amato sulla strage di Ustica. "C'è stato un processo, non si può commentare un'intervista, vedrà la magistratura - ha aggiunto a margine del forum Ambrosetti a Cernobbio -, che indagherà su quello che è successo, bisognerà fare chiarezza". "Giuliano Amato è una persona che ha avuto grande importanza ma ora è un privato cittadino", ha concluso.
(ANSA sabato 2 settembre 2023) - "Ciao Andrea, hai sempre avuto ragione, ma tanto lo sapevi. #purgatori #ustica". Lo scrive sui social Andrea Salerno - direttore di La7 e anche fraterno amico di Andrea Purgatori - commentando l'intervista a Giuliano Amato su Repubblica intitolata "Ustica, il Dc9 fu abbattuto da un missile francese. Macron chieda scusa". Nell'articolo l'ex premier dice che "era scattato un piano per colpire l'aereo sul quale volava Gheddafi, ma il leader libico sfuggì alla trappola perché avvertito da Craxi". E ancora: "Adesso l'Eliseo può lavare l'onta che pesa su Parigi".
Su l’Adnkronos.
Da adnkronos.com sabato 2 settembre 2023.
"Quelle di Giuliano Amato su Ustica sono parole importanti che meritano attenzione. Il presidente Amato precisa però che queste parole sono frutto di personali deduzioni".
Così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dopo l'intervista di Giuliano Amato a Repubblica, sulla vicenda di Ustica.
"Premesso che nessun atto riguardante la tragedia del Dc 9 è coperto da segreto di Stato, e che nel corso dei decenni è stato svolto dall’autorità giudiziaria e dalle Commissioni parlamentari di inchiesta un lungo lavoro, chiedo al presidente Amato di sapere se, oltre alle deduzioni, sia in possesso di elementi che permettano di tornare sulle conclusioni della magistratura e del Parlamento, e di metterli eventualmente a disposizione, perché il governo possa compiere tutti i passi eventuali e conseguenti", conclude il premier.
Su Huffingtonpost.it.
Andrea Purgatori per huffingtonpost.it - articolo del 23 ottobre 2013
“Fu all’inizio degli anni Ottanta. Una domenica in cui giocava l’Italia. Partii da Roma armato, con una scorta armata, e questo documento classificato segretissimo nella cartella.
Una relazione completa sulla strage di Ustica che doveva essere controfirmata dal ministro della Difesa Giovanni Spadolini e trasmessa urgentemente al presidente del Consiglio Bettino Craxi. Arrivai alla stazione di Santa Maria Novella a Firenze, da lì una gazzella dei carabinieri mi portò nella sua residenza a Pian dei Giullari.
Spadolini mi ricevette in biblioteca, indossava una vestaglia da camera rossa. Mi conosceva bene, lavoravo già da qualche anno nella sua segretaria particolare, mi chiamava per nome. Gli consegnai il documento. Lui si sedette, cominciò a leggere.
Erano sette o otto pagine: il resoconto dettagliato di ciò che era accaduto quella sera, con allegate alcune carte del Sismi, il servizio segreto militare. Si parlava di due Mirage, di un Tomcat, si parlava del Mig. Mi resi subito conto che quello che c’era scritto non gli piaceva, scuoteva la testa. Finché a un certo punto sbattè un pugno sulla scrivania. Era infuriato. Ricordati, Giuseppe - mi disse - non c’è cosa più schifosa di quando i generali si mettono a fare i politici. Ma alla fine, controvoglia, firmò”.
Il maresciallo Giuseppe Dioguardi oggi ha 53 anni, ha prestato servizio in Aeronautica fino al 2008. Alla scadenza del suo nullaosta di segretezza, il Cosmic, che è il livello più alto, è stato ascoltato da Maria Monteleone ed Erminio Amelio, i due magistrati della Procura di Roma che indagano sulla strage di Ustica. Parte dell’interrogatorio è ancora secretato, ma il maresciallo ha accettato lo stesso di raccontare quello che sa. E sa molto.
Nei 33 anni che ha trascorso nell’arma azzurra e alla Difesa, in posizioni di estrema responsabilità e delicatezza, un filo rosso lo ha tenuto sempre agganciato, spesso da supertestimone, a questa storia. Fin da quella sera del 27 giugno 1980, quando si trovò nella sala operativa della Prima regione aerea a Milano. Esattamente negli istanti in cui il DC9 Itavia veniva abbattuto nel cielo di Ustica.
Come mai quella sera lei era nella sala operativa della Prima Regione aerea?
“Per puro caso, ero andato a trovare un collega di turno”.
Quindi, seguì tutto in diretta?
“Sì, fin dalla prima comunicazione della base radar di Monte Venda”.
Che cosa sentì?
“Rimbalzavano notizie confuse. Non si capiva cosa era successo, dicevano che un aereo era stato abbattuto. C’era molta tensione. E appena l’ufficiale di servizio comunicò quello che stava succedendo al comandante della Regione aerea, che all’epoca era il generale Mura, il Centro operativo dello Stato Maggiore da Roma alzò il livello d’allarme al grado più alto in tutte le basi italiane”.
Cosa che non accade per un semplice incidente aereo.
“No. Quel tipo d’allarme scatta solo se c’è un pericolo concreto per la sicurezza del Paese. Che so, un attacco a una base o una minaccia dall’esterno al nostro spazio aereo. Per capirci, lo stesso allarme del giorno dei missili libici su Lampedusa o della notte di Sigonella”.
Dalla prima comunicazione all’allarme quanto tempo trascorse?
“In quella situazione, la sala operativa della Regione aerea aveva un tempo massimo di cinque minuti per avvertire Roma. Faccia lei i conti”.
Che altro fece il generale Mura?
“Chiese a chi non era in servizio di uscire subito dalla sala. Poi la mattina dopo, al circolo, mi chiamò e mi disse che bisognava stare sereni e tranquilli, che purtroppo erano situazioni che potevano capitare e che stavano cercando di capire chi aveva provocato cosa”.
Le comunicazioni che ascoltò erano telefoniche?
“Certo. Ma dallo Stato Maggiore di Roma arrivarono anche messaggi classificati che vennero decrittati e letti”.
Cerchi di essere più preciso.
“Non posso, i dettagli sono nelle parti dell’interrogatorio secretate dai magistrati. Diciamo che la confusione era provocata dal fatto che si sapeva che c’erano dei caccia in volo ma non la nazionalità, né la provenienza o la direzione. E comunque, un allarme c’era già prima dell’abbattimento…”.
Chi lo aveva lanciato?
“I due piloti che poi sono morti nell’incidente delle Frecce tricolori a Ramstein nel 1986, Nutarelli e Naldini. Loro hanno incrociato il DC9 tra Bologna e Firenze e hanno visto quello che si muoveva intorno al velivolo civile… loro sono rientrati alla base di Grosseto segnalando il pericolo con la formula da manuale, attivando il microfono senza parlare. E tutte le sale operative delle tre regioni aeree, che sono collegate da una linea diretta, stavano cercando di capire. La fase più concitata è andata avanti per circa un’ora e mezza e l’allarme massimo è stato tolto solo dopo sette, otto ore”.
I radaristi militari di Ciampino hanno dichiarato negli interrogatori di aver visto dei caccia americani, hanno addirittura chiamato l’ambasciata per sapere qualcosa da loro.
“Nella relazione del Sismi controfirmata da Spadolini si parlava di due Mirage, e all’epoca quei caccia li avevano solo i francesi, e di un Tomcat, che era un caccia imbarcato sulle portaerei americane”.
Possibile che nessuno dei nostri radar, ad eccezione di Ciampino, li avesse visti e identificati?
“Mettiamola in questo modo. Quella sera c’erano dei siti radar aperti, che nel giro di due o tre anni da quell’evento sono stati chiusi, ufficialmente per un riordino interno. Uno addirittura dopo sei mesi. E chi ha indagato nella prima fase di questa inchiesta, o non ha saputo cercare i nastri radar giusti o non li ha voluti trovare”.
Ma quella notte, dopo la confusione, si capì come erano andate le cose.
“Le dico di più. La mattina dopo, al circolo ufficiali, parlavano tutti dell’abbattimento. E siccome era un sabato, chi stava lì c’era perché aveva lavorato tutta la notte nella sala operativa o nei centri dove passavano le comunicazioni classificate”.
Si parlava di aerei italiani coinvolti, a parte l’F-104 di Nutarelli e Naldini?
“No. E il loro coinvolgimento fu molto preciso. Vedere un caccia militare sotto la pancia di un aereo civile non è una cosa normale”.
Se per giunta non è italiano…
“Il modello non era italiano. E quando non ci sono nemmeno coccarde che lo identifichino, fai fatica a non sganciare il pulsante d’allarme”.
Si fa fatica anche a non credere che almeno una base radar lo abbia visto entrare nel nostro spazio aereo.
“Probabilmente, lo hanno visto”.
E cancellato…
“Probabilmente”.
Ma nessuno lo ha mai confessato.
“Gliel’ho detto. Se eri un militare e avevi a che fare con un documento o un’informazione a qualunque livello di segretezza, da riservato a segretissimo a top secret che sia per quelli Nato, e le rivelavi rischiavi fino a venti anni di reclusione. Ora la norma è cambiata. Ma allora era così. E guardi, non sono state le minacce o gli ordini dei superiori, che pure ci sono stati, a tappare la bocca ai militari. Era la paura di andare in galera. Ma la gente sapeva, e le carte c’erano”.
E sono sparite per sempre, queste carte?
“Io ho spiegato ai giudici che ogni documento ha una vita. Molti sono stati distrutti ma molti esistono ancora. Bisogna saperli cercare. Prenda il giudice Priore. E’ arrivato a cinque centimetri dalla verità, ma non ha trovato la pistola fumante. I suoi finanzieri non sono potuti entrare nelle segreterie speciali o nelle stanze o nei depositi dove c’erano le carte classificate, perché ci vogliono dei permessi che un magistrato non può dare.
E se ci fossero entrati, non avrebbero saputo cosa cercare e come. Un registro di protocollo classificato non si distrugge mai nella vita. Ma bisogna trovarlo e poi saperlo leggere. E adesso prenda me. Dopo Milano sono stato otto anni a Roma nella segreteria particolare di sei ministri della Difesa, poi a Bari alla Terza regione aerea, sempre col nullaosta di sicurezza Cosmic che al mio livello in Italia avevamo solo in ventiquattro. Priore ha chiesto di interrogare i componenti della segreteria speciale ma il mio nome non è mai stato inserito nell’elenco che gli ha fornito l’Aeronautica. Sarà un caso?”.
Torniamo a Spadolini, a quella relazione segreta e alla sua sfuriata.
“Era fuori di sé. Prima di firmare fece anche una telefonata, a cui però io non ho assistito”.
Ce l’aveva coi generali perché cercavano di giustificare politicamente quello che era successo?
“C’era un tentativo di girare le carte. D’altra parte anche De Michelis parlò di carte sopra il tavolo e carte sotto il tavolo. All’epoca i generali di squadra aerea erano solo tredici e ciascuno di loro aveva una linea telefonica diretta con un apparecchio cripitato che comunicava con le altre dodici, una specie di teleconferenza via Skype ante litteram. Qualunque decisione dovevano prendere e presero, lo fecero insieme, in tempo reale”.
Mai nessuno fuori dal coro?
“Il generale Moneta Caglio. Era un giorno di Pasqua. Vado a Roma a discutere questa faccenda, mi disse. Prese la macchina, andò a casa del capo di stato maggiore, ci fu una lite violentissima e lo misero in pensione con un anno d’anticipo”.
Non condivideva la linea sulla strage di Ustica?
“Esatto. Chi ha gestito questa storia, chi era in determinati posti di comando e controllo, ha fatto carriere inimmaginabili. Generali che sono diventati capi di stato maggiore e sottufficiali che hanno avuto trasferimenti lampo in sedi dove c’era una lista d’attesa di quindici anni. Chi ha imbrogliato non è stata l’Aeronautica. È stato un numero ben preciso e ristretto di persone dentro l’Aeronautica. Gli altri ci hanno solo rimesso”.
Oppure sono morti.
“Oppure. L’ultimo in ordine di tempo è stato il generale Scarpa. Tre anni fa”.
Trovato nella sua casa di Bari con la faccia tumefatta e una ferita alla testa.
“Esatto”.
Aveva avuto a che fare con questa storia?
“Diciamo che ci si era trovato vicino”.
Quando i piloti Nutarelli e Naldini sono morti nell’incidente di Ramstein, nessuno di voi si è fatto qualche domanda?
“Come devo risponderle?”.
Non lo so. Ha fatto un sospiro.
“Ecco. Ma mica è l’unico fatto strano”.
Per esempio?
“Nessuno si chiede mai nulla sul povero generale Giorgieri”.
È stato ucciso dalle Brigate Rosse.
“Era uno dei tredici generali di squadra, che erano tutti collegati fra loro. Era anche uno dei pochi che non aveva la scorta”.
In quelle pagine che hanno fatto infuriare Spadolini si parlava anche del Mig.
“Era collegato”.
Perché anni dopo, terminata la sua audizione in Commissione stragi, disse: “Scoprite il giallo del Mig e troverete la verità su Ustica”.
“E’ così. Glielo confermo al cento per cento”.
Di quella relazione non si è saputo mai nulla. Sparita.
“Finchè sono rimasto al ministero della Difesa a Palazzo Baracchini, una copia di quella relazione c’è sempre stata. E so da amici comuni che fu conservata per molto tempo anche dopo il 1988. Quando fui trasferito alla segreteria del comandante della Terza regione aerea a Bari e poi alla segreteria speciale del comandante di regione, anche nelle loro casseforti c’erano documenti su Ustica. Noi potevamo vederli, leggerli, avevamo il nullaosta giusto”.
Noi chi, scusi?
“Noi della segreteria speciale, eravamo in otto e non dipendevamo da nessuno. La sera del 27 giugno, due di noi si trovavano a Monte Scuro, sulla Sila. Dove poi furono rimandati il 18 luglio a vedere ufficialmente i resti del Mig che avevano già visto segretamente il 27 giugno”.
Quella sera in cielo il Mig se l’erano perso o no?
(pausa) “Non lo so”.
Però seppero subito dove era caduto.
(pausa) “Non lo so”.
I magistrati le hanno chiesto perché ha aspettato tutti questi anni per raccontare quello che sa?
“Certo. Lo dico anche a lei. Primo. Perché nel 2010 è scaduto il mio nullaosta di sicurezza e mi sono sentito finalmente una persona libera. Secondo. Perché in tutti questi anni, ogni volta che mi parlavano di Ustica mi sono sentito una merda”.
Su Il Corriere della Sera.
Ustica, parla il giudice Salvi: «Dai militari e dalla Francia ci fu scarsa collaborazione. Sul missile manca la prova». Giovanni Bianconi su Il Corriere delle Sera il 4 settembre 2023.
Il giudice che indagò tra il 1990 e il 2002 su Ustica: «Spunti sempre utili, ma vanno dimostrati. Quella notte ci fu un intenso traffico aereo: dalla base francese di Solenzara, in Corsica, e lungo la rotta del Dc9»
«La nostra indagine concluse che un velivolo attraversò trasversalmente la rotta del Dc9 precipitato nel mare di Ustica negli istanti immediatamente successivi alla perdita dell’aereo, rilevata dai plot di ritorno sul radar di Ciampino, che era al punto limite della propria visibilità».
Giovanni Salvi, magistrato in pensione da un anno che come ultimo incarico è stato procuratore generale della Cassazione, tra il 1990 e il 2002 ha indagato sulla strage di Ustica come pubblico ministero alla Procura di Roma. E dopo l’intervista dell’ex premier ed ex presidente della Consulta Giuliano Amato, ricostruisce ciò che fu accertato in quell’inchiesta.
Anche secondo lei fu un missile ad abbattere il Dc9?
«La prova certa non è emersa, perché su oltre il 90 per cento della cosiddetta superficie bagnata del relitto recuperata non è stata individuata alcuna traccia di impatto esterno dell’esplosione».
E l’ipotesi della bomba?
«L’abbiamo esaminata a lungo, per la presenza di tracce di esplosivo, ma tutti gli esperimenti e le simulazioni effettuate, sia al computer che reali, hanno dato risultati tra loro contrastanti e incompatibili con i resti dell’aereo ritrovati in fondo al mare. La bomba non può essere esclusa, ma al momento nemmeno provata. Neppure le indagini sui possibili moventi hanno aiutato a dare una risposta definitiva: abbiamo investigato sia la pista neofascista che quella palestinese e soprattutto libica senza che vi fossero elementi certi di riscontro».
Quindi?
«Quindi noi ci siamo dovuti fermare a un quadro di intenso traffico aereo, generato dalla base francese di Solenzara, in Corsica, ma anche lungo la rotta del Dc9. E poi c’è quel velivolo di tipo e nazionalità rimaste ignote che risulta dalle tracce radar di Ciampino, e che quasi certamente fu alla base delle indicazioni ricevute da Andrea Purgatori la sera stessa della strage, probabilmente dai controllori di volo militari. Questa ricostruzione portò il giudice istruttore Rosario Priore a descrivere uno scenario bellico che coinvolse il Dc9; noi come Procura ci fermammo un po’ prima».
Ma la presenza di altri aerei è più compatibile con il missile che con la bomba.
«Sicuramente sì. Anche perché abbiamo accertato che la notte stessa del disastro vi era stata una grande agitazione, furono contattati gli americani nella convinzione di una situazione non ordinaria. Ma stiamo parlando di un processo penale, nel quale la prova dev’essere raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio, a differenza del processo civile o delle valutazioni storico-politiche. Tuttavia sostenemmo anche che se le indagini avessero potuto contare sin da subito sui tanti elementi raccolti solo a molti anni di distanza, e con molte difficoltà, le conclusioni avrebbero potuto essere diverse».
Si riferisce ai depistaggi?
«Mi riferisco ai molti fatti accertati in seguito, non riferiti all’inizio dell’inchiesta. È vero che formalmente non è mai stato opposto il segreto di Stato, ma il segreto in senso sostanziale lo abbiamo rilevato con l’accesso — a volte consensuale, a volte con ispezioni o perquisizioni — agli archivi dei Servizi: ci siamo trovati di fronte alla realtà sconcertante di un’attività limitata alla raccolta delle rassegne stampa o poco più. Il che non è credibile, né accettabile. Una scoperta che, insieme alle manipolazioni verificate durante l’inchiesta su Gladio, ha portato alla riforma del 2007 con regole precise e stringenti sulla tenuta degli archivi delle Agenzie di sicurezza».
Dunque i militari ostacolarono le indagini, come oggi sottolinea Amato?
«La Procura ha contestato ad alti gradi dell’Aeronautica militare una serie di reati, oltre all’articolo 289 del codice penale, attentato contro organi costituzionali, proprio per la manipolazione delle informazioni riferite al governo. Poi però la Corte d’assise d’appello ha assolto tutti con la formula piena, superando anche le prescrizioni dichiarate in primo grado, e la verità giudiziaria resta quella. Naturalmente il giudizio degli storici e della politica può essere diverso perché si basa su criteri diversi. Nel tempo l’atteggiamento dei nostri interlocutori cambiò, e divenne collaborativo. Il danno, a mio parere, fu fatto nelle prime fasi e poi nel tentativo di coprire quelle iniziali reticenze».
E sul piano internazionale che ostacoli avete trovato?
«La Nato ci ha opposto un segreto non superabile dai governi nazionali quando abbiamo chiesto lumi sui funzionamenti dei sistemi radar. Noi, dopo diverse trasferte a Bruxelles senza esito, raggiungemmo un accordo, grazie anche al lavoro dei rappresentanti italiani presso la Nato, per aggirarlo con l’artifizio di quesiti posti a una commissione di esperti, dai quali abbiamo avuto informazioni senza però avere accesso diretto alle fonti».
Dalla Francia ci fu collaborazione ?
«Piuttosto faticosa, direi, e senza alcun sorriso sulle labbra. Ma alla fine le risposte alle rogatorie sono arrivate: sulla base di Solenzara in Corsica, solo parziali; sulla portaerei Clemenceau in zona; su un aereo abbattuto con una bomba a bordo».
Dissero che il 27 giugno la base di Solenzara era chiusa, invece è stato accertato che era aperta.
«A dimostrazione che collaborazione piena non vi è stata, così come da parte degli Stati Uniti, almeno durante una prima fase delle indagini; ad esempio sui movimenti della portaerei Saratoga, ancorata al porto di Napoli, che dovemmo ricostruire attraverso la ricerca delle fotografie scattate dagli sposi tra il 27 e il 29 giugno 1980 sulla collina di Posillipo, da cui era possibile vedere sullo sfondo il profilo della nave. La situazione in parte cambiò nel tempo, sebbene alcune rogatorie ebbero risposta tardive e non sempre complete».
Pensa che le dichiarazioni di Amato, compreso l’appello al presidente francese Macron, possano portare a nuovi risultati?
«Tutto ciò che può contribuire a sciogliere le contraddizioni che ci hanno impedito di accertare cause e responsabilità della strage è senz’altro utile. Compresa una nuova disponibilità francese, sia a livello giudiziario che di rapporti fra Stati, la via forse oggi più efficace. Ma ogni informazione o sollecitazione andrebbe accompagnata dall’indicazione delle fonti per poterne accertare la fondatezza e la possibilità di riscontro, per non generare ulteriori incertezze o frustranti aspettative».
Estratto dell’articolo di G. Ca. per il “Corriere della Sera” martedì 5 settembre 2023.
Si era subito corretto. «Ho solo rimesso sul tavolo una ipotesi, già fortemente ritenuta credibile, non perché avessi nuovi elementi ma per sollecitare chi li ha a parlare, a dire la verità» aveva precisato Giuliano Amato (al quotidiano La Verità ) dopo l’inevitabile clamore per le rivelazioni sul missile francese che, la sera del 27 giugno 1980, avrebbe colpito il Dc9 dell’Itavia sopra i cieli di Ustica, contenute nell’ intervista a Repubblica .
[…] Ma le polemiche sono ormai inarrestabili. «Non si può fare giustizia in base a un’intervista», lo critica il ministro degli Esteri Antonio Tajani: «Se Amato ha da dare nuove informazioni sulla vicenda vada dai magistrati e racconti quello che sa». Più o meno lo stesso invito che gli aveva rivolto Giorgia Meloni.
Così oggi pomeriggio, nella sede romana della Stampa estera, l’ex premier ed ex presidente della Consulta risponderà alle domande dei giornalisti. Dispiaciuto per le polemiche e gli attacchi, Amato spiegherà che la sua intenzione non era «raccontare la verità» sulla strage di Ustica, non avendo alcun elemento nuovo, ma esprimere la convinzione di una responsabilità dei francesi. E chiedere al presidente Macron, all’epoca un bambino, di farsi carico di un chiarimento con l’Italia per migliorare le relazioni tra Roma e Parigi. E sottolineare la necessità , per il nostro Paese, di non piegarsi troppo alla volontà degli Stati Uniti. […]
La versione di Amato: «Su Ustica non ho verità, chiedo di cercarla». Storia di Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera martedì 5 settembre 2023.
«Ma che sono scemo?», esclama a un certo punto Giuliano Amato, costretto a tornare per la terza volta (dopo due scritti inviati ad altrettanti quotidiani, tra cui) sulla sua intervista presentata come «la verità su Ustica», mentre era solo una «riproposizione della versione più credibile», alla quale sarebbero seguite presunte ritrattazioni. Ma lui ora ribadisce: « Io non ho ritrattato niente perché non avevo e non ho alcuna verità da offrire, volevo solo provocare un avvicinamento a essa», per scoprire finalmente che cosa accadde la sera del 27 giugno 1980, quando un Dc9 esplose in volo precipitando nel mar Tirreno con 81 persone a bordo. Tutte morte.
La domanda a Macron
«Non sono scemo e non ho chiesto al presidente Macron di chiedere scusa», insiste l’ex ministro, ex premier ed ex presidente della Corte costituzionale davanti ai giornalisti stranieri, in un incontro che inizialmente doveva essere ristretto ai soli corrispondenti in Italia — visto il coinvolgimento della Francia nella ricostruzione di Amato — e invece si è trasformato in una conferenza stampa aperta a tutti. Con l’interessato che prova a chiarire: «A Macron ho chiesto e chiedo di occuparsi della vicenda. Nel caso in cui l’ipotesi del missile francese risultasse infondata, e sarebbe la cosa migliore, la cosa finirebbe lì; se invece risultasse fondata allora dovrebbe chiedere scusa».
Amico della Francia
Un appello ripreso dalla segretaria del Pd Elly Schlein che ieri a Parigi ha sostenuto che «il diritto alla verità dei familiari delle vittime è di tutto il Paese». Amato non aggiunge commenti, limitandosi alla frase che direbbe all’inquilino dell’Eliseo, «da grande amico della Francia quale sono»: «Abbiamo la fortuna di avere un presidente come te che all’epoca era un bimbo di due anni e mezzo, dunque sei il francese che può farsi carico di questa vicenda con maggiore libertà. Fallo». Il punto centrale, secondo Amato, resta quello della base di Solenzara in Corsica, che le autorità d’Oltralpe dichiararono chiusa la sera della strage e invece risultò aperta.
Il peso del silenzio
«Non si è andati oltre — insiste oggi Amato —, mentre sarebbe il caso. Se il pilota dell’aereo che sparò il missile è ancora vivo, o altri che volarono lì intorno, potrebbero farlo, senza portarsi nella tomba il peso del silenzio». E qui si arriva all’altra riflessione di un uomo di Stato di 85 anni che oggi ammette: «Giunti a alla mia età si comincia a pensare in maniera diversa da come pensano i cronisti politici o i politici in attività, e ci si pone una domanda: c’è qualcosa di incompiuto che io posso contribuire a completare?».
Riappacificarsi con la storia
La strage del Dc9, di cui l’ex premier s’è occupato nel 1986 da sottosegretario a Palazzo Chigi ma anche in seguito, è rimasta senza giustizia, e «la ricerca della verità — avverte — è in pericolo perché i testimoni cominciano a morire; alcuni di essi possono ancora dire ciò che finora hanno taciuto. Sarebbe un modo per riappacificarsi con la storia, e il mio intento era solo questo, non c’erano altri fini, ci crediate o no». Amato ha ribadito anche i depistaggi ad opera dei militari italiani: «Il “chi sa parli” vale anche per loro, ma dopo i processi e le diatribe legali che ci sono state non mi aspetto un granché». Meglio guardare a Parigi, senza ostilità o voglia di creare attriti: «E chi l’ha detto che volevo provocarli?». Inoltre «non è vero come ha sostenuto qualcuno che la politica con Ustica non c’entra; la politica può fare ancora molto per chiarire, in Italia ma forse anche in Francia». Lì, ricorda Amato, «si è arrivati un po’ per esclusione e un po’ per via della questione Solenzara, ma ora loro potrebbero fare di più».
Gli altri misteri
Tuttavia l’ansia di verità non riguarda solo l’abbattimento del Dc9: «Ci sono molte altre vicende importanti con ricostruzioni o fasulle o negate, basti pensare alla scomparsa di Emanuela Orlandi di cui non si sa nulla nonostante gli appelli e l’impegno del Pontefice». Ed ecco allora, inevitabile nonostante l’interlocutore faccia di tutto per sganciare i suoi ragionamenti dall’attualità politica, la domanda sull’altra questione che ha infiammato le polemiche estive, coinvolgendo il primo governo di destra della storia repubblicana: è legittimo riaprire anche il capitolo della strage di Bologna, per la quale i neofascisti condannati continuano a proclamarsi innocenti? «Non ne so abbastanza — risponde Amato — e non ho un Macron a cui chiedere». Più in generale, però, resta la riflessione su la «pacificazione con la storia che arriva solo il giorno in cui i misteri si sciolgono in una verità accertata e accettata, e nel nostro Paese ne abbiamo ancora molti che non hanno compiuto questo percorso». E così si chiude il cerchio sul contributo che un uomo in età ormai veneranda, che per mezzo secolo ha frequentato e occupato le istituzioni con incarichi di altissima responsabilità, avrebbe voluto dare con quell’intervista. «Sulla quale non mi aspettavo tutto questo trambusto — conclude —, ma evidentemente nella politica di oggi ci sono più “bocche aperte” di quando la frequentavo io».
Su Il Fatto Quotidiano.
Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” giovedì 20 luglio 2023.
Ci dispiace per l’intelligenza artificiale, ma finché ci saranno giornalisti che indagano di persona, in tutte le direzioni, che vanno a vedere coi loro occhi e ascoltano con le loro orecchie, che se vengono gentilmente scoraggiati, avvertiti, depistati, rincarano la dose e indagano anche su questo;
ci dispiace per la cara Chat GPT e compagnia, ma il loro momento non è ancora arrivato. Non sarà ancora il momento degli algoritmi prodigio finché ci saranno giornalisti come Andrea Purgatori, morto ieri mattina all’improvviso, nel pieno dell’attività e perfino della popolarità, cogliendo tutti di sorpresa, scusate ma devo togliere il disturbo, anche questa quasi una legione di giornalismo, e di stile.
(…)
Per Andrea Purgatori diventerà una questione personale andare a fondo sulla strage di Ustica in cui morirono 81 persone, il Dc-9 Itavia inabissatosi il 27 giugno 1980 lungo la rotta aerea militare, mettendo sistematicamente in dubbio le verità ufficiali e contribuendo a tenere aperta l'inchiesta giudiziaria.
Quarant’anni di bugie, insabbiamenti, omertà e assoluzioni; se cosa accadde veramente non lo sapremo mai, difficile trovare un affresco più ricco della sorte dei segreti di Stato in Italia, dove notoriamente la linea più breve tra due punti è un arabesco. In un’epoca in cui tutti con un telefono e una diretta social possono illudersi di essere reporter, la lezione di Purgatori insegna come un autentico reporter resti sempre tale, ovvero sé stesso, in qualunque campo si avventuri; vale per l’insegnamento, per i suoi camei di attore interprete di se stesso, per le numerose sceneggiature, ultima Vatican Girl sul caso Emanuela Orlandi, prima tra tutte Il muro di gomma, il film di Marco Risi ancora sulla tragedia di Ustica.
E vale per il modo di fare televisione, a cui si era avvicinato negli ultimi anni a modo suo: sobrio e affilato come era l’uomo, tignoso come un cronista di razza, affabile come un narratore consumato. Quel che più colpisce nella conduzione di Atlantide – Storia di uomini e di mondi è proprio la solitudine del cronista, che non ha nulla di narcisistico alla Alberto Angela, di accademico alla Alessandro Barbero, di curiale alla Paolo Mieli.
Un caso unico e controcorrente, a fronte della tendenza Animal House del talk show medio. Mai più di un ospite alla volta, e sempre strettamente connesso con la materia trattata. Testimoni, studiosi, altri cronisti specialisti del caso; non gli indefessi frequentatori del Bar Sport. Fino a quando ci saranno giornalisti come Andrea Purgatori, in grado di lasciare in panchina le scalpitanti intelligenze artificiali? Questo è un altro discorso, i tempi non sembrano dei più propizi.
Ma intanto, chi volesse capire qual è la differenza tra un giornalista e un opinionista televisivo, e come l’uno sia in buona sostanza il contrario dell’altro, vada a vedersi una qualsiasi puntata di Atlantide: Ustica, lo sbarco sulla Luna, o la recente, commossa ricostruzione dell’omicidio di Mino Pecorelli. Ecco: Andrea Purgatori è un giornalista.
Ecco, di seguito, uno stralcio del famoso scoop di Andrea Purgatori pubblicato sul “Corriere della Sera” del 21 aprile 1984
Ecco, di seguito, uno stralcio del famoso scoop di Andrea Purgatori su Ustica, pubblicato sul Corriere del 21 aprile 1984 Ci sono tracce evidenti di esplosivo sui reperti del DC/9 Itavia, disintegrato nel cielo di Ustica la sera di venerdì 27 giugno 1980. L’esplosivo è il T4, utilizzato nella fabbricazione di testate per missili aria/aria o di mine.
Questa è la conclusione degli esperti dei laboratori della nostra Aeronautica, che già nel 1983 avevano terminato gli esami ordinati dalla magistratura su cuscini e bagagli recuperati nel Tirreno, insieme ai resti di alcuni degli 81 passeggeri e membri di equipaggio del volo IH-870 Bologna-Palermo.(...) Le perizie, commissionate ai tecnici dell’Aeronautica militare italiana su indicazione degli specialisti del Rarde (il prestigioso Royal Armament Research and Development Establishment britannico) hanno fornito un risultato certo: la presenza di «T4».
Dunque, sufficienti ad escludere definitivamente I’ipotesi del cedimento strutturale che ha portato via all’inchiesta giudiziaria almeno un anno e mezzo di lavoro. Il DC/9 Itavia è andato a pezzi per una esplosione ma il caso rimane aperto: l’ordigno che quella sera di giugno ha «cancellato» la traccia del bireattore dai radar è una bomba oppure un missile aria/aria? Di fronte a questo bivio è ferma da tempo anche la Commissione d’inchiesta ministeriale, che ha completato solo la prima parte del lavoro con una missione a Washington e una a Londra, nel quartier generale del Rarde, appunto.
Agli atti della Commissione (presidente Carlo Luzzati) e nel fascicolo del magistrato (il giudice istruttore Vittorio Bucarelli) ci sono le copie dei documenti firmati dall’ingegner John C. Macidull, capo del gruppo di studio del NTSB che ha decodificato e interpretato i tabulati del radar in servizio nel basso Tirreno quando il DC/9 volava verso Palermo.
Bene, questi documenti parlano chiaro: c’era un altro aereo che incrociava nel punto in cui è avvenuta l’esplosione. Il radar lo ha seguito prima, ma soprattutto dopo che il bireattore Itavia è stato distrutto. John C. Macidull lo ha confermato in una intervista al Corriere della Sera e alla Bbc.
Successivamente, sempre al Corriere della Sera e in una seconda intervista alla televisione britannica, ha detto la sua anche John Transue, consulente di guerra aerea in servizio al Pentagono: a) quell’altro aereo aveva tutte le caratteristiche di un caccia; b) la manovra di avvicinamento al DC/9 era tipica in caso di attacco; c) la distanza minima (5 miglia, dice il radar) era adeguata per lanciare un missile aria/aria; d) la manovra d’attacco sembrava «deliberata», cioè quel missile non era partito accidentalmente per un errore del pilota. (...) Allora, chi ha distrutto il DC/9 Itavia?
Estratto da ilfattoquotidiano.it il 5 Settembre 2023
Partì da Solenzara, in Corsica, l’aereo che sparò il missile destinato a colpire per sbaglio il DC-9 dell’Itavia, poi precipitato nei pressi di Ustica? Si conclude con questa domanda e un appello all’Eliseo la conferenza stampa di Giuliano Amato. Il presidente emerito della Consulta è tornato a parlare della strage che il 27 giugno del 1980 costò la vita agli 81 passeggeri del velivolo partito da Bologna e diretto a Palermo.
Nei giorni scorsi, infatti, ha provocato parecchie polemiche l’intervista rilasciata dallo stesso Amato a Repubblica: l’ex premier ha sostenuto che il DC-9 fu distrutto per errore da un missile francese, destinato a uccidere il dittatore libico Muammar Gheddafi. Una pista nota, ma che ha ovviamente provocato reazioni da parte del mondo politico.
“Ho parlato per il peso della mia età” – A destare perplessità è stata anche la tempistica relativa alle accuse lanciate dall’ex presidente del consiglio: che motivo ha Amato per riaprire ora la questione di Ustica? “La ragione, che ci crediate o no, è che una persona di 85 anni comincia a ragionare avendo in mente qualcosa di diverso rispetto a quello che possono avere i giornalisti che si occupano di cronaca politica.
Sono un uomo di 85 anni. Avevo cominciato a pensare che questa ricerca, a cui queste famiglie non rinunciano, sta per arrivare a un tempo in cui diventa irrealizzabile, perché si muore. Ecco. L’ho fatto per il peso della mia età…”, ha detto l’ex premier durante un incontro organizzato alla Stampa estera di Roma.
L’ex numero due del Psi nega di aver fatto marcia indietro dopo il clamore delle sue affermazioni: “Non ho ritrattato niente – dice – Nell’intervista non ho mai detto che stavo dando la verità su Ustica. Ho detto che portavo avanti l’ipotesi più ritenuta più credibile tra quelle formulate, specificando che non avevo la verità da offrire ma il mio scopo era provocare se possibile un avvicinamento alla verità. E non ho detto a Macron di chiedere scusa ma di occuparsi della cosa: se dimostra che è infondata bene, se no deve chiedere scusa” (...)
Estratto dell'articolo di Gianni Barbacetto per “il Fatto quotidiano” mercoledì 6 settembre 2023.
È stata necessaria una conferenza stampa, per spiegare la stranezza di un’intervista, lanciata da Repubblica come fosse uno scoop, in cui Giuliano Amato ha ripetuto per l’ennesima volta ciò che già si sapeva e che lui stesso aveva già detto e ripetuto più volte sulla strage di Ustica: probabile il missile francese lanciato contro un Mig libico nella speranza di uccidere Gheddafi, che invece colpisce il Dc9 con 81 passeggeri.
Ma dalla conferenza stampa si esce perplessi come prima. L’intervista, dice, è nata dalla voglia di verità “di una persona di 85 anni. Tutto qua, non c’è altro”. “Non ho chieste le scuse di Macron: ma che sono scemo? Gli ho chiesto di occuparsi della cosa: se è infondata, bene, se non è infondata, allora deve chiedere scusa”.
Non sarebbe stato più semplice chiederlo ai generali e ai servizi segreti italiani, che certamente sanno tutto? “Ma se hanno deciso di custodire un segreto, non lo hanno fatto per biechi interessi personali”. I politici invece, poverini, “sono stati tenuti all’oscuro”. Ora la speranza è che “chi c’era ed è ancora vivo parli, prima di morire”. “Comunque sono molto amico della Francia e l’unica questione aperta tra me e la Francia è la testata di Zidane”.
Su L’Espresso.
Dal caso Mattei a Ustica, quella mano francese dietro i misteri d’Italia. Nuove indagini rivelano l’ombra dei servizi d’oltralpe dietro la morte del fondatore dell’Eni. Mentre nel 1980 il Dc9 sarebbe stato abbattuto dai caccia di Parigi. Che non ha mai chiarito niente. Gigi Riva su L’Espresso il 15 Novembre 2022.
Pronto Parigi? Davvero ancora oggi, trascorse decine di anni, non avete nulla da dirci? Perché vanno bene il trattato del Quirinale per migliorare le nostre relazioni, la simpatia tra i presidenti Sergio Mattarella e Emmanuel Macron, l’incontro informale tra lo stesso Macron e Giorgia Meloni, ma resta irrisolto il ruolo che avete svolto in almeno due tragici misteri italiani in cui al solito muro di gomma italiano si somma, incredibilmente ancora più ermetico, un muro di gomma francese.
Il pretesto per ricapitolare le omissioni e un ermetismo non proprio amichevole è l’anniversario tondo, il sessantesimo, dell’attentato in cui morì Enrico Mattei. Il presidente dell’Eni precipitò con il suo aereo a Bascapè, vicino a Pavia, il 27 ottobre 1962 mentre era in fase di atterraggio verso l’aeroporto di Linate. Fu archiviato come un incidente, perdurarono per anni i sospetti che così non fosse finché il giudice Vincenzo Calia, non dimostrò che ad abbattere l’aereo fu una piccola carica di esplosivo piazzata nel cruscotto e collegata al congegno di sganciamento del carrello. L’inchiesta di Calia fu chiusa nel 2003 e il magistrato, in pensione, aggiunge ora che nel tempo e proseguendo nelle sue ricerche, «l’ipotesi di una pista francese si è rafforzata». E aggiunge: «Non ho mai avanzato richiesta di rogatorie né chiesto documenti specifici ai francesi perché le indicazioni giunte sulle loro responsabilità erano generiche e non specifiche contro singole persone». Generiche ma univoche e coincidenti al punto da poter reiterare la domanda almeno ai politici dell’Esagono: non avete proprio nulla da dirci circa il comportamento dei vostri servizi segreti?
Intanto lo scenario. Enrico Mattei era inviso alle sette sorelle petrolifere anglo-americane per la sua politica verso gli Stati produttori a cui riconosceva il 75 per cento del ricavato dai giacimenti contro il 50 che allora era la percentuale abituale, tanto che a lungo si sospettò che fossero state loro a decidere l’eliminazione. Ma contemporaneamente si era inimicato la Francia per il sostegno e la fornitura d’armi al Fronte di Liberazione Nazionale algerino, tanto da ricevere minacce dall’Oas (Organisation de l’Armée Secrète) che combatteva contro l’indipendenza del Paese africano. È vero che nel marzo del 1962, sei mesi prima della sua morte, erano stati firmati gli accordi di Evian che ponevano fine al conflitto tra la Francia e la sua ex colonia, ma si sospettava che l’italiano trattasse col capo del governo Ben Bella perché l’Eni entrasse nei diritti di sfruttamento di un importante giacimento nel Sahara. «E i francesi», commenta Calia, «hanno sempre ritenuto l’energia del Nord Africa roba loro, Mattei era un elemento di disturbo».
Una persona “informata sui fatti” come si direbbe in gergo come l’ammiraglio Fulvio Martini, nome in codice “Ulisse”, ex direttore del Sismi, sempre sentito da Calia, aveva parlato senza indugi di «responsabilità francese, tenuto conto della determinazione con cui agivano nel Continente africano. Considero la sua deposizione significativa e meditata». Nonché ribadita anche in altre occasioni pubbliche. Dello stesso parere era anche il professor Francesco Forte, vicepresidente Eni dal 1971 al 1975, secondo il quale all’interno dell’ente di Stato «era pacifico per tutti che Mattei fosse stato ucciso dai francesi».
Già, ma nel caso, chi ordinò, chi eseguì? L’Oas? Lo Sdece (servizi segreti per l’estero e controspionaggio)? Apparati infedeli al presidente de Gaulle che pure era favorevole a una collaborazione franco-italiana e che subì a sua volta un attentato? Di certo chi piazzò la carica esplosiva doveva essere un meccanico che conosceva a perfezione il Morane-Saulnier 760 di fabbricazione francese anche se non si può escludere un esperto di altra nazionalità.
Se qui si ferma la cronaca, viene in soccorso, ad aggiungere indizi, la letteratura. Solo di recente l’ex magistrato Vincenzo Calia è venuto in possesso di un libro pubblicato nel 1968 da Fayard in Francia: “Le Monde parallèle ou la Vérité sur l’espionnage”. Una raccolta di storie raccontate dal comandante di vascello Henri Trautmann, ex ufficiale dello Sdece, usate l’anno prima per una serie di documentari e poi riprodotte in volume da tre autori, Yves Ciampi, Pierre Accoce e Jean Dewever. Al capitolo dieci, una folgorazione. Perché è trasparentemente riprodotta, pur con nomi e luoghi mutati, la vicenda Mattei con un dettaglio che poteva essere noto solo a chi al minimo sapeva molto dell’attentato. Il meccanico di fiducia di Mattei, Marino Loretti, era stato rimosso dall’incarico con una falsa accusa (morirà in seguito in un altro incidente aereo dai contorti sospetti) e sostituito. Nella finzione (?) letteraria è tale Laurent, tenete a mente questo nome, che manomette il bimotore per provocare il finto incidente.
Per il loro volume di recente pubblicazione (“L’Italia nel petrolio e il sogno infranto dell’indipendenza energetica”, Feltrinelli) Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani hanno rintracciato nel 2020 Pierre Accoce, l’unico dei tre autori dei libro francese ancora vivente, il quale confermò: «Le storie che pubblicammo erano adattamenti televisivi di una serie diretta da Yves Ciampi. Erano vicende di spionaggio al limite della realtà in cui alla fine di ogni episodio appariva, come garante della veridicità narrativa un uomo sempre lasciato nella penombra, il capitano Trautmann soprannominato l’ammiraglio». E assicurò che i fatti raccontati sono autentici. Morì tre mesi dopo.
“Laurent” è anche il nome, e la coincidenza è davvero clamorosa, del sabotatore dell’aereo di Mattei nel libro “Lamia” uscito nel 1971 negli Stati Uniti e scritto da Philippe Thyraud de Vosjoli, potente ufficiale e capocentro dello Sdece degli Usa, dimessosi nel 1963 per insanabili contrasti con i suoi superiori, riparato definitivamente in America e verosimilmente assoldato dalla Cia. In questo caso senza troppe perifrasi, l’autore colloca Laurent all’aeroporto di Catania, origine dell’ultimo viaggio del presidente dell’Eni e lo definisce come uomo del “Comitato”, un servizio coperto dello Sdece incaricato dell’eliminazione fisica degli avversari.
Come per Mattei, anche per Ustica, 81 vittime dell’aereo dell’Itavia precipitato il 27 giugno 1980, all’inizio si accreditò la tesi dell’incidente, di un “cedimento strutturale”, finché si fece faticosamente strada la verità. Un missile, probabilmente. E siccome nel Tirreno era in corso un’esercitazione Nato si pensò agli americani, salvo poi rivolgere lo sguardo ancora una volta verso Parigi. Intanto per una clamorosa bugia.
I giudici italiani chiesero con una rogatoria se nella notte della strage c’era attività di volo nella loro base di Solenzana, in Corsica, a sud di Bastia. I francesi negarono, sostenendo che la base era chiusa. Per loro sfortuna, il colonnello e futuro generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, stretto collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa nel nucleo antiterrorismo e l’uomo che raccolse le confidenze del pentito delle Br Patrizio Peci, si trovava in vacanza con la famiglia in un albergo vicino all’aeroporto militare. Affacciandosi al balcone poteva vedere sulle piste i Mirage francesi e i Phantom della Nato. Di solito i decolli e gli atterraggi cessavano alle 17, ma nella sera di Ustica Bozzo non riuscì a dormire fin oltre la mezzanotte «a causa del frastuono dovuto al viavai dei cacciabombardieri». L’indomani era intenzionato a cambiare hotel quando il proprietario lo invitò a restare sottolineando l’assoluta eccezionalità dell’evento dovuta a suo dire «alle ricerche di un aereo di linea italiano scomparso in mare». L’ufficiale dubitò da subito che si potesse trattare di un semplice soccorso in mare e si chiese se non fosse un attacco top secret. Invano ripeté per molto tempo quanto aveva visto e soprattutto sentito a Solenzana.
Finalmente nel 2008 Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio, smentendo quanto sempre dichiarato in precedenza e cioè di non saperne nulla, si risolse a svelare che «i servizi segreti italiani mi informarono, così come fecero con l’allora sottosegretario Giuliano Amato, che erano stati i francesi con un aereo della Marina a lanciare un missile non ad impatto ma a risonanza. Se fosse stato ad impatto non ci sarebbe nulla dell’aereo». A causa della clamorosa rivelazione, arrivata dopo le definitive sentenze di assoluzione dei generali italiani per depistaggio e alto tradimento, la procura di Roma ha riaperto un’indagine ancora in corso e in dirittura d’arrivo. Circa la guerra nel cielo del Tirreno, l’ipotesi investigativa più accreditata è la seguente. A quell’epoca l’Italia permetteva alla Libia, che era sotto embargo internazionale, di entrare nel nostro spazio aereo per portare i suoi Mig 21 di fabbricazione sovietica in Jugoslavia ed essere sottoposti a manutenzione. I Mig erano usi volare in ombra radar sopra i nostri normali aerei di linea per non essere visti. La tolleranza italiana aveva indispettito i francesi che, desiderosi di darci una lezione, volevano abbattere un Mig in rotta proprio sopra l’aereo dell’Itavia: sbagliarono bersaglio. Sempre quella notte e sempre su un Mig, il colonnello Gheddafi stava solcando lo spazio italiano per recarsi in Polonia a rendere visita al generale Jaruzelski, allora ministro della Difesa. Gli italiani lo avvertirono della battaglia aerea e Gheddafi tornò indietro. All’epoca Gheddafi era inviso ai francesi che appoggiavano il Ciad nella guerra contro la Libia.
E torna la domanda: da Mattei sono trascorsi 60 anni, da Ustica 42. Parigi, non è tempo di dirci qualcosa?
La replica di Carlo Giovanardi e la nostra risposta
Nell’articolo intitolato “Mattei ed Ustica misteri francesi “ Gigi Riva rispolvera una delle 32 versioni su una fantomatica battaglia aerea e lancio di un missile francese che avrebbe provocato l’ abbattimento del DC 9 Itavia sui cieli di Ustica (sono stati gli americani, no i francesi, no i libici, non un missile ma una quasi collisione ecc. ). Tutte queste stravaganti ipotesi sono state spazzate via in un processo penale durato anni che le ha bollate come da ” fantascienza ” , assolvendo con formula piena i Generali dell’aeronautica e da una super perizia, nello stesso processo, firmata da undici tra i più famosi periti internazionali ( tra cui due inglesi, due svedesi e due tedeschi ) che hanno accertato con assoluta certezza che lo scoppio di una bomba nella toilette posteriore di bordo ha provocato l’ esplosione del DC 9.
Le dichiarazioni di Cossiga, per altro smentite dalla stesso Cossiga sulle agenzie il giorno dopo e derubricate da lui stesso a ipotesi “sentite dire”, non hanno mai trovato nessun riscontro e neppure “il più probabile che non” sul missile citato in alcune sentenze civili che contraddicono quella penale.
Di più : come membro della Commissione di indagine sulla morte di Aldo Moro ho potuto a suo tempo, assieme ad altri colleghi, consultare le carte, allora ancora classificate Segreto e Segretissimo , relative alla drammatica escalation nel 1979 – 1980 di minacce di ritorsione su civili italiani da parte dei palestinesi di George Habash , collegati ai Libici, dopo il sequestro a Daniele Pifano dei missili terra aria ad Ortona e l’arresto di Abu Saleh, referente di quel gruppo terroristico Bologna.
Sono stato diffidato più volte dal renderle pubbliche, l’ultima volta dal Governo Conte due in un colloquio a Palazzo Chigi, in quanto sarei stato penalmente perseguibile per lesione dell’interesse nazionale, come lo stesso Palazzo Chigi notifico’ anche formalmente alla Signora Giuliana Cavazza, figlia di una delle vittime del DC9, che aveva chiesto l’ accesso agli atti.
Come è noto viceversa il Governo Draghi, anche su sollecito della Associazione sulla verità su Ustica , presieduta dalla Signora Cavazza e dalla Signora Flavia Bartolucci, figlia del compianto Generale Lamberto Bartolucci, ha desecretato le carte che l’ Archivio di Stato sta riordinando per renderle finalmente accessibili prima della fine dell’anno al pubblico, compresi intellettuali e giornalisti che si sono sbizzarriti in questi anni a dar credito a film, sceneggiati, canzoni, articoli ed interventi che non avevano nulla a che fare con la realtà.
Una realtà tecnica incontrovertibile che ha accertato che il DC 9 è esploso a causa di una bomba e una realtà politica, di cui bisogna prendere atto, che sino al 2022 la Ragion di Stato ha tenuto coperte carte fondamentali per scoprire chi sono stati i veri colpevoli dell’ abbattimento colposo o doloso del DC 9 Itavia.
Dopo la lettura delle quali spero sia davvero possibile uscire dalla logica dei tanti depistaggi diffusi, in buona o in cattiva fede, per ostacolare la ricerca della verità su uno degli episodi più tragici della storia italiana del secondo dopoguerra .
La nostra risposta
Escludendo l’ignoranza dei fatti, visto che ha dedicato diversi anni della sua vita a studiarli, non capisco come altro definire la stravagante lettera di Carlo Giovanardi dove le omissioni si mescolano a grossolane bugie.
Il processo a cui si riferisce e che ha mandato assolti i generali non riguardava affatto la strage ma i presunti depistaggi seguiti ad essa.
L’unica sentenza-ordinanza per la strage è quella del giudice Rosario Priore che dichiarò il 31 agosto 1999 il non luogo a procedere perché ignoti gli autori. Priore escluse l’ipotesi della bomba a bordo proprio dopo l’analisi delle perizie anche perché l’unico luogo dove avrebbe dovuto essere stata teoricamente collocata, la toilette dell’aereo, non presentava alcun segno di un’esplosione interna e addirittura nel fondo del mare fu ripescato l’asse intonso del water. La perizia Taylor, quella a cui fa riferimento Giovanardi, fu definita da Priore “inutilizzabile” per le gravi contraddizione e incoerenze nelle quali era caduta. Il giudice concluse testualmente: “L’incidente al Dc 9 è occorso al seguito di azione militare di intercettamento. Il Dc 9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione, che è stata propriamente un atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese di cui sono stati violati i confini e i diritti”. E dunque la causa va ricercata nell’onda d’urto di un missile o una quasi collisione.
Quanto a Francesco Cossiga nel 2007, conclusi i processi ai generali e a 27 anni di distanza dei fatti, svelò cosa seppe nell’imminenza della strage in qualità di presidente del Consiglio: “I servizi segreti italiani mi informarono, così come fecero con l’allora sottosegretario Giuliano Amato, che erano stati i francesi con un aereo della Marina a lanciare un missile non ad impatto ma a risonanza. Se fosse stato ad impatto non ci sarebbe nulla dell’aereo”. Nel 2010 aggiunse che il missile colpì l’aereo italiano per sbaglio e il vero bersaglio era un Mig su cui volava Gheddafi. Proprio in seguito alle sue esternazioni, la procura della Repubblica di Roma ha riaperto le indagini sulla strage. Che sono ancora in corso. (Gigi Riva)
Su La Repubblica.
Estratto da repubblica.it sabato 2 settembre 2023.
[…] Scatta, attaccando Giuliano Amato, il generale Leonardo Tricarico, già capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica Militare e presidente dell'Associazione per la verità sul disastro aereo di Ustica: “Quelle confessate da Giuliano Amato sono tutte fandonie che non hanno retto nel dibattimento penale nel quale è emersa incontrovertibile, perché ampiamente provata, la verità che quel velivolo è stato vittima di un attentato terroristico con una bomba a bordo". E arriva l'ex senatore Carlo Giovanardi a ribadire: "Fu una bomba nella toilette dell'areo".
Non ci sta Stefania Craxi, la senatrice di Forza Italia e presidente della Commissione Affari esteri e difesa a Palazzo Madama contesta la ricostruzione di Amato su Ustica: "Colpisce in primo luogo per le imprecisioni storiche che contiene. È risaputo, infatti, che il presidente del Consiglio Bettino Craxi fece avvisare Gheddafi del bombardamento che si preparava sul suo quartier generale di Tripoli nel 1986.
Amato, invece, oggi ci rivela che lo stesso Craxi fu artefice di una eguale 'soffiata' al leader libico collocandola temporalmente nel giugno 1980 e mettendola in relazione con il disastro del Dc9 dell'Itavia. Amato, però, non porta nessun elemento a sostegno di questa nuova tesi, trincerandosi dietro un 'avrei saputo più tardi, ma senza averne prova'". […]
Estratto da repubblica.it sabato 2 settembre 2023.
"E' arrivato il momento, come per la strage alla stazione del 2 Agosto 1980, che tutte istituzioni coinvolte, quelle italiane e quelle francesi, si assumano la responsabilità di fronte alle vittime".
Le parole a Repubblica dell’ex premier Giuliano Amato sulla strage di Ustica scuotono al politica. E scatenano reazioni non tutte unanimi, il solito polverone che offusca verità accertate e che per primo il sindaco Matteo Lepore chiede di evitare. "Per noi ci sono sentenze chiare e inequivocabili che spiegano quello che è successo nei cieli di Ustica. Come sindaco della città chiedo questo, non di aprire dibattiti politici, ma di stare alle sentenze”.
Incalza il Pd con il senatore Walter Verini ringraziando il giornalista Andrea Purgatori, recentemente scomparso, che ha contribuito in modo determinante a svelare la verità sulla strage: 81 morti a causa dell'abbattimento del Dc9 partito da Bologna e diretto a Palermo sui cieli di Ustica il 27 giugno del 1980.
"Amato a Repubblica suggella la verità su Ustica – twitta Verini – Il Dc9 fu abbattuto da un aereo francese in missione Nato. Lunghi vergognosi depistaggi non hanno fermato le battaglie di Daria Bonfietti, dei familiari delle vittime, di tanti che non si sono arresi. Grazie, Andrea Purgatori".
[…] Per Sabrina Pignedoli, europarlamentare del Movimento 5 Stelle, quelle di Amato “sono parole serie e ponderate. Ora ci attendiamo dal presidente francese Macron una conferma o una smentita altrettanto precisa”. Il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Angelo Bonelli chiama in causa la premier Meloni: “Convochi subito il Cdm e tolga il segreto di Stato per dare conferma ufficiale: un atto ormai inevitabile".
Sulle parole di Amato riguardo alla “soffiata“ di Bettino Craxi al leader libico Muammar Gheddafi sul rischio di un attentato nei suoi confronti, interviene Bobo Craxi: "É già scritto anche sui libri di Storia che mio padre avvertì Gheddafi che lo avrebbero bombardato. Ma nel 1986", cioè sei anni dopo la strage.
"Che riflessi avrà sui rapporti tra Italia e Francia? E' una accusa abbastanza contundente, per quanto l'attuale presidenza francese non ha responsabilità dirette - ammette il figlio dell'ex leader socialista -. Si tratta soltanto di avviare in Francia un'inchiesta" sul fatto che "effettivamente c'è una responsabilità da patte della loro aeronautica su quell'atto di guerra. Mi pare che si tratti di questo". "Siccome sono fatti risalenti a più o meno 40 anni fa non sarebbe sbagliato, come asserisce il presidente Amato, chiedere alla Francia di contribuire alla verità.
Immediate anche le reazioni di chi non ammette l’abbattimento dell’aereo da parte di un missile in uno scenario di guerra di tempi di pace. Scatta, attaccando Giuliano Amato, il generale Leonardo Tricarico, già capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica Militare e presidente dell'Associazione per la verità sul disastro aereo di Ustica: “Quelle confessate da Giuliano Amato sono tutte fandonie che non hanno retto nel dibattimento penale nel quale è emersa incontrovertibile, perché ampiamente provata, la verità che quel velivolo è stato vittima di un attentato terroristico con una bomba a bordo". E arriva l'ex senatore Carlo Giovanardi a ribadire: "Fu una bomba nella toilette dell'areo".
Ustica, quarant’anni di depistaggi. La verità senza colpevoli. Lirio Abbate su La Repubblica il 2 Settembre 2023.
Dalla tesi sul “cedimento strutturale” all’inchiesta del giudice Priore che per primo svelò che si era trattato di una “azione militare”
Un caccia dell’Armée de l’air decolla da una portaerei francese a Sud della Corsica e punta un mig libico che sorvola il mar Tirreno, coperto dalla scia di un Dc9 della compagnia Itavia con a bordo 81 persone. L’aereo è partito da Bologna con 106 minuti di ritardo ed è diretto a Palermo. È la sera del 27 giugno 1980. Parecchi anni dopo il 15 dicembre 2008, dopo indagini, insabbiamenti, coperture dei vertici militar, Francesco Cossiga, che al tempo della strage era presidente del Consiglio, dirà che ad abbattere il Dc9 sarebbe stato abbattuto “per errore” di un missile francese. Nonostante questo, 43 anni dopo, la strage di Ustica non ha ancora un responsabile. Ma conviene partire proprio dalla deposizione di Cossiga per ricostruire la storia della strage di Ustica.
La rivelazione di Cossiga
«Il capo del Sismi, ammiraglio Martini, da me interpellato confermò di aver fornito questa informazione a Giuliano Amato e precisò che l’aereo francese aveva in realtà come missione l’abbattimento di un aereo che trasportava il colonnello Gheddafi», così Cossiga parla davanti ai giudici 28 anni dopo la strage. E aggiunge: «Ricordo anche che insieme all’ammiraglio Martini considerammo a tal proposito, la circostanza che un radar italiano aveva “battuto la traccia” sulla diagonale di Olbia; questa circostanza, infatti, rendeva plausibile che l’aereo fosse partito da una portaerei». «Chiesi all’ammiraglio Martini come avesse saputo queste cose e lui mi rispose che queste informazioni giravano negli ambienti dei servizi» precisa l’ex presidente, che fornisce altri particolari. «L’ammiraglio durante il nostro colloquio mi riferì anche che sembrava che il pilota francese si fosse suicidato, dopo aver appreso che l’aereo che aveva colpito era in realtà un aereo civile italiano. Chiesi all’ammiraglio se avesse chiesto informazioni ai francesi sul punto, ma lui mi rispose di no in quanto i francesi non gli avrebbero dato alcuna spiegazione o informazione». Eppure, prima della decisione di Cossiga di rivelare queste informazioni in pochi si erano battuti con ostinazione per scoprire la verità. Tra questi, certamente il giudice Rosario Priore.
L’inchiesta di Priore
Il 31 agosto 1999 il giudice istruttore Rosario Priore a conclusione di anni di lavoro deposita una sentenza ordinanza nella quale sostiene che il Dc9 è stato abbattuto «a seguito di azione militare». In precedenza, indagini poco accurate e le reticenze dei vertici dell’aeronautica avevano accreditato prima l’ipotesi del “cedimento strutturale” e poi quella della bomba a bordo. Si trattava di depistaggi. L’istruttoria del giudice Priore aveva risolto il dubbio. Restava, però, apertissimo un problema politico oltre che giudiziario: chi era responsabile di quell’atto di guerra sui cieli italiani? Chi ne era a conoscenza? Inevitabile, a questo punto, addentrarsi nel contesto all’interno del quale si consuma il destino tragico degli 81 passeggeri del Dc9 Itavia.
Il nemico Gheddafi
Il 1980 è l’anno della strage alla stazione di Bologna, due anni prima era stato ucciso Aldo Moro e sullo scacchiere internazionale c’è una guerra di nervi fra diversi paesi. In particolare la Francia è in rotta con Gheddafi, con il quale è in guerra nel Ciad. E lo punta. In quell’estate ci sono tensioni spaventose che arrivano dall’interno e dall’estero. All’epoca Gheddafi era il nemico numero uno per americani e francesi, e l’idea che i suoi aerei potessero violare, spiare, o comunque interferire sopra le strutture militari della Nato era una cosa che mal sopportavano. Qualcuno si era stancato e voleva farla pagare a Gheddafi cercando di abbattere gli aerei libici che volavano sul Tirreno, e su cui gli alleati pensavano che quella notte ci fosse proprio il colonnello.
«Successivamente al disastro di Ustica, durante la mia Presidenza del Consiglio, seppi che per la seconda volta, i servizi italiani avevano salvato il colonnello Gheddafi da un attentato perché era stato avvisato di non partire con l’aereo oppure di tornare indietro dopo essere partito», rivela Cossiga al giudice. Queste dichiarazioni hanno dato la possibilità ai pm di riaprire le indagini sulla strage.
La Nato
Un’altra svolta si ha quando dopo 19 anni di silenzio la Nato rispondendo ai magistrati italiani traccia e identifica almeno quindici aerei militari che volavano nella zona dell’esplosione del Dc9. Indica anche due caccia italiani che venti minuti prima dell’esplosione incrociano l’aereo Itavia e notano qualcosa che porterà i due piloti italiani a lanciare un messaggio di allerta alla loro base. Il documento della Nato indica cinque velivoli sconosciuti attorno al Dc9, che si sospetta possano essere aerei francesi e libici. Nelle carte del giudice Priore c’è una ricostruzione che fa venire i brividi: il Dc9 sarebbe stato usato come copertura da uno o due aerei sconosciuti molto probabilmente libici, che tornavano verso la Libia.
Il giallo del mig in Calabria
Un mig libico viene ritrovato sulla Sila ufficialmente 20 giorni dopo l’abbattimento del Dc9, con un pilota morto che secondo i medici che hanno effettuato l’autopsia era deceduto da venti giorni, quindi è verosimile che possa essere stato colpito la stessa notte della strage. Quel mig è stato visto in diverse zone della Calabria da più testimoni che hanno raccontato che era inseguito da due caccia che gli sparavano con la mitragliatrice. Tutte queste coincidenze non possono essere casuali.
L’obiettivo non era il Dc9
La sovranità nazionale è stata violata. E oggi non è più un problema giudiziario, ma politico. Pensare che un magistrato, da solo, vada a bussare alla porta dell’Eliseo per chiedere a Macron di sapere finalmente la verità è poco credibile. Lo può fare invece un governo, se ha voglia di farlo, se pensa che questa strage è una pagina della storia di questo paese che deve essere ancora riempita di verità.
Andò: “A Ustica è stato un missile. Affrontai Mitterrand, lui si infastidì e non rispose”. Concetto Vecchio su La Repubblica il 4 Settembre 2023
L’intervista all’ex ministro socialista della Difesa: “Ogni volta che provavo a parlarne con il mio collega ministro e compagno di partito, Pierre Joxe, lui si ritraeva”
Salvo Andò, 78 anni, ex ministro della Difesa nel governo Amato, socialista, i francesi dopo Ustica opposero un muro alla verità?
“L’ho toccato per mano, da ministro. Ogni volta che provavo a parlarne con il mio collega e compagno di partito, Pierre Joxe, col quale ero in ottimi rapporti, lui si ritraeva”.
Può fare un esempio?
“Gli chiesi inutilmente più volte di essere informato sui movimenti della portaerei francese Clemenceau che operava nell’area dove si era verificata la strage”.
Concetto Vecchio per la Repubblica - Estratti il 3 settembre 2023.
Luigi Zanda, che carica ricopriva quando venne abbattuto l’aereo a Ustica?
«Ero il portavoce del presidente del Consiglio, Francesco Cossiga».
Che ricordi ha di quei giorni?
«Venne subito fatta circolare la tesi del cedimento strutturale, e subito dopo quella della bomba nascosta tra i bagagli: entrambe si rivelarono fasulle, forse frutto di depistaggi».
La tesi del missile non circolava informalmente?
«Ricordo che nei giorni successivi Rino Formica, che era ministro dei Trasporti, mi disse che il capo dell’Agenzia che controllava l’aviazione civile gli aveva categoricamente escluso il cedimento strutturale. Inoltre l’esame dei radar aveva documentato che il Dc9 era stato attorniato da manovre di aerei militari».
La battaglia nei cieli.
«Potrebbe essere. Il primo che mi ha poi parlato del missile è stato Andrea Purgatori, di cui ero molto amico. Informai Cossiga, e Cossiga mi invitò a chiedergli la fonte. Purgatori non volle comprensibilmente rivelarla».
La tesi del missile francese le sembra l’unica possibile?
«Lo disse a Cossiga l’ammiraglio Martini, allora capo dei servizi segreti. Martini era una persona seria e considerata molto attendibile».
(…)
E lei che significato vi attribuisce?
«Nel linguaggio diplomatico tra gli Stati non smentire un’affermazione grave è cosa molto vicina ad un’ammissione».
Non avevate quindi informazioni riservate?
«Non sono mai stato al corrente di segreti di Stato o di informazioni riservate su Ustica».
(…)
Cosa dice del nostro Paese la tragedia di Ustica?
«Se è vero che nei cieli italiani si è combattuta una guerra senza che nessuno degli alleati avesse informato il nostro governo vorrebbe dire che non godevamo di una grande considerazione».
Al punto da violare la nostra sovranità nazionale?
«Sono fatti gravissimi. Vanno provati».
Come valuta l’intervista di Giuliano Amato?
«Nel merito riprende la deposizione alla magistratura di Cossiga del 2008, peraltro molto nota. Sul piano politico chiede a Macron di accertare se c’è stata una responsabilità della Francia, mi sembra un passo avanti».
Macron lo farà?
«Do per certo che la Francia di Macron collaborerà lealmente con l’Italia e risponderà in modo esauriente alle nostre richieste, se ci saranno da parte del governo».
Secondo Amato fu Craxi ad avvertire Gheddafi che i francesi volevano ucciderlo.
«Cossiga disse ai magistrati d’aver saputo che per ben due volte i servizi segreti avvisarono Gheddafi. Penso che queste sono azioni tipiche da intelligence».
Il figlio di Craxi, Bobo, sostiene che il padre salvò Gheddafi ma nel 1986.
«Né Cossiga né Amato sono persone che mentono. Uno dei due ricorda male».
L’uscita di Amato è tardiva?
«Quando Cossiga fece quella deposizione nel 2008 pensai che in lui fosse prevalsa un’ansia liberatoria. Doveva dire quel che pensava. Immagino sia stato l’intendimento di Amato: restituire valore alla memoria, in un Paese che ne ha pochissima».
Cosa l’ha colpita di più?
«Il fatto che il recupero dell’aereo venne affidato ad una ditta legata ai servizi segreti francesi. C’era un gigantesco conflitto d’interessi eppure il magistrato procedette lo stesso con l’incarico. Possibile che nessuno lo avesse avvertito? L’ammiraglio Martini lo fece con Amato. La trovo una cosa enorme».
(…)
Gheddafi, l’Afghanistan e l’Italia dei depistaggi. Quando la Guerra fredda si spostò nel Mediterraneo. Miguel Gotor su La Repubblica il 4 Settembre 2023
Roma e Parigi vantano un’amicizia talmente consolidata da riuscire a sopportare il peso di rivelazioni tanto attese
L’intervista di Giuliano Amato sulla strage di Ustica è una testimonianza importante che contiene alcuni elementi di novità. Anzitutto l’appello al presidente Emmanuel Macron affinché il governo francese riveli ciò che sa su quanto avvenuto il 27 giugno 1980 nei cieli italiani.
In secondo luogo, la messa a fuoco di una presunta “ragion di Nato” per spiegare la lunga scia di insabbiamenti e di depistaggi che ha accompagnato questa tragica vicenda nel corso di oltre quarant’anni.
Strage di Ustica, le carte false dei Servizi. Ecco perché la verità è sparita dagli archivi. Benedetta Tobagi su La Repubblica il 4 Settembre 2023
Ricostruzioni e tracciati radar sono stati fatti sparire dalla documentazione di quell’anno. E Meloni nomina in Commissione di vigilanza un tecnico sostenitore della tesi della “bomba”
Ustica, insieme a molte altre stragi, è divenuta sinonimo di “depistaggi”. Come le scorie radioattive, i depistaggi hanno effetti tossici che si protraggono per decenni. Prima di tutto, ergono l’ormai proverbiale “muro di gomma” di reticenze e opacità contro cui rimbalzano gli sforzi di inquirenti e giornalisti d’inchiesta, come il compianto Andrea Purgatori. Al contempo, creano una cortina fumogena, una confusione di piste e versioni alternative dei fatti, spesso mescolando pezzetti di verità a forti dosi di menzogna.
Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per la Repubblica il 3 Settembre 2023
[…] Nicolas Sarkozy compare alla Mostra del cinema di Venezia insieme alla moglie Carla Bruni, che è al Lido perché voce narrante di un documentario sulla storia della Mostra. […], quando le parole dell’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato sulle responsabilità francesi nell’abbattimento del Dc9 Itavia a Ustica hanno già fatto il giro di tutte le cancellerie. Ovvio che Sarkò e Bruni siano a Venezia per altre ragioni, che peraltro l’ex modella sbriga senza il marito, assente sia sul tappeto rosso […]
Quando si alzano per tornare all’interno dell’hotel proviamo a cogliere l’occasione per cavare all’ex presidente un commento sul caso Ustica. […] Qualificarsi come un giornalista di Repubblica non aiuta quanto chiedere una foto. Sarkozy sbuffa e sibila subito tre no di fila. La scorta capisce e ci spintona via. Ci riavviciniamo pochi metri più avanti dal lato di Bruni: «Signora Bruni, avete letto Amato?».
Bruni si ferma ad ascoltare e la scorta finalmente si placa: «No – risponde – che è successo, cosa dice Amato?». Riassumiamo rapidamente la questione. Ma prima che Bruni possa rispondere il marito, esauriti i selfie, le afferra un braccio e le dice: «È Repubblica! Gauche, gauche…». Spariscono dietro la porta girevole, non prima che Sarkò si giri un’ultima volta ridendo: «Oui, oui, gauche!».
Strage di Ustica, l’ex ambasciatore Vento: “Furono i nostri 007 ad avvisare Gheddafi. Lo rivelarono i libici”. Giuliano Foschini su La Repubblica il 5 Settembre 2023
Sergio Vento, ex consigliere diplomatico di Giuliano Amato a Chigi
L’ex consigliere diplomatico di Amato a Palazzo Chigi: “Un collega di rilievo mi disse che la visita ufficiale di Gheddafi a Varsavia fu annullata. Il motivo? Sarebbe stato pericoloso sorvolare il mare quella notte”
Sergio Vento, ambasciatore di gran carriera, di Giuliano Amato è stato consigliere diplomatico quando era a Palazzo Chigi. «E dopo di lui di altri tre presidenti del Consiglio: Carlo Azeglio Ciampi, Silvio Berlusconi e Lamberto Dini». Quando su Repubblica ha letto le dichiarazioni sulla strage di Ustica dell’ex premier, gli è tornata in mente una giornata del 2011, quando dopo una lunga esperienza da ambasciatore a Parigi, era a New York, come delegato italiano alle Nazioni Unite.
Estratto dell’articolo di Giuseppe Baldessarro per “La Repubblica” martedì 5 settembre 2023.
Non ci sono più le carte che facevano riferimento alla strage di Ustica, e neppure le relazioni sull’attentato alla stazione di Bologna. Niente sulla bomba del 1980 e niente su quelle fatte esplodere o ritrovate nel ‘69 sui treni a Pescara, Venezia, Milano e Caserta. Neppure del massacro dell’Italicus dell’agosto del 1974 c’è più traccia. È scomparso tutto, ogni documento, ogni relazione.
E per non rischiare di lasciare qualche traccia hanno fatto sparire l’intero archivio del ministero dei Trasporti e tutta la documentazione del ministro e del suo Gabinetto. Hanno creato un buco nero che va dal 1968 al 1980, gli anni delle stragi fasciste e della strategia della tensione dell’eversione nera. Una voragine, nella quale è stato inghiottito un pezzo di storia del Dc9 dell’Itavia e di tutte le altre, di cui la Presidenza del Consiglio dei ministri ha dovuto prendere atto in un documento ufficiale del 12 ottobre 2022.
È tutto scritto nero su bianco nella relazione annuale del Comitato consultivo sulle attività di versamento all’Archivio Centrale dello Stato della documentazione a cui fanno riferimento le direttive Renzi e Draghi. Direttive che avevano come obiettivo quello di desecretare e rendere pubblici gli atti relativi alle stragi italiane. […]
A ottobre scorso a conclusione dei lavori il Comitato «ha dovuto rilevare che, nel recente passato, le amministrazioni hanno avuto talora scarso controllo della propria documentazione, soprattutto di quella non più in uso, e tale circostanza ha causato in alcuni casi dispersioni e perdita di fonti rilevanti per la ricerca storica».
Di cosa si tratta viene spiegato a pagina 23 (la penultima della relazione): «Non è accettabile che, in un periodo di tempo prolungato, che va dalla fine degli anni ‘60 agli anni ‘80, possa mancare del tutto la documentazione relativa al Gabinetto del ministro dei Trasporti pro tempore nonché le serie archivistiche relative all’attività del ministero, per il settore dei trasporti, riferito al periodo delle stragi che hanno segnato tragicamente il nostro Paese».
Daria Bonfietti, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Ustica, parla «di fatto inquietante», non solo perché da quegli archivi si potevano «trarre informazioni utili sul Dc9 abbattuto, ma in generale su tutte le stragi di quegli anni». Manca insomma «un pezzo di storia dell’Italia», ma non è l’unico problema «perché anche il materiale consegnato è spesso disordinato e quindi inutilizzabile ai fini di una lettura complessiva».
Andrea Benetti, che fa parte del Comitato per conto dei parenti di Ustica, racconta: «Col ministero dei Trasporti abbiamo avuto lunghe interlocuzioni, inizialmente ci dicevano che non sapevano bene cosa cercare, per poi essere costretti ad ammettere che non c’erano più gli archivi». Questo è solo una parte del problema perché, aggiunge, «in generale non ci è stata consegnata una sola carta che sia utile ad aggiungere qualche tassello su Ustica».
Vale per «i servizi e per i ministeri». E non solo, perché, non c’è «neppure un documento proveniente dalla Prefettura di Bologna: come è possibile una cosa del genere?» […]
Lettera di Giuliano Amato a “la Repubblica” martedì 5 settembre 2023.
Dopo l’uscita dell’intervista su Ustica, una domanda è circolata insistentemente nei giornali, in tv, sui social: perché proprio ora? Ma se la domanda è lecita per definizione, sono risultate sorprendenti alcune delle risposte che attribuiscono all’intervistato strategie di ogni genere, dall’urgenza di una nuova verginità politica al desiderio di carriera quirinalizia mai esausta, dalla volontà di guastare i rapporti già fragili con la Francia all’impulso distruttivo verso il governo della destra.
Salvo poi rimangiarsi l’intervista data a Repubblica — ieri abbiamo letto anche questo — in preda a improvviso pentimento. Dispiace mettere fine a queste congetture di sicuro fascino romanzesco, ma la verità è molto più banale.
Le interviste nascono — pensate che bizzarria! — perché c’è un giornale che le chiede, un direttore che le sollecita, una giornalista che ci lavora sopra. E la richiesta viene accolta se l’intervistato ha maturato nel tempo la volontà di rendere testimonianza.
Questo è successo con l’intervista su Ustica uscita sabato scorso su questo giornale: la richiesta che mi è arrivata da Simonetta Fiori ha incontrato il mio bisogno di verità che a una certa età diventa più urgente, con il tempo davanti che si accorcia ogni giorno.
Ne è scaturito un racconto storico che non aspirava a rivelare segreti sconosciuti — come è detto chiaramente nell’articolo — ma ad avvalorare una ricostruzione che è custodita in centinaia di pagine scritte dai giudici, nelle svariate perizie, anche nelle inchieste di giornalisti bravi come Andrea Purgatori, ma che si è dovuta arrestare davanti a più porte chiuse.
Una ricostruzione che ho potuto fare mia e rilanciare grazie a una quarantennale esperienza dentro le istituzioni dello Stato, fin dal 1986 dalla parte dei famigliari delle vittime, come ha ribadito in questi giorni Daria Bonfietti, in una collaborazione stretta con i magistrati inquirenti, con la commissione Stragi e i migliori giornalisti di inchiesta.
Non sono mancate quindi le sedi anche istituzionali in cui manifestare i dubbi verso le versioni ufficiali dei militari: in questi 43 anni la mia non è stata una presenza muta. L’amicizia con la professoressa Bonfietti, la promessa di un impegno permanente al suo fianco, non è certo estranea alla decisione di rendere oggi testimonianza a Repubblica, insieme alla dolorosa perdita di Purgatori.
Chi sa parli ora: questo il senso dell’appello rivolto ai testimoni reticenti, gli ultimi sopravvissuti di una generazione che si sta estinguendo (ma curiosamente mi è stato chiesto anche dalla premier di produrre nuove prove). La ricostruzione storica ha confuso tra date diverse? Bettino Craxi ha avvertito Gheddafi che stavano per bombardarlo nell’86, mentre nell’80 Craxi nulla poteva sapere della simulazione di Francia e Nato per far fuori il leader libico?
Forse la memoria mi ha ingannato o forse è la fonte della mia informazione che è confusa. Nel testo dell’intervista si dice chiaramente che mancano le prove. Ma è un dettaglio rispetto alla sostanza denunciata: l’insofferenza di larga parte della classe politica, Craxi incluso, davanti alla ricerca della verità, contro i tentativi di depistaggio messi in atto da generali e ammiragli.
Nessuno aveva interesse a scoperchiare un segreto coperto dalla ragion di Stato o di Stati: la tragedia di Ustica era stato un atto di guerra in tempo di pace in un paese a sovranità nazionale limitata. Forse anche io, pur mosso dalla volontà di far luce, non ho avuto all’epoca la forza per impormi sulle forze ostili e reticenti? Può darsi. Ammetterlo fa parte di quel processo di verità oggi più che mai urgente.
Infine, l’appello a Macron. La richiesta al presidente francese di approfondire la verità su Ustica nasce dalla constatazione che la tragedia del Dc9 risale al 1980: Macron all’epoca non aveva ancora compiuto tre anni. Anche per la sua totale estraneità politica ai fatti, e per la libertà che può derivargliene, Macron potrebbe aiutare a restituire giustizia a 81 vittime innocenti ancora senza colpevoli.
Una straordinaria opportunità per rinsaldare il rapporto tra i due paesi. Il ministero degli Esteri francese l’ha accolta, manifestando una volontà di collaborazione, peraltro senza mai domandarsi: perché ora? Un passo in avanti rispetto a chi in Italia continua ostinatamente a voltarsi indietro. Con l’intervista ho voluto lanciare una sfida per arrivare alla verità su Ustica. Ora tocca a chi ne è in grado raccoglierla, sotto la spinta di una stampa non prigioniera del piccolo cabotaggio.
Giuliano Amato per La Repubblica - Estratti il 5 Settembre 2023
Dopo l’uscita dell’intervista su Ustica, una domanda è circolata insistentemente nei giornali, in tv, sui social: perché proprio ora? Ma se la domanda è lecita per definizione, sono risultate sorprendenti alcune delle risposte che attribuiscono all’intervistato strategie di ogni genere, dall’urgenza di una nuova verginità politica al desiderio di carriera quirinalizia mai esausta, dalla volontà di guastare i rapporti già fragili con la Francia all’impulso distruttivo verso il governo della destra. Salvo poi rimangiarsi l’intervista data a Repubblica — ieri abbiamo letto anche questo — in preda a improvviso pentimento.
Le interviste nascono — pensate che bizzarria! — perché c’è un giornale che le chiede, un direttore che le sollecita, una giornalista che ci lavora sopra. E la richiesta viene accolta se l’intervistato ha maturato nel tempo la volontà di rendere testimonianza. Questo è successo con l’intervista su Ustica uscita sabato scorso su questo giornale: la richiesta che mi è arrivata da Simonetta Fiori ha incontrato il mio bisogno di verità che a una certa età diventa più urgente, con il tempo davanti che si accorcia ogni giorno.
Ne è scaturito un racconto storico che non aspirava a rivelare segreti sconosciuti — come è detto chiaramente nell’articolo — ma ad avvalorare una ricostruzione che è custodita in centinaia di pagine scritte dai giudici, nelle svariate perizie, anche nelle inchieste di giornalisti bravi come Andrea Purgatori, ma che si è dovuta arrestare davanti a più porte chiuse.
(...)
Chi sa parli ora: questo il senso dell’appello rivolto ai testimoni reticenti, gli ultimi sopravvissuti di una generazione che si sta estinguendo (ma curiosamente mi è stato chiesto anche dalla premier di produrre nuove prove).
La ricostruzione storica ha confuso tra date diverse? Bettino Craxi ha avvertito Gheddafi che stavano per bombardarlo nell’86, mentre nell’80 Craxi nulla poteva sapere della simulazione di Francia e Nato per far fuori il leader libico?
Forse la memoria mi ha ingannato o forse è la fonte della mia informazione che è confusa. Nel testo dell’intervista si dice chiaramente che mancano le prove. Ma è un dettaglio rispetto alla sostanza denunciata: l’insofferenza di larga parte della classe politica, Craxi incluso, davanti alla ricerca della verità, contro i tentativi di depistaggio messi in atto da generali e ammiragli. Nessuno aveva interesse a scoperchiare un segreto coperto dalla ragion di Stato o di Stati: la tragedia di Ustica era stato un atto di guerra in tempo di pace in un paese a sovranità nazionale limitata.
Forse anche io, pur mosso dalla volontà di far luce, non ho avuto all’epoca la forza per impormi sulle forze ostili e reticenti? Può darsi. Ammetterlo fa parte di quel processo di verità oggi più che mai urgente.
Infine, l’appello a Macron. La richiesta al presidente francese di approfondire la verità su Ustica nasce dalla constatazione che la tragedia del Dc9 risale al 1980: Macron all’epoca non aveva ancora compiuto tre anni. Anche per la sua totale estraneità politica ai fatti, e per la libertà che può derivargliene, Macron potrebbe aiutare a restituire giustizia a 81 vittime innocenti ancora senza colpevoli.
Una straordinaria opportunità per rinsaldare il rapporto tra i due paesi. Il ministero degli Esteri francese l’ha accolta, manifestando una volontà di collaborazione, peraltro senza mai domandarsi: perché ora? Un passo in avanti rispetto a chi in Italia continua ostinatamente a voltarsi indietro. Con l’intervista ho voluto lanciare una sfida per arrivare alla verità su Ustica. Ora tocca a chi ne è in grado raccoglierla, sotto la spinta di una stampa non prigioniera del piccolo cabotaggio.
Ustica, Pellegrino: “La bomba sul Dc-9 tesi utile a difendere i fascisti di Bologna" di Fabio Tonacci su La Repubblica il 5 settembre 2023
L’ex presidente della Commissione stragi: “Ustica è il mistero dei misteri. L’intervista di Amato mi ha convinto che il missile è l’ipotesi più verosimile”
A dispetto dei suoi 84 anni, ricorda a memoria un lungo stralcio della prefazione del libro Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann. «Profondo è il pozzo del passato. O non dovremmo dirlo imperscrutabile? Imperscrutabile anche, e forse allora più che mai, quando si discute e ci si interroga sul passato dell’uomo, e di lui solo...», recita Giovanni Pellegrino, giurista, ex senatore del Pci-Pds che ha ricoperto la carica di presidente della Commissione parlamantare d’inchiesta sulle stragi (1988-2001).Ustica, l'ex presidente della Commissione stragi: «Con Amato chiedemmo chiarimenti a Francia e Stati Uniti, ma nessuno rispose». Paola Ancora su Il Quotidiano di Puglia. Domenica 3 Settembre 2023
Giovanni Pellegrino, lei è stato senatore della Repubblica dal 1987 al 2001 e presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle stragi. L’ex presidente del Consiglio, Giuliano Amato, ha chiesto ieri che la Francia di Macron si scusi con l’Italia e le famiglie delle 81 vittime della strage di Ustica perché ad abbattere il DC9 Itavia è stato un missile francese. Cosa ne pensa?
«Sono d’accordo con lui. Come ho scritto nel mio ultimo libro, “Dieci anni di solitudine”, Ustica resta l’unico problema che in Commissione stragi affrontammo e che non può dirsi definitivamente risolto. Che l’abbattimento del DC9 fosse stato causato da un missile francese lo sostenne anche Cossiga: oggi al presidente Macron non costerebbe nulla fare chiarezza, mettendo fine a una lunga storia di misteri e dolore. I familiari delle vittime di quella strage sono stati già risarciti
Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “La Repubblica” venerdì 8 settembre 2023.
Claudio Martelli, dice Giuliano Amato: a Ustica fu un missile francese a buttare giù il Dc9. Siete stati molti anni insieme nello stesso partito, il Psi, ne avevate mai parlato?
«Mai, né mi risulta che abbia sollevato la questione con altri prima di ora. Tutti conosciamo Amato per la prudenza e per la precisione con la quale interviene.
Per questo mi ha sorpreso la perentorietà con la quale oggi indica la natura del disastro di Ustica e chi ne sarebbe il responsabile, cioè i francesi».
Ha dei dubbi sulle motivazioni di Amato?
«Posso immaginare che abbia inteso liberarsi di un fardello, di un senso di colpa, colpa collettiva ovviamente. Forse c’è anche qualche elemento personale. Tra i “generali” e gli ammiragli che accusa c’è Bettino Craxi, peraltro in questo caso con un riferimento sbagliato sul piano storico, come è accertato. […] né Craxi né il Psi erano in condizione di essere coinvolti da protagonisti nella vicenda Ustica».
Amato ha ammesso che può essersi confuso, ma questo non toglie che più testimonianze confermano che Gheddafi fu avvisato dall’Italia.
«Sì, ma l’abbaglio di Amato tradisce un certo livore, come quando definisce Craxi statista trasgressivo. O si è statisti o si è trasgressivi. Se Amato pensava di chiudere la partita su Ustica, a me pare più che abbia aperto il vaso di Pandora.
In una storia nella quale noi stessi italiani ci accusiamo al nostro interno di aver depistato, pretendere dai francesi che si assumano una responsabilità della quale non sono nemmeno mai stati ufficialmente accusati non mi sembra un colpo di genio dal punto di vista politico e anche giuridico».
Resta il cuore della ricostruzione di Amato: il Dc9 abbattuto nel pieno di una azione di guerra.
«La tesi del missile è smentita dagli esperti tanto quanto quella di una bomba a bordo, che alludeva a un attacco di natura terroristica. Da fonte Nato quella sera sui cieli di Ustica risultavano in volo 21 aerei militari, italiani, americani, inglesi, forse francesi.
L’impresa di accertare chi abbia sparato è improba. Peraltro, come hanno ricostruito alcuni vostri articoli, lo scenario più attendibile è che il Dc9 non sia stato colpito direttamente ma danneggiato dai vortici causati dalle manovre dei caccia».
Ovviamente non è un dettaglio l’eventuale missile e la sua nazionalità, però continua a restare secondario rispetto al cuore della faccenda: quei civili morirono per un atto di guerra evidentemente coperto da 43 anni di omissioni e depistaggi di Stato, anzi di Stati.
«Di tutte le notizie che ho letto ce n’è una che mi ha fatto sobbalzare. Uno degli esperti intervistati da Repubblica, il professor Carlo Casarosa, ha parlato di una prassi secondo la quale gli aerei libici che transitavano nello spazio aereo italiano venivano coperti dalla nostra Aeronautica, che utilizzava gli aerei di linea come scudo visivo, affinché i libici risultassero invisibili ai radar. Se fosse una cosa vera, altro che lodo Moro, sarebbe stata una prassi di una gravità senza pari».
Sufficiente di per sé a trincerarsi dietro una ragione di Stato per insabbiare la verità.
«Senza dubbio».
Ma come è possibile che voi politici di primo piano degli anni Ottanta non siate venuti a conoscenza di questa o altre notizie utili a far luce sulla strage?
«Io ho fatto il ministro per la prima volta nel 1989. Prima di allora ricordo bene che non c’erano pareri unanimi su Ustica. I periti dei militari insistevano sulla tesi della bomba a bordo».
Falsa e inverosimile. Sbagliavano o mentivano?
«Entrambe le cose».
Amato dice di aver ricevuto le prime rivelazioni da Rino Formica.
«Anche di questo dubito. Nel 1980 Amato era avversario di Craxi e dunque anche di Formica. In ogni caso, è probabile che Formica a sua volta avesse avuto informazioni da Francesco Cossiga, il primo poi a parlare pubblicamente di attacco missilistico francese». […]
Dice di essere strabiliato davanti all’ipotesi che nel 1980 ci fosse un patto occulto per lasciare transito agli aerei libici nei cieli italiani. Ma che differenza c’è con Craxi che nel 1986 avvisa Gheddafi che gli americani stanno per bombardare Tripoli?
«Enorme. Craxi insorge a difesa della sovranità nazionale, perché non tollera l’idea che l’Italia, allora potenza del Mediterraneo, non venga nemmeno informata di una azione simile.
Craxi voleva che la politica estera italiana uscisse dalle ambiguità e dai sotterfugi e ha pagato un prezzo molto caro per questo. Ustica è una storia che si produce dentro quella ambiguità».
C’erano due livelli decisionali nel nostro Paese, uno pubblico e uno occulto?
«Nel 1980 sicuramente. Craxi lo disse anche nel suo discorso di insediamento come presidente del Consiglio, l’Italia doveva sottrarsi a una condizione di subalternità, qualcosa di intollerabile, e lui lo fece a Sigonella, lo fece con Gheddafi, e manifestando dubbi su Maastricht.
Poi c’era un’altra corrente, filocossighiana appunto, per la quale se una cosa la chiedono gli Usa, allora si fa. Ci sono esempi anche recentissimi, come quando da presidente del Consiglio Giuseppe Conte consentì al ministro della Giustizia William Barr di interrogare i vertici dei nostri servizi senza neanche essere accompagnato da una alta carica politica italiana». […]
Quindi, secondo lei, per cercare una verità storica bisogna bussare a Washington più che a Parigi?
«A differenza dei francesi, gli americani hanno questa abitudine: a scadenza svuotano gli archivi. L’ho sperimentato anche io potendo consultare nelle carte Fbi la vicenda Falcone. Tutte le comunicazioni dell’ambasciata al Dipartimento di Giustizia sono state desecretate. L’unica via mi sembra imbracciare la armi del diritto e formulare delle domande in grazia di Dio»
Estratto dell’articolo di Gianluca Di Feo per repubblica.it lunedì 11 settembre 2023.
Caccia libici che sfidano caccia libici nel crepuscolo di Ustica. Alcuni veramente libici; altri dell’identico modello ma con insegne fasulle. Perché la morte di Gheddafi, uno dei leader arabi più noti, doveva apparire come un affare interno al suo regime e non come un complotto di potenze occidentali. Sulla distruzione del DC-9 Itavia non esiste una verità. Ci sono tante perizie tecniche sovrapposte e lette in modi diversi […]. Né la pista della bomba, né quella del missile hanno trovato un riscontro di forza tale da superare i dubbi […]
Eppure le parole dei protagonisti di quella stagione politica, dalle dichiarazioni di Francesco Cossiga all’intervista a Repubblica di Giuliano Amato, hanno ridato peso allo scenario della battaglia aerea – bocciato con sentenza definitiva dai giudici penali e accolto con giudizio altrettanto definitivo da quelli civili – per abbattere Gheddafi.
A rinforzarlo c’è una deduzione logica: un segreto in grado di sopravvivere così a lungo deve riguardare qualcosa di veramente grave che coinvolge l’interesse strategico di più nazioni, unite in un patto per custodire il silenzio che resiste da 43 anni. […]
L’informatore nelle basi libiche
Nello sterminato elenco di atti raccolti nell’istruttoria di Rosario Priore – considerata credibile dalla Corte di primo grado e ritenuta priva di prove dalla Cassazione - ci sono alcune deposizioni che possono offrire una prospettiva diversa, capace di mettere insieme tanti tasselli di quelle ore drammatiche del 27 giugno 1980 che in apparenza non combaciano. È il racconto dell’inchiesta parallela su Ustica condotta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
L’ha ricostruita il suo braccio destro, l’allora colonnello Nicolò Bozzo […] È lo stesso ufficiale che ha demolito la menzogna francese sui decolli dalla base corsa di Solenzara, dimostrando che i voli dei jet militari erano proseguiti dopo il tramonto.
Una circostanza straordinaria, perché nel periodo estivo l’attività degli stormi veniva sospesa nel primo pomeriggio: lui si trovava lì in vacanza assieme al fratello e ha fornito riscontri documentali, incluse le ricevute dell’hotel e la descrizione dei modelli di velivolo.
Perché Dalla Chiesa, comandante del nucleo speciale contro l’eversione, si è occupato del DC-9 Itavia? “La curiosità del generale – ha detto Bozzo - era tutta appuntata su Gheddafi e su eventuali appoggi da lui concessi ai terroristi italiani”. Dalla Chiesa aveva un informatore in Libia: il geometra jugoslavo Benedetto Krizmancic, che lavorava per conto del governo di Tripoli nella costruzione di infrastrutture aeroportuali.
All’epoca Gheddafi, non fidandosi né dei suoi alleati sovietici, né dei partner europei, aveva affidato ai tecnici “neutrali” del maresciallo Tito la gestione di numerose installazioni militari: molti piloti venivano formati in Jugoslavia e i caccia migliori – i leggendari Mig 25 più veloci dei Jet occidentali – venivano mandati lì per la manutenzione. Poiché si sospettava che uomini delle Brigate Rosse venissero ospitate nei campi di addestramento libici proprio in vicinanza degli aeroporti, Dalla Chiesa aveva incaricato il colonnello Bozzo di cercare notizie da Krizmancic, che si recava spesso in Liguria.
“Nel secondo incontro nel maggio 1980 mi fece un regalo raccontandomi di avere colto da una breve conversazione tra piloti libici l’esistenza di un forte malessere nella loro Aeronautica militare, che avrebbe potuto anche potuto sfociare in un colpo di Stato.
Era una sua impressione, sostanziata però da alcune frasi rubate che descrivevano l’ipotesi di un piano per intercettare l’aereo del leader libico durante un volo ed abbatterlo”. Siamo a circa un mese dalla notte di Ustica. Questi sono i fatti, ripetuti da Bozzo davanti al giudice Priore che ha ascoltato pure il geometra jugoslavo: entrambi sono morti da alcuni anni.
Il teorema Dalla Chiesa
Il resto sono le riflessioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa, rimasto celebre per la sua capacità di analisi. Bozzo non ha certezza ma ritiene che, come da prassi, il generale abbia trasmesso le rivelazioni sul complotto alla nostra intelligence. Che quindi almeno dai primi giorni di giugno sarebbe stata in allerta sulla prospettiva di un agguato contro l’aereo di Gheddafi. Non solo.
“All’epoca il generale Dalla Chiesa e io - aggiunge Bozzo - avevamo sviluppato un teorema che ha poi trovato alcune conferme. Gheddafi sta volando da Tripoli verso la Polonia. Secondo l’impressione avuta da Krizmancic, l’attentato al leader libico, preludio al golpe, era stato studiato in due mosse. La prima con l’intercettazione e l’abbattimento dell’aereo presidenziale da parte di due caccia libici. La seconda con uno scalo tecnico (un chiaro segnale di svolta nelle relazioni internazionali) dei velivoli ribelli nella base italiana di Gioia del Colle in Puglia o in quella di Crotone in Calabria”.
Gran parte dei Mig di Tripoli infatti non avevano autonomia sufficiente per un’azione di combattimento sul Tirreno e il ritorno in patria: senza una base di rifornimento, avrebbero finito il carburante e si sarebbero schiantati. Come è accaduto al jet ritrovato sui monti della Sila.
“Nulla di più facile – prosegue Bozzo - che i congiurati si siano appoggiati a quei servizi segreti per condividere il piano, se non il passo politico successivo al golpe. In questo caso non possiamo escludere che l’ordine prioritario, tassativo, dato alle forze aeree Nato, fosse quello di tenere sgombero il cielo sul basso Tirreno per l’agguato al “nemico”.
Questo scenario, comunque incerto, poteva mutare radicalmente di segno con l’ingresso nei giochi di guerra dei nostri servizi, o meglio di quella fazione filoaraba che storicamente si oppone a quella filoamericana. Ed è ciò che credo sia avvenuto: messo in allarme da qualche fonte compiacente dei Servizi, Gheddafi ha rivoluzionato in segreto il suo programma. Quel 27 giugno anziché dirigersi verso Varsavia ha fatto inversione su Malta”.
Così invece dell’aereo del dittatore, i caccia golpisti si ritrovano sulla rotta del DC-9 Itavia decollato in ritardo da Bologna. E lì, scambiandolo per il bersaglio della loro missione o semplicemente per errore, lo abbattono.
Non usano il cannone, né i missili aria-aria […]: per volontà omicida o per evitare all’ultimo minuto una collisione, virano sopra l’aereo di linea aumentando rapidamente la velocità. Una manovra che genera un’onda d’urto potentissima, tale da far perdere il controllo ai piloti del jet civile o addirittura da spezzarne la struttura. Questa d’altronde è l’unica ipotesi che può conciliare un’operazione ostile contro il DC-9 con l’assenza delle schegge tipiche dell’esplosione di un missile sul relitto recuperato dagli abissi del Tirreno.
Le conferme del disertore
Molti anni più tardi, nel 2015, i progetti di rivolta nell’aviazione libica hanno trovato riscontro nelle dichiarazioni di un pilota, Hazem al-Bajigni, raccolte da Tom Cooper, Albert Grandolini e Arnauld Delalande – tre giornalisti aeronautici di ottima reputazione – nell’opera in tre volumi “Libyan Air Wars”. Si tratta di una testimonianza straordinaria: Hazem al-Bajigni venne accusato dagli agenti di Gheddafi di avere fatto parte di un piano golpista che nella seconda metà del 1980 vedeva coinvolti almeno 19 ufficiali dell’Aeronautica. Sostenevano che avesse cercato di rubare un velivolo cargo per far scappare all’estero i membri del complotto.
Quando è venuto a sapere delle indagini, il capitano libico è salito sul suo Mig-23 ed è partito a velocità supersonica da Bengasi verso Nord: è riuscito ad atterrare a Creta, scendendo su una vecchia pista senza che la rete radar della Nato lo avvistasse.
Era il 22 febbraio 1981. Dopo tre giorni, la Grecia ha restituito il caccia a Gheddafi mentre il pilota ha trovato asilo in Occidente. Lui non ne parla, ma si ritiene che sia stato a lungo interrogato dall’intelligence americana che poi lo ha protetto dalle rappresaglie delle squadre della morte gheddafiane, che in quel periodo assassinavano i dissidenti espatriati in Europa.
Hazem al-Bajigni ha descritto ai tre giornalisti anche un’altra circostanza fondamentale per Ustica: era nella stessa base del sottotenente Ezzedin Koal, il pilota trovato morto sulla Sila.
Al-Bajigni non lo conosceva direttamente perché Koal era siriano: faceva parte di una “legione straniera” concessa a Gheddafi dal governo di Damasco. Il fuggitivo ha raccontato le voci riferite dal comandante del personale siriano, identiche alla versione stilata dalla Commissione congiunta italo-libica: quella conclusa tragicamente sui monti della Calabria era una missione di addestramento, senza armi a bordo. Per un guasto al respiratore, il pilota aveva perso conoscenza e si era schiantato una volta finito il combustibile.
[…]
Il dilemma della Sila
Un dilemma dibattuto da oltre quarant’anni è la data in cui il Mig 23 è precipitato sulla Sila. Ufficialmente, i rottami sono stati scoperti il 18 luglio 1980: una versione contestata da testimoni e periti.
I pm di Roma Maria Monteleone ed Erminio Amelio, che conducono l’ultima indagine sulla sorte del DC-9 Itavia, ritengono che il caccia non sia precipitato il 27 giugno ma settimane dopo, forse proprio nella data del rinvenimento ufficiale. Allo stesso tempo, i magistrati sono ancora convinti che l'aereo della Sila sia legato a Ustica. Lo fanno sulla base di due testimonianze, rimaste solide a distanza di decenni: nella tasca della tuta di Koal c’era un biglietto in arabo.
L’interprete dell’intelligence italiana che lo ha letto, ricorda parole di rimorso per avere causato “la morte di ottanta innocenti” e la volontà di espiare. Anche un dirigente degli 007 ha visto quel foglio. Il biglietto sarebbe stato consegnato a un generale dei Servizi ed è scomparso: ma un riferimento preciso è rimasto nell'agenda del capo di gabinetto del ministro della Difesa.
Già, ma in che modo il sottotenente siriano voleva espiare la sua responsabilità? Fuggire in Italia e rivelare quello che era accaduto? Negli atti del processo ci sono indizi su un disertore atteso a Malta in quei giorni: era pronto un bimotore per trasferirlo a Roma ma la missione è stata poi annullata. E, soprattutto, cosa c'entrava il pilota siriano con la morte di ottanta innocenti? Era intervenuto nella battaglia notturna contro i golpisti e chi li sosteneva all’estero, finendo per provocare la distruzione del velivolo passeggeri?
Con i serbatoi supplementari, il Mig-23 aveva un'autonomia operativa sufficiente per raggiungere il Tirreno e tornare a casa, mantenendo la possibilità di ingaggiare un breve combattimento. Tripoli però aveva anche aerei più moderni a cui affidare missioni speciali nell’ora del crepuscolo: i nuovi Mirage F1 consegnati dalla Francia due anni prima, considerati i gioielli dell'aviazione e – contrariamente ai Mig - dotati di ottimi missili a lungo raggio. Appartenevano allo “Squadrone Fatah”, un’altra unità speciale addestrata però da istruttori europei: la loro presenza accanto al jet presidenziale di Gheddafi non avrebbe destato sospetti.
I Mirage gemelli di Solenzara
Altri Mirage F1, esteriormente identici agli intercettori libici, quella sera sono partiti dalla Corsica. La Francia lo ha negato per anni. Ma il colonnello Bozzo ha permesso di accertare i decolli e il fratello del carabiniere, appassionato di aviazione, ne ha identificato il modello. E torniamo al “teorema Dalla Chiesa”.
I golpisti libici avevano bisogno di sostegno occidentale. Ma c’era molta diffidenza nella Nato sulla loro preparazione nel combattimento aereo. Se si voleva essere certi che Gheddafi venisse eliminato, bisognava affidarsi a piloti più esperti. Che, allo stesso tempo, potessero essere confusi con gli insorti: i Mirage F1 di Solenzara erano i candidati perfetti.
In quel momento, un cambio di regime a Tripoli era importante per Washington ma soprattutto per Parigi, impegnata in un confronto armato con i libici nel Ciad. Anais Ginori su questo giornale ha descritto come il presidente Giscard d’Estaing cercasse di animare un putsch a Tripoli dal 1977 e il potente Alexandre de Marenches, capo dello Sdec Service de Documentation et de Contre-Espionnage), aveva organizzato un programma per colpire la Libia. […]".
Il piano più spettacolare – ha spiegato sempre Anais Ginori -, documentato ormai in varie ricostruzioni, doveva scattare il 5 agosto 1980, qualche settimana dopo la strage di Ustica. Deluso dai continui fallimenti di Marenches, Giscard decide di scavalcarlo e affidare al numero due dei servizi, Alain de Marolles, la missione speciale: "Vi chiedo di rovesciare Gheddafi". È quello che Marolles, morto nel 2000, aveva confidato ai giornalisti Roger Faligot, Jean Guisnel e Rémi Kauffer in "Histoire politique des services secrets français". Ma anche l'operazione, guidata dal cosiddetto "Safari Club", coordinamento tra i servizi francesi, egiziani, marocchini e sauditi, si conclude in un clamoroso fiasco.
Ogni disegno partiva da un presupposto: se il Rais fosse stato ucciso dagli occidentali, nei Paesi arabi ci sarebbe stata una sollevazione. Ed ecco la necessità che l’omicidio ad alta quota venisse attribuito a una rivolta interna contro di lui ma ispirata e protetta attivamente dai francesi, passivamente dagli americani che dai comandi Nato potevano far calare una cappa oscura sui radar e sui controllori di ogni Paese alleato. […]
Estratto dell’articolo di Fabio Tonacci per “La Repubblica” venerdì 15 settembre 2023.
Il vuoto di verità sulla tragedia di Ustica è una storia di documenti che mancano. Alcuni nascosti, altri distrutti, altri ancora, cruciali, potrebbero essere chiusi in archivi di Stato che nessuno ha aperto. «Io so come trovarli», sostiene oggi il 62enne Giuseppe Dioguardi, maresciallo dell’Aeronautica in pensione che ha lavorato nelle segretaria particolari di quattro ministri della Difesa (Lagorio, Spadolini, Gaspari e Zanone).
Dioguardi ebbe per le mani una relazione segretissima del Sismi su Ustica. Poi venne mandato personalmente a bruciare faldoni nelle basi dell’Aeronautica in Sardegna e nel sud Italia. L’intervista di Giuliano Amato a Repubblica , per lui, è stata una liberazione.
«Finalmente Amato ha detto le cose come stanno. Era sottosegretario alla presidenza del Consiglio ai tempi di Craxi quando circolò un’importante relazione del Sismi su Ustica, non è uno che parla a caso».
Dioguardi, partiamo da quella relazione. Di che anno è?
«Del 1986, fu prodotta dall’ammiraglio Martini, allora capo dell’intelligence militare. A quell’epoca ero nella segreteria particolare di Giovanni Spadolini. Il 17 giugno di quell’anno, me lo ricordo perché era il giorno in cui l’Italia perse contro la Francia agli ottavi di finale dei mondiali, il capo di gabinetto della Difesa mi chiese di prendere una cartellina di pelle dal suo ufficio a palazzo Baracchini e di portarla con urgenza a Pian dei Giullari perché Spadolini doveva leggerla, controfirmarla e inoltrarla a Craxi. Fui scortato da due carabinieri. Spadolini mi accolse in vestaglia rossa. Aprì la cartella, lesse e si arrabbiò…».
Perché?
«Mi disse: ‘ricordati, caro Giuseppe, non c’è niente di più schifoso di quando i generali vogliono fare i politici’. Ripeteva: ‘Guarda, guarda le puttanate che hanno scritto!’ Poi fece una telefonata a Craxi alla fine della quale, senza convinzione, controfirmò le otto pagine del Sismi».
Fu Craxi a imporglielo?
«Sì»
Cosa c’era nella relazione?
«Tra le altre cose si parlava di due Mirage francesi in volo, di un Tomcat americano, di Mig libici…Non posso rivelare nel dettaglio il contenuto, perché è oggetto di una deposizione di dodici ore che nel 2011 ho rilasciato ai pm di Roma.
È coperta da segreto istruttorio. Posso però dire che il Sismi aveva messo nero su bianco due versioni: la prima ricostruiva quanto accaduto la notte del 27 giugno 1980 sulla base degli elementi a disposizione dell’intelligence, la seconda era la versione di comodo che il Sismi suggeriva alle istituzioni di rendere pubblica».
Di quella relazione agli atti dell’inchiesta non c’è traccia. È stata distrutta?
«Penso proprio di no».
Dov’è allora?
«Ogni documentazione classificata rimane all’interno della segreteria speciale del gabinetto del ministro. A quanto ne so c’erano cinque copie in giro: l’originale, una minuta e un minutario rimasti nell’archivio del Sismi, poi una quarta copia presso la segreteria speciale al ministero della Difesa e l’ultima alla segreteria speciale della presidenza del Consiglio».
Possibile che gli inquirenti non abbiano cercato lì?
«L’hanno fatto, ma per accedervi non basta un mandato del pm, serve l’autorizzazione dell’Autorità nazionale per la sicurezza, articolazione della Presidenza.
E bisogna sapere come cercare, sono plichi cartacei, vanno usati criteri di 37 anni fa. I due finanzieri inviati dalla procura non hanno trovato la relazione del Sismi perché non sapevano come cercarla. Si sono fermati a cinque centimetri dalla verità».
Si può ancora trovare?
«Sì, se il governo lo vuole davvero. La premier ha chiesto ad Amato di produrre nuove prove quando potrebbe far cercare quella relazione del 1986, e altri documenti importanti, nell’archivio della segreteria speciale della Presidenza del Consiglio. Lo stesso può fare il ministro Crosetto nella segreteria speciale della Difesa».
Perché è così complicato trovare documenti ufficiali su Ustica?
«Per colpa di una circolare…»
Cioè?
«Tra il 1982 e il 1988 lo Stato maggiore dell’Aeronautica emanò una circolare interna: ordinava a tutti i reparti di non usare la parola ‘Ustica’ nei documenti ufficiali. Al massimo si poteva scrivere ‘noto evento’ o ‘noti fatti’.
Lo scopo era rendere quelle carte meno interessanti per chiunque ne fosse venuto in possesso. E anche più complicate da ritrovare, una volta archiviate».
Cosa deve chiedere l’Italia al governo francese, per arrivare alla verità?
«I piani di volo dei Mirage decollati quella notte. Lì dentro c’è tutto: orari, scopo della missione, quantitativi di carburante usati». […]
Ha mai distrutto documenti riservati?
«Sì. Mi è stato ordinato e l’ho fatto fino al 2004. Nel 2008 ho lasciato l’Aeronautica».
Dove fu mandato a distruggerli?
«Nelle basi militari di Pantelleria, Crotone, Alghero e all’aeroporto di Comiso quando venne chiuso per trasferire gli archivi cartacei alla base di Sigonella. A Pantelleria andai nel weekend dopo l’orario d’ufficio, c’era poca gente in giro».
Ha distrutto carte su Ustica?
«Non posso rivelarlo, è nella parte secretata del mio verbale».
Le sedi che indica fanno pensare di sì. A Pantelleria alcuni sostengono che la notte di Ustica atterrò un mig libico per il rifornimento, e ad Alghero nell’ipotesi dei due caccia francesi decollati dalla base di Solenzara potrebbero aver raccolto tracce di quei voli, o addirittura i documenti contabili di eventuali rifornimenti.
«Sono ottime deduzioni. Ma, ripeto, non posso confermare o smentire».
Dagospia sabato 16 settembre 2023.IL MISTERO DEL DOSSIER MANCANTE SULLA STRAGE DI USTICA – TRA I 18 DOCUMENTI ANCORA TOP-SECRET RELATIVI ALL’INCIDENTE MANCA LA PRESUNTA RELAZIONE DEI SERVIZI SEGRETI CHE RIVELEREBBE LA VERITÀ SU QUANTO SUCCESSO IL 27 GIUGNO 1980 - QUELL’INFORMATIVA, DI CUI ESISTE TRACCIA NEI REGISTRI (OLTRE CHE NELLA TESTIMONIANZA DELL’EX MARESCIALLO DIOGUARDI), NON È MAI STATA CONSEGNATA ALL’ARCHIVIO DI STATO NÉ TANTOMENO VE N’È TRACCIA NEGLI ATTI DELLE INDAGINI - DOVE SIA FINITA È L’ENNESIMO MISTERO DI QUESTA STORIA...
Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci, Giuliano Foschini per “La Repubblica” sabato 16 settembre 2023.
Esistono almeno 18 documenti sulla strage di Ustica che i cittadini italiani non conoscono, perché tuttora secretati. Si tratta essenzialmente di report del ministero della Difesa e di atti dei nostri Servizi di sicurezza, ma anche cablo di Stati stranieri e resoconti della Nato. Un filo li lega tutti: l’oggetto di quelle carte sono pezzi di una verità che ancora manca su quanto accaduto la notte del 27 giugno 1980 sui cieli d’Italia.
Lo ha rivelato ieri il ministero di Guido Crosetto, in risposta all’intervista rilasciata a Repubblica da Giuseppe Dioguardi, maresciallo in congedo dell’Aeronautica Militare che negli anni Ottanta ha lavorato nella segreteria particolare di quattro ministri della Difesa.
All’appello manca però la diciannovesima carta, che a dire di Dioguardi è cruciale: la relazione del Sismi, datata 1986, sui fatti di Ustica. Quell’informativa, di cui esiste traccia nei registri di protocollo oltre che nel racconto del maresciallo, non è mai stata declassificata e consegnata all’Archivio di Stato né tantomeno ve n’è traccia negli atti delle indagini della procura di Roma sulla strage del Dc9. Dove sia finita è l’ennesimo mistero di questa storia che da 43 anni ingoia versioni ufficiali e versioni ufficiose.
Quando ieri mattina ha letto l’intervista, il ministro Crosetto ha chiesto al suo Gabinetto di cercare immediatamente il documento indicato. […] La risposta degli uffici alla richiesta di Crosetto è arrivata dopo poco: quel documento non è mai stato trovato. Non era infatti nel faldone di 1.967 atti su Ustica raccolti dopo la ricognizione del 2014 presso la Segreteria speciale del Gabinetto e consegnato all’Archivio centrale dello Stato tra il 2015 e il 2016, come imponeva la direttiva Renzi sulla declassificazione degli atti.
Mentre dunque dal vertice della Difesa partiva l’ordine di cercare di nuovo, e meglio, contemporaneamente in nome di «un’operazione trasparenza», fonti del ministero hanno rivelato l’esistenza di altre 18 carte ancora coperte da segreto.
Tra esse ci sono 11 informative che portano il timbro ministeriale: per lo più relazioni di corpi militari e informative interne. In più, altri sette fascicoli che arrivano dai Servizi, da apparati esteri e dalla Nato che sono al ministero ma non possono essere letti. Perché? «Quando è terminata la ricognizione del 2014 — spiega a Repubblica una fonte investigativa che lavora all’indagine su Ustica — c’è stata un’interlocuzione tra il ministero e la procura di Roma: sono stati messi a disposizione tutti gli atti ancor prima della desecretazione, e i pm hanno indicato quali potessero essere di loro interesse».
Come le 11 informative mai entrate nelle inchieste precedenti, o mai sufficientemente valorizzate. «Non dimentichiamoci che questa è un’indagine particolare», ragiona la fonte, «passa necessariamente dal “non ufficiale”, si basa sul dubbio, anche su testimonianze confidenziali, perché altrimenti avremmo dovuto fermarci all’ipotesi della bomba».
La Procura di Roma ha preso gli 11 documenti e non ha autorizzato, per ragioni di segreto istruttorio, l’invio all’Archivio di Stato. «Gli altri 7 sono fermi nel nostro archivio in attesa del nullaosta dagli enti che li hanno emessi», spiega il ministero della Difesa.
[…] Per gli altri 7 documenti il lasciapassare non c’è ancora. «Lo chiediamo, senza risposta, dal 2015», dicono al ministero. A Repubblica risulta che si tratti di alcune relazioni delle agenzie di intelligence su cui dovrebbe dare l’ultimo via libera il Dis, di relazioni che arrivano da Stati esteri, e di almeno un report della Nato che spiega, tra le altre cose, il funzionamento di alcuni sistemi di difesa dell’Alleanza (per esempio il tracciamento dei mezzi).
Motivo per cui il via libera potrebbe non arrivare mai. Anche i sette documenti però sono stati visionati dalla Procura per verificare se contenessero potenziali notizie di reato, o comunque elementi utili alle indagini. È stato valutato di no, perciò i fascicoli sono rimasti alla Difesa.
La storia dell’inchiesta di Ustica è piena di valutazioni frettolose. Di piste sbagliate, di piste sottovalutate. E di carte fatte sparire, come forse è capitato alla relazione del Sismi del 1986 che il maresciallo Dioguardi lesse e di cui ricorda tutti i dettagli.
Su La Stampa.
Estratto dell'articolo di lastampa.it il 20 giugno 2023.
«Ora è assolutamente certo che l'aereo è esploso per una bomba collocata nella toilette di bordo, adesso i magistrati devono andare a scoprire chi ha messo quella bomba. Si aprono tante piste tra cui quella della minaccia di rappresaglia che Arafat e il fronte nazionale della Palestina avevano portato avanti richiamandosi all'accordo in base al quale secondo loro potevano far passare armi impunemente dal nostro Paese e in cambio non avrebbero fatto attentati».
Lo ha detto l'ex senatore Carlo Giovanardi a Cusano Italia Tv, in merito a quanto accadde il 27 giugno del 1980, quando il Dc-9 dell'Itavia esplose in volo precipitando in mare nei pressi dell'isola di Ustica, provocando la morte di 81 persone tra passeggeri e membri dell'equipaggio.
Relativamente all'ipotesi che l'aereo sia stato abbattuto durante una battaglia aerea tra Mig libici e velivoli da guerra della Nato, Giovanardi dice: «Chi parla di battaglie aeree non ha visto le carte e non le hanno viste perché incredibilmente, solo nel dicembre del 2022 col governo Draghi sono state depositate nell'archivio di Stato e quindi ne siamo in possesso. Nel carteggio che io come membro della Commissione Moro ho già potuto vedere.
Cioè dopo il sequestro dei missili ad Ortona e l'arresto di Abu Saleh che era il referente del fronte di liberazione della Palestina, il crescendo di minacce delle frange estremiste dei palestinesi che minacciavano una rappresaglia se non veniva liberato Abu Saleh, questi venne invece condannato e il 27 giugno al mattino parte il capogramma da Beirut del nostro addetto alla sicurezza dell'ambasciata che avvisa che siamo nell'imminenza dell'attentato, che scatta puntualmente con l'esplosione dell'aviojet» [...]
«Il processo penale - spiega ancora Giovanardi - è arrivato fino in Cassazione, ha assolto con formula piena tutti i generali dell'aeronautica che avevano rinunciato alla prescrizione e ha scritto nero su bianco nella sentenza penale passata in giudicato che quella della battaglia aerea è una trama degna di un film di fantascienza. Una sommatoria di balle che sono servite a fare film, a vendere canzoni, sceneggiati etc» […]
Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per “la Repubblica” il 26 giugno 2023.
Nel cielo italiano la sera del 27 giugno 1980 era in corso uno scenario di guerra. Aerei militari si incrociavano sul mar Tirreno decollando dalla base francese di Solenzara, una struttura dell’Armée de l’air situata in Corsica nel comune di Ventiseri vicina alla costa tirrenica dell’isola, e pure da una portaerei.
Ufficialmente non c’era alcuna esercitazione, ma il traffico è stato impresso dai radar e trascritto nei plot che fortunatamente gli inquirenti in questi anni sono riusciti a recuperare e analizzare. Ci sono le tracce dei caccia, ci sono le rotte, ma non si riesce ad avere ufficialmente la paternità di questo traffico sul cielo di Ustica che ha portato ad abbattere il Dc9 di linea Itavia che da Bologna stava raggiungendo Palermo, provocando 81 vittime.
A riscontrare questo scenario sono arrivate alcuni anni fa le dichiarazioni dell’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, il quale – anche se con notevole ritardo rispetto ai fatti - ha detto davanti ai giudici del tribunale civile di Palermo che a tirare giù il volo con i passeggeri erano stati i francesi. Svelò cosa seppe nell’imminenza della strage in qualità di presidente del Consiglio.
Nel 2010 aggiunse che il missile colpì l’aereo italiano per sbaglio e il vero bersaglio era un Mig su cui volava Gheddafi.
[…]
Le perizie hanno stabilito che l’aereo dell’Itavia è stato abbattuto dall’onda d’urto di un missile che è esploso a poca distanza dalla fusoliera. I periti hanno escluso la bomba a bordo. «Il giudice Priore scrive nella sua sentenza di cinquemila pagine che il Dc9 è stato abbattuto nel corso di una guerra aerea scoppiata attorno al Dc9. Lo scrive in base ad una serie di elementi» dice l’avvocato Gamberini.
[…]
Con le dichiarazioni di Cossiga è stata avviata l’inchiesta bis dalla procura di Roma, ancora aperta ma verso una richiesta di archiviazione. I magistrati hanno ottenuto dall’Aise, l’intelligence italiana che ha preso il posto del Sismi, il servizio segreto militare, copia di 32 documenti su cui era stato posto all’origine il segreto di Stato, da poco tempo rimosso. Si tratta di atti prodotti tra il 1979 e il 1982, che fanno parte di un più ampio archivio di documenti che riguardano i rapporti fra il Sismi e l’Olp, l’organizzazione per la liberazione della Palestina.
[…] nel settembre del 2020 la procura della Repubblica di Roma ha chiesto e ottenuto l’esibizione dei documenti. Negli atti, analizzati dai magistrati, che sono in gran parte le relazioni scritte dal colonnello Stefano Giovannone, nome in codice “Maestro”, capo del Sismi a Beirut dal 1972 al 1981, non si fa cenno alla strage di Ustica.
I documenti, che venivano inviati periodicamente al capo del Governo o ad alcuni ministri, ci dicono, invece, che i palestinesi con l’abbattimento del Dc9 non hanno nulla a che fare. In un cablo del 18 aprile 1980, inviato con priorità “urgente” a Roma e che aveva come oggetto “minacce Fplp”, a proposito di attentati palestinesi nei confronti dell’Italia, si legge: «Nessuna azione sarà comunque effettuata da Fplp confronti ambasciata Beirut, capo missione e personale tutto, nonché collettività ed interessi italiani in Libano, per rispetto e riconoscimento di quanto da noi fatto in Beirut nel reciproco interesse».
Il 24 aprile 1980 in una nuova nota al direttore del Sismi: «L’interlocutore con il quale ho parlato ha aggiunto che la dirigenza del Fplp ha ultimamente deciso che “nessuna azione sarà comunque effettuata dal “Fronte”» sottolineando «né prima né dopo il 15 maggio».
[…]
Dipanati i tentativi di depistaggio, i fatti documentati e riscontrati puntano sui caccia francesi, sulla responsabilità d’Oltralpe. I pm hanno interrogato alcuni avieri francesi, e hanno avuto conferma che in quella base in Corsica la notte del 27 giugno c’era un forte traffico aereo.
«L’inchiesta bis ha il compito di tirare le fila di una serie di elementi che dovrebbero dare un riscontro ulteriore della presenza della portaerei francese. Questo è quello che mi aspetto tirando le fila dell’ultima indagine, mi aspetto che si possa finalmente arrivare a dire chi c’era nel Tirreno e in volo», dice l’avvocato Gamberini […] Forse da Parigi è tempo che dicano qualcosa. […]
Estratto dell’articolo di Paolo Colonnello per lastampa.it il 3 settembre 2023.
A dispetto della prudenza di Giorgia Meloni («le parole di Amato meritano attenzione»), Stefania Craxi, presidente della Commissione Esteri e Difesa del Senato, non ha il minimo dubbio: quelle dell’ex presidente socialista del Consiglio Giuliano Amato, sono «un falso storico».
Per non parlare della chiamata in causa di suo padre Bettino Craxi, che Amato accusa di aver saputo fin da allora come andarono le cose, e cioè che il Dc9 dell’Itavia con a bordo 81 persone, precipitato nei cieli di Ustica il 27 giugno 1980, venne abbattuto per errore da un missile francese destinato in realtà all’allora premier libico Gheddafi, salvato proprio da una soffiata di Craxi che lo avvertì delle intenzioni omicide francesi.
Cosa ha pensato quando ha letto l’intervista di Amato su Repubblica sulla strage di Ustica?
«Sono sobbalzata sulla sedia: Amato mente per la gola, non so se per l’attutita capacità mnemonica o per dolo».
Addirittura?
«Guardi, mio padre definiva Giuliano Amato “l’extraterrestre” per la sua attitudine a parlare della Prima Repubblica come se fosse un periodo storico in cui lui aveva vissuto sulla luna».
Ma è così improbabile che suo padre avesse avvertito Gheddafi di un possibile attentato al suo aereo?
«Questo è un falso storico. Craxi avvertì sì Gheddafi di un attentato che il Dipartimento americano stava organizzando, ma sul territorio libico e soprattutto nel 1986! E non nell’80 come sostiene Amato. E aggiungo che mio padre fece bene nell’ottica di voler mantenere gli equilibri nel Mediterraneo, visto quello che successo dopo la morte di Gheddafi in Libia».
(...)
«Perché ho rintracciato persino un manoscritto di mio padre non certo destinato ai giornali ma alle sue memorie che spiega esattamente come fosse all’oscuro di quella faccenda».
Cosa c’è scritto?
«Spiega chiaramente come il giudice istruttore Rosario Priore ricevette aiuto dalla sua presidenza del Consiglio per recuperare il relitto dell’aereo e di come l’ipotesi di un missile scagliato contro un altro obiettivo militare fosse sconvolgente. Scriveva così: “Equivarrebbe a dire che una muraglia multinazionale di omertà avrebbe coperto per tanto tempo la verità dei fatti”».
(...)
«Invece è del 1990 circa. Priore aveva finito la sua istruttoria. Ma una prova definitiva non c’era. E le pare che se Craxi avesse saputo com’erano andate le cose avrebbe scritto così nei suoi appunti personali?» .
Torniamo all’intervista di Amato…
«Sì, un’intervista dove sembra che tutto il mondo sapesse come fossero andate le cose tranne che Amato».
Definisce suo padre “trasgressivo”. È così?
«Guardi, la verità è un’altra: Amato da sottosegretario alla presidenza del Consiglio condivise tutte le scelte e tutti gli atti dell’esecutivo a guida socialista, a cominciare dalle scelte di politica internazionale di Bettino che resero grande l’Italia in quel momento. Dopodiché vorrei ricordare che Craxi fu il presidente del Consiglio che fece stanziare i fondi per recuperare il relitto dell’Italicus su richiesta del giudice Priore».
Il quale sostenne nella sua istruttoria la tesi supportata ieri da Amato.
«Appunto, una tesi. Ma senza una prova definitiva. Quella di Priore era una convinzione personale, ne parlai con lui anni fa».
Lei perciò non crede a una responsabilità della Nato?
«Non si tratta di credere, ma di avere delle prove. Se ci sono, che Amato le tiri fuori».
Quindi niente scuse dalla Francia?
«Ripeto: prima di chiedere le scuse dei francesi sarebbe meglio avere in mano una prova provata. E trovo strano anche questo attacco a Macron che all’epoca aveva tre anni».
Il presidente Cossiga all’epoca raccontò che l’allora ammiraglio Fulvio Martini, capo del servizio segreto militare, gli disse di aver saputo della guerra aerea per far fuori Gheddafi e del missile francese…
«Direi che l’ammiraglio Martini era uomo di grande intelligenza e di altrettanto grandi fantasie».
Secondo lei perché l’ex presidente Giuliano Amato ha deciso di raccontare proprio ora questa storia?
«Me lo sono chiesta anch’io e non ne ho idea. Potrei rifarmi a una definizione che ne diede Craxi: Amato è un professionista a contratto. Non so in questo caso a quale contratto faccia fede…».
Strage di Ustica, l’ex ministro Rino Formica: “Nulla di nuovo sul piano storico. Amato poteva rivolgersi prima a Parigi”. «La destra vuole cambiare assetto istituzionale e non servono garanti. La Francia sta subendo una campagna internazionale forsennata e l’Europa non ha bisogno di divisioni». FABIO MARTINI su La Stampa il 05 Settembre 2023
Il giorno in cui il Dc9 dell’Itavia si dissolse sul cielo di Ustica, Rino Formica era ministro dei Trasporti, dalle prime ore cercò di capire cosa mai fosse avvenuto, diversi indizi lo portarono presto ad avvalorare l’ipotesi di un missile francese e tuttavia ora che Giuliano Amato si è rivolto al presidente Macron per chiedere alla Francia le scuse, il più anticonformista dei “reduci” della Prima Repubblica, è severo col suo ex compagno di partito, ai tempi socialista come lui: «Giuliano Amato in questi 40 anni ha avuto molte occasioni per rivolgersi alle autorità francesi e lo fa oggi, chiedendo un atto di confessione pubblica di responsabilità, che ricorda il messaggio di Paolo VI ai sequestratori di Moro: “Vi supplico, pentitevi”…».
Ma per certe ammissioni, non è mai tardi, non pensa?
«Le mie riserve sono due. Una di carattere europeo: la Francia in questo momento sta subendo una campagna internazionale forsennata e l’Europa non ha bisogno di divisioni. La seconda riguarda l’Italia: attenzione perché siamo alla vigilia di una fase nella quale la destra si prepara a chiudere una pagina della storia della Repubblica. Vuole una nuova Costituzione, passando da una Repubblica parlamentare ad uno Stato presidenziale. Rispetto a questo disegno, non abbiamo bisogno di garanti della transizione, ma semmai dobbiamo far quadrato attorno al presidente Mattarella».
Partiamo da quei giorni del 1980: della strage di Ustica si parlò in Consiglio dei ministri?
«Parlare, non se ne parlò. Per una ragione molto semplice: la questione fu rimessa alla Commissione tecnica ed amministrativa istituita per l’accertamento delle responsabilità in merito all’efficienza e alla vigilanza. Poi la questione passò all’autorità giudiziaria».
Spesso, a caldo, si percepiscono e si apprendono cose che negli anni finiscono per dissiparsi. Andò così?
«Sì. Con una differenza tra la sfera politica e quella amministrativa. Tutti i gruppi parlamentari sposarono la tesi del cedimento strutturale. Io, come responsabile del Ministero che al suo interno aveva il Registro aeronautico, che era l’ente abilitato alla vigilanza dei velivoli, mi rivolsi al generale Rana, che allora lo presiedeva. Era un eccellente ufficiale dell’Aeronautica, una persona altamente affidabile. Tra l’altro era un socialista, era stato anche pilota di Nenni, ma dovetti dirgli subito una cosa molto chiara».
E cioè?
«Gli dissi: generale, se ci sono responsabilità sia pure indirette da parte dell’ente, io ti dovrò sostituire».
E lui?
«Mi disse: ti posso assicurare che la vigilanza è stata completa. A suo parere non c’era la previsione di una causa ascrivibile al cedimento strutturale, perché da un rilievo delle registrazioni radar, che mi mostrò, risultava che attorno all’aereo c’erano dei puntini che denotavano il segno di un’esplosione. E concluse, sostenendo di non poter escludere l’impatto con un corpo esterno, anche con un missile. Questo mi portò a pensare che ci potesse essere stato uno scontro armato. Raccomandai che il generale deponesse davanti alla Commissione che, due mesi dopo, escluse il cedimento strutturale, affacciando l’ipotesi del missile».
Di Ustica lei parlò mai col presidente del Consiglio Cossiga che più tardi si sarebbe detto convinto del missile francese?
«Ad ottobre ci fu la crisi di governo, ma Cossiga mi anticipò le sue ipotesi in una conversazione privata, come ho raccontato all’autorità giudiziaria».
Ma perché tanta sorpresa per le dichiarazioni del presidente Amato? Lei in particolare è d’accordo con lui pure sulla “matrice”…
«L’uscita di Amato non aggiunge nulla sul piano storico. Non introduce una novità documentale. E anche sul piano giornalistico non aggiunge nulla a cose dette e stradette migliaia di volte e ripetute dallo stesso Amato in diverse circostanze».
Appunto…
«C’è qualcosa che provoca turbamento e spinge a riflettere: perché si apre la questione delle responsabilità dirette della Francia, rivolgendosi direttamente e proprio ora al presidente Macron? E poi c’è una questione di politica italiana che induce alla massima vigilanza. Stiamo entrando in una fase nella quale il centrodestra si prepara a chiudere una pagina della storia nazionale, la storia della Repubblica fondata su una Carta costituzionale che fu concepita in chiave di separazione e antagonismo con i totalitarismi e i fascismi. La destra dice: facciamo una nuova Italia, passando da una Repubblica parlamentare ad uno Stato presidenziale, non sappiamo quanto democratico».
Ma eventualmente questo vuole il centrodestra. Cosa c’entra Amato?
«Il dottor Sottile fu chiamato così per il rigore formale e logico del ragionare e per l’abilità di trasformare i vizi delle classi dirigenti in virtù. Si può immaginare che ci sia bisogno di garanti, in una fase di trasformazione e di superamento degli attuali assetti istituzionali? Potrebbe servire un De Nicola 2, il garante nella fase di passaggio tra lo Stato monarchico Statutario e lo Stato repubblicano costituzionale».
Ammesso e non concesso che possano servire dei garanti, lei pensa che la probabile recessione porterà il centrodestra a farle davvero le riforme istituzionali?
«Penso che gli italiani debbano far quadrato attorno al presidente Mattarella. Siamo in una situazione a forte rischio per i deficit del governo e delle opposizioni e non possiamo assolutamente permetterci un caos istituzionale. Penso che abbiamo bisogno di un quadro istituzionale stabile. Giocare con le istituzioni è di per sé sacrilego, ma diventa pericoloso immaginare di farlo con istituzioni in crisi».
Su Openonline.it
L’ex maresciallo Dioguardi: “Lessi il dossier Sismi con due versioni su Ustica, so come trovarlo. Mi fecero distruggere documenti”. Fabio Tonacci su La Repubblica il 15 Settembre 2023
Intervista al sottufficiale dell’Aeronautica in pensione: “La notte della strage ero nella sala operativa di Milano, ci convocarono la mattina dopo per imporci il silenzio.”
Il vuoto di verità sulla tragedia di Ustica è una storia di documenti che mancano. Alcuni nascosti, altri distrutti, altri ancora, cruciali, potrebbero essere chiusi in archivi di Stato che nessuno ha aperto. “Io so come trovarli”, sostiene oggi il 62enne Giuseppe Dioguardi, maresciallo dell’Aeronautica in pensione che ha lavorato nelle segretaria particolari di quattro ministri della Difesa (Lagorio, Spadolini, Gaspari e Zanone).
Il maresciallo che ha distrutto documenti su Ustica: «C’è una relazione del Sismi con due versioni sulla strage». di Alessandro D’Amato e Redazione su Open online.it il 15 Settembre 2023
Giuseppe Dioguardi era nella sala operativa della Prima Regione aerea nel giorno della strage
Giuseppe Dioguardi, maresciallo dell’Aeronautica in pensione, ha lavorato nelle segreterie di quattro ministri della Difesa (Lagorio, Spadolini, Gaspari e Zanone). E oggi in un’intervista a la Repubblica sostiene di aver avuto per le mani due dossier del Sismi, il servizio segreto militare, riguardo Ustica. E aggiunge nel colloquio con Fabio Tonacci anche di aver distrutto documenti riservati. Forse proprio su Ustica, anche se non conferma il dettaglio perché ha testimoniato in procura a Roma. Su Giuliano Amato dice che «finalmente ha detto le cose come stanno. Era sottosegretario alla presidenza del Consiglio quando circolò una relazione del Sismi su Ustica. Non è uno che parla a caso». Quel dossier venne prodotto dall’ammiraglio Martini, che allora era a capo dell’intelligence militare.
La cartellina di pelle
«Il 17 giugno 1986 il capo di gabinetto della Difesa mi chiese di prendere una cartellina di pelle dal suo ufficio a palazzo Baracchini e di portarla con urgenza a Pian dei Giullari perché Spadolini doveva leggerla, controfirmarla e inoltrarla a Craxi. Fui scortato da due carabinieri. Spadolini mi accolse in vestaglia rossa. Aprì la cartella, lesse e si arrabbiò…», ricorda oggi Dioguardi. «Mi disse: ‘ricordati, caro Giuseppe, non c’è niente di più schifoso di quando i generali vogliono fare i politici’. Ripeteva: ‘Guarda, guarda le puttanate che hanno scritto!’ Poi fece una telefonata a Craxi alla fine della quale, senza convinzione, controfirmò le otto pagine del Sismi», aggiunge. Nella relazione «tra le altre cose si parlava di due Mirage francesi in volo, di un Tomcat americano, di Mig libici…Non posso rivelare nel dettaglio il contenuto, perché è oggetto di una deposizione di dodici ore che nel 2011 ho rilasciato ai pm di Roma. È coperta da segreto istruttorio. Posso però dire che il Sismi aveva messo nero su bianco due versioni: la prima ricostruiva quanto accaduto la notte del 27 giugno 1980 sulla base degli elementi a disposizione dell’intelligence, la seconda era la versione di comodo che il Sismi suggeriva alle istituzioni di rendere pubblica».
La relazione
Secondo Dioguardi la relazione non è stata distrutta. Il maresciallo ricorda che ogni documentazione classificata rimane all’interno delle segreterie. E di questa c’erano cinque copie in giro: «L’originale, una minuta e un minutario rimasti nell’archivio del Sismi, poi una quarta copia presso la segreteria speciale al ministero della Difesa e l’ultima alla segreteria speciale della presidenza del Consiglio». Si può ancora trovare negli archivi della presidenza del consiglio e della Difesa. Ma Dioguardi spiega anche che è difficile a causa di una circolare: «Tra il 1982 e il 1988 lo Stato maggiore dell’Aeronautica emanò una circolare interna: ordinava a tutti i reparti di non usare la parola ‘Ustica’ nei documenti ufficiali. Al massimo si poteva scrivere ‘noto evento’ o ‘noti fatti’. Lo scopo era rendere quelle carte meno interessanti per hiunque ne fosse venuto in possesso. E anche più complicate da ritrovare, una volta archiviate».
L’Italia e la Francia
Mentre l’Italia deve chiedere alla Francia «i piani di volo dei Mirage decollati quella notte. Lì dentro c’è tutto: orari, scopo della missione, quantitativi di carburante usati». Il maresciallo ricorda di aver distrutto documenti riservati: «Mi è stato ordinato e l’ho fatto fino al 2004. Nel 2008 ho lasciato l’Aeronautica». L’ha fatto «nelle basi militari di Pantelleria, Crotone, Alghero e all’aeroporto di Comiso quando venne chiuso per trasferire gli archivi cartacei alla base di Sigonella. A Pantelleria andai nel weekend dopo l’orario d’ufficio, c’era poca gente in giro». Non vuole dire se fossero documenti su Ustica. Ma a giudicare dai luoghi, tutti collegati alla strage, parrebbe proprio di sì.
La sera del 27 giugno 1980
Infine, Dioguardi racconta cosa stava facendo la sera del 27 giugno 1980: «Per caso mi trovavo nella sala operativa della Prima Regione aerea, in piazza Novelli a Milano. Avevo vent’anni, lavoravo nell’ufficio del personale ed ero andato a trovare un collega di turno. Sentii tutte le comunicazioni telefoniche tra i comandi delle tre Regioni aeree italiane, e i messaggi classificati della Soc, la Sala operativa dello Stato Maggiore, che venivano decriptati e letti nella sala». Di quella sera ricorda che «la sparizione dal radar del Dc9 fu anticipata di dieci minuti dal segnale di allarme aereo nazionale inviato dai due F-104 italiani. In gergo tecnico, avevano squocciato. Per una notte l’allerta venne alzato al massimo livello in tutte le basi italiane. I due velivoli avevano incrociato il Dc9 sui cieli tra Bologna e Firenze, poi erano atterrati a Grosseto. Non si capiva cosa fosse successo all’aereo civile.
La frase del generale
Il racconto prosegue: «La mattina dopo, alle 8.30, il generale Mura, che guidava la Prima Regione aerea, convocò tutti coloro che erano ella sala operativa. Ci disse che avremmo dovuto mantenere massimo riserbo. Aggiunse una frase indimenticabile». Ovvero: «Disse: “Sono cose che possono succedere, capiremo chi ha abbattuto cosa”».
Su L’Identità.
Giovanardi: “Ustica profanata. Si continua a diffondere un racconto di fantasia”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 29 Luglio 2023
“Su Ustica si continua a diffondere un racconto di fantasia, facendo passare per vere delle balle e screditando uomini, che invece dovrebbero essere ricordati in positivo. I media ancora non hanno capito o fanno finta di non capire cosa è successo. Ecco perché abbiamo diffidato La 7”. A dirlo Carlo Giovanardi, ex ministro ed esperto conoscitore della questione.
Perché “Il Muro di Gomma” ha riaperto un dibattito così acceso?
Il problema è che dal 1991, i film, gli sceneggiati, le canzoni e le fiction hanno provato a convincere gli italiani che siamo davanti a un mistero, che c’è stata una battaglia aerea, che ci sono dei generali traditori, che è avvenuto quanto raccontato nel “Muro di Gomma”. Argomenti su cui appunto Purgatori ha costruito una carriera. Dall’altra, parte, invece, c’è la realtà.
Quale?
Quella dei processi, delle sentenze, delle perizie. Questi hanno accertato che è esplosa una bomba, assolvendo da ogni responsabilità tutti i generali. Veltroni, che parla di missile, può spiegarmi dove ha trovato un elemento a favore della battaglia aerea?
Come fa a dirlo?
Non ho seguito le cose al bar sport. Ero al governo e come ministro su Ustica ho riferito al Parlamento. Quattro anni fa sono stato chiamato dal premier Conte che mi ha fatto diffidare a rendere note le carte riservate che avevo consultato rispetto a possibili minacce palestinesi. Agli stessi parenti delle vittime è stato detto che quella documentazione non doveva essere conosciuta per tutelare l’interesse nazionale. Solo con Draghi, un anno fa il governo ha cambiato parere e quindi quasi tutto è consultabile all’Archivio di Stato.
Perché quasi tutto?
L’Italia, come tutti i Paesi europei, alla fine degli anni 70, quando si trattava di evitare stragi terroristiche, arrivava a compromessi con la resistenza palestinese per non avere attentati in casa.
Siamo, quindi, di fronte a un depistaggio…
Assolutamente! Mi riferisco, appunto, alle balle inventate da Purgatori e altri, che hanno finito per nascondere la vera storia di Ustica.
Purgatori, però, in passato è stato querelato…
Lo sceneggiatore, devo essere sincero, è stato sempre onesto. Per difendersi dalle querele ha sempre parlato in sede giudiziaria di rappresentazione artistica, ovvero di un qualcosa che si basa sulla fantasia. Non ha mai parlato di ricostruzione storica-documentaria. Le presidentesse dell’associazione per la Verità su Ustica Flavia Bertolucci e Giuliana Cavazza hanno chiesto soltanto che si dicesse prima del film che il contenuto non corrispondeva alla realtà dei fatti. Non solo La 7 ha scelto di non dirlo, ma addirittura Luca Telese ha messo l’accento sul lungo e travagliato cammino giudiziario, senza ricordare che è stata accertata tecnicamente nel processo penale l’esplosione di una bomba ed esclusa dalla Cassazione penale ogni ipotesi di battaglia aerea.
Gli stessi familiari delle vittime, comunque, talvolta hanno raccontato altro…
La ricerca della verità, comunque, va oltre il dolore. Spesso mi chiedo perché la strage di Bologna, dove è esplosa una bomba sia considerata una tragedia, mentre un aereo esploso per la stessa causa no.
Come pensate di comportarvi, adesso, con La 7, che a vostro parere ha commesso un errore?
Le due presidentesse hanno fatto una diffida formale in cui hanno invitato a non trasmettere il film se non preceduto dalla comunicazione che tutti gli ufficiali dell’Aeronautica Militare a cui si allude sono stati assolti dalle accuse nei loro confronti perché il fatto non sussiste dopo aver fatto appello alla sentenza di prescrizione. Deve essere chiaro, per non continuare ad alimentare campagne diffamatorie, che la trama del film è fantasia, come ammesso dallo stesso sceneggiatore e non bisogna invece diffondere versioni create ad arte. Bisognerebbe indagare su altro.
Su cosa?
Su chi ha messo la bomba, sull’esistenza del famoso lodo Moro e sulle dinamiche del terrorismo palestinese che in quel drammatico 1980 aveva più volte minacciato l’Italia perché teneva in carcere Abu Salek, arrestato ad Ortona per il trasporto dei famosi missili terra-aria.
Perché si è esitato?
Fino al governo Renzi neanche i magistrati avevano potuto accedere al carteggio, figuriamoci i giornalisti e le persone comuni. Ecco perché oggi circolano tante menzogne. La verità è un’altra, ovvero che dietro a questa leggenda della battaglia aerea si nasconde il tentativo di coprire le responsabilità del terrorismo palestinese.
Il suo intento, quindi, era creare morte e distruzione?
Analizzando le carte, mi sono fatto un’idea. Ritengo che la bomba doveva esplodere quando l’aereo, che purtroppo aveva due ore di ritardo, sarebbe già stato parcheggiato da tempo a Palermo. Si è trattato di un avvertimento, che probabilmente ha avuto conseguenze più tragiche di quelle previste.
Estratto dell’articolo di Luca Bottura per “OGGI” il 24 giugno 2023.
Il 27 giugno 1980, alle 20.59, un missile abbatteva sui cieli di Ustica il Dc9 Itavia I-TIGI in volo da Bologna a Palermo, uccidendo 81 persone. Sparato da chi? Un Mirage francese oppure da chi altro? Il bersaglio era un Mig libico ritrovato settimane dopo in Calabria? Lo Stato italiano non collaborò, diciamo così, alle indagini.
La verità, emersa a frammenti subito dopo lo schianto, è solo in parte stabilita da decenni di processi. Nella base Nato del Monte Venda (Padova) era in servizio Enrico Bertolino: comico, attore, formatore. Soprattutto amico mio. Questo è il suo racconto.
Come mai eri lì?
«Mio padre aveva corrotto un maresciallo per farmi fare la leva in Aeronautica. Roba da poco, allora si mandavano le piante. Ma mi sa che avesse sbagliato pianta, magari era una graminacea. Così diventai controllore di volo nelle viscere del Monte Venda, dalle parti di Vo’ Euganeo. La base è stata smantellata a fine anni Novanta, anche per un piccolo problema». […]
Come si esplicitava il nonnismo?
«Ricordo un certo Barbero, di Torino: un nonno gli diede fuoco dopo averlo cosparso di alcool perché insisteva a voler finire una partita a Pacman. Altri aspettavano le reclute truccati come i Kiss, quel gruppo musicale con le facce bianche e nere, di notte. Gli facevano fare delle flessioni sulle turche, rompendo delle bottiglie e facendogli mettere le mani sui vetri e con la faccia dentro alla turca».
Lo segnalavi?
«Lo segnalavo. Gli ufficiali mi rispondevano: “Va bene, ne prendiamo atto”. E basta: usavano gli anziani della caserma per sbrigare le incombenze noiose». […]
Com’era strutturata la base?
«Era un luogo nevralgico con centinaia di addetti, aveva la responsabilità della difesa aerea fino a Roma. Fu anche il primo focolaio di ribellione dei controllori di volo militari che volevano essere “civilizzati”. Per far rientrare lo sciopero telefonò anche Pertini, ma al centralino c’era un aviere bresciano che si esprimeva a suoni gutturali, spesso vittima di scherzi da parte dei “nonni”. Alzò la cornetta: “Sono il presidente Sandro Pertini, voglio parlare con il generale Vittoriano Cecchini”. E lui: “Sempre ‘sti scherzi de merda. Io sono Felice Gimondi, va’ a dar via il cü”. Prese venti giorni di consegna».
Chi eri a vent’anni?
«Ero senza arte né parte. Lasciai una fidanzata, come tutti. Ma ero contento di non fare la coda al telefono a gettoni. Uno che fu abbandonato a distanza, Pedrazzini, tornò in camerata e bevve una bottiglia di Vecchia Romagna. Andò in coma etilico».
Sembra il bar di Guerre Stellari.
«Era il disagio degli anni Ottanta. C’era uno di Bologna che fumava canne a ripetizione. C’era l’eroina… A Macerata, durante l’addestramento, incontrai un tenente che portava il cappello da nazista: “Oggi purtroppo la guerra non c’è ma, se arrivasse, vi farò pisciare cherosene”». […]
Quella sera dov’eri?
«Nel tunnel, pronto per montare in servizio. All’improvviso gli ufficiali si chiudono dentro e comunicano: “Ragazzi, stasera qua sotto non entra nessuno”. C’era un tenente colonnello che si esprimeva a monosillabi e buttava giù il telefono. Fibrillazione. Dopo un po’ ci dicono: “Prendete il pullman e portatevi giù alla base”. E io: “Ma come, devo fare il mio turno”. E loro: “Tutti via, tutti via”».
Reazione?
«“Che culo, stanotte si dorme”. Però poi, sapendo che quel che era successo, ci dicemmo che qualcosa non quadrava». […]
Ustica, Giovanardi: “Amato rettifichi o smentisca. Per delle balle si rischia un incidente diplomatico con la Francia”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 2 Settembre 2023
CARLO GIOVANARDI, POLITICO
“Rilanciare balle cosmiche su Ustica, diffondendo una versione diversa da quella raccontata un ventennio fa sotto giuramento è un grave errore. Così si rischia un incidente diplomatico con la Francia in un periodo già difficile per l’Europa e la guerra russo-ucraina. Amato rettifichi subito o smentisca”. A dirlo Carlo Giovanardi, ex ministro ed esperto conoscitore della questione.
Perché ritiene che l’intervista rilasciata da Giuliano Amato a Repubblica corrisponda a un racconto di fantasia?
Amato quando venne interrogato al processo contro i generali dell’aeronautica disse che quella del missile era una sua ipotesi personale e aggiunse che se si fosse trattata di bomba era difficile trovare chi l’aveva messa, ma se invece era un missile dovevano essere stati gli italiani o i libici o i francesi o gli americani. Amato, sollecitato dalle prime commissioni d’inchiesta che avevano fatto queste due ipotesi, aveva spiegato come solo con il recupero in fondo al mare dei resti dell’aereo sarebbe stato possibile dare una risposta in merito. Mi risulta, quindi, stranissimo che non abbia detto neanche una parola di quanto spiegato dettagliatamente un ventennio fa.
Perché ritiene che la versione del missile sia errata?
Il problema è che nella perizia tecnica scritta da 11 dei più famosi periti mondiali (due tedeschi, due inglesi, due svedesi e cinque italiani con a capo il presidente Misiti), all’unanimità e senza alcun’ombra di dubbio, è stato accertato che una bomba ha fatto esplodere l’aereo. I generali, infatti, sono stati tutti assolti con formula piena dopo aver rinunciato alla prescrizione dall’accusa di tradimento. Nel processo penale, poi, è stato spiegato a chiare lettere come la battaglia aerea era un’ipotesi da fantascienza o degna della trama di un film giallo.
Cosa ha fatto Giovanardi affinché passasse questa verità?
Il sottoscritto, a nome del governo italiano, rispondendo in Parlamento su Ustica, ha letto due lettere personali: la prima del presidente Clinton e la seconda del presidente Chirac. I due, sul loro onore, dichiaravano di non c’entrare nulla con l’incidente, richiamando le 36 rogatorie con cui americani e francesi avevano risposto alle nostre autorità giudiziarie. Quest’aspetto, d’altronde, è stato lo stesso Amato a ricordarlo sotto giuramento. Non è un caso che nessun governo o meglio ancora nessuno abbia mai smentito quanto da me riferito in aula. Nessun presidente del Consiglio italiano, negli ultimi 20 anni, invece, ha mai sollevato quanto riferito da Amato a Repubblica, né a Parigi, né a Washington.
La posizione di Amato si basa, quindi, su ipotesi personali?
È tutto ipotetico quanto viene detto da Amato. Non viene citato alcun dato, nessuna perizia. Si tratta soltanto di supposizioni. Spero sia stato frainteso. Altrimenti c’è da domandarsi perché non parli delle carte, quelle vere.
A cosa si riferisce?
Alla documentazione che spiega nei dettagli quanto accaduto dopo l’arresto di Abu Saleh, il referente dell’Olp a Bologna, ovvero quelle carte, oggi consultabili da tutti, grazie ai governi Draghi e Meloni. In quei fogli s’evince a chiare lettere come frange estremiste palestinesi, dopo l’arresto del loro leader per il trasporto dei famosi missili terra-aria ad Ortona, avevano fatto pressioni sul governo italiano, minacciando rappresaglie con vittime innocenti. A lanciare l’ultimo allarme, la mattina della tragedia era stato il colonnello Stefano Giovannone, il referente dei nostri servizi a Beirut. La sera, poi, sappiamo tutti quello che è successo. È incredibile, pertanto, come di tutto ciò non ne parli nessuno, mentre invece improvvisamente ricominciano depistaggi che non tengono conto né delle perizie, né delle sentenze, ma piuttosto di ricostruzioni ridicole come quella dell’aereo che cadde sulla Sila venti giorni dopo Ustica. Mi dispiace che di nuovo vengono messe in giro delle balle. Da una parte, infatti, ci sono perizie, sentenze, dichiarazioni del governo, atti desecretati e consultabili. Dall’altra parte solo un festival di ipotesi e supposizioni avanzate dopo un ventennio da chi sotto giuramento non aveva detto una parola di quanto affermato oggi.
Tutto ciò, intanto, non rischia di compromettere i rapporti tra il nostro Paese e un alleato fondamentale?
In un momento delicatissimo per l’Europa, la Nato e soprattutto durante un conflitto in corso sul nostro continente tra Ucraina e Russia, si crea un incidente diplomatico con i nostri alleati francesi. Considerando che non c’è nulla che certifica quanto detto da Amato nell’intervista a Repubblica, mi aspetto arrivi subito rettifica o almeno una smentita. Altrimenti si mette in ridicolo l’Italia al di là dell’appartenenza a questo o quel partito.
Ustica, l’appello delle vittime: “Basta verità costruite ad arte”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 6 Settembre 2023
Basta diffondere verità costruite ad arte. È il messaggio venuto fuori dall’ultima conferenza stampa organizzata dall’associazione per le vittime di Ustica. Nel confronto, tenutosi presso la Sala Nassirya di Palazzo Madama, non sono mancate le bordate verso l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato.
Il giurista, sulle colonne del quotidiano “La Repubblica”, aveva presentato una propria versione rispetto alla strage avvenuta nel 1980, puntando il dito contro i vicini francesi. Un racconto, però, che in poche ore, aveva scatenato l’ira di chi non la pensava allo stesso modo e che per anni ha visto con scetticismo la ricostruzione conosciuta in tutto il mondo grazie alla pellicola del regista Purgatori. Tra questi anche i parenti delle vittime, che nel pomeriggio di ieri hanno voluto dire la loro rispetto a tutto ciò.
Ad aprire il tavolo dei lavori è stato il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri. Il dirigente di Forza Italia ha ribadito come “qualcuno ci ha fatto una fortuna sui muri di gomma. Tornata di nuovo la storia del missile, quella che raccontata in un determinato modo, ha confuso Craxi tra l’80 e l’86. Nella famosa sera del 27 giugno, nel Mediterraneo, c’erano centinaia di persone, aerei, navi e radar. Nessuno, però, ha mai tracciato un missile. Siamo di fronte a un complotto planetario. Ho letto affermazioni contro la verità giudiziaria, ma la vita ha la storia e i cantastorie”.
Dello stesso parere Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione Verità per Ustica, che nella misteriosa esplosione ha perso la mamma. “Ritengo gravissime – ha spiegato ai giornalisti – le affermazioni di Amato. Le sue accuse fanno fare un passo indietro sulla ricerca di trent’anni. Sono state, d’altronde, smentite in maniera inconfutabile. Chi veramente sentirà l’urgenza morale di fare giustizia sulle vittime lo farà usando la sua influenza per stimolare la ricerca della verità, non per rivangare bugie. La verità va servita e non asservita alle proprie idee. Io non faccio parte di nessun partito politico, non ho fatto nessuna carriera a seguito di questa vicenda e non ho nessuna linea da seguire o a cui obbedire. In avvenimenti come questi si forma una memoria collettiva, ma c’è anche una privata e nel mio caso non collima affatto con la prima, soprattutto con chi si autoproclama il depositario e l’unico alfiere della verità”.
A spiegare, nei dettagli, tutto quanto è stato scritto e detto sul caso Ustica è Gregory Alegi, storico militare e docente presso l’Università Luiss. “Basta inventare – ha ribadito nel suo intervento – cose che non esistono, come i missili a risonanza. Ci sono delle evidenze tecniche per accertare la pista della bomba. Non pretendiamo che tutti ci diano ragione, ma neanche possiamo inginocchiarci dietro a quanto diffuso dalla pellicola di Purgatori o da altri contenuti romanzati. Su Ustica, infatti, mancano solo gli ufo, anzi pure su questo c’è stato qualcuno che ha scritto dei libri. Chiedo, pertanto, solo che le cose siano raccontate come sono andate veramente e non come vorrebbero che fossero andate. Bisogna distinguere i fatti dalle interpretazioni, concentrarsi sui punti caratterizzanti della vicenda. Il resto è chiacchiericcio. Non c’è bisogno di moltiplicare le cose. Quale è la ragione di produrre versioni infondate?”.
Per Gregorio Equizi, avvocato del generale Franco Ferri, a dimostrare la falsità di quanto diffuso da Amato a Repubblica ci sono soprattutto le carte dei vari processi. Queste per il legale dimostrano che quanto sostenuto dall’ex premier è privo di ogni fondamento. Nonostante ciò, l’esperto di diritto crede nell’operato della magistratura e spera che quest’ultima possa fare quanto prima luce sul mistero. Una buona notizia, intanto, è stata diffusa dal tribunale competente. Si terrà all’inizio della prossima settimana un vertice a Roma tra il procuratore capo Francesco Lo Voi e i pm Michele Prestipino e Erminio Amelio per fare il punto sulle indagini dopo le dichiarazioni di Amato in merito alla strage di Ustica. Nel corso del vertice si deciderà se convocare l’ex premier in qualità di persona informata dei fatti.
A leggere la nota, diffusa dalle agenzie, nella conferenza è stato lo stesso Gasparri, il quale però è stato anticipato da Carlo Giovanardi, ex ministro ed esperto conoscitore della questione, indisponibile ad accettare altri racconti oltre quello della bomba. “I generali – ha chiarito – sono stati assolti e gli Usa e i francesi ci hanno già risposto. Amato, quindi, ha detto delle menzogne e se ci sono estremi per parlare di diffamazione, allora è nostro dovere tutelarli, anche attraverso strumenti giudiziari”.
Su L’Indipendente.
Dopo 43 anni l’ex premier Amato svela: strage di Ustica causata da un missile francese. Stefano Baudino su L'Indipendente sabato 2 settembre 2023.
Ad abbattere il DC9 precipitato ad Ustica il 27 giugno 1980 sarebbe stata, con la complicità degli Stati Uniti, l’aviazione francese, che aveva l’obiettivo di colpire un Mig libico su cui avrebbe dovuto essere presente Muammar Gheddafi. Lo sostiene, in un’intervista a Repubblica, l’ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato, il quale aggiunge che, secondo quanto ha appreso negli anni, la massima autorità libica sarebbe stata convinta a non salire sul suo aereo dal leader socialista Bettino Craxi. Che, secondo Amato non rese pubblica la verità perché «sarebbe stato incolpato di infedeltà alla Nato» e di «spionaggio in favore dell’avversario».
In merito alla strage di Ustica, «la versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno». È questa la convinzione dell’ex premier Amato, il quale, senza giri di parole, spiega come sarebbero andate le cose: «Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. E il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario». Secondo Amato, sia la tesi del cedimento strutturale dell’aeromobile, sia quella del cedimento interno a causa di un ordigno riferita dalle alte gerarchie militari italiani allo stesso Amato quando, da Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, fu investito della questione, sarebbero solo «falsità». Insomma, la nostra aeronautica sarebbe stata «schierata in difesa della menzogna», perché dietro alla tragedia vi sarebbe stato «un segreto che riguardava la Nato».
Ma Amato va oltre, parlando apertamente del ruolo che l’ex premier Bettino Craxi avrebbe giocato nella vicenda: «Avrei saputo più tardi, ma senza averne prova, che era stato Bettino ad avvertire Gheddafi del pericolo nei cieli italiani», avendo forse «ricevuto qualche soffiata». «Craxi era insofferente alle mie perplessità sulle tesi dei generali – aggiunge ancora Amato -. Andavo da lui per avere sostegno sui fatti che secondo me le smentivano e lui mi diceva senza mezzi termini che dovevo evitare di rompere le scatole ai militari. Poi mi faceva fare, perché questo era il nostro rapporto. Ma non era contento». Craxi, secondo Amato, «non aveva certo interesse che venisse fuori una tale verità: sarebbe stato incolpato di infedeltà alla Nato e di spionaggio a favore dell’avversario. In fondo è sempre stata questa la sua parte. Amico di Gheddafi, amico di Arafat e dei palestinesi: uno statista trasgressivo in politica estera». Amato ha le idee molto chiare: la politica non ebbe la forza di imporsi sugli apparati che, negli anni, hanno occultato la verità, perché «chiarire subito questa faccenda» avrebbe significato «o che i politici erano stati complici di un delitto orrendo» oppure «che l’apparato della Nato poteva decidere un atto di guerra in tempo di pace senza prendersi la briga di avvertire il ministro della Difesa, violando palesemente la nostra sovranità nazionale».
La strage di Ustica rappresenta uno dei principali episodi irrisolti della storia italiana. Quel giorno di giugno, in piena Guerra Fredda, un aereo DC9 Itavia partito da Bologna alla volta di Palermo, arrivato nei pressi dell’isola, scomparve misteriosamente dai radar. Il giorno seguente, riaffiorarono in mare i detriti del velivolo insieme ai corpi di alcuni passeggeri. Erano in tutto 81: nessuno si salvò. Dapprima si parlò di un cedimento strutturale del mezzo Itavia, poi di un attentato, infine di una bomba nascosta nella toilette del velivolo ed esplosa durante il viaggio. Tre settimane dopo, il 8 luglio 1980, verrà ritrovata sui monti della Sila, in Calabria, la carcassa di un caccia militare libico. La perizia medica sulla salma dell’aviere libico, ricorda lo stesso Amato, «parlava espressamente di avanzato stato di putrefazione» dunque «non poteva essere morto il giorno prima», come invece affermato dalle ricostruzioni ufficiali. Secondo Amato, «avendo intuito il pericolo di tutto quel movimento in cielo, il pilota del Mig s’era nascosto vicino al DC9 per non essere colpito», ma «tutte le evoluzioni aeree impreviste provocarono l’esaurimento del carburante, per cui il velivolo cadde sulla Sila per mancanza di cherosene». Un’altra versione racconta che il Mig sarebbe stato colpito dal missile francese e il DC9 sarebbe stato travolto dalla deflagrazione, «ma questa tesi mi convince di meno», chiude Amato. Il relitto del DC9 rimase sul fondo del Tirreno per anni, venendo recuperato solo nel 1987.
Nel maggio 1992, i generali ai vertici dell’Aeronautica all’epoca dei fatti furono incriminati per alto tradimento, dal momento che, «dopo aver omesso di riferire alle autorità politiche e a quella giudiziaria le informazioni concernenti la possibile presenza di traffico militare statunitense, la ricerca di mezzi aeronavali statunitensi a partire dal 27 giugno 1980, l’ipotesi di un’esplosione coinvolgente il velivolo e i risultati dell’analisi dei tracciati radar, abusando del proprio ufficio, fornivano alle autorità politiche informazioni errate». Nel settembre 2000 quattro generali dell’Aeronautica andarono a processo con l’accusa di ”concorso in alto tradimento mediante attentato continuato contro gli organi costituzionali” in relazione ai depistaggi delle indagini. Nel 2007, dopo tre gradi di giudizio, i generali saranno tutti definitivamente assolti e le altre posizioni prescritte. Le rogatorie internazionali (indirizzate a Usa, Belgio, Germania, Francia e per finire anche al governo transitorio della Libia dopo la caduta del regime di Gheddafi) avviate dalla Procura di Roma negli anni scorsi, nella cornice dell’inchiesta bis aperta per strage contro ignoti, non hanno consentito di arrivare a risultati concreti.
I colpevoli della strage, ad oggi, rimangono ignoti. Nel gennaio 2013, la Corte di Cassazione ha messo nero su bianco che la tesi “del missile sparato da aereo ignoto” quale causa dell’abbattimento del DC9 Itavia risulta “oramai consacrata” anche “nella giurisprudenza” della Suprema corte, e che deve considerarsi definitivamente accertato il depistaggio delle indagini sul disastro aereo. La sentenza ha respinto i ricorsi con cui il Ministero della Difesa e dei Trasporti volevano mettere in discussione il diritto al risarcimento dei familiari delle vittime della strage. Lo stesso anno, la Cassazione ha inoltre stabilito che Itavia potrebbe essere fallita in seguito alla “significativa attività di depistaggio” messa in atto. Nel Dicembre 2018, la terza sezione civile della Cassazione ha disposto che vada oltre la somma di 265 milioni di euro – quota stabilita in una precedente sentenza – il risarcimento che i ministeri di Difesa e Infrastrutture devono a Itavia.
«Un apparato costituito da esponenti militari di più paesi ha negato ripetutamente la verità pensando che il danno sarebbe stato irrimediabile per l’alleanza atlantica e per la stessa sicurezza degli Stati. E quindi tutte queste persone hanno coperto il delitto per “una ragion di Stato”, anzi dovremmo dire per “una ragion di Stati” o per “una ragion di Nato”», afferma Amato nella parte finale dell’intervista. L’ex premier conclude tirando direttamente per la giacchetta l’attuale Presidente della Repubblica francese: «Mi chiedo perché un giovane presidente come Macron, anche anagraficamente estraneo alla tragedia di Ustica, non voglia togliere l’onta che pesa sulla Francia. E può toglierla solo in due modi: o dimostrando che questa tesi è infondata oppure, una volta verificata la sua fondatezza, porgendo le scuse più profonde all’Italia e alle famiglie delle vittime in nome del suo governo. Il protratto silenzio non mi pare una soluzione». [di Stefano Baudino]
Al Ministero dei Trasporti è sparito l’archivio sulle stragi e gli anni della strategia della tensione. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 14 gennaio 2023.
Al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sono spariti i documenti riguardanti il periodo più sanguinoso delle stragi, compreso tra il 1968 e il 1980. In particolare, a mancare è tutta la documentazione del ministro e del suo Gabinetto. La conferma arriva direttamente dalla sottosegretaria del Mit Fausta Bergamotto (FdI) la quale, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha ammesso che, anche a seguito delle ispezioni effettuate da delegazioni del ministero stesso, della documentazione non vi è traccia.
A denunciare il fatto era stata la presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Daria Bonfietti, in un articolo redatto per il manifesto, nel quale sottolineava come «ci si trovi totalmente fuori da ogni applicazione della legislazione esistente sulla conservazione e trasmissione agli Archivi di Stato della documentazione delle Amministrazioni Pubbliche». L’emersione di un fatto di tale gravità arriva al termine di un percorso, iniziato nel 2014 grazie a una direttiva di Renzi, di desecretazione dei documenti relativi alle stragi avvenute tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80 e che aveva già dimostrato «l’inadeguatezza del materiale reso disponibile» dai ministeri. «Bisogna ricordare – aggiunge Bonfietti – che l’insufficienza della documentazione è sempre stata al centro delle critiche e delle denunce delle Associazioni, ed è stato negli anni la causa del contendere all’interno del Comitato nei confronti con le Amministrazioni. Una continua disputa-scontro tra carte mancanti, elenchi di nominativi non consegnati, carte clamorosamente censurate, intere parti coperte con vistose cancellature proprio nel momento della loro desecretazioni».
Bonfietti cita quindi un documento del 12 ottobre 2022, ovvero la relazione annuale del Comitato consultivo sulle attività di versamento all’Archivio Centrale dello Stato. All’interno del documento si legge che, tra i vari sottogruppi che compongono il Comitato, quello che “ha dovuto affrontare maggiori problematiche è stato quello relativo al Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. I versamenti effettuati da quest’ultimo negli anni presentano una sostanziale lacunosità sia per la scarsità di documenti versati sia per la totale assenza di documentazione coeva alle stragi interessate dalla Direttiva del 2014. Queste problematiche non derivano certo da una mancanza di collaborazione ma sono imputabili spesso a una scarsa cura nei decenni trascorsi nella conservazione, gestione e ordinamento degli archivi di deposito da parte delle Amministrazioni”, dovuto alle frequenti trasformazioni istituzionali avvenute negli anni che hanno comportato il continuo spostamento del materiale e “dispersioni o perdita di fonti rilevanti per la ricerca storica”.
Vista la gravità di quanto emerso, sono state mosse verso il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, alcune interrogazioni parlamentari. All’ultima di queste, sottoposta dal deputato Luigi Marattini (Italia Viva), la sottosegretaria Bergamotto ha risposto confermando la sparizione della documentazione. Il Mit, riferisce Bergamotto, ha effettuato un sopralluogo «da parte di una delegazione mista di personale del ministero e dell’Archivio di Stato presso l’Archivio di deposito di Ciampino, in esito al quale non è stata rinvenuta alcuna documentazione afferente agli avvenimenti di interesse del Comitato né atti secretati. Analogamente, i responsabili degli archivi di Pomezia e di Cesano hanno escluso la presenza nelle loro strutture di detta documentazione». Alcuni sopralluoghi sono stati effettuati anche da una Commissione istituita appositamente dal ministero il 13 settembre 2022 (la «Commissione per la sorveglianza e lo scarto degli atti di archivio del Gabinetto e degli uffici di diretta collaborazione») e incaricata di «attività di sorveglianza sulla documentazione del patrimonio documentale del Gabinetto dell’On. ministro e degli uffici di diretta collaborazione», oltre che di ricostruzione degli archivi. I lavori della Commissione, per il momento «ancora in corso», non hanno prodotto risultati differenti da quanto rilevato dal Comitato.
«Che non sia stato trovato nulla è qualcosa che meriterebbe una riflessione, perché in quegli anni le infrastrutture di trasporto sono state oggetto di attentati in questo Paese. Sarebbe un po’ strano se il ministero competente non avesse documentazione in merito a stazioni che vengono fatte saltare in aria o aerei che cadono» ha replicato il deputato Marattini. Come sottolineato da Bonfietti, la situazione attuale non permette in alcun modo nemmeno di conoscere le indicazioni del ministero riguardo agli eventi stragistici e lascia un enorme buco nero proprio in quelli che sono gli anni più violenti della storia contemporanea del nostro Paese.
[di Valeria Casolaro]
Su Il Tempo.
Ustica, le finte rivelazioni di Amato: rispolvera tesi già scartate e dimentica le sentenze. Andrea Sperelli su Il Tempo il 03 settembre 2023
Il 27 giugno del 1980 il Dc9 dell’Itavia con 81 persone a bordo fu abbattuto, nei cieli di Ustica, da un missile lanciato da un caccia francese che voleva «fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua Aviazione. Il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l'esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l'attentato come incidente involontario». Ma «il leader libico sfuggì alla trappola perché avvertito da Craxi». Parola dell’ex premier Giuliano Amato in un’intervista a Repubblica. Parole, però, che fanno a pugni con le perizie e le sentenze penali definitive che escludono, in maniera netta, le sorprendenti «rivelazioni» di Amato. Punto numero uno: il 27 giugno del 1980, sostengono i giudici che hanno assolto i quattro generali dell’Aeronautica Militare, nei cieli di Ustica non ci fu nessuna battaglia aerea, in quanto «nessun velivolo (...) risulta aver attraversato la rotta dell'aereo Itavia non essendo stata rilevata traccia di essi dai radar militari e civili le cui registrazioni sono stati riportati su nastri da tutti unanimemente i tecnici ritenuti perfettamente integri». Punto numero due: le perizie hanno escluso che il Dc9 sia stato attinto da un missile, tanto che i giudici, nella sentenza passata in giudicato, affermano che le ipotesi «dell'abbattimento dell'aereo ad opera di un missile (...) non hanno trovato conferma, dato che la carcassa dell'aereo non reca segni dell'impatto del missile».
Punto numero tre: il Mig libico su cui, secondo la versione di Amato, si sarebbe dovuto trovare Gheddafi, è in realtà precipitato su un costone montagnoso della Timpa delle Magare, sulla Sila, in Calabria, il 18 luglio, 21 giorni dopo l’abbattimento del Dc9, come attestarono sette cittadini calabresi che lo videro venire giù, carabinieri e vigili del fuoco giunti sul luogo dell’impatto lo stesso giorno, fonogrammi e dispacci sull’incidente che riportavano la stessa data (e come ammisero persino i pm nel corso del processo). Non a caso, nella sentenza passata in giudicato si legge che «tutto il resto, non essendo provato, è solo frutto della stampa che si è sbizzarrita a trovare scenari di guerra, calda o fredda, un intervento della Libia, la presenza sul posto del suo leader Gheddafi e così via fino a cercare di escogitare un (falso) collegamento con la caduta di un aereo Mig di nazionalità libica avvenuto in data successiva».
E se è vero che la sentenza definitiva non conclude che il Dc9 venne giù a causa di una bomba a bordo, va detto che il collegio peritale presieduto da Aurelio Misiti (preside della facoltà di Ingegneria dell’università «La Sapienza» di Roma), di cui faceva parte Frank Taylor, il massimo esperto mondiale d’incidentistica aeronautica, così concluse: «La causa della tragedia non può che essere la bomba a bordo». E che le parole di Amato lascino il tempo che trovano, lo dimostra anche il tweet di Bobo Craxi, figlio di Bettino Craxi: «É già scritto anche sui libri di Storia che mio padre avvertì Gheddafi che lo avrebbero bombardato. Ma nel 1986». Chissà perché, poi, la sentenza definitiva sulla strage di Bologna, che sancisce la colpevolezza degli ex Nar Mambro e Fioravanti, è sacra, intoccabile e incontestabile, mentre quella penale sulla strage di Ustica, che esclude l’ipotesi del missile, sarebbe frutto di chissà quale errore, depistaggio o malafede. E chissà perché, infine, l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga diventa una sorta di santo se afferma, come effettivamente fece nel 2008, che a buttare giù il Dc9 fu un missile a risonanza francese, mentre torna ad essere Kossiga con la kappa se sostiene, come fece, che la strage fu causata «fortuitamente e non volontariamente da una o due valigie di esplosivo che attivisti della resistenza o del terrorismo palestinese trasportavano per compiere attentati fuori dell'Italia».
Ustica, Renzi critica Amato: "No a messaggi in bottiglia, ma il muro di gomma c'è stato". Il Tempo il 02 settembre 2023
Matteo Renzi interviene sull'intervista di Giuliano Amato a Repubblica in cui l'ex presidente della Corte costituzionale ed ex presidente del Consiglio ha rilanciato la tesi del missile francese che abbattè il DC9 Itavia a Ustica. Per il leader di Italia Viva avrebbe dovuto essere più prudente e, soprattutto, sarebbe stato meglio che avesse scelto un'altra sede per dire certe cose.
"Il tema è che ci sono 81 italiani che sono morti nel modo più orribile, mentre andavano in vacanza, lasciando nel dolore famiglie che hanno chiesto la verità e continuano a chiederla - ricorda Renzi - Che vi sia stato quello che Purgatori chiamava il muro di gomma è difficile negarlo e oggi Amato lo conferma in modo autorevolissimo. Per questo esprimo la perplessità sul modo in cui ha detto queste cose: noi dobbiamo trasparenza e verità a 81 famiglie prima di parlare con i francesi o i libici". Poi il consiglio ad Amato: "Se ha qualche elemento in più, deve essere un pò più conseguente e non limitarsi a un’intervista e a una ricostruzione del si dice. Chi come me o Amato ha fatto il premier e ha avuto accesso alla complicata materia dei segreti di Stato. il mio è un invito al presidente Amato: prima di chiedere a Macron, che andava alle medie al tempo di Ustica, prima di chiedere delle spiegazioni con un’intervista, dica tutto quello che sa, altrimenti sembra un messaggio in bottiglia e con 81 morti non si mandano messaggi in bottiglia", conclude il leader di Italia Viva.
Su Il Giornale.
Strano tempismo del Dottor Sottile: 43 anni dopo i fatti turba i rapporti con Parigi e Nato. Francesco Giubilei il 3 Settembre 2023 su Il Giornale.
Com'era prevedibile le parole di Giuliano Amato sulla strage di Ustica hanno suscitato grande clamore
Com'era prevedibile le parole di Giuliano Amato sulla strage di Ustica hanno suscitato grande clamore sia per i contenuti sia per le modalità (attraverso un'intervista su un quotidiano) con cui sono state pronunciate. Impossibile perciò non chiedersi le circostanze in cui è nata l'intervista a cominciare dalle tempistiche e dai contenuti espressi. Le domande dopo aver letto le sue dichiarazioni sono numerose e lasciano adito a vari dubbi a cominciare dal momento: perché proprio ora?
Pensare a una casualità sarebbe quantomeno da ingenui, Amato non è una persona qualsiasi a ha ricoperto incarichi di primo piano nella vita repubblicana. È stato ministro dell'Interno, poi a capo di altri dicasteri, ha ricoperto l'incarico di presidente del Consiglio e per nove anni è stato Giudice costituzionale (di cui otto mesi presidente della Corte). Non proprio il curriculum dell'ultimo arrivato e per questo le sue parole non possono essere derubricate a un'uscita estemporanea quanto a un preciso calcolo politico le cui finalità si possono solo provare a supporre. D'altro canto Amato è un figlio di quella prima Repubblica in cui un altro esponente di spicco affermava «a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca». Difficile in questo caso bollare come «complottiste» le sue dichiarazioni, la stessa categoria è stata utilizzata in questi anni per indicare le ricostruzioni che portavano alla pista francese poi evocata proprio ieri da Amato. Non si tratta a onor del vero di una novità, già Cossiga aveva proposto la ricostruzione di un missile francese che aveva colpito erroneamente il Dc9 e il cui obiettivo reale era Ghedaffi. Proprio Cossiga e Craxi sono stati tirati in ballo da Amato senza che, per ovvie ragioni, entrambi possano smentire o meno le sue parole.
Come spiega l'ex senatore e ministro Carlo Giovanardi, già membro di varie commissioni di inchiesta: «Bisogna comunque aspettare di capire se Amato confermerà quanto rilanciato dai quotidiani di oggi, perché lui stesso, da sottosegretario e sotto giuramento, sentito in tribunale disse cose del tutto diverse. Mi chiedo perché le sentenze sulla strage del 2 agosto 1980 a Bologna sono sacre, mentre quelle che hanno assolto i generali dall'accusa di depistaggio per Ustica, fino in Cassazione, non hanno lo stesso valore».
Da più parti in ambienti vicini al governo serpeggia il dubbio che le dichiarazioni di Amato siano un modo per mettere in difficoltà l'esecutivo nei rapporti con la Francia. Già le relazioni con Macron non sono delle migliori in particolare per il dossier migranti e aprire un altro fronte su un tema così spinoso non gioverebbe nei rapporti diplomatici tra i due paesi. Soprattutto per un governo molto sensibile ai temi nazionali lasciare passare come se nulla fosse un possibile coinvolgimento straniero diventerebbe impossibile. Il punto però, come sottolineato dal premier Giorgia Meloni, è la necessità di prove oltre alle deduzioni.
Eppure il riferimento a un ruolo della Francia nella strage di Ustica rappresenta un problema anche per il Trattato del Quirinale e non stupirebbe se dalle parti del Colle l'intervista fosse stata accolta con fastidio.
La richiesta di scuse a Macron è, come prevedibile, caduta nel vuoto anche se Parigi si è detta «pronta a collaborare se l'Italia ce lo chiederà». Ma c'è anche un altro punto non causale nelle parole dell'ex premier ed è il coinvolgimento della Nato in un momento delicato come quello attuale.
Per fugare ogni dubbio sulle sue reali intenzioni dovrebbe essere lo stesso Amato a spiegare cosa l'ha portato, dopo quarantatré anni, a rilasciare questa intervista e soprattutto perché non lo ha fatto prima.
Francesco Giubilei
La verità sulla telefonata a Gheddafi: quando l'ha chiamato Craxi. "Non sarebbe sbagliato, come asserisce il presidente Amato, chiedere alla Francia di contribuire alla verità", dichiara Bobo Craxi. Federico Garau il 2 Settembre 2023 su Il Giornale.
Le presunte responsabilità dell'aeronautica francese nell'abbattimento del Dc9 di Itavia sui cieli di Ustica, rivelate dall'ex presidente del Consiglio Giuliano Amato nel corso dell'intervista rilasciata a Repubblica, continuano ad agitare le acque nel mondo politico italiano.
"Sono stati i francesi, Macron chieda scusa". La rivelazione di Amato su Ustica
L'attentato a Gheddafi
Nessuna "verità accertata" da accettare passivamente, perché la notizia è di quelle in grado di creare uno squarcio nella coltre della nebbia che da sempre ha avvolto l'inquietante caso della morte degli 81 passeggeri avvenuta alle ore 20:59 di quel maledetto venerdì 27 giugno del 1980. Anche il Consiglio superiore delle magistratura, come anticipato dal vicepresidente Fabio Pinelli, vuole far luce sulla vicenda, e chiederà alla Procura della Repubblica di Marsala "di rendere accessibili tutti gli atti del procedimento di potenziale interesse di quell'inchiesta".
"Scenari inquietanti...". Cosa cambia sulla strage di Ustica
Tra le rivelazioni fatte a Repubblica dall'ex premier, anche quella in cui si fa riferimento al fatto che Gheddafi, obiettivo dei militari francesi, non avrebbe preso il suo aereo perché messo in guardia del pericolo di un attentato ai suoi danni. Sarebbe stato Bettino Craxi, allora segretario del Partito socialista italiano, ad avvisare dell'incombente pericolo il Raiss.
"Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. Il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l'attentato come incidente involontario", spiega al quotidiano l'ex presidente del Consiglio. "Avrei saputo più tardi, ma senza averne prova - dichiara ancora - che era stato Craxi ad avvertire Gheddafi. Non aveva interesse che venisse fuori: sarebbe stato incolpato di infedeltà alla Nato e di spionaggio", rivela ancora.
La replica di Bobo Craxi
Sulla parte relativa alla "soffiata" di Bettino Craxi è intervenuto il figlio di quest'ultimo."É già scritto anche sui libri di Storia che mio padre avvertì Gheddafi che lo avrebbero bombardato. Ma nel 1986", scrive Bobo su X-Twitter.
Ma che conseguenze potrebbe avere nel rapporto tra Italia e Francia la diffusione di una notizia di tale portata?"È una accusa abbastanza contundente, per quanto l'attuale presidenza francese non ha responsabilità dirette", spiega a RaiNews24 il figlio dell'ex segretario Psi. "Io non vedo grandi novità rispetto alle grandi questioni che sono emerse negli ultimi anni: Amato dice sostanzialmente che le inchieste sono arrivate a una conclusione, cioè che non fosse un ordigno". "Verosimilmente c'è stato un intervento esterno, e quindi i francesi hanno il dovere di confessare. Mi pare che questa sia la sua tesi", dichiara ancora.
"Si tratta soltanto di avviare in Francia un'inchiesta sul fatto che effettivamente c'è una responsabilità da parte della loro aeronautica su quell'atto di guerra", prosegue, "mi pare che si tratti di questo". "Siccome sono fatti risalenti a più o meno 40 anni fa non sarebbe sbagliato, come asserisce il presidente Amato, chiedere alla Francia di contribuire alla verità", conclude. Federico Garau
"È inquietante...". Il generale stronca Amato su Ustica. Per il generale Tricarico, l'intervista di Giuliano Amato non è chiara. Nell'audizione dell'ex presidente davanti al pm, spiega il graduato, "non ho trovato traccia di buona parte delle cose che ha detto a Repubblica". Francesca Galici il 2 Settembre 2023 su Il Giornale.
Com'era prevedibile, l'intervista rilasciata da Giuliano Amato al quotidiano la Repubblica in merito alla strage di Ustica ha lasciato il segno. L'ipotesi che a colpire l'aereo Itavia possa essere stato un missile sganciato da un caccia per colpire, invece, il velivolo di Gheddafi irrompe con prepotenza in questo inizio settembre a 43 anni di distanza dalla tragedia. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha chiesto al suo predecessore se sia in possesso di ulteriori elementi sconosciuti che sostengano questa tesi mentre dall'Eliseo, coinvolto da Amato, preferiscono non commentare. Di tutt'altro avvisto rispetto ad Amato è il generale Leonardo Tricarico, già capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica Militare, consigliere militare di presidenti del Consiglio ed esponente dell'Associazione per la verità sul disastro aereo di Ustica.
"Sono stati i francesi, Macron chieda scusa". La rivelazione di Amato su Ustica
In quel periodo, Tricarico era un tenente colonnello in servizio allo Stato Maggiore dell'Aeronautica e si occupava proprio di difesa aerea. "Fandonie che non hanno retto nel dibattimento penale. Perché non le ha raccontate al pm? Perché le dice solo ora ai giornali? È inquietante", replica con durezza il militare intervistato dall'Ansa. Il processo penale è giunto in Cassazione e, come ricorda il graduato, "è emersa incontrovertibile, perché ampiamente provata, la verità che quel velivolo è stato vittima di un attentato terroristico con una bomba a bordo". La pista francese, prosegue il generale, "è stata smontata in giudizio dove è stata definita degna più della trama di un giallo che di un pronunciamento giudiziario".
La verità sulla telefonata a Gheddafi: quando l'ha chiamato Craxi
A seguito delle parole rilasciate al quotidiano, Tricarico è andato a scartabellare la sua audizione del 2001 davanti al pm Rosselli che indagava su Ustica ma in quei documenti, spiega, "non ho trovato traccia di buona parte delle cose che ha detto a Repubblica. Non capisco come sotto giuramento non abbia avvertito la necessità di rendere al pm le verità di cui oggi è fermamente convinto". Secondo il generale l'intervista è "preoccupante per la democrazia del Paese". Il suo auspicio è che "qualcuno possa capire cosa c'è dietro e perché proprio oggi. Risponde forse ad una strategia per mettere in difficoltà la premier Giorgia Meloni con il presidente francese Emmanuel Macron? O è in relazione agli indennizzi disposti per i ministeri condannati? Bisognerebbe comprenderlo".
Il generale Tricarico, quindi, si toglie l'ultimo sassolino dalle scarpe in merito all'intervista criticando Amato per le sue dichiarazioni sui militari: "È vergognoso quello che dice di una forza armata che è sempre stata fedele e non ha mai tradito. Priore ha indagato 85 appartenenti all'Aeronautica. Sono stati tutti assolti. Si tratta di accuse infamanti da parte di una persona che ha ricoperto incarichi così importanti".
Ustica. Giuliano Amato e il DC-9 abbattuto dalla Nato. Piccole Note (filo-Putin) il 2 Settembre 2023 su Il Giornale.
Farà rumore l’intervista a Giuliano Amato sull’abbattimento a Ustica del DC-9 Itavia pubblicata oggi su Repubblica, nella quale il dottor sottile dice quel che tutti sapevano ma non si poteva dire, cioè che la NATO voleva abbattere il Mig sul quale avrebbe dovuto volare Gheddafi e, per errore, ha colpito l’aereo civile, sulla scia del quale si era posizionato il velivolo libico nell’idea che la NATO non sarebbe stata così folle da rischiare di tirar giù un volo di linea, follia invece avvenuta.
Gheddafi non era sul Mig, dice Amato, perché, avvertito da Craxi che volevano eliminarlo, si sarebbe sottratto all’attentato. Non essendo a conoscenza del cambio di programma, i jet francesi avrebbero intercettato il mig libico sul quale avrebbe dovuto volare, che poi è precipitato sulla Sila perché, per eludere i missili nemici, avrebbe esaurito il carburante.
Ci sono altre versioni del fatto più o meno credibili, cioè che il velivolo trasportasse invece effettivamente Gheddafi e che i missili NATO abbiano colpito sia il DC-9 Itavia che un Mig di scorta e ciò spiegherebbe forse meglio il precipitare del Mig libico sulla Sila piuttosto che il mero esaurimento del carburante (il pilota, nel caso, si sarebbe paracadutato fuori).
L’atro particolare non evidenziato è che sarebbe stato Andreotti a far pressioni su Craxi per evitare l’omicidio del leader libico, così come fu Andreotti, come ormai provato, a dettare la linea a Craxi su Sigonella (vedi Piccolenote), da cui i successivi guai giudiziari del divo Giulio (come lo chiamava Pecorelli).
DC-9 Itavia, coperture insanguinate
Ma si tratta di particolari che hanno importanza per la storia, quel che conta oggi sono le rivelazioni di Amato, non certo un kamikaze anti-atlantista, che oltre a parlare del crimine di Ustica ha accennato alle coperture postume dello stesso da parte dei circoli Nato.
Amato non dettaglia, ma sotto la voce coperture prima o poi si dovrebbero incasellare (e non avverrà) tutte le morti a oggi definite solo come “sospette” che hanno costellato l’inchiesta del giudice Rosario Priore. Dodici le vittime in questione, a iniziare dai due piloti delle Frecce tricolore uccisi nell’incidente aereo di Ramstein del 1988 (che fece anche 70 morti e oltre 400 feriti fra gli spettatori della manifestazione aerea), i cui velivoli, secondo il Tageszeitung e Der Spiegel (e altri), sarebbero stati sabotati.
Lo ricorda Wikipedia, che riporta un passaggio della requisitoria di Priore, nel quale si spiegava che “i due ufficiali piloti, del gruppo intercettori, in servizio presso l’aeroporto di Grosseto, la sera del 27 giugno 1980 fossero in volo su F104, fino a 10 minuti circa prima della scomparsa del DC9 Itavia – il loro atterraggio all’aeroporto di Grosseto è registrato alle 20:45 e 20:50 locali; che questo velivolo, insieme ad altro con ogni probabilità quello dell’allievo, avesse volato per lunga tratta di conserva al velivolo civile; che durante questo percorso e al momento dell’atterraggio avesse sbloccato i codici di emergenza”.
Altri sono morti in circostanze misteriose (impiccati, pugnalati ect) prima di poter rivelare quanto avevano visto sui cieli di Ustica. Tutte cose note, per chi voglia approfondire rimandiamo al libro di Rosario Priore e Giovanni Fasanella “Intrigo internazionale, dalla strategia della tensione al caso Ustica“, uno dei pochi che racconta in modo realistico come l’Italia sia stata vittima di una guerra ibrida da parte dei circoli atlantisti perché troppo autonoma (guerra che alla lunga hanno vinto, come si evince dalla cronaca politica attuale).
Per inciso, nel volume si annota anche il collegamento tra la strage di Ustica, avvenuta il 27 giugno ’80, e la bomba scoppiata un mese dopo, il 2 agosto, alla stazione ferroviaria di Bologna, per ritorsione verso l’Italia per aver avuto l’impudenza di sfidare i circoli atlantisti salvando la vita al leader libico (Francesco Cossiga ebbe a dire che Bologna è stata “bombardata”).
La “disumanità” della NATO e la guerra ucraina
Insomma, sollevare il coperchio sulla strage di Ustica rischia di spalancare un pozzo senza fondo che non potrà mai essere aperto. Chiedere al giovane Macron di scusarsi per l’accaduto, come da prima pagina di Repubblica, è così limitativo da suscitare ironia. I jet francesi erano solo il braccio armato, nulla più. I responsabili veri sono i mandanti, che sono ben altri.
Non si comprende perché Giuliano Amato, uomo di fiducia dei circoli atlantisti per l’Italia, si sia deciso a tali rivelazioni. Si sa che sta scalpitando per ottenere quelle cariche che la sua prossimità a tali circoli avrebbe dovuto consegnargli da tempo senza successo, essendo stato primo ministro solo per meno di un anno e non essendo mai asceso al Quirinale. Un mistero che si chiarirà, forse.
A meno che il dottor sottile non abbia voluto dar voce a quella parte di mondo che non ne può più della guerra ucraina a trazione NATO, ma appare davvero improbabile. Fu lui, solo per fare un esempio, che, in qualità di presidente della Corte Costituzionale, ebbe a legittimare l’invio di armi italiane in Ucraina, interpretando in modo surreale l’articolo della Costituzione che rigetta la guerra come modalità di risoluzione dei conflitti internazionali.
Forse un tentativo di porre nuove criticità alla Francia, già scossa dal tramonto della Françafrique? O qualcosa di ancor più sottile, che ha a che vedere con i più sacri obiettivi dei suoi usuali procuratori?
Al di là degli scopi, personali e non, la rivelazione di Amato giunge benvenuta e peraltro aiuta a comprendere come il tiro al bersaglio su Gheddafi sui cieli di Ustica dica tanto sull’intervento umanitario in Libia del 2011. Di umanitario in quell’intervento non c’era nulla, come dimostra la “disumanità” della NATO, e qui citiamo Amato, evidenziata dall’eccidio di Ustica.
Da ultimo, si può rilevare che tale disumanità non sia limitata al passato, come palesa la guerra per procura lanciata, tramite NATO, alla Russia, che vede il popolo ucraino mandato al macello a maggior gloria della NATO stessa e dei circoli internazionali che la governano. Si potrebbe continuare, ci fermiamo qui per non annoiare i lettori.
Dal rapimento Moro alla stagione delle stragi. Quei misteri mai risolti della Prima Repubblica. Un intreccio di interessi segreti e centri di poteri oscuri si incrociano dietro le vicende più sanguinose della storia italiana. Il celebre "j'accuse" di Pasolini. Francesco Giubilei il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.
La strage di Ustica è solo uno dei tanti misteri che hanno caratterizzato la storia della Prima Repubblica e di cui, nonostante inchieste giudiziarie e giornalistiche, processi e sentenze, ancora oggi non si è arrivati a una verità condivisa. Pier Paolo Pasolini in uno dei suoi «Scritti Corsari» definì quella stagione «il romanzo delle stragi» in un formidabile j'accuse passato alla storia della letteratura italiana: «Io so. / Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpe istituitasi a sistema di protezione del potere)». In una distinzione tra mondo politico e ceto intellettuale Pasolini scriveva: «Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. / Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. / Io so perché sono un intellettuale».
È riassunto tutto nelle sue parole il dibattito su una stagione della storia italiana che ha lasciato dietro di sé una scia di morti e di mistero e di cui la Strage di Ustica, tornata alla ribalta delle cronache dopo le parole di Amato, è uno dei principali avvenimenti ma non il solo.
Poche settimane fa aveva fatto discutere un post di Marcello De Angelis su un'altra strage italiana, quella di Bologna, in cui il già parlamentare e già direttore del Secolo d'Italia aveva espresso dubbi sulla sentenza suscitando un polverone mediatico e politico che ha portato alle sue dimissioni dal ruolo di portavoce del presidente della Regione Lazio. Al netto della considerazione del diverso trattamento ricevuto da De Angelis rispetto ad Amato, i mandanti e gli esecutori della Strage di Piazza Bologna sono stati per anni un tema di discussione e indagine. Tanti sono ancora i punti oscuri del rapimento Moro a partire dalle famosa seduta spiritica mentre non è mai stata fatta piena chiarezza sulla presunta trattativa stato-mafia nonostante il processo. Che dire poi di personaggi come Licio Gelli e del ruolo della P2 in un confine tra istituzioni e ambienti opachi mai ben definito. Non è un caso che Rita Di Giovacchino abbia usato come sottotitolo al suo Il libro nero della Repubblica «criminalità e politica» a testimoniare un intreccio di interessi segreti e centri di potere oscuri che si sono incrociati con quelli dello Stato. A complicare ancora di più le cose il ruolo avuto da potenze straniere e dai servizi segreti dei paesi occidentali che hanno reso l'Italia per una stagione tutt'altro che breve un crocevia di interessi molteplici e mai del tutto chiariti con episodi e situazioni talmente incredibili da sembrare la trama di un romanzo. Per questo molte ricostruzioni in apparenza clamorose e bollate come «complottiste» si sono rivelate dopo anni come veritiere a partire dalla pista francese sulla strage di Ustica. Di certo le sorprese del «romanzo delle stragi» non finiscono qui e arriverà un giorno in cui la profezia di Pasolini si avvererà quando «un uomo politico deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, ma su cui, a differenza di me, non può non avere prove, o almeno indizi».
Fronte bipartisan per sgonfiare il "caso Amato". Il governo attende un cenno da Parigi. Disinnescare. Spegnere. Sfumare. Le rivelazioni dell'ex premier Giuliano Amato sulla strage di Ustica non "accendono" lo scontro politico. Pasquale Napolitano il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.
Disinnescare. Spegnere. Sfumare. Le rivelazioni dell'ex premier Giuliano Amato sulla strage di Ustica non «accendono» lo scontro politico. Destra e sinistra hanno (per ragioni diverse) un comune obiettivo: sgonfiare il caso. Il Pd e la sinistra temono che il «fuoco» acceso da Amato possa lambire il Colle. Non va dimenticato che il Capo dello Stato Sergio Mattarella è il «garante» delle relazioni tra Italia e Francia. Dal fronte del governo non si vuole cavalcare la «bomba» di Amato in chiave anti-Macron. Pure i giornali di sinistra (Domani) puntano a ridimensionare il peso delle parole del dottor Sottile, derubricandole alle affermazioni di «vecchio politico». Ma è davvero così? Amato si voluto concedere solo una fiammata di visibilità?
Stefania Craxi bolla la ricostruzione del presidente emerito della Consulta come falso storico. Gianfranco Rotondi, un politico di lungo che ha vissuto a cavallo tra la Prima e la Seconda Repubblica, concede al Giornale un ulteriore spunto: «Non sono abituato a parlare di cose che non ho vissuto, al tempo di Ustica ero uno studente. Ricordo però che i vecchi dc, nei discorsi privati, collegavano questa vicenda in un certo modo anche alla scomparsa di Tony Bisaglia, che prima di morire in un incidente nautico aveva promesso a una testata nazionale un'intervista sul caso Ustica».
Altra carne a cuocere. Bisaglia fu politico di primo piano della Dc al centro di molti intrighi nella Prima Repubblica. Nell'esecutivo prevale la linea dell'attesa. Si aspetta, se ci sarà, una mossa di Parigi dopo le accuse. Nulla si muove. Il tentativo del vicepremier Matteo Salvini di aprire un fronte con l'Eliseo è stato subito neutralizzato. Il ministro Crosetto resta sul vago. Il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri è il più esplicito: «Peccato che Amato, che le ha occupate tutte una dopo l'altra, non abbia una carica da cui dimettersi per aver sostenuto una tesi in contrasto con sentenze della magistratura. Come è capitato ad altri. Amato è momentaneamente senza poltrona, ma con questa esternazione di fine estate ha superato nella classifica delle peggiori performance sotto il solleone persino il generale che ha scambiato Amazon per una nuova caserma. Amato, a differenza di altri, può calpestare sentenze, diffamare l'Aeronautica italiana, mettere l'Italia intera contro la Francia e la Nato, dire cose sbagliate su Craxi, prendendo forti bacchettate dalla senatrice Stefania Craxi, dimostrare che potrebbe essersi mal comportato quando, ricoprendo alti incarichi, non disse sotto giuramento quel che dice oggi con qualche amico al bar. Le parole del generale Tricarico sono state chiare e necessariamente dure. Lo ringrazio con la stessa sincerità con cui esprimo grande rincrescimento per il vaniloquio del pluripoltronato che abbiamo letto venerdi». Dal fronte Pd l'unico che esce allo scoperto è il franceschiniano Luigi Zanda che ipotizza un'altra pista: «Quando venne abbattuto l'aereo a Ustica ero il portavoce del presidente del Consiglio, Francesco Cossiga. La soffiata a Gheddafi non fu di Craxi», sostiene Zanda. «Cossiga disse ai magistrati d'aver saputo che per ben due volte i servizi segreti avvisarono Gheddafi» dice in un'intervista a Repubblica. Ma c'è un altro mistero da svelare. A chi punta Amato? Qui le opzioni sono due: governo o Colle?
L'unica sentenza giudiziaria sulla tragedia assolve i generali e avalla la tesi della bomba. Fu il giudice istruttore Priore il primo teorico della battaglia nei cieli. Ma la presenza di altri aerei vicino al Dc9 sembra smentita dalle perizie. Luca Fazzo il 3 Settembre 2023 su Il Giornale.
C'è un passaggio giudiziario che collide con la ricostruzione della vicenda di Ustica compiuta dall'ex premier Giuliano Amato nella sua intervista a Repubblica. Si tratta dell'esito dell'unico procedimento penale instaurato sulla base dell'indagine bis-del giudice istruttore Rosario Priore, primo teorico della pista della «battaglia nei cieli» di cui il Dc9 Itavia sarebbe stato vittima. Tanto nella ricostruzione di Priore che in quella di Amato, il corollario è la complicità dei vertici dell'Aeronautica militare, impegnati sia a tenere il governo all'oscuro della operazione Nato (l'abbattimento del jet del leader libico Gheddafi) sia poi a depistare le indagini.
Il 16 gennaio 1992 Priore spicca tredici avvisi di garanzia ad altrettanti alti ufficiali. L'accusa più grave, attentato all'attività del governo e alto tradimento, investe i generali Lamberto Bartolucci, Franco Ferri, Corrado Melillo e Zeno Tascio. Secondo Priore, «l'occultamento delle informazioni fu oggetto di una decisione centrale e ad alto livello», che venne realizzata «escludendo il possibile coinvolgimento di altri aerei» sui cieli italiani il 27 giugno 1980. Sei anni dopo, tre pm romani chiedono il rinvio a giudizio dei quattro generali accusati di alto tradimento. Un anno dopo Priore rinvia i quattro generali a giudizio, con la ordinanza-sentenza divenuta da allora una sorta di Bibbia per i sostenitori della battaglia nei cieli. La replica degli ufficiali è netta: «Non ci fu alcun atto di guerra perché, intorno al Dc-9, non c'erano aerei nel raggio di 50 miglia. Tutte le prove e le stesse perizie raccolte dal giudice Priore dicono che non c'è stata collisione o missile e che a causare la tragedia potrebbe essere stata una bomba, o comunque un'esplosione interna».
Menzogne vergognose, falsità per proteggere le colpe degli alleati: è questa l'accusa con cui i quattro vengono portati a processo. Il processo inizia a settembre del 2000, quattro anni dopo i quattro generali vengono assolti dalle accuse di depistaggio e tradimento, solo Ferri e Bartolucci vengono dichiarati prescritti per non avere informato compiutamente il governo. L'anno dopo la sentenza d'appello conferma l'assoluzione di Ferri e Bartolucci, scatenando l'indignazione del comitato dei parenti delle vittime, guidato dalla futura parlamentare Ds Daria Bonfietti. «L'esistenza di un velivolo che volava accanto al Dc9 Itavia è supportata - scrivono i giudici - solo da ipotesi, deduzioni, probabilità, e da basse percentuali e mai da certezza». I due plot, le due tracce di altri aerei su radar di vecchia generazione, vengono smentiti da altri radar più moderni che non registrano nessun movimento anomalo.
Il 10 gennaio 2007 il ricorso dei familiari e del governo arriva all'esame della prima sezione penale della Cassazione, di cui fanno parte anche due futuri presidenti, Giovanni Canzio e Margherita Cassano. Assoluzioni confermate: «All'esito di una lunga e complessa istruttoria durata 19 anni - scrive la Cassazione - e conclusa con una sentenza-ordinanza di 5468 pagine è stata acquisita una imponente massa di dati, dai quali peraltro non è stato possibile ricavare elementi di prova a conforto della tesi dell'accusa». Una pietra tombale sulla pista di Priore? A quanto pare no...
Il doppiopesismo sulle sentenze. Si può riscrivere la verità su Ustica, ma non su Bologna. Quella di Bologna resta un mantra irrefutabile. Quella di Ustica, invece, si può ribaltare e riscrivere a piacimento. Gian Micalessin il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.
Quella di Bologna resta un mantra irrefutabile. Quella di Ustica, invece, si può ribaltare e riscrivere a piacimento. E all'operazione possono concorrere non solo giornalisti e opinionisti, ma anche ex-presidenti del Consiglio e della Consulta. È il paradosso della «verità giudiziaria» all'italiana. Un paradosso ben rappresentato dall'indifferenza con cui Giuliano Amaro calpesta dalle pagine di Repubblica le sentenze sul disastro di Ustica.
Un paradosso reso ancor più evidente dalla contiguità temporale con le dimissioni del portavoce della Regione Lazio Marcello De Angelis costretto all'abbandono non tanto per le canzonacce scritte trent'anni fa quanto per i dubbi espressi sulla sentenza che attribuisce la strage di Bologna al terrorismo neofascista. Dubbi ampiamente argomentati, peraltro, in un libro firmato dal giudice Rosario Priore. Giuliano Amato, invece, è pienamente titolato - nonostante gli strafalcioni storici e tecnici inanellati nell'intervista a Repubblica - a criticare la sentenza (ribadita in Corte d'Assise, Corte d'Appello e Corte di Cassazione) che attribuisce ad una bomba il disastro di Ustica. Quella verità giudiziaria - a differenza delle tesi di Amato - non si basa su semplici deduzioni, ma sulla perizia eseguita sul 90 per cento dei resti del DC 9 Itavia. Perizia firmata non da un cialtrone qualsiasi, ma da un collegio internazionale guidato dal professore Aurelio Misiti, massima autorità italiana del settore, affiancato da esperti internazionali provenienti da paesi non coinvolti nel disastro. Come se non bastasse le tesi contenute nell'istruttoria del giudice Rosario Priore (spesso spacciata in assoluta malafede per verità giudiziaria) sono state assolutamente confutate nelle 272 udienze del processo. Tanto che nelle motivazioni della sentenza la tesi del missile viene liquidata come «fantapolitica o romanzo frutto della stampa che si è sbizzarrita a trovare scenari di guerra, calda o fredda». Ma il vero problema - aldilà del paradosso sul mutevole valore delle «verità giudiziarie» - riguarda la ricerca dei colpevoli. In questi 40 anni le improbabili ricostruzioni rilanciate da Amato non hanno soltanto complicato i rapporti con Parigi, ma anche sbarrato la strada a qualsiasi ricerca della verità. Le fantasie di chi ricostruisce improbabili battaglie aeree e accusa i nostri generali sono state - e restano - il miglior pretesto per impedire qualsiasi vera indagine sui mandanti della bomba. Un'indagine che non era difficile capire da dove far partire. Anche perchè alle 10 del mattino del 27 giugno, solo 36 ore prima del disastro, Stefano Giovannone, il colonnello del Sismi demiurgo e garante da Beirut del cosiddetto lodo-Moro tra Italia e fazioni palestinesi, invia a Sirio, nome in codice di un suo superiore a Roma, un cablogramma urgente ed esplicito.
«Habet informatomi tarda serata due sei che Fplp avrebbe deciso riprendere totale libertà azione senza dar corso ulteriori contatti». L'Fplp, la fazione palestinese appoggiata da Gheddafi, era pronta, insomma, a infrangere il lodo-Moro e riprendere l'attività terroristica in Italia. Peccato che 40 anni dopo quella verità resti, nascosta dietro la cortina fumogena di improbabili battaglie aeree combattute nei nostri cieli. Con tanti saluti non solo alla riverita verità giudiziaria, ma anche ai mandanti della strage.
"O si decide che i verdetti sono sacri, oppure si possono discutere. Tutti". Il giornalista: "Una persona come Amato dovrebbe parlare coi fatti. Quando era a Palazzo Chigi ha fatto i passi formali con la Francia?" Domenico Di Sanzo il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.
Polemiche di fuoco sulle parole di Marcello De Angelis sulla strage di Bologna. Dubbi e dibattito dopo l'intervista di Giuliano Amato su Ustica. È giusto mettere in discussione le sentenze? «O si decide che le sentenze sono sacre e inviolabili oppure che si possono discutere, basta mettersi d'accordo. Io dico che tutte le sentenze si possono discutere», risponde al Giornale il giornalista e scrittore Pierluigi Battista.
Su X ha scritto che le sentenze si rispettano o si smentiscono «a seconda delle convenienze». E ancora: «Mambro e Fioravanti conviene? No, quindi no. Ustica conviene? Sì, dunque sì». Pensa che ci sia un doppiopesismo?
«Non è possibile che nei giorni pari si discutono le sentenze anche in modo veemente e nei giorni dispari si decide che non si possono discutere».
Si riferisce al caso De Angelis?
«Abbiamo assistito a una polemica su una frase di De Angelis in cui si obiettava sulla forza probatoria della sentenza che ha condannato Francesca Mambro e Valerio Fioravanti per la strage di Bologna, una posizione condivisa da importanti personalità di sinistra come Furio Colombo, Rossana Rossanda, Luigi Manconi, Marco Pannella. In quel caso era inammissibile e non si poteva discutere la sentenza, mentre adesso Giuliano Amato, che ha ricoperto ruoli istituzionali di grande rilievo, può definire menzogna una sentenza della magistratura sulla base di quelle che lui stesso definisce deduzioni».
Le sentenze si cavalcano?
«Spesso si va a seconda della convenienza. Su Berlusconi se ci sono sentenze di assoluzione vengono delegittimate, se sono di condanna vengono cavalcate. Ad esempio, ci sono state numerose sentenze che hanno dimostrato che la storia della trattativa stato-mafia è una fake news. Ma, nonostante questo, ci sono alcuni magistrati ed ex magistrati che dicono che quelle sentenze non valgono nulla ed esistono giornali che ancora fanno campagne sulla trattativa stato-mafia. Detto ciò, io credo che le sentenze si devono eseguire, ma si possono sempre discutere».
Dunque anche Amato ha il diritto di smontare un verdetto
«Sì, ma diciamo che una persona come Amato dovrebbe parlare per elementi fattuali, non per deduzioni».
Perché l'ex presidente del Consiglio ha parlato proprio ora?
«Guardi, il punto non è questo. Io mi chiedo perché non abbia detto queste cose prima. Quindi, io gli chiederei: quando è stato a Palazzo Chigi ha fatto dei passi formali con la Francia? E poi: quando Cossiga nel 2008 disse che erano stati i francesi ad abbattere l'aereo con un missile, Amato era ministro dell'Interno. Eppure non ricordo all'epoca suoi interventi indignati in difesa delle tesi di Cossiga, perché? Inoltre, come mai non risponde ai figli di Bettino Craxi, che dicono che il padre avvertì Gheddafi dei bombardamenti del 1986, non di un possibile attentato nei suoi confronti nel 1980, come invece afferma Amato. Come notava giustamente ieri Marco Gervasoni sul Giornale, Amato dice un'altra inesattezza facendo di un fascio Francia e Nato: cosa in quel momento non corretta, poiché Parigi era uscita da tempo dal comando integrato Nato. Quindi, come ha scritto Gervasoni, in linea teorica, la Francia poteva compiere operazioni senza informare gli altri Paesi dell'Alleanza atlantica». Domenico Di Sanzo
Le due verità. C'è stato tutto un menar scandalo per le affermazioni dell'ex-sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ex-ministro in diversi dicasteri, ex-premier ed ex Presidente della Corte Costituzionale. Augusto Minzolini il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.
C'è stato tutto un menar scandalo per le affermazioni dell'ex-sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ex-ministro in diversi dicasteri, ex-premier ed ex Presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato che, a 43 anni dal caso Ustica, ha rivelato che la responsabilità dell'esplosione in volo del Dc9 Itavia fu di un missile francese che doveva colpire un aereo su cui si supponeva viaggiasse il colonnello Gheddafi. Non ha portato nessuna prova, ma già solo il fatto che un personaggio del genere, che ha ricoperto da solo più incarichi di tutti i componenti del governo Meloni messi insieme, si sia sbilanciato pubblicamente a tal punto non è un fatto da sottovalutare. Amato, infatti, è stato diretto, non ha usato se, né si è lasciato aperta la strada del dubbio per una possibile ritirata. E, a parte la fragorosa menata su Craxi che - secondo il Dottor Sottile degli anni '80-'90 - avrebbe avvertito Gheddafi in quell'occasione per salvarlo dall'agguato (fa a pugni con le date e con il ruolo del leader socialista in quel momento), il personaggio riporta una serie di congetture che, nei corridoi del Palazzo, andavano per la maggiore (ne sono testimone e ne ho scritto) e di cui il caposcuola era Francesco Cossiga. L'ex Capo dello Stato, che all'epoca dei fatti guidava il governo, era assolutamente convinto della responsabilità degli apparati militari francesi al punto che per lui quella vicenda era diventata un'ossessione.
Ora, nel dibattito suscitato dalle parole di Amato, molti hanno tirato in ballo le diverse sentenze emesse dall'autorità giudiziaria, spesso contraddittorie, che non hanno gettato una luce definitiva sulla strage. Tante verità, per non avere nessuna verità. O, meglio, una verità processuale contraddittoria, mentre si va definendo - si spera - una verità storica. E non bisogna meravigliarsene, perché spesso in queste vicende, che sono il palcoscenico di diversi protagonismi (servizi segreti, apparati militari, interessi interni e internazionali, ragioni politiche contingenti), la verità processuale resta monca. Anzi, in alcuni casi non è neppure una verità. L'uscita di Amato non dovrebbe destare scandalo perché, anche se - come sospetta qualcuno - quella sortita nascondesse altri fini, il tempo, che è galantuomo, lo dimostrerà: si possono ingannare i tribunali, non la Storia. Semmai il punto è un altro: il giudizio storico e il dubbio sulla verità processuale non dovrebbero essere considerati leciti solo in determinate occasioni; l'idea che possa esserci una verità processuale, magari condizionata dal mainstream del momento, e un'eventuale verità storica diversa, se non addirittura opposta, non può essere determinata da posizioni ideologiche o da interessi di comodo. Se Amato dice la sua sulla tragica vicenda di Ustica, può esserci anche chi non è convinto, in buona fede, sulla verità processuale della strage di Bologna o di altre vicende che hanno segnato la vita del Paese. Dubbi che vanno rispettati, perché gli eretici in democrazia non dovrebbero essere destinati al rogo. E perché il rischio maggiore sarebbe scoprire fra altri vent'anni che ci siamo tutti piegati ad una verità di Stato o, nel caso, di Stati.
Estratto dell’articolo di Francesco De Remigis per “il Giornale” mercoledì 6 settembre 2023.
Giuliano Amato si presenta alla «Stampa estera» per un chiarimento, visto che le testate internazionali, in particolare d'Oltralpe, erano rimaste un po' spiazzate dalle sue parole su Ustica, indirizzate a Parigi e al presidente Macron.
Ma a chi gli fa notare che dopo la sua intervista sabato a Repubblica, seguita da ricalibratura in un colloquio con La Verità, e poi ieri da una lettera ancora su Repubblica dopo le dure reazioni politiche, si fa trovare pronto: rispondendo a chi, anzitutto, chiede conto all'ex presidente del Consiglio delle sue riflessioni, finite quasi dissipate in un quadro dai contorni sempre più pasticciati, e che rischiavano di uscire dal seminato che forse lui stesso aveva in mente.
Nessuna marcia indietro, chiarisce però: «Ho ritrattato che cosa? La verità su Ustica? - dice Amato - Io non ho mai detto che stavo dando la verità su Ustica, ma che portavo avanti l'ipotesi più fortemente ritenuta credibile tra quelle formulate, specificando che non avevo alcuna verità da offrire e che il mio scopo era di provocare un avvicinamento, se possibile, alla verità. […]».
[…] La politica, dice, non c'entra «nel mio discorso». Non quella di oggi. Semplicemente, sostiene, una persona di 85 anni comincia a ragionare avendo qualcosa di diverso in mente da ciò che quotidianamente affligge i giornalisti che si occupano di cronaca politica.
[…] Ecco allora un'altra dichiarazione. Aveva fatto riferimento a una serie di affermazioni, tra cui quelle dell'ex presidente Cossiga, quindi Amato allarga il discorso ad altre verità che potrebbero essere ritoccate. Per esempio, la strage di Bologna: vale lo stesso principio?
Per lui, che su Ustica dice di non avere prove, sul dossier Bologna di cui nelle scorse settimane si era riparlato, il dubbio sulla verità processuale è considerato lecito? Amato non si oppone, anzi.
Pur premettendo che «su Bologna ne so molto meno, rispetto a Ustica», ammette che «esiste questo tema, e cioè che ci sono verità, situazioni importanti, rispetto alle quali abbiamo comunque la percezione di una verità o fasulla o incompiuta.
E, se incompiuta, magari mancante di una parte importante. La strage di Bologna un po' ha questo - dice al Giornale pensi a un fatto che è una persona, Emanuela Orlandi. Nonostante ora il Pontefice abbia detto “dobbiamo arrivare” non sappiamo praticamente nulla, è un quesito aperto».
«La pacificazione con la Storia - insiste nel ragionamento - finisce per arrivare il giorno in cui questi misteri si disciolgono in una verità accertata e accettata, ed è vero che nella nostra Storia ne abbiamo ancora di incomplete». E se su Ustica invita ancora «la politica» a interrogarsi - e «non necessariamente quella italiana, può darsi che sia di più quella francese che possa fare qualcosa» - sul riaprire il dossier Bologna, su cui pure ha posto ieri l'accento, dice amaro: «Lì non ho un Macron a cui chiedere “datti da fare”, non ce l'ho...».
Su Ustica si riapre l'inchiesta. Però Bologna "non si tocca". Amato sarà ascoltato dai pm come persona informata sui fatti. I dem esultano: "Ma l'altra strage era fascista". Francesco De Remigis il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.
Dopo le esternazioni dell'ex premier Giuliano Amato, i procuratori titolari dell'inchiesta sul disastro del Dc9 stanno prendendo in considerazione l'ipotesi di ascoltarlo in qualità di persona informata dei fatti. La settimana prossima si terrà un incontro, secondo fonti della Procura di Roma, con il procuratore capo Francesco Lo Voi, l'aggiunto Michele Prestipino e il sostituto Erminio Amelio, quest'ultimo titolare del fascicolo. Dopo l'intervista di Amato a Repubblica, e vari spunti offerti a singhiozzo da un ex protagonista della politica oggi 85enne, l'obiettivo è valutare spazi di manovra nell'indagine non ancora chiusa. Si ipotizza un confronto basato su quanto Amato ha aggiunto alla Stampa estera due giorni fa: «Chi conosce gli apparati dello Stato sa che i Servizi, quando depositano atti destinati a rimanere con segreto di Stato, o altrimenti classificati, prima di depositarli ne hanno scartati una serie». Dal punto di vista dei princìpi, sostiene Amato, «non c'è ragione per ritenere che ciò sia di per sé arbitrario, perché chi fa il mestiere dell'intelligence raccoglie tanto ciarpame, quello che fa la scelta deve buttare il ciarpame e trattenere ciò che non lo è, e non è detto che questo accada sempre». Nel puzzle Ustica, fatto di stop and go nelle indagini, già oggetto di commissione parlamentare d'inchiesta e di «scavi» giornalistici intorno alla pista del missile esploso da un jet francese, magari decollato dalla base di Solenzara, in Corsica, questo è il punto chiave, per Amato, su cui basa l'appello a Macron a far chiarezza. Parigi fa spallucce: nonostante le richieste di informazioni dei pm romani. Il nodo rogatorie resta centrale. Finora, però, un quadro affastellato di deduzioni; parole. La presidente dell'Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Daria Bonfietti, già deputata e senatrice Pds e Ds, ha chiesto alla premier Meloni «anzitutto di riceverci», per capire insieme «l'ordine di grandezza dei problemi con le carte in mano, con attività e azioni che ogni organo dello Stato può fare in questo momento». Magistratura compresa. Dal volger dell'inchiesta verso l'archiviazione, le toghe potrebbero sparigliare? Amato era già stato ascoltato. E tra dubbi e speranze nei partiti ci si divide. A sinistra va in scena la doppia lettura del verbo di Amato: accolte con favore le deduzioni su Ustica ma non «la percezione di una verità o fasulla o incompiuta, magari mancante di una parte importante», avvertita da Amato pure sulla strage di Bologna. Il governatore dell'Emilia-Romagna Bonaccini chiede «verità e giustizia su Ustica», mentre «Bologna ormai è passata in giudicato come strage fascista», taglia corto. Il suo partito, con i capigruppo Pd al Senato e alla Camera (Boccia e Braga), sottoscrive l'interrogazione (di Verini e De Maria) per chiedere al governo «quali iniziative intenda assumere a livello internazionale», anche attraverso richieste formali, «per garantire il pieno accertamento della verità dei fatti» del 27 giugno 1980. «Contributo di Amato di grande rilievo», dicono su Ustica i dem. Dal centrodestra, il senatore Gasparri (FI) e l'ex ministro Giovanardi difendono la tesi della bomba, accusando Amato di menzogne ed errori «imbarazzanti». Bonfietti invita al dialogo chi, in Fratelli d'Italia, sembra pronto all'ascolto: «Credevo che nel 2008 cadesse il muro di gomma, la magistratura ha riaperto le indagini ma dopo 15 anni sono in corso e allora chiediamo alla politica». La premier fa filtrare aperture. Ma ha già invitato Amato a render pubblici tutti gli elementi utili.
Su Libero Quotidiano.
Ustica, il maresciallo Dioguardi: "Morti sospette, chi ha dato ordine del silenzio". Libero Quotidiano il 05 settembre 2023
"Ci è stato dato l'ordine del silenzio assoluto". Dopo Giuliano Amato, torna a parlare della strage di Ustica anche Giuseppe Dioguardi, militare di lungo corso che quella notte di fine giugno del 1980 aveva appena 19 anni era in servizio nella sala operativa della Prima regione aerea a Milano. Raggiunto dall'agenzia Ansa, l'ex maresciallo dell'aeronautica ribadisce quanto già detto nel 2013, forte delle conferme arrivate dall'ex premier sabato in una intervista-bomba a Repubblica: Senza più il "nullaosta di sicurezza", il 62enne sostiene che "i documenti dell'epoca ci sono ancora, bisognerebbe solo saperli cercare nel modo corretto".
Il Dc9 dell'Itavia è stato davvero abbattuto "per sbaglio" da un missile sganciato da un caccia francese che aveva come obiettivo il leader libico Muammar Gheddafi? "Quella notte in volo c'erano i due Mirage e un Tomcat - ricorda -, i nostri lo avevano segnalato ma è stato dato l'ordine di silenzio assoluto. Un silenzio ripagato in alcuni casi con avanzamenti di carriera fuori dal comune e promozioni mai viste. Quando sento che Tricarico dice di sentirsi sotto attacco, vorrei ricordare che all'epoca era al terzo reparto dello Stato maggiore, quello cioè che viene informato di qualsiasi velivolo o transito. non poteva non sapere".
Una vicenda che intreccia segreti militari e politici. E' stato proprio Dioguardi a consegnare il dossier del Sismi sulla tragedia all'allora ministro della Difesa Spadolini: "Lo aveva chiesto lui che fossi io a portarglielo, si fidava ciecamente di me. Ricordo ancora la sua espressione, sbatté i pugni sul tavolo, era infuriato. Io stesso lessi quel documento, di sette-otto pagine. Era l'aggiustamento della verità da parte degli ufficiali ordinata da qualcuno molto in alto". Quella sera, ricorda, "si alzarono in volo i caccia intercettori da Grosseto, su input del centro Radar di difesa aerea di Poggio Ballone, che lanciarono l'allarme, poi ricevettero l'ordine di rientrare". A bordo dei due F-104 c'erano Mario Naldini e Ivo Nutarelli, i due piloti delle Frecce Tricolore morti nel 1988 nel tristemente famoso incidente durante una manifestazione a Ramstein, in Germania. Una delle tanti "morti sospette", aggiunge Dioguardi. "Quando venne fornito all'epoca l'elenco su chi avesse informazioni sulla strage di Ustica - sottolinea -, l'unico ancora in vita ero io. Gli altri erano tutti morti o per cause naturali o per strani incidenti". "Esistono anche i messaggi classificati, come i tantissimi telegrammi inviati e arrivati quella notte, la cui copia non può essere distrutta - conclude l'ex maresciallo -. Quel giorno tutti sapevano cosa era successo, ma è stato ordinato loro il silenzio".
Ustica, il doppiopesismo rosso sulle parole di Cossiga. Fabrizio Cicchitto su Libero Quotidiano il 06 settembre 2023
Su un punto sono d’accordo con Rino Formica, e cioè che anche per possibili riforme istituzionali conviene a tutti confermare fino alla scadenza del mandato la presidenza di Mattarella. Lo dico aggiungendo anche, per chiarezza, che non credo affatto a quello che sostiene Formica e cioè che siamo alla vigilia di una pericolosa operazione reazionaria sotto la regia di Giorgia Meloni che ci riporterebbe indietro nel tempo e nello spazio, quasi vicino a Salò.
Addirittura la mia lettura sulle intenzioni di fondo di Meloni è di segno opposto: casomai, il suo obiettivo è quello di operare una calibrata conversione al centro, mantenendo sia pure faticosamente l’unità del centrodestra ispirandosi alla cultura neoconservatrice di Robert Scruton. Questa valutazione pregiudiziale non risolve il problema costituito dalla recente sortita di Giuliano Amato che a più di 40 anni di distanza ha riproposto l’interrogativo sulle responsabilità della caduta del Dc9 nel 1980 con 81 vittime.
Nella sua intervista a Repubblica era così perentoria la certezza di Amato rispetto alle ipotesi del missile francese che le due pagine di testo sono state accompagnate in prima pagina da una sorta di ultimatum alla Francia. Tutto ciò però non era sostenuto dalla prospettazione di nuove prove.
Sostanzialmente Amato ribadiva un suo convincimento personale.
Il giorno dopo in una intervista a La Verità Amato ha fatto una mezza marcia indietro («Non ho nuovi elementi, quella del missile è sempre stata la mia convinzione»), in più è risultato in imbarazzo di fronte al fatto che non risultava a nessuno che Craxi avesse avvertito del pericolo Gheddafi nel 1980 e non nel 1986. Amato sta procedendo a zig zag: dopo ha fatto un mezzo passo avanti nuovamente su Repubblica. In ogni caso questa sortita di Amato consente di prendere di petto una questione di fondo. Tutte le sentenze sono comunque suscettibili di discussione e di dibattito. Ma ce ne stanno alcune, vedi quella sulla strage di Bologna del 1980 che per la sinistra non possono essere mai messe in discussione nella definizione di fondo che si tratta di “strage fascista” a meno di correre il rischio per chi lo fa di essere a sua volta definito un nazifascista dei Nar.
Avanziamo questo interrogativo perché Amato, e con lui Repubblica e uno schieramento assai vasto di esponenti politici, si assume la potestà di negare ogni validità alla assoluzione, sancita anche dalla Cassazione, dei generali della aeronautica. Ma su tutta la vicenda riguardante l’abbattimento del DC9 e la stessa strage di Bologna esistono tesi contrapposte, entrambe avanzate da personalità dalla indubbia fede democratica, ad esempio Zamberletti e Parisi.
Lo stesso Cossiga viene usato con correnti alternate. Cossiga è un testimone assolutamente credibile quando afferma che l’Itavia è stata colpita da un missile francese. Poi però Cossiga diventa del tutto inattendibile, degno di criminalizzazione quando afferma invece che la Mambro e Fioravanti sono innocenti rispetto alla strage di Bologna. Come si vede, siamo di fronte ad un contenzioso di non poco conto. Un ultimo punto: Giuliano Amato ha affermato che «la richiesta (di intervista ndr) che mi è arrivata da Simonetta Fiori ha incontrato il mio bisogno di verità che ad una certa età diventa più urgente». Questa frase di Amato ha accentuato il nostro rammarico per il fatto che l’intervistatrice non gli ha fatto una ultima domanda su una questione di cui però egli a suo tempo si era già pronunciato. Anni fa ha affermato in una intervista su Reset parlando di una «inaudita strumentalizzazione da parte del Pds, dell’inchiesta Mani Pulite per distruggere Craxi e che fu molto vile questo modo di farci fuori per via giudiziaria, perché noi ci eravamo sempre avvalsi di armi politiche». Si tratta di qualcosa di meno drammatico di una strage che ha colpito 80 persone. Si è trattato però di qualcosa che ha colpito e distrutto la comunità politica di cui Amato ha fatto parte anche con altissime responsabilità in una fase decisiva della sua attività politica dagli anni Ottanta fino al 1992.
Su Panorama.
Ustica: fu guerra. Parola di Kojac. Corrado Incerti Panorama il 27 Giugno 2023
Come Eravamo. Da Panorama del 18 gennaio 1996
Alla venerabile età di 76 anni è tornato alla ribalta il generale Demetrio Cogliandro, ex capo del controspionaggio del Sismi, per decenni al centro di tutte le vicende più riservate e oscure legate al servizio segreto militare, soprannominato alternativamente "cap' e muorto" o "Kojac" per via del suo cranio calvo e lucido. Cogliandro tolse il disturbo dagli uffici del Sismi nel 1982, anno della sua andata in pensione. Solo ufficialmente, però, perché quando il 2 novembre scorso Rosario Priore, il magistrato che indaga sulla strage del Dc 9 di Ustica (27 giugno 1980,81 morti) fece perquisire la lussuosa abitazione del generale, al terzo piano di una palazzina nel quartiere Giustiniana-Cassia, a Roma, trovò che Kojac aveva continuato a fare il suo mestiere, il controspionaggio, sino al 1991. Risultato: 510 pagine sui più svariati misteri d' Italia, da Moro a Pecorelli, alle stragi e sui politici più potenti della Prima repubblica, tra le quali spiccano 15 schede su Ustica. Destinate a chi? "E' verosimile che il destinatario fosse il Sismi" dice Massimo Brutti, presidente del Comitato parlamentare di controllo dei servizi. "La pratica di affidare la creazione di subarchivi a ex agenti è sempre stata diffusa. Ed è da cancellare, per evitare deviazioni, ricatti, inquinamenti". Dalle carte di Cogliandro emerge una verità già delineata da numerose inchieste giornalistiche, ma mai ammessa da nessuna fonte istituzionale, politica o militare che sia. Ci fu una vera battaglia, quella sera, nei cieli di Ustica: da una parte caccia libici, dall' altra aerei militari americani e francesi. Obiettivo: il jet del colonnello Muammar Gheddafi che avrebbe dovuto passare per quelle rotte. Scrive Cogliandro nel marzo del 1990: "Secondo fonti confidenziali, il Dc 9 Itavia sarebbe stato abbattuto da un missile aria-aria. L' ipotesi più accreditata è che il missile sia stato lanciato da un Mirage francese". Uno scenario di guerra mai presentato all' autorità giudiziaria che su Ustica indaga ormai da oltre 15 anni. Del resto la massima segretezza è sempre stata la specialità di Cogliandro e del suo riservatissimo ufficio di controspionaggio di piazza Barberini: da una parte indagini precise che portarono alla scoperta di decine di agenti sovietici che venivano poi accompagnati al confine senza pubblicità, dall' altra dossier velenosi e informazioni sconvolgenti sugli affari del bosco e del sottobosco politico e militare, che finivano inevitabilmente in rapporti discreti che alimentavano guerre di potere, ma mai (o troppo tardi) arrivavano ai magistrati che avrebbero potuto far luce su quegli anni oscuri. Il tutto all' ombra di quella P2 che negli anni Settanta imperversava negli uffici dei servizi italiani. Ecco allora Cogliandro al centro di vicende legate alle Brigate rosse (Francesco Pazienza, uomo legato al Sismi quando il capo era Giuseppe Santovito, lo accusò di aver avuto rapporti, con il nome in codice di Corti, con il brigatista Giovanni Senzani); al caso Cirillo (prima di essere ucciso dalla camorra, il criminologo Aldo Semerari chiese protezione proprio a Cogliandro); al tentativo della P2 di salvare il banchiere Roberto Calvi (è Pazienza a parlare di una sua partecipazione a una riunione, a Montecarlo, nella quale si presero decisioni per screditare i vertici della Banca d' Italia, ostili a Calvi). Ecco, ancora, Cogliandro al centro di quel dossier Mi. Fo. Biali sullo scandalo dei petroli, pubblicato dall' agenzia Op di Mino Pecorelli, che segnò, sul finire degli anni Settanta, il momento più drammatico della guerra sotterranea politica in Italia e portò in galera i vertici della Guardia di finanza, ma non i loro padrini politici. Sulla vicenda, per la prima volta in modo così palese, interviene oggi il senatore Giulio Andreotti, che è imputato per l' omicidio di Pecorelli. "Dalle carte" dice "appare che il colonnello Cogliandro era quello che aveva fatto l' assemblaggio di tutto quel carteggio Mi. Fo. Biali che fu poi trovato da Pecorelli e che è forse alla base di una delle possibili interpretazioni di tutta la vicenda che è accaduta dopo (la morte di Pecorelli, ndr)". Ma è su Ustica che Cogliandro appare davvero protagonista. Non ufficialmente, perché, come scrive la commissione parlamentare Stragi sulla base delle carte, incomplete, che le sono arrivate, "il Sismi si preoccupò solo di vedere come procedeva l' inchiesta, non fece altro" e "la sua attività sembra quasi esclusivamente interessata a verificare la tenuta della posizione ufficiale assunta dall' Aeronautica militare della assoluta estraneità italiana all' incidente". Ma protagonista in gran segreto. Prima, come colonnello in servizio, con rapporti rimasti nelle casseforti del Sismi; poi, dal 1984 al 1991, quando direttore del Sismi era l' ammiraglio Fulvio Martini, come generale in pensione, con quelle 15 schede trovate a casa sua. Si scopre ora che sulla telefonata anonima fatta alle 14.10 del 28 giugno 1980, il giorno dopo la strage, che attribuiva falsamente la caduta del Dc 9 a una bomba portata dall' estremista di destra Marco Affatigato, Cogliandro sapeva tutto. Il 2 luglio, quattro giorni dopo, stila un rapporto: la telefonata è stata fatta da un giornalista amico dell' allora ministro dell' Industria, Antonio Bisaglia, che, per concordarne i termini, la mattina del 28 giugno, prima si è recato al Viminale, poi alla questura di Roma. Che bisogno c'era di depistare se, ufficialmente, il Dc 9 era caduto per cedimento strutturale? Perché erano i vertici del potere a depistare? Ebbene, quel rapporto di Cogliandro non giunse mai al presidente del Consiglio di allora, Francesco Cossiga, né al ministro della Difesa, Lelio Lagorio. Dalle carte di Cogliandro si scopre, ancora, che la mattina dopo la strage, su Ustica ci fu una riunione di militari al ministero della Difesa. Perché mai, se era cedimento strutturale di un aereo di linea? Da due altri appunti del controspionaggio si scopre poi che il Mig libico trovato sulla Sila il 18 luglio 1980 viene dato per caduto in giugno, dunque ha a che fare con la vicenda di Ustica. Di tutto questo la magistratura non ha saputo nulla per 15 anni. E i politici? Dice Daria Bonfietti, deputato e segretario della commissione Stragi: "Io mi rifiuto di pensare che ci fossero dei militari, dei servizi e dello stato maggiore, incapaci e inefficienti e dei politici ingenui. Dalle carte emerge che Cogliandro parlava già, anni fa, di uno scenario di guerra. Ci sono responsabilità politiche e dei nostri servizi segreti. Bisognerà stanarle".
Stragi di Ustica e Bologna: nelle carte segrete del Sismi spunta il nome del terrorista Carlos. Gian Paolo Pelizzaro e Gabriele Paradisi e Andrea Soglio su Panorama il 29 Marzo 2023
Esiste un nuovo, possibile collegamento tra il terrorista Carlos e le due misteriose stragi di Ustica e di Bologna. Il legame emerge da un vecchio documento dei servizi segreti militari italiani, fin qui classificato «segretissimo». Si tratta di un appunto, datato lunedì 14 aprile 1980, nel quale il Sismi riferì al presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, e ai ministri della Difesa e della Giustizia, rispettivamente Lelio Lagorio e Tommaso Morlino, nonché al segretario generale del Cesis, il prefetto Walter Pelosi, l’allarmante notizia secondo cui elementi estremisti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), l’organizzazione terroristica guidata da George Habbash, avevano preso contatti con il terrorista venezuelano Carlos, nome di battaglia di Ilich Ramírez Sánchez, conosciuto internazionalmente anche come «lo Sciacallo».
Il Sismi, cioè il nostro servizio segreto militare di allora, segnalava la presenza di Carlos a Beirut. E riteneva possibile «un’iniziativa contro l’Italia», cioè un attentato come ritorsione per il mancato rispetto degli accordi del cosiddetto Lodo Moro. L’iniziativa avrebbe potuto essere «affidata ad elementi autonomi o non palestinesi e probabilmente europei, allo scopo di non creare difficoltà all’azione politico diplomatica di Arafat per il riconoscimento dell’Olp (cioè l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndr)». L’allarme del Sismi su Carlos a Beirut e sui suoi allarmanti rapporti con i palestinesi arriva a Roma esattamente 74 giorni prima del disastro del Dc9 Itavia, che intorno alle 21 del 27 giugno 1980 sarebbe precipitato con 81 persone a bordo nel Tirreno meridionale, tra le isole di Ponza e di Ustica. E arriva 110 giorni prima dell’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna, il 2 agosto 1980, che avrebbe provocato la morte di almeno 85 persone. L’appunto inedito del Sismi, datato 14 aprile 1980 e da allora classificato «segretissimo», fu indirizzato al governo italiano dal capo del Centro Sismi a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone. Il messaggio era l’ultimo risultato di un lungo negoziato con un alto esponente del Politburo del Fplp, Taysir Qubaa, che Giovannone aveva avviato all’indomani dell’arresto a Bologna (il 14 novembre 1979) di un giordano di origini palestinesi, Abu Anzeh Saleh, responsabile della rete clandestina del Fplp in Italia. Saleh, che come copertura era studente universitario a Bologna, era stato coinvolto nel traffico di due lanciamissili di fabbricazione sovietica SAM 7 Strela, che i carabinieri avevano sequestrato la notte tra il 7 e l’8 novembre di quell’anno a Ortona. Le trattative tra Giovannone e Qubaa, che agiva come diretto superiore di Saleh e rispondeva al Fplp di George Habbash per le attività del suo «uomo in Italia», si erano intensificate dopo la condanna a 7 anni di reclusione che il 25 gennaio 1980 era stata inflitta dal Tribunale di Chieti a Saleh e ai suoi complici, i tre esponenti romani di Autonomia operaia Giorgio Baumgartner, Luciano Nieri e Daniele Pifano: i tre erano stati arrestati nei pressi del porto di Ortona (Chieti) la notte del 7 novembre 1979 mentre in un furgone trasportavano i due lanciamissili, acquistati dal Fplp al prezzo di 60mila dollari. Dopo quell’arresto, e soprattutto negli ultimi mesi, Giovannone e Qubaa avevano giocato una rischiosa partita a scacchi che li aveva impegnati anche e soprattutto a titolo personale. Per tutti e due era una sorta di patto col diavolo. Il primo, infatti, era un po’ il «fideiussore» del controverso Lodo Moro, cioè l’accordo segreto (il cui nome era collegato a quello dell’ex presidente del Consiglio che aveva spinto per la sua stipula) che impegnava il nostro governo a tollerare il passaggio sul suolo italiano di elementi del terrorismo palestinese, ottenendone in cambio la garanzia che non si sarebbero verificati attentati contro obiettivi del nostro Paese. Giovannone era anche il «garante» delle attività di Abu Anzeh Saleh in Italia. E lo era sin dal 27 ottobre 1974, come dimostra un salvacondotto predisposto in favore di Saleh e controfirmato dal direttore dei servizi segreti militari di allora, l’ammiraglio Mario Casardi, il quale riconosceva e sottoscriveva le rassicurazioni fornite all’epoca proprio da Qubaa. Quest’ultimo, sul versante opposto, era il burattinaio dello stesso Saleh, con cui aveva forse un legame di parentela, e rispondeva delle sue attività al Politburo del Fplp. Se Qubaa, a causa di un suo uomo (in questo caso Saleh), creava un problema che rischiava di coinvolgere l’organizzazione, toccava a lui trovare al più presto una soluzione. A parti invertite, lo stesso meccanismo valeva per Giovannone, ma nei confronti del servizio segreto militare e dello Stato.
Giovannone e Qubaa, insomma, erano coinvolti in un doppio intreccio ad alto rischio, personale e professionale, che risaliva all’autunno del 1974 e che si era aggrovigliato proprio intorno alla figura e al ruolo di Saleh. Un personaggio che per il Fplp faceva da ufficiale di collegamento in Italia con il gruppo Carlos, l’organizzazione terroristica «Separat», così denominata dalla Stasi, i servizi segreti della Germania orientale. Non va dimenticato, infatti, che nell’agenda personale di Saleh, sequestrata dai carabinieri nel suo appartamento bolognese il 14 novembre 1979, cioè il giorno stesso del suo arresto, alla pagina corrispondente al 22 luglio di quell’anno era annotato il numero della casella postale noleggiata da Saleh alle Poste centrali di Bologna: il 904. Lo stesso numero di casella postale era stata annotata da Carlos nella sua agendina, ritrovata dal servizio di sicurezza ungherese nella base dello Sciacallo a Budapest. Nell’appunto del Sismi del 14 aprile 1980 c’è la conferma di quanto avrebbe dichiarato a verbale – l’8 ottobre 1986, davanti al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, nell’ambito dell’inchiesta sul traffico di armi tra l’Olp e le Brigate Rosse – il colonnello Silvio Di Napoli, all’epoca dei fatti vicedirettore della seconda Divisione del Sismi (ricerca all’estero), sui contatti presi a Beirut tra il Fplp e il super terrorista internazionale Carlos. Il colonnello Di Napoli rivelò (e il passaggio venne trascritto a mano dal giudice istruttore in calce al verbale dopo la sua riapertura, trattandosi di una integrazione di particolare rilevanza) che «dopo la prima condanna inflitta agli autonomi e al giordano pervenne da Giovannone l’informativa secondo cui il Fplp aveva preso contatti con il terrorista Carlos. Ciò avallò la minaccia prospettata da Habbash». Oggi, 37 anni dopo, trovano quindi una straordinaria conferma le dichiarazioni rese alla magistratura dal colonnello Di Napoli sui contatti tra Carlos e Fplp nella primavera del 1980, così come le sue rivelazioni sulle «minacce contro gli interessi italiani» da parte palestinese, nel quadro della crisi scoppiata all’indomani del sequestro dei lanciamissili a Ortona, con l’arresto e la condanna in primo grado dei tre autonomi romani e di Saleh. Tecnicamente, dal punto di vista formale, essendo il documento del Sismi, alla data dell’interrogatorio del colonnello Di Napoli, coperto da segreto di Stato da oltre due anni, l’ufficiale della nostra intelligence militare, rivelando quelle informazioni avrebbe commesso un reato. Fortunatamente per lui, nessuno se ne accorse. Tornando al documento del 14 aprile 1980, il Sismi attirava l’attenzione del governo di Roma sulle allarmanti notizie relative ai contatti presi in quei giorni dal Fplp con Carlos. Informazioni che avvaloravano le gravissime minacce palestinesi rivolte alle autorità italiane dopo la condanna di Saleh. Su questo punto esiste un ulteriore, straordinario riscontro. Il 28 marzo 1980 – appena un paio di settimane prima dell’appunto segretissimo inviato dal Sismi al governo Cossiga – Taysir Qubaa si era incontrato clandestinamente a Berlino Est con Carlos e con il suo braccio destro, il tedesco Johannes Weinrich, in una suite dell’Interhotel Stadt Berlin. Il loro incontro venne puntualmente registrato dalla polizia segreta della Ddr, come dimostra il rapporto informativo del 25 aprile 1980, predisposto dalla XXII divisione della Stasi. L’esponente palestinese, per dissimulare la sua identità, si era presentato alla riunione utilizzando il falso nome di Gerald Rideknight. C’è il fondato sospetto che Qubaa fosse un Giano Bifronte: da una parte cospirava con il gruppo Carlos contro il nostro Paese, dall’altra negoziava con il colonnello Giovannone, mostrandosi interlocutore «responsabile e moderato». Alla luce di quanto si scopre oggi, Qubaa appare come un campione del doppio gioco. E non è escluso che lo stesso Giovannone ne sia caduto vittima. L’appunto del Sismi del 14 aprile 1980 fu coperto dal segreto di Stato dal presidente del Consiglio Bettino Craxi il 28 agosto 1984, dopo che lo stesso Giovannone, indagato nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Roma sulla sparizione a Beirut (il 2 settembre 1980) dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni, chiese alla presidenza del Consiglio l’opposizione del segreto di Stato sui suoi rapporti con i palestinesi. L’appunto è stato declassificato il 26 marzo 2021, insieme ad altri, dall’Aise (l’Agenzia che ha preso il posto del Sismi). La decisione, due anni fa, è arrivata al termine di un lungo dialogo tra il governo presieduto da Mario Draghi e il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) presieduto da Adolfo Urso. Il 16 aprile 2021 il Dis (il Dipartimento alle dipendenze del governo che coordina l’attività dei due rami dei servizi segreti) ha preso atto del provvedimento di declassifica da segretissimo a segreto. Questo passaggio formale ha permesso al governo Draghi di svincolare dal «divieto assoluto di ostensibilità» numerosi atti del vecchio Sismi, relativi ai rapporti tra Giovannone e la dirigenza del Fplp, e di trasmetterne una parte all’autorità giudiziaria, che ne aveva fatto richiesta. L’appunto del 14 aprile 1980 fa parte di questa partita. Altri 32 documenti sono stati invece consegnati all’Archivio centrale dello Stato di Roma, e restano comunque non divulgabili con «vincolo di riservatezza».
Su L’Inkiesta.
Missili e ballisti. Le verità non giuridiche su Ustica e i decenni di disinformazione. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 12 Settembre 2023
La vecchia pista francese, rilanciata da Amato ma esclusa da sentenze e perizie, distorce la comprensione della storia. All’epoca del tragico incidente, non uno degli esperti formulò la conclusione che l’aereo Itavia fosse stato abbattuto da un attacco esterno
«È una verità universalmente riconosciuta» (che Jane Austen ci perdoni) che il diritto in Italia sia materia nebulosa per la pubblica opinione, organi di informazione compresi, e la classe politica. Interpretare correttamente una legge o spiegare una sentenza è attività improba e in taluni casi perfettamente inutile perché ignoranza e faziosità in qualche scriba e in taluni politici marciano assieme.
Ciò si risolve in un grave danno perché si risolve in una falsa informazione che distorce la comprensione della verità storica e inquina le scelte politiche che derivino da determinate vicende giudiziarie.
Nei giorni passati il sonnecchiante dibattito politico di fine estate è stato bruscamente scosso dall’intervista di Giuliano Amato a Simonetta Fiori su Repubblica in cui l’eminente giurista e statista ha espresso delle sue intime convinzioni sulla ricostruzione delle cause della tragedia di Ustica.
Egli ritiene «credibile» e «non del tutto irragionevole» la tesi, oggi largamente diffusa, che la vera causa della tragedia sia stato un missile di un aereo francese destinato a un altro velivolo che trasportava nella stessa notte Gheddafi.
È la tesi del «muro di gomma», quella che originò, oltre a un fortunato quanto mediocre film, un processo penale contro alcuni ufficiali dello stato maggiore dell’aeronautica accusati di alto tradimento per avere taciuto e occultato le prove sulla vera sequenza degli accadimenti della notte del 27 giugno 1980.
Ciò che sorprende è proprio il fatto che nelle polemiche quasi nessuno (e credo si possa levare il «quasi») abbia voluto ricordare e soffermarsi sul non trascurabile particolare degli esiti giudiziari.
Non solo gli imputati presunti «felloni» sono stati assolti non essendo dimostrato che fosse attendibile il famoso «tracciato» del radar Marconi di Fiumicino che avrebbe dimostrato la «scia» di un aereo libico dietro quello di Itavia, né che esistessero analoghe prove documentali su di un anomalo movimento di velivoli nella zona della tragedia. Al contrario, la perizia collegiale disposta dal giudice istruttore di Roma ha tassativamente escluso l’ipotesi del missile per indicare come causa del sinistro un’esplosione interna. Ricordiamo che essa fu effettuata sullo scheletro del velivolo recuperato al novanta per cento dai fondali marini.
Il collegio peritale presieduto da Aurelio Misiti, preside della facoltà di ingegneria della Sapienza di Roma, era composto da undici esperti, di cui oltre la metà provenienti da Università e istituzioni estere, tutti scelti dal giudice Priore, che nel provvedimento di rinvio a giudizio sostenne comunque la tesi che i militari avessero occultato tracciati e documentazione sui reali accadimenti di quella sera.
Come ebbe a ricordare lo stesso magistrato in una intervista del 2011 al Fatto, dal collegio furono poi allontanati «per gravi irregolarità» due periti ma dei restanti nove solo due si dissociarono dalle conclusioni adottate a schiacciante maggioranza dagli altri sette membri: fu un’esplosione interna nella toilette posteriore.
I due «dissidenti», Casarosa ed Held, peraltro esclusero anch’essi l’ipotesi missile, ma si limitarono a non escludere che potesse esservi stata teoricamente «una quasi collisione» con altro velivolo, del quale fosse stata ovviamente dimostrata la presenza. In conclusione: non uno degli esperti (assolutamente eccellenti) formulò, sia pure con il beneficio del dubbio, la conclusione che il CD9 fosse stato abbattuto da un attacco esterno.
Non volendo rientrare nella categoria dei «patetici», nella quale il presidente Amato colloca i dissidenti dalla tesi del missile, suggeriamo di leggere il libro “La strage di Ustica, il processo e le verità oscurate”, ed. Bulzoni, pubblicato di recente e scritto dai due avvocati che in giudizio difesero il capo di stato maggiore Franco Ferri.
Gli autori, Giampaolo Filiani e Gregorio Equizi, con la tipica e noiosa pignoleria degli avvocati, così lontana dalla verve investigativa dei grandi inviati sugli inestricabili misteri italiani, elencano e riproducono gli eventi del processo, il contenuto delle varie testimonianze, i passaggi della perizia Misiti e soprattutto il contenuto di ben tre sentenze che hanno assolto gli ufficiali in appena trecento pagine che chiunque voglia farsi un’opinione documentata può consultare.
Per la precisione, il generale Ferri, prosciolto per prescrizione dalla più grave accusa di tradimento, è stato poi assolto nel merito con sentenza della corte di appello di Roma poi confermata dalla Cassazione.
Vale la pena di riprodurre un passo della motivazione di secondo grado, dove la Corte espressamente sottolinea che «l’accusa (di aver occultato l’attacco aereo) non è altrimenti dimostrabile se non affermando come certo quanto ipotizzato (dall’accusa e dall’opinione pubblica), ma non vi è chi non veda in essa la trama di un film di spionaggio ma non un argomento degno di una pronunzia giudiziale» (pagina 48 della sentenza Corte di Assise di appello di Roma). Così, dopo un processo di un milione e 750 mila pagine di istruttoria, quattromila testimoni e 277 udienze.
Sempre dal libro di Filiani ed Equizi si trae uno spunto di indubbia attualità leggendo la deposizione di uno dei periti, lo svedese Gunno Gunnval, il 19 Dicembre 2002: «Nel 1990, quando l’ho incontrato per la prima volta, il dottor Priore (il giudice istruttore dell’indagine) mi ha detto varie cose tra cui che il giornalista Purgatori del Corriere della Sera… gli era stato indicato… detto da qualcuno che era stato un missile ad abbattere il DC9… due anni dopo, nel 93 il dottor Priore mi ha dato una registrazione della Rai ed il giornalista italiano era andato a Mosca ed ha intervistato un agente sovietico dell’intelligence. Lo dico perché la mia impressione è che il popolo italiano sia stato influenzato da un antiamericanismo…» (pagina 17).
Una personale opinione anche questa, che è agli atti del processo e che, sebbene formulata oltre un ventennio fa, non può non richiamare tecniche e prassi di disinformazione con cui ancora oggi le democrazie occidentali devono fare i conti.
Una sentenza non è il Talmud né la verità assoluta, ma un parametro ineludibile con cui confrontarsi per evitare di degradare nel complottismo. Si possono nutrire dubbi, ma la Storia, quella vera, deve avere la pazienza di dimostrare dove una perizia ha errato e dove esista la certezza «ogni oltre ragionevole dubbio».
Altra cosa sono le personali opinioni e sia consentito osservare che non può esistere un «doppio binario» sulle sentenze, alcune (vedi la strage di Bologna) inconfutabili e altre come Ustica e la Trattativa, discutibili e che non fanno testo. In un momento storico e politico come questo, la manipolazione della realtà è un attacco alla democrazia, da qualunque parte e per qualsiasi scopo perseguito.
Su Il Riformista.
Meloni: "Non solo supposizioni, Amato porti elementi". Strage Ustica, Urso: “Non posso dire nulla, vincolato al segreto” | Craxi: “Amato confuso”. Ma l’ex maresciallo conferma: “I documenti ci sono ancora”. Redazione su Il Riformista il 2 Settembre 2023
Urso: “Ci sono atti? “Non ho nulla da dire”- “Su questo argomento non posso esprimere nessuna opinione perché sono vincolato al segreto essendo stato anche il presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica”. Lo ha detto il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, interpellato sulle rivelazioni di Giuliano Amato in merito all’abbattimento del Dc9 a Ustica.
La versione del maresciallo Giuseppe Dioguardi
A distanza di 43 anni dalla strage costata la vita a 81 persone, l’ex maresciallo dell’aeronautica torna a parlare, come aveva già fatto nel 2013, dopo essere stato sentito dai magistrati ma, soprattutto, dopo essersi ‘liberato’ del nullaosta di sicurezza che non gli consentiva, in quanto militare, di poter parlare di quello che era successo quella notte. Si chiama Giuseppe Dioguardi e quella notte d’estate del 1980, quando un Dc9 precipitò in mare sui cieli di Ustica, aveva appena 19 anni, uno tra i più giovani in servizio nella sala operativa della Prima regione aerea a Milano. Ricorda tutto di quei momenti, le comunicazioni, i messaggi, la tensione e l’allarme. “Finalmente anche Amato conferma quanto dissi io stesso dieci anni fa”, dice intervistato dall’Ansa aggiungendo che “i documenti dell’epoca ci sono ancora, bisognerebbe solo saperli cercare nel modo corretto”.
Giovanardi: “Si crea un incidente diplomatico con i nostri alleati francesi” – “In un momento delicatissimo per l’Europa, la Nato e soprattutto durante un conflitto in corso sul nostro continente tra Ucraina e Russia, si crea un incidente diplomatico con i nostri alleati francesi. Considerando che non c’è nulla che certifica quanto detto da Amato nell’intervista a Repubblica, mi aspetto arrivi subito rettifica o almeno una smentita. Altrimenti si mette in ridicolo l’Italia, al di là dell’appartenenza a questo o quel partito”. A dirlo Carlo Giovanardi, ex ministro ed esperto conoscitore della questione, in un’intervista al quotidiano L’Identità.
La reazione della Francia
Ustica: Francia, abbiamo già fornito tutti elementi – “La Francia ha fornito gli elementi a sua disposizione ogni volta che è stata interpellata su questa tragedia, in particolare nel quadro delle indagini condotte dalla Giustizia italiana”. Lo afferma con una nota il ministero degli Esteri francese. “Naturalmente – prosegue il Quai d’Orsay – rimaniamo disponibili a collaborare con l’Italia, se lo chiederanno”.
Francobolli di storia. Nella vicenda drammatica di Ustica, osserviamo il lato oscuro della storia. La storia ci obbliga a confrontarci con le questioni universali, ci serve a combattere la peste del nostro tempo, presentismo e fake news, ma soprattutto la storia di serve a sconfiggere l’oblio. Senza passato non c’è idea di futuro. Riccardo Nencini su Il Riformista il 10 Settembre 2023
Lo scrittore americano Don Winslow, in ‘Città in fiamme’, si avventura in questo dialogo fra due mafiosi. ‘Sai cos’è la storia?’, chiede il capomafia al picciotto. ‘Boh, il racconto del passato’, risponde il picciotto dopo averci pensato a lungo. Il capo lo guata: ‘No, è quel che la gente dice sia successo nel passato’. Il capomafia ha ragione. La storia la raccontano soprattutto i vincitori e, nel farlo, adattano, emendano, modificano, tacciono, esaltano.
Nella vicenda drammatica di Ustica, e non è l’unica, a questi elementi si mescola la ragion di Stato. Verità che vengono rivelate solo dopo anni e, spesso, solo parzialmente. La ragion di Stato, insegna Macchiavelli, proprio perché è legata a una ragione superiore, risponde a una morale diversa dalla morale comune. L’interesse statuale viene per primo, va tutelato anche a costo della verità se è utile alla comunità nazionale. Bene, ma chi stabilisce il limite che non si deve mai superare, come si fissano i criteri della conoscenza, è giusto occultare pezzi di verità di fronte a una tragedia di quelle proporzioni e, infine, era davvero in ballo la ragion di Stato?
La storia ci obbliga a confrontarci con le questioni universali, ci serve a combattere la peste del nostro tempo, presentismo e fake news, ma soprattutto la storia di serve a sconfiggere l’oblio. Senza passato non c’è idea di futuro. Con parole forti l’ha detto da par suo Faulkner: il passato non è mai morto, anzi non è mai passato. Ma se la narrazione del passato è un legno storto fatto di omissioni, di mezze verità, di acrobazie da circo, come può sulla menzogna costruirsi il futuro? Una società senza memoria collettiva ha un’identità sfumata, è più debole. Se omettiamo di raccontare passaggi decisivi della nostra storia, o li raccontiamo nascondendo non un particolare ma un evento importante, la domanda ‘chi siamo davvero?’ ti sorprende come un ladro nella notte.
Non sono così ingenuo da pensare che nel governo degli Stati tutto avvenga alla luce del sole, tuttavia è tempo di definire un diverso canone. Siamo davvero certi che sia stata detta tutta la verità, fin dal gennaio-febbraio del 2020, sull’origine del Covid e sul suo impatto o, per ragioni in larga parte economiche, si è aspettato un po’ troppo a rivelarne gli effetti? Quante volte si camuffa sotto la voce ragion di Stato l’interesse particolare di chi governa in quel dato momento?
Da millenni l’uomo è mosso dai medesimi sentimenti: potere, paura, passioni. Tucidide, Napoleone e il commissario Ricciardi creato dal genio di De Giovanni concordano. Se i sentimenti che condizionano l’umanità sono questi, è fuorviante immaginare che la ragion di Stato viva nell’empireo e non risenta invece della condotta dei singoli quando siedono nella stanza dei bottoni. Una ragion di Stato a misura d’uomo, non a tutela di una comunità. Proprio quello che non ci serve. Riccardo Nencini
Su Il Dubbio.
Ustica, le parole di Giuliano Amato tra polemiche e consensi. Critiche da Bobo e Stefania Craxi, da Margherita Boniver e Matteo Renzi, mentre apprezzamenti arrivano dell’Associazione parenti delle vittime e dall’ex presidente della Camera Roberto Fico. Il Dubbio il 2 settembre 2023
L’intervista a Repubblica di Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio e presidente emerito della Corte Costituzionale, ha riaperto una ferita nella storia italiana. Amato ha parlato di presunte responsabilità della Francia e della Nato nella strage di Ustica, che la sera del 27 giugno 1980 vide morire sui cieli del mar Tirreno 81 persone che viaggiavano a bordo del volo Itavia IH870 da Bologna a Palermo. L’ex presidente del Consiglio tratteggia il disegno che sarebbe stato dietro la strage, parlando del piano alleato per eliminare il dittatore libico Muammar Gheddafi. Una verità, quella di Giuliano Amato, che si richiama a quella espressa nel 2008 dall’ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che per primo aveva sollevato il suo j’accuse contro la Francia.
Amato però va anche oltre, dicendo che ad avvisare Gheddafi dell’imminente pericolo fu il leader del Psi Bettino Craxi.
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni ha detto: «Quelle di Giuliano Amato su Ustica sono parole importanti che meritano attenzione. Il presidente Amato precisa però che queste parole sono frutto di personali deduzioni. Chiedo al presidente Amato di sapere se, oltre alle deduzioni, sia in possesso di elementi che permettano di tornare sulle conclusioni della magistratura e del Parlamento, e di metterli eventualmente a disposizione, perché il governo possa compiere tutti i passi eventuali e conseguenti».
in una nota, Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm, ha annunciato che condividerà «con l’intero Consiglio Superiore di valutare l’opportunità di avanzare alla Procura della Repubblica di Marsala la richiesta di rendere accessibili tutti gli atti del procedimento di potenziale interesse di quell’inchiesta e il compendio documentale delle iniziative portate avanti dal dottor Borsellino all’epoca. Tutto ciò, non solo per dare memoria ancora una volta dello straordinario contributo nell’interesse dello Stato da parte di Paolo Borsellino, ma anche per un dovere di carattere morale nei confronti dei familiari delle vittime, di vedere finalmente riconosciuto il diritto alla ricostruzione - per quanto possibile - della verità storica della tragedia di Ustica».
Le parole di Amato hanno provocato la reazione di Bobo Craxi che su twitter ha scritto: «È già scritto anche sui libri di storia che mio padre avvertì Gheddafi che lo avrebbero bombardato. Ma nel 1986». E il figlio dell’ex leader socialista continua: «A parte lo strafalcione storico, la tesi francese è sempre stata presente mai provata del tutto e mai smentita. Messa così tira in ballo mio padre facendo vistosa confusione di date. Nell’80 era letteralmente impossibile che fosse a conoscenza di operazioni alleate».
Anche per Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia e presidente della Commissione Affari esteri e difesa a Palazzo Madama, si tratta di «una ricostruzione che colpisce in primo luogo per le imprecisioni storiche che contiene. È risaputo, infatti, che il presidente del Consiglio Bettino Craxi fece avvisare Gheddafi del bombardamento che si preparava sul suo quartier generale di Tripoli nel 1986. Amato, invece, oggi ci rivela che lo stesso Craxi fu artefice di una eguale “soffiata” al leader libico collocandola temporalmente nel giugno 1980 e mettendola in relazione con il disastro del Dc9 dell’Itavia. Amato, però, non porta nessun elemento a sostegno di questa nuova tesi, trincerandosi dietro un ’avrei saputo più tardi, ma senza averne provà. Egli, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, condivise tutti gli atti dell’esecutivo a guida socialista, a cominciare dalle scelte di politica internazionale che resero grande l’Italia, messe in campo da un presidente del Consiglio che oggi ritiene “trasgressivo”. Se Amato ha elementi concreti che possano aiutare la verità e rendere giustizia alle vittime innocenti di Ustica, è pregato di renderli manifesti. In caso contrario, la sua è solo un testimonianza che aggiunge confusione a un quadro già complesso», conclude.
Per Matteo Renzi «il tema è che ci sono 81 italiani che sono morti nel modo più orribile, mentre andavano in vacanza, lasciando nel dolore famiglie che hanno chiesto la verità e continuano a chiederla. Che vi sia stato quello che Purgatori chiamava il muro di gomma è difficile negarlo e oggi Amato lo conferma in modo autorevolissimo. Per questo esprimo la perplessità sul modo in cui ha detto queste cose: noi dobbiamo trasparenza e verità a 81 famiglie prima di parlare con i francesi o i libici. Se ha qualche elemento in più, deve essere un po’ più conseguente e non limitarsi a un’intervista e a una ricostruzione del si dice. Chi come me o Amato ha fatto il premier e ha avuto accesso alla complicata materia dei segreti di Stato. il mio è un invito al presidente Amato: prima di chiedere a Macron, che andava alle medie al tempo di Ustica, prima di chiedere delle spiegazioni con un’intervista, dica tutto quello che sa, altrimenti sembra un messaggio in bottiglia e con 81 morti non si mandano messaggi in bottiglia».
Non si sbilancia il commissario Ue Paolo Gentiloni, altro ex presidente del Consiglio: «Non ho avuto tempo, ma credo che giornalisticamente sia una cosa molto interessante» da leggere.
Matteo Salvini ritiene che «Giuliano Amato ha rilasciato dichiarazioni di inaudita gravità a proposito di Ustica: è assolutamente necessario capire se ci sono anche elementi concreti a sostegno delle sue parole. Visto il peso delle affermazioni di Amato e il suo ruolo rilevante all’epoca dei fatti, attendiamo commenti delle autorità francesi».
A Rainews24 Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, ha detto: «L’abbattimento avvenne per opera dei francesi. Questo è quello che sta scritto nelle carte, e questo è quello che da anni rivendichiamo. Riteniamo che debba essere charita fino in fondo la responsabilità di chi abbattè quell’aereo. E quindi le parole di Amato vanno in questa direzione. Oltre alla magistratura che non riesce evidentemente ad avere risposte da questi Paesi è importante, come dice Amato, che sia la politica, il Governo nostro, a chiedere al Governo francese finalmente di raccontare e assumersi la responsabiltà dell’uccisione di 81 cittadini italiani».
E Alfredo Galasso, avvocato di parte civile dei familiari delle vittime della Strage di Ustica, ha dichiarato: «Finalmente è venuta fuori la verità su questa vicenda. Anche se con molto ritardo. Le cose sono andate esattamente così. Ma come si dice, meglio tardi che mai. Questo spiega anche l’atteggiamento tenuto sempre dal governo francese. Un atteggiamento difensivo e ostativo rispetto a tutto quello che è successo. Certamente adesso mi aspetto che il governo italiano faccia una formale richiesta al governo transalpino, chiedendo conto alla Francia di quanto successe a suo tempo. Sono passati tanti anni, ma questa è una vicenda così grave che merita una risposta precisa e puntuale rispetto a quella elusiva che fu data a suo tempo».
Critiche a Giuliano Amato arrivano anche da Margherita Boniver, già vice ministro degli Esteri ed esponente socialista: «L’intervista di Giuliano Amato è scandalosa. Innanzitutto perché sembra svegliarsi da un letargo durato oltre 40 anni, e in secondo luogo perché riesce ad offendere la memoria di Bettino Craxi, il quale certamente aveva fatto avvisare Gheddafi delle intenzioni da parte americana di bombardare Tripoli, ma questo avvenne nel 1985 e non certamente durante l’episodio orribile della strage di Ustica. Infine continua poi attaccando e diffamando la Nato e le sue intenzioni omicide e illegali in un momento in cui il nostro Paese ha un governo e un parlamento filo-atlantico in difesa della resistenza Ucraina. Per ultimo un invito pesante a Macron per confermare il coinvolgimento francese sempre smentito dalle forze militari italiane. Un bel gruppo di soggetti ricorderanno con stupore l’improvviso ritorno di memoria di un personaggio così ben informato ma che aveva perso apparentemente la memoria. Tutto questo comunque non può che nuocere al nostro Paese descritto come una banda di incapaci, pasticcioni e mentitori», conclude.
L’ex presidente della Camera dei deputati Roberto Fico in una nota scrive: «Le parole di Giuliano Amato sulla strage del Dc9 nei cieli di Ustica hanno un grande peso specifico. Chiariscono contorni, spiegano dinamiche internazionali e danno indicazioni evidenti sulle responsabilità. La sera del 27 giugno 1980 a bordo dell’aeromobile Itavia c’erano 81 persone che persero la vita a causa di un vero e proprio scenario di guerra che vide protagonisti aerei militari francesi e libici. Quello che Andrea Purgatori ha raccontato nelle sue inchieste è oggi confermato dall’ex Presidente del Consiglio. Da Presidente della Camera durante il mio mandato ho sempre voluto ribadire la richiesta di verità e giustizia per quanto accaduto, sostenendo l’instancabile lavoro dell’Associazione parenti delle vittime guidata da Daria Bonfietti. L’ho fatto in più incontri con i miei omologhi francesi e anche in un bilaterale con il ministro della giustizia Dupond-Moretti, affinché da parte francese fosse data risposta a una serie di richieste inevase della nostra magistratura». «Fare verità sui segreti più dolorosi della nostra storia - conclude l’ex presidente di Montecitorio - è importante per rafforzare le nostre comunità, per dare sostanza alle nostre democrazie. Sono passati tanti anni e conosciamo bene questa storia, ma ugualmente un gesto netto da parte francese sarebbe certamente un messaggio di grande valore. Lo attendiamo».
Andrea De Maria, deputato Pd, ricorda: «Ho presentato negli anni diverse interrogazioni parlamentari, con il collega Verini, per sollevare il tema che oggi pone così autorevolmente Amato sulla strage di Ustica. Cioè l’importanza che si assumano iniziative verso paesi amici dell’Italia, come Francia e Stati Uniti, e in sede Nato per avere notizie utili a fare piena luce sulla strage di Ustica. Su quella battaglia area nel cielo del Paese nella quale è rimasto coinvolto un nostro aereo civile. Lo dobbiamo alle vittime e ai loro familiari. Lo dobbiamo alla dignità dell’Italia, di cui fu evidentemente violata la sovranità. Dopo queste dichiarazioni cosi importanti chiederò di nuovo al Governo, con una interrogazione parlamentare, di attivarsi in questa direzione».
Ustica, la strage matrice di tutti i complottismi. Nel 1998 la celebre chiamata anonima alla trasmissione Telefono Giallo con Giuliano Amato in studio: è la prima volta in assoluto che un mistero di Stato irrompe in diretta televisiva. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 4 settembre 2023
A cambiare tutto fu una telefonata in diretta tv. È il 6 maggio 1988: nel corso della trasmissione d’inchiesta Telefono Giallo il conduttore Corrado Augias manda in onda la testimonianza di una persona che si presenta come «aviere in servizio a Marsala» la sera della strage e che ha «elementi molto pesanti» da rivelare.
In studio l’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato. L’uomo afferma di aver visto perfettamente i tracciati (dei missili) di cui si stava discutendo in studio ma i suoi superiori gli hanno ordinato di tacere: «Il maresciallo responsabile ci disse di farci gli affari nostri e di non dare seguito alla questione». La testimonianza, rilasciata «per un tormento emotivo interiore» sembra molto credibile, almeno per i nostri organi di informazione anche se l’identità dell’ascoltatore rimarrà segreta: «Non voglio rogne» spiega prima di riattaccare la cornetta nel disappunto generale.
È la prima volta in assoluto che un mistero di Stato irrompe in diretta televisiva, entrando nelle case degli italiani con un colpo di scena degno di una spy story d’oltreoceano, è la consacrazione della “tv verità” teorizzata e realizzata dal direttore di Rai3 Massimo Guglielmi (sono gli anni in cui nascono trasmissioni cult, ancora oggi nei palinsesti come Un giorno in pretura e Chi l’ha visto) ma soprattutto di un nuovo modo di fare giornalismo, senza dubbio più diretto e popolare, ma anche più esposto al sensazionalismo e alle scorciatoie giustizialiste: «È l’unica volta in novanta puntate di Telefono giallo in cui mi sono veramente emozionato» commenta Augias a distanza di qualche anno, cosciente di aver scritto una pagina memorabile della nostra televisione senza però dare l’impressione di misurarne gli effetti.
Nella pubblicistica ufficiale e nell’immaginario collettivo Ustica diventa la “madre di tutti i misteri” un romanzo nero che appassiona e spaventa gli italiani, un intreccio pazzesco di trame internazionali, di cospirazioni e depistaggi, un ordito fitto di bugie e di verità che affondano nella solita palude italica. Con l’irresistibile tentazione di unire i puntini di quella tragedia agli altri misteri della nostra storia recente in un confuso patchwork complottista: il rapimento Moro, la strage di Bologna e quella di Piazza Fontana, Gladio, la Cia, il Kgb.
È l’idea permanente dello “Stato parallelo”, una presenza occulta che attraverso gli immancabili “servizi deviati” sarebbe dietro ogni mistero nazionale, dal terrorismo alle stragi. Una notte della repubblica in cui tutte le vacche sono grigie nonché una morbosa telenovela alimentata in parte dallo scandalismo un po’ mitomane dei media, in parte dall’effettiva opacità degli apparati dello Stato perché ogni teoria del complotto di successo prende sempre le mosse da elementi verità o comunque plausibili.
Le inchieste giudiziarie hanno stabilito con certezza che nella vicenda di Ustica ci furono insabbiamenti, depistaggi e azioni di favoreggiamento ma i quattro ufficiali accusati di alto tradimento per aver omesso o trasmesso documentazioni false all’autorità giudiziaria sono stati assolti perché «il fatto non sussiste». Nel processo civile invece i ministeri della Difesa e dei Trasporti sono stati condannati a risarcire oltre 100 milioni di euro ai 42 familiari delle vittime per non aver saputo prevenire e garantire la sicurezza del velivolo con i radar civili e militari.
La telefonata che fece la fortuna di Corrado Augias e della sua trasmissione venne presentata come un fondamentale punto di “svolta” dell’inchiesta, ma la svolta avvenne solo nel linguaggio televisivo e nel rapporto tra media, giustizia e opinione pubblica. Fu una rottura culturale, non una prorompente verità giudiziaria come certa mitologia ancora oggi lascia credere. Dal punto di vista sostanziale le conclusione a cui sono giunti i giudici non avevano alcuna relazione con la telefonata del 6 maggio 1988. Anche perché stiamo parlando di una voce anonima che nessuno tra gli addetti alla sala radar di Marsala ha riconosciuto o ha saputo farlo quando la settimana successiva la procura di Marsala ascoltò ufficiali, sotto-ufficiali e avieri in servizio la sera della strage. Né il misterioso individuo apparentemente tormentato dai rimorsi si è mai più fatto vivo nel corso degli anni per denunciare quei fatti.
Fu lo stesso Rosario Priore, titolare dell’inchiesta, a escludere l’attendibilità della notitia criminis comunicata dall’ignoto ex aviere ridimensionando la sua importanza: «L’indagine preliminare non ha consentito di verificare la fondatezza della notizia medesima, non riscontrata in alcuna delle deposizioni rese da parte di militari addetti alla sala operativa del radar di Marsala. Dagli esami testimoniali non si acclaravano elementi tali per consentire l’identificazione del sedicente aviere».
La fragile “innocenza” del dottor Sottile: vide o no le carte su Ustica? Giuliano Amato sembra evocare quell’“Io so ma non ho le prove” di Pasolini senza essere un “semplice” intellettuale. Le bordate a Craxi e Cossiga. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 4 settembre 2023
Giuliano Amato non è Pier Paolo Pasolini, non perché sia privo di cultura, soprattutto giuridica, ma perché non può buttare lì il suo “Io so, ma non ho le prove”, dimenticando i suoi ruoli politici e di governo negli anni in cui, in un giorno, il 27, in un mese, giugno, in un anno, il 1980, esplose in cielo il DC9 Itavia con il suo carico di 81 morti. Chi è stato ministro e presidente del Consiglio è molto di più e molto di meno di un intellettuale come Pasolini, che attribuì a se stesso, nel nome del proprio ruolo di uomo di cultura, il compito di rivelatore di “verità”, storiche, politiche e giudiziarie.
Già, le stragi in Italia. Ci fu chi, come il grande giornalista Luigi Pintor, e in parte anche un grande Capo di Stato come Francesco Cossiga, era convinto della “casualità” di certe bombe, prima di tutto quella di piazza Fontana a Milano del 1969. E così per la strage di Bologna. Convinzione radicata in una ragione della politica. È troppo fumoso e generico attribuire ogni volta, spesso al terrorismo di destra e ai servizi segreti o alla P2, l’uso delle bombe per indurre cittadini spaventati a consistenti spostamenti elettorali.
È la teoria che sta dietro alla fortunata formula della “strage di Stato” della sinistra più estrema degli anni Settanta. Ma anche alla retorica antifascista molto da “rossa Emilia” della vulgata sulla strage del 2 agosto 1980. Per arrivare ai pubblici ministeri di Firenze e alle loro indagini nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri, che avrebbero seminato sangue, morti e terrore per far fuori il governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 e conquistare Palazzo Chigi.
È però evidente che un conto è dire e scrivere “Io so perché sono un intellettuale”, quindi parlo di delitti e bombe anche senza prove né indizi, mentre diverso è se il ruolo istituzionale ti ha dato la possibilità di essere bocca della verità, se hai avuto gli strumenti, se parlavi da uno degli scranni più alti. Perché allora abbiamo il dovere di crederti, se lo hai giurato in un’aula di tribunale dove si giudica nel nome del popolo italiano, o se lo hai garantito in Parlamento rispondendo all’interrogazione di un eletto dai cittadini, o se lo hai assicurato in una Commissione bilaterale che ha gli stessi poteri requirenti dell’autorità giudiziaria. Se questo fosse stato il percorso, con chiarezza, lealtà e coerenza, ecco che avrebbe senso l’intervista che Giuliano Amato ha rilasciato sabato scorso alla giornalista Simonetta Fiori di Repubblica. A una penna colta di autrice di libri, non a un complottista di professione. Singolare scelta dell’interlocutore, per scagliare un messaggio politico così dirompente. Ma forse questa non era l’intenzione, a meno che non siamo costretti a dare ragione a Marco Travaglio. Il quale, ignorando il fatto fisiologico per cui tutti, se si è fortunati, prima o poi si invecchia, attribuisce a Giuliano Amato l’intervista, che lui chiama “non rivelazioni” (invidioso?), come “una sorta di elisir di lunga vita”, una specie di “parlo dunque esisto”. Ma sarebbe poco adatto al personaggio.
Ovvio che la persona intervistata non è responsabile dell’impaginazione né dei titoli che svettano sull’articolo. Però, se colui che, negli anni immediatamente successivi al 27 giugno del 1980, fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e successivamente Capo del governo dice, sia pure quarant’anni dopo, “ecco la verità su Ustica”, vuol dire che il suo “Io so” non è il pasoliniano “non ho prove né indizi”, ma il sapere certo di chi parla ex cathedra.
Non è importante sapere che cosa c’è “dietro” le sue dichiarazioni, lasciamo questo compito ai complottisti di professione. A partire, anche se spiace sempre un po’ dirlo nei confronti dei parenti delle vittime, dall’onorevole Daria Bonfietti. Che non mostra mai avere dubbi sul fatto che la verità dei fatti sia sotto gli occhi di tutti. Ma non si può tralasciare, prima ancora, la parte tecnica della ricostruzione fatta dalle inchieste giudiziarie, come ha ricordato ieri in un’intervista al Corriere della Sera l’ex Pg Giovanni Salvi, che fu pm nell’inchiesta su Ustica dal 1990 al 2002.
Non è stata trovata la prova, si dice nelle carte, dell’impatto esterno che il DC9 avrebbe ricevuto da un missile o altro. D’altra parte anche la teoria della bomba piazzata all’interno dell’aereo ha dato risultati nelle perizie quanto meno contraddittori. A questa ipotesi, a quanto pare, credono o hanno creduto solo gli ufficiali dell’aeronautica, che sono stati sospettati di depistaggio e poi processati e assolti. Tutti gli altri paiono aderire all’ipotesi lanciata da Cossiga nel 2008 e che fece riaprire quelle indagini non ancora chiuse, ma che parevano avviate all’archiviazione, fino alle nuove dichiarazioni di Amato. E cioè che, come lui stesso ripete nella sua recente intervista, «la versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Ghedddafi, in volo su un Mig della sua aviazione».
L’ errore, il caso, dunque. Con un pizzico di veleno che non vogliamo lasciare inosservato. Perché questo “Dottor Sottile”, che andrebbe ribattezzato il “Dottor Perfido”, tira due siluri a due ex amici che non possono difendersi: a Craxi, cui attribuisce un ruolo impossibile mentre era segretario del Psi senza incarichi di governo, e a Cossiga, definito “bipolare”. Quasi come se avesse voluto, a tanti anni di distanza, fare una ricostruzione storica a modo suo. Con ogni figurina rimessa al suo posto. Non processi, ma storia. Finalmente tutta sua.
Su Il Foglio.
Estratto dal “Foglio” martedì 5 settembre 2023.
Senza mancare di rispetto ad Andrea Purgatori, va detto che il vero, imperforabile “muro di gomma” in Italia è quello del complottismo. L'ultima, mal calibrata esternazione di Giuliano Amato su Ustica, e molte delle reazioni che ha causato (e persino la scelta di Repubblica di darle un racconto risalto), ne sono noiosa conferma.
[…] Su Ustica ci sono stati due decenni di indagini. Il quadro probabilistico-probatorio in base al quale si trattò di un “atto di guerra” e non di un attentato-bomba, a molti esperti pare il migliore. Ma l'inchiesta che si concluse nel 1999 non arrivò a indicare dei responsabili. Per l'ipotesi missilistica, come ha ricordato Giovanni Salvi, […] “manca la prova”.
Così come non si sono mai trovate tracce di una bomba. I processi per i presunti depistaggi e per alto tradimento nei confronti di esponenti militari si sono conclusi con assoluzioni.
Ma tutte le frasi sono criticabili (però, se vale per Ustica, perché non è criticabile la sentenza di Bologna?). L'intervista di Amato ricalca, in gran parte, un'esternazione del 2007 di Cossiga, che addebitava alla Francia la responsabilità. Per entrambi, vale la stessa domanda: perché allora hanno tacito per decenni?
Domanda inutile, perché nessuno darà la vera risposta, che spazzerebbe via il complottismo: se fu un tragico errore in un atto di guerra, fu coperto perché di guerra si trattava. L'indagine scrisse “incidente avvenuto a seguito di azione militare”. Purgatori parlava di “azione di guerra rimasta impunita in tempo di pace, in un periodo di fortissima tensione politica e militare nel Mediterraneo”. Ma, appunto, nonostante gli adoratori dell'art. 11, c'era una guerra e l'Italia ne era parte. Una guerra, ma nessun complotto.
Su L’Unità.
Amato fa marcia indietro su Ustica: “Non so nulla di nuovo, non rispondo dei titoli dei giornali”. "Nessuna intenzione di creare difficoltà al governo. Perché mai?". L'ex premier ha detto di aver voluto riportare quel caso irrisolto all'attenzione pubblica. "Gli anni passano, le famiglie sono lì, convinte che la verità non sia ancora venuta fuori e i testimoni rimasti possono andarsene presto". Redazione Web su L'Unità il 4 Settembre 2023
Giuliano Amato spiega di non aver raccontato “nulla di nuovo. Non era nelle mie possibilità, non era nelle mie intenzioni”. È una mezza marcia indietro quella che l’ex Presidente del Consiglio in alcune risposte al quotidiano La Verità. Amato è tornato sulle dichiarazioni che aveva rilasciato al quotidiano La Repubblica sulla strage di Ustica del 27 giugno 1980. “Io ho solo rimesso sul tavolo un’ipotesi già fortemente ritenuta credibile, non perché avessi nuovi elementi, ma per sollecitare chi li ha a parlare, a dire la verità. Non altro”. Quell’intervista aveva suscitato enorme clamore e diverse reazioni dal governo francese e quello italiano ai familiari dell’ex Presidente del Consiglio Bettino Craxi.
L’intervista era stata pubblicata sabato scorso da Repubblica. Nella strage di Ustica, quando un aereo DC-9 cadde in mare, non lontano dall’isola a nord di Palermo, nel 1980, morirono 81 persone: uno dei più grandi misteri della storia italiana, ancora oggi cause e responsabili restano sconosciuti. Amato aveva dichiarato che ancora oggi “la versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese”, che il DC-9 fu probabilmente abbattuto per errore da un caccia francese che voleva colpire un aereo Mig su cui si pensava viaggiasse il leader libico Muammar Gheddafi. “Ecco la verità su Ustica, Macron chieda scusa”, il titolo in apertura di prima pagina comparso su Repubblica.
“La versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. E il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario”. L’abbattimento del volo italiano di linea sarebbe stato quindi un errore, Gheddafi sarebbe stato avvertito dell’agguato e non sarebbe salito a bordo del Mig mentre il missile sganciato dal caccia francese colpiva il DC-9.
“Dei titoli con cui un articolo o un’intervista vengono presentati – lei lo sa quanto me – non risponde l’autore”. Amato ha chiesto al governo francese e al Presidente Emmanuel Macron di fare chiarezza. È stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei primi due governi Craxi e nel 1986 ebbe dallo stesso Craxi l’incarico di occuparsi della vicenda. Amato ha raccontato di aver saputo in seguito ma “di non avere le prove” che ad avvertire Gheddafi del possibile attentato fosse stato Craxi. “Purtroppo non ricordo chi mi disse che era stato Craxi a informare Gheddafi anche se il ricordo è rimasto – ha aggiunto a La Verità – Su chi informò Gheddafi è ben possibile che ci sia stata confusione di date fra l’86 e l’80, quando secondo Luigi Zanda (ex portavoce di Cossiga, ndr) oggi, furono i servizi. Onestamente non riesco a dire se la confusione l’ho fatta io o se l’ha fatta chi mi parlò di Craxi come informatore di Gheddafi”.
Amato ha dichiarato di aver rilasciato quell’intervista soltanto per “riportare il tema all’attenzione, sollecitare chi potrebbe convalidare quell’ipotesi a parlare. Gli anni passano, le famiglie sono lì, convinte che la verità non sia ancora venuta fuori e i testimoni rimasti possono andarsene presto. Come può capitare a me, data la mia età”. E ha aggiunto di non aver avuto “nessuna intenzione di creare difficoltà al governo. Perché mai?” Redazione Web 4 Settembre 2023
La strage del DC-9 Itavia. Ustica, quando Amato rispose da testimone in tribunale: “Non ricordo”. Non ricordo”. È questa la risposta più ricorrente nella testimonianza resa da Giuliano Amato nell’udienza dell’11 dicembre del 2001 dinnanzi alla Corte di Assise di Roma. Iuri Maria Prado su L'Unità il 3 Settembre 2023
“Non ricordo”. È questa la risposta più ricorrente nella testimonianza resa da Giuliano Amato nell’udienza dell’11 dicembre del 2001 dinnanzi alla Corte di Assise di Roma. Era il processo contro i militari italiani accusati di aver depistato le indagini a proposito della presunta “battaglia aerea” sulla scena del disastro di Ustica, processo che in appello si concluse con l’assoluzione degli imputati perché il fatto non sussisteva.
E in effetti in quell’occasione Giuliano Amato non ricordava praticamente nulla di quanto avrebbe invece ricordato ventidue anni dopo, chiacchierando con il giornalista di Repubblica che l’altro giorno l’ha intervistato. A cominciare appunto dalla “battaglia aerea”, dall’aereo francese che avrebbe sganciato il missile dopo aver fatto decollo da una portaerei al largo della Corsica, e dalle relazioni tecniche (Amato fa riferimento a quella elaborata dalla commissione Luzzatti, prima del recupero del relitto) che avrebbero “escluso fin dal primo momento l’ipotesi di una bomba esplosa all’interno” del DC-9 Itavia.
Tutte cose, tutte certezze, di cui non c’è nessuna traccia in quella testimonianza resa da Giuliano Amato, sotto giuramento, nel 2001, cioè ben dopo il recupero del relitto. In quella sede Amato dice di essersi fatto un’idea “personale” della causa dell’incidente, alla luce di una relazione tecnica che tuttavia (ma a Repubblica Amato non lo dice, né Repubblica lo precisa) non escludeva affatto la bomba a bordo e non si concludeva accreditando l’ipotesi del missile: e probabilmente tra le cose di cui dice di ricordarsi benissimo oggi, Amato dimentica quelle di cui diceva di non ricordarsi in nessun modo nel 2001.
Come d’altra parte non ricorda, oggi, che era solo una sua personale convinzione, non suffragata da nulla di certo né prima né dopo il recupero del relitto, il fatto che l’aereo fosse stato abbattuto da un missile. C’è un film sul presunto “muro di gomma” contro l’accertamento della verità di quelle ricostruzioni (la battaglia aerea, il missile, eccetera). Nella causa che i militari mossero agli autori, questi si difesero dicendo che il loro era un esperimento artistico e che il film “non propone la ricostruzione storico-documentaristica della realtà”. Magari da qualche parte la prova della battaglia aerea e del missile c’è. Non in quel film. Non nell’intervista rilasciata da Giuliano Amato a distanza di ventidue anni dai suoi deboli ricordi.
Iuri Maria Prado 3 Settembre 2023
La strage del DC-9 Itavia. Il Dc9 di Ustica esplose per una bomba, il missile è fantapolitica. I periti fornirono ampie prove: il Dc9 esplose a causa di una bomba. Ma Priore negò l’evidenza e montò una teoria, poi stroncata dalla Corte. Leonardo Tricarico su L'Unità il 6 Settembre 2023
Nel vissuto ultraquarantennale della tragedia di Ustica alcune circostanze o personaggi, talvolta dirimenti, non sono stati messi sufficientemente a fuoco, con il risultato – scontato – che venire a capo di una vicenda così complicata sia risultato significativamente più difficoltoso, se non impossibile.
Prendiamo ad esempio Rosario Priore e la vera e propria epopea con cui ancora oggi viene dipinto. Nel corso delle indagini durate complessivamente circa dieci anni, (anche in virtù delle proroghe accordategli), Priore incassa il primo vero risultato con la Commissione peritale da lui stesso confermata nell’incarico, quella presieduta da Aurelio Misiti. Detto per inciso, un consesso formato da undici esperti scelti tra i più professionali reperibili a livello internazionale ed appartenenti a paesi non sospettati di aver avuto un qualunque coinvolgimento nella vicenda.
Siamo nel luglio del 1994: Misiti, in concordanza con il parere unanime dei suoi colleghi periti, dice a Priore che l’unica ipotesi compatibile con le risultanze emerse è quella dell’esplosione di una bomba collocata all’interno del velivolo e ne fornisce, nella sua relazione, ampia ed incontrovertibile prova. Priore si mostra riluttante a recepire i risultati, pare non accettare il responso peritale, temporeggia, chiede ulteriori verifiche a singoli componenti del collegio, ma le cose non cambiano. Stesso recalcitrare di Priore quando quattro anni dopo, nel luglio 1998 i pm Giovanni Salvi, Vincenzo Rosselli e Settembrino Nebbioso gli consegnano la requisitoria in cui, in piena assonanza con la relazione di Misiti, giungono alla stessa conclusione, e cioè che l’ipotesi più verosimile per la caduta del velivolo è la bomba e non il missile.
“L’esplosione all’interno dell’aereo, in zona non determinabile di un ordigno è dunque la causa della perdita del Dc9 per la quale sono stati individuati i maggiori elementi di riscontro. Certamente invece non vi sono prove dell’impatto di un missile o di una sua testata”, dicono i tre magistrati causando a Priore un ulteriore problema, che lui però non esita ad archiviare, rinviando a giudizio i quattro generali dell’Aeronautica, Lamberto Bartolucci, Franco Ferri, Corrado Melillo e Zeno Tascio. E mal gliene incolse al nostro ineffabile Giudice Istruttore, perché finalmente entrano in scena magistrati scrupolosi, sordi alle sirene dei media, non gestibili, incuranti della reazione dell’opinione pubblica ormai sempre più somigliante a un esercito di tricoteuses.
Giudici da encomiare e soprattutto fedeli ai valori del loro magistrato. “La Corte, ben conscia dell’impatto negativo di un’ulteriore sentenza assolutoria nei confronti di due generali, ma a fronte di commettere un’ingiustizia, perché tale sarebbe stata la conferma della sentenza o una condanna, andare contro l’opinione pubblica non costituisce un ostacolo. In quel caso allora si sarebbe trattato di una vergogna perché si sarebbero condannati o ritenuti responsabili di un reato persone nei cui confronti vi era un difetto assoluto di prova”. Parole coraggiose queste dei giudici penali, reperibili a pag. 48 della sentenza pronunciata nel 2005 e confermata in Cassazione nel 2007. Chapeau ai componenti della Prima Corte di Assise di Appello di Roma presieduta da Antonio Cappiello, magistrati coraggiosi che ci confortano nel non disperare sulle sorti della giustizia in Italia.
Ma purtroppo nulla cambia nella percezione dell’opinione pubblica, manipolata e disorientata da una stampa sempre saldamente arroccata sull’ipotesi della battaglia aerea e del missile killer e sull’equivoco della sentenza ordinanza di Priore. Della sentenza penale, quella vera, quella chiarificatrice non c’è invece traccia in nessuna prospettazione pubblica, quasi non esistesse. Compresa la stampa di questi giorni.
Eppure l’impianto di Priore è stato smontato impietosamente pezzo a pezzo, le sue ipotesi sono state definite “fantapolitica o romanzo che potrebbero anche risultare interessanti se non vi fossero coinvolte 81 vittime innocenti” (pag 116) oppure qualificando l’accusa come “la trama di un libro di spionaggio ma non un argomento degno di una pronuncia giudiziale” ( pag. 114).
Ma lui non se ne dà per inteso, anziché leccarsi le ferite di una cocente umiliazione inflittagli dai suoi colleghi giudici che lo hanno dipinto come lo sceneggiatore di un thriller, si accomoda tranquillamente in una strana rendita di posizione, avallando ipocritamente quanto i cantori del missile ancora oggi tentano di far credere, ossia che Priore abbia emesso una sentenza di condanna, giocando su questo sul termine del vecchio rito di procedura penale “sentenza-ordinanza” che invece altro non è che un rinvio a giudizio. In un paese civile, la conclusione di un percorso giudiziario da cui emerga che, al di là di ogni ragionevole dubbio, sia stata impunemente compiuta una strage di natura terroristica, farebbe scattare quasi automaticamente nuove e più serie indagini e nella giusta direzione volte a consegnare i responsabili alla giustizia.
Invece nulla, anzi il processo civile associato a quello penale evidenzia un’altra stortura del nostro sistema giudiziario, cui un giorno o l’altro andrebbe messa mano. Ossia la bizzarria di due percorsi, quello penale e quello civile, che conducono a risultati diametralmente opposti nel giudicare lo stesso fatto. Con il risultato che il governo viene condannato a risarcire gli aventi titolo con alcune centinaia di milioni di denaro pubblico per un fatto mai occorso, per un missile inesistente.
Un processo, a onor del vero e a parziale attenuazione delle colpe, in cui la sentenza apripista viene scritta alla fine del 2003 da un giudice monocratico, un avvocato di Bronte prestato alla giustizia, il giudice onorario aggregato Francesco Batticani. E con la latitanza di fatto dell’Avvocatura dello Stato, probabilmente istruita a non profondere troppo zelo nel sostenere in giudizio le ragioni del governo. Il quale Batticani poi, senza neppure gettare uno sguardo alle carte del processo penale, senza avviare verifiche o nuove indagini, o richiedere specifiche perizie, pronuncia una sentenza di condanna motivandola con l’impianto accusatorio di Priore, quello che non ha retto in dibattimento penale e lì miseramente collassato.
Tutti i successivi processi civili si collocano nel solco tracciato da Batticani, Giudice Onorario Aggregato di Bronte. Se l’Unità ce ne darà modo, potremo ragguagliare i lettori con il capitolo giustizia in prospettiva più importante, quello aperto presso la Procura di Roma dove la nostra Associazione ha presentato un esposto con l’intento di sollecitare le indispensabili seppur tardive ma non disperate indagini, volte a individuare gli autori dell’attentato al DC9 Itavia. Questi sono i fatti, chiunque oggi dica cose diverse contribuisce ad ostacolare ulteriormente la ricerca della verità su una delle tragedie del nostro paese rimasta senza responsabili. Come sta accadendo da decenni ad opera di ben identificati ambienti e come la bizzarra sortita di Giuliano Amato ha confermato oltre ogni decenza. Leonardo Tricarico 6 Settembre 2023
Ustica non è un film: la verità è nelle carte desecretate da Draghi. Inviati all’Archivio di Stato centinaia di documenti, trentadue dei quali sono stati significativamente raggruppati sotto la dizione Ustica. Carlo Giovanardi su Il Dubbio il 16 ottobre 2022.
Scusandomi del ritardo posso soltanto oggi rispondere all’articolo di Valter Vecellio sul Dubbio del 28 luglio 2016 intitolato “Strage di Ustica, Giovanardi se ha le carte decisive le tiri fuori”.
Vecellio faceva riferimento alle carte depositate presso i Servizi Segreti, su cui il governo Renzi aveva tolto il segreto di Stato ma di nuovo classificate come Segrete e Segretissime , visionabili pertanto soltanto da magistrati o membri di Commissioni parlamentari di inchiesta, come era il sottoscritto allora facente parte della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro.
In tale veste, assieme a colleghi che avevano fatto formale richiesta, ho potuto nel 2016 leggerle e annotarle, con la diffida a renderle pubbliche, reato perseguibile sino a tre anni di carcere in base al combinato disposto della legge 124 del 2007 e dell’ art 326 del Codice penale.
Le carte da me annotate riguardano il carteggio tra il governo italiano ed il nostro capocentro del Sismi a Beirut Col. Stefano Giovannone, dopo il sequestro a Ortona a fine 1979 di missili terra aria per cui erano stati arrestati e condannati gli Autonomi di Daniele Pifano e il referente dell’Olp in Italia Abu Saleh, residente a Bologna.
In tutti questi anni, unitamente alle signore Flavia Bartolucci e Giuliana Cavazza, rispettivamente figlie del generale Lamberto Bartolucci e della signora Anna Paola Pelliccioni, che perse la vita nella esplosione del DC 9 Itavia, presidenti della Associazione per la verità su Ustica, abbiamo ripetutamente chiesto la desecretazione di quegli atti, ricevendo sempre un deciso rifiuto.
Addirittura nel giugno del 2020 sono stato pubblicamente convocato a Palazzo Chigi per sentirmi di nuovo ripetere dal governo Conte che per tutelare l’interesse nazionale quelle carte dovevano rimanere segrete, cosa che venne notificata anche formalmente alla signora Cavazza che aveva chiesto l’ accesso agli atti.
Viceversa finalmente il governo Draghi, anche su nostra sollecitazione, ha desecretato e inviato all’Archivio di Stato centinaia di documenti, trentadue dei quali sono stati significativamente raggruppati sotto la dizione Ustica.
Per comprendere l’importanza di questi documenti riporto quanto da me annotato nel 2016, nella parte coincidente con i documenti desecretati (altri non risultano ancora depositati :
16 novembre 1979: si afferma che Arafat ha compreso che l’episodio di Ortona costituisce la prova, sino ad allora mancante, della collusione tra palestinesi e terrorismo internazionale, che potrebbe coinvolgerli in responsabilità per operazioni più efferate degli anni precedenti, tra cui la stessa vicenda Moro;
12 maggio 1980: si fa presente che il 18 sarebbe scaduto l’ultimatum quale termine ultimo per la risposta da parte delle Autorità italiane alla richiesta del Fronte di scarcerare Saleh, notando che in caso di risposta negativa la maggioranza della dirigenza e la base del Fronte di Liberazione Popolare della Palestina intende riprendere, dopo 7 anni, la propria libertà di azione nei confronti dell’Italia e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero anche colpire innocenti. L’interlocutore ha lasciato capire che il ricorso alla azione violenta sarebbe la conseguenza di istigazione della Libia, diventata il principale sponsor dell’Fplp, ha affermato che nessuna azione avrà luogo prima della fine di maggio e probabilmente senza che vadano date specifiche comunicazioni;
27 giugno 1980 : il 27 giugno alle ore 10 (quella sera esplode il DC 9 Itavia sui cieli di Ustica ndr ) Beirut riferisce che “l’Fplp avrebbe deciso di riprendere piena libertà di azione senza dare corso a ulteriori contatti a seguito del mancato accoglimento del sollecito del nuovo spostamento del processo. Se il processo dovesse aver luogo e concludersi in senso sfavorevole mi attendo reazioni particolarmente gravi in quanto l’Fplp ritiene di essere stato ingannato e non garantisco sicurezza Ambasciata Beirut”.
La frase “dopo 7 anni” si riferisce chiaramente all’ accordo stipulato con i palestinesi per una moratoria sugli attentati in Italia dopo quello all’Aeroporto di Fiumicino del 1973 che causò ben 32 morti e 15 feriti.
L’esistenza del quale accordo il cosiddetto lodo Moro) è stato ribadito nel giugno 2017 nella commissione d’indagine parlamentare su Moro da Bassam Abu Sharif, ex braccio destro di George Habash, a quei tempi segretario generale dell’Fplp, che ha riferito di aver personalmente assistito alla sua definizione tra Habash e il governo italiano.
Ricordo inoltre a Vecellio che i generali dell’ Aeronautica accusati di tradimento per Ustica sono stati assolti tutti con formula piena, dopo aver rinunciato alla prescrizione, e che la sentenza definitiva bolla come ipotesi da fantascienza o film giallo quella dei fantomatici missili e battaglia aerea.
Di più: la perizia depositata nel processo penale, firmata da 11 dei più famosi periti aeronautici ( due inglesi, due svedesi, due tedeschi e cinque italiani ) indica senza alcun dubbio nell’esplosione di una bomba nella toilette di bordo la causa dell’abbattimento del DC9 Itavia.
Nel mese di agosto 2022 l’Associazione sulla verità su Ustica ha comunque presentato una istanza alla magistratura chiedendo il sequestro probatorio del DC 9, nel 2006 consegnato in custodia giudiziaria al comune di Bologna che l’ha rimontato per una esposizione museale, per consentire una nuova superperizia.
L’istanza è stata rigettata dal Gip di Roma con la motivazione che le perizie e le consulenze esperite al massimo livello nel processo penale da specialisti italiani e stranieri sono state ritenute esaustive, confermando così implicitamente le conclusioni della sopracitata Commissione Misiti sulla esplosione di una bomba a bordo.
In questo quadro ancora più sconcertanti sono le motivazioni con le quali il Gip di Bologna dottor Bruno Giangiacomo il 9 febbraio 2015 ha archiviato il procedimento penale a carico di Thomas Kram, il terrorista tedesco collegato a Carlos di cui è stata accertata giudizialmente la presenza a Bologna l’ 1 e 2 agosto 1980.
Scrive Giangiacomo: “Sul lodo Moro si rinvia alla richiesta di archiviazione che correttamente pone in evidenza che la sua stipulazione non è stata accertata né sono state accertate precise occasione di concreta tolleranza, da parte dello Stato italiano, del porto illegale di armi ed esplosivi da parte di agenti delle organizzazioni palestinesi.
Non è tuttavia, neppure possibile escludere che funzionari dei servizi di sicurezza o esponenti di fazioni politiche dello Stato italiano possano aver operato, riservatamente e volta per volta, per assicurare la impunità agli agenti palestinesi e per il trasporto di armi ed esplosivi sul territorio italiano, qualora destinati contro obiettivi esteri, in cambio della neutralizzazione del territorio e degli interessi italiani dalle operazioni terroristiche; ma anche se queste attività fossero state consentite ed effettuate, esse non sarebbero state comunque eseguite in attuazione di un previgente accordo e sarebbero state comunque illegali, per quanto rivolte alla sicurezza del territorio e dei cittadini italiani”.
Per inciso ricordo che il giudice istruttore Aldo Gentile, che indagava sulla strage del 2 agosto, incontrò ripetutamente Abu Saleh, dopo che nell’agosto del 1981 era stato scarcerato per decorrenza dei termini della custodia cautelare, e addirittura lo autorizzò a recarsi in settembre per una settimana a Roma.
Siamo poi a pochi giorni dal quarantesimo anniversario dell’assalto terroristico alla Sinagoga di Roma e la Comunità Ebraica ha giustamente chiesto la verità sul perché ai quattro terroristi palestinesi venne lasciata libertà d’azione (e di fuga) malgrado i servizi avessero segnalato il pericolo di attentati, e di nuovo si è parlato apertamente di applicazione del Lodo Moro.
Il vero problema allora, caro Vecellio, è capire perché davanti a questa lunga scia di sangue la Ragion di Stato, in nome dell’ “interesse nazionale”, abbia coperto con il Segreto di Stato prima e con la classifica Segreto e Segretissimo poi documenti fondamentali per scoprire gli autori di questi efferati crimini.
Sarebbe ora che magistrati, storici e giornalisti di fronte a tale sterminata documentazione e non negando più l’evidenza, smettessero, in particolare su Ustica, di dar credito a film, sceneggiati, documentari, canzoni, ballate e baracconate varie sulle 32 versioni della fantomatica e inesistente battaglia aerea e si applicassero nella ricerca della verità e dei responsabili di quella strage.
Sono passati 42 anni ma forse siamo ancora in tempo.
Cade il Dc-9 Itavia il dramma di Ustica. In prima pagina quel 28 giugno del 1980. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il il 28 Giugno 2022.
La notizia è arrivata in redazione molto tardi, ma in tempo per essere pubblicata in prima pagina su La Gazzetta del Mezzogiorno del 28 giugno 1980.
«Caduto in mare un aereo per Palermo con 81 persone a bordo»: è l’annuncio dell’ennesima strage che avviene in un Paese già martoriato dalla bomba di Piazza Fontana a Milano, dall’eccidio di piazza della Loggia a Brescia e da una lunga serie di fatti di sangue che purtroppo non si interromperà in quel 1980.
Un Dc-9 della Compagnia aerea Itavia non dà più notizie dalle 20.45: è praticamente certo che sia caduto in mare. «Il Dc-9 IH 870 serie 10, partito da Bologna alle 20.02, doveva arrivare a Palermo alle 21.45. L’ultimo contatto radio si è avuto sulla verticale dell’isola di Ponza alle 20.55; il radar l’ha seguito per altre 30 miglia poi l’immagine è scomparsa», si scrive sulla Gazzetta.
Il volo Bologna-Palermo era programmato alcune ore prima ma a causa di ritardi accumulati dall’aereo prima di arrivare all’aeroporto «Guglielmo Marconi» di Bologna, il decollo è avvenuto solo alle 20.02. «Le operazioni di imbarco sono state regolari e il velivolo, proprio a causa del ritardo, ha potuto evitare i temporali che sul Bolognese si sono abbattuti nel tardo pomeriggio».
Le ricerche del DC-9 sono coordinate dal centro di soccorso aereo di Martina Franca dell’Aeronautica Militare: «Sono impegnati elicotteri abilitati al volo notturno e battelli della Marina militare, la nave “Carducci”, i traghetti “Clodia” e “Nomentana”, un rimorchiatore e una motovedetta. In tutta la zona in cui si svolgono le ricerche dell’aereo disperso le condizioni del mare sono cattive (forza 5) e c’è un forte vento da nord-ovest che ostacola in particolare il compito degli elicotteri. Le ricerche si sono concentrate in un’area a 10 miglia a nord di Ustica», conclude il cronista. In piena notte appare l’ultimo aggiornamento: «Secondo notizie apprese all’ 1,40… la nave “Clodia” avrebbe avvistato due razzi di segnalazione e si starebbe dirigendo verso l’indicazione ricevuta, nel tratto di mare tre le isole di Ustica e Ponza».
Quello stesso 28 giugno 1980 ci sarà il drammatico ritrovamento dei resti dell’aereo. La notizia sarà ufficiale: nessun superstite. Su 81 morti solo 38 salme saranno recuperate: 77 passeggeri, tra cui 14 bambini, e 4 membri dell’equipaggio. All’indomani della strage, sorgono i primi sospetti. Ecco le prime ipotesi: «un sabotaggio, un missile, uno scontro con un aereo Nato». Dopo 42 anni, i parenti delle vittime e il Paese intero aspettano ancora la completa verità su quella notte.
Il "Funerale dopo Ustica" non è ancora terminato. Luca Crovi l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.
Un'edizione accresciuta del libro del 1989 dedicato a uno dei tanti misteri italiani.
Funerale dopo Ustica è una spy-story singolare che Loriano Macchiavelli pubblicò per la prima volta nel maggio del 1989 da Rizzoli, firmandola con lo pseudonimo di Jules Quicher. Lo scrittore emiliano all'epoca aveva già scritto molti romanzi, ottenendo il meritato successo grazie all'originale serie noir di Sarti Antonio con cui aveva raccontato luci e ombre di Bologna, e decise di progettare una trilogia più complessa che sarebbe stata dedicata ai segreti italiani.
Una sequenza di romanzi che sarebbe poi stata completata dai successivi Strage e Noi che gridammo al vento (dedicati rispettivamente alla strage di Bologna e a quella di Portella della Ginestra). Funerale dopo Ustica fu il primo progetto di quel genere a essere proposto al pubblico ed ebbe un buon successo, anche perché funzionò l'idea di aver ideato uno pseudonimo particolare per lanciarlo. Macchiavelli si celò infatti dietro il misterioso Jules Quicher che appariva in copertina e per il quale inventò una singolare biografia: «esperto di problemi della sicurezza al servizio di una famosa multinazionale svizzera. Ha lavorato per circa vent'anni in tutto il mondo (anche in Italia per circa quattro anni, in periodi diversi). Questo è il suo primo romanzo; lo firma con pseudonimo perché desidera vivere in pace, non per maniacale culto della riservatezza. Cinquantenne, sposato con tre figli (due femmine e un maschio che frequenta i corsi di una celebre accademia militare europea), vive in una villa su un lago della Svizzera. Di madre italiana e di padre svizzero-francese, Jules Quicher parla e scrive alla perfezione in italiano e francese (sue lingue madri), e in inglese, tedesco e spagnolo». Oggi nel ridare alle stampe Funerale dopo Ustica (Sem Edizioni, pagg. 528, euro 20) l'autore non solo si riappropria del suo vero nome, ma propone una versione aggiornata e ampliata del libro che lo rende attualissimo, anche per i lettori contemporanei abituati al ritmo serrato dei thriller e alle atmosfere cupe di certi noir storici. Come racconta lo stesso Macchiavelli, «ho aggiunto capitoli e brani che tengono conto di alcuni dei troppi segreti relativi al DC 9 abbattuto sul mare di Ustica. Sono i pochi segreti emersi nelle successive indagini su quella drammatica strage, che purtroppo non hanno ancora portato alla completa verità. Com'è ormai consuetudine nel nostro paese. Ho aggiornato il testo per farlo aderire a una realtà più vera, se pure sempre fantastica, come deve essere per un romanzo. Sono convinto che questa versione abbia oggi una suggestione evocativa molto più forte che nel 1989. Oggi che possiamo vedere gli avvenimenti, distanti da noi nel tempo, con uno sguardo più pacato e con un dolore sempre acuto ma meno condizionato dalla tragedia che avvenne sul mare di Ustica in quel fatale 27 giugno del 1980, e proprio per questo più profondo e più critico».
Il lavoro di editing di questa versione del libro fu fatto per un po' di tempo con la collaborazione di Severino Cesari, all'epoca direttore editoriale di Einaudi, che voleva fortemente ristampare Funerale dopo Ustica (un desiderio che purtroppo con la sua scomparsa non si è concretizzato). Leggere oggi quel romanzo di Macchiavelli significa sentire «il racconto di una verità che fa paura» attraverso le pagine di una spy story scritta in maniera impeccabile che fa riflettere sul passato, ma anche sul presente della nostra Italia. Un'opera di fantasia che tiene d'occhio la Storia che ha preceduto e seguito la tragedia accaduta a Ustica. E dietro ai nomi di personaggi che sembrano immaginari, come l'ammiraglio Dikte dei servizi segreti della difesa, la doppia moglie dell'Onorevole Bellamia, l'onorevole Furoni o il pilota libico Adin Al Fadal o il meccanico aereo Ferdinando o l'agente dei servizi segreti spagnoli Hilario, i lettori possono immaginare quali fossero gli eventuali personaggi reali. Possono anche ipotizzare chi facesse parte del fantomatico Nucleo Sette e quali fossero i suoi scopi, possono entrare nei laboratori segreti gestiti dal Dottor Miland e possono indagare anche sul misterioso Victorhugo e sulle sue motivazioni. Realtà e fantasia si compenetrano in una storia che pone più di una questione e che Macchiavelli firma con serietà e divertimento.
Un'inchiesta in cui nessuna pedina è messa a caso sullo scacchiere e dove ognuno dei personaggi potrebbe cambiare il suo ruolo da un momento all'altro, per necessità o per opportunità. Esemplare per esempio la costruzione della biografia dell'onorevole Furoni che così ci viene presentato: «ex comandante partigiano, ex aderente al Partito d'azione, ex attivista del Partito comunista italiano, ex terrorista altoatesino e infine deputato al Parlamento italiano per conto di un partito dell'arco costituzionale e difensore delle riforme sociali e politiche». Nessuno degli eventi che ci viene raccontato da Macchiavelli è casuale. Non si può parlare di destino crudele davanti a certe tragedie per le quali ci sono precise responsabilità. E la fantasia, ha ragione lui, può essere davvero testimone della realtà solo «se tiene d'occhio la Storia che ha preceduto e seguito le tragedie, numerose, che ci hanno accompagnato negli ultimi settant'anni».
Il mistero dell'aereo abbattuto: la strage di Ustica. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.
Il settimo episodio della serie audio sulle verità nascoste della Repubblica racconta, con le voci dei protagonisti, un disastro aereo che dopo oltre 40 anni non ha ancora una spiegazione ufficiale, tra depistaggi e strane morti di possibili testimoni.
La sera di venerdì 27 giugno 1980 un aereo di linea Dc9 della compagnia Itavia decolla da Bologna diretto a Palermo. Non arriverà mai a destinazione: si inabisserà nei pressi dell’isola di Ustica, per motivi che in tanti hanno provato a nascondere. Di sicuro, quella notte il bireattore non viaggiava da solo. Una strage da 81 morti che a oltre quarant’anni non ha ancora una spiegazione, con processi celebrati e conclusi senza colpevoli e un’inchiesta giudiziaria ancora aperta. Con molti misteri intorno: le strane morti dei testimoni che avrebbero potuto incrinare il «muro di gomma», tra i quali Mario Dettori, maresciallo dell’aeronautica militare che quel giorno era in servizio alla base radar di Poggio Ballone. Oppure Franco Parisi, radarista alla base di Otranto: entrambi impiccati nel 1987. Che cosa ha fatto precipitare il DC9, in quella notte di «guerra di fatto e non dichiarata»?
Ustica, il fascino delle fake news è ancora un ostacolo per la giustizia. 30/07/2020 Bologna. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella accompagnato Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, visita il Museo per la Memoria. ALFREDO ROMA su Il Domani l'11 gennaio 2022.
Sulla tragedia di Ustica, in cui morirono 81 persone per l’abbattimento del DC9 Itavia in volo da Bologna a Palermo, sono usciti recentemente due libri controcorrente: «Ustica, un’ingiustizia civile» e «Ustica, i fatti e le fake news».
Per i media la tesi del missile era molto più affascinante perché coinvolgeva aerei della portaerei USA Saratoga in rada a Napoli, aerei francesi, libici e italiani, il possibile passaggio nei cieli di Ustica di Gheddafi.
Questa ricostruzione, su cui si basano anche i risarcimenti alle famiglie delle vittime, è completamente smentita dalla sentenza penale. Ma ha impedito di indagare meglio la pista di una bomba e di avere una idea più obiettiva di quella strage.
ALFREDO ROMA. Alfredo Roma, economista, già presidente dell'Ente Nazionale Aviazione Civile (Enac) e dell'European Civil Aviation Conference (Ecac), ex coordinatore nazionale del Programma Galileo presso la presidenza del Consiglio dei ministri.
Cosa è successo nel 1980. Strage di Ustica, la verità negata della bomba a bordo del Dc9 Itavia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Dicembre 2021. Quella di Ustica è una storia scritta su pagine bruciate della storia italiana. E non è bene parlarne come di una questione aperta, perché esiste una sorta di comitato di vigilantes della menzogna che campano di rendita sulla menzogna, e ne hanno fatto per così dire un logos, un marchio di fabbrica. Mettiamoci nelle braghe dei tempi, o come si dovrebbe dire, contestualizziamo perché quella di Ustica è una faccenda, estremamente divisiva, perché divide chi ha mentito da chi ha detto il vero. E perché malgrado le sentenze – che rispettiamo e troviamo tuttavia molto obiettabili, per così dire, si tratta ancora di una strage senza autore, o con molti autori in circostanze in parte vere, in parte dubbie e per una gran parte figlie di ipotesi che poggiano su altre ipotesi.
Ciò che viene taciuto è che in quella strage così come nella successiva della Stazione di Bologna un mese più tardi, è in perfetta funzione il “Lodo Moro” anche se Moro non c’entra, ovviamente, visto che il Presidente della Dc era già stato eliminato con una delle più sfacciate, mostruose e ben protette operazioni criminali e politiche della nostra triste Storia. Se fu un attentato con bomba a bordo, allora gli autori dell’attentato vanno certamente cercati nell’area islamica allora attivissima in Italia ed era l’area dell’Olp di Yasser Arafat, ma più che altro di un altro leader dell’organizzazione per la liberazione della Palestina, il dottor George Abbash, cristiano peraltro, e altri membri militari attivi per esempio nell’Fplp.
Noi non sappiamo chi mise la bomba ma tutte le informazioni e le prove portano solo nella direzione della bomba e anche i pubblici ministeri dovettero ammettere che solo l’ipotesi della bomba soddisfaceva tutti gli indizi e le prove, ma è avvenuto che per un patto tacito e terribilmente operativo, non si dovesse in alcun modo ammettere che l’aereo fosse stato turato già con i suoi passeggeri da una bomba come probabile rappresaglia, già annunciata dai gruppi terroristici di allora. La tesi della bomba è stata derisa e criminalizzata anche perché l’aereo partì in ritardo e dunque “come potevano i terroristi sapere del ritardo?”. Potevano e come: in mille modi. Per esempio, azionando un timer che si sarebbe avviato solo al decollo, oppure con un timer a pressione e altri tipi di innesco perfettamente aggiornati. Secondo l’onorevole Zamberletti che era allora capo della Protezione civile, Ustica fu l’avvertimento e Bologna fu la punizione. Molti sono gli indizi, ma nessuno ha voluto indagare in quella direzione, dunque, se non sono state cercate le prove allora reperibili, è ovvio che oggi sia impossibile trovarne.
Ma tutta la vicenda di Ustica avvenne all’insegna del linciaggio del dissidente, della diffamazione del diverso parere, una compattezza sfacciata del pensiero unico e unificato. Colgo quindi l’occasione di questi ricordi cronologici per tentare di spiegare meglio il disastro materiale e morale che passa sotto il nome convenzionale di Ustica. La strage di Ustica del giugno 1980, avvenne quando il DC-9 della Compagnia Itavia, decollato con grande ritardo da Bologna e diretto a Palermo si inabissò per un evento improvviso (una bomba? Un missile? Un aereo che volava parallelamente a distanza cortissima?) nelle acque che circondano l’isola di Ustica. Morirono tutti, ma si disse subito che c’era qualcosa di unico, eccezionale e anzi inaudito in questo disastro e io allora ero un semplice cronista, anche piuttosto meticoloso. I lettori mi perdoneranno se cerco di ricordare a chi non ha vissuto quell’epoca, l’importanza sia emotiva che reale della guerra fredda. La guerra fredda interveniva anche in casi clamorosi di qualsiasi genere e in quegli anni si dava regolarmente la colpa agli americani. In subordine ai francesi.
La domanda che quasi tutti si posero fu: come e perché gli americani hanno abbattuto l’aereo di Ustica? O in seconda battuta i francesi che erano molto presenti sullo scenario europeo di quegli anni con molte azioni segrete dei loro corpi speciali. Poi, più tardi, riesaminai la questione sotto ogni aspetto anche come membro del Parlamento. E infine scrissi un libro che per metà è composto da documenti intitolato Ustica verità svelata per l’editore Bietti, libro ormai fuori commercio. Mi rendo conto che quanto sto per dire non è condiviso dalla maggior parte dei miei concittadini, i quali sono stati a mio parere intossicati con una azione crescente. E tenuti all’oscuro dei fatti reali. Non mi aspetto quindi di farmi molti nuovi amici raccontando dei fatti che considero molto importanti e totalmente trascurati.
Primo fatto: la strage di Ustica avviene un mese prima (33 giorni) di quella di Bologna. Che sia ipotizzabile una relazione? Risposta: mah.
Secondo elemento: che cosa fece di colpo cadere l’aereo che stava placidamente avvicinandosi all’aeroporto di Palermo Punta Raisi? Due le ipotesi più gettonate: missile, o bomba a bordo. Il DC9 della compagnia Itavia caduto a Ustica aveva una toilette nel centro della fila di sinistra (guardando verso la cabina di pilotaggio) e questo elemento avrà la sua importanza.
Quanto all’ipotesi del missile, appresi che i missili aria-aria di quei tempi non colpivano il loro bersaglio come un ago può colpire un palloncino, ma quando i sensori rilevavano una determinata distanza col bersaglio, gli “esplodevano in faccia” con milioni di frammenti che polverizzavano il bersaglio. L’aereo di Ustica, che fu ritrovato sui fondali da una compagnia di recuperi sottomarini, era smembrato in cinque o sei grandi pezzi, ma non era stato mai investito da una miriade di schegge, né presentava un foro d’entrata. Telefonai a un uomo chiave di quella tragedia: il colonnello dell’aeronautica Guglielmo Lippolis che era in forze presso la Protezione Civile. Bisogna ricordare che i corpi e i sedili restarono a galleggiare per molte ore e che l’Espresso pubblicò in copertina una raccapricciante foto in cui si vedevano tutti questi cadaveri galleggianti legati alla loro poltrona prima di inabissarsi. Telefonai al colonnello, con cui in seguito parlai altre due volte e aveva la voce rotta dall’emozione: «Vede – mi disse – io vengo da un’altra tragedia: quella di un barcone carico di fuochi artificiali, esploso in acqua uccidendo tutti gli uomini dell’equipaggio. E siamo riusciti a ricostruire secondo le bruciature riportate dalle vittime le loro posizioni rispetto al punto dell’esplosione.
Qui è la stessa cosa: con l’elenco dei passeggeri e i loro sedili abbiamo subito trovato quelli che erano più vicini al fornello dell’esplosione e poi le bruciature sono sempre meno intense. È un lavoro terribilmente triste – concluse Lippolis – ma il risultato è inequivocabile: questo aereo è stato danneggiato e fatto inabissare da una bomba situata esattamente dietro il pannello della toilette». Gli chiesi se avrebbe testimoniato portando in tribunale questa sua verifica diretta sui cadaveri del DC9 di Ustica e lui mi assicurò che l’avrebbe fatto immediatamente. Quando ci riparlammo il processo volgeva al termine con i protagonisti divisi in molti partiti: quello del missile, della bomba del quasi-contatto, dello scontro frontale in aria. Erano stati creati due scenari del tutto immaginari ma molto utili per il wargame processuale: fu inventata di sana pianta la storia secondo cui Muammar Gheddafi, il dittatore libico, viaggiasse su un mig di ritorno da un Paese dell’Est e che dei caccia americani, o forse francesi, tentarono di abbatterlo, e che il pilota libico trovandosi a portata del DC9 Itavia ebbe la bella idea di mettersi sotto la pancia dell’aereo il quale si sarebbe preso un missile destinato a Gheddafi, nell’omertà generale.
Il secondo scenario è quello del wargame: nel corso di una esercitazione elettronica, in parte simulata e in parte vera, operata dalla nostra aeronautica militare, ops, parte un missile vero che abbatte il DC9. Richiamai dunque Lippolis e gli chiesi se avesse testimoniato: «Sì, mi hanno chiamato a testimoniare ma mi hanno impedito di raccontare ciò che avevo visto e controllato di persona e mi fu ingiunto di rispondere esattamente alle domande che mi venivano fatte. ed erano domande di dettaglio che non avevano nulla a che vedere con la mia posizione di testimone». La testimonianza di Lippolis dimostrava senza dubbio che il DC9 fosse esploso per una bomba a bordo e che i pubblici ministeri pian piano se ne convinsero, ma c’era un problema. Il problema era il necessario risarcimento alle famiglie delle vittime che non fossero quei quattro soldi dell’assicurazione. Ci voleva un colpevole, un escape goat, un capro espiatorio che ponesse sul banco dei condannati uomini dello Stato affinché lo Stato potesse risarcire in modo adeguato le vittime e le loro famiglie.
L’aereo fu tirato su a pezzi dal fondo del mare dove un sottomarino francese addetto a questo genere di ricerche ritrovò quasi tutti i pezzi, salvo l’estremità della coda. Come li trovò? Attraverso la facile soluzione di un problema fisico: se prendete un aereo che vola a quella velocità secondo quella traiettoria e un oggetto esplosivo lo disarticola nelle sue giunture, considerata velocità, massa e forma, dove finiranno i pezzi? Qui, là, e laggiù. E il sottomarino trovò tutto e il caso fu risolto: il disgraziato aereo è tornato in un hangar a grandi pezzi separati, ma non c’è alcuna traccia di missile. Il pannello che fu colpito dall’esplosione manca, probabilmente disintegrato. Il segreto di Stato copre la tremenda bugia e quando fu chiesto al governo Conte di dar prova di amore per la verità, il segreto fu confermato.
E poi c’è la vicenda del fisico inglese Mark Taylor che è uno dei massimi esperti di attentati aerei celebre anche per aver risolto il caso dell’aereo caduto nei cieli di Lockerbie dopo l’esplosione di una bomba a bordo messa da agenti libici, cosa che costrinse Gheddafi a risarcire le famiglie delle vittime.
A Taylor che spiegava per filo e per segno, dopo aver analizzato tutti i materiali, in che modo una bomba esplosa nella toilette avesse fatto collassare la struttura dell’aereo, fu opposta una obiezione stupidamente diabolica, che sentiamo puntualmente recitata con fiero cipiglio in televisione, e cioè che il sedile del gabinetto era intatto. Come può restare intatta una tavoletta del gabinetto se a pochi metri scoppia una bomba? Taylor rispose che è possibilissimo perché l’energia esplosiva non investiva la tavoletta nella sua traiettoria energetica e persino nei più feroci bombardamenti ci sono oggetti che si trovano in una posizione immune dalle contorsioni.
Taylor fu letteralmente cacciato dal tribunale. con ignominia. Lo ritrovai nell’aula magna del Cnr davanti a una enorme lavagna a spiegare la strage di Ustica causata da una bomba con tutte le coordinate e anche il materiale chimico trovato nella toilette dell’aereo. fibra per fibra, grado per grado, secondo per secondo, equazioni e un tormentato borbottare in inglese alla sola presenza di alcuni giornalisti specialisti di aeronautica e io soltanto che avevo seguito la sua triste vicenda e quella del nostro ingannato Paese, a proposito di patriottismo.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Da ansa.it il 3 luglio 2020. "Avevamo preso l'impegno e la scorsa settimana, alla vigilia del quarantesimo anniversario della strage di Ustica, l'avevamo ribadito. Oggi il Consiglio di presidenza del Senato ha deliberato all'unanimità la desecretazione degli atti classificati fino al 2001. La speranza è che questi documenti, finalmente accessibili, possano dare un contributo alla verità su tante pagine della storia del nostro paese ancora oscure, a partire proprio da Ustica". Lo dichiara in una nota la vicepresidente del Senato e senatrice Pd, Anna Rossomando. Casellati, giorno verità storica e trasparenza - "Oggi è il giorno della verità storica e della trasparenza: il Consiglio di Presidenza ha deciso all'unanimità di desecretare tutti gli atti delle commissioni parlamentari d'inchiesta fino al 2001. L'impegno è che lo stesso criterio sarà esteso nei prossimi lavori fino ai nostri giorni, affinché non rimangano più ombre e opacità". Lo afferma il Presidente del Senato Elisabetta Casellati. "Sono molto soddisfatta. È il coronamento di una mia battaglia personale. Ho fortemente voluto questo risultato. La memoria delle vittime e il dolore dei familiari hanno diritto alla piena chiarezza su fatti che hanno segnato tragicamente la storia di tutto il Paese" conclude Casellati.
Strage di Ustica: 40 anni dopo, ancora nessuna verità. Tutti gli scenari. Le Iene News il 27 giugno 2020. Con Gaetano Pecoraro abbiamo ripercorso tutti gli scenari della strage che ha ucciso e fatto precipitare nel mare tra Ponza e Ustica le 81 persone a bordo del Dc9 dell’Itavia il 27 giugno di 40 anni fa. Un anniversario tristissimo che coinvolge tutta l’Italia e la sua storia. Alle ore 20.59 del 27 giugno 1980 nel tratto sopra il braccio di mare tra Ponza e Ustica, precipita in mare il volo di linea IH870 della compagnia Itavia partito da Bologna e diretto a Palermo. Sono passati oggi esattamente 40 anni dalla strage di Ustica e la verità sull’incidente che è costato la vita a 81 persone tra passeggeri e membri dell’equipaggio sembra ancora ufficialmente lontana. Con Gaetano Pecoraro nel servizio che potete rivedere qui sopra avevamo affrontato tutti i misteri e le possibili cause legate alla strage. Si è parlato di cedimento strutturale dell’aereo, di una bomba portata a bordo e nascosta nella toilette, di uno scenario di guerra in volo tra aerei della Nato e un piccolo velivolo con a bordo l’ex rais libico Gheddafi, vero obiettivo di un missile che avrebbe invece colpito per errore il volo di linea civile. I familiari delle vittime non si sono mai arresi un solo giorno nella ricerca della verità. È di queste ore, stando a quanto riporta La Stampa, il ritorno della cosiddetta “pista palestinese”, emersa in seguito a un presunto telegramma che riportava il rischio di due azioni imminenti, il dirottamento di un Dc9 Alitalia e l’occupazione di un’ambasciata da parte di gruppi filo-libici vicini alla causa della liberazione della Palestina. Si è parlato di un “muro di gomma” per non rispondere di una parte delle istituzioni e delle autorità militari, come nel film omonimo di Marco Risi sull’inchiesta del giornalista Andrea Purgatori. Di sicuro dopo 40 anni non c’è ancora nessun colpevole mentre restano mille ipotesi, tra loro divergenti. Qui sopra ripercorriamo nel servizio di Gaetano Pecoraro del 2017 i punti principali di questa strage e di questo inquietante mistero d’Italia.
Strage di Ustica, prolungato il silenzio di Stato: "Verità contro interessi nazionali". Palazzo Chigi risponde negativamente alla richiesta, operata da Giuliana Cavazza, figlia di una delle vittime della strage di Ustica, di desecretare alcuni documenti che potrebbero portare alla verità. Mauro Indelicato, Sabato 22/08/2020 su Il Giornale. Una verità che scotta o, per meglio dire, che “potrebbe fare male all'Italia”: è questo il senso della risposta di Palazzo Chigi a Giuliana Cavazza, presidente onoraria del comitato “Verità per Ustica” e figlia di una delle 81 vittime dell'aereo dell'Itavia Bologna – Palermo precipitato sul Tirreno il 27 giugno del 1980. Da allora sono passati quarant'anni e circa due mesi fa le istituzioni hanno ricordato un anniversario che per le famiglie coinvolte è sempre più doloroso. Anno dopo anno infatti, la verità appare sempre più lontana. E quelle istituzioni che lo scorso 27 giugno hanno richiamato alla necessità di scoprire cosa c'è stato dietro uno dei drammi più gravi vissuti dal nostro Paese, oggi hanno negato l'accesso ad atti che forse contribuirebbero a rendere meno fosca la vicenda. Giuliana Cavazza infatti aveva scritto a Palazzo Chigi affinché fosse tolto il segreto di Stato su alcuni documenti relativi alla strage. In particolare, si trattava di un dossier con gli avvertimenti giunti da Beirut poco prima della strage da parte del colonnello Stefano Giovannone. Quest'ultimo è stato capocentro del Sismi in Libano dal 1973 al 1982 e nei giorni precedenti alla sciagura aerea avrebbe avvertito a più riprese di pericoli riguardanti l'Italia. In particolare, Giovannone aveva forse fiutato la possibilità che il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina poteva vendicarsi del nostro Paese. Il motivo era da far risalire alla sensazione, da parte dei palestinesi, che Roma volesse ritirare ogni appoggio al gruppo specialmente dopo il sequestro di alcune armi operato ad Ortona. Il Fronte Popolare ha per quel motivo considerato non più valido il cosiddetto “Loro Moro”, un tacito accordo di non belligeranza stipulato anni prima tra lo Stato italiano e i palestinesi in cui si garantiva al nostro Paese una sorta di immunità da attentati terroristici ed azioni di sabotaggio.Giovannone aveva avvisato dal Libano che il Fronte era pronto a vendicarsi dell'Italia, la mattina del 27 giugno del 1980 a Roma sarebbe arrivata anche una segnalazione circa una grossa ritorsione in preparazione. Carte però non del tutto esaminabili perché coperte dal segreto di Stato. Un segreto che, come descritto dal quotidiano La Stampa che a sua volta riprende la lettera di risposta a Giuliana Cavazza inviata da Palazzo Chigi, risale al 1984 e ha riguardato in primo luogo le indagini sulla scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo. Il colonnello Giovannone doveva essere sentito nell'ambito dell'inchiesta sulla vicenda, ma ha opposto il segreto di Stato deciso dalla presidenza del Consiglio, che nel 1984 era guidata da Bettino Craxi. In mezzo quelle carte e quei fascicoli, anche le informazioni che da Beirut Giovannone inviava a Roma, con riferimenti anche alle minacce giunte verso l'Italia nei giorni precedenti alla strage di Ustica. Il segreto di Stato dovrebbe durare al massimo 30 anni, tuttavia per i documenti in questione gli omissis sono parecchi. E anzi, come sottolineato dalla risposta data dalla presidenza del Consiglio alla rappresentante delle vittime di Ustica, il segreto continuerà almeno fino al 2029: “Rendere pubbliche le carte che portano la firma del colonnello Stefano Giovannone – ha scritto Palazzo Chigi – capocentro del Sismi in Libano dal 1973 al 1982 che nei giorni prima della strage di Ustica del 27 giugno 1980 avvertiva il governo italiano degli imminenti pericoli che correva il nostro Paese soprattutto per mano del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, arrecherebbe un grave pregiudizio agli interessi della Repubblica”. Giuliana Cavazza si è detta rammaricata ma non sorpresa per la decisione: “Me l’aspettavo, ma in sostanza, visto che il segreto scadrebbe nel 2029 – ha dichiarato Cavazza a La Stampa – e poi basterà mettere una firma per rinviare ancora di quinquennio in quinquennio, bisognerebbe vivere come degli Highlander. Ma non ci diamo per vinti”. Nel 1999 si è proceduto al “non luogo a procedere” nell'ambito del processo sulla strage, in quanto non era stato possibile raccogliere informazioni utili per individuare gli autori della sciagura. Tuttavia, i rapporti hanno parlato di una battaglia aerea sui cieli italiani che ha comportato l'abbattimento o l'esplosione dell'Itavia con 81 passeggeri a bordo. Per questa strage, nel 2013 i ministeri della Difesa e dei Trasporti sono stati condannati a risarcire i parenti per non aver garantito la sicurezza. In queste sentenze si parla apertamente di azioni di guerra in tempo di pace in territorio italiano compiuti da aerei militari stranieri. L'ipotesi più accreditata porta al tentativo di abbattimento, da parte di alcuni caccia non italiani, dell'aereo in cui viaggiava il leader libico Gheddafi nel momento della strage. Tuttavia non è mai arrivata alcuna conferma a questa come alle altre ipotesi.
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 22 agosto 2020. Quarant' anni sono trascorsi, ma non sono ancora sufficienti per considerare inoffensivi certi documenti del 1980 che raccontano quel che l'Italia faceva in Medio Oriente. Perciò deve permanere il segreto sui documenti del Sismi che venivano da Beirut. L'ombra del colonnello Stefano Giovannone, il capocentro dei nostri servizi segreti che operò in Libano dal 1973 al 1982 si staglia ancora. L'unica conclusione che si può trarre, è che il seme che il nostro 007 gettò non ha terminato di dare i suoi frutti. La sua rete d'intelligence in qualche modo è ancora operante. Per questo motivo non se ne parla di rendere pubblici i suoi documenti. La risposta che palazzo Chigi ha dato ieri alla signora Giuliana Cavazza, figlia di una vittima della strage di Ustica, che chiedeva copia dei documenti, per il momento chiude un cerchio: anche se il 1980 è lontano, è a rischio la sicurezza nazionale. Se qualcuno pensava che da queste carte potessero venire risposte ai mille interrogativi sulle stragi di Ustica (27 giugno 1980) e della stazione di Bologna (2 agosto 1980), ebbene, per ora non se ne parla. E i servizi segreti sono intenzionati a mantenere il segreto quantomeno fino al 2029, come è stato detto all'ex senatore Carlo Giovanardi in un incontro a palazzo Chigi. La lettera non lascia scampo. Pubblicare le carte che portano la firma di Giovannone non è possibile perché si arrecherebbe «un grave pregiudizio agli interessi della Repubblica». Eppure qualcuno le ha lette: i parlamentari della scorsa legislatura che facevano parte della commissione d'inchiesta sul caso Moro. Ma anch' essi sono stati vincolati al segreto. Sanno, però non possono divulgare. La lettera della presidenza del Consiglio alla signora Cavazza ripercorre brevemente la storia: il colonnello Giovannone oppose il segreto di Stato durante l'inchiesta sulla scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo. Era il 1984 quando l'allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, confermò il segreto di Stato e ciò impedì anche ai magistrati di visionare il dossier. Da quel momento sulle informazioni di Giovannone si è stesa una coltre impenetrabile che è durata fino al 2014. È quanto prescrive la legge: il segreto di Stato può durare al massimo trent' anni. Immediatamente dopo, però, sulle sue carte è subentrata la classifica di «segretissimo». Significa che ora almeno i magistrati potrebbero leggere questi documenti, ma con tanti vincoli, e non è dato sapere quali procure li hanno visionati. I ricercatori, i giornalisti e gli storici, invece, non potranno leggere nulla. L'opinione pubblica non potrà sapere anche se qualcosa è già venuto fuori. Il segreto riguarda una serie di telegrammi cifrati sui rapporti occulti tra Italia e palestinesi, l'Olp, la formazione al-Fatah di Yasser Arafat, la formazione ancor più estremistica Fplp di George Habbash, altri servizi segreti arabi, i libici. Nel plico ci sono gli allarmi che Giovannone faceva rimbalzare a Roma. L'escalation nel corso del 1979 e 1980 di minacce contro gli italiani da parte del gruppo terroristico Fplp dopo che furono sequestrati ad Ortona, in Abruzzo, alcuni missili terra-aria di fabbricazione sovietica che stavano portando attraverso l'Italia. Oppure i riferimenti al super-terrorista Carlos, sanguinario e folle, che era al soldo del Patto di Varsavia, ma anche di Gheddafi o di Saddam Hussein. Un documento impressiona più di tutti: un cablo arrivato a Roma il 27 giugno 1980, proprio il giorno in cui sarebbe precipitato il Dc9 dell'Itavia con 81 persone a bordo, nel quale il colonnello del Sismi avvisava che l'Fplp dichiarava superato il Lodo Moro. Da quel momento per il gruppo di Habbash non vigeva più l'accordo che era stato stipulato sei o sette anni prima e che garantiva di tenere fuori l'Italia da atti terroristici. In cambio, ci eravamo impegnati a favorire i palestinesi in molti modi. Soprattutto sul piano diplomatico: avremmo aiutato l'Olp ad ottenere il riconoscimento dalla Comunità economica europea. Riconoscimento che venne il 14 giugno con una famosa, all'epoca, Dichiarazione di Venezia. Presidente del Consiglio era Francesco Cossiga. E se oggi quel passaggio è negletto, occorre ricordare che per impedire la Dichiarazione di Venezia si mossero forze potenti. Saddam, Gheddafi e Assad erano come impazziti contro Sadat (che sarebbe stato assassinato l'anno dopo) e Arafat, considerati traditori della causa. La settimana seguente, tra il 22 e il 23 giugno, Venezia ospitò anche una riunione del G7 con il Presidente Carter. L'ex ambasciatore Richard Gardner nelle memorie accenna all'incubo di un attentato contro il suo Presidente. Francesco Cossiga insomma fu il mattatore dell'estate '80. Le stragi sono collegabili a quegli eventi? Le carte di Giovannone per il momento non ci aiuteranno.
Strage di Ustica, prolungato il segreto di Stato. «La verità farebbe male all’Italia». Il Dubbio il 22 agosto 2020. In una lettera indirizzata a Giuliana Cavazza, figlia di una delle 81 persone morte nella tragedia del 27 giugno 1980, Palazzo Chigi afferma che rendere pubbliche le carte arrecherebbe «un grave pregiudizio agli interessi della Repubblica». «Stiamo valutando se ricorrere al Tar o riproporre la richiesta citando anche ciò che è stato già pubblicato sulle note del Sismi, inviate giorno per giorno poco prima della strage». A dirlo è Giuliana Cavazza, presidente onoraria dell’associazione «Verità per Ustica» e figlia di una delle 81 persone morte nella strage del 27 giugno 1980, commentando la lettera a lei indirizzata e nella quale Palazzo Chigi afferma che rendere pubbliche le note del colonnello Stefano Giovannone, capocentro del Sismi in Libano dal 1973 al 1982, che nei giorni prima della strage avvertiva il governo italiano degli imminenti pericoli che correva il nostro Paese soprattutto per mano dell’Fplp, arrecherebbe «un grave pregiudizio agli interessi della Repubblica». La lettera che Palazzo Chigi ha indirizzato alla Cavazza, riporta La Stampa, «ripercorre brevemente la storia: il colonnello Giovannone oppose il segreto di Stato durante l’inchiesta sulla scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo. Era il 1984 quando l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, confermò il segreto di Stato e ciò impedì anche ai magistrati di visionare il dossier. Da quel momento sulle informazioni di Giovannone si è stesa una coltre impenetrabile che è durata fino al 2014. E quanto prescrive la legge: il segreto di Stato può durare al massimo trent’anni. Immediatamente dopo, però, sulle sue carte è subentrata la classifica di «segretissimo». «Significa che ora almeno i magistrati potrebbero leggere questi documenti, ma con tanti vincoli, e non è dato sapere quali procure li hanno visionati». Subito dopo il quotidiano di Torino spiega: «Il segreto riguarda una serie di telegrammi cifrati sui rapporti occulti tra Italia e palestinesi, l’Olp, la formazione al-Fatah di Yasser Arafat, la formazione ancor più estremistica Fplp di George Habbash, altri servizi segreti arabi, i libici. Nel plico ci sono gli allarmi che Giovannone faceva rimbalzare a Roma. L’escalation nel corso del 1979 e 1980 di minacce contro gli italiani da parte del gruppo terroristico Fplp dopo che furono sequestrati ad Ortona, in Abruzzo, alcuni missili terra-aria di fabbricazione sovietica che stavano portando attraverso l’Italia. Oppure i riferimenti al super-terrorista Carlos, sanguinario e folle, che era al soldo del Patto di Varsavia, ma anche di Gheddafi o di Saddam Hussein». C’è, poi, un documento che «impressiona più di tutti», scrive ancora La Stampa: «Un cablo arrivato a Roma il 27 giugno 1980, proprio il giorno in cui sarebbe precipitato il Dc9 dell’Itavia con 81 persone a bordo, nel quale il colonnello del Sismi avvisava che l’Fplp dichiarava superato il Lodo Moro. Da quel momento per il gruppo di Habbash non vigeva più l’accordo che era stato stipulato sei o sette anni prima e che garantiva di tenere fuori l’Italia da atti terroristici. In cambio, ci eravamo impegnati a favorire i palestinesi in molti modi. Soprattutto sul piano diplomatico: avremmo aiutato l’Olp ad ottenere il riconoscimento dalla Comunità economica europea. Riconoscimento che venne il 14 giugno con una famosa, all’epoca, Dichiarazione di Venezia. Presidente del Consiglio era Francesco Cossiga». E se oggi quel passaggio «è negletto – conclude il quotidiano -, occorre ricordare che per impedire la Dichiarazione di Venezia si mossero forze potenti. Saddam, Gheddafi e Assad erano come impazziti contro Sadat (che sarebbe stato assassinato l’anno dopo) e Arafat, considerati traditori della causa. La settimana seguente, tra il 22 e il 23 giugno, Venezia ospitò anche una riunione del G7 con il Presidente Carter. L’ex ambasciatore Richard Gardner nelle memorie accenna all’incubo di un attentato contro il suo Presidente. Francesco Cossiga insomma fu il mattatore dell’estate ’80. Le stragi sono collegabili a quegli eventi? Le carte di Giovannone per il momento non ci aiuteranno».
Cavazza spiega che nella missiva il governo italiano afferma che quelle note di Giovannone «non sono attinenti» alla strage di Ustica, «ma secondo noi, invece, sono interessanti per disegnare lo scenario». «Non sono arrabbiata – spiega Cavazza – me l’aspettavo, ma in sostanza, visto che il segreto scadrebbe nel 2029 e poi basterà mettere una firma per rinviare ancora di quinquennio in quinquennio, bisognerebbe vivere come degli Highlander… ma non ci diamo per vinti». Ma Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione parenti vittime della strage di Ustica, commenta: «Sono tre anni che queste persone continuano a diramare la stessa notizia, le stesse banalità e le stesse menzogne. Quelli sono incartamenti relativi a un’altra vicenda e che hanno dei livelli di segretezza previsti dalla legge, e se contenessero elementi relativi ad Ustica sarebbero già stati consegnati, da direttiva Renzi, all’Archivio di Stato, e sarebbero, dunque, visibili. Ma proprio perché non contengono nessun elemento relativo alla vicenda di Ustica, stanno lì e seguiranno il loro corso». E subito dopo chiosa: «È vergognoso e davvero insultante, dopo 40 anni di battaglie e dopo la presenza del Capo dello Stato a Bologna, dove ha auspicato insieme a noi che gli Stati stranieri collaborino per dirci i nomi degli autori della strage, che ancora ci si attardi con un titolo, quello dell’articolo, indecente e indecoroso e che richiama un mai esistito segreto di Stato sulla vicenda». «L’unica sentenza che ha analizzato e confrontato fatti, testimoni e perizie, ha stabilito che parlare di battaglia aerea è pura fantascienza. Sentenza definitiva della Corte di Cassazione penale. L’ex senatrice Bonfietti dovrebbe saperlo. Questa è semplice verità dei fatti», replica Eugenio Baresi, già segretario della Commissione Stragi, in risposta alla presidente Bonfietti. «La verità sulle stragi di Ustica e di Bologna farebbe male all’Italia», accusa Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir. «La giustificazione con cui il presidente del Consiglio avrebbe risposto ai familiari delle vittime – aggiunge – che chiedono verità e quindi giustizia non può in alcun modo essere condivisa. È solo la menzogna che fa male all’Italia». «Anche il Copasir ha chiesto, con una deliberazione assunta all’unanimità e dopo aver letto quei documenti, di desecretare le note di Giovannone dal Libano inerenti nello specifico l’assassinio di Aldo Moro e le stragi di Ustica e Bologna. Tutti coloro che hanno letto quelle carte sono convinti che possano contribuire a svelare la verità e quindi a fare vera giustizia. Attendiamo la risposta ufficiale del presidente del Consiglio per giudicare», conclude il senatore Urso. Sul caso interviene anche Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia: «Da quarant’anni sulla strage di Ustica si combattono due tesi contrapposte: quella della bomba sull’aereo e quella del missile lanciato per sbaglio in uno scenario di guerra. A me oggi preme solo ricordare che nell’ultimo, recente anniversario della strage, il premier Conte ha detto che “non devono esserci più veli a coprire le pagine più tragiche della nostra storia nazionale”. Ebbene, la notizia che Palazzo Chigi ha prorogato per otto anni il segreto di Stato sui documenti del Sismi a Beirut va nella direzione esattamente opposta. Se non si trattasse di una tragedia nazionale, sarebbe lecito parlare di farsa».
Missili, collisioni, bombe. Il labirinto di Ustica e l’ombra di Gheddafi. Salvatore Sechi su Il Dubbio il 27 giugno 2020. Quarant’anni fa la tragedia del Dc-9 dell’Itavia che esplose in arie e si inabissò nel mare. Persero la vita 81 persone e ancora oggi la verità è lontana. Sulle stragi di Ustica e di Bologna non c’è più il segreto di stato. L’ombra di Gheddafi e delle fakenews. Dopo 40 anni manca l’autore, l’arma e il movente dei delitti. Nella redazione milanese del quotidiano più legato all’ircocervo politico creato da Beppe Grillo c’è una certa agitazione. Non c’è più il segreto di Stato. La ragione va ricercata in un paio di scadenze. La prima è quella del 27 giugno. Saranno 40 anni dalla tragedia del 1980 in cui un aereo dell’Itavia esplose in aria e si inabissò nello specchio di mare tra le isolette di Ponza e di Ustica. La seconda è che tanto su di essa quanto sulla strage del 2 agosto 1980 presso la stazione di Bologna ( con un numero di vittime ancora più numeroso) viene meno il vincolo massimo ( fissato in 30 anni) del segreto di Stato e delle due proroghe massime ( cinque anni) per i documenti classificati come “segretissimo” ad esse apposti. Sta per diventare, dunque, accessibile all’opinione pubblica quanto avvenne in Italia dal momento dei sequestri dei missili terra- aria avvenuto ad d Ortona nell’inverno del 1980? Sembra proprio di sì, ma è bene non farsi troppe illusioni. I tempi, le beghe, i torcicolli della democrazia italiana a volte non sono diversi da quella indiana o egiziana. Verso la fine del 1980 nel porto di Ortona da una nave battente bandiera libanese veniva sbarcata una santa barbara missilistica di origi ne sovietica. A trasportarla verso Roma, con consegna finale al terrorismo dell’Olp di Arafat, fu un gruppo di dirigenti dell’Autonomia romana di Via dei Volsci, insieme ad un esponente del terrorismo arabo- palestinese, il giordano Abuh Saleh Anzeh, domiciliato a Bologna. In seno alla Commissione parlamentare d’in chiesta sul dossier Mitrokhin il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ( FPLP) fu sospettato di avere effettuato l’eccidio di Bologna per reagire all’arresto e alla condanna del giordano Abu Saleh Anzeh ad opera del Tribunale di Chieti, e in violazione del “lodo Moro” ( l’intesa sulla reciprocità di favori nel trasporto di armi tra l’Italia e l’Olp ). Come avviene sempre nei gruppi che interpretano la storia dell’Italia contemporanea co me una catena di complotti orditi dai servizi segreti occidentali genuflessi (così si pensa) all’imperialismo americano, a scattare per l’ennesima volta è l’accusa di depistaggio. Ad avere consumato questo reato sarebbe, ancora oggi, chi non si allinea a siffatta dozzinale vulgata storiografica. A rilanciarla sono due parlamentari del Pd che da molti decenni guiderebbero due gruppi di pressione come le associazioni delle vittime di Ustica e del 2 agosto a Bologna. In realtà dati di fatto, inchieste e sentenze penali in questi quaranta anni hanno accertato le cose seguenti: cioè che l’aereo DC- 9 della compagnia Itavia, partito da Bologna e diretto a Palermo, s’inabissò nel Punto Condor del Mar Tirreno. Le vittime furono 81. Non ci fu nessun superstite. In secondo luogo che non c’è stata nessuna battaglia aerea tra l’aeronautica di Gheddafi (avvertito dal capo del Sismi, gen. Santovito, dell’insicurezza del nostro spazio aereo) e quella dei paesi della Nato. Nessun missile è stato sparato. Nè la Francia nè gli Stati Uniti hanno preso di mira il vettore italiano in viaggio verso Palermo. L’unica causa certa del suo abbattimento è soltanto l’esplosione di una bomba nella toilette posteriore di bordo. E’ la ragione per cui i giornaloni hanno mantenuto un silenzio da coscritti sul migliore saggio sulla vicenda finora pubblicato. Mi rife risco a Ustica, i fatti e le fake news. Cronaca di una storia italiana fra Prima e Seconda Repubblica, edito a Firenze nel 2019 da Lo Gisma. Ne sono autori un esperto e colto comandante pilota come Franco Bonazzi e il ricercatore Francesco Farinelli che hanno ripercorso ogni aspetto e direi ogni documento ( non solo giudiziario) di questa tortuosa vicenda. Entra a far parte, rompendone il durissimo gheriglio di faziosità, delle secche di quei misteri aggrovigliati che in Italia sono l’amministrazione della giustizia e l’inferno delle notizie. Il giornalismo è stato in prima linea nel pro palare informazioni che non hanno avuto mai il conforto di prove. Da Via Solferino è partita la notizia ( semplicemente infondata) di 4 aerei francesi che si sarebbero levati all’insegui mento del DC- 9. Successivamente si sarebbe insistito su un’altra fakenews, cioè di Mig libici nascosti dietro la sua scia. Di recente, sempre sugli schermi di Tv- 7, ci si è esibiti nel ricostruire un attacco missilistico in grande stile mosso dall’interno della portaerei degli Stati Uniti, Saratoga, ormeggiata nel porto di Napoli. Sfortunatamente la testimonianza è stata subito smentita. Per non parlare del contributo attivo alla dissipazione del pubblico denaro che hanno dato il Comune di Bologna, la Regione Emilia Romagna e lo stesso governo dell’epoca. A quale titolo hanno erogato centinaia e centinaia di migliaia di Euro a favore di associazioni private che non sono titolari, in nessun modo, di inchieste giudiziarie né di ricerche scientifiche su Ustica o sul 2 agosto bolognese? A quale titolo, se non l’ostinazione di qualche parvenu della politica, queste istituzioni pubbliche hanno finanziato la ricomposizione del relitto dell’aereo esploso nel cielo di Ustica? Non sarebbe stato meglio destinare questi fondi ad un museo che ricordi l’assassinio di centinaia di civili, sacerdoti, militanti politici, imprenditori sterminati dopo la guerra di Liberazione da bande partigiane riottose all’accettazione dello stesso disegno di costituzionalizzazione della lotta politica perseguito anche dai leaders del Pci? Le vittime dell’abbattimento del DC9 meritano certamente ogni solidarietà. La ricerca della verità su questo eventuale delitto non deve avere alcuna sosta. Ma questo doveroso tributo non giustifica in alcun modo il pregiudizio per cui esse sono considerate più interessanti, da un punto di vista storico, dei più numerosi delitti, sparizioni, esecuzioni sommarie, vendette ecc. della lunga guerra civile di cui l’Emilia Romagna è stata teatro dopo il 25 aprile 1945. Grazie a Bonazzi e a Farinelli viene restituito alla storiografia il molto che ad essa è stato maltolto dalla narrazione fiabesca e sentenziosa del giornalismo nostrano ( non di rado popolato da inviati e opinionisti a corto di buone letture) e delle pseudo- inchieste della TV pubblica. Il discorso vale purtroppo anche per quelle private. Mi rifer sco alle concioni di inaciditi e pallidi dilettanti nella LA7 di Urbano Cairo. Un politico democristiano di lungo corso, ma rispettoso della documentazione e della precisione dei fatti come Paolo Emilio Pomicino, anche di recente ha pubblica mente messo alla berlina, sul quotidiano Il Foglio, il curatore, Andrea Purgatori, del lezi oso e protuberante programma Atlantide. A che punto è dopo un quarantennio l’affaire Ustica? I risultati dell’attività giudiziaria smentiscono platealmente le querimonie di cronisti menestrelli dei magistrati ieri di Mani pulite e poi della vicenda del DC9 di Itavia e della strage di Bologna. Al pari della responsabile dell’Associazione Verità su Ustica, Giuliana Cavazza, del senatore Carlo Giovanardi, bisogna tenere presente la differenza sottolineata da Bonazzi e Farinelli. Le sentenze in campo penale hanno sempre negato l’ipotesi che a far naufragare il DC9 sia stato il lancio di un missile. A ritenerla più probabile sono state, invece, le sentenze in campo civile. Agli atti giudiziari relativi ai risarcimenti chiesti dall’Itavia e dai parenti delle vittime si deve l’interesse dei media. Solo allora, anche grazie al silenziatore e alle distorsioni che hanno preso di mira i processi penali in Corte di assise, di appello e in Cassazione nel periodo 2000- 2007, le ipotesi del missile, delle collisioni intere o parziali con altro velivolo, della stessa fantomatica battaglia aerea hanno fatto assumere alle favole sulle cospirazioni il valore di certezze: anzi, come scrivono gli autori, il carattere di «verità monolitiche». In realtà, l’unico monolite di questa vicenda è la sentenza ordinanza del 1999 emessa dopo circa dieci anni da un magistrato tenace e probo come Rosario Priore. Nè Il FattoQuotidiano né la recente trasmissione di Franco Di Mare per La 7 si sono resi conto che la stessa sentenza, pubblicata nel febbraio 2019, della Corte d’Appello di Palermo ha ribadito la validità delle analisi e della sentenza del magistrato romano. Ma questo è anche il limite, cioè l’impasse in cui ci troviamo. La trama degli inganni di cui è intessuta la vicenda di Ustica ha visto coinvolti 4 magistrati ( Vittorio Bucarelli, Aldo Guarino, Giorgio Santacroce e Rosario Priore), 15 collegi peritali di nomina giudiziaria, molti consulenti delle parti civili e della difesa e circa 4 mila testimoni interrogati. Nell’insieme ne è sortito un “archivio” costituito da circa 1.750.000 pagine di atti istruttori generali. La sola sentenza consta di 5.468 pagine. A Priore si ama fare risalire tesi che non ha mai sostenuto. Nelle sue ricostruzioni spesso si è limitato a prospettare delle ipotesi, senza, però, poterne verificare a fondo nessuna. Ciò è stato ignorato dai giornalisti che lo tirano per la giacca. Dell’eventuale conflitto armato tra il DC 9 dell’Itavia e altri velivoli Priore non ha fornito né le ragioni che lo avrebbero determinato, né il numero degli aerei partecipanti, né tanto meno la loro nazionalità. Ha così escluso che, in mancanza degli autori del reato ( rimasti ignoti), si potesse procedere per il delitto di strage. È vero che ha disposto il rinvio a giudizio di nove esponenti dell’Aeronautica militare con l’accusa di falsa testimonianza e attentato contro gli organi costituzionali. Ma la terza sessione della Corte d’Appello di Roma ha poi dichiarato “la nullità dell’attività istruttoria” e della stessa ordinanza di rinvio a giudizio. Dunque, nulla di fatto. Per la verità, bisogna aggiungere che Priore non è stato sordo di fronte a nuove proposte e analisi diverse da quella da lui prescelta. Anzi, nel corso degli anni, per effetto di inquinamenti e depistaggi, ha diverse volte oscillato nell’attribuzione delle cause della caduta del Dc 9. Lo ha confessato candidamente egli stesso nel convegno su Ustica tenuto a Firenze presso il Consiglio regionale della Toscana, il 7 ottobre 2016. Prima ha parlato di un attentato missilistico. Poi di una quasi- collisione con altri aerei. E infine di collisione bella e buona. Dunque, notevole la sua incertezza sugli stessi eventi. Ma c’è un altro aspetto che non viene adeguatamente sottolineato. La ripresa di interesse mediatico per la strage di Ustica ha avuto luogo in coincidenza con l’emissione di sentenze in ambito non più penale, ma civile. Oggi siamo nella situazione di venti anni fa, cioè di fronte ad una sconfitta dello Stato. Come hanno scritto Bonazzi e Farinelli «a fronte di una cospicua mole di documenti, si assiste al paradosso della mancanza di un colpevole, di un’arma del delitto unanime mente riconosciuta, di un chiaro movente e di una ricostruzione dei fatti condivisa». Dunque, siamo in assenza di una verità giudiziaria e di una verità storica. Questa è la ragione per cui a dominare è la gogna mediatica, i travisamenti, i processi celebrati sulla stampa. Nell’incertezza l’Italia non ha ancora presentato all’International Civil Aviation Organi zation di Montreal ( l’agenzia delle Nazioni Unite dal 1970 specializzata in materia di aviazione civile) il Final Report sui risultati delle indagini circa le cause dell’evento. Tutto dipende dalla resistenza tutta politica a prendere in considerazione il fatto che l’ombra del Colonnello Gheddafi incombe sulla vicenda di Ustica come sulla mattanza del 2 agosto a Bologna. La Libia ha finanziato il terrorismo della primula rossa Carlos, dell’Olp, del FPLP ecc. In particolare non ha mai perdonato all’Italia di avere assecondato la volontà della Nato di estromettere il campione dell’islamismo dal vero e proprio prottetorato esercitato su Malta. Di qui le proteste, le pressioni e le minacce rivolte al nostro paese. A documentarle, indicando una traccia pur troppo lasciata cadere, è stato il sotto- segretario agli esteri Giuseppe Zamberletti nel prezioso saggio- testimonianza intitolato La minaccia e la vendetta. Ustica e Bologna: un filo tra due stragi, Milano, FrancoAngeli, 1995.
Salvatore Sechi è ordinario di Storia Contemporanea Dipartimento di Studi Storici Università di Bologna
Un manduriano nel mistero di Ustica: i tanti dubbi del professore perito del giudice di Priore. Proponiamo un'interessante ed ancora attualissima intervista fatta venti anni fa da Nazareno Dinoi e Paola Pentimella Testa per il settimanale Avvenimenti, al manduriano Leonardo Lecce. La Voce di Manduria sabato 27 giugno 2020. Esattamente 40 anni fa, il 27 giugno del 1980, un DC-9 dell’Itavia, con a bordo 77 passeggeri e quattro membri dell’equipaggio, decollò alle ore 20.08 dall’aeroporto di Bologna diretto a Palermo. Alle ore 20.59, tra Ponza e Ustica, l’aereo scomparve dai radar assieme alla vita di 81 persone. Un missile lo aveva colpito. A 40 anni da quella misteriosa strage italiana, riproponiamo un'interessante ed ancora attualissima intervista fatta venti anni fa da Nazareno Dinoi e Paola Pentimella Testa per il settimanale Avvenimenti, al manduriano Leonardo Lecce, docente del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale presso Università degli Studi di Napoli Federico II, uno dei sei periti della commissione tecnica che indagò sulle cause del disastro. Alcune sue dichiarazioni nell’intervista: "Fin dall'inizio fummo pedinati". "Tra le tante bugie, quella dei radar di Fiumicino tarati male". "Di una cosa sono certo: fu un missile lanciato da un aereo".
Roma, febbraio '89. Sei uomini sono appena scesi da un aereo dell'aviazione militare italiana proveniente da Londra. Il giudice istruttore Vittorio Bucarelli, che li ha nominati, vuole sapere da loro che cosa ha fatto precipitare, alle ore 20,59 del 27 giugno 1980, il Dc-9 in volo da Bologna a Palermo. Prima di prendere posto all'interno delle grosse auto del ministero dell'Interno si avvicina un signore in divisa: ha i gradi di capitano e le insegne dell'aeronautica militare italiana. Nelle mani ha un plico che consegna a uno di loro: "Qui c'è la verità su Ustica". I sei si guardano in faccia eccitati. Appena in auto, aprono la busta: trenta pagine stampate al computer in cui si sostiene che ad abbattere il Dc-9 è stato un Ufo. I super esperti sorridono. Non era la prima volta che qualcuno tentava di mettere nelle loro mani le "sue" verità sulla vicenda. La loro verità, invece, era ben diversa: ad abbattere il Dc-9 è stato un missile non identificato. La conclusione della perizia, in un primo momento unanime, sarebbe stata poi rivista da due di loro. La storia dell'Ufo non fu solo un aneddoto, ma faceva parte di una serie incredibile di tentativi di depistaggio che contornarono i sei anni in cui si svolsero i lavori della commissione Blasi. I sei periti, tutti ingegneri aeronautici laureati o in servizio all'Università di Napoli, erano Massimo Blasi e Marino Migliaccio, entrambi esperti di motoristica industriale, Ennio Imbimbo, specialista in esplosivi, Raffaele Cerra, conoscitore di sistemi radar e dirigente della Selenia (società produttrice di missili e radar), il medico legale Carlo Romano ed infine Leonardo Lecce, l'unico perito esperto in aeronautica. In un primo momento furono tutti concordi nel sostenere la tesi del missile; due di loro, Blasi e Cerra, cambiarono idea: ad abbattere il Dc-9 era stata una bomba. Un ripensamento, questo, che di fatto invalidò il giudizio finale della commissione tanto da costringere il giudice istruttore a chiedere un supplemento di perizia. Il risultato, però, fu identico: i pareri degli esperti rimasero discordi. Tra coloro che non cambiarono opinione su ciò che aveva provocato il disastro aereo c'è il professor Lecce. Egli è tuttora convinto che quella notte, nel cielo di Ustica, "qualcosa dall'esterno colpì la parte superiore sinistra della carlinga dell'aereo, facendolo precipitare dopo un breve tentativo di ammaraggio durato dai quattro ai sei minuti". Docente di acustica e vibrazioni presso il Dipartimento di Progettazione Aeronautica dell'Università di Napoli, il professor Lecce è tra i massimi esperti italiani di sicurezza aerea. E' la prima volta che si lascia intervistare. Negli anni in cui si è occupato di Ustica ai mass media ha rilasciato soltanto dichiarazioni tecniche. In uno dei tanti afosi pomeriggi di fine estate, Lecce ci riceve nella sua residenza estiva di San Pietro in Bevagna, località balneare sul litorale ionico salentino. Ci fa accomodare in veranda. Dietro di noi echeggia il mare del golfo di Taranto. Non è per niente infastidito dal registratore. Anzi, il professore sembra abituato a parlare con la stampa. "Durante il periodo delle perizie sul Dc-9 - spiega -, parlavamo molto con gli organi d'informazione ai quali non nascondevano niente. Decidemmo di utilizzare questo sistema per difenderci da possibili incidenti". Non erano tempi belli, quelli, ecco perché, spiega Lecce, avevamo accettato il consiglio di un giornalista: "Dite subito ciò che si è scoperto, vi renderà immuni da possibili tentativi di soppressione".
Professor Lecce, in questi venti anni d'inchiesta si è parlato molto di depistaggi, tentativi di deviazione, reticenze e anche di morti sospette. Qual è l'episodio più strano che ricorda e che in qualche modo può essere ricondotto a questi fenomeni?
"Una delle cose che ci colpì molto fu il comportamento di un esperto inglese da noi contattato per una consulenza. Dopo che recuperammo la prima delle due scatole nere dell'aereo, quella che registra tutti gli eventi sonori all'interno della cabina di pilotaggio, ci trovammo di fronte a delle registrazioni incomplete e disturbate. Nell'ultima parte dei nastri, pochi istanti prima del black-out che seguì all'impatto, erano stati incisi dei rumori, estranei alla cabina, che non riuscivamo a decifrare. Interpellammo allora un tecnico inglese esperto in questo genere di analisi, al quale spedimmo una copia delle registrazioni. Quando andammo a trovarlo in Inghilterra per concordare il lavoro, lui, che già aveva dato un occhiata al materiale, si dimostrò molto disponibile a collaborare e ci fornì anche un preventivo per la sua consulenza. Ottenuta la necessaria autorizzazione del giudice, ricontattammo l'esperto inglese che, inspiegabilmente, ci disse di non essere più disponibile per quel lavoro. Aveva detto di no a una ventina di milioni per pochi giorni di lavoro. L'idea che ci facemmo fu quella che qualcuno lo aveva avvicinato dicendogli di lasciar perdere. Anche in altre occasioni ci furono dette cose che, in seguito, vennero rettificate o smentite. In particolare, in certe indagini svolte in ambienti inglesi i colloqui successivi ad alcuni studi sembravano essere favorevoli alla tesi del missile esterno. Poi, quando ci venivano inviati i rapporti scritti, le versioni erano inspiegabilmente cambiate. Ciò che a voce era certo, sulla carta diventava dubitativo o addirittura negava quanto sostenuto in precedenza. Che ci fosse dietro qualcuno che si prodigasse per cercare di indirizzare il risultato delle indagini in un senso anziché in un altro era abbastanza evidente".
Anche dei suoi colleghi, il coordinatore del gruppo Blasi e l'esperto in esplosivi della Selenia, Cerra, cambiarono improvvisamente idea sulla causa del disastro. Anche questa fu opera di una regia occulta? Aveste la sensazione che questi due colleghi fossero stati minacciati?
"Mah! Non lo so. Non ce lo siamo mai spiegati. Fu una vera sorpresa. Quando ci dissero di non credere più all'ipotesi del missile e di essere favorevoli alla tesi della bomba interna ci meravigliammo molto. Anche perché, fino ad allora, eravamo soliti consultarci prima di qualsiasi decisione. In quel caso, la loro conclusione arrivò come un fulmine a ciel sereno. Chiedemmo un chiarimento, ma non ci fu dato. Non so perché cambiarono idea. Una cosa so di certo. Io e gli altri della commissione che continuammo a sostenere la tesi del missile fummo denunciati per calunnia dal consulente legale dei militari, l'avvocato Carlo Taormina. Ricordo che proprio in quel periodo ci fu un altro episodio strano collegato ai tracciati radar di Fiumicino. I tecnici della Selenia, la compagnia che aveva prodotto e montato i radar di Fiumicino, ci comunicarono che i tracciati radar in nostre mani, che documentavano la presenza di un caccia che incrociava la rotta del Dc-9, non erano più attendibili perché, ci dissero, avevano scoperto degli errori di taratura nel radar che risalivano al tempo delle installazioni. Chiedemmo un'ulteriore verifica. Fatto sta che la Selenia, senza dire niente a nessuno, andò a riparare l'anomalia, o almeno è quanto ci fu detto. Questo accadeva, se non erro, nel 1990. Dieci anni dopo Ustica. Ci sembrò strano che per dieci lunghi anni nessuno si fosse mai accorto dell'errore. Incredibile, vero?"
Vi sentivate osservati in quegli anni?
"Non immediatamente. Cominciammo a sentirci controllati appena iniziò la fase di recupero del relitto, nel giugno dell'87. In quel periodo cominciarono a contattarci strani individui che si spacciavano per giornalisti. Sapevano già quello che doveva accadere. Uno in particolare ci seguiva ovunque. Acquisiva notizie che poi non vedevamo riportate su alcun giornale. Era chiaramente uno dei servizi segreti. In particolare, ci veniva continuamente chiesto se avessimo trovato o meno dei relitti diversi da quelli del Dc-9." E ne trovaste? "Si, ne trovammo. Tra i reperti recuperati all'epoca dell'incidente trovammo dei pezzi che non appartenevano al Dc-9 precipitato. Tra questi, pezzi di schegge metalliche che si erano andati a conficcare nella gomma piuma dei sedili dell'aereo."
Quali sono stati gli errori più grossi nelle indagini su Ustica?
"Il ritardo con cui è stato fatto recuperare il relitto e il non aver eseguito l'esame autoptico sui corpi ritrovati."
Secondo lei per quale motivo non vennero subito ripescati i resti del Dc-9?
"Il costo delle operazioni era considerato troppo alto. Sia Bucarelli, sia noi periti, cercammo l'appoggio politico e finanziario del governo per procedere con il recupero. Ci offrimmo persino di fare un preventivo per dimostrare che non era un'operazione impossibile."
Alla fine fu scelta una società francese di recuperi sottomarini, l'Ifremer. Una ditta, però, che venne in seguito accusata di essere vicina ai servizi segreti d'Oltralpe...
"Non credo che fosse vicina ai servizi francesi. So di certo che era l'unica in possesso dell'attrezzatura adatta a scandagliare il fondo a quella profondità e a recuperare i resti del Dc-9."
Da alcune riprese effettuate sul fondale accanto al relitto dell'aereo erano ben visibili delle tracce del passaggio di qualche macchinario, come se qualcuno avesse scandagliato quel tratto del Tirreno prima della società francese...
"Non credo che qualcuno sia andato lì prima di noi. Quelle strisce sul fondo sono state lasciate dalle telecamere della stessa società francese. Null'altro."
Avete raccontato tutto ai giudici?
"Solo quello che si poteva raccontare. Le impressioni non si possono scrivere nei rapporti e il nostro compito era solo scoprire perché cadde quell'aereo. Sono passati venti anni dal disastro. Non ci sono ancora colpevoli. Gli unici risultati delle indagini sono, per ora, dieci rinvii a giudizio."
Secondo lei, come andrà a finire?
"Purtroppo la mia esperienza in fatto di disastri aerei mi porta a dire che in Italia, ad oggi, non è stato mai condannato ancora nessuno per acclamate responsabilità dirette."
(Nazareno Dinoi - Paola Pentimella Testa per il settimanale nazionale "Avvenimenti", settembre 2000)
ANDREA PURGATORI per il Corriere della Sera il 26 giugno 2020. Raccontare la strage di Ustica dopo 40 anni, un tempo infinito per i familiari delle 81 vittime che dal 27 giugno del 1980 aspettano la verità, è un po' come fare la cronaca di una lunga e complessa corsa a ostacoli. Serve la memoria, che conta ma non basta. E non soltanto perché alla Procura di Roma c'è tuttora una inchiesta aperta per stabilire cause e responsabilità dell'esplosione di quel DC9 che volava da Bologna a Palermo in un cielo limpido ma, al contrario di quello che per decenni si sono affannati a sostenere i vertici militari dell'epoca, affollato di caccia di molte nazioni: americani, francesi, britannici e naturalmente italiani. E tutto questo in un Mediterraneo che allora era uno dei luoghi più pericolosi del pianeta. Dove si scaricavano fortissime tensioni internazionali tra i due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, ma anche confronti tra nazioni. Ecco, è in questo contesto che va calata la storia della strage. In una stagione in cui l'Italia giocava su più tavoli, per interessi diversi. Basta pensare alla Libia del colonnello Muammar Gheddafi, che all'epoca era considerato il nemico numero uno dell'Occidente come poi lo sarebbero diventati Saddam Hussein e Osama Bin Laden. Nel 1980, Gheddafi possedeva il 13 per cento delle azioni della nostra industria più importante: la Fiat. Ci garantiva quasi la metà dell'energia di cui il Paese aveva bisogno, tra petrolio e gas. E aveva accolto oltre ventimila lavoratori italiani, che costituivano la forza necessaria a costruire la grande Jamahiriya su cui il colonnello aveva fondato la propria ambizione di leader del mondo arabo. Potevano americani e francesi tollerare che l'Italia intrattenesse rapporti tanto ambigui con Gheddafi? Certamente, no. E ce lo avevano detto esplicitamente. Il DC9 Itavia decolla dall'aeroporto di Bologna alle 20.08 con due ore di ritardo, a causa di un violento temporale. A bordo ci sono due piloti, due assistenti di volo e 77 passeggeri tra cui 13 bambini. La rotta prevede il sorvolo dell'Appennino, la discesa fino a Roma e poi l'ultima tratta lungo l'aerovia Ambra 13 fino a Palermo. Ma è proprio quando l'aereo si trova sull'Appennino che, secondo le perizie radaristiche, si verificano i primi due episodi sconcertanti di questa lunga storia.
Primo. Il DC9 viene agganciato da un altro velivolo, quasi certamente un caccia e forse un Mig libico (tre settimane dopo ne verrà «ufficialmente» rinvenuto uno precipitato sulla Sila), che si mette nella scia dell'aereo civile per nascondersi ai radar.
Secondo. Due intercettori F104 dello stormo dell'Aeronautica di Grosseto incrociano il DC9 e rientrano alla base segnalando un'emergenza come previsto dal manuale Nato: volando in modo triangolare sull'aeroporto mentre inviano segnali muti premendo il pulsante della radio. Sull'F104 che dà l'allarme ci sono i piloti Ivo Nutarelli e Mario Naldini. Hanno visto l'intruso? Sì, perché volavano «a vista». Ma non potranno mai raccontarlo. Prima di essere interrogati dal giudice Rosario Priore moriranno a Ramstein, in Germania, dove si scontreranno uno contro l'altro durante un'esibizione delle Frecce tricolori.
Intanto il DC9 continua sulla rotta verso Sud. E il controllo del traffico aereo di Ciampino lo segue. Ma la traccia è a zigzag, e i periti la interpreteranno come doppia, confermando la presenza del secondo velivolo sconosciuto. Fino al cielo sulle isole di Ponza e Ustica. Dove pochi secondi prima delle 21 il copilota dice quell'ultima frase, completata da una nuova analisi compiuta da Rainews sulla registrazione del voice recorder: «Guarda cos' è...». Poi l'esplosione e il silenzio. Cosa è accaduto? Cosa hanno visto i piloti del DC9? Secondo i periti italiani e americani, la ricostruzione delle tracce radar indica che in quell'istante almeno un altro caccia non identificato appare sulla scena con una deliberata manovra d'attacco provenendo da Ovest. L'obiettivo non è ovviamente l'aereo civile, ma l'intruso che si nasconde. Chi colpisce chi non lo sappiamo, ma sappiamo che in mezzo ai resti del DC9 che precipitano in mare l'intruso tenta la fuga, inseguito da due caccia che testimoni in punti diversi della Calabria vedono distintamente. La direzione è quella che porta al luogo nel quale verrà rinvenuto il Mig23 libico. E l'autopsia sul cadavere del pilota rivelerà che non è morto il 18 luglio, giorno del ritrovamento ufficiale ma tre settimane prima. Quindi, la sera del 27 giugno 1980. Anche se quella relazione sparirà insieme a parti del corpo prelevate durante l'autopsia, a tutte le foto scattate e agli appunti che aveva con sé. Il resto, il resto di questi 40 anni, è una catena di silenzi o bugie che coprono ancora oggi il cuore di quello scenario di guerra. Silenzi o bugie (il cedimento strutturale, la bomba) italiane, francesi, americane e di tanti Paesi che insistono a non fornire ai magistrati ciò che sarebbe necessario a chiudere questa sporca partita. Ma caricare sulle spalle di chi indaga tutto il peso della ricerca della verità è un alibi. Non potranno mai essere dei magistrati a bussare alla porta della Casa Bianca o dell'Eliseo, serve uno Stato che abbia voglia di fare i conti col proprio passato. Perché appunto la memoria e le commemorazioni non bastano. Né bastano i risarcimenti stabiliti dai tribunali che hanno condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti certificando che ad abbattere il DC9 fu un missile. Soprattutto se c'è in ballo il dolore di 81 famiglie e la loro sacrosanta pretesa di avere giustizia.
La strage di Ustica, 40 anni fa: la battaglia nei cieli e le bugie di Stato. Di Andrea Purgatori il 26 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. Il 27 giugno 1980, il Dc9 Itavia Bologna-Palermo esplose in volo, inabissandosi nei pressi dell’isola di Ustica. I morti furono 81. Ecco che cosa sappiamo di quella strage: dai caccia in volo in quel momento agli infiniti depistaggi. Raccontare la strage di Ustica dopo 40 anni, un tempo infinito per i familiari delle 81 vittime che dal 27 giugno del 1980 aspettano la verità, è un po’ come fare la cronaca di una lunga e complessa corsa a ostacoli. Serve la memoria, che conta ma non basta. E non soltanto perché alla Procura di Roma c’è tuttora una inchiesta aperta per stabilire cause e responsabilità dell’esplosione di quel DC9 che volava da Bologna a Palermo in un cielo limpido ma, al contrario di quello che per decenni si sono affannati a sostenere i vertici militari dell’epoca, affollato di caccia di molte nazioni: americani, francesi, britannici e naturalmente italiani. E tutto questo in un Mediterraneo che allora era uno dei luoghi più pericolosi del pianeta. Dove si scaricavano fortissime tensioni internazionali tra i due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, ma anche confronti tra nazioni. Ecco, è in questo contesto che va calata la storia della strage. In una stagione in cui l’Italia giocava su più tavoli, per interessi diversi. Basta pensare alla Libia del colonnello Muammar Gheddafi, che all’epoca era considerato il nemico numero uno dell’Occidente come poi lo sarebbero diventati Saddam Hussein e Osama Bin Laden. Nel 1980, Gheddafi possedeva il 13 per cento delle azioni della nostra industria più importante: la Fiat. Ci garantiva quasi la metà dell’energia di cui il paese aveva bisogno, tra petrolio e gas. E aveva accolto oltre ventimila lavoratori italiani, che costituivano la forza necessaria a costruire la grande Jamahiria su cui il colonnello aveva fondato la propria ambizione di leader del mondo arabo. Potevano americani e francesi tollerare che l’Italia intrattenesse rapporti tanto ambigui con Gheddafi? Certamente, no. E ce lo avevano detto esplicitamente. Il DC9 Itavia decolla dall’aeroporto di Bologna alle 20,08 con due ore di ritardo, a causa di un violento temporale. A bordo ci sono due piloti, due assistenti di volo e 77 passeggeri tra cui 13 bambini. La rotta prevede il sorvolo dell’Appennino, la discesa fino a Roma e poi l’ultima tratta lungo l’aerovia Ambra 13 fino a Palermo. Ma è proprio quando l’aereo si trova sull’Appennino che, secondo le perizie radaristiche, si verificano i primi due episodi sconcertanti di questa lunga storia. Primo. Il DC9 viene agganciato da un altro velivolo, quasi certamente un caccia e forse un Mig libico (tre settimane dopo ne verrà “ufficialmente” rinvenuto uno precipitato sulla Sila), che si mette nella scia dell’aereo civile per nascondersi ai radar. Secondo. Due intercettori F104 dello stormo dell’Aeronautica di Grosseto incrociano il DC9 e rientrano alla base segnalando un’emergenza come previsto dal manuale Nato: volando in modo triangolare sull’aeroporto mentre inviano segnali muti premendo il pulsante della radio. Sull’F104 che dà l’allarme ci sono i piloti Ivo Nutarelli e Mario Naldini. Hanno visto l’intruso? Sì, perché volavano “a vista”. Ma non potranno mai raccontarlo. Prima di essere interrogati dal giudice Rosario Priore moriranno a Ramstein, in Germania, dove si scontreranno uno contro l’altro durante un’esibizione delle Frecce tricolori. Intanto il DC9 continua sulla rotta verso Sud. E il controllo del traffico aereo di Ciampino lo segue. Ma la traccia è a zigzag, e i periti la interpreteranno come doppia, confermando la presenza del secondo velivolo sconosciuto. Fino al cielo sulle isole di Ponza e Ustica. Dove pochi secondi prima delle 21 il copilota dice quell’ultima frase, completata da una nuova analisi compiuta da Rainews sulla registrazione del voice recorder: “Guarda cos’è….”. Poi l’esplosione e il silenzio. Cosa è accaduto? Cosa hanno visto i piloti del DC9? Secondo i periti italiani e americani, la ricostruzione delle tracce radar indica che in quell’istante almeno un altro caccia non identificato appare sulla scena con una deliberata manovra d’attacco proveniendo da ovest. L’obiettivo non è ovviamente l’aereo civile, ma l’intruso che si nasconde. Chi colpisce chi non lo sappiamo, ma sappiamo che in mezzo ai resti del DC9 che precipitano in mare l’intruso tenta la fuga, inseguito da due caccia che testimoni in punti diversi della Calabria vedono distintamente. La direzione è quella che porta al luogo nel quale verrà rinvenuto il Mig23 libico. E l’autopsia sul cadavere del pilota rivelerà che non è morto il 18 luglio, giorno del ritrovamento ufficiale ma tre settimane prima. Quindi, la sera del 27 giugno 1980. Anche se quella relazione sparirà insieme a parti del corpo prelevate durante l’autopsia, a tutte le foto scattate e agli appunti che aveva con sé. Il resto, il resto di questi 40 anni, è una catena di silenzi o bugie che coprono ancora oggi il cuore di quello scenario di guerra. Silenzi o bugie (il cedimento strutturale, la bomba) italiane, francesi, americane e di tanti paesi che insistono a non fornire ai magistrati ciò che sarebbe necessario a chiudere questa sporca partita. Ma caricare sulle spalle di chi indaga tutto il peso della ricerca della verità è un alibi. Non potranno mai essere dei magistrati a bussare alla porta della Casa Bianca o dell’Eliseo, serve uno Stato che abbia voglia di fare i conti col proprio passato. Perché appunto la memoria e le commemorazioni non bastano. Né bastano i risarcimenti stabiliti dai tribunali che hanno condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti certificando che ad abbattere il DC9 fu un missile. Soprattutto se c’è in ballo il dolore di 81 famiglie e la loro sacrosanta pretesa di avere giustizia.
«I miei genitori saliti su quel volo all’ultimo istante». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 26/6/2020. Riccardo si fiondò all’aeroporto di Bologna con il cuore in gola e un pensiero fisso: la Chrysler color oro dei suoi genitori. Se l’avesse trovata al parcheggio dello scalo ogni speranza sarebbe svanita perché significava che mamma Giulia e papà Pino erano davvero saliti su quel volo maledetto. «Era l’una di notte quando partì da Montegrotto... aspettammo con ansia la sua telefonata», ricorda oggi sua sorella Elisabetta, allora diciottenne, rimasta ad attendere notizie ufficiali nella loro casa del paese termale vicino a Padova mentre i tg erano fermi alla scomparsa del DC9 Itavia decollato da Bologna alle 20.08 con destinazione Palermo. Ad attendere Giulia e Giuseppe Lachina, nel capoluogo siciliano, c’erano i parenti, ma soprattutto c’era un cugino d’america tornato per qualche giorno in Sicilia dopo molti anni. «Mio fratello chiamò intorno alle due con un lo di voce: “La macchina è in parcheggio, torno a casa”». Fu il gelo. Si erano aggrappati all’ultima telefonata fatta dal padre a Elisabetta, alle cinque del pomeriggio: «“Elisa, al momento non c’è posto in aereo, ci hanno inserito nella lista d’attesa, vediamo, altrimenti andiamo a Firenze o a Roma”. Ci tenevano proprio a salutare il cugino». I coniugi Lachina, 50 anni lei e 57 lui, entrambi fotografi, origini siciliane, quattro gli di 26, 25, 18 e 13 anni, non avevano prenotato, ma erano disgraziatamente riusciti a partire. La Chrysler parlava più chiaro di qualsiasi bollettino. Riccardo non cercò altre prove della tragedia e fece subito rientro a Montegrotto. «Restammo tutta la notte seduti uno di fronte all’altra e c’era anche Linda, la nostra sorellina, Ivano era in vacanza... Non abbiamo detto una parola, non riuscivo nemmeno a guardarli negli occhi perché se l’avessi fatto avrei visto il mio stesso terrore». Così Elisabetta ha scolpito nella memoria il giorno più brutto della sua vita: 27 giugno 1980, strage di Ustica, 81 vittime, nessun superstite. L’inizio di un tormento lungo quarant’anni. Ne parla al tavolino di un bar di Montegrotto, fra un caffè e molti sospiri che la dicono lunga sulla stanchezza di affrontare l’ennesimo racconto. «Mio padre fu riconosciuto solo da una mano senza tre falangi, che si era tagliato quando era ragazzo...». d L’unica speranza era che non fossero partiti. Mio fratello andò in aeroporto: «L’auto di mamma e papà è nel parcheggio, torno a casa» disse Sua madre era diventata il reperto C, 80 grammi di carne e un pezzo di stoffa. In quell’abisso trovarono brandelli di corpi. Integri solo alcuni bambini, un paio di neonati e una hostess. I quattro fratelli Lachina si erano ritrovati di colpo senza genitori. «Il 5 luglio li abbiamo seppelliti, il 6 siamo tornati al lavoro, per non pensare... In casa c’era tanta disperazione, c’era un silenzio assordante che ci divorava l’anima, come se la casa fosse piena di spettri. Era un dolore che non riuscivamo a gestire e il lavoro diventava indispensabile per distrarci, altrimenti saremmo finiti in manicomio. Avevamo perso i nostri punti di riferimento...». Le loro vite furono stravolte. «Interamente condizionate da Ustica, noi siamo i gli di Ustica... E lo sono anche i nostri gli, che neppure hanno conosciuto i nonni, ma hanno respirato l’aria pesante della strage n da quando sono nati. L’angoscia dei d Restammo tutta la notte seduti uno di fronte all’altra, c’era anche Linda, la nostra sorellina. Non ci siamo detti una sola parola d Noi siamo i gli di quel dramma... E lo sono anche i nostri gli: non hanno conosciuto i nonni, ma hanno respirato l’aria pesante della strage processi, delle sentenze, dei depistaggi, dell’infinito mistero che non ha mai portato a una condanna dei responsabili, ma solo a una parte di verità. La verità della presenza di 21 caccia italiani e stranieri vicino al Dc9, nei cieli del nostro mar Tirreno». Le parole di Francesco Cossiga rappresentarono per lei uno squarcio nel muro di silenzio. «Disse che l’aereo era stato abbattuto da un missile partito da un caccia francese. Disse che il pilota di quel caccia si è poi suicidato. Dichiarazioni di un presidente della Repubblica. Quali sono dunque i nomi dei colpevoli?». Quarant’anni sono passati. «Troppi, ma in cuor mio spero sempre che i custodi della verità, un giorno, parlino». Nei cieli di Montegrotto saranno liberati 81 palloncini, sulle note del saxofonista Flavio Bordin: «Nessun dorma».
Ustica, la verità è rimasta in fondo al mare. Il 27 giugno del 1980 la tragedia del DC-9 in cui morirono 81 persone. Una storia di depistaggi per coprire le responsabilità dei colpevoli, tra servizi segreti e neofascisti. Miguel Gotor il 25 giugno 2020 su L'Espresso. «Allora sentite questa... Guarda! Cos’è?». Secondo il registratore di bordo, il copilota del DC-9, mentre stava raccontando un’altra barzelletta al comandante, pronunciò quest’ultima frase, prima che una brusca e definitiva interruzione dell’alimentazione elettrica desse inizio alla cosiddetta strage di Ustica. Quell’aereo, infatti, si inabissò a 3500 metri di profondità con il suo carico di 81 vite innocenti, storie e desideri bruciati in un istante, all’apparenza senza un perché. Fino a pochi mesi fa la tecnologia era riuscita a recuperare di quel nastro soltanto un più enigmatico «Gua…» ma una nuova perizia fonetica, forte di strumenti più moderni e sensibili, ha permesso di completare la frase. La speranza è che il restauro di questo dettaglio possa contribuire a restituire la tragedia di Ustica alla sua dimensione storica, ponendo fine a decenni di depistaggi e conseguenti dietrologie. Per provarci conviene, come sempre, partire dalle ore immediatamente successive all’accaduto perché le impronte genetiche di un fatto consentono, solitamente, di ricostruire l’identità e la storia del funzionamento di un corpo. Un dato è assodato: la verità su Ustica ha cominciato a inabissarsi la sera stessa dell’incidente, forse quando ancora l’aereo non aveva fatto in tempo a spiaggiarsi nel fondo del Mediterraneo con il suo carico di morte. La prima impronta genetica concerne le modalità con cui si iniziò da subito ad accreditare l’ipotesi di una bomba accanto alle teorie di un cedimento strutturale dell’aereo o di una collisione in volo, persino - si scrisse nell’immediatezza - con una meteorite. Infatti, nel primo pomeriggio del 28 giugno arrivò alla redazione romana del Corriere della sera una telefonata dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), l’organizzazione neofascista guidata da Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, in cui si comunicava che a Ustica era morto anche il camerata Marco Affatigato, imbarcato «sotto falso nome e [che] doveva compiere un’azione a Palermo». Per identificarlo l’anonimo che chiamava aggiunse un particolare: portava al polso un orologio di marca Baume & Mercier. A onore del vero la telefonata si limitava a fornire un’informazione, ma non parlava affatto di una bomba. Tuttavia, l’indomani, il Corriere della sera, allora pesantemente infiltrato dalla P2, titolava a tutta pagina «l’unica ipotesi per ora è l’esplosione», evidenziando insinuante nell’occhiello «I Nar annunciano che a bordo c’era uno di loro (aveva una bomba?)» e prospettando nell’articolo l’idea che l’ordigno, portato con sé dal giovane neofascista o collocato in un suo bagaglio, fosse scoppiato per errore. In realtà, Affatigato era vivo e vegeto e, diversamente dal «Fu Mattia Pascal» di pirandelliana memoria, si affrettò - come era prevedibile - a smentire la notizia della sua morte. Lo fece per tranquillizzare la madre, ma intanto il meccanismo di disinformazione, funzionale a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica sui vertici militari italiani e su eventuali scenari alternativi, era partito e non si sarebbe più fermato. Nel corso degli anni Affatigato ha chiamato in causa più volte il colonnello Federico Mannucci Benincasa come autore di quella telefonata depistante, che avrebbe fatto su ordine del capo del Sismi Giuseppe Santovito, il quale nel 1981 sarebbe risultato iscritto alla P2. Mannucci Benincasa era giunto a Firenze come capo centro dei servizi militari nel 1971, su impulso del generale piduista Gianadelio Maletti, cui era molto legato, e vi sarebbe rimasto fino al 1991, a riprova di quanto la lunga stabilità del potere italiano non sia stata una prerogativa esclusiva della politica. Non sappiamo se Affatigato abbia colto nel segno, ma di certo il diretto superiore di Mannucci Benincasa ha testimoniato nel 1991 di essere rimasto sorpreso dall’insistenza con cui il capo centro di Firenze, nei giorni successivi alla strage di Ustica, cercasse di accreditare con lui la tesi della bomba che il Corriere della sera aveva collegato proprio a quella telefonata. In ogni caso, e a prescindere dalle responsabilità giudiziarie individuali, queste circostanze sono comunque assai importanti sul piano storico per due ragioni. Anzitutto perché i medesimi ambienti del Sismi si rimisero in azione soltanto trentacinque giorni dopo, in occasione dello scoppio della bomba di Bologna. Infatti, lo stesso Affatigato, all’indomani della strage del 2 agosto 1980, fu nuovamente tirato in ballo, questa volta con l’accusa di essere fra gli autori della strage e il suo identikit comparve insieme con quelli di Mambro e Fioravanti. Per sua fortuna riuscì a dimostrare che quel giorno si trovava a Nizza. Inoltre il piduista Licio Gelli, il vice capo del Sismi Pietro Musumeci e Francesco Pazienza (entrambi affiliati alla loggia segreta) e un altro alto ufficiale dei servizi militari Giuseppe Belmonte vennero condannati con sentenza definitiva per i depistaggi di copertura operati a Bologna, mentre il colonnello Mannucci Benincasa, giudicato colpevole in primo grado, sarà assolto nei due successivi livelli di giudizio. Il secondo motivo di interesse risiede nel fatto che il neofascista di Ordine nuovo Affatigato ha continuato ad ammettere, davanti all’autorità giudiziaria (ad esempio il 5 dicembre 1984, il 23 aprile 1992, il 15 luglio 2003 e il 17 marzo 2009), di essere stato, dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, un collaboratore retribuito sia dei servizi francesi, che lo avevano accolto e protetto oltralpe, sia di quelli statunitensi. Alla luce di queste ammissioni il primo depistaggio su Ustica, apparentemente illogico perché agevolmente smentibile dall’interessato (come di fatto era avvenuto), poté avere una ragione pratica assai più raffinata: ossia, avvisare l’intelligence francese e quella statunitense che i servizi italiani ben sapevano cosa era effettivamente avvenuto quella notte nel cielo di Ustica perché il nome di un loro uomo, dato per morto, ma in realtà vivo e vegeto e da essi protetto (in quel periodo Affatigato risiedeva in Francia), era lì a dimostrarlo. Anche il particolare, a prima vista incomprensibile, dell’orologio di marca va nella stessa direzione, in quanto i servizi militari furono informati di questo dettaglio, che corrispondeva al vero (Affatigato lo aveva comprato nel 1977) dall’esponente di Ordine nuovo Marcello Soffiati. Costui, coinvolto nella strage di Brescia nel 1974 e morto nel 1988, si era recato a Nizza a visitare Affatigato più volte nel corso del primo semestre del 1980. Anche i rapporti di Soffiati con la Cia sono provati così come le sue relazioni con la massoneria, tanto che lo stesso Affatigato, il quale lo aveva conosciuto in carcere a Firenze nel 1976, dichiarò di essere stato messo in contatto con la Cia proprio da lui. La seconda impronta genetica ci ricorda che ogni grande storia ha sempre il suo piccolo eroe solitario che combatte a mani nude contro i giganti cattivi. Come se fossimo in una favola di Esopo, costui risponde al nome di Rana (Saverio), un generale dell’aviazione, nel 1980 presidente del Registro aeronautico italiano. Il giorno dopo la strage egli si recò da Formica (Rino), socialista e suo diretto superiore in quanto ministro dei Trasporti, per trasmettergli la sua convinzione che a Ustica l’aereo fosse caduto a causa di un missile. Questo e non altro dicevano i tracciati radar di Ciampino da lui custoditi e la sua lunga esperienza. Formica, che aveva grande fiducia in Rana perché era stato il pilota personale del leader socialista Pietro Nenni, ai primi di luglio, nell’anticamera della Commissione del Senato, portò la notizia all’orecchio del ministro della Difesa Lelio Lagorio, suo compagno di partito, il quale però preferì far finta di non sentire. Il 6 luglio 1989, ascoltato dalla Commissione stragi, Lagorio avrebbe confermato l’episodio aggiungendo però che gli era parsa «una di quelle improvvise folgorazioni immaginifiche e fantastiche per cui il mio caro amico Formica è famoso». Sarà, ma in questa storia Formica e Rana hanno avuto l’indiscusso merito di tenere aperto uno spiraglio verso la verità, ossia la realtà del missile quando tutti i muri di gomma nazionali ed esteri invitavano l’Italia a ribadire la favoletta del cedimento strutturale o della bomba. Ma non è finita qui. Rana, che doveva essere un uomo di una qualche determinazione e con solidi rapporti di lealtà con gli Stati Uniti, come tanti alti ufficiali italiani al tempo della Guerra fredda, fece una mossa a sorpresa: non rassegnandosi di essere rimasto inascoltato (erano morti ben 81 suoi connazionali), si recò presso l’ambasciata italiana di Washington e chiese all’addetto militare di essere accompagnato alla Federal Aviation Administration che si occupava dei disastri aerei per consegnare una copia del nastro radar di Ciampino affinché fosse esaminato. La Faa affidò il compito al National Trasportation Safety Board che incaricò il migliore dei loro tecnici, il perito John Macidull (lo stesso che nel 1986 indagherà sul disastro dello Schuttle Challanger), il quale accertò che vicino al DC-9 civile risultava esserci stato un aereo militare in posizione di attacco. Rana, che sarebbe morto per infarto nel 1988, fu a lungo vessato e isolato dai suoi pari grado dell’aeronautica che lo accusavano di avere consegnato agli Stati Uniti una copia del nastro di Ciampino senza averne il diritto. Tuttavia, per una volta (e forse non solo quella), la “doppia lealtà” - italiana e atlantica - di un alto ufficiale giocò a favore degli interessi nazionali e dell’onore del Belpaese. Infatti, nello stesso periodo, quei generali dell’aviazione italiana ostili a Rana, nel frattempo finiti sotto inchiesta per la strage di Ustica con l’infamante accusa di alto tradimento, da cui saranno poi tutti assolti, giocavano a fare le tre scimmiette: «non vedo, non sento e non parlo». Un’ultima impronta, lasciata nell’imminenza della tragedia, rivela che la mattina del 28 giugno 1980, il capo del Sismi Santovito, spedì un fonogramma, che classificò «urgente», al conte Alexandre de Marenches, capo dello Sdece, il controspionaggio francese, in cui chiedeva - proprio ai cugini transalpini - informazioni e spiegazioni su quanto poteva essere accaduto la sera prima nel cielo di Ustica. A quanto risulta, dalle autorità francesi non si ottenne lo straccio di una risposta scritta che, a distanza di quarant’anni, l’opinione pubblica italiana attende ancora.
Strage di Ustica, la linea del tempo: processi, indagini, inchieste. Alessandro Fulloni il 25 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. Sono passati quaranta anni da quando l’esplosione del Dc-9 della Itavia nei cieli di Ustica causò la strage in cui morirono 81 persone . Le tappe della vicenda, con processi, inchieste, indagini e rivelazioni. Alle 20.59.45 del 27 giugno 1980, le tracce del Dc-9 Itavia — partito da Bologna e diretto a Palermo — spariscono dai radar. All’indomani i rottami del velivolo verranno trovati in mare, in prossimità di Ustica. Con il volo si sono inabissate 81 persone, di cui dodici minorenni. Da allora sono passati quattro decenni: quasi mezzo secolo di attesa e la strage di Ustica resta un mistero. Per usare le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quanto accaduto quella terribile notte «ancora pretende una conclusiva, univoca ricostruzione». «Grandi le sofferenze che hanno dovuto sopportare i familiari delle vittime», ha ricordato Mattarella nel 2018, «ma la loro tenacia e la loro incessante ricerca della verità hanno sollecitato passi significativi per ricostruire le circostanze e le responsabilità» . In questa linea del tempo, si trova una ricostruzione delle tappe più significative delle indagini, delle inchieste giudiziarie, dei processi, ma anche delle battaglie condotte dai familiari delle vittime e dalla società civile per ricordare Ustica e pretendere giustizia.
Strage di Ustica, dopo 40 anni di misteri Conte tolga il segreto di Stato per sapere la verità. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Giugno 2020. La tragedia di Ustica sta per compiere quaranta anni: era il 27 giugno del 1980 quando il Dc-9 I-Tigi in volo da Bologna a Palermo si inabissò nelle acque vicine all’isola di Ustica causando la morte di tutti i passeggeri e dell’equipaggio. Su questa tragedia si sono innestate poi molte versioni e teorie complottistiche e terroristiche, che non hanno mai permesso di raggiungere una verità certificata. Io in questa vicenda ho avuto un ruolo che cominciò quando fui convocato a piazza Cavour nel palazzo in cui aveva il suo ufficio il giudice istruttore Rosario Priore. Che cosa voleva da me il magistrato che indagava sul disastro di quell’aereo? Non fu facile capirlo, perché Priore insisteva nel farmi domande piuttosto generiche. Finché venne fuori il punto. Come forse i lettori meno giovani ricordano, dal 1990 alla sua morte, io fui molto amico del presidente della Repubblica Francesco Cossiga che affidò prevalentemente a me le sue «esternazioni». Scrissi un libro, al termine del suo settennato – Cossiga Uomo solo, Mondadori – in cui in una mezza pagina riferivo di una opinione di Cossiga su Ustica in cui diceva che nessuno gli aveva raccontato tutta intera la verità e che era molto irritato per questo. Il giudice che mi aveva convocato voleva sapere se io avessi avuto dal presidente della Repubblica ulteriori notizie sulla sciagura e se per caso non avessi la sensazione che Cossiga conoscesse la verità e me l’avesse confidata. La cosa mi fece, lo confesso, trasalire: un magistrato voleva sapere da un giornalista se per caso si fosse tenuto per sé qualche oscuro segreto su una strage, a lui amichevolmente confidato da un Capo dello Stato che, se fosse stata vera l’ipotesi si sarebbe macchiato di una dozzina di reati dall’alto tradimento in giù. Rassicurai il giudice promettendo che se per caso un qualsiasi Presidente della Repubblica mi avesse confidato chi aveva fatto precipitare l’aereo di Ustica, glielo avrei fatto sapere. Poi, visto che sulla tragedia di quell’aereo si era formata una grande fabbricazione del genere cospirativo anti-americano molto comune a quei tempi, decisi di indagare a mia volta e il risultato del mio lavoro fu un libro, ormai introvabile: Ustica, verità svelata, editore Bietti del 1999. Due erano le testimonianze che avevo non soltanto rintracciato, ma che avevo visto messe a tacere. La prima fu quella del tenente colonnello Guglielmo Lippolis, comandante del Soccorso aereo del centro di difesa di Martina franca che il giorno della sciagura fu il primo ad ispezionare il braccio di mare in cui si era inabissato l’aereo. Lippolis mi disse: «Quando arrivai, c’erano ancora cadaveri galleggianti legati alle poltrone con le bruciature dell’esplosione che in qualche caso avevano fuso la plastica dei sedili con la pelle dei passeggeri. Conoscevo bene quel genere di ustioni perché mi ero appena occupato di una barca su cui era esploso un carico di fuochi artificiali. Si leggevano ancora i numeri delle poltrone ed ho potuto constatare che l’intensità delle bruciature era maggiore per coloro che sedevano vicino al luogo in cui è avvenuto lo scoppio all’interno all’aereo». Lippolis fu chiamato a testimoniare ma nessuno voleva sapere della sua ispezione sul luogo del disastro: «Tentai di dire quel che avevo visto, ma mi ordinarono di rispondere soltanto alle domande che mi facevano ed erano domande burocratiche di nessun valore: mi impedirono di dire quel che avevo potuto vedere sulle ustioni da bomba e non hanno voluto sapere quel che aveva visto l’unico testimone oculare». Non fu l’unico. La seconda testimonianza che mi sembrò e tuttora mi sembra di altissimo valore probatorio e che fu rifiutata dal tribunale, fu quella del fisico inglese Frank Taylor, il maggior esperto del mondo in attentati su aerei, ai tempi della sciagura. Taylor è colui che risolse la questione dell’aereo esploso nel cielo di Lockerbie, in Scozia nel dicembre del 1988 e che causò non solo la morte dei passeggeri e dell’equipaggio, ma anche di una dozzina di persone colpite dai detriti dell’aereo. Grazie a lui i giudici inglesi furono in grado di costringere il governo libico di Gheddafi a riconoscere la propria responsabilità per quell’attentato eseguito con una bomba a bordo e a pagare i risarcimenti ai familiari delle vittime. In quel caso Gheddafi riconobbe la responsabilità, ma affermò che l’attentato era avvenuto per iniziativa di un suo ufficiale, che fu arrestato e fatto sparire nelle galere libiche. Quando Taylor andò a testimoniare davanti alla Corte sul disastro di Ustica, fu ricusato con una serie di escamotage giudiziari e la sua testimonianza, come quella di Lippolis, non trovò cittadinanza nel processo. Ma Taylor chiese e ottenne l’aula magna del Cnr in Piazzale Aldo Moro a Roma dove fece una dettagliatissima conferenza sulla sua inchiesta sul caso Ustica – nel frattempo l’aereo era stato recuperato a pezzi – e io lo andai ad ascoltare. Con mia grande sorpresa, nell’aula c‘erano soltanto alcuni giornalisti di riviste d’aeronautica ma non uno solo dei grandi divi della cronaca che sostenevano la tesi del missile e della battaglia aerea. Taylor parlò con l’aiuto di proiezioni e slides per quattro ore. Fu un’analisi, fibra per fibra, pezzo per pezzo dei reperti dell’aereo e dimostrò al di là di ogni ragionevole dubbio come la sciagura fosse stata causata da un ordigno sistemato nella toilette del Dc-9, un vecchio modello in cui i sanitari erano a metà carlinga e non agli estremi. A me parve lampante la congiura del silenzio che impediva di raccogliere dati che non collimassero con la tesi della battaglia aerea e del missile. I quattro pubblici ministeri dell’epoca nella loro requisitoria, sia pure con riluttanza, dovettero ammettere che la tesi della bomba a bordo era quella con maggiori elementi di prova, anche se la sentenza finale – dopo aver scartato la tesi del missile – non fu in grado di esprimere una preferenza fra le ipotesi. Però, indagando, scoprii una cosa che ignoravo: quando un aereo era colpito da un missile nel 1980, il missile non forava la carlinga per esplodere al suo interno, ma esplodeva prima di ogni contatto, davanti all’aereo che veniva investito non dal corpo del missile, ma da una miriade di schegge che lo polverizzavano. L’aereo di Ustica è malconcio, ma non polverizzato: è fratturato nei diversi pezzi che caddero in mare. Secondo la teoria cospirativa, che non è stata accolta dalla sentenza penale, l’aereo civile della compagnia I-Tigi fu colpito per errore da un aereo da caccia americano che aveva tentato di abbattere un altro aereo, un Mig di fabbricazione sovietica in cui viaggiava il dittatore libico Muhammar Gheddafi. Secondo la tesi della grande cospirazione, il Mig di Gheddafi si era nascosto sotto la pancia del volo civile per sfuggire ai missili, che infatti avrebbero colpito il Dc-9 abbattendolo. Secondo i fautori di questa versione si svolse una vera battaglia aerea nello spazio di volo del Dc9, le cui tracce erano registrate sulle apparecchiature dell’Aeronautica militare italiana e che però, con un ignobile serie di manipolazioni e coperture cancellò ogni prova. Furono per questa ragione incriminati i vertici dell’Aeronautica, accusati di essere complici di chi aveva causato la strage e civilmente responsabili nei confronti delle vittime. A questo punto, trovandoci in Italia che è un Paese diverso dagli altri sul piano giuridico, è accaduta una cosa che avrebbe lasciato esterrefatta l’opinione pubblica e il Parlamento di qualsiasi altro Paese in cui fosse accaduta, ma che in Italia invece si è realizzata nell’indifferenza generale. E cioè, le procedure si sono sdoppiate: quella penale è arrivata alla conclusione che non esistono prove sufficienti per sostenere che l’aereo sia stato abbattuto da una bomba interna, benché essa resti l’ipotesi più probabile, così come la sentenza della Corte d’Assise esclude sia la collisione in volo che la “quasi collisione” (tesi assurda ma molto gettonata come alternativa al missile, dichiarato dai giudici inesistente) con un altro aereo. La sentenza conclude arrendendosi: non è possibile «poter privilegiare in termini di apprezzabile probabilità alcuna delle ipotesi sull’accertamento delle cause del disastro, rispetto ad altre». E poi però c’è la causa civile per il risarcimento dei danni, che è andata avanti per conto proprio e si è conclusa con una condanna ai responsabili dell’aeronautica militare a pagare di tasca propria, come se fosse stata accertata una loro responsabilità in sede penale, che invece è stata esclusa dalla corte d’Assiste, visto che ha rigettato la tesi del missile. Il 15 giugno scorso è stata infine diffusa una notizia dalla Rai che rilancerebbe la teoria del missile. Secondo il giornalista Pino Finocchiaro una “ripulitura” della registrazione delle ultime parole del pilota contenute nella scatola nera dell’aereo recuperata in mare, avrebbe rivelato questi fonemi: «Guarda cos’è». RaiNews24 ha annunciato che questo nuovo elemento sarà mandato in onda nell’anniversario della sciagura, dunque il 27 prossimo. Il documento è stato già acquisito dalla Digos nella sede della società Emery Video, disposizione dei pm Erminio Amelio e Marina Monteleone, titolari dell’inchiesta su Ustica, tuttora aperta. Già in passato la registrazione della scatola nera era stata analizzata e sottoposta a tutti gli accertamenti tecnologici per capire se e che cosa dicessero i piloti e si sapeva che l’unico fonema accertato era «Gua», senza altro. La registrazione era avvenuta in analogico, cioè registrata su nastro col vecchio sistema delle cassette. Poi, il frammento è stato riportato in digitale e gli esperti si sono molto sorpresi per il fatto che il supporto digitale, oggi, abbia rivelato qualcosa che prima era contenuto ma non era udibile sull’analogico. L’inattesa scoperta ha spinto la Presidente dell’Associazione per la Verità su Ustica, Giuliana Cavazza De Faveri che perse la madre nel disastro, a chiedere al Presidente del Consiglio di rimuovere il Segreto di Stato sui documenti messi a disposizione dai servizi dell’Aisi alla Commissione Moro, in cui sono tuttora segretati i documenti del carteggio fra la nostra ambasciata a Beirut e il governo a Roma dal 7 Novembre 1979 fino al 27 giugno del 1980, in cui si discutono le minacce e le conseguenze del sequestro di missili terra-aria appartenenti ad un gruppo palestinese in Italia, probabilmente il Fplp di Georges Abbash. Questi documenti tuttora coperti dal Segreto di Stato, conterrebbero il movente per un attentato dinamitardo sul Dc-9 di Ustica. Si è tuttora in attesa della risposta di Palazzo Chigi alla richiesta. Sono passati quaranta anni e ancora non si è conclusa una tragedia che continua a irradiare dolore, ingiustizia e colpi di scena. Mi unisco, anche nella mia qualità di ex Presidente di una Commissione bicamerale d’inchiesta, alla richiesta della Presidente delle vittime di Ustica al capo del governo: vogliamo che siano desecretati documenti che per nessun motivo possono restare occultati per sapere se e che cosa i nostri servizi, attraverso il famoso colonnello Giovannone citato anche da Aldo Moro nelle sue lettere dalla prigionia, sapevano sulle intenzioni di rappresaglia minacciate dai palestinesi del Fplp per il sequestro di missili e gli arresti di militanti, che precedettero – dopo aperte minacce e ultimatum –la strage di Ustica e poi quella di Bologna. Mister president, apra per favore quelle maledette casseforti. Grazie.
Strage di Ustica, 40 anni dopo, cosa sappiamo: 81 morti, nessun colpevole, il missile e il Mig. Il giudice Rosario Priore ha scartato ogni ipotesi diversa dalla «battaglia aerea» di cui il DC9 fu bersaglio involontario ma non ha individuato colpevoli. I depistaggi e il risarcimento ali familiari. Claudio Del Frate il 20 dicembre 2017.
Un mistero lungo 40 anni. Tra i misteri irrisolti che feriscono la storia recente dell’Italia, quello di Ustica è ancora oggi uno dei più dolorosi. A distanza di 40 anni da quando il DC9 dell’Itavia precipitò in mare provocando la morte di 81 persone non c’è nessuno condannato come responsabile della strage. E ancora non c’è una spiegazione unanime su come il velivolo cadde improvvisamente in mare; l’ipotesi prevalente è che il DC9 sia stato colpito per errore da un missile durante un duello nei cieli tra aerei militari. A questa conclusione è giunto ad esempio il giudice Rosario Priore. Processi sono stati avviati anche a carico di chi tentò di depistare le indagini ma non si sono individuati colpevoli. I familiari di 49 vittime hanno visto riconosciuto il loro diritto a un risarcimento da parte dei ministeri della Difesa e dei Trasporti in sede civile. I resti del DC9, ripescati nel Tirreno a oltre 3.000 metri di profondità sono stati ricomposti in un «museo della memoria» a Bologna e dedicato alla strage.
27 giugno 1980, ore 20.59: il disastro. Il volo dell’Itavia diretto a Palermo, identificato con la sigla IH870, decolla la sera del 27 giugno 1980 alle 20.08; ha un ritardo di circa un’ora e mezza e a bordo ci sono 81 persone tra passeggeri ed equipaggio. Il volo procede secondo la rotta prestabilita finché alle 20.59 la torre di controllo di Ciampino tenta inutilmente di mettersi in contatto con il comandante Domenico Gatti. Trascorrono i minuti, l’aereo non ricompare sui radar e si levano in volo i ricognitori. la certezza del disastro arriva la mattina successiva quando rottami, alcuni cadaveri e una grande chiazza di carburante vengono individuati nel tratto di mare tra le isole di Ponza e Ustica. la caduta in mare non è stata preceduta da alcun Sos, nell’ultima conversazione captata il comandante e il secondo pilota sono tranquilli, conversano, si raccontano una barzelletta.
La prima ipotesi: il cedimento strutturale. La prima ipotesi formulata per spiegare la strage è il cosiddetto «cedimento strutturale» del DC9: Itavia, il vettore che operava il volo, era in gravi difficoltà finanziarie non sarebbe stata in grado di effettuare la dovuta manutenzione e questo avrebbe provocato il «crash» in volo dell’aereo. A conforto della tesi iniziale ci sono le autopsia su alcuni dei corpi recuperati: nessuno di loro è morto per annegamento, molte riportano gravi traumi dovuti a urti contro la parte interna della carlinga. I decessi sono insomma avvenuti in aria o al più tardi al momento dell’impatto con la superficie del mare. Per la compagnia Itavia si tratta del colpo di grazia: a dicembre del 1980 le viene revocata la licenza di volo, la società cessa di operare e finisce in amministrazione controllata.
Seconda ipotesi: la bomba a bordo. Passano però due anni e il cedimento strutturale viene smentito dai primi risultati delle indagini. Su alcuni rottami dell’aereo, in particolare sullo schienale di un sedile vengono rilevate tracce di esplosivo: prima il T4, poi il TNT. Sono gli stessi usati in altri attentati di tipo terroristico. Si ipotizza che l’ordigno possa essere stato collocato nella toilette del DC9 ed è questa l’ipotesi sostenuta in un primo momento da Francesco Cossiga che era capo del governo quando l’aereo cadde in mare.
Terza ipotesi: la battaglia aerea e il missile. Alcuni particolari indeboliscono notevolmente la tesi della bomba a bordo. Prima di tutto il ritardo nell’ora del decollo rendeva difficile programmare l’attentato con una bomba a tempo. In secondo luogo quasi tutti gli oblò della fusoliera sono stati ripescati intatti, fatto a prima vista incompatibile con un’esplosione dall’interno del velivolo. Ma soprattutto cominciano a emergere testimonianze ed elementi che fanno pensare che quella sera nella parte sud del Tirreno fosse in corso una intensa «attività aerea» militare. Davanti alla commissione stragi l’allora ministro dei trasporti Rino Formica è il primo a ipotizzare che il DC9 si sia trovato al centro di una battaglia aerea e che sia stato centrato per errore da un missile. Da allora anche l’inchiesta della magistratura imbocca con decisione questa pista, sempre contrastata dai vertici dell’Aeronautica militare italiana.
Il giallo del Mig libico sulla Sila. Direttamente in relazione con la tesi del missile viene messo il ritrovamento di un Mig libico abbattuto sulle pendici della Sila, in Calabria. Ufficialmente la caduta del jet militare, che ha a bordo il cadavere del pilota ancora ai comandi, viene datata al 18 luglio 1980; ma alcuni militari rivelano di essere stati posti a guardia del luogo negli ultimi giorni di giugno, proprio in coincidenza con il disastro di Ustica. Il Mig, che ha nella carlinga i fori di alcuni proiettili, sparati forse da un cannoncino, è dunque stato abbattuto assieme al DC9? Emerge che in quegli anni aerei libici erano soliti sfruttare la scia di voli civili per sfuggire ai controlli dei radar Nato.
Il giudice Priore: «E’ stato un missile, ma nessun colpevole». L’inchiesta prima e i processi poi procedono tra mille reticenze. Agli inquirenti vengono negate molte informazioni da parte delle autorità militari, italiane , francesi e americane. Diverse registrazioni radar spariscono misteriosamente. «l’inchiesta - scriverà il giudice Rosario Priore nell’atto di conclusione delle indagini - è stata ostacolata da reticenze e false testimonianze sia nell’ambito dell’Aeronautica militare italiana che della Nato». Il giudice è costretto alla resa il 31 agosto 1999 dichiarando il «non luogo a procedere» in quanto gli autori della strage sono rimasti ignoti. L’atto del dottor Priore scarta comunque le ipotesi del cedimento strutturale e della bomba a bordo, ritenendo che il DC9 sia stato centrato da un missile in quello che viene definito un vero a proprio «atto di guerra». Anche il processo parallelo per presunti depistaggi si conclude con assoluzioni o prescrizioni degli imputati. Nel 2011, 2013 e 2017 una serie di sentenze dei tribunali civili ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire i familiari delle vittime: non avrebbero agito correttamente per prevenire il disastro.
L’ultima sentenza: risarcita Itavia. Nel 2011, 2013 e 2017 una serie di sentenze dei tribunali civili ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire i familiari delle vittime: non avrebbero agito correttamente per prevenire il disastro e non avrebbero garantito la sicurezza del traffico aereo. L’ultima sentenza è addirittura del 22 aprile 2020. In questa data la Corte d’Appello di Roma ha condannato i ministeri delle infrastrutture de della difesa a risarcire 330 milioni di euro agli eredi di Aldo Davanzati, fondatore ed ex proprietario della compagnia aerea Itavia. Il 10 dicembre del 1980 al vettore fu imposto di sospendere l’attività di volo proprio in conseguenza del disastro di Ustica. Da quel giorno la società Itavia è in amministrazione controllata e non ha mai più potuto riprendere la sua attività di trasporto aereo.
Da corriere.it il 23 aprile 2020. I ministeri deli Trasporti e delle Infrastrutture e della Difesa non devono solo risarcire la compagnia Itavia per il dissesto finanziario al quale andò incontro dopo il disastro aereo di Ustica (lo stop della flotta e la revoca delle concessioni), ma devono anche aggiungere un indennizzo per il danno subito dalla società. La Corte d’Appello di Roma ha condannato così i due ministeri a versare un totale di 330 milioni di euro (265 milioni erano già stabiliti dalla Corte con sentenza definitiva nel 2018) agli eredi del titolare della compagnia, che è in amministrazione controllata dai tempi della strage dei passeggeri del DC 9 precipitato il 27 giugno 1980. Si chiude così una vicenda giudiziaria che dura da 40 anni, da quando cioè il 10 dicembre 1980 fu imposta a Itavia, compagnia aerea fondata da Aldo Davanzali, di sospendere le attività di volo. Nei mesi successivi, le Autorità aeronautiche dichiararono decaduti i diritti di linea della società. L’ipotesi dell’inchiesta era che a far precipitare l’aereo fosse stato un cedimento strutturale. Dopo anni di insabbiamenti e di notizie contrastanti, la verità processuale: l’aereo fu abbattuto da un missile. Il danno subito dalla caduta dell’aeromobile (i cieli italiani non erano sicuri in quei giorni e la colpa ricade sul ministero della Difesa) e quello legato allo stop dell’attività e al danno di immagine, hanno portato alla sentenza pubblicata il 22 aprile. Ora la società, che era in passivo, tornerà in attivo e in mano alla proprietà, che in maggioranza è della famiglia Davanzali (48% delle azioni). Non certo nel momento migliore, tra Coronavirus e un bilancio dello Stato gravato dall’emergenza.
Servizi segreti e sospetti, la Repubblica dei gialli infiniti. Pubblicato lunedì, 21 ottobre 2019 su Corriere.it da Antonio Polito. La nostra democrazia è nata «a sovranità limitata». E spesso si cerca una ricostruzione «occultista» della storia che deresponsabilizza i vincenti e giustifica gli sconfitti. La sottile linea d’ombra che separa i «Servizi» dai «servizietti» è da sempre un cruccio delle democrazie. Avvolti per dovere d’ufficio dal segreto, è difficile discernere quando agiscano nell’interesse nazionale e quando nell’interesse del governo del momento, o peggio ancora di un governo alleato del momento. Perché i due interessi non necessariamente coincidono. Soprattutto nell’Italia post-ideologica dei nostri tempi, in cui le maggioranze si ribaltano dalla sera alla mattina, e un povero premier come Conte può essere colto dalla richiesta di aiuto da parte di Trump mentre è a metà del guado tra Salvini e Renzi. E così, oltre all’interesse nazionale, può smarrire anche quello politico. Il mistero del caso Conte, il presidente del Consiglio italiano che autorizza il Procuratore generale degli Stati Uniti a fare riunioni con i nostri 007, va dunque ad aggiungersi, seppure in tono (molto) minore, alla lunga trama di misteri di cui è inestricabilmente intessuta la storia della Repubblica. Rilanciando di conseguenza le teorie cospirative più fantasiose, come quella secondo cui l’espulsione di Salvini dal governo sarebbe addirittura paragonabile a quella di Togliatti nel ’47, che De Gasperi fece fuori dopo un lungo viaggio negli Usa. Versione che sorvola sul piccolo dettaglio che è stato lo stesso Salvini a far cadere il governo di cui era parte, favorendo così il complotto di cui si dice vittima. Perché il mistero ha questo di bello: consente una ricostruzione «occultista» della storia patria (una volta, nella ricerca della prigione di Aldo Moro, comparve perfino una seduta spiritica), che giustifica gli sconfitti e deresponsabilizza i vincenti. È infatti ormai storiografia accettata l’idea che la nostra sia nata come una democrazia «a sovranità limitata», dunque «protetta», perché destinata a un Paese trattato nella spartizione del dopoguerra come un semi-protettorato americano. Sono interpretazioni esagerate, che svalutano l’agire politico di grandi masse di uomini e donne sulla scena della storia, per privilegiare il retroscena del potere. Ma è pur vero che fin dall’atto di nascita della Repubblica il mistero la avvolge. I risultati del referendum istituzionale si fecero aspettare così tanto, e sembrarono a lungo così incerti, che i monarchici attribuirono a sicuri brogli la loro sconfitta. E si deve solo al senso di responsabilità di Umberto II, il «re di maggio», (e a chi lo consigliò) se fece le valige e andò in esilio, senza cercare lo scontro. Servizi e militari, che poi spesso coincidono, sono stati protagonisti anche del lungo braccio di ferro tra la democrazia «dissociativa», che voleva tener fuori la sinistra dell’area della legittimità a governare, e quella «consociativa», che invece puntava ad assorbirla. Quando nel ’64 entrò in crisi il primo governo di centrosinistra con i socialisti, e mentre Aldo Moro trattava con Nenni un nuovo programma più radicale di riforme, fu il generale dei Carabinieri de Lorenzo a far sentire al leader socialista quello che lui chiamò «un tintinnio di sciabole», avvisaglie di un potenziale colpo di stato che avrebbe avuto addirittura al Quirinale, nella figura del Presidente Antonio Segni, il suo lord protettore. Fu sulla base dei dossier del Sifar, il servizio segreto militare, che venne compilata la lista delle centinaia di persone da deportare, se fosse scattato il «Piano Solo», a Capo Marrargiu, una base in Sardegna. Mistero su mistero, il giorno dopo la soluzione della crisi, in un tempestoso colloquio sul Colle tra Moro, Saragat e Segni, quest’ultimo venne colpito dall’ictus che l’avrebbe presto indotto ad opportune dimissioni. Il mistero, ahinoi, avvolge ancora molti degli esecutori materiali, ma non più dei moventi, di quella che il giornale inglese The Observer chiamò la «strategia della tensione»: un’incredibile scia di bombe e stragi che condizionò la nostra democrazia negli anni ’70, fino a lasciare poi il testimone al terrorismo rosso e alla sua ferocia. L’obiettivo era quello della «stabilizzazione» della situazione politica. Giovanni Bianconi ha di recente raccontato su La Lettura che, quattro mesi dopo la bomba di piazza Fontana (a dicembre di quest’anno ricorrono i cinquant’anni), un documento dell’amministrazione americana, allora guidata da Nixon, istruiva i servizi segreti su che cosa fare per evitare il «pericolo dell’insorgenza comunista» in Europa occidentale. Il «manuale» suggeriva azioni di destabilizzazione, «violente o non violente», utili a «stabilizzare» i governi. Notate la sottigliezza: l’obiettivo non era il golpe, ma diffondere la paura del golpe, per sconsigliare gli italiani dal tentare nuove avventure politiche. Poiché il mistero è ambivalente, lo si può usare anche rimuovendolo: come fece Andreotti quando nel ’90 rivelò l’esistenza di Gladio, una organizzazione paramilitare promossa dalla Cia, pronta ad agire in caso di invasione comunista dell’Italia. A rileggere oggi la sequenza degli attentati di quegli anni viene da chiedersi come abbia fatto la democrazia italiana a reggere. Nel solo 1974 ci furono due delle peggiori stragi terroristiche della nostra storia, quella di Piazza della Loggia a Brescia (8 morti) e quella sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro (12 morti). Da allora la «strategia» mutò. Il Pci aveva infatti continuato a crescere, ottenendo la vittoria nel referendum sul divorzio, proprio nel 1974, e poi con lo sfondamento elettorale del biennio ’75-76. Sarà un caso, ma da quel momento al posto delle bombe partì l’attacco delle Brigate Rosse, profeticamente annunciato dal generale Miceli, capo del Sid (Servizio informazioni della difesa) al giudice che lo inquisiva; un ben più sofisticato effetto avrebbe avuto sulle sorti della democrazia consociativa, chiudendone di fatto la storia con l’omicidio di Aldo Moro. Naturalmente l’89, la caduta della Cortina di ferro e la fine dell’Urss e del mondo di Yalta, hanno fatto dell’Italia un paese per nostra fortuna più «normale», non più frontiera tra i due blocchi, crocevia di spie. I nostri Servizi non sono più inquinati da trame eversive. Ma sul nostro territorio si continuano a combattere battaglie, seppure ormai svuotate di ogni motivazione ideologica o geopolitica, e più che altro figlie degeneri di lotte di potere interne alla politica contemporanea: quella tra Trump e il Congresso è una di queste. Il rischio che gli 007 finiscano per essere usati come cortigiani del potere, non è però meno grave per una democrazia che non voglia sentirsi più «protetta». L’abitudine alla «sovranità limitata» è dura da estirpare, soprattutto in certe stanze.
Volevano uccidere la democrazia: il libro dell'Espresso per non dimenticare. I morti sono diciassette, i feriti ottantotto. Ma l'attentato di Piazza Fontana mirava al cuore della Repubblica. Un disegno neofascista che le inchieste del nostro giornale raccontarono in presa diretta. Che fu confermato dalle sentenze. E che è fondamentale rileggere oggi. Con il volume “Gli anni delle stragi - 1969-1984”. Bruno Manfellotto il 5 dicembre 2019 su L'Espresso. Anniversari e commemorazioni rischiano talvolta di tradursi in stanchi rituali fatti di meste celebrazioni e presenze d’obbligo. Viceversa possono diventare occasione di riflessioni più attente, pretesto per rileggere vicende che alcuni vorrebbero semplificare, altri rimuovere, e che invece ancora pesano sul presente. Specie quando si tratta di eventi che hanno frenato progresso, modernizzazione, sviluppo democratico del Paese. Bene, noi abbiamo scelto questa seconda strada, certo più impegnativa ma più sincera, con un libro dell’“Espresso” che i lettori troveranno in edicola da sabato 7 dicembre: “Gli anni delle stragi - 1969-1984”. Il racconto di quindici drammatici anni di terrorismo nero. La data chiave, quando tutto comincia, è il 12 dicembre 1969, giorno in cui una bomba devasta la Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, uccidendo 17 persone e ferendone 88. La folla che qualche giorno dopo si raccoglie in piazza del Duomo per i solenni funerali delle vittime testimonia lo sbigottimento di una città dalle solide radici democratiche, ma anche la volontà di non farsi sopraffare dai professionisti del terrore. Il nostro lavoro, però, non si ferma qui, ripercorre infatti la lunga fase che da quel sangue prende il via e si dipana fino al 23 dicembre 1984, cioè fino al deragliamento del Rapido 904, la cosiddetta strage di Natale, l’attentato che chiude il tragico ciclo dello stragismo nero e apre il capitolo oscuro della guerra mafiosa a colpi di bombe. Spesso però alimentata, organizzata o partecipata dagli stessi neofascisti.
"Gli anni delle stragi - 1969-1984”. Sono gli anni in cui si fa strada nel Paese anche il terrorismo rosso che si affida a modalità di morte diverse - non sparare nel mucchio, “colpirne uno per educarne cento” - e che nel 1978 sarà protagonista di un’altra tragedia che segnerà per sempre la storia italiana: il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. I due fenomeni, in un certo senso speculari, trovano comoda giustificazione l’uno nell’altro e si affermano entrambi grazie all’incapacità della politica di arginarli o di tagliare le radici che li alimentano. Anzi, nel caso del terrorismo nero, del quale si occupa il nostro libro, sono addirittura pezzi dello Stato a coprire, ignorare se non spingere all’azione i colpevoli. Per ricostruire quelle vicende ci siamo affidati alle cronache e alle analisi delle grandi firme dell’“Espresso”, testimoni diretti dei fatti, ostinati nello smentire le facili verità ufficiali. Il volume è diviso in tre capitoli principali, illustrati con uno straordinario apparato fotografico: la rabbia e le bombe dei primi mesi del 1969, sorta di prova generale delle tragedie successive; l’ondata nera del neofascismo risorgente nelle piazze e nelle istituzioni; il racconto delle stragi - da piazza Fontana a Peteano, dalla Questura di Milano a piazza della Loggia, dall’Italicus alla Stazione di Bologna alla Strage di Natale - attraverso gli articoli di chi c’era e indagò, come Cederna, Scialoja, Catalano, Giustolisi, De Luca, e i commenti di Bobbio, Valiani, Villari, Bocca. Seguono il punto su com’è andato a finire il lungo e spesso inconcludente iter giudiziario; l’elenco delle vittime, crudo spoon river di quegli anni; una rassegna dei personaggi e interpreti; una cronologia completa; l’indice dei nomi. Ogni capitolo, inoltre, è introdotto da un saggio scritto per noi da tre storici che i lettori dell’“Espresso” conoscono bene. Guido Crainz ricostruisce nel dettaglio lo sfondo sul quale quegli avvenimenti si svolsero, «la stagione riformatrice più incisiva della storia della Repubblica» che la strategia della tensione provò a colpire e a fermare; Benedetta Tobagi indaga invece sul buco nero delle indagini e dei processi, su questi cinquant’anni senza verità pieni invece di sospetti, di indagati assolti, di colpevoli ignorati; Miguel Gotor si interroga invece sul ruolo svolto dai servizi segreti, sulle ambigue commistioni con la politica e sui depistaggi, chiedendosi provocatoriamente se si sia trattato non di deviazioni, ma di decisioni che nascevano dell’effettiva volontà di apparati dello Stato. A questo punto è legittima una domanda: perché tanti anni dopo parlare ancora di sangue, bombe, stragi, fatti lontani? Per più di una ragione. La prima è il dovere di coltivare la memoria: guai a quel Paese che sceglie di dimenticare per non giudicare. Poi c’è la necessità di riflettere ancora sul contesto storico in cui esplode l’orrore. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta l’Italia avvia un periodo importante di cambiamento e di crescita: conquista diritti, pretende riforme, chiede di contare di più. Operai e studenti prendono coscienza del loro ruolo e scendono in piazza, il sindacato si rafforza e si impone (perfino tra i poliziotti). È il sostrato che, una decina d’anni dopo l’ingresso dei socialisti nella “stanza dei bottoni”, porterà la sinistra a una inimmaginabile vittoria elettorale. È proprio contro questo insieme di fermenti e di movimenti, come argomenta molto bene Crainz, che si scatena il terrorismo nero. C’è poi una terza ragione. A cinquant’anni da piazza Fontana, non si conosce tutta la verità sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia. Nel libro ne troverete tutta la storia e scoprirete che, per paradosso, la verità che inquirenti e magistrati sono riusciti a ricostruire è ben più ampia di quella ufficiale delle sentenze. Se questo è stato possibile lo si deve anche alla tenacia investigativa di alcuni cronisti, in prima linea quelli dell’“Espresso” che da subito non si fidano delle fonti ufficiali. Una grande lezione di giornalismo. Resta un’ultima constatazione. Per quindici anni l’Italia è stata trasformata in un campo di battaglia da terroristi armati, spesso in combutta con apparati dello Stato. Eppure ce l’ha fatta, perché ha combattuto e vinto difendendo valori condivisi scritti nella Costituzione, e proprio grazie a questi imponendosi. Bisognerebbe ricordarsene ogni volta che qualcuno cerca di rimettere in discussione quelle fondamenta.
Da Ustica a Regeni: quegli 85 morti senza verità, scrive il 4 aprile 2019 Cristiano Puglisi su Il Giornale. “Quattro vicende, ottantacinque morti, nessuna verità”. Questa frase, che compare nella presentazione del libro “Segreti e intelligence. Ustica, Ilaria Alpi, Nicola Calipari, Giulio Regeni”, recentemente pubblicato per Mursia da Andrea Foffano, saggista ed esperto di servizi segreti, rende bene l’allucinante situazione di alcuni dei più clamorosi fatti della cronaca italiana dell’ultimo ventennio. Fatti che sono davvero rimasti, almeno per il grande pubblico, senza una spiegazione chiara. Il saggio di Foffano si occupa di provare a fornire delle risposte. “La verità – spiega l’autore - è merce rara e non solo in Italia. Purtroppo, in situazioni nelle quali determinati interessi economici e politici si intrecciano con specifici equilibri sociali nazionali, il raggiungimento della completa, amara e indigesta verità spesso non si trova annoverata tra quegli obiettivi primari, che vengono perseguiti con ogni mezzo e ad ogni costo. Dobbiamo però saper distinguere tra due tipi di verità: quella giudiziaria, il cui raggiungimento è esclusivo compito della magistratura; quella storica, in nome della quale gli analisti e i ricercatori di tutto il mondo lavorano e faticano ogni giorno”. Il libro di Foffano, chiaramente, si focalizza sul ruolo dell’intelligence, che spesso viene accostata alle azioni più turpi e ai segreti più scomodi. “Io credo – prosegue Foffano – che il ruolo dei servizi d’informazione e sicurezza nazionali e internazionali sia stato trasversale in tutte e quattro queste vicende. Ma attenzione: più che di responsabilità, io ribadisco che parlerei di ruolo. Il compito dell’intelligence è sempre stato quello di raccogliere e analizzare le informazioni, confezionando rapporti di previsione o ausilio per il decisore politico. Io credo che nel corso della storia nessun appartenente ad alcun servizio d’informazione e sicurezza si sia mai sognato di uccidere o far uccidere delle persone, specie di propria spontanea volontà. L’intelligence è da sempre un reparto al servizio del Governo nazionale e delle istituzioni democratiche. È quando queste ultime lo diventano un po’ meno, che nasce la possibilità che capitino tragedie come quella che ha coinvolto il povero Giulio Regeni”.
Regeni che, si è ipotizzato, potrebbe aver collaborato con servizi di intelligence stranieri. “Giulio Regeni – commenta al riguardo Foffano – era un giovane ricercatore dell’università di Cambridge. Io ritengo che il modo orrendo in cui è stato ucciso imponga all’Italia di non fermarsi nella continua ricerca della verità. Tutti noi lo dobbiamo alla sua famiglia e a tutti i nostri connazionali che attualmente vivono in Egitto. I rapporti tra i due Paesi hanno subito pesanti ripercussioni dopo l’episodio. Negli ultimi tempi si sta progressivamente andando verso una normalizzazione, ma spero vivamente che la morte di Giulio Regeni non finisca per perdere rilevanza o, peggio ancora, per essere dimenticata. Sarebbe una tragedia nella tragedia”.
Un caso simile è quello di Ilaria Alpi, della quale si disse che aveva trovato delle verità scomode, fatto che potrebbe averne generato l’uccisione. “È stata una delle ipotesi più accreditate nel corso degli anni – spiega Foffano – formulate da diversi tra giornalisti e studiosi. La Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Alpi-Hrovatin, però, ha smentito questa tesi, considerando l’episodio come conseguenza diretta di un atto banditesco. In ogni caso, ancora oggi dubbi e perplessità permangono insoluti nelle opinioni di molti esperti. Nel libro cerco di analizzare l’intera vicenda nella maniera più oggettiva e critica possibile, conducendo il lettore attraverso un intricato labirinto di misteri e mezze verità”.
Per quanto invece riguarda Calipari, commenta l’autore: “il sacrificio di un eroe dovrebbe essere sempre evitato, in tutti i modi possibili. Nicola Calipari è caduto nell’adempimento del dovere. Ha portato a termine la sua missione: ha portato in salvo l’ostaggio. Nel farlo ha perso la vita, in circostanze ancora oggi non completamente chiare, vista la conflittualità che si evince tra la versione italia e quella americana”.
Quello di Ustica, pur se si tratta di un fatto diverso, è un altro mistero irrisolto. Ma, in realtà, dice Foffano: “rispetto a quanto ho scritto nel libro, posso anticipare un dato importante: nella sentenza del Giudice Istruttore Rosario Priore si trovano molti elementi in grado di condurci a ipotizzare cosa accadde realmente quella notte. E’ un documento importantissimo di più di 5mila pagine contenente tabulati radar e perizie legali, da cui sono partito per il mio lavoro”. Un lavoro che si preannuncia come indubbiamente interessante.
Ora basta con le due opposte verità su Ustica. A quasi 39 anni dalla strage, la giustizia penale è certa che si trattò di una bomba, mentre quella civile crede al missile. Un saggio fa chiarezza. Panorama il 26 giugno 2019. Trentanove anni sono trascorsi dal 27 giugno 1980: e forse 39 anni dovrebbero bastare, per ottenere la verità, o almeno per ottenere una sola versione accreditata (e credibile) dei fatti. E invece, nel triste anniversario della strage di Ustica, con i suoi 81 poveri morti, continua l’oscena danza macabra di due opposte verità giudiziarie: ufficiali ma contrastanti. A descrivere la storia, con serietà e studio approfondito dei documenti, ora c’è anche un saggio: ''Ustica i fatti e le fake news" di Franco Bonazzi e Francesco Farinelli. Il saggio (Logisma editore, 368 pagine, 16 euro) conferma gli esiti della sentenza penale, definitiva e inoppugnabile, del 2006. Frutto di una lunga istruttoria, di un processo durato 272 udienze con oltre 4mila testimoni, e di 11 perizie affidate a tecnici di primissimo piano, quella sentenza della Cassazione stabilisce in modo certo che il 27 giugno 1980 il Dc9 dell’Itavia, precipitato nel Tirreno lungo la rotta Bologna-Palermo, non cadde per colpa di un missile ma per una bomba. Alla fine di un procedimento che aveva messo insieme quasi 2 milioni di pagine d’istruttoria, con quella decisione di 13 anni fa i supremi giudici hanno assolto dall’accusa di depistaggio i generali dell’Aeronautica militare italiana. Indifferente alle certezze della giustizia penale, esiste però un opposto labirinto di processi in sede civile che ha avvalorato la tesi del missile. Tra le ultime, compare una sentenza della Cassazione del giugno 2017 che ha condannato lo Stato a risarcire con altri 55 milioni di euro i familiari delle 81 vittime. I magistrati della Cassazione civile si sono convinti (a dire il vero con incertezze) che l’incidente del volo Itavia si verificò “a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente a esso, di un velivolo militare nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, e quale diretta conseguenza dell’ esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l'aereo nascosto, oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9”. Uno dei motivi di questa assurda giustizia bifronte va cercato negli effetti risarcitori delle due sentenze: se la causa riconosciuta della strage è la bomba, la responsabilità di non avere vigilato sulla sicurezza dell'aereo ricade sull'Itavia (fallita); se è un missile, invece, la responsabilità cade tutta sullo Stato italiano, che avrebbe dovuto prevenire ed evitare l'evento. E da tempo lo Stato si è fatto carico dei risarcimenti: nel 2004 i 141 familiari superstiti hanno ottenuto un vitalizio di 1.864 euro netti mensili rivalutabili, per un totale di altri 31 milioni al 31 dicembre 2014. Si stima che lo Stato spenda circa 4 milioni di euro l’anno in vitalizi. Ora il saggio di Bonazzi e Farinelli cerca di distinguere il vero dal falso, e vuol fare giustizia anche della mitizzazione di tante verità senza alcuna prova. È un saggio coraggioso, perché cerca di separare i fatti dalle false notizie attraverso una doviziosa analisi delle fonti e dei documenti maturati in ambito politico, in quello giudiziario e in quello tecnico-scientifico. Ma intanto all’assurdità della giustizia bifronte si è aggiunto un altro capitolo assurdo, se possibile ancora più grave e politicamente rilevante. Nella scorsa legislatura, i parlamentari della commissione d’inchiesta sul caso Moro avevano scoperto l’esistenza di documenti segreti dai quali emergerebbe con chiarezza la possibilità di un coinvolgimento diretto del terrorismo palestinese nella caduta dell’aereo. Secondo quei documenti, insomma, a far cadere il Dc9 sarebbe stata una bomba che il Fronte di liberazione della Palestina avrebbe piazzato sull’aereo come mostruosa ritorsione per l’arresto di alcuni suoi militanti in Italia. Perché non scavare in quella verità alternativa? L’ex senatore e ministro Carlo Giovanardi ha più volte chiesto al governo di togliere il vincolo del segreto di Stato da quelle carte, senza mai ottenere risposta. "È davvero assurdo e vergognoso che le nostre istituzioni continuino a parlare del dovere di ricercare la verità su Ustica " dice Giovanardi “quando il primo a nasconderla è proprio il governo italiano".
11 settembre 1968, storia della Ustica francese (ancora senza giustizia). Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Guido Olimpio su Corriere.it. L’Ustica francese. Con i silenzi, le tante verità e niente giustizia. L’11 settembre 1968 un Caravelle in servizio tra Ajaccio (Corsica) e Nizza precipita al largo di Antibes, Francia del Sud-Est. Novantacinque le vittime per un disastro probabilmente causato da un missile. Anche se questo non è il verdetto ufficiale. Come per il mistero del Dc 9 Itavia anche quello francese è stato segnato da ritardi e indagini non accurate. L’inchiesta dirà che il velivolo si è inabissato per un incendio a bordo scoppiato per cause che non è stato possibile accertare. Gli esperti escluderanno la collisione. Spiegazioni che non hanno mai convinto. Nel corso degli anni sono emersi elementi che hanno spinto a considerare uno scenario tragico. Il Caravelle potrebbe essere stato centrato proprio da un missile durante un’esercitazione aeronavale, a tirarlo una nave della Marina francese. Un errore devastante che porta via tanti innocenti. Spunteranno testimonianze, non sempre facili da verificare. Sulla presenza di una scia luminosa in coda all’aereo vista da un pescatore. Su nastri sequestrati. Su rapporti mancanti o svaniti, compreso uno sulla fregata Suffren, in navigazione nel settore dove è avvenuta la sciagura. Non mancheranno racconti sull’uso di un ordigno di nuova generazione che avrebbe colpito il Caravelle. Vi saranno presunte «confessioni» di persone che sapevano o sono venuta a conoscenza di elementi inquietanti che portano in una sola direzione: quella del missile. Tutto circondato da smentite e resistenze. Per questo, un anno fa, il giudice Alain Chemama ha chiesto a Parigi che sia tolto il segreto di stato in quanto vi sarebbero documenti, carte e dati raccolti all’epoca e mai resi pubblici.
Ustica e l’ipocrita giustizia bifronte. A 38 anni dalla strage, per la Cassazione penale ad abbattere il Dc9 fu una bomba, per la Cassazione civile un missile. In mezzo, risarcimenti milionari, scrive Maurizio Tortorella il 26 giugno 2018 su "Panorama". Trentotto anni dovrebbero bastare, per ottenere la verità, o almeno per ottenere una sola versione accreditata (e credibile) dei fatti. E invece, nel triste anniversario del 27 giugno 1980, gli 81 poveri morti della strage di Ustica continuano a ballare un’oscena danza macabra tra due verità giudiziarie, entrambe ufficiali ma opposte. Da una parte, infatti, esiste una sentenza penale definitiva, che risale al 2006: frutto di una lunga istruttoria, di un processo durato 272 udienze con oltre 4mila testimoni, e di 11 perizie affidate a tecnici di grande valore, quella pronuncia della Cassazione ha stabilito che il 27 giugno 1980 il Dc9 dell’Itavia, precipitato nel Tirreno lungo la rotta Bologna-Palermo, non cadde per colpa di un missile ma per una bomba. Alla fine di un procedimento che aveva messo insieme 1 milione e 750 mila pagine di istruttoria, con quella decisione di 11 anni fa i supremi giudici hanno assolto dall’accusa di depistaggio i generali dell’Aeronautica militare italiana, che peraltro avevano rinunciato alla prescrizione. Dall’altra parte esiste, al contrario, un ginepraio di processi in sede civile che hanno invece avvalorato la tesi del missile. L’ultima è stata una sentenza della Cassazione, pronunciata nel giugno 2017, che ha condannato lo Stato a risarcire con altri 55 milioni di euro i familiari delle 81 vittime. All’opposto dei loro colleghi del penale, i giudici della Cassazione civile si sono convinti (a dire il vero con molte incertezze) che l’incidente del volo Itavia si verificò “a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente a esso, di un velivolo militare nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, e quale diretta conseguenza dell’ esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l'aereo nascosto, oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9”. Il ginepraio è reso ancora più intricato dal fatto che ora la terza sezione civile della stessa Cassazione sta per pronunciarsi sulle dimensioni del risarcimento riservato all’Itavia, la compagnia proprietaria del Dc9, andata fallita dopo il disastro e stabilirà se 265 milioni di euro liquidati dalla Corte di Appello bastano o sono troppi. Il motivo di questa assurda giustizia bifronte va cercato nei suoi effetti risarcitori: infatti, se la causa riconosciuta della strage è la bomba, la responsabilità di non avere vigilato sulla sicurezza dell'aereo ricade sull'Itavia; se è un missile, invece, la responsabilità cade interamente sullo Stato italiano, che avrebbe dovuto prevenire ed evitare l'evento. Va detto che da tempo lo Stato si è fatto carico dei risarcimenti: a ogni famiglia degli 81 morti sono stati assegnati 200 mila euro (per un totale di 15,8 milioni) mentre nel 2004 i 141 familiari superstiti hanno ottenuto un vitalizio di 1.864 euro netti mensili rivalutabili, per un totale di altri 31 milioni al 31 dicembre 2014. Si stima pertanto che lo Stato spenda ancora circa 4 milioni di euro l’anno soltanto per i vitalizi. Ma all’assurdità della giustizia bifronte si aggiunge un altro assurdo, se possibile ancora più grave e politicamente rilevante. Nella scorsa legislatura, i parlamentari della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno scoperto l’esistenza di documenti segreti dai quali emergerebbe con chiarezza la possibilità di un coinvolgimento diretto del terrorismo palestinese nella caduta dell’aereo. Secondo quei documenti, insomma, a far cadere il Dc9 sarebbe stata una bomba che il Fronte di liberazione della Palestina avrebbe piazzato sull’aereo come mostruosa ritorsione per l’arresto di alcuni suoi militanti in Italia. Carlo Giovanardi, che fino allo scorso 4 marzo è stato senatore, ha più volte chiesto al governo di togliere il vincolo del segreto di Stato da quelle carte, senza mai nemmeno ottenere una risposta. "È davvero assurdo e vergognoso che le nostre istituzioni continuino a parlare del dovere di ricercare la verità su Ustica " dice Giovanardi “quando il primo a nasconderla è proprio il governo italiano". Quanti altri anniversari serviranno per fare cadere quella scritta “Top secret”?
27 GIUGNO 1980. Ustica. «Quella notte c’era una guerra. Chiedete alla Nato», scrive Giulia Merlo il 30 luglio 2016 su "Il Dubbio”. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo rischierebbero 23 anni di carcere. Sono passati 36 anni dalla notte di venerdì 27 giugno 1980, in cui l’aereo di linea DC-9 della compagnia italiana Itavia esplose e si inabissò nel braccio di mare tra le isole di Ustica e Ponza, nel mar Tirreno. Nel disastro persero la vita tutti e 81 i passeggeri, sulle cause della strage, invece, nessun tribunale ha ancora accertato la verità. Nel corso degli anni, le teorie più dibattute sono quella di un missile stranieri, contrapposta a quella dell’attentato terroristico, con un ordigno esplosivo piazzato nella toilette. Secondo la prima tesi, ad abbattere il DC-9 sarebbe stata una testata francese, destinata ad abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi. La seconda ricostruzione, invece, è quella avvalorata dai fantomatici documenti cui il senatore Carlo Giovanardi ha fatto più volte riferimento. Il giornalista Andrea Purgatori, che in quegli anni era inviato per il Corriere della Sera e che ha pubblicato numerose inchieste sulla strage, smentisce in modo secco la decisività di questo dossier».
Proviamo a fare chiarezza su queste carte coperte dal segreto di Stato?
«Partiamo da un dato incontrovertibile: sulla strage di Ustica non c’è mai stato il segreto di Stato. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo quella notte, rischierebbero 23 anni di carcere. Nei documenti che ha visto Giovanardi non c’è nulla che possa davvero chiarire cosa è successo».
E quindi lei cosa pensa che contengono?
«Probabilmente si tratta di dossier che ricostruiscono i rapporti opachi intercorsi in quegli anni tra l’Italia e la Libia, ma non sarebbe certo di una novità. Io penso che quelle carte siano più importanti per capire cosa è successo alla stazione di Bologna poco più di un mese dopo, sempre nel 1980».
Lei ha sempre sconfessato la tesi della bomba nella toilette. Come mai?
«Non sono io a sconfessarla, l’ordinanza di rinvio a giudizio del 1999 parla di aereo «esploso in scenario di guerra aerea». Inoltre le perizie a sostegno dell’ipotesi della bomba sono state scartate perchè i periti sono stati dichiarati infedeli dal tribunale, per connivenze con i periti dei generali coinvolti».
La pista della presenza di caccia stranieri, invece?
«Che quella notte nei cieli italiani volassero aerei non identificati è stato confermato dalla Nato. Attualmente non esiste una sentenza su quella strage, perchè l’inchiesta è ancora in corso. In sede civile, invece, la Cassazione ha condannato nel 2015 i ministeri dei Trasporti e della Difesa al risarcimento dei danni, per responsabilità nell’«abbattimento» del DC-9 e - cito testualmente - ha definito l’ipotesi del missile come causa «congruamente provata»».
C’è chi obietta che gli alti ufficiali coinvolti sono stati tutti assolti nel 2006...
«Attenzione, sono stati assolti in Cassazione dalla condanna per depistaggio, non nel processo sulle cause della strage, tuttora in corso».
L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”, scrive il 05/05/2016 Francesco Grignetti su “La Stampa”. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980». Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».
Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».
«Vi dico la verità su Ustica: è stata una bomba e veniva da Beirut», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. «Smettetela di chiedere a me di rivelare questi documenti: mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore. È il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier». «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha il dovere di togliere la dizione "segretissimo" da quelle carte in modo da poterle divulgare, solo così le verità nascoste per trentasei anni verranno finalmente svelate». Non ha dubbi, il senatore Carlo Giovanardi. In qualità di membro della commissione Moro, ha avuto modo di visionare dei documenti che getterebbero nuova luce sulla tragica vicenda del volo Itavia DC-9, inabissatosi nel braccio di Mar Tirreno tra Ustica e Ponza con a bordo 81 persone, il 27 giugno del 1980.
Cominciamo dal principio: cosa è successo a bordo di quell'aereo?
«Nella toilette è esplosa una bomba, che ha provocato la caduta del velivolo e la morte di tutti i passeggeri».
Eppure molte voci sostengono che, quella notte, nei cieli italiani fosse in corso una guerriglia aerea in cui erano coinvolti caccia da guerra francesi e libici e che il volo Itavia sia stato abbattuto da un missile.
«Io mi sono interessato della questione quando ero ministro e su questi fatti ho risposto in Parlamento, sulla base delle fonti ufficiali provenienti dalla Nato e dei dossier dei nostri servizi di intelligence. Ciò che sostengo è suffragato non solo da questo, ma anche da 4000 pagine di perizie, svolte dai maggiori esperti internazionali di aereonautica. Aggiungo anche che ho letto in aula le missive personali indirizzate all'allora premier Giuliano Amato dal presidente americano Bill Clinton e da quello francese Jaques Chirac, in cui entrambi giurano sul loro onore che, durante la notte della strage, nei cieli di Ustica non volavano né aerei americani né francesi».
Gli scettici hanno sostenuto che la bomba nella toilette sia smentita dal fatto che il lavandino è stato ritrovato intatto nel relitto.
«Gli americani, in un documentario prodotto dal National Geographic, hanno preso un vecchio DC-9 e riprodotto l'esplosione, verificando che è ben possibile che il lavello non si sia rotto».
E quindi il mistero riguarda quale mano abbia piazzato la bomba. La risposta sta nelle carte da lei visionate?
«Esattamente. Si tratta di documenti che nessun magistrato ha mai potuto esaminare, su cui da due anni è caduto il segreto di Stato ma che rimangono bollati come "segretissimi" e dunque sono non divulgabili. Il carteggio fa riferimento ai rapporti tra il governo italiano e la nostra ambasciata a Beirut negli anni 1979 e 1980. Io ho potuto esaminarlo in presenza dei membri dei servizi e con la possibilità di prendere appunti, ma quei dossier contengono messaggi dalla capitale libica, alcuni datati anche 27 giugno, che annunciano vittime innocenti e parlano anche di un aereo come obiettivo del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina, organizzazione controllata dai libici».
In questi dossier ritorna la teoria del cosiddetto "lodo Moro", ovvero il patto segreto tra Italia e filopalestinesi, che permetteva ai gruppi palestinesi di trasportare e stoccare armi nel nostro territorio a patto di non commettere attentati?
«Certo che quei documenti riguardano il "lodo Moro". E' chiaro che quell'accordo non era stato siglato in carta bollata, ma la sua esistenza è chiara e dalle carte emerge anche come Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo considerasse violato nel 1979, quando il governo italiano sequestrò i missili trovati a Ortona e arrestò il militante del Fplp Abu Anzeh Saleh, poi detenuto nel carcere di Trani. Per questo minacciavano ritorsioni contro l'Italia. Tornando a Ustica, ricordo che l'unico governo a non rispondere alle rogatorie italiane è stato quello di Gheddafi».
Ustica è stata una rappresaglia libica, dunque?
«E' stato l'allora ministro Zamberletti a definirla così. Lo stesso che, proprio il 2 agosto (data della strage alla stazione di Bologna) firmava un accordo italo-maltese di assistenza militare e di estrazione petrolifera, che di fatto subentrava a quello tra Malta e la Libia. Secondo Zamberletti, Bologna e Ustica sono state entrambe un avvertimento dei libici al governo italiano e le due stragi sono legate da un filo rosso arabo-palestinese».
Rivelare questi documenti, dunque, fugherebbe qualsiasi ulteriore dubbio sull'ipotesi del missile sul volo Itavia?
«Certo. Eppure faccio notare che, ora che queste carte sono state lette e che io ne chiedo la desecretazione, la presidente dell'associazione delle vittime di Ustica, durante le commemorazioni delle stragi di quest'anno, non ha più chiesto che i dossier vengano pubblicati».
E questo che cosa significa?
«La senatrice Daria Bonfietti (che ha perso un fratello nella strage di Ustica ndr) sostiene che io abbia in mano un due di picche, invece io credo di avere un poker d'assi. I dossier che ho letto svelano la verità su quegli attentati ma, evidentemente, renderli pubblici potrebbe in qualche modo mettere in discussione i risarcimenti che si aggiungono ai 62 milioni di euro già percepiti. La Cassazione in sede civile, infatti, ha riconosciuto un risarcimento del danno di centinaia di milioni di euro all'Itavia, agli eredi Davanzali (ex presidente dell'Itavia) e alle famiglie delle vittime. Ciò nasce da una sciagurata sentenza civile di primo grado, scritta dal giudice onorario aggiunto Francesco Betticani, che teorizza appunto che ad abbattere l'aereo sia stato un missile non meglio identificato. L'appello viene vinto dall'Avvocatura di Stato che, però, commette un errore procedurale. La Cassazione allora annulla la sentenza di appello e rinvia alla Corte, la quale, però, può conoscere solo gli elementi portati dalle parti e non aggiungerne di nuovi. In questo modo è stata confermata in Cassazione civile l'assurda ipotesi del missile, definita "più probabile che no", totalmente smentita invece in sede penale».
In che modo l'ipotesi della bomba cambierebbe le carte in tavola per i familiari delle vittime?
«La risposta è semplice: se si fosse trattato di una bomba, come hanno stabilito le perizie tecniche, la responsabilità di non aver vigilato a Bologna avrebbe coinvolto anche la società Itavia e dunque il Ministero non dovrebbe risarcire le centinaia di milioni di danni. Aggiungo che a ogni famiglia delle persone decedute sono stati assegnati 200 mila euro e i 141 familiari superstiti godono dal 2004 di un assegno vitalizio mensile di 1.864 euro netti, rivalutabili nel tempo».
Che fare dunque ora?
«Innanzitutto smetterla di chiedere a me di rivelare questi documenti, cosa che mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore per indegnità morale. E' il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier per amore di verità, così forse - almeno - ripuliremo una volta per tutte l'immaginario collettivo su Ustica, inquinato da sceneggiati e depistaggi».
La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.
«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.
Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?
«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».
A che cosa si riferisce?
«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».
Non si trattò di una strage voluta?
«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».
A che cosa serviva quell’esplosivo?
«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».
Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?
«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».
Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?
«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».
Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?
«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».
Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?
«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».
Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.
«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».
I MISTERI DEL VELIVOLO ITAVIA. Ustica, la firma di Pertini era falsa: l’ufficiale pilota che cercava la verità sul Dc 9 venne radiato ingiustamente. Mario Ciancarella, ex capitano che indagava sui misteri del velivolo precipitato nel 1980, venne cacciato -per indegnità - dall’Aeronautica con decreto del Quirinale nel 1983. Il tribunale 33 anni dopo: firma del presidente apocrifa. «La Difesa risarcisca», scrive Alessandro Fulloni l'11 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". Un falso pazzesco. Una firma mai vergata dal presidente-partigiano Sandro Pertini. Che di quell’atto che cacciò dall’Aeronautica un suo ufficiale - se non rovinandogli la vita di certo cambiandogliela pesantemente - non sapeva nulla. La firma dell’allora Capo di Stato sul decreto di radiazione del capitano-pilota Mario Ciancarella (in prima fila nelle denunce per cercare la verità a Ustica e nella riforma, erano gli anni Settanta, dell’ordinamento militare) sottoscritta nel 1983, era apocrifa. In sintesi: «taroccata» come in un documento uscito da una stamperia fuorilegge. Firmata chissà da chi, in una notte buia del 1983. Lo ha stabilito, 33 anni dopo, il tribunale civile di Firenze e la notizia è stata rivelata dall’associazione «Rita Atria» di cui lo stesso ex ufficiale, oggi residente a Lucca dove ha aperto una libreria, è fondatore. La sentenza, spiega una nota della stessa associazione, arriva «dopo due perizie - una di parte e una disposta dal magistrato - che hanno potuto rilevare come il falso sia tanto evidente quanto eseguito con assoluta approssimazione». Non basta. Nella motivazione si legge che il ministero della Difesa è stato condannato in contumacia al pagamento delle spese processuali di 5.885 euro. È solo l’inizio di una specie di rivincita giudiziaria che vedrà l’ex pilota - «cacciato per indegnità a portare la divisa», questa fu la formula usata per radiarlo - avviare con ogni probabilità altre cause, sia in sede penale che davanti alla magistratura contabile. Ma a questo punto è il caso di fare un lungo passo indietro e arrivare alla fine degli anni Settanta, quando tutto comincia. Anni in bianco e nero, anni di piombo. Terrorismo, stragi impunite, l’ombra dei servizi deviati e della P2. Mario Ciancarella è un giovane ufficiale dell’Aeronautica, capitano pilota a Pisa, vola sugli Hercules C-130 della brigata aerosoccorritori, la 46°. Si interessa di sindacato, parola che nelle forze armate di quegli anni era impronunciabile. «Ci chiamavano i “nipotini” delle Brigate Rosse» ricorda oggi l’ex ufficiale riferendosi a quel gruppo di colleghi con cui fondò il movimento dei militari democratici. E che collaborò alla stesura della legge 382/78 - ovvero la riforma dell’ordinamento militare - soprattutto in un punto: la possibilità di disobbedire a un ordine palesemente ingiusto. Battaglia che gli valse processi, un arresto e la radiazione dall’Aeronautica. Giunta tramite ufficiale giudiziario con un atto falso, si scopre ora. Che con quella firma Pertini non c’entrasse nulla, Ciancarella l’aveva intuito subito dopo aver ricevuto la copia del decreto presidenziale. Ma questo avvenne dieci anni dopo la radiazione. E, tra l’altro, dopo la morte dello stesso ex inquilino del Colle. «Prima non era possibile avere quell’atto, non era diritto dell’interessato, mi venne spiegato». Quella firma «l’avevo vista su altre carte: era apocrifa in un modo spudorato». Trovare un avvocato disposto a portare avanti la battaglia per accertare la verità non fu semplice. «Ci ho messo 16 anni... E altri 7 per arrivare alla sentenza». Che gli ha dato ragione. Ciancarella si era interessato anche dei misteri che ruotavano attorno all’abbattimento del Dc9 Itavia a Ustica, il 27 giugno 1980. In particolare al giudice istruttore Rosario Priore il pilota raccontò di quella testimonianza drammatica raccolta poche ore dopo la sparizione dal radar del velivolo da Alberto Dèttori, il sottufficiale radarista, impiegato nella stazione radar di Poggio Ballone, trovato impiccato nel 1987. «Comandante, siamo stati noi a tirarlo giù. Siamo stati noi». «È una cosa terribile...». «Io non le posso dire nulla, perché qua ci fanno la pelle». Qualche mese prima Ciancarella era stato convocato proprio da Pertini al Quirinale insieme a Sandro Marcucci e Lino Totaro, entrambi aviatori e tra i fondatori del movimento democratico. Avevano parlato della riforma dell’ordinamento. Il presidente voleva saperne di più. «La segreteria del Quirinale mi chiamò a casa. Fissarono un appuntamento con me, io non volevo essere solo e mi presentai con i colleghi». Il presidente fu schietto e brutale «ma trasparente: parlammo circa tre ore. Ci congedò dicendoci che se quella sulla modifica dell’ordinamento militare era una battaglia giusta allora avremmo dovuto combatterla seguendo le vie istituzionali, dal confronto sindacale a quello politico ed eventualmente in aula giudiziaria, senza alcun appoggio diretto del Quirinale». Che però continuò discretamente a interpellarli, e forse a osservarli benevolmente, anche in seguito. Sino al via libera parlamentare della legge. (Questo fu il destino dei tre fondatori del movimento militari democratici: Sandro Marcucci, capitano pilota nella brigata degli aerosoccorritori, si interessò di Ustica, cercando documenti e testimonianze. Morì il 2 febbraio 1992, una domenica limpida e senza vento, precipitando a Campo Cecina, in Toscana, a bordo di un aereo anti-incendio civile: due anni fa la procura di Massa ha deciso di riaprire un’inchiesta su quell’incidente. Lino Totaro, sergente maggiore, dovette lasciare l’Aeronautica perché dichiarato instabile mentalmente. Lui oggi vive in Africa, «abbastanza serenamente». Di Mario Ciancarella si è detto.)
Strage di Ustica, il testimone che riscrive la storia d'Italia: "Era guerra, ho visto tutto", scrive il 20 Dicembre 2017 “Libero Quotidiano”. Si riaccende lo scontro politico, dopo le novità arrivate dagli Usa, sul caso Ustica, con la nuova testimonianza su quanto avvenne il 27 giugno del 1980, la notte in cui il Dc9 Itavia, in volo da Bologna a Palermo, con a bordo 81 persone, sparì dai radar, finendo in mare. Le parole di Rian Sandlin, l’ex marinaio della portaerei Saratoga, che al giornalista Andrea Purgatori racconta di un conflitto aereo, nel Mediterraneo, tra caccia americani e libici, rilanciano, di fatto, l’ipotesi di un incidente di guerra che coinvolse il volo civile italiano. Parole che - in attesa di un interessamento della Procura di Roma - riaprono il dibattito tra chi sostiene la tesi della bomba a bordo e chi pensa che a colpire l’aereo sia stato un missile, forse alleato. Per Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica "il fatto che due Mig libici fossero stati abbattuti la notte di Ustica lo avevano già detto altri, ma sentirlo dire da un signore che stava sulla Saratoga, che finora gli Usa ci avevano detto stesse in rada, è una novità importante". "È chiaro che ci sono cose non dette su Ustica, ma il problema non è la verità, perché loro, al governo, sanno qual è la verità, il problema è che non vogliono raccontarla", aggiunge Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione 2 agosto: "Pensavano con la direttiva Renzi di tacitare la richiesta di verità, ma non hanno fatto il loro dovere fino in fondo, ora basta, diano le carte vere". Di cosa "vergognosa" e di "bufala gigantesca", parla invece il senatore di Idea, Carlo Giovanardi. "Sono falsità - sottolinea - già smentite da sentenze penali passate in giudicato che dicono che non c’è stata alcuna battaglia aerea, nessun missile, nessun aereo in volo". Giovanardi, non dà alcun credito alle ultime novità: "Ci sono 4mila pagine di perizie internazionali che dicono dov’era la bomba, quando è esplosa e tutti i dettagli - spiega il senatore di Idea - dall’altra, invece, abbiamo 27 versioni diverse" che accusano "gli Usa, i francesi, i libici". "Ho letto cose terrificanti in Commissione Moro - ricorda il senatore che è membro dell’organismo che indaga sulla morte del leader Dc - sui palestinesi che preparavano un terribile attentato, i documenti sono ancora segretati e Gentiloni, che abbiamo chiesto venisse a riferire, non ci risponde". "Per arrivare a chiarire rendiamo pubbliche quelle carte, in particolare il carteggio del biennio ’79-’80 dei nostri servizi da Beirut che parla delle minacce di rappresaglia da parte dei palestinesi, dopo lo stop al Lodo Moro", conclude il senatore di Idea.
Strage di Ustica, la verità del militare Usa: «Due Mig libici abbattuti dai nostri caccia la sera dell’esplosione». La nuova testimonianza ad «Atlantide», su La7. Torna l’ipotesi del volo colpito per errore, scrive Ilaria Sacchettoni il 20 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Trentasette anni dopo, una nuova testimonianza riaccende la speranza di raggiungere la verità sull’esplosione in volo del Dc-9 che uccise 81 persone sui cieli di Ustica. Brian Sandlin, all’epoca marinaio sulla Saratoga destinata dagli Usa al pattugliamento del Mediterraneo, intervistato (questa sera ad Atlantide su La7) da Andrea Purgatori, autore della prima ricostruzione sulla vicenda, racconta i fatti di cui fu testimone. È la sera del 27 giugno 1980. Dalla plancia della nave che staziona a poche miglia dal golfo di Napoli, il giovane Sandlin assiste al rientro da una missione speciale di due Phantom disarmati, scarichi. Aerei che sarebbero serviti ad abbattere altrettanti Mig libici in volo proprio lungo la traiettoria aerea del Dc-9: «Quella sera — racconta l’ex marinaio — ci hanno detto che avevamo abbattuto due Mig libici. Era quella la ragione per cui siamo salpati: mettere alla prova la Libia». È un’affermazione storica. Per la prima volta qualcuno attesta lo scenario bellico nei cieli italiani durante gli ultimi anni della guerra fredda. «Eravamo coinvolti in un’operazione Nato e affiancati da una portaerei britannica e da una francese» aggiunge Sandlin. La pista del Dc-9 vittima di un’iniziativa militare alleata nei confronti della Libia ha faticato a farsi strada. Ed è ancora alla ricerca di conferme. L’Italia di quegli anni sconta ambiguità. Le istituzioni — per evitare ritorsioni — collaboravano con Gheddafi fornendogli nomi e indirizzi degli oppositori al suo regime che si trovavano in Italia. Gli Usa invece, erano decisi a combatterlo come avverrà in futuro con altri colonnelli (tra cui Saddam Hussein): «Il capitano Flatley — prosegue Sandlin — ci informò che durante le nostre operazioni di volo due Mig libici ci erano venuti incontro in assetto aggressivo e avevamo dovuto abbatterli». L’ex marinaio della Us Navy è pronto a smentire la versione di una bomba terroristica piazzata a bordo dell’aereo Itavia. E a supportare gli approfondimenti dei magistrati della Procura di Roma, Maria Monteleone ed Erminio Amelio, sull’aereo colpito per errore durante un’azione di forza degli alleati. A 57 anni compiuti Sandlin restituisce l’atmosfera che si respirò nei giorni successivi: «Ricordo che in plancia c’era un silenzio assoluto. Non era consentito parlare, non potevamo neppure berci una tazza di caffè o fumare. Gli ufficiali si comportavano in modo professionale ma parlavano poco fra loro». La sensazione diffusa è quella di aver commesso qualcosa di enorme. Possibile che fosse proprio l’abbattimento di un aereo civile? Sandlin non ipotizza ma offre nuovi dettagli. Ma il suo silenzio in tutti questi decenni? È terrorizzato. Nel 1993 la visione di una puntata di 60 minutes (leggendario programma d’inchiesta della Cbs raccontato anche nel film Insider di Michael Mann con Al Pacino) per un attimo addormenta la paura e restituisce memoria all’ex marinaio. Sandlin, però, non trova ancora il coraggio di mettere a disposizione di altri le proprie informazioni. Un sottoufficiale prossimo alla pensione, racconta, era stato ucciso in una rapina tanto misteriosa quanto anomala. Unico ad essere colpito benché in un gruppo di bersagli possibili. Sapeva qualcosa su Ustica? La paura, spiega Sandlin, scompare nel momento in cui cambiano gli scenari internazionali e lo strapotere della Cia è ridimensionato: «Oggi non credo — dice — che possa ancora mordere». E allora l’ex marinaio della Usa Navy parla, racconta e smentisce verità ufficiali. Ad esempio quella del Pentagono sul fatto che, quella notte, i radar della Saratoga sarebbero stati spenti per non disturbare le frequenze televisive italiane. Impossibile, dice l’uomo. Mai e poi mai una nave così avrebbe potuto spegnere i radar.
Strage di Ustica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La strage di Ustica fu un disastro aereo, avvenuto nella sera di venerdì 27 giugno 1980, quando un aereo di linea Douglas DC-9-15 della compagnia aerea italiana Itavia, decollato dall'Aeroporto di Bologna e diretto all'Aeroporto di Palermo, si squarciò in volo all'improvviso e cadde nel braccio di mare compreso tra le isole tirreniche di Ustica e Ponza, chiamata posizione Condor. Nell'evento persero la vita tutti gli 81 occupanti dell'aereo. Molti aspetti di questo disastro, a partire dalle cause stesse, non sono ancora stati chiariti. Nel corso degli anni, sulla strage di Ustica si sono dibattute principalmente le ipotesi di un coinvolgimento internazionale (in particolare francese, libico e statunitense, con una delle aviazioni militari dei tre Paesi, che avrebbe colpito per errore il DC-9 con un missile diretto al nemico), di un cedimento strutturale o di un attentato terroristico (un ordigno esplosivo nella toilette del velivolo. Nel 2007 l'ex-presidente della Repubblica Cossiga, all'epoca della strage presidente del Consiglio, ha attribuito la responsabilità del disastro a un missile francese «a risonanza e non ad impatto», destinato ad abbattere l'aereo su cui si sarebbe trovato il dittatore libico Gheddafi. Tesi analoga è alla base della conferma, da parte della Corte di Cassazione, della condanna al pagamento di un risarcimento ai familiari delle vittime, inflitta in sede civile ai Ministeri dei Trasporti e della Difesa dal Tribunale di Palermo. I procedimenti penali per alto tradimento, a carico di quattro esponenti dei vertici militari italiani, si sono conclusi con l'assoluzione degli imputati. Altri procedimenti a carico di militari (circa 80) del personale AM si sono conclusi con condanne per vari reati, tra i quali falso e distruzione di documenti. La compagnia Itavia, già pesantemente indebitata, cessò le operazioni il 10 dicembre; il 12 dicembre le fu revocata la licenza di operatore aereo (su rinuncia della stessa compagnia) e, nel giro di un anno, si aprì la procedura di fallimento. Ricostruzione cronologica dell'avvenimento.
Alle 20:08 del 27 giugno 1980 il DC-9 immatricolato I-TIGI decolla per il volo IH870 da Bologna diretto a Palermo con 113 minuti di ritardo accumulati nei servizi precedenti; una volta partito, si svolge regolarmente nei tempi e sulla rotta assegnata (lungo l'aerovia "Ambra 13") fino all'ultimo contatto radio, tra velivolo e controllore procedurale di Roma Controllo, che avviene alle 20:59.
Alle 21:04, chiamato per l'autorizzazione di inizio discesa su Palermo, dove era previsto arrivasse alle 21:13, il volo IH870 non risponde. L'operatore di Roma reitera invano le chiamate; lo fa chiamare, sempre senza ottenere risposta, anche da due voli dell'Air Malta, KM153, che segue sulla stessa rotta, e KM758, oltre che dal radar militare di Marsala e dalla torre di controllo di Palermo. Passa senza notizie anche l'orario di arrivo a destinazione, previsto per le 21:13.
Alle 21:25 il Comando del soccorso aereo di Martina Franca assume la direzione delle operazioni di ricerca, allerta il 15º Stormo a Ciampino, sede degli elicotteri Sikorsky HH-3F del soccorso aereo.
Alle 21:55 decolla il primo HH-3F e inizia a perlustrare l'area presunta dell'eventuale incidente. L'aereo viene dato per disperso.
Nella notte numerosi elicotteri, aerei e navi partecipano alle ricerche nella zona. Solo alle prime luci dell'alba, un elicottero di soccorso individua alcune decine di miglia a nord di Ustica alcuni detriti in affioramento. Poco dopo raggiunge la zona un Breguet Atlantic dell'Aeronautica, che avvista una grossa chiazza di carburante; nel giro di qualche ora cominciano ad affiorare altri detriti e i primi cadaveri dei passeggeri. Ciò conferma che il velivolo è precipitato nel mar Tirreno, in una zona in cui la profondità dell'acqua supera i tremila metri.
Le vittime del disastro furono ottantuno, di cui tredici bambini, ma furono ritrovate e recuperate solo trentotto salme. La Procura di Palermo dispose l'ispezione esterna di tutti i cadaveri rinvenuti e l'autopsia completa di 7 cadaveri, richiedendo ai periti di indicare:
causa, mezzi ed epoca dei decessi;
le lesioni presentate dai cadaveri;
se su di essi si ravvisassero presenze di sostanze tossiche e di corpi estranei;
se vi fossero tracce evidenti di ustioni o di annegamento.
Sulle sette salme di cui fu disposta l'autopsia furono riscontrati sia grandi traumi da caduta (a livello scheletrico e viscerale), sia lesioni enfisematose polmonari da decompressione (tipiche di sinistri in cui l'aereo si apre in volo e perde repentinamente la pressione interna). Nelle perizie gli esperti affermarono che l'instaurarsi degli enfisemi da depressurizzazione precedette cronologicamente tutte le altre lesioni riscontrate, ma non causò direttamente il decesso dei passeggeri facendo loro soltanto perdere conoscenza. La morte, secondo i medesimi esperti, sopravvenne soltanto in seguito, a causa di traumi fatali, riconducibili (così come la presenza di schegge e piccole parti metalliche in alcuni dei corpi) a reiterati urti con la struttura dell'aereo in caduta e, in ultima analisi, all'impatto del DC9 con l'acqua. La ricerca tossicologica dell'ossido di carbonio e dell'acido cianidrico (residui da combustione) fu negativa nel sangue e nei polmoni. Nessuna delle salme presentava segni di ustione o di annegamento. Il controllo radiografico, alla ricerca di residui metallici, risultò positivo su cinque cadaveri. Più precisamente:
nel cadavere 20 due piccole schegge nell'indice e nel medio sinistri;
nel cadavere 34 piccoli frammenti in proiezione della testa dell'omero destra e della quinta vertebra lombare;
nel cadavere 36 minuti frammenti nella coscia sinistra;
nel cadavere 37 un bullone con relativo dado nelle parti molli dell'emibacino;
nel cadavere 38 un frammento delle dimensioni di un seme di zucca e di forma irregolare nella mano destra.
La perizia ritenne di escludere, per le caratteristiche morfologiche e dimensionali, la provenienza dei minuscoli corpi estranei dall'eventuale frammentazione di involucro di un qualsiasi ordigno esplosivo.
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:26:06Z. (ora in GMT):
Roma: «870 identifichi.»
IH870: «Arriva.»
Roma: «Ok, è sotto radar, vediamo che sta andando verso Grosseto, che prua ha?»
IH870: «La 870 è perfettamente allineata sulla radiale di Firenze, abbiamo 153 in prua. Ci dobbiamo ricredere sulla funzionalità del VOR di Firenze.»
Roma: «Sì, in effetti non è che vada molto bene.»
IH870: «Allora ha ragione il collega.»
Roma: «Sì, sì pienamente.»
IH870: «Ci dica cosa dobbiamo fare.»
Roma: «Adesso vedo che sta rientrando, quindi, praticamente, diciamo che è allineato, mantenga questa prua.»
IH870: «Noi non ci siamo mossi, eh?!.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:08Z.
IH870: «Roma, la 870.»
Roma: «IH870 per Ponza, 127,35.»
IH870: «127,35. Grazie, buonasera.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:44Z.
IH870: «È la 870, buonasera Roma.»
Roma: «Buonasera 870. Mantenga 290 e richiamerà 13 Alfa.»
IH870: «Sì, senta: neanche Ponza funziona?»
Roma: «Prego?»
IH870: «Abbiamo trovato un cimitero stasera venendo... da Firenze in poi praticamente non ne abbiamo trovata una funzionante.»
Roma: «Eh sì, in effetti è un po' tutto fuori, compreso Ponza. Lei quanto ha in prua ora?»
IH870: «Manteniamo 195.»
Roma: «195. Sì, va bene. Mantenga 195, andrà un po' più giù di Ponza di qualche miglio.»
IH870: «Bene, grazie.»
Roma: «E comunque 195 potrà mantenerlo, io penso, ancora un 20 miglia, non di più perché c'è molto vento da ovest. Al suo livello dovrebbe essere di circa 100-120 nodi l'intensità.»
IH870: «Eh sì, in effetti sì, abbiamo fatto qualche calcolo, dovrebbe essere qualcosa del genere.»
Roma: «Ecco, non lo so, se vuole continuare con questa prua altrimenti accosti a destra anche un 15-20 gradi.»
IH870: «Ok. Mettiamo per 210.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:46:31Z.
IH870: «È la 870, è possibile avere un 250 di livello?»
Roma: «Sì, affermativo. Può scendere anche adesso.»
IH870: «Grazie, lasciamo 290.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:50:45Z.
Roma: «L'Itavia 870 diciamo ha lasciato Ponza 3 miglia sulla destra, quindi, quasi quasi, va bene per Palermo così.»
IH870: «Molto gentile, grazie. Siamo prossimi a 250.»
Roma: «Perfetto. In ogni caso ci avverta appena riceve Palermo.»
IH870: «Sì, Papa-Alfa-Lima lo abbiamo già inserito, va bene e abbiamo il DME di Ponza.»
Roma: «Perfetto. Allora normale navigazione per Palermo, mantenga 250, richiamerà sull'Alfa.»
IH870: «Benissimo, grazie.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:00Z.
IH870: «È sull'Alfa la 870.»
Roma: «Eh sì, affermativo. Leggermente spostato sulla destra, diciamo 4 miglia e comunque il radartermina. 28,8 per ulteriori.»
IH870: «Grazie di tutto, buonasera.»
Roma: «Buonasera a lei.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:54Z.
IH870: «Roma, buonasera. È l'IH870.»
Roma: «Buonasera IH870, avanti.»
IH870: «115 miglia per Papa-Alfa... per Papa-Romeo-Sierra, scusate. Mantiene 250.»
Roma: «Ricevuto IH870. E può darci uno stimato per Raisi?»
IH870: «Sì: Raisi lo stimiamo per gli uno-tre.»
Roma: «870 ricevuto. Autorizzati a Raisi VOR. Nessun ritardo è previsto, ci richiami per la discesa.»
IH870: «A Raisi nessun ritardo, chiameremo per la discesa, 870.»
Roma: «È corretto.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:59:45Z - ultimo segnale del transponder.
Il flight data recorder (FDR) dell'aereo aveva registrato dati di volo assolutamente regolari: prima della sciagura la velocità era di circa 323 nodi, la quota circa 7 630 m (25 000 piedi) con prua a 178°, l'accelerazione verticale oscillava, senza oltrepassare 1,15 g. La registrazione del tranquillo dialogo tra il comandante Domenico Gatti e il copilota, che si raccontavano barzellette, restituito dal cockpit voice recorder (CVR), si era interrotta improvvisamente e senza alcun segnale allarmante che precedesse la troncatura.
Gli ultimi secondi dal CVR: «Allora siamo a discorsi da fare... [...] Va bene i capelli sono bianchi... È logico... Eh, lunedì intendevamo trovarci ben poche volte, se no... Sporca eh! Allora sentite questa... Gua...». La registrazione si era interrotta tagliando l'ultima parola («Guarda!»). Questo particolare potrebbe indicare un'improvvisa interruzione dell'alimentazione elettrica.
Le principali ipotesi sulle quali gli inquirenti hanno indagato sono:
il DC-9 sarebbe stato abbattuto da un missile aria-aria sparato da un aereo militare;
il DC-9 sarebbe precipitato dopo essere entrato in collisione (o in semicollisione) con un aereo militare;
sarebbe avvenuto un cedimento strutturale;
sarebbe esplosa una bomba a bordo.
A partire dalla succitata prima ipotesi, negli anni si è affermata la tesi che in zona vi fosse un'intensa attività aerea internazionale: sebbene dagli enti militari, nazionali e alleati, sino ai primi anni novanta non fosse mai giunta alcuna conferma di tali attività (che pure è stato ipotizzato possano essere state occultate), né sul relitto sia mai stato trovato alcun frammento di missile, ma soltanto tracce di esplosivo, si sarebbe determinato uno scenario di guerra aerea, nel quale il DC-9 Itavia si sarebbe trovato per puro caso mentre era in volo livellato sulla rotta Bologna-Palermo. Testimonianze emerse nel 2013 confermerebbero la presenza di aerei da guerra e navi portaerei. L'occultamento e la distruzione, di alcuni registri (Marsala, Licola e Grosseto) e di alcuni nastri radar (Marsala e Grosseto) che registrarono il tracciato del volo DC-9 IH870, a fronte delle prove prodotte da altri analoghi registri e nastri non occultabili e non distrutti (Fiumicino, Satellite russo), vengono portati a sostegno di tale ipotesi. Da testimonianze risulta che se il disastro avesse avuto cause chiare (difetto strutturale o bomba) non sarebbe stato necessario occultare e distruggere prove di primaria importanza sul volo, come è stato stabilito dalle conclusioni della sentenza nel Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I.. I dati di volo distrutti e recuperati da altre fonti nazionali e internazionali e l'allarme generale della difesa aerea lanciato da due piloti dell'aeronautica militare italiana potrebbero confermare la tesi accusatoria, secondo la quale l'aereo DC-9 Itavia del volo IH870, attorno al quale volavano almeno tre aerei dei quali uno a velocità supersonica, sia stato abbattuto da un aereo che volava a velocità supersonica, tesi proposta per la prima volta dall'esperto del National Transportation Safety Board, John Macidull.
Nel libro pubblicato nel 1994 The other side of deception - ISBN 0-06-017635-0 - scritto dall'ex-agente del Mossad Victor Ostrovsky, a pagina 248 si cita una conversazione tra l'autore ed un collega inglese avvenuta a fine gennaio 1990 in un albergo ad Ottawa (Canada):
"Do you believe or think or know if the Mossad may have had any involvement in what happened to Flight 103 over Lockerbie?"
I was dumbfounded. It took me several seconds to realize what the man had asked me. I responded almost automatically.
"No way".
"Why?"
"No reason. Just no way, that's all. Up to this point, every time Israel or the Mossad has been responsible for the downing of a plane, it's been an accident, and related directly to the so-called security of the state, like the shooting down of the Libyan plane over the Sinai and the Italian plane (thought to carry uranium) in 1980, killing eighty-one people. There is no way that they'd do this".
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"Credi o pensi o sai se il Mossad può essere implicato in quanto è successo al volo 103 su Lockerbie?"
Ero perplesso. Ci misi diversi secondi a realizzare quanto mi era stato chiesto. Risposi quasi automaticamente.
"In nessun modo".
"Perché?"
"Nessun motivo. Semplicemente in nessun modo, è tutto. Sino ad oggi, ogni volta che Israele o il Mossad è stato responsabile dell'abbattimento di un aereo, si è trattato di un incidente, ed in diretta relazione con la cosiddetta sicurezza di Stato, come l'abbattimento dell'aereo libico sul Sinai e l'aereo italiano (che si pensava trasportasse uranio) nel 1980, nel quale furono uccise ottantuno persone. In nessun modo avrebbero fatto una cosa simile".
Victor Ostrovsky non è mai stato interrogato dai giudici italiani in relazione ai fatti della Strage di Ustica ed alle informazioni contenute nel suo libro.
Sul caso Ustica la magistratura italiana ha condotto un'attività di indagine durata per decenni, con cospicue cartelle di atti: al processo di primo grado si giunse con due milioni di pagine di istruttoria, 4 000 testimoni, 115 perizie, un'ottantina di rogatorie internazionali e 300 miliardi di lire di sole spese processuali e quasi trecento udienze processuali. Le indagini vennero avviate immediatamente sia dalla magistratura sia dal Ministero dei Trasporti, all'epoca ministro Formica. Aprirono un procedimento le procure di Palermo, Roma e Bologna, mentre il ministro dei trasporti nominò una commissione d'inchiesta tecnico-formale diretta dal dottor Carlo Luzzatti, che però non concluse mai i suoi compiti, visto che, dopo aver presentato due relazioni preliminari, decise per l'autoscioglimento nel 1982 a causa di insanabili contrasti di attribuzioni con la magistratura. Formica finì con l'adeguarsi alla tesi prevalente, che l'aereo era precipitato per un cedimento strutturale dovuto alla cattiva manutenzione. Il 10 dicembre 1980 Itavia interruppe l'attività, mentre ai dipendenti non veniva più corrisposto lo stipendio. Il Ministero dei Trasporti il 12 dicembre 1980 revocò all'Itavia le concessioni per l'esercizio dell'attività, su rinuncia della stessa compagnia aerea. Dal 1982 l'indagine divenne, di fatto, di esclusiva competenza della magistratura, nella persona del giudice istruttore di Roma Vittorio Bucarelli. La ricerca delle cause dell'incidente, nei primi anni e senza disporre del relitto, non permise di raggiungere dati sufficientemente attendibili. Sui pochi resti disponibili, i periti rinvennero tracce di esplosivi. Nel 1982, una perizia eseguita da parte di esperti dell'aeronautica militare italiana, trovò solo C4, esplosivo plastico presente nelle bombe, come quella fatta esplodere nel successivo 1987 da agenti della Corea del Nord sul volo Korean Air 858. Nella relazione della Direzione laboratori dell'A.M. - IV Divisione Esplosivi e Propellenti (Torri) del 5 ottobre 1982 (parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, capitolo III della sentenza ordinanza del giudice istruttore) la causa dell'incidente viene individuata nella detonazione di una massa di esplosivo presente a bordo del velivolo, in ragione della rilevata presenza su alcuni reperti di tracce di T4, e dell'assenza di tracce di TNT. La perizia dell'Aeronautica Militare venne seguita da una controperizia dell'accusa. La seconda repertazione, nel 1987, trovò T4 e TNT su di un frammento dello schienale nº 2 rosso: la perizia chimica Malorni Acampora del 3 febbraio 1987 (disposta dal giudice istruttore nel corso della perizia Blasi: Parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, Capitolo IV, pag. 1399 e ss. della sentenza ordinanza del giudice istruttore) rileva la presenza chiara e inequivocabile sia di T4 che di TNT (sempre nel frammento dello schienale nº 2 rosso), miscela la cui presenza è tipica degli ordigni esplosivi. Queste componenti di esplosivi, solitamente presenti nelle miscele di ordigni esplosivi, hanno indebolito l'ipotesi di un cedimento strutturale, come era stato ipotizzato il 28 gennaio 1981 da una commissione nominata dal ministro dei trasporti Formica. L'acclarata presenza di esplosivi indeboliva l'ipotesi di cedimento strutturale, tanto più per cattiva manutenzione. Ciò aprì, in epoche successive, spiragli per richieste di risarcimenti a favore dell'Itavia (cui tuttavia il ministro dei Trasporti Formica aveva revocato la concessione dei servizi aerei di linea per il pesante passivo dei conti aziendali, non per il disastro). Secondo le rivelazioni di due cablogrammi (cable) (03ROME2887 e 03ROME3199) pubblicati sul sito WikiLeaks, l'allora ministro per le relazioni con il parlamento, Carlo Giovanardi, difese in Parlamento la versione della bomba, paragonandola a quella della strage di Lockerbie. Tuttavia, in un'intervista concessa ad AgoraVox Italia, Giovanardi smentì la versione dell'ambasciata statunitense, in cui si legge che lo stesso avrebbe espresso la sua volontà di "mettere a tacere" le ipotesi sulla strage di Ustica. Le parole di Carlo Giovanardi furono poi contestate dalla senatrice Bonfietti, presidente dell'Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica.
Il recupero del relitto. Nel 1987 l'allora ministro del Tesoro Giuliano Amato stanziò i fondi per il recupero del relitto del DC-9, che giaceva in fondo al mar Tirreno. La profondità di 3 700 metri alla quale si trovava il relitto rendeva complesse e costose le operazioni di localizzazione e recupero. Pochissime erano le imprese specializzate che disponevano delle attrezzature e dell'esperienza necessarie: la scelta ricadde sulla ditta francese Ifremer (Institut français de recherche pour l'exploitation de la mer, Istituto di ricerca francese per lo sfruttamento del mare), che il giudice Rosario Priore avrebbe poi ritenuto collegata ai servizi segreti francesi. Sulla conduzione dell'operazione di recupero effettuata dai DSRV della Ifremer, che portò in superficie la maggior parte della cellula dell'aeromobile, scaturirono molti dubbi, principalmente sui filmati consegnati in copia e sul fatto che l'ispezione al relitto documentata dalla ditta francese fosse davvero stata la prima. Le difficoltà tecniche, i problemi di finanziamento e le resistenze esercitate da varie delle parti interessate contribuirono a rimandare il recupero per molti anni. Alla fine due distinte campagne di recupero, nel 1987 e nel 1991, consentirono di riportare in superficie circa il 96% del relitto del DC-9; si specifica che è stato recuperato l'85% della superficie bagnata dell'aereo. Il relitto venne ricomposto in un hangar dell'aeroporto di Pratica di Mare, dove rimase a disposizione della magistratura per le indagini fino al 5 giugno 2006, data in cui fu trasferito e sistemato, grazie al contributo dei Vigili del Fuoco di Roma, nel Museo della Memoria, approntato appositamente a Bologna. Molto interesse destò nell'opinione pubblica il rinvenimento il 10 maggio 1992, durante la seconda campagna di recupero al limite orientale della zona di ricerca (zona D), di un serbatoio esterno sganciabile di un aereo militare, schiacciato e frammentato, ma completo di tutti i pezzi; tali serbatoi esterni generalmente vengono sganciati in caso di pericolo o più semplicemente in caso di necessità (come ad esempio in fase di atterraggio) per aumentare la manovrabilità dell'apparecchio. Il serbatoio fu recuperato il 18 maggio e fu sistemato a Pratica di Mare con gli altri reperti. Lungo 3 metri, per una capienza di 300 U.S. gal (1 135 litri) di combustibile, presentava i dati identificativi: Pastushin Industries inc. pressurized 300 gal fuel tank installation diagram plate 225-48008 plate 2662835 che lo indicavano quindi prodotto dalla Pastushin Aviation Company di Huntington Beach, Los Angeles, California (divenuta poi Pavco)[68] negli Stati Uniti oppure all'estero su licenza. Tale tipo di serbatoio era installabile su almeno quattro modelli di aerei: MD F-4 Phantom (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Israele, Germania, Grecia e Regno Unito), Northrop F-5 (in servizio nel 1980 nelle flotte di Arabia Saudita, Austria, Bahrein, Botswana, Brasile, Canada, Cile, Corea del Sud, Etiopia, Filippine, Giordania, Grecia, Honduras, India, Iran, Iran, Kenya, Libia, Malesia, Norvegia, Pakistan, Paesi Bassi, Singapore, Spagna, Sudan, Svizzera, Thailandia, Taiwan, Tunisia, Turchia, Stati Uniti, Venezuela, Vietnam del Sud e Yemen), F-15 Eagle (in servizio nelle flotte di Arabia Saudita, Giappone, Israele e Stati Uniti), Vought A-7 Corsair II (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Grecia, Portogallo e Thailandia). Nessuno degli aerei listati è stato impiegato nelle flotta di Francia, nazione responsabile dell'abbattimento secondo le ipotesi di Francesco Cossiga e Canal+. Gli Stati Uniti, interpellati dagli inquirenti, risposero che dopo tanti anni non era loro possibile risalire a date e matricole per stabilire se e quando il serbatoio fosse stato usato in servizio dall'Aviazione o dalla Marina degli Stati Uniti. Furono interpellate anche le autorità francesi, che risposero di non aver mai acquistato o costruito su licenza serbatoi di quel tipo; fornirono inoltre copie dei libri di bordo di quel periodo delle portaerei della Marine nationale Clemenceau e Foch.
Buona parte degli oblò del DC-9, malgrado l'esplosione, sono rimasti integri; secondo i periti, questo fatto escluderebbe che l'esplosione sia avvenuta a causa di una bomba collocata all'interno dell'aereo.
Nel 1989 la Commissione Stragi, istituita l'anno precedente e presieduta dal senatore Libero Gualtieri, deliberò di inserire tra le proprie competenze anche le indagini relative all'incidente di Ustica, che da quel momento divenne pertanto, a tutti gli effetti, la Strage di Ustica. L'attività istruttoria della Commissione determinò la contestazione di reati a numerosi militari in servizio presso i centri radar di Marsala e Licola. Per undici anni i lavori si susseguirono, interessando i vari governi del tempo e le autorità militari. Come riportato esplicitamente nelle considerazioni preliminari dell'inchiesta del giudice Priore, sin dalle prime fasi gli inquirenti mossero accuse di scarsa collaborazione e trasparenza da parte di, come definito: «soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni». Venne coniato il termine muro di gomma, divenuto poi il termine utilizzato per descrivere il comportamento delle istituzioni nei confronti delle ricostruzioni che attribuivano la causa del disastro aereo di Ustica ad un'azione militare. Dopo cinque mesi, infatti, venne presentata una secca ed essenziale ricostruzione da parte dei due esperti Rana e Macidull, che affermavano con certezza che si era di fronte ad un abbattimento causato da un missile. La ricostruzione non venne presa in seria considerazione dal governo presieduto dall'onorevole Francesco Cossiga, che assunse un orientamento diverso e non fu disposto a modificarlo. Il presidente della società Itavia, Aldo Davanzali, per aver condiviso la tesi del missile, fu indiziato del reato di diffusione di notizie atte a turbare l'ordine pubblico, su iniziativa del giudice romano Santacroce a cui era affidata l'inchiesta sul disastro. L'ex ministro Rino Formica, ascoltato dalla Commissione, dichiarò di ritenere verosimile l'ipotesi di un missile, già da lui sostenuta in un'intervista all'Espresso del 1988: a suo dire, a convincerlo tempestivamente che il DC-9 era stato abbattuto da un missile era stato il generale Saverio Rana, presidente del Registro Aeronautico, il quale all'indomani della sciagura, dopo un primo esame dei dati radar, avrebbe detto al ministro dei Trasporti che l'aereo dell'Itavia era stato attaccato da un caccia ed abbattuto con un missile. Per Formica, il generale Rana - nel frattempo morto per tumore - era «un compagno, un amico» nel quale aveva piena fiducia. In seguito all'intervista all'Espresso, interrogato dalla commissione parlamentare sulle stragi, Formica disse di aver parlato dopo l'incidente solo col ministro della Difesa Lelio Lagorio delle informazioni avute da Rana, anche se non era andato oltre, trattandosi non di certezze ma di opinioni ed intuizioni; ma Lagorio, il 6 luglio 1989, davanti alla stessa commissione, nel confermare che Formica gli parlò del missile, commentò: «Mi parve una di quelle improvvise folgorazioni immaginifiche e fantastiche per cui il mio caro amico Formica è famoso». Il 27 maggio 1990 i periti hanno concluso che si tratta di un missile e non di una bomba a bordo. Malgrado ciò, gli esperti dell'aeronautica militare italiana che hanno partecipato alla superperizia, in qualità di consulenti di parte, continuano a sostenere la tesi della bomba.
Anche gli inquirenti denunciarono esplicitamente che il sostanziale fallimento delle indagini fosse dovuto a estesi depistaggi ed inquinamenti delle prove, operati da soggetti ed entità molteplici, come riportano i passi introduttivi del Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I. «Il disastro di Ustica ha scatenato, non solo in Italia, processi di deviazione e comunque di inquinamento delle indagini. Gli interessi dietro l'evento e di contrasto di ogni ricerca sono stati tali e tanti e non solo all'interno del Paese, ma specie presso istituzioni di altri Stati, da ostacolare specialmente attraverso l'occultamento delle prove e il lancio di sempre nuove ipotesi – questo con il chiaro intento di soffocare l'inchiesta – il raggiungimento della comprensione dei fatti [...] Non può perciò che affermarsi che l'opera di inquinamento è risultata così imponente da non lasciar dubbi sull'ovvia sua finalità: impedire l'accertamento della verità. E che, va pure osservato, non può esserci alcun dubbio sull'esistenza di un legame tra coloro che sono a conoscenza delle cause che provocarono la sciagura ed i soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni.» (CAPO 3° Gli inquinamenti. Capitolo I Considerazioni preliminari. pag. 3.) Per questa ipotesi investigativa, assieme alle indagini per la ricerca delle cause si sovrapposero le indagini per provare quegli inquinamenti e quei depistaggi.
Tracciati radar. L'aereo DC-9 era sotto il controllo del Centro regionale di controllo del traffico aereo di Ciampino e sotto la sorveglianza dei radar militari di Licola (vicino Napoli) e di Marsala (in Sicilia). Tra le tracce radar oggetto di visione, è stata accertata la presenza di tracciati radar di numerose stazioni, civili e militari, nazionali ed internazionali.
Il registro del radar di Marsala. Animazione a velocità raddoppiata del tracciato radar, registrato dall'impianto di Ciampino, degli ultimi minuti del volo. Il DC-9 è diretto a sud e vi è un vento a circa 200 km/h verso sud-est. Si notino i due echi senza identificazione sulla sinistra: secondo alcuni periti si tratta della traccia di un aereo, secondo altri di falsi plot, errori del radar. La scritta "IH870" scompare con l'ultima risposta del transponder. Altri contatti su cui si sono concentrate le indagini sono i plot doppi dopo il disastro, sospettati di essere tracce di altri aerei in volo. Tali plot potrebbero anche essere stati determinati, si è ipotizzato, dalla struttura principale dell'aereo in caduta e da fenomeni di chaffing causati da frammenti, anche se restano i dubbi per i plot ad ovest del punto di caduta in quanto sopravvento e quindi difficilmente attribuibili a rottami che cadono nel letto del forte vento di maestrale (che proviene appunto da Nord-Ovest e spinge verso Sud-Est). Durante le indagini si appurò che il registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti del sito radar di Marsala, aveva una pagina strappata nel giorno della perdita del DC-9. Il pubblico ministero giunse quindi alla conclusione che fosse stata sottratta la pagina originale del 27 giugno e se ne fosse riscritta poi, nel foglio successivo, una diversa versione. Durante il processo, la difesa contestò questa conclusione e affermò che la pagina mancante non sarebbe stata riferita al giorno della tragedia, ma alla notte tra il 25 e il 26 giugno. L'analisi diretta della Corte concluse che la pagina tra il 25 e il 26 era stata tagliata, come osservato dalla difesa, ma quella che riguarda la sera del 27 giugno era recisa in modo estremamente accurato, così che fosse difficile accorgersene (il particolare era infatti stato omesso all'avvocato difensore). La numerazione delle pagine non aveva invece interruzioni ed era quindi posteriore al taglio. Interrogato a questo proposito, il sergente Muti, l'IC in servizio quella sera a Marsala non fornì alcuna spiegazione («Non so cosa dirle»). La difesa riconobbe in seguito che la pagina del registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti in servizio il 27 giugno, era stata effettivamente rimossa dal registro.
Il registro del radar di Licola. Il centro radar di Licola è il più vicino al punto del disastro. All'epoca era di tipo fonetico-manuale: nella sala operativa del sito, le coordinate delle tracce venivano comunicate a voce dagli operatori seduti alle console radar ad altri operatori, che le disegnavano stando in piedi dietro un pannello trasparente. Parallelamente tali dati venivano scritti da altri incaricati sul modello "DA 1". Il "DA 1" del 27 giugno 1980 non fu mai ritrovato.
Aeroporto di Grosseto e centro radar di Poggio Ballone. Il giudice istruttore e la Commissione stragi sono in possesso dei tracciati del radar di Grosseto: nelle registrazioni del radar dell'aeroporto di Grosseto si vedono due aerei in volo in direzione nord, sulla rotta del DC-9 Itavia. Mentre due altre tracce di velivoli, provenienti dalla Corsica, giungono sul posto alcuni minuti dopo l'orario stimato di caduta del DC-9 stesso. I nastri con le registrazioni radar del centro della Difesa aerea di Poggio Ballone sarebbero invece spariti: ne rimangono soltanto alcune trasposizioni su carta di poche tracce.
Aeroporto di Ciampino. Il radar di Ciampino quella sera registrò delle tracce che, secondo i periti interpellati dall'associazione dei parenti delle vittime, potevano essere identificate come una manovra d'attacco aereo condotta nei pressi della rotta del DC-9.
Aeroporto di Fiumicino. Il radar dell'Aeroporto di Roma-Fiumicino registrò il volo del DC-9 Itavia del 27 giugno 1980 nel lasso di tempo intercorso tra le ore 20:58 e le 21:02.
AWACS. In quelle ore, un aereo radar AWACS, un quadrireattore Boeing E-3A Sentry, dell'USAF, uno degli unici due presenti in Europa nel 1980, basati a Ramstein (Germania) dall'ottobre del 1979, risulta orbitante con rotta circolare nell'area a nord di Grosseto. Dotato dell'avanzatissimo radar 3D Westinghouse AN/APY-1 con capacità "Look down", in grado di distinguere i velivoli dagli echi del terreno, era in condizione di monitorare tutto il traffico, anche di bassa quota, per un raggio di 500 km.
Portaerei Saratoga. L'ammiraglio James Flatley al comando della portaerei USS Saratoga della US Navy, ancorata il 27 giugno 1980 nel golfo di Napoli, dopo aver inizialmente dichiarato che «dalla Saratoga non fu possibile vedere nulla perché tutti i radar erano in manutenzione», successivamente cambiò versione: disse che nonostante fossero in corso lavori di manutenzione dei radar, uno di essi era comunque in funzione ed aveva registrato «un traffico aereo molto sostenuto nell'area di Napoli, soprattutto in quella meridionale». A detta dell'ammiraglio, si videro passare «moltissimi aerei». I registri radar della Saratoga sono andati persi. Secondo altre fonti, la Saratoga non si trovava affatto in rada a Napoli il 27 giugno 1980.
Civilavia e Centro bolognese. Le stazioni radar di Civilavia e di Centro bolognese si occupavano di registrare tutti i voli nazionali ed internazionali civili, commerciali e militari, per poi procedere alla stampa e alla fatturazione dei costi di ogni passaggio aereo a ciascuna compagnia, società o autorità competente. I nastri con le registrazioni dei voli, decrittati e stampati, furono acquisiti dal giudice istruttore.
Radar russo. Nell'aprile del 1993 il generale Yuri Salimov, in forza ai servizi segreti russi, affermò di aver seguito i fatti di Ustica attraverso un radar russo basato in Libia che, con l'ausilio di un satellite, era in grado di monitorare il mar Tirreno meridionale.
Il traffico aereo. Diversi elementi portarono gli inquirenti ad indagare sull'eventuale presenza di altri aerei coinvolti nel disastro. Si determinarono con certezza alcuni punti:
In generale la zona sud del Tirreno era utilizzata per esercitazioni NATO.
Furono inoltre accertate in quel periodo penetrazioni dello spazio aereo italiano da parte di aerei militari libici. Tali azioni erano dovute alla necessità da parte dell'Aeronautica Militare Libica di trasferire i vari aerei da combattimento da e per la Jugoslavia, nelle cui basi veniva assicurata la manutenzione ai diversi MiG e Sukhoi di fabbricazione sovietica, presenti in gran quantità nell'aviazione del colonnello Gheddafi.
Il governo italiano, fortemente debitore verso il governo libico dal punto di vista economico (non si dimentichi che dal 1º dicembre 1976 addirittura la FIAT era parzialmente in mani libiche, con una quota azionaria del 13% detenuta dalla finanziaria libica LAFICO, tollerava tali attraversamenti e li mascherava con piani di volo autorizzati per non impensierire gli USA. Spesso gli aerei libici si mimetizzavano nella rete radar, disponendosi in coda al traffico aereo civile italiano, riuscendo così a non allertare le difese NATO.
Diverse testimonianze, inoltre, avevano descritto l'area come soggetta a improvvisa comparsa di traffico militare statunitense. Un traffico di tale intensità da far preoccupare piloti, civili e controllori: poche settimane prima della tragedia di Ustica, un volo Roma-Cagliari aveva deciso per sicurezza di tornare all'aeroporto di partenza; in altre occasioni i controllori di volo avevano contattato l'addetto aeronautico dell'ambasciata USA per segnalare la presenza di aerei pericolosamente vicini alle rotte civili. Più specificamente, durante la giornata del 27 giugno 1980 era segnata nei registri, dalle 10:30 alle 15:00, l'esercitazione aerea USA "Patricia", ed era poi in corso un'esercitazione italiana h. 24 (cioè della durata di ventiquattro ore) a Capo Teulada, segnalata nei NOTAM.
Durante quella sera, tra le ore 20:00 e le 24:00 locali, erano testimoniati diversi voli nell'area da parte di aerei militari non appartenenti all'aeronautica militare italiana: un quadrireattore E-3A Sentry (aereo AWACS o aereo radar), che volava da oltre due ore a 50 km da Grosseto in direzione nord ovest, un CT-39G Sabreliner, un jet executive militare e vari Lockheed P-3 Orion (pattugliatori marini) partiti dalla base di Sigonella, un Lockheed C-141 Starlifter (quadrireattore da trasporto strategico) in transito lungo la costa tirrenica, diretto a sud.
Inoltre, sembra che in quei giorni (ed anche quella sera) alcuni cacciabombardieri F-111 dell'USAF basati a Lakenheath (Suffolk, Gran Bretagna), si stessero trasferendo verso l'Egitto all'aeroporto di Cairo West, lungo una rotta che attraversava la penisola italiana in prossimità della costa tirrenica, con l'appoggio di aerei da trasporto strategico C-141 Starlifter. Gli aerei facevano parte di un ponte aereo in atto da diversi giorni, che aveva lo scopo di stringere una cooperazione con l'Egitto e ridurre la Libia, con la quale vigeva uno stato di crisi aperta sin dal 1973, a più miti consigli.
Intensa e insolita attività di volo fino a tarda sera era testimoniata anche dal generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo presso la base aerea di Solenzara, in Corsica, che ospitava vari stormi dell'Armée de l'air francesi: ciò smentiva i vertici militari francesi, i quali avevano affermato ai magistrati italiani di non aver svolto con la loro aeronautica militare alcuna attività di volo nel pomeriggio del 27 giugno 1980.
La sera della strage di Ustica, quattro aerei volavano con lo stesso codice di transponder. Il DC-9 Itavia aveva come codice il n. 1136 e altri tre velivoli, di cui uno sicuramente militare, erano dotati dello stesso numero di riconoscimento.
Dalla perizia tecnico-radaristica risulta che trenta aerei supersonici militari, difensori e attaccanti, sorvolarono la zona di Ustica nel pomeriggio e alla sera del 27 giugno 1980, dalle 17:30 alle 21:15, per 3 ore e 45 minuti. Gli aerei militari avevano tutti il transponder spento per evitare di essere identificati dai radar. Un'esercitazione d'aviazione di marina, come ha detto l'ammiraglio James H. Flatley, nella sua prima versione e che conferma la presenza di una portaerei che raccolse i propri aerei.
Intensa attività militare. Successivamente, all'inizio dell'agosto 1980, oltre a vari relitti furono ritrovati in mare anche due salvagenti e un casco di volo della marina americana; a settembre, presso Messina, si rinvennero frammenti di aerei bersaglio italiani, che sembrano però risalenti a esercitazioni terminate nel gennaio dello stesso anno. Questi dati evidenziano che nell'area tirrenica, in quel periodo del 1980, si svolgeva un'intensa attività militare. Inoltre, benché molti di questi fatti, se presi singolarmente, appaiano in relazione diretta con la caduta del DC-9, si è notata da alcuni la coincidenza temporale dell'allarme degli F-104 italiani su Firenze, al momento del passaggio del DC-9, dell'esistenza di tracce radar non programmate che transitano ad oltre 600 nodi in prossimità dell'aereo civile, della pluritestimonianza dell'inseguimento tra aerei da caccia sulla costa calabra e, infine, delle attività di ricerca, in una zona a 20 miglia ad est del punto di caduta, effettuate da velivoli non appartenenti al Soccorso aereo Italiano.
Due aerei militari italiani danno l'allarme. Due F-104 del 4º Stormo dell'aeronautica militare italiana, di ritorno da una missione di addestramento sull'aeroporto di Verona-Villafranca, mentre effettuavano l'avvicinamento alla base aerea di Grosseto si trovarono in prossimità del DC-9 Itavia. Uno era un F-104 monoposto, con un allievo ai comandi; l'altro, un TF 104 Gbiposto, ospitava due istruttori, i comandanti Mario Naldini e Ivo Nutarelli. Alle ore 20:24, all'altezza di Firenze-Peretola, il biposto con a bordo Naldini e Nutarelli, mentre era ancora in prossimità dell'aereo civile, emise un segnale di allarme generale alla Difesa Aerea (codice 73, che significa emergenza generale e non emergenza velivolo) e nella registrazione radar di Poggio Ballone «il SOS-SIF è [...] settato a 2, ovvero emergenza confermata, ed il blink è settato ad 1, ovvero accensione della spia di Alert sulle consolles degli operatori» – in linguaggio corrente: «il segnale di allarme-SIF (Selective Identification Feature, caratteristica di identificazione selezionabile) è posizionato su 2, ossia emergenza confermata, ed il lampeggìo è posizionato su 1, ossia accensione della spia di allarme sulla strumentazione degli operatori» – quindi risulta che Naldini e Nutarelli segnalarono un problema di sicurezza aerea e i controllori ottennero conferma della situazione di pericolo. I significati di tali codici, smentiti o sminuiti di importanza da esperti dell'aeronautica militare italiana ascoltati in qualità di testi, furono invece confermati in sede della Commissione ad hoc della NATO, da esperti dell'NPC (NATO Programming Centre), i quali difatti hanno affermato nel loro rapporto del 10 marzo 1997: « Varie volte è stato dichiarato lo stato di emergenza confermata relativa alla traccia LL464/LG403 sulla base del codice SIF1 73, che all'epoca del disastro veniva usato come indicazione di emergenza. La traccia ha attraversato la traiettoria del volo del DC-9 alle 18:26, ed è stata registrata per l'ultima volta nei pressi della base aerea di Grosseto alle 18:39». L'aereo ripeté per ben tre volte la procedura di allerta, a conferma inequivocabile dell'emergenza. Né l'aeronautica militare italiana né la NATO hanno mai chiarito le ragioni di quell'allarme.
Il MiG-23 precipitato in Calabria. Il 18 luglio 1980 la carcassa di un MiG-23MS dell'Aeronautica militare libica venne ritrovato sui monti della Sila in zona Timpa delle Magare, nell'attuale comune di Castelsilano, crotonese (allora in provincia di Catanzaro), in Calabria, dalla popolazione locale. Il Giudice Istruttore ipotizzò una correlazione del fatto con la caduta del DC-9 Itavia, in quanto furono depositate agli atti delle testimonianze di diversi militari in servizio in quel periodo, tra le quali quelle del caporale Filippo Di Benedetto e dei suoi commilitoni del battaglione "Sila", del 67º battaglione Bersaglieri "Persano" e del 244º battaglione fanteria "Cosenza", che affermavano di aver effettuato servizi di sorveglianza al MiG-23 non a luglio, bensì a fine giugno 1980, il periodo cioè della caduta del DC-9 Itavia. Si teorizzò quindi che il caccia libico non fosse caduto il giorno in cui fu dichiarato il ritrovamento dalle forze dell'ordine (cioè 18 luglio), ma molto prima, probabilmente la stessa sera della strage, e che quindi il velivolo fosse stato coinvolto, attivamente o passivamente, nelle circostanze che condussero alla caduta dell'aereo Itavia. I sottufficiali Nicola De Giosa e Giulio Linguanti dissero altresì che la fusoliera del MiG era sforacchiata «come se fosse stata mitragliata» da «sette od otto fori da 20 mm» simili a quelli causati da un cannoncino. La perizia eseguita nel corso dell'istruttoria del giudice Vittorio Bucarelli fece bensì emergere elementi che vennero interpretati come coerenti con la tesi che l'aereo fosse precipitato proprio il 18 luglio: dalle testimonianze dei Vigili del Fuoco e dai Carabinieri accorsi sul luogo dello schianto e dal primo esame del medico legale si evinse che il pilota era morto da poco; il paracadute nel quale era parzialmente avvolto era sporco di sangue e il cadavere (non ancora in rigor mortis) riportava ferite in cui era visibile del sangue che iniziava a coagularsi. In aggiunta fu riportato che dai rottami del MiG usciva il fumo di un principio di incendio (subito domato dai Vigili del Fuoco). Per contro tali affermazioni vennero confutate dal professor Zurlo, che in una lettera scritta con il dottor Rondanelli e inviata nel 1981 alla sede dell'Itavia affermò che il cadavere pilota del MiG era in avanzato stato di decomposizione, tale da suggerire una morte avvenuta almeno 20 giorni prima del 23 luglio. A gennaio 2016 un’inchiesta del canale televisivo francese Canal+ addebitò la responsabilità dell'abbattimento dell'aereo Itavia ad alcuni caccia francesi impegnati in un'operazione militare sul mar Tirreno: secondo la ricostruzione proposta, un velivolo estraneo si sarebbe nascosto ai radar volando sotto il DC-9, non riuscendo però ad evitare l'intercettazione da parte dei suddetti caccia francesi, che nel tentativo di attaccarlo avrebbero inizialmente colpito per errore l'I-TIGI. Il velivolo nascosto sarebbe poi comunque stato colpito e infine sarebbe precipitato in Calabria, venendo quindi identificato col MiG caduto a Timpa delle Magare. Le ipotesi del documentario vennero però presto confutate dai documenti di anni di indagini e perizie, come dalla sentenza-ordinanza del giudice Priore. Tra le testimonianze che datano la caduta del MiG al giorno stesso della strage di Ustica, il 27 giugno, si annovera quella dell'ex caporale Filippo Di Benedetto e alcuni suoi ex commilitoni; la tesi è sostenuta dal maresciallo Giulio Linguanti e dal giudice istruttore Rosario Priore, che a sua volta trovò una serie di testimoni che riferirono di aver visto il 27 giugno 1980 due caccia che ne inseguivano un terzo, sparando con il cannoncino, lungo una rotta che da Ustica andava su Lamezia e fino a Castelsilano.
La tesi della bomba. Il giorno dopo il disastro, alle 12:10, una telefonata al Corriere della Sera annunciò a nome dei Nuclei Armati Rivoluzionari, un gruppo terrorista neofascista, che l'aereo era stato fatto esplodere con una bomba da loro posta nella toilette, da uno dei passeggeri: tal Marco Affatigato (imbarcato sotto falso nome), membro dei NAR che - invece - era in quei mesi al servizio dell'intelligence francese e che, nel settembre dello stesso anno, rientrato in Italia, venne recluso nel carcere di Ferrara. Affatigato, però, sconfessò rapidamente la telefonata: per rassicurare la madre chiese alle Digos di Palermo e di Lucca di smentire la notizia della sua presenza a bordo dell'aereo precipitato. Circa un mese dopo ci fu la strage di Bologna. In entrambi i casi, Bologna era la città in cui avrebbero colpito i NAR ma per tutti e due i casi Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ai vertici del gruppo terrorista, smentirono un coinvolgimento dell'organizzazione negli eventi, come la smentì il colonnello Amos Spiazzi dopo aver conosciuto in carcere Marco Affatigato. Vi è quindi chi ipotizza un depistaggio nel depistaggio, ovvero che la strage di Bologna sia servita ad avvalorare la tesi della bomba dei NAR collocata all'interno dell'aereo.
La tesi della bomba avrebbe diviso anche i periti incaricati dal giudice Vittorio Bucarelli di analizzare i resti ripescati dal fondale marino: un primo momento li vide concordi all'unisono circa il missile; successivamente, due dei cinque tecnici avrebbero cambiato versione propendendo per la bomba. La bomba sarebbe stata collocata durante la sosta nell'aeroporto di Bologna, nella toilette posteriore dell'aereo. La perizia sulle suppellettili del gabinetto ritrovate ha confermato che erano intatte la tavoletta del water e il lavandino: inoltre secondo gli specialisti britannici del Dra di Halstead, nessuno dei pezzi della toilette, water e lavandino è scheggiato da residui di esplosivo. Inoltre il giudice osservò come fosse possibile collocare una bomba su un aereo partito con due ore di ritardo, avendo la certezza che sarebbe esplosa in volo, invece che a terra.
I dialoghi registrati.
Alle 20:58 di quella sera, nella registrazione di un dialogo tra due operatori radar a Marsala, seduti di fronte allo schermo radar, si sentì uno dei due esclamare: «[...] Sta' a vedere che quello mette la freccia e sorpassa!» e poco dopo anche «Quello ha fatto un salto da canguro!»
Alle 22:04 a Grosseto gli operatori radar non si accorsero che il contatto radio con Ciampino era rimasto aperto e che le loro voci venivano registrate. Nella registrazione si sente: «[...] Qui, poi... il governo, quando sono americani...»
e quindi: «Tu, poi... che cascasse...» e la risposta: «È esploso in volo!»
Alle 22:05, a Ciampino, gli operatori, parlando del radar di Siracusa, dissero: «[...] Stavano razzolando degli aerei americani... Io stavo pure ipotizzando una collisione in volo.» ed anche: «Sì, o...di un'esplosione in volo!»
I nastri telefonici e le testimonianze in aula. «Allora io chiamo l'ambasciata, chiedo dell'attaché... eh, senti, guarda: una delle cose più probabili è la collisione in volo con uno dei loro aerei, secondo me, quindi...» (27 giugno 1980, ore 22:39 locali. Dalla telefonata tra Ciampino e l'ambasciata USA). Nel 1991 gli inquirenti entrarono in possesso solo di una piccola parte dei nastri delle comunicazioni telefoniche fatte quella notte e la mattina seguente. La maggior parte di tali nastri è andata perduta, in quanto erano stati riutilizzati sovraincidendo le registrazioni. Dall'analisi dei dialoghi emerse che la prima ipotesi fatta dagli ufficiali dell'aeronautica militare italiana era stata la collisione e che in tal senso avevano intrapreso azioni di ricerca di informazioni, sia presso vari siti dell'aeronautica sia presso l'ambasciata USA a Roma. Più volte si parlava di aerei americani che "razzolano", di esercitazioni, di collisione ed esplosione, di come ottenere notizie certe al riguardo. Tutto il personale che partecipava alle telefonate venne identificato tramite riconoscimenti e incrocio di informazioni. Solo dopo il rinvenimento di quei nastri, si ammise per la prima volta di aver contattato l'ambasciata USA o di aver parlato di "traffico americano"; prima era sempre stato negato. Le spiegazioni fornite dagli interessati durante deposizioni e interrogatori contrastano comunque con il contenuto delle registrazioni o con precedenti deposizioni.
Udienza del 21 febbraio 2001: PM - «Furono fatte delle ipotesi sulla perdita del DC-9 in relazione alle quali era necessario contattare l'ambasciata americana?» Chiarotti - «Assolutamente no, per quello che mi riguardi [...] La telefonata fu fatta per chiedere se avessero qualche notizia di qualsiasi genere che interessasse il volo dell'Itavia, [...]».
Udienza del 7 febbraio 2001: capitano Grasselli - «Normalmente chiamavamo l'ambasciata americana per conoscere che fine avevano fatto dei loro aerei di cui perdevamo il contatto. Non penso però che quella sera la telefonata all'ambasciata americana fu fatta per sapere se si erano persi un aereo. Ho ritenuto la telefonata un'iniziativa goliardica in quanto tra i compiti del supervisore non c'è quello di chiamare l'ambasciata [...]».
Deposizione del 31 gennaio 1992 del colonnello Guidi: - «Ho un ricordo labilissimo anzi inesistente di quella serata. Nessuno in sala operativa parlava di traffico americano, che io ricordi. [...] pensando che l'aeromobile avesse tentato un ammaraggio di fortuna, cercavamo l'aiuto degli americani per ricercare e salvare i superstiti». Una volta fatta ascoltare in aula la telefonata all'ambasciata, Guidi affermò di non riconoscere la propria voce nella registrazione e ribadì che non ricordava la telefonata. Nel 1991 affermava: «Quella sera non si fece l'ipotesi della collisione» e ancora «Non mi risulta che qualcuno mi abbia parlato d'intenso traffico militare [...]. Se fossi stato informato di una circostanza come quella dell'intenso traffico militare, avrei dovuto informare nella linea operativa l'ITAV, nella persona del capo del II Reparto, ovvero: Fiorito De Falco». Nel nastro di una telefonata delle 22:23 Guidi informò espressamente il suo diretto superiore, colonnello Fiorito De Falco, sia del traffico americano, sia di un'ipotesi di collisione, sia del contatto che si cercava di stabilire con le forze USA. Ma nella deposizione dell'ottobre 1991, anche il generale Fiorito De Falco affermava: «[...] Guidi non mi riferì di un intenso traffico militare».
Le morti sospette secondo l'inchiesta Priore. «La maggior parte dei decessi che molti hanno definito sospetti, di sospetto non hanno alcunché. Nei casi che restano si dovrà approfondire [...] giacché appare sufficientemente certo che coloro che sono morti erano a conoscenza di qualcosa che non è stato mai ufficialmente rivelato e da questo peso sono rimasti schiacciati.» (Ordinanza-sentenza Priore, capo 4, pag. 4674).
Per due dei 12 casi di decessi sospetti permangono indizi di relazione al caso Ustica:
maresciallo Mario Alberto Dettori: trovato impiccato il 31 marzo 1987, in un modo definito dalla Polizia Scientifica innaturale, presso Grosseto. Mesi prima, preoccupato, aveva rovistato tutta la casa alla ricerca di presunte microspie. Vi sono indizi che fosse in servizio la sera del disastro presso il radar di Poggio Ballone (GR) e che avesse in seguito sofferto di «manie di persecuzione» relativamente a tali eventi. Confidò alla moglie: «Sono molto scosso... Qui è successo un casino... Qui vanno tutti in galera!». Dettori confidò con tono concitato alla cognata che «eravamo stati a un passo dalla guerra». Tre giorni dopo telefonò al capitano Mario Ciancarella e disse: «Siamo stati noi a tirarlo giù, capitano, siamo stati noi [...]. Ho paura, capitano, non posso dirle altro al telefono. Qui ci fanno la pelle». Il giudice Priore conclude: «Sui singoli fatti come sulla loro concatenazione non si raggiunge però il grado della prova».
maresciallo Franco Parisi: trovato impiccato il 21 dicembre 1995, era di turno la mattina del 18 luglio 1980, data del ritrovamento del MiG libico sulla Sila. Proprio riguardo alla vicenda del MiG erano emerse durante il suo primo esame testimoniale palesi contraddizioni; citato a ricomparire in tribunale, muore pochi giorni dopo aver ricevuto la convocazione. Non si riesce a stabilire se si tratti di omicidio.
Gli altri casi presi in esame dall'inchiesta, sono:
colonnello Pierangelo Tedoldi: incidente stradale il 3 agosto 1980; avrebbe in seguito assunto il comando dell'aeroporto di Grosseto.
capitano Maurizio Gari: infarto, 9 maggio 1981; capo controllore di sala operativa della Difesa Aerea presso il 21º CRAM (Centro Radar Aeronautica Militare Italiana) di Poggio Ballone, era in servizio la sera della strage. Dalle registrazioni telefoniche si evince un particolare interessamento del capitano per la questione del DC-9 e la sua testimonianza sarebbe stata certo «di grande utilità all'inchiesta», visto il ruolo ricoperto dalla sala sotto il suo comando, nella quale, peraltro, era molto probabilmente in servizio il maresciallo Dettori. La morte appare naturale, nonostante la giovane età.
Giovanni Battista Finetti, sindaco di Grosseto: incidente stradale; 23 gennaio 1983. Era opinione corrente che avesse informazioni su fatti avvenuti la sera dell'incidente del DC-9 all'aeroporto di Grosseto. L'incidente in cui perde la vita, peraltro, appare casuale.
maresciallo Ugo Zammarelli: incidente stradale; 12 agosto 1988. Era stato in servizio presso il SIOS di Cagliari, tuttavia non si sa se fosse a conoscenza d'informazioni riguardanti la strage di Ustica, o la caduta del MiG libico.
colonnelli Mario Naldini e Ivo Nutarelli: incidente di Ramstein, 28 agosto 1988. In servizio presso l'aeroporto di Grosseto all'epoca dei fatti, la sera del 27 giugno, come già accennato, erano in volo su uno degli F-104 e lanciarono l'allarme di emergenza generale. La loro testimonianza sarebbe stata utile anche in relazione agli interrogatori del loro allievo, in volo quella sera sull'altro F-104, durante i quali, secondo l'istruttoria, è «apparso sempre terrorizzato». Sempre secondo l'istruttoria, appare sproporzionato - tuttavia non inverosimile - organizzare un simile incidente, con esito incerto, per eliminare quei due importanti testimoni.
maresciallo Antonio Muzio: omicidio, 1º febbraio 1991; in servizio alla torre di controllo dell'aeroporto di Lamezia Terme nel 1980, poteva forse essere venuto a conoscenza di notizie riguardanti il MiG libico, ma non ci sono certezze.
tenente colonnello Sandro Marcucci: incidente aereo; 2 febbraio 1992. Marcucci era un ex pilota dell'Aeronautica militare coinvolto come testimone nell'inchiesta per la strage di Ustica. L'incidente fu archiviato motivando l'errore del pilota. Tuttavia, nel 2013 il pm di Massa Carrara, Vito Bertoni, riaprì l'inchiesta contro ignoti per l'accusa di omicidio. L'associazione antimafia “Rita Atria” denunciò che l'incidente non fu causato da una condotta di volo azzardata, come sostennero i tecnici della commissione di inchiesta, ma probabilmente da una bomba al fosforo piazzata nel cruscotto dell'aereo.
maresciallo Antonio Pagliara: incidente stradale; 2 febbraio 1992. In servizio come controllore della Difesa Aerea presso il 32º CRAM di Otranto, dove avrebbe potuto avere informazioni sull'abbattimento del MiG. Le indagini propendono per la casualità dell'incidente.
generale Roberto Boemio: omicidio; 12 gennaio 1993 a Bruxelles. Da sue precedenti dichiarazioni durante l'inchiesta, appare chiaro che «la sua testimonianza sarebbe stata di grande utilità», sia per determinare gli eventi inerenti al DC-9, sia per quelli del MiG libico. La magistratura belga non ha risolto il caso.
maggiore medico Gian Paolo Totaro: trovato impiccato alla porta del bagno, il 2 novembre 1994. Gian Paolo Totaro era in contatto con molti militari collegati agli eventi di Ustica, tra i quali Nutarelli e Naldini.
Il rinvio a giudizio. Alla luce di queste anomalie inspiegate e delle risposte, da parte del personale dei due siti radar di Marsala e Licola, ritenute insoddisfacenti, il 28 giugno 1989il giudice Bucarelli accolse la richiesta del procuratore Santacroce e rinviò a giudizio per falsa testimonianza aggravata e concorso in favoreggiamento personale aggravato, ventitré tra ufficiali e avieri in servizio il giorno del disastro. L'ipotesi accusatoria fu che i militari, con una vasta operazione di occultamento delle prove e di depistaggio, avrebbero tentato di nascondere una battaglia tra aerei militari, nel corso della quale il DC-9 sarebbe precipitato.
Telefonata anonima a Telefono Giallo. Nel 1988, l'anno prima, durante la trasmissione Telefono giallo di Corrado Augias, con una telefonata anonima qualcuno aveva dichiarato di essere stato «un aviere in servizio a Marsala la sera dell'evento della sciagura del DC-9». L'anonimo aveva riferito che i presenti come lui, avrebbero esaminato le tracce, i dieci minuti di trasmissione di cui parlavano nella puntata, dichiarando: «noi li abbiamo visti perfettamente. Soltanto che il giorno dopo, il maresciallo responsabile del servizio ci disse praticamente di farci gli affari nostri e di non avere più seguito in quella vicenda. [...] la verità è questa: ci fu ordinato di starci zitti».
Scontro aereo tra caccia. In un articolo dal titolo Battaglia aerea poi la tragedia, pubblicato dal quotidiano L'Ora il 12 febbraio 1992, il giornalista Nino Tilotta affermò che l'autore della telefonata sarebbe stato in effetti in servizio allo SHAPE di Mons, in Belgio, e che avrebbe detto in trasmissione di essere a Marsala per non farsi riconoscere. Avrebbe rivelato la sua identità rilasciando l'intervista anni dopo essere andato in pensione in quanto, come aveva affermato, non si sentiva più vincolato dall'obbligo di mantenere il segreto militare. L'articolo parlava di uno scontro aereo avvenuto tra due caccia F-14 Tomcat della US Navy ed un MiG-23 libico. Secondo questa versione, il SISMI all'epoca comandato dal generale Giuseppe Santovito avrebbe avvertito gli aviatori libici di un progetto di attaccare sul mar Tirreno l'aereo nel quale Gheddafi andava in Unione Sovietica. Sembra che i progettisti di questa azione di guerra siano da ricercare tra quelli indicati dall'ammiraglio Martini, e cioè tra francesi e americani. In seguito alla spiata del SISMI, l'aereo che trasportava Gheddafi, arrivato su Malta, tornò indietro, mentre altri aerei libici proseguivano la rotta.
Testimonianze americane. Ventiquattr'ore dopo il disastro del DC-9, l'addetto militare aeronautico americano Joe Bianckino, dell'ambasciata americana a Roma, organizzò una squadra di esperti, formata da William McBride, Dick Coe, William McDonald, dal direttore della CIA a Roma, Duane Clarridge, dal colonnello Zeno Tascio, responsabile del SIOS (servizio segreto aeronautica militare italiana) insieme a due ufficiali italiani. Il giorno successivo alla strage Joe Bianckino era già in possesso dei tabulati radar e i suoi esperti li avevano sottoposti ad analisi. John Tresue, esperto missilistico del Pentagono, affermò, durante il suo interrogatorio come testimone, che gli furono consegnate dopo la sciagura, diverse cartelle con i tabulati dei radar militari; John Tresue informò il Pentagono, che ad abbattere il DC-9 era stato un missile. Il 25 novembre 1980, John Macidull, un esperto americano del National Transportation Safety Board, analizzò il tracciato radar dell'aeroporto di Fiumicino e si convinse che, al momento del disastro, accanto al DC-9 volava un altro aereo. Macidull disse che il DC-9 era stato colpito da un missile lanciato dal velivolo che era stato rilevato nelle vicinanze, velivolo non identificato in quanto aveva volontariamente spento il dispositivo di riconoscimento (transponder). Tale aereo, secondo Macidull, attraversava la zona dell'incidente da Ovest verso Est ad alta velocità, tra 300 e 550 nodi, nello stesso momento in cui si verificava l'incidente al DC-9, ma senza entrare in collisione.
Testimonianze libiche. Nel 1989 l'agenzia di stampa libica Jana preannunciò la costituzione di un comitato supremo d'inchiesta sulla strage di Ustica: «Tale decisione è stata presa dopo che si è intuito che si è trattato di un brutale crimine commesso dagli USA, che hanno lanciato un missile contro l'aereo civile italiano, scambiato per un aereo libico a bordo del quale viaggiava il leader della rivoluzione.
La firma falsa del presidente della Repubblica. Mario Ciancarella, ex capitano che indagava sull'incidente aereo, venne cacciato dall’Aeronautica con decreto del Quirinale nel 1983. Tuttavia il decreto non era stato firmato veramente dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma da un soggetto esterno che ha falsificato la sua firma. In seguito a questa scoperta, è stato richiesto il reintegro del capitano Mario Ciancarella al ministro della difesa Roberta Pinotti.
Il processo della strage di Ustica. Il processo sulle cause e sugli autori della strage in realtà non si è mai tenuto in quanto l'istruttoria relativa definì "ignoti gli autori della strage" e concluse con un non luogo a procedere nel 1999. (ref. "L'istruttoria Priore") Il reato di strage non cade comunque in prescrizione per cui, se dovessero emergere nuovi elementi relativi, un eventuale processo potrebbe essere ancora condotto. Il processo complementare sui fatti di Ustica, per la parte riguardante i reati di depistaggio, imputati a carico di alti ufficiali dell'aeronautica militare italiana, è stato invece definitivamente concluso in Cassazione nel gennaio del 2007, con una sentenza che ha negato si siano verificati depistaggi.
L'istruttoria Priore. Le indagini si conclusero il 31 agosto 1999, con l'ordinanza di rinvio a giudizio-sentenza istruttoria di proscioglimento, rispettivamente, nei procedimenti penali nº 527/84 e nº 266/90, un documento di dimensioni notevoli che, dopo anni di indagini, la quasi totale ricostruzione del relitto, notevole impiego di fondi, uomini e mezzi, escluse le ipotesi di una bomba a bordo e di un cedimento strutturale, circoscrivendo di conseguenza le cause della sciagura ad un evento esterno al DC-9. Non si giunse però a determinare un quadro certo ed univoco di tale evento esterno. Mancano tuttora, del resto, elementi per individuare i responsabili. «L'inchiesta», si legge nel documento, «è stata ostacolata da reticenze e false testimonianze, sia nell'ambito dell'aeronautica militare italiana che della NATO, le quali hanno avuto l'effetto di inquinare o nascondere informazioni su quanto accaduto». L'ordinanza-sentenza concludeva: «L'incidente al DC-9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il DC-9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti.»
Il processo in Corte di Assise sui presunti depistaggi. Il 28 settembre 2000, nell'aula-bunker di Rebibbia appositamente attrezzata, iniziò il processo sui presunti depistaggi, davanti alla terza sezione della Corte di Assise di Roma. Dopo 272 udienze e dopo aver ascoltato migliaia tra testimoni, consulenti e periti, il 30 aprile 2004, la corte assolse dall'imputazione di alto tradimento - per aver gli imputati turbato (e non impedito) le funzioni di governo - i generali Corrado Melillo e Zeno Tascio "per non aver commesso il fatto". I generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri furono invece ritenuti colpevoli ma, essendo ormai passati più di 15 anni, il reato era già caduto in prescrizione. Anche per molte imputazioni relative ad altri militari dell'Aeronautica Militare Italiana (falsa testimonianza, favoreggiamento, e così via) fu accertata l'intervenuta prescrizione. Il reato di abuso d'ufficio, invece, non sussisteva più per successive modifiche alla legge. La sentenza non risultò soddisfacente né per gli imputati Bartolucci e Ferri, né per la Procura, né infine per le parti civili. Tutti, infatti, presentarono ricorso in appello.
Il processo in Corte di Assise d'Appello, sui depistaggi. Anche il processo davanti alla Corte di Assise d'Appello di Roma, aperto il 3 novembre 2005, si è chiuso il successivo 15 dicembre con l'assoluzione dei generali Bartolucci e Ferri dalla imputazione loro ascritta perché il fatto non sussiste. La Corte rilevava infatti che non vi erano prove a sostegno dell'accusa di alto tradimento. Le analisi condotte nella perizia radaristica Dalle Mese, sono state eseguite con «sistemi del tutto nuovi e sconosciuti nel periodo giugno-dicembre 1980» e pertanto non possono essere prese in considerazione per giudicare di quali informazioni disponessero, all'epoca dei fatti, gli imputati. In ogni caso la presenza di altri aerei deducibile dai tracciati radar non raggiunge in alcuna analisi il valore di certezza e quindi di prova. Non vi è poi prova che gli imputati abbiano ricevuto notizia della presenza di aerei sconosciuti o USA collegabili alla caduta del DC-9.
Il ricorso in Cassazione (procedimento penale). La Procura generale di Roma propose ricorso per cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza della Corte d'Appello del 15 dicembre 2005, e come effetto dichiarare che «il fatto contestato non è più previsto dalla legge come reato» anziché «perché il fatto non sussiste». La legge inerente all'alto tradimento venne infatti modificata con decreto riguardante i reati d'opinione l'anno successivo. Il 10 gennaio 2007 la prima sezione penale della Cassazione ha assolto con formula piena i generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri dichiarando inammissibile il ricorso della Procura generale e rigettando anche il ricorso presentato dal governo italiano.
Le dichiarazioni di Cossiga: ipotesi francese e nuova inchiesta. A ventotto anni dalla strage, la procura di Roma ha deciso di riaprire una nuova inchiesta a seguito delle dichiarazioni rilasciate nel febbraio 2007 da Francesco Cossiga. L'ex presidente della Repubblica, presidente del Consiglio all'epoca della strage, ha dichiarato che ad abbattere il DC-9 sarebbe stato un missile «a risonanza e non a impatto», lanciato da un velivolo dell'Aéronavale decollato dalla portaerei Clemenceau, e che furono i servizi segreti italiani ad informare lui e l'allora ministro dell'Interno Giuliano Amato dell'accaduto. In relazione a ciò, il giudice Priore dichiarò in un'intervista all'emittente francese France 2 che l'ipotesi più accreditata era che ci fosse un elemento militare francese.
Perizie d'ufficio e consulenze tecniche di parte. Volendo fare una breve sintesi dell'enorme numero di perizie d'ufficio e consulenze di parte, oltre un centinaio al termine del 31 dicembre 1997, possiamo ricordare: perizie tecnico-scientifiche: necroscopiche, medico-legali, chimiche, foniche, acustiche, di trascrizione, grafiche, metallografico-frattografiche, esplosivistiche, che non sono mai state contestate da alcuna parte.
Sono state essenzialmente quattro:
Stassi, Albano, Magazzù, La Franca, Cantoro, riguardanti le autopsie dei cadaveri ritrovati, durata anni, non s'è mai pienamente conclusa;
Blasi, riguardante il missile militare che ha colpito l'aereo civile, durata molti anni, è sfociata in spaccature profondissime e mai risolte;
Misiti, riguardante l'ipotesi bomba, durata più anni, è stata rigettata dal magistrato perché affetta da tali e tanti vizi di carattere logico, da molteplici contraddizioni e distorsioni del materiale probatorio da renderlo inutilizzabile ai fini della ricostruzione della verità;
Casarosa, Dalle Mese, Held, concernente la caduta del MiG-23.
Perizie d'ordine generale ovvero quelle con quesiti sulla ricostruzione dei fatti e sulle loro cause, che sono state sottoposte a critiche, contestazioni ed accuse:
radaristiche che hanno determinato documenti di parte critici e contrastati, in particolare l'interpretazione dei dati radar ovvero l'assenza o la presenza di altri velivoli all'intorno temporale e spaziale del disastro;
esplosivistica, dalle cui sperimentazioni sono state tratte deduzioni di parte a volte non coincidenti.
Le dichiarazioni di Giorgio Napolitano. L'8 maggio 2010, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo, ha chiesto la verità sulla strage di Ustica. Poco prima Fortuna Piricò, vedova di una delle vittime della strage, aveva chiesto di «completare la verità giudiziaria che ha parlato di una guerra non dichiarata, di completarla definendo le responsabilità». Una richiesta che Napolitano ha appoggiato: «Comprendo il tenace invocare di ogni sforzo possibile per giungere ad una veritiera ricostruzione di quel che avvenne quella notte». Intorno a quella strage, Napolitano ha visto «anche forse intrighi internazionali, [...] opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato». Poco tempo dopo, il 26 giugno 2010, in occasione del trentennale del disastro, il Presidente ha inviato un messaggio di cordoglio ai parenti delle vittime: «Il dolore ancora vivo per le vittime si unisce all'amara constatazione che le indagini svolte e i processi sin qui celebrati non hanno consentito di fare luce sulla dinamica del drammatico evento e di individuarne i responsabili... Occorre il contributo di tutte le istituzioni a un ulteriore sforzo per pervenire a una ricostruzione esauriente e veritiera di quanto accaduto, che rimuova le ambiguità e dipani le ombre e i dubbi accumulati in questi anni.». Anche in occasione del trentunesimo anniversario della strage, il 27 giugno 2011, il presidente Napolitano ha lanciato un appello perché si compia ogni sforzo, anche internazionale, per dare risposte risolutive.
Il Memorandum e le intercettazioni di Massimo Carminati. Il 2 settembre 2014, sono stati rivelati gli appunti segreti, le informative e i carteggi segreti del Ministero degli Affari Esteri, contenuti nel Memorandum che ha per oggetto la strage di Ustica in relazione alle questioni informative aperte con gli Stati Uniti. Sempre nel 2014, stando ad alcune intercettazioni emerse durante le indagini sulla cosiddetta Mafia Capitale uno dei boss della cupola mafiosa, Massimo Carminati, conversando con un suo collaboratore avrebbe affermato che «la responsabilità di Ustica era degli Stati Uniti».
Condanna in sede civile dei ministeri dell'interno e dei trasporti. Il 10 settembre 2011, dopo tre anni di dibattimento, una sentenza emessa dal giudice civile Paola Proto Pisani, ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti al pagamento di oltre 100 milioni di euro in favore di 42 (quarantadue) familiari delle vittime della Strage di Ustica. Alla luce delle informazioni raccolte durante il processo, i due ministeri sono stati condannati per non aver agito correttamente al fine di prevenire il disastro, non garantendo che il cielo di Ustica fosse controllato a sufficienza dai radar italiani, militari e civili (alché non fu garantita la sicurezza del volo e dei suoi occupanti), e per aver successivamente ostacolato l'accertamento dei fatti. Le conclusioni del giudice di Palermo escludono che una bomba fosse esplosa a bordo del DC-9, affermando bensì che l'aereo civile fosse stato abbattuto durante una vera e propria azione di guerra, dipanatasi senza che nessuno degli enti controllori preposti intervenisse. La sentenza individuò inoltre responsabilità e complicità di soggetti dell'Aeronautica Militare Italiana nel perpetrare atti illegali finalizzati a impedire l'accertamento della corretta dinamica dei fatti che condussero alla strage. Il 28 gennaio 2013 la Corte di Cassazione, nel respingere i ricorsi dell'avvocatura dello Stato ha confermato la precedente condanna, condividendo che il DC-9 Itavia fosse caduto non per un'esplosione interna, bensì a causa di un missile o di una collisione con un aereo militare, essendosi trovato nel mezzo di una vera e propria azione di guerra. I competenti ministeri furono dunque condannati a risarcire i familiari delle 81 vittime per non aver garantito, con sufficienti controlli dei radar civili e militari, la sicurezza dei cieli. La sentenza fu accolta favorevolmente dall'associazione dei familiari delle vittime. Il 30 giugno 2017 un ulteriore ricorso dell'avvocatura dello Stato è stato rigettato dalla Corte d'Appello di Palermo, che ha nuovamente additato a causa dell'incidente un atto ostile perpetrato da un aereo militare straniero.
Risarcimento danni all'Itavia e ai suoi dipendenti. Aldo Davanzali, anche se formalmente non per motivi direttamente correlati alla sciagura, perse la compagnia aerea Itavia, che cessò di volare e fu posta in amministrazione controllata nel 1980, con i conti in rosso, previa revoca della licenza di operatore aereo: un migliaio di dipendenti restarono senza lavoro. Probabilmente anche l'errata conclusione peritale in merito ai motivi del disastro influì sulla decisione di chiudere la società. Lo stesso Davanzali chiese allo Stato un risarcimento di 1 700 miliardi di lire per i danni morali e patrimoniali subìti a seguito della strage di Ustica, nell'aprile 2001. All'Itavia saranno infine corrisposti 108 milioni di euro, a risarcimento delle deficienze dello Stato nel garantire la sicurezza dell'aerovia su cui volava il DC-9.
Risarcimento recupero carcassa del DC-9. La Corte dei Conti richiese un risarcimento di 27 miliardi di lire a militari e personaggi coinvolti, come compenso per il recupero della carcassa del DC9.
Risarcimento vittime. La Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2013, ha riconosciuto un risarcimento di 1,2 milioni di euro ai familiari di quattro vittime della strage di Ustica. Il giudice di Palermo, il 9 ottobre 2014, ha condannato il ministero della Difesa e il ministero dei Trasporti, a rimborsare le spese di giudizio e a risarcire con 5 637 199 euro, 14 familiari o eredi, di Annino Molteni, Erica Dora Mazzel, Rita Giovanna Mazzel, Maria Vincenza Calderone, Alessandra Parisi e Elvira De Lisi morti nella tragedia aerea di Ustica.
Ustica, sul Dc9 abbattuto la summa dei depistaggi, simbolo delle stragi italiane. Si sa tutta la verità sull'abbattimento dell'aereo Itavia in quel giugno 1980? Scrive Beppe Crespolini l'1 luglio 2017 su "Bergamo news". Le stragi ed alcuni fatti gravissimi accaduti in Italia, alludo, ad esempio, all’omicidio Moro, alle stragi di Bologna e di Brescia, sono soggetti a depistaggi e a inquinamenti di prove che allontanano la verità e lasciano in testa il dubbio che non tutto sia stato detto per coprire personaggi, istituzioni e azioni di paesi ai quali in quei giorni ed ancora oggi, non si vogliono attribuire, per convenienze politiche e strategiche, responsabilità. Connivenze di servizi segreti, di politici e interessi che volano molto al di sopra delle teste dei cittadini comuni rappresentano quella ragion di stato che piange davanti alle telecamere dopo aver condiviso la responsabilità dei morti con altre realtà e aver architettato sordide coperture agli autori dei misfatti. Vien da chiedersi se l’etica abbia mai sfiorato coloro che siedono nelle famigerate “stanze dei bottoni” o se la ragione di stato autorizzi il sacrificio di molte persone o di un solo cittadino per compiacere alleati ritenuti utili in un’ottica che a noi non è dato di comprendere. In questi giorni ricorre un nuovo triste anniversario il cui racconto sintetizzo per ragioni di cronaca, perché non venga dimenticato il dolore inflitto alle famiglie delle 81 persone che hanno perso la vita in quel lontano 27 giugno del 1980. Sono le ore 20,08 del 27 giugno 1980. Il DC9 I-TIGI della compagnia aerea Itavia scompare dall’aerovia Ambra 13. Dopo l’ultimo contatto radio, avvenuto alle 20,59 con Roma e la successiva autorizzazione ad iniziare la discesa verso Palermo, l’aereomobile non dà più segnali. I tentativi di comunicare con il comandante sono vani. Anche due aerei di Air Malta, il KM 153 e il KM 758 che seguono la stessa rotta, tentano di mettersi in contatto con il volo Itavia I-TIGI. Nessuna risposta. Alle 21,56 si alza in volo il primo elicottero Sikorski per cercare il velivolo scomparso. Nessuna traccia viene trovata. L’aeromobile è dato per disperso e solo alle prime luci dell’alba si individua l’area di mare nel quale l’aereo, o quello che resta di lui, si è inabissato. Degli 83 passeggeri, dei quali 13 bambini, ne vengono ripescati solo 38. E qui inizia la ridda delle ipotesi e delle certezze alle quali seguono regolari smentite che indicano nel cedimento strutturale del velivolo prima, e nello scoppio di un ordigno a bordo successivamente, le cause del disastro. Una figura di spicco, anche in questo caso, così come nel caso Moro, sostiene tesi che poi verranno tutte cancellate mano a mano che le indagini proseguono: Francesco Cossiga. Anche Giovanardi fu sospettato di voler mettere a tacere “l’incidente” obbedendo, probabilmente, a qualche ordine impartito da ambienti ai quali non si può che dire sì. Furono investiti più di 300 miliardi di lire in indagini e ricuperi dal mare delle parti dell’aereo e continuarono per molto tempo a sovrapporsi tesi diverse, fino a che non si arrivò ad una prima ammissione di responsabilità che attribuiva la causa del disastro ad un missile sganciato da aerei francesi di stanza in Corsica. Ma anche questa ipotesi perse di credibilità fino a che si arrivò, con estrema difficoltà, ad ammettere che l’aereo di Itavia fu abbattuto da un caccia americano durante la battaglia con un Mig libico che viaggiava sotto la pancia del DC9, nel tentativo di far rientro alla base senza che nessuno lo individuasse. Il MIG libico fu abbattuto lo stesso giorno della scomparsa dai radar del DC9 Itavia, ma non fu il MIG a causarne la distruzione, bensì uno dei due caccia americani che ingaggiò il combattimento con l’aereo libico che stava rientrando alla base dopo la manutenzione effettuata in Iugoslavia. La tesi che ormai si dà per certa è che nell’inseguimento del MIG, il caccia predator americano sia entrato in collisione con il DC9 Itavia. Pare che i nostri servizi segreti fossero tacitamente consenzienti al passaggio sul nostro territorio del MIG nel viaggio di rientro alla base. Ma anche la data dell’abbattimento del Mig, in un primo momento, fu spostata, in modo tale da non mettere in relazione i due avvenimenti. Come sempre accade in presenza di fatti di gravità assoluta, si verificarono alcuni suicidi e morti “casuali” in incidenti stradali e per infarto tra i testimoni più vicini alla verità, durante lo svolgimento delle indagini. Negli scorsi mesi è uscita una pellicola che, personalmente, ritengo molto ben realizzata e rispettosa dello svolgimento dei fatti, per quanto sia consentito ad un film. Il titolo è Ustica, per la regia di Sergio Martinelli, regista lombardo specializzato proprio nella ricerca della verità sulle cause e sulle responsabilità di persone o “entità” che hanno provocato eventi tristissimi nella nostra Repubblica. Si può ancora parlare di Repubblica quando il destino di una nazione come la nostra è talmente condizionato da parentele con realtà extra-nazionali delle quali si tutelano gli interessi? Il prezzo da pagare è il depistaggio dei fatti e la creazione di barriere che devono impedire, nella mente di chi le crea, di arrivare a capo delle responsabilità se non in tempi biblici, con difficoltà enormi e con ulteriori sacrifici di vite umane. Così, ai morti di Ustica vanno aggiunte altre vittime, vale a dire, quelle persone che, per loro sfortuna, erano in possesso della verità, ragion per cui sono state “suicidate”, nel timore che riferissero i fatti così come si erano svolti. Le logiche politiche, talora, prescindono dalla vita e dalla morte della gente. Ci sono ancora tanti casi di disastri e di stragi aperti nella nostra nazione ma temo, ahimé, che difficilmente la verità, questa grande premessa etica della vita di tutti noi, potrà venire a galla nella sua cruda e nuda essenza. L’ affermazione della verità, dovere morale di qualsiasi essere umano degno di tale nome, porterebbe a galla responsabilità di persone e di istituzioni che negandola, si sono qualificati come schiavi al servizio della menzogna, per favorire stati amici o istituzioni indegne. Quando si compiono azioni criminali, immorali e irrispettose della dignità dei cittadini e della loro sicurezza, sarebbe auspicabile che le prove venissero immediatamente prodotte. Questo eviterebbe annosi processi e dispendio di milioni di euro o di lire, moneta di quel tempo, che avrebbero potuto essere destinati al benessere della gente. Ma da noi, le verità sono tante e si confondono, perché ognuno di coloro che le professa, per amore del proprio tornaconto o per imposizione di qualche entità più forte, si rende disponibile ad assecondare con servilismo le coperture depistanti. I modi per essere ringraziati sono molti e non sempre fatti di denaro. La garanzia della conquista del potere o del suo mantenimento è più gratificante di valige di denari, colorati di rosso, quel rosso sangue che campeggia anche nella nostra bandiera.
Ustica, la contro indagine: "il testimone fu eliminato con un sabotaggio". L'incidente delle Frecce tricolore dove perse la vita un testimone della vicenda di Ustica secondo i familiari non sarebbe stato un incidente, scrive Alessandro Raffa Esperto di Cronaca su "it.blastingnews.com" e curato da Pierluigi Crivelli il 4 luglio 2017. Sono trascorsi più di 37 anni dal quel tragico 27 Giugno 1980 in cui avvenne la strage di Ustica, tuttavia diversi aspetti della vicenda non sono stati ancora chiariti, e negli anni si sono moltiplicate le voci di quanti pensano ad un coinvolgimento dei servizi segreti. Diversi casi di suicidio accaduti a personaggi legati alla vicenda a vario titolo hanno fatto ipotizzare negli anni che in alcuni casi si potesse trattare di omicidi mascherati da suicidio, e secondo quanto sostengono i familiari di un pilota morto in seguito all'incidente di Ramstein, persino la strage in oggetto non sarebbe frutto del caso, ma della necessità di eliminare un testimone scomodo.
L'incidente di Ramstein. Con questo nome viene ricordato l'incidente aereo accaduto nell'Agosto 1988 durante un'esibizione delle "frecce tricolore" presso la base Nato di Ramstein, in Germania. Secondo la versione ufficiale un errore del pilota Ivo Nutarelli provocò un incidente che coinvolse tre aerei, due dei quali precipitarono in fiamme sulla pista, mentre un terzo cadde sulla folla, provocando 67 morti e oltre 300 feriti. A distanza di 29 anni una contro indagine della famiglia di Nutarelli sostiene però che non si sia trattato di un normale incidente, ma che questo sia stato frutto di un sabotaggio. E mediante un avvocato chiedono di riaprire il caso, almeno per riabilitare la posizione del pilota incolpato di essere il responsabile dell'errore umano che portò alla tragedia.
Nutarelli era un testimone di Ustica. La sera della strage di #ustica il pilota Nutarelli insieme al collega Naldini si erano alzati in volo dalla base di Grosseto e avevano volato sulla scia del Dc 9 Itavia della strage, fino a 10 minuti prima che questo cadesse nelle acque di Ustica. Durante il volo dagli aerei dei due piloti partirono due segnali di allarme, che avrebbero dato secondo quanto ricostruito in seguito dopo aver visto altri aerei da combattimento volare negli spazi destinati ai voli civili. Secondo alcuni si sarebbe trattato di un velivolo libico, mentre secondo altri sarebbero stati aerei da guerra statunitensi o francesi. Quanto i due piloti avevano visto nei cieli lo riferirono al Colonnello Tedoldi, che alcune settimane dopo però perse la vita mentre viaggiava in automobile con la moglie ed i figli.
La contro inchiesta. Secondo l'avvocato Osnato, che segue la vicenda di Ustica per conto dei familiari delle vittime, Nutarelli ed il collega Naldini erano certamente al corrente di molteplici fatti riguardanti la strage di Ustica, cosa che trova riscontro anche nelle carte dei titolari dell'inchiesta, tuttavia il loro nome e la volontà di sentirli arrivano nell'aula del tribunale solo ad otto anni di distanza dai fatti, quando i due sono morti. Di quel volo purtroppo mancano le conversazioni radio tra i due velivoli e la base, in quanto trattandosi di un'esercitazione non erano previste conversazioni. La morte per i due piloti è arrivata due settimane dopo che i Carabinieri si erano recati alla base radar di Poggio Ballone per sequestrare i tracciati relativi al volo di Nutarelli e Naldini. E secondo l'avvocato non sarebbe un caso. "A Ramstein si è trattato di omicidio e non di un fortuito incidente", afferma senza mezzi termini.
Ustica, la Corte d'appello conferma il risarcimento da 17 milioni, scrive il 29/06/2017 “La Sicilia”. I giudici di secondo grado: "Ci fu depistaggio e il DC) fu abbattuto da un missile". Ma il depistaggio è prescritto, mentre resta in piedi l'indennizzo per "fatto illecito". Lo Stato dovrà risarcire oltre 17 milioni di euro a 29 familiari delle vittime della strage di Ustica del 27 giugno del 1980, che registrò 81 morti. E’ quanto ha stabilito, con una sentenza depositata ieri, la prima sezione civile della Corte d’Appello di Palermo rigettando l’appello che l’Avvocatura dello Stato aveva presentato contro la sentenza di condanna emessa dal Tribunale civile di Palermo nel 2011. Secondo la Corte del capoluogo siciliano, resta accertato il depistaggio delle indagini svolte all’indomani del disastro aereo del Dc9 Itavia. Il velivolo, che da Bologna era diretto a Palermo, con ogni probabilità fu abbattuto da un missile e a parere dei giudici civili di Palermo i Ministeri della Difesa e dei Trasporti non assicurarono al volo adeguate condizioni di sicurezza. Per i giudici palermitani è esclusa l’ipotesi alternativa della bomba collocata a bordo dell’aereo o di un cedimento strutturale, in linea, quindi, con lo scenario già tracciato dall’istruttoria conclusa nel '99 dal giudice Rosario Priore. (ANSA). La Corte d’Appello ha dichiarato la prescrizione del risarcimento per depistaggio, ma ha confermato il risarcimento da fatto illecito liquidando, complessivamente, in favore dei 29 familiari oltre 17 milioni e 400 mila euro di risarcimento. Alla somma dovranno essere detratti gli indennizzi già ricevuti dallo Stato.
Strage di Ustica: per la Corte d'Appello di Palermo l'aereo fu abbattuto da un missile, per il senatore Giovanardi la verità è un'altra, scrive "AvioNews" il 30 giugno 2017. E' stata depositata mercoledì 28 giugno 2017 la sentenza che conferma il risarcimento per i familiari delle vittime del DC-9 precipitato il 27 giugno 1980. (WAPA) - La prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo ha depositato mercoledì la sentenza con cui obbliga lo Stato a risarcire con oltre diciassette milioni di Euro i familiari delle 81 vittime della strage di Ustica. Secondo i giudici l'aereo DC-9 di Itavia decollato il 27 giugno 1980 da Bologna alla volta di Palermo e precipitato nel Mar Tirreno nel tratto compreso tra le isole di Ponza ed Ustica fu abbattuto probabilmente da un missile, ed i ministeri della Difesa e dei Trasporti non garantirono la sicurezza del volo. E' stato quindi rigettato l'appello dell'Avvocatura dello Stato contro la precedente condanna emessa dal Tribunale Civile di Palermo. Anche se il segreto di Stato non permette di ricostruire l'esatta dinamica dei fatti, soddisfazione è stata espressa dagli avvocati dei familiari delle vittime. Il senatore Carlo Giovanardi ha definito invece in una nota il sistema giuridico italiano "schizofrenico" con una verità processuale in ambito penale "nella quale si afferma, dopo anni di processo e centinaia di udienze, che su Ustica non c'è mai stata nessuna battaglia aerea e meno che mai è stato lanciato un missile" diversa da quella accertata dal Tribunale civile. Per Giovanardi è necessario stabilire la verità ed identificare i mandanti e gli esecutori che avrebbero collocato una bomba a bordo del velivolo. Per questa ragione il senatore chiede che sia tolto il segreto di Stato al carteggio tra il Governo e l'ambasciata italiana a Beirut nei mesi precedenti la strage che conterrebbe rivelazioni importanti per fare luce sulle ragioni dell'accaduto.
Ustica, altre tre condanne in appello per lo Stato: 55 milioni per risarcire i familiari delle vittime. Decisione della prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo, che segue la prima sentenza, sempre di condanna, riguardante i ministeri di Difesa e Trasporti, scrive il 10 luglio 2017. A distanza di 37 anni esatti dalla strage di Ustica arrivano nuove sentenze secondo cui i ministeri della Difesa e dei Trasporti dovranno risarcire 45 familiari delle 81 vittime per complessivi 55 milioni di euro. È quanto ha deciso, depositando tre nuove decisioni, la Prima Sezione civile della Corte di Appello di Palermo. La strage, ricordiamolo, avvenne il 27 giugno 1980: lo scoppio in volo del Dc9 Itavia diretto da Bologna a Palermo provocò la morte di 81 persone. Lo scorso 28 giugno la stessa Corte aveva già condannato i due ministeri a risarcire altri 39 familiari dei passeggeri del Dc9 per ulteriori 17 milioni di euro. Nelle tre sentenze la Corte di Appello del capoluogo siciliano, rigettando altrettanti ricorsi dell’Avvocatura dello Stato, quantifica il danno rimandando ai motivi della sentenza emessa il 28 giugno scorso. In primo grado, nel settembre 2011, il tribunale di Palermo aveva condannato i due ministeri a risarcire oltre 100 milioni di euro a 81 familiari. Secondo la Corte d’Appello palermitana i ministeri della Difesa e dei Trasporti, innanzitutto, «avrebbero dovuto attivarsi per le opportune reazioni, per consentire ad esempio l’intercettazione del velivolo ostile al fine di garantire la sicurezza e l’incolumità di passeggeri ed equipaggio». Il tribunale, sposando le conclusioni raggiunte in primo grado - concluso nel 2011 con la condanna degli stessi ministeri - ribadisce che sulla base dei rilevamenti radar l’incidente del Dc9 Itavia si verificò «a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9».
Incidente aereo di Ustica: la compensatio lucri cum damno, scrive Pasquale Fornaro il 6 luglio 2017. Qui la sentenza: Corte di Cassazione - sez. III civile - ord. interlocutoria n. 15534 del 22-6-2017. La società Aerolinee Itavia S.p.A. conveniva in giudizio il Ministero della difesa, il Ministero dei trasporti e il Ministero dell’interno, per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti a seguito della sciagura area verificatisi nel cielo di Ustica il 27 giugno 1980, in occasione della quale era andato distrutto il DC 9/10-I-TIGI di proprietà di essa attrice ed erano decedute 81 persone. L’adito Tribunale di Roma, con sentenza del novembre 2003 accoglieva la pretesa risarcitoria e condannava i Ministeri dell’interno, della difesa e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento della complessiva somma di euro 108.071.773,64, oltre accessori, nonché alle spese di lite. Successivamente, l’impugnazione di tale decisione da parte delle Amministrazioni soccombenti veniva accolta dalla Corte di appello di Roma con sentenza dell’aprile 2007, la quale, a sua volta, fu oggetto di ricorso per cassazione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, sulla base di nove motivi. Con la sentenza n. 10285 del 2009, la Corte dichiarò inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’interno e ne accoglieva i primi sette motivi nei confronti dei Ministeri della difesa e dei trasporti. A seguito di riassunzione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, la Corte di appello di Roma, nel contraddittorio con il Ministero dell’interno, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con sentenza resa pubblica il 27 settembre 2012, pronunciava in via definitiva sulla domanda proposta dall’attrice nei confronti del Ministero dell’interno, rigettandola con compensazione delle spese processuali dei gradi di merito e pronunciava in via non definitiva sulla domanda proposta dalla stessa società in amministrazione straordinaria nei confronti degli altri due Ministeri convenuti, rimettendo la causa sul ruolo, con separata ordinanza, per la determinazione dell’ammontare del danno.
Con sentenza definitiva resa pubblica il 4 ottobre 2013, la Corte di appello di Roma condannava il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento, in favore della Aerolinee Itavia S.p.A., della somma di euro 265.154.431,44 (di cui euro 27.492.278,56 a titolo di risarcimento del danno, euro 105.185.457,77 per rivalutazione ed euro 132.476.695,11 per interessi), oltre interessi legali dalla sentenza al saldo, oltre al pagamento dei 3/4 delle spese processuali di tutti i giudizi, con compensazione del restante 1/4.
La Corte territoriale però negava il diritto dell’Itavia a vedersi risarcito: sia il danno per la perdita dell’aeromobile, in quanto la società attrice aveva incassato un indennizzo assicurativo da parte dell’Assitalia ammontante a lire 3.800.000.000, mentre il valore del velivolo al momento del sinistro, come accertato dal c.t.u., era di lire 1.586.510.540; sia il danno conseguente alla revoca delle concessioni di volo. Ricorrevano per cassazione, pertanto, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, mentre la Aerolinee Itavia S.p.A., proponeva altresì ricorso incidentale.
La Terza Sezione Civile cui il ricorso era assegnato con ordinanza interlocutoria n. 15534/17 depositata il 22 giugno, è stato posto il quesito alle Sezioni Unite “se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nel caso di specie), da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante.
Quesito, dunque, che in sé pone anche l’interrogativo sul se la cd. Compensatio lucri cum damno possa operare come regola generale del diritto civile oppure in relazione a determinate fattispecie.
I problemi della compensatio lucri cum damno nascono al momento stesso in cui si cerca di definirla. Tale locuzione allude al principio per cui il giudice, in sede di quantificazione del risarcimento del danno dovuto dall’autore, deve tenere conto non solo del pregiudizio causato dal fatto illecito (contrattuale o extracontrattuale), bensì anche degli eventuali vantaggi che si sono venuti a creare nel patrimonio del soggetto danneggiato. E’ ben possibile, quindi, che un comportamento di per sé illecito o dannoso possa produrre effetti positivi nella sfera giuridica del danneggiato. Si pensi, ad esempio ad un sinistro stradale che abbia provocato la distruzione integrale di un autoveicolo di modesto valore. La corresponsione in toto del costo del ripristino della cosa danneggiata provocherebbe al danneggiato un vantaggio patrimoniale ulteriore rispetto al valore effettivo del bene. Pertanto, assodato che il risarcimento del danno soddisfa l’esigenza di tenere indenne il danneggiato dalle perdite subite, cioè l’esigenza di ripristinare il suo patrimonio come se l’illecito non fosse mai stato commesso, e se è inoltre vero che, per quantificare l’ammontare del risarcimento dovuto, si fa il conteggio differenziale tra la consistenza patrimoniale prima e dopo il fatto è, per forza, altrettanto vero che gli eventuali vantaggi recati alla vittima debbano al pari essere tenuti in considerazione. Ciò significa che il giudice deve “compensare” le perdite con i benefici che il fatto illecito o l’inadempimento contrattuale, abbiano determinato nella sfera giuridica della parte danneggiata, detraendo i secondi dalle prime. Di fronte, comunque, ad vuoto legislativo dottrina e giurisprudenza si sono interrogati, se e in che modo detto effetto economico vantaggioso debba essere computato in detrazione a quanto dovuto dal danneggiante a titolo di risarcimento.
In dottrina si ravvisano ben tre orientamenti diversi. Alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico definibile come “compensatio lucri cum damno”; altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò avvenga in applicazione di una regola generale; altri ancora fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.
Chi aderisce al primo orientamento fa leva principalmente sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto e aggiunge un immancabile richiamo all’ “iniquità” di un istituto che ha l’effetto di sollevare l’autore del fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.
Chi aderisce al secondo orientamento, invece, condivide l’affermazione secondo cui nel nostro ordinamento alcuna norma generale sancisce tale istituto ma soggiunge che il problema dell’individuazione delle conseguenze risarcibili d’un fatto dannoso è una questione di fatto, da risolversi caso per caso, e che nel singolo caso non può escludersi a priori che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio.
Infine chi aderisce al terzo orientamento sostiene che l’istituto della compensatio lucri cum damno è implicitamente presupposto dall’art. 1223 cc là dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano “conseguenza immediata” dell’illecito, e che inoltre, quel principio generale è desumibile da varie leggi speciali: tra queste l’art. 1, comma 1 bis della legge 14 gennaio 1994 n. 20, o l’art. 33 comma 2 del D.P.R. 8 giugno 2011 n.327.
I contrasti, inoltre, non mancano nella stessa giurisprudenza. Essa ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico definibile come compensatio lucri cum damno.
Secondo un primo orientamento la compensatio opera solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via “immediata e diretta” dal fatto illecito. In applicazione di tale principio è stata, pertanto, esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, o i congiunti di una persona deceduta a seguito di un illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennità previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, come pure gli indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. In questi casi il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto dell’illecito, mentre il diritto all’indennità scaturisce dalla legge.
Un diverso orientamento, opposto, ammette l’operatività della compensatio lucri cum damno. Se, infatti, taluni affermano che essa operi solo quando danno e lucro scaturiscano in via immediata e diretta dal fatto illecito, elevando la causa del lucro dal rango di “occasione” a quello di “causa”, si giungerebbe al risultato di detrarlo dal risarcimento.
In attesa della decisione della Suprema Corte, si può concludere affermando che la “compensatio lucri cum damno”, seppur non codificata, è istituto di creazione giurisprudenziale e dottrinale che trova la sua origine e ragion d’essere direttamente negli artt. 1223 c.c., risarcimento del danno contrattuale, e 2056 c.c. ,valutazione dei danni extracontrattuali, e costituisce il corollario necessario del principio base per cui il risarcimento del danno deve adempiere la sua funzione ripristinatoria dello status quo ante, senza che siano rimasti danni non risarciti o, in senso opposto, provocati ingiusti profitti.
Pasquale Fornaro. Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli Federico 2. Specializzato nelle Professioni Legali presso l'Università degli Studi di Roma Guglielmo Marconi.
Il caso di Piazza della Loggia.
Le verità nascoste di Piazza della Loggia: il “caso Tramonte”. il 26 settembre la Cassazione deciderà sul ricorso di Maurizio Tramonte contro la sentenza d’Appello di Brescia, che ha rigettato la sua richiesta di revisione della condanna all’ergastolo. Simona D. Giannetti (avvocato del foro di Milano) su Il Dubbio il 31 agosto 2023
Il 28 maggio 1974 a Brescia in Piazza della Loggia alle dieci e dodici del mattino esplodeva un ordigno, mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo fascista: otto persone morirono e altre centodue rimasero ferite. Fu la strage di Piazza della Loggia: seguirono tre processi a distanza di lungo tempo l’uno dall’altro. A quasi 50 anni, il prossimo 26 settembre la quinta sezione della Corte di Cassazione deciderà il ricorso di Maurizio Tramonte, contro la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, che ha rigettato la sua richiesta di revisione della condanna all’ergastolo, presentata dai suoi avvocati Baldassare Lauria e Pardo Cellini, anche fondatori della Fondazione Giuseppe Gulotta, l’ergastolano della Strage di Alkamar del 27 gennaio 1976 poi assolto dopo 36 anni di errori giudiziari. Oggetto della revisione era la sentenza della Corte di assise di appello di Milano, intervenuta successivamente al rinvio della Corte di Cassazione, dopo che nel 2014 Tramonte fu assolto nel doppio grado del giudizio di merito.
Ribaltato il verdetto, per la Corte milanese Tramonte era presente in Piazza della Loggia nel momento dell’esplosione. Questa, la nuova circostanza che ritennero fondata sulla testimonianza di Vincenzo Arrigo, anche gravato da una condanna per calunnia: fu Arrigo a riferire di avere appreso dal Tramonte, durante la comune detenzione nel 2003 al Verziano di Brescia, della sua presenza in Piazza della Loggia al momento dell’attentato, tanto che si sarebbe lui stesso identificato in una foto pubblicata sui giornali di allora tra le persone presenti. La foto in questione non può tuttavia non considerarsi un “colpo di scena”, che potrebbe aver cambiato le sorti del processo: una novità, infatti, che venne acquisita nel 2013 su richiesta dell’accusa.
Vincenzo Arrigo invece non era una novità nel processo per la strage: aveva infatti chiesto di essere sentito dal pubblico ministero nel 2004 riferendo l’esatto contrario, cioè, che Tramonte non si sarebbe identificato nella foto del giornale mostratogli. Nella sentenza sottoposta a revisione, fu scritto che «nessuno si è presentato in aula per smentire Arrigo…» : per i giudici milanesi l’individuo della foto era senz’altro Maurizio Tramonte. Per la cronaca, va anche detto che Arrigo, che con le sue due dichiarazioni contrarie aveva cambiato versione, fu assassinato nel 2020; impossibile pertanto risentirlo.
Davanti alla Corte di appello di Brescia, la partecipazione alla riunione di Abano Terme del 25 maggio e la presenza in Piazza della Loggia il giorno della strage sono state le circostanze che hanno interessato le nuove prove portate dalla difesa di Tramonte: in particolare le dichiarazioni testimoniali della sorella e della moglie, oltre a una consulenza. Entrambe le testimoni hanno negato che il soggetto effigiato in quella foto fosse Tramonte.
Con la consulenza antropometrica, che utilizzando una nuova tecnologia al tempo non disponibile si confermerebbero le due testimonianze, la difesa aveva ritenuto di poter provare che il ragazzo della foto, che all’epoca dei fatti pareva poco più che maggiorenne, non sarebbe stato Tramonte. Acquisite solo le testimonianze, le prove non sono apparse convincenti per la Corte a scardinare l’attendibilità delle dichiarazioni di Arrigo: «Le nuove testimonianze non provano che il soggetto indicato da Arrigo nella fotografia non sia Tramonte, ma soprattutto non incrinano la valutazione della credibilità del teste effettuata nella sentenza di cui è chiesta la revisione…».
Alla lettura della condanna gli avvocati Lauria e Cellini avevano osservato che «i giudici bresciani non sarebbero stati imparziali né indipendenti». Tra i motivi del ricorso, anche la questione di nullità della sentenza per incompetenza funzionale della Corte di appello di Brescia: la difesa si era infatti inizialmente rivolta alla Corte d’appello di Venezia per chiedere la revisione, ritenendola competente a decidere.
Secondo i difensori Lauria e Cellini, la Corte bresciana non avrebbe potuto decidere della revisione di un proprio giudicato, formato su un tema d’accusa ritenuto antecedente logico e giuridico per la responsabilità dell’imputato - cioè quello sulla provenienza dell’esplosivo utilizzato per la strage e la sua movimentazione verso Brescia. Una violazione della ratio ispiratrice della riforma del giudizio di revisione e su cui la difesa di Tramonte ha insistito, senza ottenere che fosse esaminata nel contraddittorio delle parti. Non solo, «nonostante sia stato richiesto l’esame del nostro assistito, la Corte ha ritenuto la superfluità di esso: pensiamo che sia una decisione del tutto arbitraria, contraria ai principi del giusto processo garantito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo» - hanno dichiarato i difensori.
Del resto anche solo dalla collocazione codicistica dell’esame dell’imputato, questo dovrebbe potersi ritenere anche strumento di difesa, oltre che mezzo di prova. A dire il vero anche davanti alla Corte d’Appello milanese, nel giudizio di rinvio, sebbene fu richiesto, a Tramonte fu negata la “difesa diretta”. Pur vicini al suo cinquantesimo anniversario, la strada della giustizia sulla strage di Piazza della Loggia è ancora aperta, almeno per quanto riguarda la vicenda di Maurizio Tramonte.
Storia lunga quella della giustizia per la strage di Brescia, fatta di depistaggi da parte di uomini dello Stato, di carte tenute segrete nell’” interesse” della democrazia. «Le indagini per la strage di Piazza della Loggia d’altro canto si sono protratte per decenni e sono state caratterizzate da omissioni e depistaggi...»: è quanto scrive la Corte bresciana, che ha rigettato la revisione.
Il colore dei soldi e quello delle stragi. Maurizio Tortorella su Panorama il 28 Maggio 2023.
Come Eravamo Intervista esclusiva a Delfo Zorzi, latitante, condannato per la strage di Piazza Fontana e indagato nel processo per la bomba di Piazza della Loggia
Da Panorama del 5 settembre 2002 «L'origine delle onde»: questo significa Hagen, il cognome giapponese che Delfo Zorzi, il neofascista veneto condannato all’ergastolo per la strage di piazza Fontana, ha assunto nel 1989 insieme al passaporto e alla cittadinanza nipponici. Ma i magistrati bresciani Roberto Di Martino e Francesco Piantoni oggi sono convinti che Hagen Roi, alias Zorzi, imputato nel processo per la bomba di piazza della Loggia, sia anche «l'origine dei soldi»: quelli pagati per ottenere la ritrattazione e i silenzi di Martino Siciliano, l'ex neofascista mestrino divenuto uno dei testimoni chiave dell’accusa nei processi sulla strage milanese del dicembre 1969 e su quella bresciana del maggio 1974. Siciliano, che per anni ha vissuto in Colombia ed è stato sottoposto al regime di protezione riservato ai collaboratori di giustizia, in marzo aveva ritrattato ogni accusa in un memoriale. Poi, dopo una serie di intercettazioni, telefoniche e ambientali, in giugno è stato arrestato a Brescia per favoreggiamento. A causa delle sue parole, l'indagine ha coinvolto uno dei legali di Zorzi, il presidente della commissione Giustizia della Camera Gaetano Pecorella, che i pm bresciani ipotizzano sia stato il tramite fra lo stesso Zorzi e Siciliano. Indignato, Pecorella ha parlato di «una trappola», lamentando la strumentalizzazione politica della notizia. E Zorzi-Hagen? Per una settimana, in Giappone, si è nascosto dietro al più assoluto silenzio. Poi ha deciso di parlare, e lo ha fatto in esclusiva con Panorama. «Io non ho mai promesso denaro a Siciliano, né ora né in passato» afferma. «Non ho mai avuto contatti con lui, diretti o indiretti, se si esclude la sua richiesta di un posto di lavoro, nel 1994. Da allora non l'ho più sentito». Zorzi, Siciliano l'ha accusata di avere anticipato 5 milioni di lire per il memoriale di ritrattazione. Ha parlato anche di una promessa da mezzo milione di dollari. Dice il vero? No, nel modo più assoluto. Né io né i miei avvocati abbiamo fatto pervenire denaro a Siciliano. Il memoriale è nato dalla sua spontanea volontà. Quanto sarebbe stata utile, per la sua difesa, la sua ritrattazione? Siciliano è stato già smentito da numerosi testimoni. La sua ritrattazione potrebbe ristabilire la verità dei fatti, ma solamente se confermata nel corso del processo d’appello. Chi è, secondo lei, il pentito Martino Siciliano? E' uno che ha subito ricoveri in clinica psichiatrica e che per denaro ha raccontato una montagna di menzogne. E' stato pagato per collaborare con denaro del Sismi, al di fuori di ogni programma di protezione. Ha anche ricevuto denaro da un giudice. E' paradossale che oggi si pensi che abbia ricevuto denaro da me, addirittura attraverso i miei avvocati. Credo si tratti di una persona disposta a dire qualsiasi cosa non appena intravede un possibile beneficio. Ma Siciliano ha formulato le sue accuse senza sapere di essere intercettato. Ne parlava con un altro testimone, Giuseppe Fisanotti. Le confidenze di Siciliano a Fisanotti, così come si legge sui giornali, sono le classiche vanterie per accreditarsi come una persona con potenzialità economiche di un certo rilievo. Dalle intercettazioni emergerebbe che la telefonata-alibi del 12 dicembre 1969, tra lei e Siciliano, non sarebbe mai stata fatta. Come stanno le cose? La telefonata è stata fatta. Quello che Siciliano dice ora a Fisanotti, e cioè che non c'era nessuno dall’altra parte del telefono, non ha alcun senso: che alibi potrebbe costituire una telefonata senza risposta? In quel periodo io vivevo in una pensione per studenti (a Napoli, ndr). Farmi chiamare durante una mia assenza per costruire un fantomatico alibi sarebbe stato un controsenso. E' una delle solite strampalate invenzioni di Siciliano. Lei aveva dichiarato di avere un alibi per piazza Fontana e un testimone: lo studente messinese Carmelo Coglitore. Ha un alibi anche per piazza della Loggia? E' vero che in quel periodo faceva il militare nei Lagunari, a Venezia? Dalla strage di Brescia sono passati quasi 30 anni. Sto cercando di ricostruire che cosa facevo in quel periodo. In questo momento non ritengo opportuno anticipare gli elementi che sto raccogliendo a mia difesa. Che cosa pensa dell’iscrizione al registro degli indagati dei suoi legali per l’ipotesi di favoreggiamento? Sono amareggiato e sconcertato. I sospetti sono gravissimi. Ma si tratta di professionisti integerrimi, ai quali va la mia completa fiducia. E ritengo si tratti di una manovra, alla quale Siciliano si sta prestando. Scusi, ma quale sarebbe l'obiettivo di questa manovra? Azzerare il mio collegio difensivo in un processo come quello di Brescia, nel quale le accuse si stanno sfaldando ogni giorno di più. Lo mostrano la ritrattazione del principale teste d'accusa, Maurizio Tramonte, e l'annullamento del mio ordine di custodia cautelare da parte della Cassazione.
Il governo non sarà parte civile al processo sulle Stragi, ma contro gli ambientalisti. Stefano Baudino su L'Indipendente il 16 maggio 2023.
Il Senato della Repubblica, il ministero della Cultura e il Comune di Roma sono stati ammessi come parte civile nel processo in cui tre attivisti di Ultima Generazione sono imputati per aver lanciato vernice lavabile sulla facciata di Palazzo Madama. La notizia arriva poche ore dopo che il Gup di Brescia, a causa del ritardo con cui la domanda è stata presentata da Palazzo Chigi, ha respinto la costituzione di parte civile della Presidenza del Consiglio dei ministri al nuovo processo per la strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974, in cui è imputato Roberto Zorzi.
I fatti di Palazzo Madama risalgono allo scorso 2 gennaio. I giovani attivisti ora alla sbarra, due ragazzi e una ragazza, si erano avvicinati alla porta principale dell’edificio, per poi spruzzare vernice ad acqua arancione. I tre sono stati fermati dalle forze dell’ordine che presidiavano l’entrata del Senato e l’azione non ha causato danni alla facciata, che è stata ripulita il giorno successivo. Ora, però, i giovani devono rispondere del reato di danneggiamento aggravato, rischiando fino a 5 anni di galera.
La prima udienza si è svolta tre giorni fa: davanti al tribunale di Roma, il movimento ambientalista ha organizzato una manifestazione di protesta, esponendo striscioni con le scritte “La disobbedienza civile non è reato” e “Non paghiamo il fossile”. A rimpinguare il sit in, c’erano i membri delle associazioni Greenpeace e Amnesty International. Tra i presenti anche alcuni politici, come il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni e la senatrice dello stesso gruppo Ilaria Cucchi, l’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, il co-portavoce dei Verdi Angelo Bonelli e la dem Marta Bonafoni. Evidente il cortocircuito a sinistra: mentre il Pd difende gli attivisti in piazza, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri – espressione della stessa forza politica – si dichiara parte civile contro di loro.
Soltanto il giorno prima avveniva un fatto che, specie se comparato a quanto successo a Roma, sfocia nel paradosso. Infatti, il Giudice dell’Udienza Preliminare di Brescia ha accolto l’eccezione della difesa dell’imputato Roberto Zorzi, accusato di aver partecipato come esecutore materiale alla strage di piazza della Loggia, che si è opposta alla tardiva richiesta di costituzione di parte civile della Presidenza del Consiglio. Secondo il giudice, Palazzo Chigi non poteva non sapere dell’inizio dell’udienza e quindi non può chiedere di farvi ingresso in ritardo. Per il Gup, manca difatti la “forza maggiore” della richiesta tardiva, essendo un “fatto notorio” (in quanto più volte riportato dalla stampa) che l’udienza avrebbe avuto luogo. Secondo il giudice, il governo non può quindi lamentare di non essere stato citato dalla Procura, dal momento che la sua posizione non è quella di persona offesa, bensì di soggetto danneggiato.
Dal canto suo, in un comunicato Palazzo Chigi ha parlato di un “provvedimento palesemente abnorme“, dichiarando che l’Avvocatura dello Stato “è stata incaricata di proporre ricorso in Cassazione”. Se non venisse accolto, si tratterebbe della prima volta – considerando tutti i procedimenti sull’attentato – che verrà meno la presenza giuridica dello Stato.
Insomma, mentre il governo mostra grande fermezza e rapidità di azione nei confronti degli ambientalisti – arrivando perfino a concepire una nuova fattispecie di reato per la repressione delle loro condotte (oggettivamente “urticanti” e spesso, a ragione, assai criticabili) -, al contempo non riesce a dare prova della stessa prontezza di riflessi riguardo a procedimenti giudiziari ben più problematici e significativi, che arrivano a toccare i nervi scoperti della storia repubblicana del nostro Paese. D’altronde, è questione di priorità. [Stefano Baudino]
Brescia, strage di Piazza della Loggia Brescia, strage di Piazza della Loggia: il governo non sarà parte civile ma farà ricorso. Mara Rodella su Il Correre della Sera l'11 maggio 2023
La prima volta in tutti i procedimenti che la presidenza del Consiglio resta esclusa. La nota diffusa da Palazzo Chigi: «Sorprende la decisione del gup, è un provvedimento così palesemente abnorme»
Strage di piazza Loggia: il 28 maggio 1974 morirono otto persone
Il «colpo di scena» arriva pochi minuti dopo mezzogiorno. Primo ad uscire dall’aula, a passi veloci senza nascondere la sua perplessità («è una decisione assurda») è l’avvocato di Stato. Dentro, dopo aver sciolto la riserva, accogliendo l’eccezione della difesa, il gup Francesca Grassani ha respinto la costituzione di parte civile della Presidenza del Consiglio dei ministri nell’udienza preliminare a carico di Roberto Zorzi, ex ordinovista veronese di appena vent’anni e oggi cittadino americano, tra i presunti esecutori della strage di piazza Loggia. La richiesta è stata presentata tardivamente, dopo l’inizio dell’udienza preliminare, il 23 marzo scorso: «Non era stato dato avviso della fissazione alla Presidenza» fece sapere il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, annunciando «l’istanza di rimessione in termini» per procedere poi alla costituzione in vista di un eventuale processo.
È vero, non ci fu alcuna notifica. Ma a compensare questo aspetto sarebbe stata la notorietà del procedimento più volte divulgato anche a mezzo stampa. Quindi, i termini di ammissione sono scaduti: la fissazione dell’udienza preliminare — scrive nella sua ordinanza — era «un fatto notorio». E manca la «causa di forza maggiore» che avrebbe legittimato la costituzione tardiva. Il Governo, insomma, non poteva non sapere. E ora è troppo tardi. Non solo. Inefficace, per il gup, anche provare a eccepire la nullità della sua decisione: sostiene, in sostanza, che, non essendoci prova certa che Presidenza del Consiglio e ministero degli Interni rappresentino in modo compiuto lo Stato, non possano quindi essere considerate inequivocabilmente parte offesa, ma soltanto «danneggiata», per la quale l’avviso non è atto dovuto. Non era mai successo prima, in tutti i procedimenti sull’attentato che il 28 maggio 1974 uccise otto persone e ne ferì oltre un centinaio, che il Governo fosse escluso.
«È una pessima notizia per la città», commenta la vicesindaco facente funzione Laura Castelletti, perché «dimostra lo scarso interesse che l’attuale coalizione di governo ha per quella che per noi è ancora una ferita aperta e ha segnato la storia di Brescia». Ma proprio Palazzo Chigi, in serata, definendo la decisione del gup «palesemente abnorme» annuncia il ricorso in Cassazione da parte dell’Avvocatura di Stato: «Alla presidenza del Consiglio è stato impedito l’esercizio del potere e dovere di affiancare la difesa delle vittime». È stato l’aggiunto Silvio Bonfigli, in aula, a chiudere la requisitoria e chiedere formalmente il rinvio a giudizio nei confronti di Zorzi, all’epoca eversivo di estrema destra, super religioso, militante in Anno Zero nel 1974, prosecuzione ideale di On, salvo poi aderire all’ulteriore gruppo «I Guerriglieri di Cristo Re». Membro di quelle «galassie magmatiche» in grado di esprimersi oltre le definizioni.
Bassa e indispensabile manovalanza dei vertici da emulare e compiacere. Bonfigli ha focalizzato l’attenzione sulla «continuità» tra i mandanti della Strage — il referente di On per il Triveneto Carlo Maria Maggi e l’ex informatore del Sid Maurizio Tramonte, entrambi condannati all’ergastolo in via definitiva — e gli imputati di aver piazzato la bomba nel cestino sotto i portici della piazza: Zorzi e Marco Toffaloni, veronese pure lui, all’epoca nemmeno diciassettenne. Si è soffermato sugli «elementi concreti di collegamento» che portano gli inquirenti a identificarli come i «naturali esecutori» dell’attentato: il rapporto stretto con Roberto Besutti, mantovano, storico componente del Centro Studi Ordine Nuovo, o con Marcello Soffiati (ex ordinovista che trasportò l’ordigno da Venezia), per gli inquirenti il vero «reclutatore» di giovani leve per il vivaio di Maggi, punto di collegamento tra gli apparati militari e i ragazzini veronesi. La manovalanza. Zorzi e Toffaloni, appunto.
Dopo di lui, a prendere parola, sono stati tre legali di parte civile. Per primo l’avvocato Michele Bontempi, che ha focalizzato la sua discussione sugli aspetti procedurali alla luce della riforma Cartabia, che prevede, all’esito dell’udienza preliminare, la necessità di una prospettiva di condanna — una «ragionevole previsione» — alla base del rinvio a giudizio. I margini per arrivare a una pena, in questo caso, ci sarebbero tutti: «Non si è in grado di sostenere che le prove, in seguito, crolleranno». Testimoniali o che si reggono sui riscontri investigativi. Proprio sul «tormento» e le dichiarazioni del superteste arrivate agli inquirenti solo di recente «per paura» si è soffermato dopo di lui l’avvocato Andrea Ricci. Gli accertamenti dicono che Zorzi, al tempo, conoscesse e frequentasse i neofascisti bresciani. E che la sera del 18 maggio 1974, poco prima che l’amico Silvio Ferrari (da questa inchiesta emerge non più solo come giovane estremista di destra, ma informatore pagato persino dalla Nato, che agisce per conto dei carabinieri e partecipa alle riunioni di Parona in cui si pianificano gli attentati) morisse a bordo della sua Vespa, esplosa in piazza Mercato, fu visto fuori dal locale Blue Note di via Milano, insieme a Ermanno Buzzi, che chi indaga ritiene il «basista» della Strage. Zorzi, per l’accusa, avrebbe deciso di agire e piazzare la bomba in piazza proprio per «vendicare la morte di Ferrari» dopo la quale si sarebbe amplificato il clima di tensione. «La mattina dello scoppio a Brescia «ero al bar della stazione dei pullman di Verona, fin dopo le 10 del mattino», ha sempre detto invece lui, dichiarandosi innocente. Dopo l’espolosione in piazza Loggia Zorzi fu fermato dal generale dei carabinieri Francesco Delfino. Ma di quel fermo, a verbale, non c’è traccia. L’avvocato Federico Sinicato, ultimo a parlare, ha evidenziato «il ruolo di Verona — e dei veneti — nella strategia della tensione».
Il Mistero di piazza Fontana.
Piazza Fontana, dove nasce la strategia della tensione. Ciò che ebbe inizio quel 12 dicembre di cinquantatré anni fa, non si esaurisce nella sola politica stragista, ma si deve assumere come un fenomeno storico di lunga durata nell’Italia repubblicana. Pierangelo Lombardi su L'Espresso il 12 dicembre 2022.
«Viva l’Italia del 12 dicembre», canta Francesco De Gregori. Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, esplode la bomba che — è stato scritto — fa perdere l’innocenza a una generazione. Autori materiali dell’attentato, che uccide 17 persone e ne ferisce 87, sono i neofascisti di Ordine nuovo. L’organizzazione eversiva, nata in seno al Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, viene sciolta nel 1973, perché ritenuta una ricostituzione del partito fascista vietata dalla XII disposizione finale della Costituzione.
Basta, dunque, una data in una celebre canzone per indicare con immediatezza un evento divenuto luogo di memoria. Ma fino a che punto quella memoria è depositata nella narrazione consapevole della storia nazionale? E, in particolare, quanto è comprensibile al mondo della scuola?
Ancorché non istituzionalmente riconosciuta nel nostro affollato “calendario civile”, la data del 12 dicembre è bene che sia oggetto di una riflessione dedicata. E l’occasione può senz’altro essere un corso di aggiornamento e formazione per insegnanti, che aiuti a trasformare momenti di celebrazione in occasioni di conoscenza e di riflessione, tra storia, cultura ed educazione alla cittadinanza, attenti al contesto storico e alle complesse dinamiche della memoria collettiva. È quanto l’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Pavia ha provato a fare in un ciclo di lezioni conclusosi lo scorso novembre, che agli insegnanti era anzitutto rivolto e che aveva per tema proprio gli eventi e i problemi del nostro calendario civile.
La “strategia della tensione”, che ha inizio quel 12 dicembre di cinquantatré anni fa, non si esaurisce nella sola politica stragista, ma si deve assumere come un fenomeno storico di lunga durata nell’Italia repubblicana. Per questo una seria riflessione sul tema rinvia alle condizioni storico-politiche ed economico-sociali che resero possibile il verificarsi di quegli eventi. In tal senso, il 1969 è davvero una data periodizzante nella storia della Repubblica, tra istanze di trasformazione e tendenze restauratrici, il cui sguardo è rivolto al passato di fronte alle tensioni del presente. Con la “stagione delle stragi” si inasprisce lo scontro sociale; si opera per spostare a destra l’opinione pubblica, prima ancora che l’asse della politica; si evocano governi d’ordine, fino alla esplicita rottura degli assetti istituzionali.
Nella sostanza una dinamica eversiva nella quale lo squadrismo neofascista lancia un’offensiva fin lì mai tentata, forte delle connessioni più disparate con uomini e apparati dello Stato, in un reticolo di poteri più o meno occulti. Tra vergognose rimozioni e frettolose ricomposizioni si consumano crisi e tensioni che investono le Forze armate, le relazioni industriali, il sistema politico e l’ordine pubblico.
Non meno importante è, infine, lo scenario internazionale, laddove le rigidità dei blocchi contrapposti in tempi di Guerra fredda si misurano con il processo di distensione degli anni Sessanta e, al suo interno, un sistema dei partiti bloccato in cui si consuma la crisi del centrosinistra. Una faticosa e, per molti aspetti, drammatica, crisi di transizione che porta il Paese dalla fase storica espansiva degli anni Cinquanta e Sessanta al progressivo esaurimento di quel modello.
Pierangelo Lombardi Presidente dell’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea
Le lettere inedite del giovane Pietro Valpreda 15 anni prima di piazza Fontana: «Agli ideali patriottici preferisco le donne». Gianni Santucci su Il Corriere della Sera l’8 Gennaio 2023.
Riemergono sei missive dell'anarchico ingiustamente incolpato della strage del 12 dicembre 1969. Destinatario: l'artista milanese Aldo Uggè
«Mi sono per così dire imboscato in fureria, qui la naia pesa un po’ di meno». Fa un po’ d’autoironia, e un po’ cede alla tentazione di scansar la fatica, il ragazzo neppure 22enne che il 23 aprile 1954 scrive dalla caserma di Fossano. All’epoca Pietro Valpreda ha 22 anni e, letteralmente, sta facendo il «militare a Cuneo». È prostrato, irritato, a tratti depresso, tanto da dire (e lo ripeterà due volte): «Dovrei andare nel corpo paracadutisti a Viterbo: chissà che non sia la volta buona per lasciarci la pelle!». Pensa al peso, ai chili che sta mettendo su, al fatto che potrebbero creargli qualche intralcio nella sua carriera di ballerino.
Non diventerà pittore, Valpreda, ma in quei mesi scrive al suo «professore» Aldo Uggè, artista milanese di cui è «discepolo e modello». A 23 anni dalla morte, riemergono sei lettere di Valpreda indirizzate proprio a Uggè: una ventina di pagine che raccontano gli anni giovanili dell’uomo che entrerà nella storia d’Italia come colpevole della più grave strage terroristica nel Paese, e ne uscirà come vittima della più torbida macchinazione del potere del depistaggio. L’esplosione di piazza Fontana è del 12 dicembre 1969: queste lettere inedite raccontano il Valpreda di 15 anni prima.
E forse conviene partire proprio dai riferimenti ai suoi impieghi nell’esercito, testimonianza in prima persona di chi non poteva sapere che in seguito gli sarebbe stata attaccata addosso anche la menzogna d’aver imparato a fabbricare bombe durante il servizio di leva. «Ormai sono anziano — scrive Valpreda poco prima del Natale 1954 — ho terminato il corso di specializzazione, ho fatto il campo, e mi hanno anche dato i gradi di caporale... mi trovo al distretto militare di Rovigo, come selettore. Debbo cioè fare le prove alle reclute». Dunque, giornate alla scrivania, o coi ragazzini durante le visite. Attività che gli concede molto spazio per sé: «Qui non posso lamentarmi, la libertà è molta, finito il mio lavoro d’ufficio sono libero e posso anche rimanere assente tutta la notte». Uno spazio che prima s’era ricavato con insubordinazione: «Finora ho solo una settimana di Cpr (isolamento, ndr) perché sono rimasto assente al campo tutta la notte con una biondina».
Recuperare «il tempo perso» con le ragazze è una costante, un pensiero ricorrente che non nasce solo dalla mancanza del sesso: sta più dentro lo scontro tra le restrizioni della vita militare, una coscienza in via di formazione, e soprattutto per un’ansia libertaria d’attraversare l’esistenza. «Malgrado che il più sia ormai fatto, sono stufo e arcistufo, agli ideali patriottici preferisco sempre le mie donne e i miei uomini di facili costumi».
L’artista ha vent’anni più del discepolo, diventa un confidente. Per il ragazzo è un riferimento di saggezza, ma con una consonanza d’amicizia. La prima lettera da Fossano è quella più accorata, forse la più rivelatrice della recluta Pietro, tra una cupezza vicina alla depressione e un’insofferenza già molto politica: «Dovevo partire con la mia compagnia (di ballo, ndr), ma quella schifezza che sussiste nel mondo civile e che si chiama militarismo mi mandò una piccola cartolina e mi trovai mio malgrado inquadrato nelle file di cotesto semi galeottismo. Ora mi trovo al campo addestramento. Il suo titolo più appropriato sarebbe però di concentramento, in mezzo al freddo alla neve e alle perversioni, isolato dal mondo civile e da tutto ciò di cui abbisogna un essere umano». Una tensione che si fa più viva col passar dei mesi, ma che non è ancora incanalata nell’ideale del futuro anarchico più famoso d’Italia (ma non certo il più ideologicamente strutturato): «Perché un individuo che nulla ha fatto di male e che ieri circolava libero, debba oggi essere semi schiavo di uno straccio tricolore e di una ipotetica patria. E le mie idee nichiliste mi appaiono sempre più giuste e veritiere consolidandosi sempre più nel mio libero pensiero, perché a quello non potranno mai mettere né divise, né staffette».
A tratti però l’irritazione si ripiega nelle lacrime: «Ho quasi paura a ritornare nel mio mondo», «sono tra i pochi che ancora piangono». Tutto impastato in un carattere fumantino, con derive quasi giullaresche: «Mi sono già beccato i miei bravi giorni di consegna per aver tirato un gavettino in testa ad un fetentissimo caporale». E poi: «Adesso scoppierà un altro casino col prete perché vuole obbligarmi ad assistere alla messa».
L’ultima lettera a Uggè risale alla metà del 1955. Porta il visto della censura. Valpreda è tornato a Milano, ma passando direttamente dall’esercito a San Vittore, scortato da due carabinieri per un mandato relativo a una vecchia tentata rapina. Racconta: «La galera è molto più dura di quello che si creda, uno fuori non se ne convince fino a quando non ci si trova dentro». In carcere tornerà dopo piazza Fontana, e fino al 1972, come «il mostro» incolpato di una bomba che non aveva messo.
Attentati in serie: l’Italia nel terrore. Strage a Piazza Fontana. Le bombe a Roma. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Dicembre 2022
Su «La Gazzetta del Mezzogiorno» di sabato 13 dicembre 1969 un enorme «BASTA» occupa interamente il taglio alto della prima pagina, affollata più in basso di titoli, articoli, ultim’ora, foto agghiaccianti: «13 morti e 78 feriti a Milano, 15 feriti a Roma», «Sgomento e orrore nella Nazione». Il giorno prima si è consumata la strage di piazza Fontana, a Milano, un terribile attentato presso la sede della Banca nazionale dell’Agricoltura: una serie di analoghi attacchi dinamitardi si sono verificati, per fortuna senza vittime, anche nella capitale.
«Un’atmosfera di lutto e indignazione è piombata sulla città in penoso contrasto con l’incipiente vigilia natalizia», si legge sul quotidiano. Annibale Del Mare firma l’articolo in prima pagina: «Proprio nel centro, a cento passi dal Duomo, un attentato ha causato la morte di 13 persone e il ferimento di altre 78. L’esplosione è avvenuta verso le 16.30 nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. In un primo momento si è pensato allo scoppio delle caldaie di riscaldamento: ma poi è stato subito chiaro che si trattava di una bomba “a miccia lenta”. Sarebbe stata deposta sotto il bancone circolare nel centro del salone. [...] Essendo giornata di contrattazioni molti agricoltori si erano fermati oltre il limite di orario degli sportelli. Oltre ai feriti almeno altre 30 persone sono state buttate a terra dal violento spostamento d’aria. I soccorsi sono giunti in pochi minuti. Il traffico è rimasto bloccato rendendo difficoltosi i movimenti delle autolettighe. Si sono avute scene di panico. Molta gente è fuggita, scappando in ogni direzione: dalla banca usciva un fumo denso. Cadaveri orribilmente mutilati dentro: l’esplosione ha sollevato di almeno 2 metri il tavolo, parte del soffitto è crollato».
La cronaca si chiude con il resoconto della conferenza stampa del questore di Milano Guida, che ha messo in connessione gli attentati di quel giorno: «Di solito presuppongono una preparazione accurata da parte di un gruppo, ma poi vengono eseguiti materialmente da una o due persone. L’attentatore si deve essere avvicinato al tavolo al centro, ha deposto la borsa con la bomba e si è poi allontanato rapidamente. L’ordigno è scoppiato solo pochi minuti dopo. Purtroppo quelli che hanno visto in faccia l’attentatore sono tutti morti».
Il bilancio si farà nelle ore seguenti ancora più drammatico – 17 morti e circa 90 feriti – e prenderà avvio la fase più tragica della storia della Repubblica. Piazza Fontana, come poi le stragi di piazza della Loggia a Brescia, della stazione di Bologna e del treno Italicus, resta ancora una ferita profonde nella coscienza democratica del nostro Paese.
Piazza Fontana, indagini e depistaggi. Nel 1969 il caso della morte di Pinelli. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Dicembre 2022
È il 17 dicembre 1969: l’Italia è sconvolta da quanto accaduto a Milano solo cinque giorni prima. Il 12 dicembre un ordigno è esploso nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana: 17 morti e circa 90 feriti è il bilancio finale della strage. Sono ore concitate quelle che seguono l’attentato: le indagini corrono veloci, quasi quanto i depistaggi. A condurre l’inchiesta è il questore di Milano, Marcello Guida: ha annunciato di seguire tutte le piste, ma in realtà ci si concentra su un facile bersaglio. «Un ballerino anarchico autore della strage di Milano» titola «La Gazzetta del Mezzogiorno» di quel 17 dicembre di cinquantatre anni fa: «Pietro Valpreda, di 36 anni, nato a Milano, è, stando a quanto traspare dagli atti e dalle dichiarazioni dell’autorità inquirente, l’autore (o uno degli autori) della strage di piazza Fontana».
Non è questa, però, l’unica importante notizia: «È morto il ferroviere Giuseppe Pinelli, lanciatosi dal quarto piano della Questura di Milano, dopo che era venuto meno il suo alibi». Questa è la versione ufficiale fornita dalla conferenza stampa convocata in piena notte dal questore di Milano. La sera del 12 dicembre, poche ore dopo la strage, Giuseppe Pinelli, detto Pino, è stato fermato e condotto in questura: 41 anni, è un frenatore di treni, tra i fondatori del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa di Milano.
Trattenuto per diversi giorni nelle stanze dell’ufficio politico, la notte tra il 15 e il 16 dicembre precipita nel vuoto per venti metri da una finestra e muore due ore dopo al Fatebenefratelli per le gravissime lesioni riportate. Il questore Guida spiega che, nel corso dell’interrogatorio, Pinelli avrebbe avuto un crollo psicologico e avrebbe, quindi, compiuto il gesto estremo. La «Gazzetta» riporta anche un comunicato dattiloscritto, firmato dagli «anarchici di Milano», diffuso il giorno prima: «Il compagno Pinelli, comunista anarchico, è morto. La polizia dice che si è ucciso. Se di suicidio di tratta, di questo sono responsabili coloro che lo hanno perseguitato e vilipeso, ponendolo sullo stesso piano degli assassini fascisti. Qualsiasi accusa rivolta al compagno Pinelli è pura follia. Questa morte è l’ultimo tragico episodio dell’infame congiura reazionaria che vede nella provocazione criminale dei fascisti, nella persecuzione e nell’insensata diffamazione degli anarchici i primi passi verso una generale repressione autoritaria di tutto il movimento operaio e rivoluzionario». La tragica fine di Pinelli si legherà all’altrettanto drammatica vicenda del commissario Luigi Calabresi, ucciso con due colpi di pistola, davanti alla sua abitazione, il 17 maggio 1972.
Piazza Fontana, dove nasce la strategia della tensione. Pierangelo Lombardi, Presidente dell’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, su L’Espresso il 12 Dicembre 2022.
Ciò che ebbe inizio quel 12 dicembre di cinquantatré anni fa, non si esaurisce nella sola politica stragista, ma si deve assumere come un fenomeno storico di lunga durata nell’Italia repubblicana
«Viva l’Italia del 12 dicembre», canta Francesco De Gregori. Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, esplode la bomba che — è stato scritto — fa perdere l’innocenza a una generazione. Autori materiali dell’attentato, che uccide 17 persone e ne ferisce 87, sono i neofascisti di Ordine nuovo. L’organizzazione eversiva, nata in seno al Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, viene sciolta nel 1973, perché ritenuta una ricostituzione del partito fascista vietata dalla XII disposizione finale della Costituzione.
Basta, dunque, una data in una celebre canzone per indicare con immediatezza un evento divenuto luogo di memoria. Ma fino a che punto quella memoria è depositata nella narrazione consapevole della storia nazionale? E, in particolare, quanto è comprensibile al mondo della scuola?
Ancorché non istituzionalmente riconosciuta nel nostro affollato “calendario civile”, la data del 12 dicembre è bene che sia oggetto di una riflessione dedicata. E l’occasione può senz’altro essere un corso di aggiornamento e formazione per insegnanti, che aiuti a trasformare momenti di celebrazione in occasioni di conoscenza e di riflessione, tra storia, cultura ed educazione alla cittadinanza, attenti al contesto storico e alle complesse dinamiche della memoria collettiva. È quanto l’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Pavia ha provato a fare in un ciclo di lezioni conclusosi lo scorso novembre, che agli insegnanti era anzitutto rivolto e che aveva per tema proprio gli eventi e i problemi del nostro calendario civile.
La “strategia della tensione”, che ha inizio quel 12 dicembre di cinquantatré anni fa, non si esaurisce nella sola politica stragista, ma si deve assumere come un fenomeno storico di lunga durata nell’Italia repubblicana. Per questo una seria riflessione sul tema rinvia alle condizioni storico-politiche ed economico-sociali che resero possibile il verificarsi di quegli eventi. In tal senso, il 1969 è davvero una data periodizzante nella storia della Repubblica, tra istanze di trasformazione e tendenze restauratrici, il cui sguardo è rivolto al passato di fronte alle tensioni del presente. Con la “stagione delle stragi” si inasprisce lo scontro sociale; si opera per spostare a destra l’opinione pubblica, prima ancora che l’asse della politica; si evocano governi d’ordine, fino alla esplicita rottura degli assetti istituzionali.
Nella sostanza una dinamica eversiva nella quale lo squadrismo neofascista lancia un’offensiva fin lì mai tentata, forte delle connessioni più disparate con uomini e apparati dello Stato, in un reticolo di poteri più o meno occulti. Tra vergognose rimozioni e frettolose ricomposizioni si consumano crisi e tensioni che investono le Forze armate, le relazioni industriali, il sistema politico e l’ordine pubblico.
Non meno importante è, infine, lo scenario internazionale, laddove le rigidità dei blocchi contrapposti in tempi di Guerra fredda si misurano con il processo di distensione degli anni Sessanta e, al suo interno, un sistema dei partiti bloccato in cui si consuma la crisi del centrosinistra. Una faticosa e, per molti aspetti, drammatica, crisi di transizione che porta il Paese dalla fase storica espansiva degli anni Cinquanta e Sessanta al progressivo esaurimento di quel modello.
L'anniversario della strage. La strage di Piazza Fontana fu fascista, ma nessuno se lo ricorda…Luca Casarini su Il Riformista il 13 Dicembre 2022
12 dicembre 1969, il giorno della strage. Alcuni anni fa fu svolta una ricerca all’interno degli istituti superiori di Milano. Per la maggioranza degli studenti intervistati, la strage fu opera delle Brigate Rosse. Poi via via altre risposte. Pochi la attribuivano correttamente a fascisti e stato. Sulla natura fascista della sua esecuzione, vi è certezza. Tutta l’operazione si svolse un giorno qualunque di un anno più che caldo, rovente. il 1969, con le piazze piene del conflitto sociale operaio e studentesco e 144 attentati, di cui 90 di matrice fascista.
Ma la dicitura “strage di stato”, che squarcia grazie alla controinchiesta e alla pubblicazione del famoso libro solo mesi dopo la montatura orchestrata per attribuire i morti di Milano agli anarchici, al movimento, oggi è molto più chiara nel suo significato. In particolare sul ruolo delle Forze Armate, dei vertici e del loro servizio di sicurezza, il SID. La fragile democrazia italiana in quel periodo storico, è circondata: La dittatura di Salazar e Caetano in Portogallo, quella di Franco in Spagna e quella dei colonnelli in Grecia. Le forze armate, come in tutti i propositi di golpe e in tutte le dittature realizzate, hanno un ruolo centrale. Allora ascrivere il ruolo delle forze armate italiane come vittime di “poche mele marce” dentro al SID appare riduttivo.
I propositi golpisti italiani, poi concretizzati l’anno seguente con Junio Valerio Borghese ( come in Germania adesso, un altro “principe”) erano discussi apertamente prima di Piazza Fontana e con la partecipazione di alti gradi, in convegni internazionali (vedasi indagini Guido Salvini ), e con il ruolo ispiratore dell’intelligence statunitense e di “Aginter press” del nazista Guerin Serac. Oltre ai militari, altre figure dello stato sono state troppo poco considerate per il loro ruolo: i magistrati che a più riprese hanno depistato, inquinato, impedito le indagini sulla strage, fino a giungere alle incredibili sentenze di Catanzaro.
La cellula veneta di Ordine Nuovo che mette materialmente la bomba, è inserita in una rete golpista che va ben al di là dei confini italiani.
Credo che una delle ragioni del “compromesso storico” cominci a farsi strada proprio all’indomani del 12 dicembre, all’interno della DC come del PCI. Tenere in piedi lo stato, quello stato, in qualche modo. Il golpe in Cile, tre anni dopo, mentre convinceva una generazione di lavoratori e studenti che bisognasse prepararsi alla difesa in armi della libertà, convinse gli apparati comunisti istituzionali, che era meglio cedere.
Il fatto che per la strage di Piazza Fontana non ci sia nessun colpevole per la giustizia italiana, conferma che lo stato, che è un organismo complesso, non ha voluto rinunciare a nessuno dei suoi pezzi, e non lo farà mai. Li depone, li modifica, ma soprattutto li protegge come figli. Lo stato non processa sé stesso, e non consegna mai la verità alla memoria collettiva. Luca Casarini
L’anniversario della strage, Piazza Fontana la strana inchiesta da Mister X a Valpreda. Massimo Pisa La Repubblica il 12 Dicembre 2022.
La tesi del colonnello Giraudo, liquidata a Milano, ha trovato ascolto a Brescia in un fascicolo su piazza della Loggia. Ma senza riscontri
La storia giudiziaria di piazza Fontana si è chiusa nove anni fa. Ma un’inchiesta parallela e ufficiosa è andata avanti almeno fino al 2020 e Repubblica è in grado di documentarla. Ha avuto come motore il colonnello del Ros Massimo Giraudo, e come regia la procura di Brescia. Ha mischiato anarchici e fascisti, Valpreda e “Mister X”, Merlino e un elettrauto, il “Paracadutista” e “l’Antiquario”, fino a un magistrato in pensione. Sta nelle carte dell’ultima indagine sulla bomba di piazza della Loggia del 1974, conclusa con la richiesta di rinvio a giudizio per Marco Toffaloni e Roberto Zorzi.
Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, la storia d'Italia precipita nel suo pozzo nero: è l'ora della strage di piazza Fontana, della bomba che uccide 17 persone e apre quella che poi verrà definita la strategia della tensione. Nelle foto d'archivio ripercorriamo a cinquant'anni da quel giorno quanto avvenne in quei giorni: dai primi sopralluoghi dopo la bomba, con l'atrio della Banca nazionale dell'agricoltura trasformata in uno scenario di guerra, ai funerali di Stato in Duomo, con migliaia di milanesi in una piazza fredda e coperta di nebbia, e le istituzioni in chiesa, fino ai funerali dell'anarchico Giuseppe, Pino, Pinelli, considerato la 18esima vittima di piazza Fontana.
Origine e bocciatura
L’antefatto è del 15 luglio 2009: la comunicazione di notizia di reato informativa in 22 pagine che Giraudo, dopo aver letto il controverso libro di Paolo Cucchiarelli (Il segreto di piazza Fontana, quello della tesi della “doppia bomba”) inviò al pm milanese Massimo Meroni. Prospettava l’ipotesi che l’anarchico Pietro Valpreda — il primo “mostro” della vicenda, incastrato dalle questure di Roma e Milano e assolto solo nel 1987 — avesse davvero messo una bomba a basso potenziale nella banca (poi “raddoppiata” dai neonazisti), e che l’esplosivo di piazza Fontana fosse lo stesso utilizzato poi a Brescia, come testimoniato da un anonimo “Mister X” a Cucchiarelli. La risposta del procuratore aggiunto Armando Spataro fu durissima, inibiva il colonnello a proseguire senza deleghe ma il fascicolo, su istanza dei parenti delle vittime, fu comunque aperto. Si riempì di vaghe testimonianze degli ex ordinovisti Giampaolo Stimamiglio e Gianni Casalini, delle allusioni del “barone nero” Tomaso Staiti di Cuddia a un abbaino nei pressi della Scala (presunta base degli artificieri della strage), e dei deliri del mitomane Alfredo Virgillito. Cucchiarelli, convocato dai magistrati, si rifiutò di rivelare “Mister X” e finì indagato. La richiesta di archiviazione, firmata il 24 aprile 2012 da Spataro e dal pm Grazia Pradella, bocciò senza appello i nuovi spunti e l’ufficiale del Ros che li aveva proposti. Giraudo, però, continuò a godere della fiducia dei pm bresciani e proseguì nelle indagini su piazza della Loggia.
Da Verona a Valpreda
Interrogando l’ex ordinovista veronese Claudio Lodi, il 13 dicembre 2012, il colonnello riprese il filo. Lodi avvalorava un presunto (e mai riscontrato dai fatti) passato ordinovista di Pietro Valpreda, un suo ruolo da finto anarchico e da operativo nella trama stragista. Ombre che si riallacciavano a una vecchia traccia: nel 1971 la testimone Adriana Zanardi gettò sospetti sull’ex fidanzato dell’epoca, il parà nero (e figlio di direttore di banca) Claudio Bizzari, privo di alibi il 12 dicembre 1969 e allusivo sulle responsabilità di Valpreda. A Bizzari come esecutore materiale di piazza Fontana aveva pure accennato il pentito Carlo Digilio nel 1994.
La conclusione di Giraudo finì in due informative dell’8 gennaio e 8 aprile 2013: recuperavano alcune teorie formulate dall’ergastolano Vincenzo Vinciguerra e saldavano Valpreda al filo delle trame nere, insieme al paracadutista Bizzari e agli ordinovisti duri e puri veronesi. Il materiale venne trasmesso da Brescia a Milano, stavolta senza risposta. Così come le ricostruzioni che attribuivano un ruolo da tecnico degli ordigni di piazza Fontana a Ugo Cavicchioni, chiacchierato elettrauto di Rovigo in contatto con Franco Freda (il suo nome compariva nelle agende del legale padovano). Fecero il percorso inverso, in direzione di Brescia, i colloqui tra il giudice Guido Salvini e il detenuto Cristiano Rosati Piancastelli, ex sanbabilino, antiquario, nipote di un collaboratore di Tom Ponzi. Spiegò che in piazza Fontana c’erano telecamere nascoste, piazzate dal superdetective privato, a riprendere tutto. Le bobine andavano cercate in chissà quale baule. Il 30 settembre 2013 il decreto di archiviazione firmato dal gip Fabrizio D’Arcangelo, e il suo giudizio sulla “radicale infondatezza della notizia criminis”, mise un freno a spunti e illazioni.
Ripresa e “Mister X”, finalmente
Alla fine del 2018, il colonnello Giraudo tornò a cercare la gola profonda delle due stragi. Tra colloqui e analisi di tabulati telefonici, la trovò: Giancarlo Cartocci, ex ordinovista romano diventato addetto stampa in Parlamento con Pino Rauti, e già lambito tra il ’69 e il ’72 dai sospetti di aver partecipato gli attentati romani (quelli senza vittime) del 12 dicembre. Cartocci — ormai vecchio e malato — venne intercettato e interrogato otto volte. Qualcosa ammise, molto negò, soprattutto le sue conoscenze sugli esplosivi e gli autori delle stragi, su doppie bombe e partecipazione degli anarchici. Né aggiunse dettagli l’interrogatorio del 6 giugno 2019 a Mario Merlino, amico di Cartocci, l’infiltrato nero nel circolo anarchico di Pietro Valpreda, anch’egli uscito indenne dai processi. Ma l’escursione bresciana sui misteri della Banca dell’Agricoltura non finì lì.
L’ultimo filone seguito dal colonnello Giraudo ha preso spunto da La maledizione di piazza Fontana, il memoir del giudice Guido Salvini. Dopo la morte del “Paracadutista” Bizzari, indicato come il depositore della borsa omicida, l’ufficiale interrogò (era il 19 dicembre 2019) la vedova Manuela Olivieri, che però nulla sapeva. La maratona investigativa è terminata (per il momento) il 27 febbraio 2020 a Vicenza davanti all’ex magistrato Giovanni Biondo. Che negli anni Settanta fuggì in Spagna per evitare di essere processato come complice di Freda e Ventura. Salvini aveva raccontato di un colloquio particolarmente imbarazzante per l’ex collega, sull’orlo della confessione di cose indicibili. A verbale, però Biondo non confermò nulla. Nemmeno un briciolo di mistero.
Depistaggi e complicità: la strage di piazza Fontana. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.
La seconda puntata della serie audio sulle verità nascoste della storia della Repubblica racconta «la madre di tutte le stragi», che diede vita alla strategia della tensione.
Milano, venerdì 12 dicembre 1969. Sotto il grande tavolo nel salone Banca Nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana, esplode una bomba che uccide 17 persone, seguita da una scia di cadaveri e omicidi lunga molti anni, dalla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli al delitto del commissario Luigi Calabresi. La madre di tutte le stragi, quella che fa esplodere la strategia della tensione, è il tema della seconda puntata di «Nebbia - Le verità nascoste nella storia della Repubblica» , la serie podcast scritta da Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola, disponibile per gli abbonati a Corriere.it (oppure su Audible), che ripercorre i grandi eventi criminali – ma non solo criminali – che hanno cambiato il corso della storia repubblicana e che ancora presentano molti lati oscuri.
La serie podcast «Nebbia» (qui la presentazione firmata da Roberto Saviano) racconta storie di giustizia negata, soprattutto a causa di depistaggi che hanno deviato le indagini e coperto responsabilità. Dieci episodi per dieci tappe fondamentali che si snodano tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Novanta, narrati attraverso le testimonianze dirette dei protagonisti – a partire dai familiari delle vittime –, dettagli «minori» che svelano trame più grandi, intrecci fra vicende apparentemente slegate che aiutano a ricostruire il contesto in cui tutto è accaduto.
La strage di piazza Fontana, spiegata. Andrea Muratore su Inside Over il 19 Dicembre 2021. Diciassette morti e nessun colpevole accertato. Un attentato brutale condotto contro la popolazione civile nella capitale economica del Paese. Piste di indagine fallaci, morti sospette, depistaggi. Piazza Fontana è stata una pagina buia nella storia d’Italia e, a oltre mezzo secolo di distanza, l’attentato che il 12 dicembre 1969 colpì la Banca nazionale dell’agricoltura situata a poca distanza dal Duomo di Milano è ricordato sia come il punto di inizio vero e proprio della strategia della tensione sia come un simbolo dei misteri d’Italia che si accompagnano alla fase più complessa della storia della Repubblica.
L’attentato che sconvolse l’Italia
Il 12 dicembre 1969 alle 16.30 la sede milanese della Banca nazionale dell’agricoltura, che offriva un servizio prolungato rispetto all’orario di chiusura degli altri istituti, situata nella piazza ove ha sede l’arcivescovado milanese era ancora piena di clienti giunti soprattutto dalla provincia; sette minuti dopo nella banca scoppiò un ordigno contenente sette chili di tritolo, che uccise 13 persone e ne ferì 91, quattro delle quali morirono in seguito, portando il totale delle vittime a diciassette.
Uno choc brutale, un boato trafisse in quel momento l’Italia. Altri attentati, contemporaneamente, andarono in scena a Roma, provocando diversi feriti ma nessuna vittima. L’attacco è al cuore della Repubblica, a un Paese che in quel momento era reduce dalle grandi passioni del decennio dei Sessanta, iniziato e proseguito nel segno del boom economico, della crescita delle industrie, dei consumi, dell’urbanizzazione e concluso con la complessa parabola del Sessantotto e le avvisaglie di una crescente conflittualità sociale, con i cortei e le manifestazioni operaie dell’Autunno Caldo. Il decennio che aveva visto un’altra morte tragica e misteriosa, quella di Enrico Mattei, i tranelli del Piano Solo e le prime avvisaglie di una lotta per il cuore del potere della Repubblica si chiuse con la strage che segnò uno spartiacque definitivo.
In primo luogo perché con la bomba del 12 dicembre 1969 emerse definitivamente la natura di Paese conteso e di faglia geopolitica tra Est e Ovest della penisola. In secondo luogo perché le indagini storiche e giudiziarie hanno accertato che con Piazza Fontana andò in scena la prima, strutturata saldatura tra componenti deviate degli apparati, degli organi dello Stato e della massoneria da un lato e elementi terroristici legati, in questo caso, all’estrema destra dall’altro. Tutto questo con la solita sequela di depistaggi e inquinamenti di prove che ha contraddistinto l’evoluzione delle indagini. In terzo luogo perché l’analisi “geopolitica” del contesto in cui è maturato l’attentato permette di capire come la strategia della tensione non sia stata solo una sequela di delitti e non sia stata solo un affare italiano ma abbia rappresentato la fase più acuta della Guerra fredda, investendo molti Paesi come l’Argentina, la Grecia, il Brasile, l’Indonesia, la Bolivia, il Cile. Analizziamo questi elementi con ordine.
L’Italia era sempre più importante, nel cuore della Guerra fredda, come Paese di confine tra Est e Ovest. Il Paese aveva retto alla svolta modernizzatrice guidata dalla Democrazia cristiana prima e dopo la consociazione al potere del Partito socialista, manteneva il Partito comunista più grande dell’Occidente, era costantemente attenzionata dagli Stati Uniti che nell’era dell’amministrazione Nixon avevano iniziato un pressing costante per fermare l’avanzata delle sinistre nella loro sfera di influenza. In Italia, figure come Aldo Moro, ai tempi ministro degli Esteri, desideravano coniugare l’appartenenza al campo atlantico con il mantenimento di gradienti di autonomia nello spazio mediterraneo.
L’Unione sovietica, parimenti, manteneva una profonda attenzione su Roma come possibile pivot diplomatico con l’Occidente in termini distensivi; dialogava a tutto campo con il Pci del segretario Luigi Longo, ex comandante partigiano ed eroe della Guerra di Spagna che aveva seguito il predecessore Palmiro Togliatti nell’iniziare a porre dei distinguo tra la “via italiana al socialismo” e l’ortodossia moscovita.
Erano anni di grandi cambiamenti anche per il Vaticano reduce dal Concilio Vaticano II e in cui Paolo VI si stava facendo garante del mantenimento della stabilità e del dialogo tra componenti sociali e politiche interne al Paese, mediato dalla classe politica che si era formata alla sua ombra nell’era della Resistenza.
Forze che auspicavano la stabilizzazione dell’Italia si confrontavano con apparati che, invece, puntavano a vedere rapidi cambiamenti: diversi storici e magistrati, da Aldo Giannuli a Guido Salvini, nei loro lavori hanno individuato l’avvio della strategia della tensione e del percorso che portò a Piazza Fontana nell’opera dei fautori di una svolta autoritaria interni a apparati dei servizi segreti, strutture Nato, frange reazionarie della politica italiana aventi il loro strumento operativo nei gruppi terroristici di stampo neofascista.
In quest’ottica l’opera di Giannuli, sostanziata nel saggio La strategia della tensione (Ponte alle Grazie), ha di fatto contribuito a sottolineare il ruolo giocato da Federico Umberto D’Amato, dominus dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, che nella sua veste di massimo dirigente del servizio segreto civile operò per coprire e depistare le indagini. Le ombre su D’Amato sono tante e tali da portare l’ ex generale dei servizi segreti Nicola Falde a ritenere che la super-spia del’Uar fu addirittura l’organizzatore materiale della strage.
D’Amato operò per promuovere una manovra di infiltrazione dei partiti di sinistra e le organizzazioni extraparlamentari, provocare con falsi manifesti inneggianti alla rivoluzione culturale cinese affissi in diverse città l’idea di un movimento rivoluzionario di stampo comunista e contribuendo a depistare le indagini verso i primi indiziati, gli anarchici Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda, giudiziariamente e storicamente scagionati da ogni accusa.
Gli anarchici non solo erano già ritenuti responsabili di una serie di esplosioni avvenute il 25 aprile nella fiera nella Stazione centrale di Milano (successivamente attribuite ai neofascisti), centrali nella marcia d’avvicinamento a Piazza Fontana. Pinelli, in particolare, fu di fatto la diciottesima vittima della tragedia: fu trattenuto in questura a Milano e sottoposto a un duro e aggressivo interrogatorio per tre giorni, più delle 48 ore in cui la legge permette di prolungare un fermo senza l’autorizzazione di un magistrato.
Il terzo giorno Pinelli morì dopo essere precipitato dalla finestra al quarto piano dell’edificio, e questo generò una serie di accuse e vendette incrociate che avrebbero portato alla tragica uccisione del commissario Luigi Calabresi da parte dell’estrema sinistra tre anni dopo.
La pista nera, giudiziariamente accertata, ha messo nel mirino, in particolare modo, l’organizzazione eversiva di Ordine Nuovo. Tra prescrizioni, processi conclusisi con assoluzioni spesso per mancanza di prove e depistaggi, nessun colpevole è mai stato individuato a fini processuali, ma le sentenze hanno nel corso degli anni, assieme al lavoro degli storici, delineato il quadro politico in cui la strage maturò: istigare la possibilità che la minaccia comunista e anarchica portasse la Democrazia cristiana a una svolta autoritaria e repressiva sulla scia di quanto avvenuto due anni prima in Grecia.
La strategia non era particolarmente sofisticata o approfondita, ma si basava su uno schema sostanzialmente lineare:
L’obiettivo era creare uno stato di allarme sociale diffuso che creasse un compattamento della maggioranza silenziosa costituita dai ceti medi
La scelta di luoghi come le banche come sede degli attentati non era in tal senso casuale. Sulla base della richiesta di sicurezza, si mirava a convincere la Dc a giungere alla proclamazione dello “stato di emergenza” ed alla conseguente sospensione delle garanzie costituzionali.
Come hanno scritto Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin in Piazza Fontana – Verità e memoria (Feltrinelli): “Il colpo di Stato abortito del 12 dicembre 1969 è il primo tentativo di una vasta congiura ordita da politici e militari atlantisti che, pur andando dall’estrema destra più fascista ai socialisti saragattiani, sono tutti animati da comune e fanatico anticomunismo. L’origine di questa congiura si inscrive nella collaborazione avviata a metà degli anni Sessanta tra fascisti e servizi segreti (in particolare dopo il convegno dell’Istituto ‘Alberto Pollio’ all’hotel Parco dei Principi a Roma del maggio 1965)”.
Nel giugno 2005 una sentenza della Corte di Cassazione stabilì che la strage fu opera di “un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine nuovo e capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura”, non più perseguibili a seguito di un’assoluzione ricevuta nel 1987 in un processo tenutosi a Bari. Carlo Digillo, terrorista di Ordine Nuovo soprannominato “zio Otto” (1937-2005) fu reo confesso ma con pena prescritta, per concorso nella strage di piazza Fontana ed è stato coinvolto anche nella strage di piazza della Loggia, segno della continuità dello stragismo nero nell’era della strategia della tensione.
Concentrata tra il 1969 (Piazza Fontana) e il 1974 (strage di Piazza Loggia a Brescia) la strategia della tensione come programma di destabilizzazione del Paese si inserì nel quadro di un contesto globale in cui, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, diversi Paesi strategici per la strategia degli Stati Uniti furono interessati da manovre volte a instaurare regimi autoritari e fortemente anti-comunisti.
Il colpo di Stato brasiliano del 1964 contro il regime “sovranista” di Joao Goulart e quello argentino del 1966 guidato da Juan Carlos Ongania riportarono i due Paesi a fianco del contrasto più duro e netto al comunismo; il golpe indonesiano del 1965, con cui il generale Suharto guidò un vero e proprio genocidio contro mezzo milione di comunisti o sospetti tali, puntellò il domino nell’Indo-Pacifico nel pieno della guerra in Vietnam; nel Cile, nel 1973, andò in scena il golpe di Augusto Pinochet. Tutti questi eventi si inseriscono alla perfezione in una vera e propria “strategia della tensione mondiale” che ebbe un agente acceleratore, sul fronte italiano, nel ruolo di copertura offerto dal regime castrense dei colonnelli greci all’eversione nera.
“La Grecia”, ha scritto Giannuli, “diverrà un modello anche per la destra ed i militari di altri Paesi: ad esempio nel marzo 1971 i militari presero il potere in Turchia. Ma è in Italia che il modello greco trovò i suoi più convinti imitatori nel gruppo di Ordine Nuovo, che aveva stretto fitti rapporti di collaborazione con Kostas Plevris”, giovane leader del gruppo neo nazista greco “Movimento 4 agosto”. D’altro canto, “gli ordinovisti ebbero altri autorevoli consulenti nell’Aginter Presse di Yves Guerin Serac che, da Lisbona, teneva le redini dell’internazionale nera di cui, peraltro, facevano parte anche i greci del “4 agosto”.
Secondo quanto scrive lo storico greco Dimitri Deliolanes nel suo corposo saggio Colonnelli. Il regime militare greco e la strategia del terrore in Italia (Fandango libri), la giunta militare ha tentato di “esportare la rivoluzione” in Italia, in maniera costante, persistente e usando ingenti risorse, anche per far pagare alla classe di governo della Dc e a Moro in particolare la scelta di espellere Atene dal Consiglio d’Europa che divenne operativa proprio il giorno della strage di Piazza Fontana. E dal 1969 in avanti l’Italia fu al centro del mirino, per almeno cinque anni, nel quadro di una strategia volta alla crescente destabilizzazione del sistema politico che aveva creato democrazia, sviluppo e autonomia per il Paese. Ed è, vista a oltre mezzo secolo di distanza, indubbiamente ammirevole la capacità che l’Italia ebbe di resistere alla strategia della tensione sconfiggendo gli opposti estremismi e sviluppando gli anticorpi contro ogni forma di autoritarismo nel cuore della faglia più calda della Guerra fredda in Europa.
Storia. La strage di Piazza Fontana: una verità processuale. Da Focus 11 dicembre 2020. 12/12, la bomba di Piazza Fontana: 10 anni di processi, depistaggi, condanne e assoluzioni visti dal giudice Guido Salvini, che ha condotto l'istruttoria 1989-97.
12 dicembre 1969, ore 16:37: una bomba confezionata con 7 kg di tritolo esplode nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano - una strage che costò 17 morti e 88 feriti. Pubblichiamo un articolo di Focus Storia (2006): 10 anni di processi, depistaggi, condanne e assoluzioni raccontati a Focus dal giudice Guido Salvini, che ha condotto l'istruttoria dal 1989 al 1997.
Il 12 dicembre 1969 iniziò per l'Italia una sorta di oscuro, lento, ma comunque micidiale "11 settembre": incominciava cioè la strategia della tensione. Come si tende a fare con i brutti ricordi, si parla poco di quei fatti, ma la strategia della tensione, fatta di bombe nelle banche, di stragi di civili sui treni e nei comizi sindacali, appartiene alla nostra storia recente, e la conoscenza storica può aiutare a non essere più vittime di certe logiche politiche e di potere.
ROMA E MILANO: 5 BOMBE IN 53 MINUTI. Tutto ebbe inizio il 12 dicembre 1969 con le bombe all'Altare della Patria e nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro a Roma, con alcuni feriti. E, in contemporanea, con la terribile bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, in Piazza Fontana, a Milano, che provocò 17 morti e 88 feriti, che mutò radicalmente il pensiero di molti verso le istituzioni del Paese.
Su questa strage sono stati celebrati dieci processi, con depistaggi, fughe all'estero di imputati, latitanze più che decennali, condanne, assoluzioni. Fino alla definitiva assoluzione dei presunti esecutori: Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni e Carlo Maria Maggi. «Ma non dell'area nazifascista che aveva organizzato la strage e di quella parte degli apparati dello Stato con loro collusa, per favorire, attraverso la paura, l'insediamento di un governo autoritario in Italia», afferma il giudice milanese Guido Salvini - che ha condotto l'istruttoria 1989-97 su Piazza Fontana sulla base della quale si sono avute la condanna degli imputati in primo grado (30 giugno 2001) e la loro assoluzione in appello (12 marzo 2004) con conferma dell'assoluzione in Cassazione (3 maggio 2005).
Ecco la sua intervista a Focus Storia nel 2006.
Giudice Salvini, nonostante non si sia arrivati alla definitiva condanna processuale di singole persone, Lei continua a essere un testimone della memoria storica su quei fatti. In che cosa consiste oggi questa memoria?
Tutte le sentenze su Piazza Fontana, anche quelle assolutorie, portano alla conclusione che fu una formazione di estrema destra, Ordine Nuovo, a organizzare gli attentati del 12 dicembre. Anche nei processi conclusi con sentenze di assoluzione per i singoli imputati è stato comunque ricostruito il vero movente delle bombe: spingere l'allora Presidente del Consiglio, il democristiano Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza nel Paese, in modo da facilitare l'insediamento di un governo autoritario.
Come accertato anche dalla Commissione Parlamentare Stragi, erano state seriamente progettate in quegli anni, anche in concomitanza con la strage, delle ipotesi golpiste per frenare le conquiste sindacali e la crescita delle sinistre, viste come il "pericolo comunista", ma la risposta popolare rese improponibili quei piani. Il presidente Rumor, fra l'altro, non se la sentì di annunciare lo stato di emergenza. Il golpe venne rimandato di un anno, ma i referenti politico-militari favorevoli alla svolta autoritaria, preoccupati per le reazioni della società civile, scaricarono all'ultimo momento i nazifascisti. I quali continuarono per conto loro a compiere attentati. Cercarono anche di uccidere Mariano Rumor, con la bomba davanti alla Questura di Milano (4 morti e 45 feriti) del 17 maggio 1973, reclutando il terrorista Gianfranco Bertoli.
Il Golpe Borghese
Il 7 dicembre 1970 inizia a Roma l'operazione Tora Tora, un tentativo di colpo di Stato. A dirigerlo, il principe Junio Valerio Borghese (1906-1974) dalle stanze della sede romana del Fronte Nazionale, movimento politico di estrema destra. I bersagli sono i ministeri della difesa e dell'interno, la sede Rai e le centrali telefoniche e telegrafiche, con l'obiettivo di scatenare il caos nel Paese colpendo il cuore dello Stato - il piano prevede infatti anche il rapimento del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, e l'assassinio del capo della Polizia, Angelo Vicari. Ma il golpe fallisce e Borghese fugge in Spagna (da Focus Storia 170, disponibile in versione digitale).
Perché non si è arrivati ad avere sufficienti prove sulle responsabilità personali nell'attentato di piazza Fontana?
L'assoluzione definitiva è stata pronunciata con una formula che giudica incompleto, ma non privo di valore, l'insieme delle prove raccolte. Sono esistiti in questa vicenda pesanti depistaggi da parte del mondo politico e dei servizi segreti del tempo. Però non è del tutto esatto che responsabilità personali non siano state comunque accertate nelle sentenze. Almeno un colpevole c'è, anche nella sentenza definitiva della Cassazione del 2005: si tratta di Carlo Digilio, l'esperto in armi e in esplosivi del gruppo veneto di Ordine Nuovo, reo confesso, che fornì l'esplosivo per la strage ed il quale ha anche ammesso di essere stato collegato ai servizi americani.
Digilio ha parlato a lungo delle attività eversive e della disponibilità di esplosivo del gruppo ordinovista di Venezia, di cui faceva parte Delfo Zorzi, assolto poi per la strage per incompletezza delle prove nei suoi confronti, in quanto la Corte non ha ritenuto sufficienti i riscontri di colpevolezza raggiunti. Né sono bastate le rivelazioni di Martino Siciliano, che aveva partecipato agli attentati preparatori del 12 dicembre insieme a quel gruppo, con lo scopo di creare disordine e far ricadere le accuse su elementi di sinistra. Ma nelle tre sentenze risultano confermate le responsabilità degli imputati storici di Piazza Fontana, pure loro di Ordine Nuovo: i padovani Franco Freda e Giovanni Ventura. Essi però, già condannati in primo grado nel processo di Catanzaro all'ergastolo, e poi assolti per insufficienza di prove nei gradi successivi, non erano più processabili. Perché in Italia, come in tutti i paesi civili, le sentenze definitive di assoluzione non sono più soggette a revisione.
Ci può spiegare meglio? Intende dire che Freda…
Sì, se Freda e Ventura fossero stati giudicati con gli elementi d'indagine arrivati purtroppo troppo tardi, quando loro non erano più processabili, sarebbero stati, come scrive la Cassazione, condannati.
Può fare un esempio?
L'elemento nuovo, storicamente determinante, sono state le testimonianze di Tullio Fabris, l'elettricista di Freda che fu coinvolto nell'acquisto dei timer usati il 12 dicembre per fare esplodere le bombe. La sua testimonianza venne acquisita solo nel 1995. Un ritardo decisivo e "provvidenziale" per gli imputati. Fabris nel 1995 descrisse minuziosamente come nello studio legale di Freda, presente Ventura, furono effettuate le prove di funzionamento dei timer poi usati come innesco per le bombe del 12 dicembre.
Le nuove indagini hanno anche esteso la conoscenza dei legami organici fra i nazifascisti, elementi dei Servizi Segreti militari e dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno, diretto all'epoca da Federico Umberto D'Amato. E c'è di più: il senatore democristiano Paolo Emilio Taviani, in una sofferta testimonianza resa poco prima di morire e purtroppo non acquisita dalle Corti milanesi, ha raccontato di aver appreso che l'avvocato romano Matteo Fusco, agente del SID, il Servizio Informazioni della Difesa, il pomeriggio del 12 dicembre del 1969 era in procinto di partire da Fiumicino alla volta di Milano in quanto incaricato, seppure tardivamente, di impedire gli attentati che stavano per avere conseguenze più gravi di quelle previste. La missione, non riuscita, confermata dalla testimonianza della figlia ancora vivente dell'avvocato Fusco, che aveva ben presente il rammarico del padre negli anni per non avere potuto evitare la strage, indica ancora una volta che la campagna di terrore non fu solo il parto di un gruppetto di fanatici, ma che a Roma almeno una parte degli apparati istituzionali era a conoscenza della preparazione degli attentati e che cercò solo all'ultimo momento di ridurne gli effetti. Dopo l'esito tragico, si adoperarono per calare una cortina fumogena sulle responsabilità a livello più alto.
La frammentazione delle prove nei tanti processi ha favorito questa cortina fumogena?
Indubbiamente. Ma la ricostruzione dell'accusa, senza effetti, ripeto, su persone non più processabili, è che il gruppo di Freda acquistò valige fabbricate in Germania in un negozio di Padova e comprò i timer, di una precisa marca, che mise nelle valige insieme con l'esplosivo che probabilmente il gruppo veneziano disponeva di propri depositi. Alcune valige furono portate a Roma e consegnate agli esponenti di Avanguardia Nazionale che effettuarono gli "attentati minori". Altri militanti invece raggiunsero Milano con altre due valige esplosive, attesi dai referenti locali di Ordine nuovo. Una bomba alla Banca Commerciale di piazza della Scala non esplose, l'altra, alla banca dell'Agricoltura, provocò la strage. Gli obiettivi di Roma e Milano potevano tutti essere interpretati in chiave anti-capitalista e antimilitarista in modo da fare ricadere la colpa sugli anarchici e più in generale sulla sinistra.
Tre giorni dopo la strage un anarchico, Giuseppe Pinelli, volò dal quarto piano della Questura di Milano. Un altro anarchico, Pietro Valpreda, fu incarcerato e indicato come il "mostro" nelle prime pagine dei quotidiani e nei telegiornali. Quando non si pensava nemmeno lontanamente a Internet un gruppo di giovani, in soli sei mesi, scambiandosi informazioni, mise in piedi una contro-inchiesta collettiva raccolta poi in un famoso libro, "La strage di Stato". Che valore ebbe questo loro impegno per le indagini giudiziarie successive?
Fu davvero profetico e quasi propedeutico rispetto agli accertamenti giudiziari avvenuti dopo. Soprattutto, ebbe il merito di smontare rapidamente la pista anarchica, fabbricata apposta da infiltrati di Ordine nuovo, di Avanguardia Nazionale e dei servizi segreti per depistare le indagini e mettere sotto accusa di fronte all'opinione pubblica gli anarchici e, per estensione, gli studenti contestatori e le forze di sinistra impegnate nelle lotte sindacali di quel periodo, preparando così il clima per la svolta autoritaria. Che non ci fu, anche perché la grande stampa, dopo un po', fece suoi molti temi di quel libro inchiesta.
Quali conclusioni si devono trarre da questa storia?
La strage di Piazza Fontana non è un mistero senza mandanti, un evento attribuibile a chiunque magari per pura speculazione politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti se non proprio da un progetto, da un clima comune (come disse nel 1995, alla Commissione Parlamentare Stragi, anche Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro). Nei cerchi più esterni c'erano forze che contavano di divenire i "beneficiari" politici di simili tragici eventi. Completando la metafora, i cerchi più esterni, appartenenti anche alle Istituzioni di allora, diventarono subito una struttura addetta a coprire l'anello finale, cioè gli esecutori della strage quando il "beneficio" risultò impossibile poiché quanto avvenuto aveva provocato nel Paese una risposta ben diversa da quella immaginata: non di sola paura, ma di giustizia e di mobilitazione contro piani antidemocratici.
L'anniversario di quei tragici eventi del 12 dicembre 1969 non è solamente "amarezza" o sdegno per la strage e ciò che ne è seguito: è anche un insegnamento per le giovani generazioni, perché la memoria serve anche a ridurre il rischio che simili trame e sofferenze possano nel futuro ripetersi.
Guido Salvini: «La guerra tra pm ha fermato la verità su piazza Fontana». Intervista al magistrato che ha indagato sulla strage del 12 dicembre del ’69, scrive Rocco Vazzana il 20 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". «Senza la “guerra tra magistrati” che io ho solo subito gli esiti di quei processi sarebbero stati diversi e la verità completa». A quasi cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, Guido Salvini, ex giudice istruttore nel processo di Milano, ripercorre gli anni in cui la democrazia rischiò di sbriciolarsi sotto le bombe.
In tutto questo tempo si sono svolti tre processi, sono stati individuati due colpevoli, gli ordinovisti Franco Freda e Giovanni Ventura, ma nessuna condanna è stata mai pronunciata. Come è possibile?
«Aggiungo a Freda e Ventura Carlo Digilio che è stato dichiarato colpevole di concorso della strage per aver preparato l’ordigno ma già in Corte d’Assise ha avuto la prescrizione in quanto collaboratore. Ciò che ha danneggiato queste indagini, e in generale le indagini sulle stragi, è stata la frammentazione dei processi. Perché le collaborazioni e le testimonianze sono arrivate in tempi diversi, in un arco temporale lungo più di trent’anni. In questo modo nessun processo ha potuto utilizzare tutte le prove esistenti, ognuno ne ha utilizzato solo una parte. Se oggi, per fare un’ipotesi metagiudiziaria fosse possibile celebrare un processo mettendo insieme tutte le prove raccolte sino ad oggi probabilmente quelli che sono stati imputati sarebbero condannati».
Perché il processo fu spostato a Catanzaro?
«Con la giustificazione dell’ordine pubblico. Il Procuratore capo di Milano e poi la Cassazione stabilirono che a Milano vi era il rischio di scontri di piazza fra gruppi opposti. La sede scelta però era troppo distante. L’unico precedente paragonabile, da questo punto di vista, è stato il processo per il disastro del Vajont, che fu trasferito a L’Aquila, un luogo praticamente irraggiungibile per i valligiani. Sono decisioni che ledono il diritto di partecipare delle persone offese. E l’obiettivo credo che fosse quello che in un’aula così distante si annacquassero testimonianze imbarazzanti per lo Stato. A Catanzaro l’istruttoria fu anche resa difficile dalla distanza dello scenario delle indagini, tutti i testimoni erano in Veneto. Eppure il giudice istruttore di allora, Emilio Ledonne, fece un ottimo lavoro con il filone che portò al rinvio a giudizio di Delle Chiaie e Facchini, anche se poi assolti nel 1988. E fu Ledonne a individuare, già all’epoca, come esplosivista del gruppo “zio Otto”, anche se allora non fu identificato in Carlo Digilio, l’uomo che 15 anni dopo diventerà con me l collaboratore di giustizia per la strage. Anche se nessuno ha scontato delle pene, però, le indagini non sono state affatto inutili. Le sentenze dicono che la strage di Piazza Fontana è stata organizzata lì in Veneto, dalle cellule di Ordine Nuovo. Su quanto avvenuto si sa praticamente tutto e la paternità politica è indiscussa».
Perché lei definisce il 12 dicembre una strage “incompleta”: cinque attentati e una sola strage?
«Quel giorno è senza dubbio accaduto qualcosa di strano. Perché gli attentati di Milano e Roma erano stati preceduti da 17 episodi simili dall’inizio del 1969. Erano attentati dimostrativi che erano stati tollerati perché servivano a stabilizzare il quadro politico: c’era Rumor che spingeva per mantenere un monocolore con l’appoggio solo dei socialdemocratici, che si era separati dal Psi, i socialisti e le sinistre andavano isolate e l’asse del governo spostato a destra».
Fino a quel momento, la strategia “dimostrativa” è condivisa da vari gruppi dell’estrema destra, compreso il Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese…
«Senza dubbio, il Fronte nazionale in quel 1969 si sta preparando a una sterzata istituzionale: stringe rapporti col mondo imprenditoriale, Piaggio per citarne uno, attiva propri civili e militari in tutto il Paese e rappresenta una forza non trascurabile della destra reazionaria italiana. Borghese si era rivolto anche all’ambasciatore americano a Roma Graham Martin prospettandogli il suo progetto, senza ricevere in cambio un pieno consenso ma una risposta evasiva. Gli Stati Uniti non comprendevano bene la reale forza del Fronte. L’Italia non era la Grecia, dove gli americani erano certi che nel 1967 il golpe sarebbe riuscito poiché la struttura democratica era molto più debole».
Ma il 12 dicembre finisce la fase “dimostrativa” perché a prendere in mano la situazione è un altro gruppo: Ordine Nuovo.
«Quello che accade il 12 dicembre non doveva essere molto diverso da ciò che era accaduto nei mesi precedenti. Si alza però il tiro, si scelgono due città importanti come Milano e Roma e si punta su obiettivi facilmente confondibili: le banche, dunque il capitalismo, e la patria, con gli attentati all’Altare della patria. Attentati quindi attribuibili tranquillamente all’estrema sinistra. È presumibile che questi cinque attentati contemporanei dovessero rimanere gravi ma nell’alveo degli attacchi dimostrativi, ma a un certo punto Ordine Nuovo deve aver pensato che fosse arrivato il momento dell’assalto finale alla democrazia. E ha trasformato la bomba della banca Milano in una strage. Prendendo di sorpresa anche le forze di destra più moderate che fino a quel momento avevano visto di buon occhio la strategia “stabilizzatrice” di azioni solo dimostrative».
Perché Ordine Nuovo decide di accelerare all’improvviso?
«È stata quasi certamente una scelta dei diretti esecutori. Il fatto che ci sia stato un momento in cui la strategia cambia repentinamente è testimoniato dall’allora vice presidente del Consiglio Paolo Emilio Taviani, uno politico che sapeva e sa quello dice. Taviani ha testimoniato davanti a noi di aver appreso allora da alti funzionari dei Servizi che un avvocato e agente del SID, Matteo Fusco Di Ravello, stava partendo da Roma per Milano per fermare l’attentato perché si era capito che avrebbe provocato una strage. E questo finale non faceva parte del piano “morbido” di stabilizzazione. Ma quando Fusco arrivò all’aeroporto sentì alla radio: “Esplode una caldaia a Milano” e capì che ormai non poteva far nulla. E c’è un dettaglio molto umano, che rende credibile questo racconto: l’avvocato ha una reazione istintiva, si attacca al telefono per sentire la figlia che si trova in albergo a Milano in piazza della Scala, cioè davanti alla Banca Commerciale dove era stata piazzata la seconda bomba. La ragazza è una militante di estrema sinistra che partecipa attivamente alla vita politica. La figlia è stupita da tanta apprensione e ne chiede il motivo. La risposta è quasi un dramma di famiglia: “Perché è successo qualcosa di grosso e non sono riuscito a impedirlo”. La figlia di Fusco lo ah testimoniato davanti a noi».
Perché gli attentati contemporanei avvenuti a Roma, uno alla Bnl e due all’Altare della Patria, non provocano vittime?
«Chi ha piazzato la bomba alla BNL ha avuto probabilmente un’esitazione e ha abbandonato l’ordigno in un sottopassaggio dove ha causato solo feriti. Me se la bomba fosse stata deposta come a Milano nel salone la storia e le conseguenze di quel giorno sarebbero completamente diverse Per due giorni dopo infatti, il 14 dicembre era stata da tempo convocata una manifestazione nazionale della destra a Roma, organizzata dal MSI, ma a cui avevano aderito tutte le sigle di destra, compreso Ordine Nuovo. L’avevano battezzata “Appuntamento con la nazione”. Se gli attentati romani fossero andati a segno con vittime quella manifestazione sarebbe stato il pretesto per scatenare una specie guerra civile, assalti alle sedi dei PCI, reazioni della sinistra, morti strada e di conseguenza la dichiarazione dello stato di emergenza».
Lei ha detto che quel 12 dicembre accadde troppo e troppo poco allo stesso tempo. Cosa intendeva?
«Troppo per chi pensava ad attentati dimostrativi che servivano solo a mantenere alta la tensione, troppo poco perché sarebbe servita una seconda strage per mettere in ginocchio la democrazia. Per capire quei fatti bisogna anche inserire i fatti italiani in un contesto internazionale ben preciso. Nel febbraio del ‘ 69 Nixon arriva in visita a Roma. È l’occasione per chiedere al Presidente Saragat di impedire l’avvicinamento dei comunisti al governo. Saragat, il più filo atlantico dei socialdemocratici, concorda. E se guardiamo con attenzione alla stagione più calda della strategia della tensione, quella con le sue le stragi più gravi, notiamo che va dal 1969 al 1974, un periodo di tempo che coincide esattamente con la presidenza Nixon, con Kissinger al suo fianco. Sono anni in cui è ancora pensabile intervenire in quel modo nella politica dei Paesi europei. In Italia accadono Piazza Fontana, la strage alla Questura Piazza della Loggia, la strage di Gioia Tauro, i fatti di Reggio Calabria e una lunga serie altri attentati. Tutto ciò che accade dopo è più difficile da capire. Per intenderci, già Bologna è meno interpretabile».
Un ruolo chiave, da un punto di vista processuale, lo ha giocato il collaboratore Digilio…
«Il racconto di Digilio ruota attorno al casolare ai Paese, vicino a Treviso, in cui lui, Zorzi, Ventura, Pozzan avevano la loro santabarbara: armi, esplosivi e anche una stampatrice per il materiale di propaganda. Lì avevano preparato gli ordigni. È un casolare in campagna che per lungo tempo non si è riusciti a rintracciare».
Perché non è stato trovato?
«È stata la conseguenza di chi credeva di poter fare tutto da solo. Attorno a quel casolare ruotava la credibilità della testimonianza di Digilio. La Procura di Milano decise, senza neanche avvisarmi, di fotocopiare un po’ di atti del processo di Catanzaro e non si accorse che in mezzo a quel materiale c’era l’agenda di Ventura, in cui c’era traccia del casolare raccontato da Digilio. E quando il casolare venne finalmente trovato dalla Procura di Brescia, anni dopo, il processo di piazza Fontana era già finito. La Procura di Milano non si è accorta di nulla, si è fatta sfuggire la prova regina. Se avessero guardato quell’agenda ci sarebbero state sicuramente le condanne».
Una sbadataggine in buona fede?
«Per presunzione. Volevano fare tutto da soli, senza collaborare con me che ero il Giudice Istruttore e seguivo quelle indagini da anni. Anzi, hanno occupato il loro tempo ad attaccarmi, chiedendo al CSM di farmi trasferire da Milano con una serie di pretesti. Invece di privilegiare il gioco di squadra hanno creato un clima di guerra tra magistrati che ha favorito solo gli ordinovisti».
Quanto hanno contribuito i Servizi a confondere le acque nel corso dei vari processi?
«Se c’è un dato certo nella storia di piazza Fontana è la copertura del SID. Perché le condanne al gen. Gianadelio Maletti e al cap. Antonio Labruna, benché modeste, sono comunque definitive. Condannati per aver fatto fuggire all’estero Pozzan e Giannettini due personaggi decisivi».
La politica ha avuto un ruolo?
«I governi dell’epoca hanno a lungo negato che Giannettini fosse un agente del Sid. Lo hanno ammesso solo nel 1977, quindi molto tardi. E’ chiaro i vertici dello Stato sapevano chi fosse Giannettini e che era l’elemento di collegamento con la cellula di Padova. È questo uno degli elementi che la fanno definire quella una strage di Stato».
Un anno fa ci disse di aspettare ancora le scuse da parte di Francesco Saverio Borrelli per averle “fatto la guerra” con esposti al Csm per cacciarla via da Milano. Sono arrivate?
«No. Borrelli fa parte di quelle persone che pensano di non sbagliare mai. E ricordo che il trasferimento per un magistrato equivale alla morte civile: via dalla propria città, via dalle proprie indagini e anche via dalla propria famiglia. A me quegli anni hanno cambiato la vita. Forse lui non se ne ricorda nemmeno».
Ma perché quell’astio da parte della Procura?
«Per invidia, perché ero arrivato dove loro non erano riusciti. Un po’ lo stesso problema che si presentò con Felice Casson».
Che accadde con Casson?
«La mia indagine, pur considerando Gladio una grande scoperta per la ricostruzione della storia d’Italia dagli anni ‘50 in poi, aveva comunque rifiutato l’idea sposata da Casson secondo cui Gladio aveva commesso le stragi. Quando, con il mio lavoro, questa ipotesi, viene esclusa per concentrarsi sugli ordinovisti veneti che operavano nel suo “cortile di casa”, certo a Venezia questo non fu molto gradito. Perché a venir meno non era solo un filone d’indagine ma anche una ricostruzione che aveva dato grande credito politico. Tanto è vero che due ordinovisti in un’intercettazione telefonica dicono: “Quel giudice di Milano ha tolto a Casson il pane di bocca”».
Il giudice Salvini: Preparavano lo stato di emergenza. Senza giustizia, Piazza Fontana 1969-2019. I rapporti tra i nostri servizi segreti e Ordine Nuovo non furono occasionali ma organici, secondo un reciproco scambio di favori contro il nemico comune, che erano il Pci e le sinistre. Mario Di Vito il 10.12.2019 su Il Manifesto. Guido Salvini è l’uomo che più di tutti ha cercato nei tribunali la verità sulla strage di piazza Fontana. Negli anni ’70 faceva parte di un collettivo chiamato Movimento Socialista Libertario: una frangia ridottissima della sinistra extraparlamentare milanese del periodo («In sostanza eravamo in due: io e Michele Serra», dice oggi con un sorriso) di estrazione cattolica e radicale. Tempo dopo, a metà anni ‘90, da giudice istruttore del tribunale di Milano, Salvini avrebbe rimesso le mani sulla bomba di piazza Fontana, arrivando a processare i neofascisti Maggi e Zorzi, condannati all’ergastolo in primo grado e poi assolti in Appello e in Cassazione. La maledizione di piazza Fontana è l’ultima opera del magistrato, da poche settimane in libreria per Chiarelettere. Una storia amara di depistaggi e misteri, ma i segreti rivelati non sono più segreti e, a distanza di mezzo secolo dalla bomba, la verità è qualcosa in più della somma dei dubbi e dei sospetti accumulati.
Lei dice che la strage ormai non è più un mistero. Perché?
«Anche se la sentenza della Cassazione del 2005 ha assolto Maggi e Zorzi, ha confermato che responsabili della strage siano state le cellule venete di Ordine Nuovo, come avevano già visto negli anni ‘70 i magistrati Stiz e Calogero».
C’è stato però il ribaltamento totale del verdetto in Appello.
«È un problema di valutazione delle prove raccolte. Le sentenze vanno rispettate ma ritengo discutibile la logica della frammentazione degli indizi, ognuno dei quali viene valutato singolarmente e non concatenato a quelli successivi. Un modo di procedere che finisce per sottovalutare contesto storico e moventi, portando inevitabilmente all’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove».
Era già avvenuto con Freda e Ventura.
«Sì, anche in quel caso nel processo di appello. Comunque la sentenza del 2005 ha stabilito esplicitamente la responsabilità di Digilio, prescritto perché aveva collaborato, e la colpevolezza di Freda e Ventura, che non erano però più processabili in quanto definitivamente assolti nel precedente processo: il risultato sul piano giuridico è stato parziale ma su quello storico si è fatta invece definitiva chiarezza».
Cosa doveva succedere dopo quel 12 dicembre?
«Quel giorno ci furono tra Milano e Roma cinque attentati. Due giorni dopo avrebbe dovuto tenersi a Roma un grande raduno della destra, manifestazione che venne sospesa all’ultimo momento dal ministero dell’Interno. Ci sarebbero stati gravi incidenti che avrebbero reso inevitabile la dichiarazione dello stato di emergenza. Probabilmente fu anche il fatto che l’attentato alla Bnl di Roma fallì a non dare la forza sufficiente agli eversori per far precipitare la situazione».
Piazza Fontana e le altre stragi chiamano in causa la connivenza di parte dei nostri apparati di sicurezza.
«I rapporti tra i nostri servizi e Ordine Nuovo non furono occasionali ma organici, secondo un reciproco scambio di favori contro il nemico comune, costituito dal Pci e dalle sinistre con la tutela poi dell’inconfessabile segreto su quanto avvenuto. In molti casi uomini delle istituzioni ostacolarono il lavoro dei magistrati, fabbricando false piste, occultando reperti, agevolando l’espatrio di ricercati. Non si trattò di singole mele marce».
Il «lasciamoli fare» era la logica dei vertici della politica di allora?
«Sono esistiti livelli di collusione della politica sottili, una disponibilità a beneficiare di una strategia terroristica che avrebbe giovato al rafforzamento degli assetti di potere e allontanato il pericolo comunista. Qualche bomba dimostrativa come avvenuto nei mesi precedenti, non certo una strage come quella di piazza Fontana. È probabile che Ordine Nuovo andò oltre quelli che erano i taciti accordi».
A livello umano che impressione ha avuto degli esponenti di Ordine Nuovo?
«Erano autentici fanatici imbevuti di un’ideologia mitica, spesso esoterica e comunque del tutto antistorica. I loro piani, in un paese con una democrazia radicata come l’Italia, non potevano che fallire».
Nella sua indagine ha avuto degli ostacoli?
«Sì, e dall’interno del mio mondo purtroppo. Se il Csm non mi avesse reso le indagini e la vita impossibili con la minaccia del trasferimento d’ufficio e con i procedimenti disciplinari, finiti nel nulla ma durati sei anni, non sarebbero andate perse quelle energie che servivano per raggiungere l’intera verità. Chi ha voluto quegli attacchi contro di me porta addosso una grande responsabilità».
12 DICEMBRE 1969: QUANDO L’ITALIA PIOMBÒ NEL TERRORE. Maurizio Delli Santi su L’Opinione 13 dicembre 2021. È un pomeriggio piovoso di un venerdì, quel 12 dicembre 1969, quando nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura di Piazza Fontana, alle 16.37, esplode un ordigno. Muoiono sul colpo 14 persone, 88 rimangono ferite. Altri due decessi si verificano dopo qualche settimana, e la diciassettesima vittima perirà un anno dopo, per le lesioni riportate. In contemporanea viene rinvenuto un ordigno, stavolta inesploso, nella vicina Banca commerciale italiana in Piazza della Scala. A Roma, alle 16.55 deflagra una bomba alla Banca del Lavoro in via Veneto, nel seminterrato, ferendo 14 persone. E un altro ordigno esplode all’Altare della Patria, ferendo quattro persone. Infine, la terza bomba esplode sui gradini del Museo del Risorgimento, causando il crollo del tetto dell’Ara Pacis.
Quel 12 dicembre è indicato come la data d’inizio degli “anni di piombo”, della “strategia della tensione”, e del triste periodo delle stragi: seguiranno quelle del 1974 di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus, fino alla strage della stazione di Bologna, del 1980. Le prime indagini su Piazza Fontana sono rivolte alla pista dei movimenti anarchici, quelli del Circolo di Ponte della Ghisolfa di Milano e del Circolo 22 Marzo di Roma. Uno degli appartenenti al circolo milanese è Giuseppe Pinelli, un ferroviere milanese, già staffetta partigiana durante la Resistenza, che durante il fermo muore cadendo dal quarto piano della questura. Ne deriva un clima di tensioni che il 17 maggio 1972 porterà all’assassinio del commissario Calabresi, che aveva interrogato Pinelli. Una successiva sentenza del tribunale di Milano stabilirà che Pinelli è morto per un “malore attivo”, che gli aveva fatto perdere l’equilibrio nei pressi della finestra.
Indro Montanelli espresse subito dubbi sul coinvolgimento degli anarchici in una intervista a Tv7, come confermò vent’anni dopo: “Io ho escluso immediatamente la responsabilità degli anarchici per varie ragioni. L’anarchico spara al bersaglio, in genere al bersaglio simbolico del potere, e di fronte. Assume sempre la responsabilità del suo gesto. Quindi, quell’infame attentato, evidentemente, non era di marca anarchica o anche se era di marca anarchica veniva da qualcuno che usurpava la qualifica di anarchico”. C’è poi il “caso Valpreda”, un altro anarchico rimasto recluso dal 1969 al 1972, che viene liberato perché le testimonianze che lo accusano si rivelano infondate e scadono i termini della custodia cautelare.
È la volta della “pista nera” e degli apparati deviati dei servizi, che secondo la Commissione Stragi spingevano per una deriva autoritaria. Ma l’esito della vicenda giudiziaria è tristissimo: dopo circa 40 anni, trasferimenti dei processi da Roma a Milano per incompetenza territoriale, e infine a Catanzaro per questioni di “ordine pubblico”, non ci sono condanne definitive. Il 30 giugno 2001 la Corte d’Assise di Milano condanna all’ergastolo tre esponenti veneti di Ordine nuovo e condanna a pene inferiori i complici neofascisti milanesi. Una sentenza in secondo grado li assolve, facendo emergere però in maniera netta la responsabilità di un’altra cellula di Ordine nuovo.
La Corte di Cassazione confermerà questa sentenza nel 2005, ma non ci possono essere condanne. Nel 1987 i due leader del gruppo neofascista sono stati già assolti in un altro processo: per il ne bis in idem non possono essere processati due volte per lo stesso reato. Qualcuno denunciò sui giornali che le spese di oltre 30 anni di processi stavano per essere addossate ai parenti delle vittime. Almeno questo scempio non c’è stato, perché alla fine se ne è fatto carico lo Stato. Il cui primo dovere nei confronti dei cittadini sarebbe quello di rendere giustizia.
Piazza Fontana: depistaggi, misteri e nessun colpevole. Moreno D'Angelo il 13 Dicembre 13 2021 su nuovasocieta.it.
Moreno D'Angelo. Laurea in Economia Internazionale e lunga esperienza avviata nel giornalismo economico. Giornalista dal 1991. Ha collaborato con L’Unità, Mondo Economico, Il Biellese, La Nuova Metropoli, La Nuova di Settimo e diversi periodici. Nel 2014 ha diretto La Nuova Notizia di Chivasso. Dal 2007 nella redazione di Nuova Società e dal 2017 collaboratore del mensile Start Hub Torino.
La strage di Piazza Fontana ha compiuto 52 anni. Un tragico evento rimasto nell‘immaginario collettivo (anche per chi all’epoca era un ragazzino). Dieci processi e nessun colpevole, fughe all’estero degli imputati, latitanze e immancabili depistaggi. Alla fine tutti assolti, tra ambiguità, servizi deviati e pazienza per i 17 morti e 88 feriti (persone che son sopravvissute ma che hanno subito amputazioni o danni e traumi irreversibili). Uno scenario che si è spesso ripetuto nel nostro Paese ma che rafforzò la coscienza e la reazione democratica popolare di un’intera generazione di giovani. Uno scenario in cui fu lasciato campo libero alle forze nere ultraconservatrici di scatenarsi, anche con terrificanti attentati, per fermare l’onda di proteste crescenti contro la guerra del Viet Nam e per una società più giusta libera. Lotte che incendiarono un intero continente dando ulteriore spazio a sogni rivoluzionari che portarono a nuove tendenze ma anche alla deriva terroristica.
Quel 12 dicembre 1969 fu un momento topico della storia italiana che diede il via alla strategia della tensione e agli anni di piombo. Quel giorno si aprì un ulteriore vortice che portò milioni di giovani in piazza. Tra assemblee, occupazioni e collettivi. Giovani che anche dopo anni di silenzi e ambiguità, urlavano: “Dodici dicembre la strage è di Stato, il proletariato non ha dimenticato”.
Un moto di libertà per fermare concreti rischi di golpe. Questo In un panorama allucinante che vedeva regimi fascisti in Portogallo, in Spagna, in Sud America, per non parlare dell’esempio dei colonnelli in Grecia.
Quel 12 dicembre non ci fu solo la bomba nella banca dell’Agricoltura (17 morti e 88 feriti). Solo per un fortunato caso le altre bombe, piazzate in Piazza della Scala e in altri uffici giudiziari, non esplosero. A Roma invece si contarono 16 feriti.
Ricordo come, qualche anno dopo quella strage, lessi con attenzione, insieme Cent’anni di solitudine di Marquez, un volumetto con la contro indagine anarchica su Piazza Fontana. Una denuncia articolata e argomentata che alimentò la protesta contro le macchinazioni che coprirono la ricerca della verità e dei veri colpevoli e mandanti. Protesta che fece da argine contro possibili svolte autoritarie. Sono gli anni del Cile di Salvador Allende e della sua Unitad Popular, schiacciata dalla feroce repressione di Pinochet, che tanta solidarietà alimentò nel nostro paese.
La vicenda della strage di Piazza Fontana fu emblematica. La ricerca del mostro da sbattere in prima pagina fu la cartina di tornasole di un regime vetusto, ancora pieno di nostalgici nei gangli chiave delle sue istituzioni. Come noto fu individuato l’identikit del killer perfetto da mostrare alle masse: quel Pietro Valpreda anarchico, ballerino, gay e nemmeno simpatico. Uno decisamente fuori dall’ordine sociale costituito di tempi in cui l’adulterio era ancora considerato un reato. (”La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina”art. 559 CP).
Oltre a Valpreda tra i fermati vi fu quel Giovanni Pinelli. Ferroviere che secondo gli anarchici “è stato suicidato” accedendo un vortice di infinte polemiche e drammatiche conseguenze e vendette che diedero il via agli anni di piombo.
Quella strage fu davvero un viatico per una strategia della tensione mirata a fermare un movimento operaio e studentesco imponente che guardava a sinistra ma non alla Russia sovietica.
Dopo la strage vi fu una sequela di attentati che caratterizzarono quegli anni di piombo in cui emerse il drammatico fenomeno del terrorismo. Una variabile che inizialmente trovò anche consensi in una classe operaria esasperata da quanto accadeva in fabbrica, nelle immense catene di montaggio, ma fu proprio quella classe a decretare la sua fine prendendo le distanze da una deriva criminale inaccettabile.
Una strategia della tensione che apri la vergognosa stagione di quei misteri italiani. Tutti con una costante: non vi è mai un colpevole. Una fila interminabile di attentati che passa dalla bomba alla manifestazione sindacale di piazza della Loggia (maggio 1974) al treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti), fino alla strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti). Per passare all’uccisione di Pasolini, (dove pare furono tre personaggi, legati a servizi deviati, a finire lo scrittore e non il debole Pelosi), fino ai surreali interventi di dell’aeronautica militare per coprire quanto successe all’Itavia in volo sopra Ustica nel 1980. Senza andare a riprendere quel caffè al cianuro che mise fine alla vita del potente banchiere, mentre restano accese le polemiche su Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana sparita nel nulla dopo una lezione di musica a Sant’Apollinaire il 22 giugno 1983.
Sono i misteri italiani. Quei cold case su cui permane da decenni una spessa coltre di nebbia insieme a mirate operazioni di depistaggio. Un quadro inquietante su cui ogni tanto qualche politico illuminato promette di svelare omissis custoditi in dossier riservati ma senza che ne seguano significativi esisti. Un po’ come negli Usa quando si promette di dare una sbirciatina agli archivi sugli Ufo. Intanto sono passati 52 da piazza Fontana senza alcun barlume di giustizia e verità per le tante vittime innocenti. In nome della ragion di Stato si sono coperte troppe azioni infamanti e non è sana una società che non è in grado o ha paura di fare i conti con il proprio passato.
A quanto pare anche nel nuovo mondo liberal, dominato dagli algoritmi dietro cui si celano le decisioni dei soliti potenti, fra tanti innegabili progressi permane la paura di aprire squarci di verità assoluta. Mentre i polli di Renzo continuano a bisticciare stupidamente.
Strage di piazza Fontana, la verità che manca ancora: 52 anni dopo "nessuno è stato". Massimo Pisa su milano.repubblica.it il 12 dicembre 2021. Il 12 dicembre del 1969 alle 16,37 una bomba esplose a Milano, nella sede della Banca nazionale dell'Agricoltura: e ancora oggi non c'è nessun colpevole ufficiale. I tre momenti della memoria, tre segmenti di dolore e testimonianza. Quello istituzionale, stretto attorno al sindaco Beppe Sala, alle testimonianze di Paolo Silva e Federica Dendena (eredi delle vittime Carlo e Pietro), all'Anpi e alla Cisl. Poco dopo il turno di una cinquantina tra collettivi e centri sociali, associazioni e sindacalismo di base, con la presenza di Silvia e Claudia Pinelli e il saluto di mamma Licia. Infine, gli anarchici del Ponte della Ghisolfa e gli animatori dell'Osservatorio democratico, che ricorderanno il ferroviere e Saverio Saltarelli, la vittima dell'anno dopo.
Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, la storia d'Italia precipita nel suo pozzo nero: è l'ora della strage di piazza Fontana, della bomba che uccide 17 persone e apre quella che poi verrà definita la strategia della tensione. Nelle foto d'archivio ripercorriamo a cinquant'anni da quel giorno quanto avvenne in quei giorni: dai primi sopralluoghi dopo la bomba, con l'atrio della Banca nazionale dell'agricoltura trasformata in uno scenario di guerra, ai funerali di Stato in Duomo, con migliaia di milanesi in una piazza fredda e coperta di nebbia, e le istituzioni in chiesa, fino ai funerali dell'anarchico Giuseppe, Pino, Pinelli, considerato la 18esima vittima di piazza Fontana.
Tutti a ricordare la strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, i sedici morti immediati o quasi, la vittima postuma (Vittorio Mocchi, scomparso nell'83), gli ottantotto feriti, la caccia agli anarchici, i depistaggi di Stato, la tensione e le sue strategie. Tutti a stringersi alle verità parziali che cinquantadue anni hanno distillato, condensate nella grossolana approssimazione della pietra d'inciampo che attribuisce a Ordine Nuovo la matrice della strage. Ma nessuno, non ancora, conosce davvero l'autore. Chi è stato.
Vale la pena, allora, ricordare oggi, il troppo che ancora non sappiamo. A cominciare dall'ultima fase, quella mortale, di un piano stragista che quel giorno prevedeva un'altra bomba (non esplosa) a Milano e tre ordigni non letali piazzati a Roma. La mano stragista che depose la borsa in vilpelle Mosbach & Gruber sotto il tavolone ottagonale al centro della banca, tra gli agricoltori e le loro trattative del venerdì, falciati da una cassetta Juwel, il timer che la fece saltare i sei chili di gelatina esplosiva al binitrotoluolo. Mezzo secolo ha depositato soltanto un elenco di sospettati, gli indiziati, i processati e i chiacchierati. Assolti, prosciolti, mai sfiorati.
Il primo, il "mostro" sbattuto in prima pagina e sepolto per tre anni in cella prima delle assoluzioni, fu Pietro Valpreda: libertario, ballerino di fila, contestatore, naif, tutto meno che carnefice. Morì nel 2002, trentuno anni dopo il suo accusatore, il tassista Cornelio Rolandi del celebre (e manipolato) "l'è lü!". Ma da subito, in quell'indagine sghemba e inquinata, entrarono i sosia. Di uno, l'attore anarchico Tommaso Gino Liverani, parlò lo stesso Valpreda: non c'entrava nulla.
Un altro, Nino "il fascista" Sottosanti, ha mantenuto fino alla scomparsa nel 2004 la sua ambiguità di mussoliniano ma frequentatore d'anarchici: lo sospettò l'Ufficio politico di Milano, insieme al suo commensale del 12 dicembre, Pino Pinelli, "ucciso tragicamente" o " morto innocente": le due verità, su lapide, sono ancora lì. Perfino il ferroviere morto in Questura, per un paio di giorni, fu raggiunto dall'ennesimo schizzo di fango: il testimone Fiorenzo Novali, imprenditore bergamasco, giurò di averlo visto davanti alla banca su un'Alfa Romeo rossa. L'auto, in effetti, la videro in molti. Novali, però, indicò un viso sbarbato, senza la barbetta di Pinelli. E fu scartato.
Fascista prima, quasi rosso poi era anche Pio D'Auria: somigliava a Valpreda, era amico del coimputato Mario Merlino, era a Milano una settimana prima della strage. Gli indizi raccolti da Gerardo D'Ambrosio non andarono oltre. Era già il 1972, epoca di "piste nere" e muri di gomma. Una pista portò a Padova. Ma non all'ideologo Franco Freda, quanto al suo braccio destro Massimiliano Fachini: D'Ambrosio approfondì finché l'indagine non gli venne tolta. Lo scartarono i magistrati di Catanzaro Migliaccio e Lombardi, lo indicarono negli anni Ottanta diversi pentiti neofascisti: Sergio Latini, Sergio Calore, Angelo Izzo. Dissero di averlo sentito in cella da Freda, che negò. Fachini fu processato e assolto. E mai nemmeno indagato il suo sodale Giancarlo Patrese, indicato da un appunto dei carabinieri di Milano, datato 1973 come esecutore materiale.
L'indagine di Guido Salvini, negli anni Novanta, puntò tutto sull'ordinovista Delfo Zorzi, accusato direttamente da Carlo Digilio, Martino Siciliano e, per un breve periodo, dal leader di On Carlo Maria Maggi (che poi ritrattò con veemenza), e indirettamente dal neofascista parmense Edgardo Bonazzi, che coinvolse pure il milanese Giancarlo Rognoni per l'attentato fallito alla Banca Commerciale.
Condannati in primo grado, assolti in seguito. E mai sfiorati da una vera indagine gli ultimi due nomi ipotizzati in ricostruzioni postume: Claudio Orsi, nazimaoista ferrarese amico di Freda (lo scrisse, e se lo rimangiò, il giornalista Paolo Cucchiarelli), e Claudio Bizzarri, il "paracadutista", veronese e ordinovista, indicato dallo stesso Salvini in un suo libro. Nessuno di loro è stato. E allora chi?
Piazza Fontana” di Paolo Morando. Recensione a: Paolo Morando, Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Laterza, Roma – Bari 2019, pp. 384, 20 euro (scheda libro). Scritto da Andrea Germani su pandorarivista.it. Il 12 dicembre 1969, alle ore sedici e trentasette, un ordigno esplose nell’androne della Banca Nazionale dell’Agricoltura sita in Piazza Fontana a Milano. La deflagrazione costò la vita a diciassette persone e ne ferì ottantotto. L’evento è stato identificato da studiosi e inquirenti come l’atto iniziale di una scia di stragi programmate che insanguinarono l’Italia per più di un decennio: la strategia della tensione, come fu denominata da Leslie Finer, un giornalista inglese che seguiva le vicende italiane dell’epoca. La strage è stata per lungo tempo oggetto di indagini approfondite e speculazioni da parte di giornalisti e storici, tuttavia ci vollero anni prima che emergesse la verità storica e giudiziaria e si potesse con certezza indicare perlomeno la matrice ideologica di provenienza dei mandanti e degli esecutori – ad oggi identificati con chiarezza – pur essendo stati assolti in sede giudiziaria.
Paolo Morando, giornalista e vicecaporedattore del Trentino, si è già occupato in due saggi delle vicende della Prima Repubblica: Dancing Days. 1978 – 1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia (2009) e ’80. L’inizio della barbarie (2016), entrambi editi da Laterza. In Prima di Piazza Fontana Morando si è impegnato a raccontare gli eventi che precedettero la strage. La bomba che devastò i locali della banca è infatti l’ultima di una serie di esplosioni che segnarono il 1969, l’anno dell’autunno caldo e dell’inasprirsi delle contestazioni operaie e studentesche, agitazioni a cui seguì una durissima risposta da parte delle istituzioni nel tentativo di ripristinare l’ordine e assicurare stabilità al regime di produzione e di consumi che aveva portato in pochi anni l’Italia ai vertici dell’economia mondiale. In questo contesto di disordine e repressione si inserisce la bomba di Piazza Fontana con tutto il corredo di instabilità politica e senso di insicurezza che la nazione si porterà dietro per tutti gli anni Settanta. Mesi di lavoro pregresso di alcuni membri dell’esecutivo avevano contribuito a creare una serie di precedenti additabili ai veri protagonisti di questa storia, fra i più intransigenti nelle contestazioni all’ordine costituito: gli anarchici.
Milano, 25 aprile 1969, ore 19 e 03. Alla Fiera campionaria sta per chiudersi la quarantasettesima Esposizione Internazionale, la banda della Marina Militare è giunta da Taranto per intonare il proprio inno in occasione della cerimonia di chiusura della rassegna commerciale iniziata sei giorni prima. Improvvisamente un boato proveniente dalla saletta del padiglione della Fiat adibita alla proiezione di documentari sconvolge i partecipanti che, increduli, si convincono si tratti di un colpo sparato a salve dai marinai come parte delle celebrazioni conclusive. Si tratta invece di una bomba, nessuno rimane ucciso ma venti persone sono ferite non gravemente. Nemmeno due ore dopo un’altra esplosione devasta l’ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni, questa volta nessun ferito, i tre membri del personale rimasti in ufficio fino a sera erano abbastanza lontani da non essere colpiti. Anche in questo caso, una bomba. Le deflagrazioni di aprile inaugurano una stagione di esplosioni che proseguirà nei mesi estivi, con le bombe alle stazioni ferroviarie dell’8 e del 9 agosto e gli ordigni inesplosi rinvenuti a Milano Centrale e Venezia Santa Lucia, e si chiuderà il dodici dicembre con la strage di Piazza Fontana.
Due giorni dopo la deflagrazione alla Fiera campionaria l’anarchico Paolo Braschi viene condotto in questura da due agenti dell’ufficio politico per rispondere ad alcune domande, tornerà a casa solamente due anni dopo. Per lui, come per gli altri anarchici Paolo Faccioli, Tito Pulsinelli, Angelo Della Savia, Giuseppe Norscia e Clara Mazzanti inizia un lungo calvario poliziesco e giudiziario che si chiuse solamente anni dopo fra assoluzioni e drastiche riduzioni di pena rispetto a quelle ben più severe richieste dai pubblici ministeri. Nell’inchiesta viene coinvolto anche l’editore Giangiacomo Feltrinelli, nominato in più occasioni nelle inchieste dell’ufficio politico della questura milanese, ritenuto il finanziatore delle fazioni più radicali della sinistra extraparlamentare. Le istruttorie si fondano precipuamente su informazioni fornite da Rosemma Zublena professoressa di lingue psicologicamente instabile che confessò agli inquirenti di essersi invaghita di Paolo Braschi, e dalla «fonte Turco», informatore del Servizio di informazioni della Difesa, rivelatosi poi essere Gianni Casalini, esponente padovano del MSI che aveva rapporti mai chiariti con la destra eversiva veneta, informatore messo a tacere nei primi anni Settanta, proprio quando cominciava a confidare informazioni affidabili sugli attentati del 1969.
Le procedure d’indagine messe in atto tanto dalla questura di Milano, nelle figure di Luigi Calabresi e Antonino Allegra, quanto dalla procura del capoluogo lombardo, nella persona di Antonio Amati, furono fortemente criticate dagli avvocati degli anarchici in fase processuale; l’impressione che emerge leggendo le pagine del libro di Morando è che si fossero decisi i colpevoli ancor prima di avviare le inchieste, suggestione questa poi parzialmente confermata persino da alcuni esponenti del potere giudiziario. La stampa darà man forte nel dipingere gli anarchici come personaggi violenti e socialmente pericolosi, rafforzando un pregiudizio insito nella mentalità degli italiani sin dalla fine dell’Ottocento. Morando mostra come lo stesso impianto accusatorio congiunto verrà riproposto mesi dopo con Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda nell’attentato di Piazza Fontana. A tal proposito l’Autore ritiene che le bombe di aprile e agosto furono una prova generale (da qui il sottotitolo del libro) della strage che si sarebbe consumata di lì a poco; la colpa sarebbe dovuta ricadere sugli anarchici come parte di un più ampio piano di delegittimazione dei movimenti sociali, propedeutico a un colpo di stato militare, sul modello di quello greco del 1967, da effettuarsi in caso di serio pericolo per le istituzioni repubblicane. Già ai tempi delle prime bombe il disegno complessivo sembrava chiaro agli anarchici milanesi che in un comunicato datato lunedì 28 aprile 1969, tre giorni dopo la bomba alla Fiera campionaria, scrivevano che ci si trovava di fronte alla «vile manovra in atto da parte delle forze fasciste e reazionarie che come in altre città, Padova, Catania e Roma, compiono attentati terroristici con il chiaro intento di creare un clima di terrore tale da consentire e giustificare l’avvento di un governo di destra» (p.88).
Paolo Morando nel suo saggio si addentra in un campo poco battuto dalla letteratura storica sul periodo delle stragi; le bombe del 1969, spesso ridotte a mero fatto di cronaca dai cronisti di quegli anni, si rivelano così essenziali per comprendere la strategia messa in atto da alcuni uffici della Repubblica Italiana nel finire degli anni Sessanta. Non solo, un capitolo è dedicato agli attentati ai grandi magazzini della Rinascente il 30 agosto e il 15 dicembre 1968, azioni ad oggi quasi sconosciute dal grande pubblico e dai ricercatori del settore. Vista la scarsità di materiale sugli eventi, le informazioni sono state raccolte da Morando mediante un minuzioso lavoro di analisi della stampa dell’epoca e degli atti processuali contenuti nell’Archivio di Stato di Milano.
In sintesi, si può affermare che il lavoro di ricerca svolto da Morando sia servito a far luce su una questione archiviata da anni, seppur utile a chiarire alcuni aspetti della vicenda di Piazza Fontana, oltre che a introdurre nuovi elementi nel dibattito storiografico sulla strategia della tensione. Già in alcuni saggi sull’argomento, così come nel film del 2012 di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, la questione delle esplosioni sui treni e alla Fiera campionaria veniva menzionata per mostrare la genesi della criminalizzazione programmatica degli anarchici milanesi messa in atto dagli uomini delle istituzioni. Il tema viene affrontato nella sua completezza in questo volume per la prima volta, in occasione del cinquantesimo anniversario della strage, forse nel tentativo di aggiungere ulteriori elementi alla faticosa ricerca della verità che da anni impegna inquirenti, storici e famigliari delle vittime.
Andrea Germani. Nato a Perugia nel 1989, concluso il liceo classico si è spostato a Bologna per studiare Filosofia, attualmente è Dottorando in Diritto e Scienze Umane all’Università dell’Insubria dove si occupa di Filosofia Politica. Collabora da anni con la rivista online Deckard e svolge occasionalmente attività didattiche all'Università.
Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 28 maggio 2009. Dividono le nuove ipotesi sull'attentato di Piazza Fontana che emergono dal libro «I segreti di Piazza Fontana», di Paolo Cucchiarelli. Da una parte possibilisti e convinti, dall'altra chi considera la doppia matrice anarchica/fascista non corroborata da alcun elemento. E così un episodio tragico e oscuro sul quale anni di lavoro della magistratura sono stati depistati e rallentati da apparati deviati dello Stato resta intrappolato nella cronaca. Guido Salvini, giudice istruttore dell'inchiesta sulle trame nere che nel '90 fece riaprire l'indagine sull'attentato del 12 dicembre 1969, da sempre sostiene che molti «buchi neri» non sono stati colmati.
«La mia indagine - dichiara - dovette concludersi per scadenza termini nel '97, quando, anche per gli ostacoli che mi furono posti dall'interno del mio mondo, non tutto era stato approfondito e dissodato. Dopo mancò forse lo slancio necessario per continuare e non furono svolti accertamenti decisivi ancora possibili, come quelli sugli esplosivi usati».
Secondo il giudice, però, si può sperare di trovare la verità da persone ancora in vita: «Se le conclusioni di Cucchiarelli fossero anche solo in parte esatte, molti sanno e possono raccontare ormai senza rischiare nulla». La tesi della doppia bomba convince Giovanni Pellegrino. Per l'ex presidente della commissione stragi «è assolutamente plausibile: vista anche la massa di documenti e riscontri da cui è accompagnata la ricerca, siamo ben al di là della semplice verosimiglianza».
Conclusione alla quale lui stesso fu vicino («ma non trovai le prove»). «Tesi credibile» anche per Ugo Paolillo, giudice d'appello a L'Aquila, che lavorava a Milano e che il giorno della strage come magistrato di turno fu tra i primi a recarsi nella Banca dell'Agricoltura, così come per l'avvocato Federico Sinicato, legale di parte civile al processo.
«È una cosa che non sta né in cielo né in terra» taglia corto l'ex giudice istruttore sulla strage Gerardo D'Ambrosio, «non è mai stata trovata alcuna traccia né di micce né di esplosivo, se non di quello che ha provocato il buco per terra». Grazia Pradella, pm dell'ultimo processo, fa notare che «dagli atti è esclusa la pista anarchica, risultata precostituita». È la stessa la linea del pg del processo d'appello, Laura Bertolè Viale, dell'avvocato Guido Calvi che difese Valpreda («lui non c'entrava») e di Gaetano Pecorella, legale di Delfo Zorzi, imputato assolto, il quale ritiene «non plausibile» la doppia matrice.
Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera" il 28 maggio 2009.
«Sì, due borse. Lo scriva. Così la finiamo».
È la frase che Silvano Russomanno, l'alto dirigente del Sisde che la sera del 12 dicembre 1969 andò a Milano per gestire le indagini, dice a Paolo Cucchiarelli, il giornalista dell'Ansa che da dieci anni lavora all'inchiesta di oltre 700 pagine che oggi Ponte alle Grazie manda in libreria - titolo: «Il segreto di piazza Fontana», - e che il Corriere ha potuto leggere in bozza.
Due borse, due tipi diversi di esplosivo, e quindi due bombe. Una portata in piazza Fontana dall'anarchico Pietro Valpreda. E una - predisposta e collocata dai fascisti - che fa esplodere anche l'altra, con una duplice conseguenza: causare una strage, e addossarla politicamente all'estrema sinistra. «Sebbene la bomba di Valpreda non dovesse, nei suoi piani, fare vittime, la sua corresponsabilità finì per inchiodare al silenzio lui e tutta la sinistra, abbarbicandola a una difesa politica che con il tempo ha trasformato un segreto in un mistero».
Oltre ai colloqui con Russomanno, Cucchiarelli fonda la sua tesi sugli incontri con Ugo Paolillo, il magistrato che per primo indagò sulla strage. Sulla testimonianza di un neofascista rimasto anonimo. Sulle carte dell'ufficio affari riservati del Viminale, solo in parte utilizzate nelle inchieste e nei processi. E sulla controperizia del generale Fernando Termentini, esplosivista che fornisce riscontri alle ipotesi formulate nel libro. Fondamentale poi l'inchiesta di Salvini che il libro sviluppa descrivendo gli ostacoli frapposti al magistrato milanese.
Nel salone della Banca nazionale dell'Agricoltura fu ritrovato uno spezzone di miccia a lenta combustione. Subito dopo la strage, un rapporto della direzione di artiglieria sosteneva che anche a Roma, alla Bnl di via Veneto, era stata utilizzata una miccia. Eppure, nel suo primo rapporto datato 16 dicembre, il Sid cita il timer e solo il timer, dando il proprio sigillo all'idea di una strage per errore, sostenuta nel tempo da Taviani e da Cossiga.
«Il timer, caricato prima dell'esplosione, dava modo di costruire il mito della strage preterintenzionale; la miccia invece consentiva al massimo pochi minuti di ritardo tra l'accensione e lo scoppio, e decretava che chi aveva deposto la bomba sapeva, vedendo tutte le persone accanto a sé, che avrebbe sterminato tanti innocenti». I timer usati il 12 dicembre erano timer particolari, a deviazione: «L'ideale per costituire una vera e propria trappola».
Poiché erano gli unici con le manopole e i dischetti conta-minuti intercambiabili. Scrive il libro che Franco Freda si procurò timer in deviazione sia da 60 che da 120 minuti: «Se Freda avesse montato una manopola da 120 su un timer che avrebbe corso solo per 60 minuti, chi doveva deporre la bomba avrebbe immaginato che sarebbe esplosa a banca ormai deserta».
Tra i reperti individuati dal perito Teonesto Cerri, il primo a entrare nel salone devastato della Banca, c'erano frammenti del materiale di rivestimento e frammenti della struttura metallica: «Entrambi indicano che in quel salone sono esplose due borse». Una di similpelle nera, marca Mosbach&Gruber, e una di cuoio marrone. Ma quest'ultima borsa «scompare». Forse per un errore dei magistrati che aprirono la pista nera: «Tutto fu condizionato dalla scoperta che il 10 dicembre 1969 a Padova, la città di Freda, erano state vendute quattro borse Mosbach&Gruber, dello stesso modello ritrovato alla Commerciale», dove il 12 dicembre fu scoperta una bomba inesplosa.
«Tutte in similpelle». I magistrati che puntavano a incastrare i fascisti Freda e Ventura cercarono in ogni modo di ravvisare nei reperti proprio quelle quattro borse. «Alessandrini e Fiasconaro avanzarono il dubbio che potessero esserci state due borse e due bombe; tuttavia, condizionati dall'acquisto di Padova, scartarono l'ipotesi».
Il perito Cerri identificò subito la presenza di nitroglicerina e di binitrotoluolo, tipico degli esplosivi al plastico. Più tardi, nel determinare con il collegio dei periti il tipo di esplosivo più probabile, si concentrò su due gelatine dinamiti. In sintesi: «In piazza Fontana abbiamo due borse con due bombe. Nella prima, accanto alla cassetta con candelotti e timer, è stato collocato un detonatore esterno. La seconda bomba fu attivata non con un timer ma con un accenditore a strappo, che ha dato il via a una miccia. Grazie al detonatore esterno aggiunto alla prima borsa, la seconda bomba per simpatia fa esplodere anticipatamente anche l'altra: creando una devastazione di potenza doppia».
Ma chi avrebbe messo le due bombe? «Le due bombe furono poste da gruppi diversi. La prima - che doveva esplodere a banca chiusa, come fatto dimostrativo - fu collocata da mano anarchica ma 'teleguidata' da Freda e Ventura; la seconda, che doveva trasformare la prima in un'arma letale, fu predisposta e sistemata da mani fasciste. Ma tutto fu calcolato perché la firma risultasse inequivocabilmente di sinistra".
La «mano anarchica» sarebbe proprio quella di Pietro Valpreda. «Il 12 dicembre furono due i taxi sospetti che arrivarono in piazza Fontana. Sul primo c'era Valpreda, anarchico con ambigue amicizie tra i fascisti romani»; e c'era Cornelio Rolandi, il tassista che lo riconobbe.
«Sull'altro taxi c'era un uomo di destra che a Valpreda rassomigliava molto. Tutto, attraverso i depistaggi, fu predisposto perché il taxi diventasse uno solo, come una sola doveva essere la bomba». Il libro ipotizza che l'uomo del secondo taxi possa essere Claudio Orsi, amico di Freda (una foto mostra la somiglianza con Valpreda).
Era stata la difesa dell'anarchico a parlare per prima di un «sosia». In genere, però, la versione di Valpreda appare costellata di bugie: il libro sostiene che l'anarchico ha mentito sul suo pomeriggio del 12 dicembre, sulla sua fantomatica influenza, sul viaggio a Roma, sul cappotto datogli dai parenti subito dopo la strage per cambiare immagine in vista di un possibile arresto. «Tutte le bugie profuse da lui e dai suoi parenti portano a ritenere che Valpreda abbia collocato la sua bomba a piazza Fontana».
Il libro riporta la foto inedita di uno dei manifesti trovati il 12 dicembre, «ricalcati» sui manifesti del Maggio francese: «Parte del piano studiato da servizi segreti per attribuire la strage alla sinistra», e in particolare a Giangiacomo Feltrinelli. Il magistrato Paolillo si ricorda bene del manifesto. Ricorda anche di averlo autenticato, e testimonia che fin da subito c'era chi aveva capito che la provenienza di quei manifesti era di destra, legata all'Oas e all'Aginter Press. Capo militare dell'Aginter era Yves Guérin-Sérac, tra i fondatore dell'Oas, citato nell'informativa del Sid del 16 dicembre come mente degli attentati, ma definito «anarchico».
L'incaricato alla diffusione di manifesti e volantini anarchici era a Milano Pino Pinelli, scrive il libro, ipotizzando che fossero proprio questi i manifesti trovati dal capo dell'ufficio politico Antonino Allegra addosso a Pinelli.
L'alibi di Pino Pinelli per il 12 dicembre - sostiene il libro - non regge. Pinelli tace sull'incontro con Nino Sottosanti, uno degli estremisti di destra infiltrati nei circoli anarchici; mentre «racconta un incontro con i due fratelli Ivan e Paolo Erda, che non esistono». Nella notte in cui cade nel cortile della questura, Pinelli è sotto torchio non per piazza Fontana, ma per altre bombe. Quelle del 25 aprile, di cui Antonino Allegra gli chiede conto, attorno alle 23 e 30, citando come fonte altri anarchici, informatori della polizia. E altre due bombe presto scomparse dalle inchieste, trovate quel 12 dicembre a Milano, presso una caserma e il grande magazzino Fimar di corso Vittorio Emanuele. Il libro ipotizza che Pinelli avesse «qualcosa di ben preciso da nascondere: il fatto che quel 12 dicembre si era mosso per bloccare le due bombe milanesi 'scomparse' che gli anarchici avevano preparato ».
Cucchiarelli riporta la testimonianza di Antonino Allegra al direttore dell'ufficio affari riservati Federico Umberto D'Amato - divenuta accessibile nel 1997 però «mai rivelata ai magistrati e mai presa in considerazione finora in un'inchiesta» -, secondo cui Pinelli era caduto di spalle. Testimonianza che il libro incrocia con una delle ricostruzioni esaminate dal magistrato D'Ambrosio, prima di approdare alla conclusione del malore attivo: «Un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo che ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto».
La posizione di spalle spiegherebbe il dettaglio delle suole delle scarpe - l'ultima immagine di Pinelli che tutti i testimoni ricordano -, l'assenza di slancio e la caduta radente al muro, dinamica confermata dal giornalista dell'Unità che assiste alla scena dal basso. E il gesto di difesa, ipotizza il libro, potrebbe essere stato compiuto nei confronti di Vito Panessa, il brigadiere che andava incalzando Pinelli sulle altre bombe; «colui che nelle testimonianze ai processi si inceppò, contraddisse, ingarbugliò in maniera più marchiana».
LA PISTA NERA.
Pino Nicotri su blitzquotidiano.it il 13 dicembre 2019. In occasione del 50esimo anniversario della strage milanese di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e delle bombe fatte esplodere in contemporanea anche a Roma sono stati pubblicati libri e inchieste giornalistiche riassuntive riguardanti sia la strage e le altre bombe di quel giorno sia il contorno che le aveva precedute nel corso dell’anno. Con l’occasione, ho deciso di ripubblicare il libro Il Silenzio di Stato che ho scritto nel ’72 e che condusse i magistrati a scoprire finalmente che la verità era a Padova. Per essere reperibile in tempo per il 12 dicembre il libro Silenzio di Stato l’ho pubblicato con Il Mio Libro, di Kataweb, con una nuova copertina che ricalca quella originale. Il libro è ordinabile online o nelle librerie Feltrinelli con il codice ISBN 9788892364189. La riedizione l’ho arricchita con una sostanziosa e DOCUMENTATA introduzione, che spiega meglio varie cose alla luce di quanto avvenuto dal ’72 ad oggi. Nei vari libri in uscita in occasione del 50esimo quell’episodio cruciale è citato solo dal magistrato Guido Salvini, nel suo libro recentissimo intitolato La maledizione di Piazza Fontana: l’unico che ha fatto rilevare un particolare tanto strano quanto grave, del quale parleremo tra poco. Vediamo cosa è successo a suo tempo. Intanto notiamo che le bombe erano contenute tutte in borse di similpelle della ditta tedesca Mosbach&Gruber, particolare accertato grazie al fatto che un ordigno, quello piazzato nella filiale della Banca Commerciale (Comit) in piazza della Scala a Milano, non era esploso ed era stato ritrovato pertanto intatto, alle 16:25, compresa la borsa che lo conteneva. Borsa che risulterà identica a quelle contenenti gli altri ordigni, tutte caratterizzate dalla chiusura laterale metallica di colore giallo recante impresso il disegno del profilo di un gallo: il logo della ditta tedesca Mosbach&Gruber. La borsa conteneva una cassetta metallica marca Juwel, che a sua volta conteneva l’esplosivo fortunatamente non esploso. Pochi minuti dopo tale rinvenimento in piazza della Scala un altro ordigno composto da circa sette chili di esplosivo saltava in aria, alle 16:37, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, uccidendo 17 persone e ferendone 88. La più grave strage italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dai reperti rinvenuti sul luogo della strage di Milano i periti hanno potuto stabilire che la bomba era contenuta in una cassetta metallica marca Juwel nascosta in una borsa di similpelle marca Mosbach&Gruber. Gli inquirenti e quindi i giornali e la Rai, all’epoca le radio e le tv private non esistevano ancora, sostennero immediatamente e in coro compatto che quel tipo di borse erano in vendita solo in Germania e che in Italia non se ne trovavano. Un modo per insinuare che gli anarchici subito accusati della strage non fossero un gruppo di balordi milanesi e romani, ma avessero invece ramificazioni e rapporti con altri Paesi, quanto meno con anarchici e terroristi tedeschi. Una versione pubblica durata ben 33 mesi, vale a dire poco meno di tre anni. La strage era avvenuta nel pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969. Ma solo dopo il 10 settembre del 1972, cioè dopo ben tre anni meno tre mesi, si scoprirà che la vulgata delle Mosbach&Gruber inesistenti in Italia era assolutamente e sfacciatamente falsa. E che erano sicuramente in vendita in almeno due negozi della città di Padova. Uno dei negozi padovani aveva venduto a un unico acquirente proprio quattro borse di quel tipo due giorni prima della strage. E la commessa che le aveva vendute, signora Loretta Galeazzo, era corsa a dirlo in questura non appena aveva appreso dalla Rai e dai giornali i particolari del ritrovamento nella filiale della Banca Commerciale. A riconoscere Freda era stata anche la collega della Galeazzo in valigeria, che aveva chiacchierato con l’acquirente mentre un commesso andava a prendere dal deposito le altre tre borse. E quando a Padova hanno arrestato per istigazione dei militari all’eversione Giorgio Franco Freda, neonazista di Ordine Nuovo, la stessa commessa è corsa di nuovo in questura per dire che dalle immagini in televisione e sui giornali locali aveva riconosciuto in Freda la persona che aveva comprato le borse. Due testimonianze che avrebbero potuto far arrestare gli autori della strage nel giro di pochi giorni. E che invece sono sparite…Questa assurda negligenza del mondo dell’informazione giornalistica è stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di diventare giornalista. Ero uno studente di Fisica, fuoricorso perché per studiare e campare facevo vari lavori saltuari, ero il presidente dell’Assemblea d’Ateneo e abitavo dal ’65 o dal ’66 in un appartamento di cinque stanze più bagno e cucina, preso in affitto all’ultimo piano di via Oberdan 2, in pieno centro storico di Padova, affianco al famoso caffè Pedrocchi. La stanza più grande la utilizzavo come ufficio, non aperto al pubblico, dell’Italturist, l’agenzia turistica del PCI specializzata in viaggi soprattutto di gruppo nei Paesi comunisti dell’est europeo. Due stanze le avevo affittate a due studenti di Treviso: Giorgio Caniglia, che studiava Ingegneria, e Carla, che studiava Lettere. Il venerdì nel primo pomeriggio se ne tornavano entrambi a casa dei rispettivi genitori a Treviso, cosa che fecero anche quel venerdì 12 dicembre della strage, per tornare a Padova la domenica sera, cosa che fecero anche la domenica successiva alla strage, cioè il 14 dicembre sera. Sabato pomeriggio sono arrivati a casa mia i carabinieri con tre mandati di perquisizione, uno per me, uno per Giorgio e uno per Carla, assenti perché andati a casa loro a Treviso come sempre per il fine settimana. Il giorno dopo, sabato 13 dicembre, in serata sono poi arrivati come al solito anche Giorgio e Carla. Appena entrato in casa Giorgio mi ha mostrato la sua borsa di similpelle nera, quella che usava ogni giorno anche per andare a lezione e che avevo visto in varie occasioni dentro e fuori casa. Con una mano me la mise davanti agli occhi dal lato della chiusura di metallo e con l’altra mi indicò il disegno che ne caratterizzava la borchia: era il disegno di un gallo preso di profilo. Era cioè proprio il logo delle Mosbach&Gruber. Poi Giorgio mi disse: “Non capisco perché radio, televisione e giornali dicono tutti in coro che queste borse in Italia non si trovano. Io l’ho comprata qui a Padova”. Ho detto a Giorgio: “Beh, domattina va in questura, mostra la borsa e racconta dove l’hai comprata. Così, se non ti arrestano accusandoti della strage, capiscono che in Italia si vendono. E che si vendono anche a Padova, dove c’è quel gruppo di fanatici nazifascisti capitanato da Giorgio Franco Freda e Massimiliano Facchini con base alla libreria Ezzelino di via Patriarcato”. Lunedì sera Giorgio mi ha raccontato che era uscito di casa poco dopo le 10 con la sua borsa per andare a farla vedere in questura, distante più o meno 200 metri, ma dopo pochi passi aveva incontrato un poliziotto della squadra politica della questura, quello che era solito tenere d’occhio l’area del caffè Pedrocchi e del Bo, compreso il portone di casa nostra, e di avere mostrato subito a lui la borsa e il logo della Mosbach&Gruber. Ricevendone come tutta risposta un ben strano: “Ah, ma ormai non ci interessa, sappiamo già chi è il colpevole, uno di Milano”. Se il poliziotto fosse stato meno menefreghista e più professionale i colpevoli della strage e delle altre bombe del 12 dicembre, oltre che degli altri mesi dello stesso anno, potevano essere individuati nel giro di 48 ore. Ripeto: a quell’epoca ero studente universitario e il giornalismo non sapevo neppure cosa fosse. Inoltre non avevo ancora fatto il servizio militare a quell’epoca obbligatorio, era detto “nàia”, motivo per cui temevo che se avessi reso pubblico a gran voce, magari con una apposita assemblea d’Ateneo, lo scandaloso falso delle borse tedesche introvabili in Italia e annesso menefreghismo del commissario della squadra politica, sarebbe potuto capitarmi per vendetta di un qualche apparato statale qualcosa di grave durante la nàia. Decisi così di restare zitto, aspettare di fare il servizio militare, che all’epoca durava 18 mesi, e di scrivere solo in seguito un libro per raccontare come a Padova Freda e i suoi erano stati protetti sistematicamente da organi dello Stato, fino all’iperbole del falso sulle borse introvabili in Italia e del rifiuto del funzionario della squadra politica di prendere in considerazione quanto gli aveva detto e mostrato il mio amico e inquilino Giorgio. Il libro volevo intitolarlo significativamente Il Silenzio di Stato. E poiché ero ben lontano dal pensare di poter fare il giornalista decisi di non firmarlo col mio nome, ma come Comitato di Documentazione Antifascista di Padova, che in realtà ero pur sempre io. Col mio nome mi sarei limitato a formare la poesia che avevo composto per dedicare il libro a quattro miei amici. E in effetti, finito il servizio militare, iniziato a metà del ’70 e concluso verso la fine del ’71, mi sono messo all’opera raccogliendo anche materiali d’archivio della stampa locale riguardanti i rapporti Freda/magistratura/polizia/carabinieri, uno strano suicidio probabile omicidio, altri attentati nel corso del ’69 e molto altro ancora. Ad agosto del’72, ormai ben documentato e pronto a scrivere, mi sono ritirato nella isolatissima casa di montagna dei miei suoceri vicino a Gallio, poco più di mille metri di altezza sull’altipiano di Asiago. Tramite la moglie di un giovane docente universitario, andata per qualche giorno da amici a Roma, la notizia che stavo preparando un libro sulle bombe del 12 dicembre ’69 è arrivata alle orecchie di Mario Scialoja, giornalista del settimanale L’Espresso, già molto famoso. Stavo lavorando nel silenzio più assoluto al terzo piano della casa, un pezzo di casera di montanari in un posto isolato, quando verso le 11 ho sentito arrivare dall’ingresso e cucina al pian terreno un baccano di porte aperte e richiuse con forza e sedie spostate senza tanti complimenti. Mi sono affacciato piuttosto allarmato alla tromba delle scale e ho visto un signore trafelato, con barba biondastra e un grande naso rosso come un pomodoro, che guardando in alto mi gridava:
“Buongiorno! Sono il giornalista Mario Scialoja, del settimanale L’Espresso”.
“Buongiorno! Io sono Napoleone Bonaparte. Mi dica”
“Ma io sono davvero Mario Scialoja!”.
“E io sono davvero Napoleone Bonaparte. Osa forse mettere in dubbio la mia parola, qui in casa mia? Guardi che la caccio via. Perché è entrato, facendo ‘sto fracasso? Cosa vuole?”.
“Cerco Pino Nicotri, che mi hanno detto sta scrivendo un libro anche con la storia delle borse delle bombe del 12 dicembre ’69, borse che a quanto pare lui sostiene si vendessero anche a Padova”.
La mia lunga amicizia fraterna con Mario e il mio inopinato ingresso nel giornalismo sono iniziati così.
Sempre correndo come un pazzo e bevendosi una dozzina di tornanti in discesa come fossero tutti rettilinei, Mario mi ha portato a Treviso, dove a casa sua Giorgio mi ha venduto per 5.000 lire la borsa. E così l’ho regalata a Mario perché la portasse al magistrato Gerardo D’Ambrosio, che in veste di giudice istruttore a Milano conduceva l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana senza risultati apprezzabili. Ringraziandolo calorosamente, ha ricevuto la borsa dalle mani di Mario già il mattino successivo, 2 settembre.
Mario nel numero de L’Espresso datato 10 settembre ha pubblicato il grande scoop che raccontava della consegna della borsa al magistrato e di come ne avesse avuto notizia dal sottoscritto.
D’Ambrosio inviando a Padova a fare ricerche il maresciallo dei carabinieri Sandro Munari poteva finalmente scoprire dove erano state vendute le borse utilizzate per trasportare e nascondere le bombe del 12 dicembre ’69. Scoperta clamorosa, che non solo ha fatto crollare rumorosamente la pista anarchica di Valpreda&Co, ma che ha anche permesso di scoperchiare l’incredibile verminaio delle protezioni statali a favore di Freda&Co, arrivate a fare scomparire non solo le due testimonianze della commessa della valigeria Al Duomo. E io finalmente pubblicai, con Sapere Edizioni, il libro. Con il titolo che avevo in mente da tempo: Il Silenzio di Stato. Conservo ancora alcune copie del libro con la dedica di Valpreda, che venne a Padova per la presentazione del libro e che non ha mai smesso di ringraziarmi.
Per risparmiare sulle tasse il libro è stato edito come numero del periodico InCo, acronimo di Informazione e Controinformazione, periodico registrato presso il tribunale di Milano, avente come editore Sapere Edizioni e come direttore responsabile un sindacalista, non ricordo se della CISL o delle ACLI. Il fatto che fosse stato pubblicato come periodico mi ha infine convinto a farmi rilasciare dal direttore responsabile la dichiarazione firmata che tutti i singoli capitoli erano miei articoli e che mi erano stati pagati.
E’ stato così che quando mi sono iscritto come pubblicista all’albo dei giornalisti ho allegato anche quelli – vale a dire, tutti i capitoli de Il Silenzio di Stato – assieme ai vari articoli pubblicati su giornali veri negli ultimi 24 mesi prima della domanda di iscrizione. Ho voluto che fosse documentato in modo incontrovertibile, anche per tabulas e non solo per la firma della mia poesia di dedica ai miei amici, che quel libro era totalmente ed esclusivamente frutto del mio lavoro.
Senato della Repubblica Camera dei deputati XIII LEGISLATURA DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI - DOCUMENTI IL SUICIDIO DI PINELLI
Senato della Repubblica Camera dei deputati: I depistaggi intorno alla vicenda di Piazza Fontana si possono considerare articolati in tre fasi. Una prima fase in cui si sono di fatto bloccate e circoscritte le indagini indirizzate verso gli «anarchici» e si sono confuse le acque, rendendo impossibile risalire alla verità su ciò che è realmente accaduto a Piazza Fontana: verità che, proprio per l'inquinamento del quadro investigativo determinato fin dalle prime battute, forse non conosceremo mai. Una seconda fase in cui si è costruita, spesso con dei passaggi assolutamente artificiosi, la «pista nera». Una terza fase, a partire dai primi Anni '80, che ha visto l'utilizzo dei pentiti a sostegno del teorema giudiziario. A questa terza fase, purtroppo, sembra non essere estraneo, a trentun anni di distanza, nemmeno il processo attualmente in corso a Milano.
Come è morto Giuseppe Pinelli? E' impensabile poter risolvere il rebus di Piazza Fontana fino a quando non si darà una risposta accettabile a questa domanda, che è il «grande buco nero» dell'inchiesta sulla strage, insieme alla latitanza di Giangiacomo Feltrinelli. Giuseppe Pinelli, anarchico del circolo milanese Ponte della Ghisolfa, amico o ex amico di Pietro Valpreda, dieci minuti prima della mezzanotte del 15 dicembre 1969 precipita dalla finestra della questura di Milano. Si era appena concluso il primo e unico interrogatorio condotto dal commissario Luigi Calabresi, che però al momento del fatto non è nemmeno presente nella stanza: è andato nella stanza del capo dell'Ufficio, Antonino Allegra, per portargli il verbale d'interrogatorio. Eppure, nonostante questa circostanza sia nota da subito, per anni Calabresi sarà accusato di essere il responsabile dell' «assassinio» di Pinelli. Giuseppe Pinelli era l'unico, tra circa centoventi estremisti di destra e sinistra, convocati in questura a partire dal tardo pomeriggio del 12 dicembre, ad essere stato trattenuto in stato di fermo non per particolari volontà vessatorie della polizia o perchè vittima predestinata della macchinazione ordita dalla polizia ai danni degli anarchici, ma per un fatto molto più prosaico: il suo alibi per il pomeriggio della strage era risultato irrimediabilmente falso. Quando avviene l'interrogatorio nei suoi confronti non c'è alcuna accusa, non ancora almeno. L' ultimo interrogatorio di Pinelli basta leggere il relativo verbale è tutto incentrato sui suoi rapporti con Valpreda, sugli scatti di ira e di violenza che caratterizzano la personalità di Valpreda, sui motivi che nel movimento anarchico hanno provocato profonde diffidenze verso Pietro Valpreda negli ultimi mesi, da quando si è messo ad esaltare l' «azione diretta». Pinelli ha un rapporto preferenziale con l'Ufficio politico. Durante l'interrogatorio gli è stato consentito di modificare le sue dichiarazioni più volte, a tratti è apparso reticente, di certo è stato molto attento a non interpretare il ruolo del delatore ma anche a non fare ammissioni che possano essere compromettenti per lui. In quel momento è assolutamente plausibile ritenere, come ritiene l'Ufficio politico, che Pinelli per il suo ruolo ricoperto nel movimento anarchico è al centro di una fitta ragnatela di rapporti internazionali e gestisce i fondi «per le vittime politiche» ± possa sapere molto di più di quanto abbia dichiarato. Basterebbero questi dati di fatto e questa considerazione, facilmente riscontrabili, per comprendere come l'ultimo tra i protagonisti sulla scena ad avere qualche interesse ad eliminare Pinelli fosse proprio la polizia. Tutti i testimoni subito interrogati sulla sua morte, compresi i quattro brigadieri di polizia e il capitano dei carabinieri presenti nella stanza dove si trovava Pinelli, furono sostanzialmente concordi, a parte discrepanze superficiali giustificabili con la tensione e la concitazione del momento: Pinelli si è gettato dalla finestra.
Eppure appare perfino incredibile come da un lato si sia alimentata su notizie totalmente false una campagna di stampa per accreditare la versione di un «Pinelli suicidato dalla polizia», una campagna culminata con l'omicidio Calabresi e che ha compromesso probabilmente per sempre le indagini sulla strage di Piazza Fontana. Mentre dall'altro siano stati sistematicamente omessi, nascosti o distrutti tutti quegli elementi che confermavano l'ipotesi del suicidio di Pinelli, provocato dalla consapevolezza di essere stato coinvolto in un crimine orrendo, avvalorando così la pista anarchica. Tra le azioni umane, il suicidio è una delle più insondabili. Ma certo non si può non rimarcare come in un caso tanto clamoroso siano state ignorate circostanze che appaiono determinanti. Come ad esempio il fatto che, pochi istanti prima del tragico volo dalla finestra, nella stanza dove si trovava Pinelli era stata portata una cassetta portavalori di metallo, identica a quella utilizzata per la strage di Piazza Fontana e per il fallito attentato alla Banca commerciale. La circostanza è stata rivelata dal capitano dei carabinieri Savino Lograno, presente all'interrogatorio di Pinelli. Al processo per diffamazione intentato dal commissario Calabresi contro Lotta continua testualmente dichiarò: «Ero presente per seguire le indagini sulla strage ... Dalle 23 in poi non mi mossi più da quella stanza... Verso le 23 e 25, 23 e 30 entrò un altro brigadiere, quello con gli occhiali. Tornava costui da un'operazione di polizia concernente una cassetta di sicurezza prelevata in un paesino vicino Milano, cassetta che doveva servire per confrontare le schegge e il materiale repertato sul luogo di piazza Fontana e si allontanò per redigere la sua relazione...». Sentito nella stessa sede, il brigadiere con gli occhiali Pietro Mucilli dell'Ufficio politico, seppure non prodigo di particolari, ha confermato: «Entrai due volte nell'ufficio del commissario Calabresi. Una prima volta (saranno state le 23 e 40, 23 e 45) entrai nella stanza per deporre una borsa come al solito sul piano di un mobile che chiamiamo libreria... Mi soffermai per quattro, cinque, sei minuti per rileggere quanto avevo scritto nell'espletamento di un'operazione di polizia effettuata all'esterno». Quell'operazione di polizia effettuata all'esterno era consistita appunto nell'individuazione esatta ± nella mattina di quello stesso 15 dicembre ± del tipo di cassette metalliche usate negli attentati e nel prelevamento di alcuni esemplari nella fabbrica produttrice «Cesare Parma» di Lainate. Pietro Mucilli è morto circa vent'anni fa. Nè lui nè l'ex capitano dei carabinieri Savino Lograno tra le migliaia di testimoni sentiti che annovera l'inchiesta sulla strage sono mai stati interrogati nell'ambito delle indagini su Piazza Fontana. La stessa inchiesta sulla morte di Pinelli, sollecitata a furor di popolo dopo una prima archiviazione, per come si è articolata e per gli elementi inconsistenti su cui si è retta può essere considerata un depistaggio. Come è noto, nel 1975 il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio ha archiviato il caso, prosciogliendo il commissario Calabresi, i quattro brigadieri di polizia e il capitano Lograno presenti all'interrogatorio, formalmente incriminati - si badi bene - per omicidio volontario dall'autunno del 1971. Il giudice D'Ambrosio ha accolto le conclusioni univoche cui sono giunti periti diversi in epoche diverse: tesi dell'omicidio per la morte di Pinelli assolutamente impossibile perchè sul corpo non è stato trovato un solo segno di violenza che fosse possibile far risalire a prima della caduta; tesi del suicidio possibile ma ritenuta dal giudice improbabile «perchè Pinelli amava la vita». D'Ambrosio per spiegare le circostanze in cui è morto l'anarchico, ha optato per una spiegazione che non era tra le ipotesi sottoposte ai periti, ovvero il «malore attivo»: Pinelli è caduto dalla finestra della questura per una contrazione involontaria dei muscoli provocata dallo stress accumulato e dalla stanchezza. Si può credere al «malore attivo» e si può accettare come verità storica la verità giudiziaria. Oppure si può ritenere che sia necessario capire. Certo è che se da una parte la sentenza d'Ambrosio ha avuto il merito e il coraggio di restituire piena dignità ai funzionari di polizia, seppure post mortem nel caso di Calabresi, dall'altra ha sepolto per sempre il «caso Pinelli», sgombrando così da un ostacolo insormontabile il pieno dispiegarsi della pista nera. La morte di Pinelli, o meglio la gestione politica della sua morte, resta la chiave di volta di Piazza Fontana. L'altro grande mistero si chiama Giangiacomo Feltrinelli.
LA FUGA PROTETTA DI GIANGIACOMO FELTRINELLI Il 15 dicembre 1969, il giorno in cui scompare Giuseppe Pinelli, puntello fondamentale delle indagini sulla pista anarchica, non è un giorno qualsiasi ma ± a settantadue ore dalla strage ± le indagini sono ad una svolta. In mattinata è stato fermato Pietro Valpreda in base a due elementi, a dispetto di quanto ha affermato in tutto questo tempo la «vulgata», del tutto fortuiti e casuali: la segnalazione giunta dall'Ufficio politico della questura di Roma secondo la quale da qualche giorno Valpreda ha lasciato la capitale e si troverebbe proprio a Milano, e la testimonianza del tassista Cornelio Rolandi che dice di aver trasportato l'attentatore e che ritiene di identificarlo in Pietro Valpreda. Contro Rolandi, sindacalista della Cgil e con la tessera del partito comunista in tasca, si scatena un'opera di linciaggio bestiale (Rolandi morirà nel luglio 1971). A rendere credibile, perfettamente plausibile il suo racconto, è la testimonianza al di sopra di ogni sospetto del professor Liliano Paolucci: è stato lui che per primo e del tutto casualmente quella stessa mattina del 15 ha raccolto lo sfogo di Rolandi e lo ha invitato a rivolgersi alla polizia. Prova ne è il fatto che per anni le Br, nell'ambito della loro «controinchiesta» su Piazza Fontana, hanno custodito il nastro con la testimonianza registrata di Paolucci, poi ritrovato nel covo di Robbiano di Mediglia, di cui parleremo più avanti. Ma le indagini sugli «anarchici» devono aver fatto scattare sensori molto sensibili, se lo stesso giorno della scomparsa di un teste chiave come Pinelli si attiva un apparato in grado di esercitare una notevole influenza anche negli ambienti giudiziari. Il 15 dicembre il sostituto procuratore dott. Ugo Paolillo, senza motivare in alcun modo la propria decisione, respinge ± potremmo dire «d'ufficio» ± la richiesta, avanzata il giorno prima dalla questura milanese, di perquisire gli uffici dell'editore Feltrinelli. EÁ una richiesta tutt'altro che infondata: c'è la necessità di cercare eventuali volantini di rivendicazione, visto che in occasione di precedenti attentati anarchici compiuti a Milano volantini sono stati inviati all'Istituto Feltrinelli così come all'Istituto di studi sociali di Amsterdam, un centro di riferimento storico ± quest'ultimo ± per i gruppi anarchici di tutto il mondo. EÁ una «pista minore», ma che avrebbe potuto dare buoni frutti. Tanto più che recentemente, a distanza di decenni, secondo una pubblicistica più che attendibile si è saputo che l'Istituto di Amsterdam aveva sempre attirato l'interesse del Kgb. In pratica: inviare i volantini di rivendicazione a Feltrinelli e all'Istituto di Amsterdam era come fornire il calendario degli attentati anarchici disseminati in Italia. C'era anche un'altra ragione per interessarsi di Feltrinelli. Una ragione di carattere riservato ma che è stata resa nota e più volte ribadita da Massimo Pugliese, all'epoca responsabile del Centro di controspionaggio di Cagliari e che in quella veste si era interessato di Feltrinelli per i suoi progetti di abbinare Graziano Mesina e il banditismo sardo alla rivoluzione. Pugliese ha rivelato di aver appreso poco dopo la strage da una sua fonte, dimostratasi sempre attendibile e che per di più era uno dei più stretti collaboratori di Fetrinelli, che l'editore era coinvolto negli attentati del 12 dicembre. Come di consueto l'informazione fu girata al Ministero dell'Interno. Massimo Pugliese ovviamente si è assunto la responsabilità delle sue affermazioni ma, anche in questo caso, non è mai stato sentito dagli organi inquirenti. In ogni caso, in trent'anni non è mai stata fornita una spiegazione, umana prima ancora che giudiziaria e politica, al comportamento assunto da Feltrinelli immediatamente prima e soprattutto dopo la strage di Piazza Fontana. Giangiacomo Feltrinelli lascia Milano il 5 dicembre 1969, il giorno dopo essere stato interrogato dal giudice Amati nell'ambito del processo sui precedenti attentati anarchici (è accusato di falsa testimonianza) e dopo che proprio nel corso di quell'interrogatorio la sua posizione si è aggravata. Davanti al giudice l'editore non ha escluso di aver ricevuto volantini di rivendicazione delle bombe anarchiche ma ha affermato di «non poterlo sapere con precisione». Secondo le notizie di cui viene in possesso l'Ufficio Affari riservati, Feltrinelli si sarebbe imbarcato su un volo per l'Egitto: il che tra le tante versioni fornite renderebbe plausibile quella che lo vuole, quando scoppia la bomba nella Banca dell'agricoltura, ad Amman in un campo d'addestramento del leader palestinese George Habbash. Se l'assenza di Feltrinelli da Milano il giorno della strage sia una prova inconfutabile della sua innocenza oppure sia un alibi precostituito, è questione che non è mai stata affrontata. Subito dopo la strage Feltrinelli torna a Milano ed è un uomo sconvolto. Si rivolge agli ex comandanti partigiani, quelli che sono stati i capisaldi dell'apparato clandestino parallelo, come Cino Moscatelli (audizione dott. Allegra). Ma viene messo alla porta bruscamente. EÁ a questo punto che Feltrinelli si affida alla struttura occulta di Potere operaio per passare clandestinamente la frontiera con la Svizzera. E’ il primo gennaio 1970: da questo momento e fino alla notte fra il 14 e il 15 marzo 1972 (quando morirà a Segrate mentre sta innescando alcune cariche di esplosivo) Feltrinelli si muoverà sotto la copertura di almeno cinque identità false diverse e secondo le regole della clandestinità. Perchè uno degli uomini più ricchi del mondo dopo la strage di Milano si è dato alla latitanza, conclusa sotto il traliccio di Segrate? A questa domanda nessuna delle risposte date finora è credibile. Non è credibile la spiegazione della fuga per il timore di un imminente colpo di Stato: Feltrinelli aveva terminali molto attenti dentro Botteghe Oscure dove ± come vedremo presto ± non c'era alcun vero allarme per tale eventualità. Non è credibile che per quasi tre anni si sia dato alla latitanza perchè temeva che con Piazza Fontana si fosse messo in atto un complotto della polizia per colpire la sinistra, che lo si volesse «incastrare»: era un personaggio pressochè intoccabile e avrebbe potuto permettersi i migliori avvocati. Perché, da che cosa è fuggito Feltrinelli dopo il 12 dicembre 1969? Bisognerebbe chiedersi se la vera minaccia non sia apparsa a Feltrinelli l'ostracismo decretato dal partito dopo averlo messo al riparo dalle indagini su Piazza Fontana: nessuno come lui, sulla base di una consuetudine pluridecennale con le operazioni riservate e con l'apparato occulto del partito, sapeva che fuori da quell'ombrello protettivo era un bersaglio fin troppo facile. Una vittima predestinata. Qualche barlume in più può venire dal verbale della riunione tenuta dalla Direzione del Pci il 19 dicembre 1969, sette giorni dopo la strage di Piazza Fontana.
LA RIUNIONE DEL PCI DEL 19 DICEMBRE 1969 Il verbale della riunione tenuta dalla Direzione del Partito comunista italiano il 19 dicembre 1969 e presieduta da Enrico Berlinguer è stata acquisita dal professor Aldo S. Giannuli nell'ambito della perizia disposta dal giudice Guido Salvini. è un documento di eccezionale valore storico e politico. Ma sul piano giudiziario non ha avuto alcun effetto, non ha suscitato nessuna considerazione neppure nel ventilare lo scenario storicopolitico dell'epoca come è inevitabile in questo genere di procedimenti. Sono due le parti che colpiscono maggiormente in questo documento. Una è quella che potremo definire la «doppia verità» di cui, attraverso la propria rete informativa, è entrato in possesso il partito dopo la strage e che provvederà a tenere nascosta. Il condirettore dell'Unità Sergio Segre, chiamato alla riunione per riferire le informazioni «non ufficiali» da ritenersi più attendibili, l'esito di ciò che potremo chiamare la «controinchiesta» avviata dal partito sui fatti di Milano, riferisce il dialogo avuto con l'avvocato Guido Calvi, allora esponente del Psiup, e legale di Valpreda. Riferisce Segre: «Ieri sera ho parlato con un compagno del Psiup, Calvi. Calvi ha condotto una sua indagine parlando con gli amici del gruppo "22 marzo". L'impressione è che possono averlo fatto benissimo. Gli amici hanno detto: dal nostro gruppo sono stati fatti attentati precedenti. Ci sono contatti internazionali. Valpreda ha fatto viaggi in Francia, Germania, Inghilterra. Altri hanno fatto viaggi in Grecia. Alle spalle cosa c'è? L'esplosivo costava 800 mila lire e c'è uno che fornisce i quattrini. I nomi vengono fatti circolare». Chi è quel qualcuno che fornisce i quattrini? Pensare a Feltrinelli è fin troppo ovvio. «L'avvocato va a rassegnare il mandato dopo un colloquio con Valpreda». Interpellati recentemente, Sergio Segre e il senatore Guido Calvi hanno risposto: il primo che «se quelle cose sono scritte sul verbale è perchè Calvi me le ha dette»; il secondo: «non fui io ± all'epoca non ero nemmeno iscritto al Pci ± a riferire quelle informazioni ma probabilmente si tratta di notizie raccolte dalla Federazione del partito». Ma non è questo l'aspetto determinante. Ciò che colpisce è l'esistenza di una «doppia verità»: una «verità riservata» ai vertici del partito, nella quale i sospetti su chi ha compiuto la strage coincidono largamente con i primi risultati delle indagini della polizia, e una «verità pubblica» con la quale l'Unità indicherà sin dalle ore immediatamente successive alla strage nei neofascisti, nei golpisti, nelle trame nere, nelle connivenze dei servizi deviati, dei colonnelli greci e della Cia i responsabili. Nessuno dei partecipanti alla riunione della Direzione del Pci è mai stato sentito dall'autorità giudiziaria.
Ma di gran lunga più importante è quanto ebbe a dichiarare Enrico Berlinguer, insieme alla lucidissima analisi politica da lui tracciata nel corso della riunione. Berlinguer comunica ai presenti: «Ci possiamo muovere su basi sicure per quanto riguarda le ripercussioni politiche. La campagna di esasperazione della destra finora ha avuto un risultato abbastanza limitato». A sette giorni della strage, dunque, c'è la certezza che non è in atto alcun complotto per colpire, attraverso gli arresti degli anarchici, «il partito e tutta la sinistra». In questo senso, come ha ricordato nella sua audizione davanti alla Commissione stragi il sen. Luciano Barca, a Botteghe Oscure erano state fornite precise garanzie dal ministro dell'Interno Restivo. Per quanto la posizione di Berlinguer sia improntata alla massima cautela («può essere stato un gruppo molto ristretto di fanatici; può essere valida l'ipotesi che si sia trattato di un anello di un vero e proprio complotto reazionario...»), per quanto sia viva la preoccupazione per una situazione tutt'altro che chiara, tra le preoccupazioni che nutrono i vertici del partito non vi è traccia di un ipotetico colpo di Stato. Cadono così i due alibi ± «il complotto contro la sinistra e il Pci» e «il pericolo di un colpo di Stato» ± avanzati per trent'anni per giustificare comportamenti e condotte equivoci, se non addirittura compromettenti, come appunto la «latitanza» di Giangiacomo Feltrinelli. Più viva di quella per un colpo di Stato, è certamente la preoccupazione che, a Milano soprattutto, le indagini possano coinvolgere militanti del partito e qualche frangia dell'apparato occulto. «C'è una tendenza per ora alla generalizzazione delle indagini che, in certi luoghi, riguardano nostri compagni...» riferisce Sergio Segre. EÁ questa preoccupazione che induce i dirigenti del partito a ritenere che sia opportuno accentuare la distanza e la polemica con i gruppi della sinistra extraparlamentare. Per il resto le valutazioni espresse nella riunione, che meriterebbero una ben più approfondita analisi politologica e storiografica, mettono in luce come dall'eccidio della Banca dell'agricoltura non venga minimamente scalfita ma anzi sia accentuata l'aspettativa di vedere riconosciuto un ruolo maggiore al Pci, grazie alla spinta impressa dalla «stagione delle lotte», e l'attesa di un rapido ingresso del partito nel governo attraverso l'accordo con la «parte più avanzata» della Dc. EÁ un traguardo, quello dell'ingresso del Pci al governo, che viene addirittura previsto da Giorgio Amendola «nel quadro di una campagna elettorale». E’ nei giorni immediatamente successivi alla strage della Banca dell'agricoltura che si sperimenta l' «antifascismo» come collante capace di orientare nuovi assetti e di condizionare il quadro politico. Con una sintesi forse approssimativa e un po' rozza ma non lontana dal vero si può affermare che la strage di Piazza Fontana ha tenuto a battesimo il primo vagito del compromesso storico.
I DEPISTAGGI DELL'OBSERVER La relazione precedentemente ricordata afferma che l'espressione "strategia della tensione" «si affacciò in un articolo di Leslie Finner, sull'Observer del 7 dicembre 1969». Non è esatto. La precisazione non vuole essere una manifestazione di pedante puntigliosità. Ma è doverosa perchè altrimenti così facendo, cioè anticipando di una settimana il debutto effettivo del termine, forse non si percepisce in tutta la sua portata e gravità questo depistaggio riferibile ad «ambienti informativi» di un Paese amico come è la Gran Bretagna. L'espressione «strategia della tensione» non compare il 7 dicembre 1969 ma sul numero del settimanale inglese Observer in edicola il 14 dicembre 1969: due giorni dopo la strage avvenuta a Milano alle 16 e 35 del 12 dicembre. La collocazione temporale ha ± lo vedremo subito ± la sua importanza. Il 7 dicembre 1969 è la prima puntata di questa massiccia operazione di disinformazione. A firma del corrispondente Leslie Finner viene pubblicato un presunto rapporto dell'ambasciata greca in Italia al ministero degli Esteri ellenico in cui si afferma che tutti gli attentati avvenuti in Italia sono opera di neofascisti; si fa riferimento ad un complotto orchestrato tra gli ambienti militari e della destra italiana e la «giunta dei colonnelli» al potere in Grecia per determinare un colpo di Stato in Italia, al ruolo del misterioso «signor P.» tramite tra i golpisti italiani e i greci. Il documento è palesemente un falso. Non verrà mai preso sul serio ± almeno questo ± in alcuna aula di giustizia, al contrario di quanto avverrà nelle redazioni e nelle case editrici. Il vero scopo di quell'articolo è racchiuso in due righe del supposto rapporto dei servizi greci, nelle quali si attribuisce ai neofascisti l'esecuzione degli attentati del 25 aprile 1969 (alla Fiera di Milano e all'Ufficio cambi della Stazione centrale), per i quali invece si trovavano in carcere alcuni membri della cellula milanese degli anarchici individualisti e le indagini avevano portato al coinvolgimento di Giangiacomo Feltrinelli. Che la pubblicazione dell'articolo sull'Observer coincida con la scomparsa di Feltrinelli da Milano e segua solo di pochi giorni il suo primo e unico interrogatorio a seguito del quale la sua posizione giudiziaria si è aggravata, non può che aggiungere ulteriori elementi di perplessità. La definizione «strategia della tensione» (in italiano nel testo) compare sull'Observer del 14 dicembre: responsabile della «strategia della tensione» è il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Saragat secondo l'Observer era la personalità che aveva riunito una coalizione politico-militare la quale, attraverso attentati e stragi per drammatizzare lo scontro sociale in atto nel Paese, avrebbe voluto determinare una svolta reazionaria. Che si indicasse nel massimo rappresentante della socialdemocrazia italiana, oltre che dello Stato italiano, il demiurgo di un progetto parafascista e di uno schieramento di estrema destra, avrebbe dovuto far sorgere qualche sospetto sulla reale provenienza e sui veri obiettivi di questa opera di disinformazione in due atti. Invece, per quanto possa sembrare pazzesco, la «strategia della tensione» ha continuato ad essere il principale schema con cui per trent'anni, con successivi aggiustamenti, abbiamo interpretato non solo Piazza Fontana ma l'intero fenomeno dello stragismo, e al quale fa sostanzialmente riferimento anche il processo in corso a Milano sulla strage alla Banca dell'Agricoltura. A questo punto è necessaria una piccola riflessione tecnica. La bomba di Piazza Fontana è esplosa alle 16 e 35 circa di venerdì 12 dicembre 1969. Tra quando è accaduto il fatto e l'uscita del settimanale, l'Observer ha avuto poco più di 24 ore per raccogliere le notizie di un articolo dettagliatissimo così ricco di informazioni e di particolari in esclusiva, redigere il servizio, andare in stampa e arrivare in edicola. EÁ almeno lecito avanzare l'ipotesi che a Londra e all'Observer si sapesse con un certo anticipo di quanto sarebbe accaduto. E’ inutile dire che nessuno degli autori ± escluso Leslie Finner «interrogato» con una rogatoria estremamente superficiale molti anni dopo quando si trovava a Washington è mai stato sentito come testimone. Ci sono da aggiungere altri due particolari. L'Observer non è un giornale scandalistico nè tanto meno è un giornale qualunque. Negli ambienti politici e diplomatici è considerato una voce governativa semi-ufficiale, tradizionalmente vicino al premier laburista. Ma l'Observer è anche il giornale occidentale in cui l'infiltrazione del Kgb ha raggiunto, forse, i livelli più alti. Sotto la copertura di corrispondente da Beirut agiva Kim Philby, ex vicecapo del controspionaggio britannico, prima di fuggire nel '63 a Mosca. Questi sono i fatti. Ci si può chiedere se il primo, devastante e irreversibile depistaggio su Piazza Fontana sia stato opera di qualche agente del Kgb che operava sull'Observer (esattamente come è avvenuto con L'Espresso per il Piano Solo). Oppure se a «pasticciare» intorno alla strage di Piazza Fontana e alle vicende immediatamente precedenti, inquinando la «scena del delitto», abbiano trovato una loro sintonia la rete spionistica sovietica e quella inglese. Nel novero delle ipotesi e degli scenari possibili, è bene ricordare, come fa l'elaborato presentato dal senatore Athos De Luca, che proprio nel dicembre 1969 gli inglesi vengono espulsi dalla Libia, perdendo basi militari importantissime, e si avvia il processo di indipendenza di Malta, a tutto vantaggio dei rapporti intrattenuti sia dalla Libia che da Malta con il nostro Paese. Il ministro degli Esteri dell'epoca si chiamava Aldo Moro.
LA FONTE «ANNA BOLENA» Nella precedente relazione («Per una rilettura degli Anni Sessanta») abbiamo visto come il procedimento a carico degli anarchici per gli attentati del 1963 a Milano non abbia avuto alcuno sviluppo fino a sfociare nella dichiarazione di non luogo a procedere nel 1975 ± dodici anni dopo ± per prescrizione del reato. Nell'inchiesta su Piazza Fontana è avvenuto di più e di peggio: ogni notizia che potesse dare impulso alla pista anarchica è stata semplicemente ignorata. Nessuno sviluppo ebbero in particolare le informazioni fornite dall'anarchico Enrico Rovelli, già arrestato nel 1963, in contatto con il commissario Luigi Calabresi con il nome di copertura «Luigi» e sotto lo pseudonimo «Anna Bolena» con il maresciallo Ermanno Alduzzi e per le questioni di maggior importanza ± con il dottor Silvano Russomanno, entrambi dell'Ufficio Affari Riservati. In particolare sulla strage di Piazza Fontana, «Anna Bolena» riceve le confidenze di Augusta Farvo, militante anarchica di vecchia data, punto di riferimento di tutti gli anarchici milanesi (a lei presso la sua edicola in via degli Osii nel cuore della città si rivolse ad esempio Gianfranco Bertoli, appena arrivato a Milano, il giorno prima di compiere la strage alla questura). «Anna Bolena» comunica regolarmente le notizie ottenute da Augusta Farvo ai suoi referenti della questura e dell'Ufficio Affari Riservati. Nell'informativa dell'8 gennaio 1971, redatta da Ermanno Alduzzi, si legge: «... (Augusta Farvo) assicura di essere a conoscenza che il Nino (ndr, Nino Sottosanti detto Nino il fascista) dopo il pranzo in casa Pinelli, tentò in tutti i modi di convincere quest'ultimo ad accompagnarlo in centro, ma che Pinelli rifiutò... L'Augusta avrebbe saputo questo dalla moglie del Pinelli. Questo categorico rifiuto del Pinelli a portarsi in centro, è interpretato dalla stessa come una conferma che il Pinelli stesso era a conoscenza di quello che doveva accadere e che preferiva rimanere al bar per l'alibi...». Nino Sottosanti il 12 dicembre 1969 si era incontrato a pranzo con Pinelli dopo che nei giorni precedenti davanti al giudice Amati aveva reso una testimonianza favorevole o compiacente che avrebbe dovuto suffragare l'alibi di Tito Pulsinelli. L'aver taciuto l'incontro con Sottosanti e l'alibi fornito per il pomeriggio della strage sono i motivi per cui Pinelli fu trattenuto in questura, e sono la causa indiretta della sua morte. EÁ dunque difficile ritenere irrilevante l'eventualità, espressa dalla moglie di Pinelli, che l'anarchico precipitato dalla finestra della questura fosse a conoscenza degli attentati che sarebbero avvenuti nel pomeriggio del 12 dicembre, e che per questo si fosse predisposto l'alibi del bar poi effettivamente risultato falso o quanto meno estremamente dubbio. Alla fine del dicembre 1969 Enrico Rovelli-«Anna Bolena» su incarico dell'Ufficio politico di Milano si recò a Parigi e a Bruxelles per avere informazioni nell'ambiente anarchico internazionale. Questo è l'esito di quel viaggio, riassunto nella «Riservata» del 17 gennaio 1970, a firma del questore Marcello Guida, inviata alla Direzione generale di Polizia-Divisione Affari Riservati: «A Parigi il fiduciario ha conosciuto negli ambienti anarchici uno spagnolo di circa 35 anni, che si fa chiamare "Andrè Calvajo"». «Andrè Calvajo» è il capo militare della FIJL, la Federazione iberica della gioventù libertaria. Di lui si conosce anche l'indirizzo parigino: boulevard la Villette 54. Ad «Anna Bolena» il compagno Calvajo «ha confidato di aver conosciuto molto bene Pinelli e di avergli spedito, a sua richiesta, del materiale esplosivo da inviare in Grecia. Detto materiale fu portato in Italia, probabilmente dallo stesso Calvajo, verso la fine dello scorso settembre». Ad «Anna Bolena» è stato descritto anche il percorso dell'esplosivo che da Milano avrebbe dovuto essere inviato a Roma e quindi in Grecia per un' «azione internazionalista» contro la giunta dei colonnelli. Da ciò si possono trarre le conclusioni che si ritengono più opportune. Ma non si può ignorare la straordinaria coincidenza tra le informazioni fornite da «Anna Bolena» e i reperti della cosiddetta controinchiesta Br su Piazza Fontana rinvenuti nel '74 nel covo di Robbiano di Mediglia, misteriosamente scomparsi 18 anni dopo e di cui parleremo tra poco. Dalle annotazioni in margine ad alcune delle informative provenienti da «Anna Bolena» si può arguire che tali informative furono trasmesse all'autorità giudiziaria di Milano che all'epoca indagava su Piazza Fontana. A proposito della mancata escussione come teste di Augusta Farvo per un periodo lunghissimo di tempo è significativa la lapidaria spiegazione che alla Commissione Stragi ha dato il dottor Antonino Allegra: «Se l'avessimo interrogata non ci avrebbe detto niente...». All'età di 85 anni Augusta Farvo è stata sentita per la prima e unica volta da un ispettore capo della Digos, su decisione della dottoressa Grazia Pradella, il 3 marzo 1997. Ma per le condizioni di salute estremamente precarie la Farvo, colpita da un ictus e semiparalizzata, è risultata essere ormai un testimone inutilizzabile. L'ex fonte «Anna Bolena» Enrico Rovelli sentito, sempre per iniziativa della dottoressa Pradella, il 15 aprile 1997 e il 12 maggio 1997 non solo ha confermato il contenuto di quelle vecchie informative ma ha potuto aggiungere ulteriori particolari. Tuttavia, come accade spesso in questi casi, una inopportuna fuga di notizie approdata al Corriere della Sera del 7 marzo 1998 relativa, si badi bene, non alle dichiarazioni di Enrico Rovelli ma al suo ruolo di «spia» al servizio degli Affari Riservati lo ha bruciato come teste, provocandogli danni pesantissimi nella sua attività di manager di cantanti famosi come Vasco Rossi e Antonello Venditti. Nell'occasione la dottoressa Pradella ha manifestato tutto il suo disappunto per la «fuga di notizie», definita un attacco alle indagini che stava svolgendo. Forse sarebbe risultata utile l'audizione della dottoressa Pradella davanti alla Commissione stragi.
LA PISTA NERA Non corrisponde assolutamente a verità, come pure è opinione diffusa, che la pista nera per la strage di Piazza Fontana sia emersa quando ad opera della «controinformazione» democratica fu sbugiardata la «montatura» della polizia e si rivelarono in tutta la loro inconsistenza gli elementi a carico degli anarchici. E’ vero esattamente il contrario. Sommessamente ma doverosamente è appena il caso di ricordare che le indagini sulla pista anarchica per la strage di Piazza Fontana furono condotte dal sostituto procuratore Vittorio Occorsio, magistrato integerrimo e senza pregiudizi ideologici, che ha pagato con la vita il suo rigore (assassinato per mano del neofascista Pierluigi Concutelli). La pista nera nasce pochi giorni dopo l'attentato alla Banca dell'agricoltura e per la precisione il 15 dicembre 1969, il giorno in cui muore Pinelli e il tassista Cornelio Rolandi si rivolge ai carabinieri per la sua prima testimonianza (il giorno dopo riconoscerà con assoluta certezza in Pietro Valpreda il presunto terrorista di Piazza Fontana). Poi cresce e si dilata parallelamente alla pista anarchica, ne diventa il suo doppio, vi si sovrappone fino a soppiantarla del tutto. Con una curiosa particolarità: la pista nera ha delle improvvise accelerazioni tutte le volte che l'inchiesta su Valpreda e gli anarchici arriva a delle svolte decisive (interrogatori degli imputati, richiesta di rinvio a giudizio, sentenza ordinanza di rinvio a giudizio, eccetera). Cinque istruttorie (divise tra Milano, Treviso, Roma e Catanzaro), otto processi, senza contare i pronunciamenti della Suprema Corte, sulla vicenda di Piazza Fontana hanno depositato un numero di documenti (nell'ordine di milioni di fogli) che nessuno eÁ in grado di indicare con precisione. Ed è questo forse il depistaggio più macroscopico. Ricostruire l'iter giudiziario della strage di Piazza Fontana è praticamente impossibile. Cercheremo ± nel limite del possibile ± di sintetizzare alcune delle fasi salienti. Il 15 dicembre 1969 il professor Guido Lorenzon, esponente della sinistra democristiana, si rivolge all'avvocato Stancanella (il primo incontro con il sostituto procuratore di Treviso Pietro Calogero ci sarà alla fine del mese) per riferirgli le confidenze ricevute da un suo amico, l'editore Giovanni Ventura, il quale gli ha confidato di essere coinvolto in alcuni attentati. Ma, oltre all'irrefrenabile desiderio di confidarsi con il suo amico Lorenzon, Giovanni Ventura risulterà avere un alibi di ferro per la bomba esplosa alla Banca dell'Agricoltura di Milano: il 12 dicembre era a Roma. Per avere un'idea della genesi della pista nera, è bene riportare le conclusioni a cui è giunta nel 1986 la Corte d'Assise d'Appello di Bari a proposito del prof. Guido Lorenzon «che scrivono i giudici nelle motivazioni in quelle tempestose giornate del gennaio 70 fece di tutto: accusò Ventura, ritrattò e mentre ritrattava raccolse ulteriori confidenze del suo interlocutore e tornò ad accusarlo». Pochi giorni dopo, il 19 gennaio 1970, il dott. Pietro Calogero trasmette a Roma, che indaga su Piazza Fontana (pubblico ministero Vittorio Occorsio, giudice istruttore Ernesto Cudillo), gli atti dell'inchiesta su Franco Freda e Giovanni Ventura. Nel carcere di Regina Coeli si sono da poco conclusi gli interrogatori decisamente poco favorevoli agli imputati ± di Pietro Valpreda, Mario Merlino, proveniente dall'estrema destra e presunto infiltrato, e degli altri anarchici del circolo «22 marzo». Da questo momento ci vorranno quasi tre anni di serrate indagini perchè nella strage di Piazza Fontana siano coinvolti i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura. Il giudice istruttore Ernesto Cudillo il 20 marzo 1971 ordina il rinvio a giudizio con l'accusa di strage per Pietro Valpreda, Mario Merlino, e due degli altri giovani anarchici in carcere. Il 12 aprile 1971 su mandato del giudice di Treviso Giancarlo Stiz scatta il primo arresto di Freda e Ventura: l'accusa è di «ricostituzione del partito fascista». La svolta decisiva alla pista nera è impressa da Alberto Sartori, ex comandante partigiano del Pci fino alla metà degli Anni '60, esponente di spicco del Partito comunista d'Italia marxista-leninista, che l'editore «neofascista» Giovanni Ventura ha voluto a tutti i costi a capo della sua azienda tipografica Litopress. Il 26 aprile 1971 Sartori spontaneamente si presenta dal giudice Stiz e consegna al magistrato alcuni «documenti riservati», veline dei servizi, di cui, sostiene, è in possesso Giovanni Ventura. Il principale artefice del decollo della pista nera merita un ritratto a sè, che forniremo nel prossimo capitolo. In realtà quei documenti, su esplicita richiesta di Giovanni Ventura, sono stati forniti ad Alberto Sartori dal «conte rosso» Pietro Loredan, anche lui con una buona fama di ex partigiano. EÁ con tutta evidenza una manovra che alla disinformazione unisce la provocazione. Di fatto costituirà la premessa attraverso il coinvolgimento dell'agente del Sid Guido Giannettini che di quei documenti eÁ l'estensore e il fornitore per arrivare al coinvolgimento dei vertici dei nostri servizi segreti e dei vertici militari nel processo di Piazza Fontana. Il 22 dicembre 1971 la magistratura di Treviso ordina un nuovo arresto di Freda e Ventura per le armi ritrovate casualmente durante i lavori di ristrutturazione in un appartamento di Castelfranco Veneto di proprietà di Gianfranco Marchesin, consigliere comunale socialista, che dice di aver custodito l'arsenale per conto dei fratelli Ventura. Ma perchè la pista nera approdi definitivamente alla strage di Piazza Fontana c'è bisogno di un ulteriore salto mortale. Il 4 marzo 1972 è arrestato Pino Rauti, membro della direzione nazionale del Msi, per decisione dei magistrati di Treviso. Le accuse nei suoi confronti sono le seguenti: aver partecipato ad una riunione che il 18 aprile 1969 si sarebbe svolta a Padova con Freda, Ventura e Merlino ed essere il misterioso «signor P.» citato dall'Observer come l'«ufficiale di collegamento» tra i golpisti italiani e i colonnelli greci. E’ in base ai loro rapporti con Pino Rauti che, finalmente, anche Freda e Ventura potranno essere ufficialmente incriminati per la strage di Piazza Fontana. C'è anche qui una coincidenza temporale con la pista anarchica? Certamente: il 28 febbraio 1972: si è appena aperto a Roma il processo contro gli anarchici per la strage, il 24 la corte si è dichiarata incompetente e ha rinviato gli atti a Milano. Anche gli atti di Treviso passano a Milano. I magistrati ± i sostituti procuratori Emilio Alessandrini, Luigi Fiasconaro e il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio ± scarcerano per assoluta insufficienza di indizi Pino Rauti, che sarà eletto deputato il 7 maggio, ma ritengono valide le accuse contro Freda e Ventura. Il 28 agosto 1972 il giudice D'Ambrosio firma i mandati di cattura contro i due per la strage di Piazza Fontana. Peccato che due giorni dopo il procuratore capo Enrico De Peppo, quale ultimo suo atto prima di andare in pensione, chieda che il processo su Piazza Fontana sia spostato ad un'altra sede per legittima suspicione: a Milano non ci sono le condizioni per garantire uno svolgimento sereno del giudizio. In ottobre la Cassazione opta per Catanzaro. Le coincidenze temporali non finiscono qui. La prima udienza presso la Corte d'Assise di Catanzaro del processo in cui sono imputati Pietro Valpreda e gli altri anarchici è fissata per il 18 marzo 1974. Il 18 marzo 1974, a conclusione dell'istruttoria milanese il giudice D'Ambrosio ha rinviato a giudizio per la strage di Piazza Fontana i «neri» Franco Freda e Giovanni Ventura. Su richiesta delle parti civili, il 18 aprile 1974 la Corte di Cassazione dispone l'unificazione dei due processi. Da questo momento sarà praticamente impossibile riafferrare il bandolo della matassa. Perchè quello che va in scena a Catanzaro e si conclude il 23 febbraio '79 è un giudizio monstre che si celebra a dieci anni dai fatti e nel quale non si processano i presunti responsabili dell'eccidio di Piazza Fontana e gli eventuali mandanti, se ci sono, ma si processano lo Stato italiano e la sua classe dirigente. Riassumiamo brevemente l'esito di questo primo iter giudiziario. Sentenza di primo grado: condannati all'ergastolo Franco Freda, Giovanni Ventura, Guido Giannettini; assolti per insufficienza di prove dall'accusa di strage Pietro Valpreda e Mario Merlino. Sentenza d'appello della Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro: assolti per insufficienza di prove Freda, Ventura, Giannettini, Valpreda e Merlino. Cosiddetta sentenza d'appello bis pronunciata nel febbraio '86 dalla Corte d'Assise d'Appello di Bari: riconferma dell'assoluzione per insufficienza di prove per tutti e anche per Valpreda nonostante che per lui fosse stata chiesta l'assoluzione con formula piena dall'accusa, che preannuncia ricorso. Nell'87 la Cassazione respinge tutti i ricorsi mettendo la parola fine a questo primo troncone giudiziario. Ma non sono finite le indagini su Piazza Fontana. Anche il processo d'appello bis è stato disturbato dall'ennesima istruttoria parallela - la quarta - che ha preso il via a Catanzaro mentre è in corso il processo presso la Corte d'Assise d'Appello di Bari e che rilancia la pista nera. Questa volta fanno il loro ingresso i «pentiti», tra cui Angelo Izzo (il massacratore del Circeo), Sergio Calore, Sergio Latini: tutti hanno esordito con le loro confessioni al processo per la strage di Bologna. Sulla base delle loro dichiarazioni vengono incriminati Massimiliano Fachini, quale esecutore materiale della strage di Piazza Fontana, e Stefano Delle Chiaie, quale mandante, leader di Avanguardia Nazionale. Entrambi saranno assolti non con formula dubitativa ma con formula piena il 20 febbraio 1989 in primo grado, il 5 luglio 1991 in appello.
LA PISTA ROSSA.
Strage piazza Fontana, 51 anni fa moriva l’anarchico Pinelli: “Continuare a chiedere verità”. A cura di Giorgia Venturini il 16 dicembre 2020 su fanpage.it. La notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969 l’anarchico Giuseppe Pinelli morì in circostanze misteriose cadendo da una finestra della Questura di Milano. Ci entrò poche ore dopo la strage di piazza Fontana come sospettato: solo dopo anni si sapranno i veri nomi dei responsabili della bomba. Per una delle figlie del ferroviere anarchico, Silvia, il padre “fu ucciso nel momento in cui entrò nei locali della questura”. Il Comune di Milano lo ha ricordato con una targa come “la 18esima vittima di piazza Fontana”. A distanza di 51 anni la segretaria del Pd di Milano Silvia Roggiani scrive: “Ricordarlo significa continuare a chiedere verità su una pagina drammatica della nostra storia moderna”.
Cinquantuno anni di silenzi e misteri. Di accuse ingiustificate e di verità nascoste. Perché a distanza di tempo dalla morte di Giuseppe Pinelli tanti restano i dubbi e poche le certezze: quello che si sa è che l'allora 41enne anarchico entrò nella Questura di Milano il 12 dicembre del 1969 per morire la notte tra il 15 e il 16 dicembre, in circostanze mai chiarite, precipitando da una finestra della questura. Pinelli finì in manette poche ore dopo la strage di piazza Fontana dove morirono 17 persone e rimasero ferite altre cento per un'esplosione all'interno della Banca dell'Agricoltura. Per gli agenti di polizia i sospetti caddero subito sugli anarchici, in particolare su Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda: il primo morì tre giorni dopo, il secondo venne invece scagionato dalle accuse. Sarà poi la storia a fare emergere ben altri nomi e ambienti quali i veri mandanti della bomba di piazza Fontana: nel 2005 la Cassazione ha confermato che dietro la bomba all'interno della banca c'era il gruppo eversivo di estrema destra Ordine Nuovo, guidato da Franco Freda e Giovanni Ventura. Entrambi, nonostante la sentenza all'ultimo grado di giudizio, non vennero processati in quanto già irrevocabilmente assolti dalla Corte d'assise d'appello di Bari. Chi fisicamente mise la bomba, invece, resta uno dei tanti misteri italiani.
Per la giustizia il caso di Pinelli venne archiviato con un secco "ucciso da un malore attivo": ma per Silvia, una delle due figlie, la versione dei fatti è un'altra: "Pino era un anarchico e una staffetta partigiana. Era un ferroviere che venne ucciso nei locali della questura di Milano – ha ribadito in un'intervista a Fanpage.it -. Fu ucciso nel momento in cui entrò quel 12 dicembre nei locali della questura e ne uscì, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre". Da allora la famiglia di Pinelli ha sempre chiesto verità su quanto accadde veramente quella notte.
Per il Comune di Milano Pinelli è la 18esima vittima di piazza Fontana, tanto che lo scorso anno, quando si sono celebrati i cinquant'anni dalla strage, è stata posizionata una targa in piazzale Segesta sotto la casa in cui il ferroviere ha abitato con la famiglia. Lo ricorda anche la segretaria al Pd Silvia Roggiani sulla sua pagina Facebook: "Un anno fa il sindaco di Milano Sala, a 50 anni dalla morte di Giuseppe Pinelli, ha fatto un gesto necessario. Assieme alla quercia rossa e alla targa in piazzale Segesta, sotto la casa del ferroviere anarchico, ha chiesto scusa a nome della città per i silenzi e le menzogne di cui l'uomo è stato vittima". E poi ha aggiunto: "Milano, quindi, vuole ricordare la storia di Pino Pinelli, la diciottesima vittima di Piazza Fontana, entrato vivo e uscito morto tre giorni dopo dalla Questura, e non accetta revisionismi o riscritture rispetto a quello che accadde". Infine, ha concluso: "A 51 anni dall'attentato neofascista alla Banca dell'Agricoltura, vogliamo ricordare la storia di un uomo accusato ingiustamente per quella strage. Ricordarlo significa continuare a chiedere verità su una pagina drammatica della nostra storia moderna".
La morte dell'anarchico. Omicidio di Giuseppe Pinelli, così la polizia buttò l’anarchico fuori dalla finestra. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Dicembre 2020. “Pinelli è stato assassinato”. E se oggi ce lo confermasse qualche “barba finta”? Quante volte il grido è risuonato nelle strade e nelle piazze degli anni settanta. Quante volte, per lunghi cinquanta anni, si è chiesta verità, una verità che almeno assomigli un poco alla realtà dei fatti, su quel che accadde in quell’ufficio della questura di Milano dalla cui finestra l’anarchico Pino Pinelli precipitò e morì verso la mezzanotte del 15 dicembre 1969. Ed ecco che spunta, mentre ci prepariamo alla cinquantunesima ricorrenza, dal nulla di una lunghissima latitanza africana, la voce di un uomo di novantanove anni, il generale Adelio Maletti, che fu uomo importante dei servizi segreti di quei tempi e che fu condannato per il depistaggio sulle indagini della strage di piazza Fontana.
E dice che in effetti qualcosa andò storto quella notte. E che la tesi ufficiale del suicidio di Pinelli “era una bufala”, come gli confidò un altro che la sapeva lunga, il generale Miceli. Se dobbiamo credere alle barbe finte, l’anarchico Pino Pinelli è proprio stato sbattuto giù dalla finestra. L’intervista a Miceli, pubblicata dal Fatto quotidiano, è stata realizzata da Andrea Sceresini e Alberto Nerazzini ed è stata registrata per un programma su piazza Fontana. È stata anche raccolta una battuta di uno dei poliziotti che quella notte erano nella stanza del commissario Calabresi, uno dei due sopravvissuti, il brigadiere Panessa: “Quella notte Pinelli se l’è cercata”. Una frase violenta e impietosa. Ma che non fa che confermare come quella notte sia accaduto qualcosa di diverso dal suicidio di un colpevole, ma anche qualcosa di diverso dall’”incidente di lavoro”. In quella stanza, lascia intendere Panessa, non c’era stato solo un imprevisto di poliziotti un po’ maneschi. No, qualcuno si era vendicato nei confronti del reprobo che si ostinava, dopo tre giorni di interrogatorio illegale, a non confessare.
Il generale Maletti non si limita ad avanzare un’ipotesi, anche se nell’intervista la presenta come tale. “Pinelli si rifiuta di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedersi sul davanzale. A ogni risposta negativa, Pinelli viene spinto un po’ più verso il vuoto. Infine perde l’equilibrio e cade”. Non è un’ipotesi, perché a Maletti, che sarà al Sid solo dal 1971, lo scenario viene confermato da diversi personaggi che invece allora c’erano, se non nella stanza, negli ambienti dei servizi segreti dove si costruì la famosa tesi ufficiale del suicidio di Pino Pinelli. E cioè dal maggiore di carabinieri Giorgio Burlando, responsabile del centro di controspionaggio di Milano, dal colonnello Antonio Viezzer, capo della segreteria del reparto D del Sid, e appunto dal generale Vito Miceli, capo del servizio segreto militare dal 1970 al 1974, quello che definì “una bufala” la storia del suicidio. A qualcuno è scappata la mano? O è sfuggito di mano proprio il corpo di Pinelli?
Per un’intera generazione, per quelli di noi che c’erano, per quelli che hanno gridato e ritmato “Pinelli- è stato- assassinato”, l’intervista di Maletti è solo una conferma. La conferma di quel che la giustizia penale non ha saputo o voluto accertare. È la dimostrazione del fatto che non sono state inutili le nottate passate con il giudice D’Ambrosio in quel cortile della questura a guardar buttare giù in vari modi quel manichino che non era Pinelli e che in nessun modo mai veniva giù come un corpo di chi si dà una spinta volontaria. Cadeva sempre come un corpo morto. Anche se poi, in modo poco coraggioso la sentenza finale parlò di “malore attivo”.
Oggi uno che si intende di intrighi e imbrogli e bugie di Stato ci dice che non ci fu nulla di “attivo” in quella precipitazione. Perché il volo di Pinelli non fu suicidio, ma neanche accostamento volontario alla finestra. No, l’anarchico ci fu spinto e poi sempre più spinto all’infuori del davanzale fino a cadere. Questo si chiama omicidio. E questi si chiamano sistemi da Gestapo. Il codice penale usa tante formule e sfumature, compresa quella del dolo eventuale, per definire situazioni come quella che dipinge il generale Maletti. E insieme a lui una serie di altri spioni di Stato molto anziani e molto, ne siamo sicuri, di buona memoria.
Non credo sia interesse di nessuno oggi processare i morti o mandare in galera i vegliardi. Ma la verità si, quella vogliamo saperla. Per Pino, per la moglie Licia e le figlie indomite Claudia e Silvia, per il movimento anarchico. E per tutti noi ragazzi e ragazze di allora che avevamo capito e siamo stati imbrogliati da una giustizia che ci ha messo il bavaglio perché non potessimo più dirla, quella verità. Oggi, 15 dicembre, il nostro amaro in bocca è un po’ meno amaro. Che cosa diceva quella ballata incisa su un 45 giri, “parole e musica del proletariato”? Una spinta e Pinelli cascò. E non faceva neanche tanto caldo, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Le figlie di Pinelli: “Montanelli disse menzogne su nostro padre, poi dovette chiedere scusa”. Francesco Loiacono il 16 giugno 2020 su Fanpage.it. Mentre infuriano a Milano le polemiche e il dibattito sulla figura di Indro Montanelli, dopo l’imbrattamento della statua a lui dedicata, un altro tassello per ricordare chi era il giornalista arriva dalle figlie di Giuseppe Pinelli, l’anarchico morto tragicamente precipitando da una finestra della questura di Milano pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana. “Scrisse che Pinelli era un informatore della polizia e che si sarebbe suicidato – scrive Claudia Pinelli -. Erano tutte menzogne, in tribunale dovette più volte chiedere scusa”. L’altra figlia, Silvia, a Fanpage.it parla della “lettera a Camilla” Cederna scritta nel 1972 da Montanelli: “È una cosa allucinante, anche come tipo di accuse”. Sulla statua: “Va trovata un’altra collocazione”. In questi giorni in cui infuria il dibattito attorno alla figura di Indro Montanelli, dopo l'imbrattamento della statua nei giardini di Milano a lui intitolati e la richiesta di rimozione del monumento, un altro tassello per ricordare chi fu il giornalista arriva dalle figlie di Giuseppe Pinelli, l'anarchico morto tragicamente in circostanze mai chiarite la notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969 precipitando da una finestra della questura di Milano, dove era stato portato con altri anarchici a seguito dell'attentato di piazza Fontana. Sono due, in particolare, i ricordi di Montanelli che le figlie di Pinelli hanno voluto condividere pubblicamente in questi giorni sui loro profili Facebook. Il primo riguarda le menzogne che il "grande giornalista", come lo definisce ironicamente Claudia Pinelli, scrisse riguardo al padre sul "Giornale". "Il 24 ottobre 1980 Montanelli scrisse di aver saputo, undici anni prima, cioè subito dopo la strage di Piazza Fontana, che Giuseppe Pinelli fosse un informatore della polizia e avesse confidato al commissario Calabresi che gli anarchici stavano preparando ‘qualcosa di grosso' – spiega Claudia Pinelli -. Quando avvenne la strage non resistendo all’idea che i suoi compagni lo qualificassero come delatore, si sarebbe suicidato gettandosi dalla finestra… Inutile dire che erano tutte menzogne". Quando poco dopo, durante il processo d'appello per la strage di Piazza Fontana che si tenne a Catanzaro, il giornalista venne chiamato a rispondere delle sue affermazioni in tribunale "Montanelli dovette più volte chiedere scusa, ammettere di essersi sbagliato, di aver capito male, di non essersi espresso bene, di essersi inventato di sana pianta particolari rilevanti", scrive Claudia Pinelli. La figlia maggiore del ferroviere ricorda anche che, costretto a rimangiarsi tutto davanti al giudice, iniziò a sfaldarsi il "mito" di Montanelli anche nel procuratore generale, che disse: "E io che fin da ragazzo l'ho sempre considerata una specie di mito, oggi questo mito è crollato". L'altra figlia di Pinelli, Silvia, ha aggiunto un altro tassello al ricordo di Montanelli, pubblicando la "Lettera a Camilla" che il giornalista scrisse alla collega Camilla Cederna (una delle prime a indagare sulla morte di Pinelli, autrice del famoso libro "Pinelli: una finestra sulla strage") sul "Corriere della sera" il 21 marzo del 1972, pochi giorni dopo la morte di Giangiacomo Feltrinelli. "La ricordavo vagamente – spiega a Fanpage.it Silvia Pinelli – ma l'ho recuperata grazie a un libro di Corrado Stajano, ‘La città degli untori'. È una cosa allucinante, anche come tipo di accuse che rivolge alla Cederna". Nella "lettera a Camilla" Montanelli prima sembra "rimproverare" alla collega di essersi interessata tardi alla "cronaca" fatta di bombe e attentati, dopo anni passati come "testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino". Poi Montanelli usa un tono e un linguaggio sessisti: "Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della cafè society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d'uomo anche se forse un po' troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci". Anche per via di ciò che hanno vissuto sulla propria pelle, il giudizio delle figlie di Pinelli sulla figura di Montanelli è "estremamente negativo". E rispetto al dibattito in corso sulla statua Silvia Pinelli aggiunge: "Va rimossa, può tranquillamente trovare un'altra collocazione. Magari se si farà il Museo della Resistenza può andare lì, per ricordare coloro che hanno combattuto per la Resistenza e quelli, come lui, che hanno sempre combattuto contro. Più che altro mi sorprende che non ci fu una discussione simile quando, nel 2006, venne collocata la statua". Per Silvia Pinelli Montanelli "era fascista d'origine, e lo è sempre stato". La figlia minore sposa in toto la definizione di Stajano su Montanelli: "Forcaiolo anarcoide, reazionario travestito da vecchio saggio".
Gianni Bonina per "Libero quotidiano" il 21 dicembre 2021. In capite venenum. Il j' accuse che Aurelio Grimaldi punta contro la sinistra italiana è tutto nel titolo, Fango (Castelvecchi, pp. 260, euro 18,50), dove l'esplicito riferimento alla "macchina del fango" sottende responsabilità, quanto al delitto Calabresi, fino ad oggi sottaciute quando non sono valse come meriti: quelli che il quotidiano Lotta continua di Adriano Sofri rivendicò inneggiando alla giustizia proletaria. Dopo il pamphlet Il delitto Mattarella, divenuto anche un film-verità, il regista di Mery per sempre che si dice «idealmente e incrollabilmente di sinistra» si scaglia contro la sua area politica di riferimento demistificandone lo spirito rivoluzionario trasmodato nel 1972 nell'omicidio del commissario di polizia di Milano, tre anni dopo il 15 dicembre 1969, giorno della morte dell'anarchico Pinelli che gli veniva imputata nel quadro delle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Nella farragine di libri testimoniali e biografici sul caso, questo di Grimaldi si distingue perché inteso non a scoprire nuove verità, ormai tutte storicizzate, quanto a stabilire come l'apparato cosiddetto progressista, che comprendeva ambiti politici, giornali e intellettuali, si fosse reso artefice nonché mandante del delitto, coalizzandosi entro una logica che coinvolgeva anche giudici, avvocati, dirigenti di polizia.
DAGLI ALL'ASSASSINO Testate di informazione e di opinione come L'Espresso e Il Manifesto guidarono di fatto una campagna di accanimento così tenace e violenta contro il "commissario assassino", additato ingiustamente quale allievo della Cia, gorilla di generali americani, agente dei Servizi segreti, da portare militanti di Lotta continua ad armarsi e uno di loro, Leonardo Marino, a costituirsi sedici anni dopo come autore materiale del delitto. Marino nel '92 scriverà un suo libro per dichiararsi convinto, come tutti, che Calabresi fosse stato davvero l'omicida di Pinelli, giusto il fatto che figure quali Norberto Bobbio, Pier Paolo Pasolini, Dario Fo e altri ottocento intellettuali, avevano firmato un manifesto di condanna nei suoi confronti. Fu quello il momento più basso toccato nella Seconda repubblica dalla cultura italiana più impegnata, che cullò la "strategia della tensione" e istruì la dottrina integralista e persecutoria della sinistra extraparlamentare sostenuta a gran forza dai partiti del cosiddetto "arco costituzionale", compatto nel professare una retorica dell'odio che Grimaldi paragona agli orrori della Colonna infame. La massima aberrazione, una vera vergogna nazionale, si ebbe forse al momento del processo contro il direttore prestanome di Lotta continua Pio Baldelli, querelato dal commissario per diffamazione, un processo che però vide imputato lo stesso Calabresi (pur scagionato già da due giudici) e arrivato al punto da ammettere la riesumazione della salma di Pinelli. Il presidente del tribunale Carlo Biotti finì per essere ricusato e poi cacciato dalla magistratura per aver imbastito un dibattimento nel quale erano annunciati due esiti: l'assoluzione di Baldelli e la condanna di Calabresi. Che però venne ucciso prima della sentenza.
MISSIONE COMPIUTA Parole grondanti forte esecrazione ha poi Grimaldi circa la primaria partecipazione che la giornalista soubrette Camilla Cederna (artefice del Manifesto degli ottocento intellettuali) offrì nel gettare "fango" su Calabresi. Tornata dal luogo del delitto, in un articolo intitolato «Hanno ammazzato Calabresi», la giornalista ufficiale della sinistra giustizialista e fondamentalista si dilungò con sussiego a parlare della scorta che le era stata assegnata e di quanto i due poliziotti fossero emozionati e felici, oltre che ammirati, di poterle stare vicini, mentre sul cadavere ancora caldo spese solo parole di presa d'atto nel segno di una missione compiuta. Cederna fu la più invelenita, come lo sarà con Leone, ma l'intera stampa di sinistra non ebbe remore nel mostrare le peggiori intenzioni. «La ricostruzione romanzata di quella tragica notte del 15 dicembre 1969, pubblicata su Vie Nuove, il settimanale del Pci, è agghiacciante, vergognosa, ignobile» scrive Grimaldi, che confessa: «Avevo sempre pensato, dalla mia gioventù, che pregiudizi, intolleranza, menzogne e infamità (in una parola: il fango) fossero patrimonio della sola destra fascista. Ero un povero illuso ottenebrato da puerile ottimismo e ingenue idealità». Grimaldi, paladino della sinistra, compie allora atto di resipiscenza ideologica e di revisionismo storico nel momento in cui muove anche la più implacabile requisitoria contro un Gotha che ha preteso di fare la storia e pure di scriverla.
Da "Il Riformista" il 17 maggio 2009. Pubblichiamo un capitolo di "Il revisionista", di Giampaolo Pansa (Rizzoli, 474 pagine, 21 euro) in libreria da mercoledì 20 maggio.
La sera di lunedì 15 dicembre 1969, dopo aver trasmesso il mio articolo a Torino, stavo a casa di un collega, Corrado Stajano. Dovevamo mettere a punto il progetto di un libro che poi sarebbe uscito da Guanda nel maggio 1970: Le bombe di Milano. Era passata da poco la mezzanotte quando un'ansia insolita mi spinse a telefonare all'ufficio della Stampa, in piazza Cavour.
Rispose Gino Mazzoldi, il capo della redazione. Era molto turbato e mi disse: «Un anarchico è caduto da una finestra della questura. L'ha visto Aldo Palumbo, il cronista dell'Unità. Pare l'abbiano portato all'ospedale Fatebenefratelli. Mi sono segnato il nome: Pino Pinelli. Vive con la famiglia in via Preneste».
Corremmo a chiamare la zia di Stajano, che abitava nella casa vicina: Camilla Cederna, una delle star dell'Espresso. Lei se n'era già andata a dormire e la tirammo giù dal letto. Mise un cappotto sulla camicia da notte e corse con noi all'ospedale per capire che cosa fosse successo. Pinelli era già morto, ma stava ancora sulla barella. Una coperta di lana marrone lo nascondeva quasi per intero. Chiedemmo di poterlo vedere e un medico ci rispose che era vietato.
Allora ci precipitammo all'indirizzo di via Preneste. Case popolari d'anteguerra, un luogo povero, l'intonaco dei muri scrostato come per una lebbra. Suonammo il campanello e la porta si aprì di poco, appena uno spiraglio. Intravidi per la prima volta Licia Pinelli, la moglie di Pino. Era una donna giovane, dal bel viso, l'espressione dolce e forte. Indossava una vestaglietta e ci scrutò senza dir nulla.
Le domandammo di lasciarci entrare in casa, ma lei si rifiutò. Poi ci disse poche parole, senza un tremito né un pianto. Più di un mese dopo, quando la intervistai, mi avrebbe spiegato: «Io non piango in pubblico. I miei sentimenti sono soltanto miei».
Non potevo saperlo, ma quella visita mi portò dentro il cuore dei misteri di Milano. Il mistero si presentava con due volti. Uno era dell'anarchico Pinelli, morto cadendo dal quarto piano in un'aiuola della questura: qualche cespuglio stento e un po' di neve sporca, la sua tomba.
L'altro era del commissario di polizia Luigi Calabresi, il funzionario mandato a fermarlo la sera della strage di piazza Fontana. Anche Calabresi era destinato a morire, dopo una campagna di odio senza precedenti in Italia. Quella campagna ebbe una bandiera del disonore: il manifesto contro di lui, firmato da ottocento eccellenze della cultura, dell'università, del sindacato, della politica, del cinema e del giornalismo.
Avrei dovuto sottoscriverlo anch'io il manifesto contro il commissario Calabresi, definito torturatore e assassino dell'anarchico Pinelli. Ero incalzato da colleghi che mi chiedevano la firma. E tra costoro ce n'erano parecchi che non sapevano quasi nulla della strage del 12 dicembre e di quel che era accaduto dopo.
Questi zelanti cercatori di firme si erano sempre occupati d'altro, di politica internazionale, di cultura, di sport. Ma avevano letto e leggevano i giornali giusti: quelli di sinistra e soltanto quelli. E ritenevano di conoscere tutto dell'attentato e della fine di Pinelli.
Le loro certezze erano tre. Prima certezza: la strage alla Banca dell'Agricoltura era stata compiuta dai fascisti per distruggere quel poco di democrazia che ancora resisteva in Italia. Seconda certezza: d'accordo con i neri, la polizia voleva addossare la colpa del massacro agli anarchici. Terza certezza: nell'ambito di questo complotto, Calabresi aveva ucciso Pinelli con un colpo di karate al collo e poi l'aveva scaraventato dalla finestra. Per far pensare a un suicidio e avvalorare la pista anarchica.
Quei colleghi mi mettevano sotto gli occhi il racconto del delitto pubblicato da Vie Nuove, il settimanale del Pci. Era una descrizione minuziosa di quanto era avvenuto nella stanza dell'Ufficio politico della questura la sera del 15 dicembre: Pinelli morente per il colpo di karate sotto la nuca, lo smarrimento rabbioso dei cinque poliziotti che lo circondano, la decisione di scaraventarlo dalla finestra... Un vero pezzo di bravura. Peccato che fosse falso, dall'inizio alla fine. Eppure terminava con queste parole: «A voler essere franchi, e senza dire niente di nuovo, ma solo a cucire assieme le mezze notizie, Giuseppe Pinelli è morto così».
In realtà, Pinelli non aveva mai ricevuto nessun colpo di karate. A stabilirlo con certezza fu l'autopsia. Ma i giornali di sinistra seguitarono a scrivere che quel colpo mortale c'era stato. E di lì partì una campagna mostruosa di disinformazione, di bugie costruite sul nulla, di falsità spacciate per verità assolute. Una follia collettiva, destinata a sfociare in un assassinio.
Quali erano questi giornali bugiardi? Me li ricordo bene. E li rammenta con precisione anche Gemma Capra, la vedova del commissario Calabresi. Nel libro dedicato al marito, la signora disse con schiettezza: la campagna non fu il giornale di Lotta Continua a iniziarla, bensì il quotidiano del Psi Avanti!, il quotidiano del Pci l'Unità e il suo settimanale Vie Nuove. A queste testate devo aggiungere L'Espresso, il ferro di lancia della campagna di stampa contro Calabresi, soprattutto grazie alla penna di Camilla Cederna, esperta di costume e scrittrice brillante.
Quella campagna sfociò in una grande raccolta di firme contro Calabresi. Ne parlerò più avanti, ma voglio mettere nero su bianco quel che ho sempre pensato: il manifesto che la proponeva e i tantissimi vip di sinistra che lo firmarono mi sono rimasti nella memoria come l'episodio più degradante dei mesi che seguirono la strage di piazza Fontana.
Senza rendersene conto, e di certo senza volerlo, con le loro firme quei personaggi diedero un avallo al successivo assassinio di Calabresi. Sarebbe ingiusto dire che ne chiesero la condanna a morte. Ma di certo si trovarono a far da coro ai killer che l'avrebbero accoppato.
Mi rifiutai sempre di firmare quel testo. Per due ragioni. La meno importante è che di solito non aderisco ad appelli, a petizioni pubbliche, a dichiarazioni collettive. Non mi va di ritrovarmi al fianco di persone che non conosco. E poi il mio nome voglio spenderlo in calce ai miei scritti, articoli o libri che siano. Da quando ho iniziato a lavorare nei giornali, ho firmato migliaia di testi. Buoni o cattivi non lo so, ma tutti farina del mio sacco.
Il secondo motivo, ben più pesante, era che mi ripugnava la descrizione di Calabresi: «il commissario torturatore» e «il responsabile della fine di Pinelli». Se ripenso al me stesso di quel tempo, rammento che non avevo certezze granitiche. Tuttavia ritenevo che nelle stanze della questura di Milano non si torturasse nessuno. E che non si usasse gettare dalle finestre i fermati.
Nessun poliziotto poteva essere così stupido da commettere due delitti nel proprio ufficio, correndo il rischio di essere scoperto un minuto dopo. Però non conoscevo quel che era accaduto la sera del 15 dicembre in via Fatebenefratelli. Questo mi obbligava a essere cauto. E a non sposare nessuna tesi. Meno che mai quella affermata dal manifesto che mi chiedevano di sottoscrivere.
Le insistenze per avere la mia firma furono molte. Anche perché ero l'inviato della Stampa a Milano e sin dal primo giorno avevo scritto di piazza Fontana e poi di quanto era avvenuto dopo. Avevo seguito tutta la vicenda legata all'arresto di Pietro Valpreda, avevo intervistato la signora Pinelli e prima di lei il tassista Cornelio Rolandi. Quest'ultimo seguitò a giurarmi di aver portato Valpreda verso piazza Fontana, attorno all'ora della strage e con una borsa in mano.
In quegli anni, tra la fine del 1969 e il 1972, tirava un'aria pessima a Milano. Un'aria che puzzava di faziosità spietata, di furibondo partito preso, di certezze proclamate con il sangue agli occhi, di dubbi rifiutati con disprezzo. E se non ti accodavi alla maggioranza dei giornalisti che aggrediva Calabresi, qualche prezzo eri costretto a pagarlo.
Le accuse erano sempre le stesse: ti schieri con i fascisti, cerchi i favori della polizia, fai del giornalismo prezzolato, non ti riconosciamo più... Ma ero giovane, avevo il sostegno della mia testata, di Ronchey, di Casalegno, di Giovannini, ed ero certo di fare il mio lavoro in modo corretto. Di tutto il resto non m'importava nulla.
A rendere ostinato il mio rifiuto, esisteva poi una serie di fatti che adesso rammenterò.
La tempesta che avrebbe annientato Calabresi cominciò subito, a pochi giorni dalla morte di Pinelli. E iniziò con una grandinata di bugie. Dopo l'inesistente colpo di karate, si scrisse che il commissario era un agente della Cia ed era stato addestrato negli Stati Uniti. Ma il commissario non era mai andato in America. E neppure poteva essere l'uomo di fiducia di un generale americano sospettato di golpismo, un'altra accusa fantastica.
Quindi entrarono in scena i grossi calibri di Lotta Continua, il gruppo leader della campagna di linciaggio. Calabresi aveva querelato il loro giornale, che gli rispose con una violenza mai vista prima. Lotta Continua se ne sbatteva del processo. E spiegò che il proletariato avrebbe emesso il proprio verdetto e lo avrebbe eseguito in piazza: «Sappiamo che l'eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale dell'assalto dei proletari contro lo Stato assassino».
Davanti a quella promessa di morte, Calabresi si scoprì inerme. Dopo la sua querela, ben quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali, e tra loro alcune cattoliche, sottoscrissero un documento di solidarietà a Lotta Continua. E i pochi disposti a difendere il commissario si trovarono anch'essi sotto la tempesta. Per mia fortuna, La Stampa di Ronchey non si accodò mai a questa corrida nauseante. Anche se a Torino, dentro la redazione, erano in parecchi a pensarla come i lottacontinua.
C'è un libro che rievoca nei dettagli quel che accadde in quel tempo nei giornali italiani: "L'eskimo in redazione". L'ha scritto un collega coraggioso e ben documentato: Michele Brambilla, oggi vicedirettore del Giornale. Ha avuto tre edizioni: la prima nel 1991 per l'Ares di Milano, la seconda con Bompiani nel 1993 e la terza per Mondadori nel 1998. Ed è servito anche a me per precisare questi ricordi.
Brambilla rammenta un'altra tappa del linciaggio di Calabresi. Il 3 luglio 1970, il giudice istruttore Antonio Amati, su conforme richiesta del pubblico ministero Giovanni Caizzi, concluse l'inchiesta sulla morte di Pinelli affermando che non esistevano gli estremi per promuovere un'azione penale nei confronti di qualcuno. E questo scatenò contro i due magistrati milanesi la stampa di sinistra.
L'Espresso pubblicò una dichiarazione firmata dal padre della psicanalisi italiana, Cesare Musatti, e da altri cattedratici. Dicevano che la sentenza di Amati aveva ucciso la fiducia nella giustizia. E ribadivano che Pinelli era stato assassinato. Non c'erano prove per affermarlo, ma che cosa importava ai firmatari dell'appello?
A proposito di Lotta Continua e del fascino che esercitava anche su ambienti che avrebbero dovuto restare lontani dalle sue follie, Brambilla rievoca quel che accadde a Torino nell'ottobre 1971. La procura della Repubblica aveva denunciato per istigazione a delinquere dei militanti di Lotta Continua. Insorsero in loro difesa cinquanta vip, disposti persino a controfirmare l'impegno di quegli attivisti a iniziare una lotta armata.
Infatti le ultime righe della lettera aperta dicevano: «Quando essi si impegnano a "combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento", ci impegniamo con loro». I nomi dei firmatari stanno nel libro di Brambilla. Mi sono domandato se dovevo trascriverne qualcuno. Poi mi sono risposto di no.
Molti di costoro stanno ancora in campo. E forse si saranno vergognati di aver avallato quella voglia di terrorismo che, a partire dall'anno successivo, cominciò ad angosciare l'Italia. Ma tra un istante qualche nome lo farò.
Infatti la parata firmaiola più spettacolare, di ben ottocento eccellenti, fu quella che dilagò sulle pagine dell'Espresso, per tre settimane, a partire dal 13 giugno 1971. Era il documento che avrei dovuto firmare anch'io, contro Calabresi «commissario torturatore» e «responsabile della fine di Pinelli». Nella parata sfilavano tanti vip della cultura di sinistra. Dai filosofi ai registi, dai pittori agli editori, dagli storici agli scienziati, dagli architetti agli scrittori, dai politici ai sindacalisti, sino a un buon numero di giornalisti.
Anche in questo caso i nomi li troverete nel libro di Brambilla. E oggi anche in calce all'ultimo lavoro di Adriano Sofri, "La notte che Pinelli", pubblicato da Sellerio nel gennaio 2009. Qualche firmaiolo stavolta lo cito: Norberto Bobbio, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Gae Aulenti, Paolo Portoghesi, Alberto Moravia, Toni Negri, Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Paolo Spriano, Lucio Villari, Margherita Hack, Dario Fo, Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, Ugo Gregoretti, Paolo e Vittorio Taviani, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Carlo Rognoni, Morando Morandini, Nello Ajello, Enzo Golino, Giuseppe Turani.
Ho riletto quell'elenco sterminato reagendo in due modi. Il primo è lo stupore per le tante intelligenze che gettavano alle ortiche la loro sapienza. E si accodavano a una barbara caccia all'uomo.
Il secondo è la cattiveria divertita. Perché tra gli ottocento ho ritrovato non pochi dei maestroni autoritari che, in questi ultimi anni, mi hanno dato burbanzose piattonate in testa per i libri revisionisti. Penso a Scalfari e al suo aristocratico fastidio per i miei lavori. Penso a Bocca e alle ingiurie che mi ha riservato. Penso a Furio Colombo quando dirigeva l'Unità. Penso a Lucio Villari, ma di lui racconterò in seguito.
E mi sono detto: forse dovrebbero revisionare il loro passato. E pentirsi del sostegno offerto alle nefandezze di quegli anni. Tra gli ottocento c'è chi lo ha fatto e in pubblico. Ma sono stati pochi, davvero pochi.
Nel frattempo, Calabresi e la sua famiglia stavano percorrendo una via crucis orrenda. Manifesti su tutti i muri di Milano e di molte città italiane: Calabresi wanted, ricercato, con l'indicazione della somma che toccherà in premio a chi lo cattura. Promesse di morte urlate nei cortei: Calabresi sarai suicidato. Insulti: il commissario Finestra, il commissario Cavalcioni. Vignette carogna: il poliziotto che insegna alla figlia come tagliare la testa alla bambola anarchica con una piccola ghigliottina.
Una bufera di lettere anonime, spedite all'indirizzo di casa. Telefonate orribili. Centinaia di articoli per indicarlo al disprezzo e alla sacrosanta vendetta. Il processo intentato contro Lotta Continua che diventa una mattanza per il querelante, in un clima da Colosseo: tigri nell'arena giudiziaria e il morituro che non può difendersi. Quando Calabresi fu promosso commissario capo, Milano venne tappezzata di nuovi manifesti che lo mostravano con le mani grondanti sangue. Lo slogan gridava: «Così lo Stato assassino premia i suoi sicari».
Odio allo stato puro. Quello di cui ci lamentiamo oggi è un dispetto da asilo infantile. Calabresi fu obbligato a fare la cavia di una tecnica distruttiva tipica dei poteri autoritari. Lotta Continua e i maestroni che la fiancheggiavano si riempivano la bocca di parole come democrazia, rispetto dell'uomo, giustizia. Ma si comportavano come i nazisti e i comunisti sovietici. Con prepotenza isterica, sparavano menzogne con la stessa violenza che le Brigate Rosse avrebbero poi imitato sparando pallottole.
Prima che dai proiettili del suo killer, Calabresi venne accoppato giorno dopo giorno da una parte della stampa, da migliaia di manifesti, da centinaia di comizi, da molti spettacoli teatrali. Era una tempesta di fango che non proveniva soltanto da Lotta Continua, ma da una cerchia molto più vasta.
Con sgomento, nelle parate firmaiole ritrovavo anche insegnanti che erano stati i miei. Intellettuali di cui mi fidavo. Scrittori che amavo. Direttori di giornali per i quali avrei poi lavorato.
In seguito, il terrorismo generato dalla sinistra rivoluzionaria non ha dovuto inventarsi nulla. Ha soltanto reso più rapido e più nefando questo metodo di linciaggio. I volantini diffusi dalle Brigate Rosse dopo ogni delitto mettevano in pratica il metodo usato contro Calabresi: cancellare la figura e la storia della vittima, per offrire al disprezzo pubblico un fantoccio sconcio.
Il commissario aveva una famiglia salda che non si lasciò travolgere. E una giovane moglie che sarà il suo scudo più forte. Ma continuava a pensare ai sottufficiali che erano con lui la notte della morte di Pinelli. E qualche settimana prima di essere ucciso mi dirà: «La loro vita, i sacrifici delle loro mogli può immaginarseli... Ringraziando Dio, ho trovato in me stesso, nei miei principi, nell'educazione che ho ricevuto, la forza di superare questa prova».
E ancora: «Da due anni sto sotto questa tempesta. Lei non può immaginare che cosa ho passato e che cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere. Non posso più fare un passo. È bastato che mi vedessero uscire dall'obitorio dove era stato portato il corpo di Feltrinelli per sostenere che avevo già cominciato a trafficare attorno al cadavere dell'editore, con i candelotti di dinamite».
Stavamo parlando nell'ufficio di Antonino Allegra, il capo della sezione politica della questura milanese. Chiesi a Calabresi se avesse paura. Rispose: «Paura no perché ho la coscienza tranquilla. Però è terribile lo stesso. Potrei farmi trasferire, ma da Milano non voglio andarmene. No, non ho paura. Ogni mattina esco di casa tranquillo. Vado al lavoro sulla mia Cinquecento, senza pistola e senza protezioni. Perché dovrei proteggermi? Sono un commissario di polizia».
Quel giorno ebbi la sensazione di avere di fronte un uomo braccato da chi vuole annientarlo. Una preda che sente stringersi attorno a sé la trappola preparata per dargli la morte.
Allegra ascoltava Calabresi in silenzio. Poco prima avevamo discusso dei piccoli nuclei di terroristi rossi che, mese dopo mese, prendevano forza e diventavano più aggressivi. Allegra sospirò: «Speriamo che non comincino a sparare sui poliziotti».
Il 17 maggio 1972, all'età di trentaquattro anni, il commissario senza pistola venne assassinato. Lotta Continua aveva eseguito la sentenza emessa all'inizio del 1970. Saranno stati felici i tanti firmatari del verdetto? Non lo so e non m'interessa saperlo.
Quello che so è che non ho difeso Calabresi come avrei dovuto. E provo vergogna di me stesso.
Dal "Corriere.it" l'8 gennaio 2009. Un libro, in uscita a metà gennaio, destinato a riaprire discussioni e polemiche sugli anni Settanta in Italia e sulla lunga striscia di sangue che hanno lasciato. Un autore, Adriano Sofri, che ha vissuto da protagonista di quel periodo e che ora è tra i condannati per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. In «La notte che Pinelli», edito da Sellerio, offre ai lettori la sua ricostruzione sulla morte dell'anarchico coinvolto nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana e anche le sue considerazioni sul proprio ruolo nell'omicidio di Calabresi. Continuando a proclamarsi innocente dal punto di vista materiale, Sofri ammette una responsabilità «morale»: «Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, "Calabresi sarai suicidato"». Nell\'anticipazione che viene pubblicata da l'Espresso questa settimana, c\'è una parte della versione di Sofri sul caso Pinelli, basata sulle carte giudiziarie. La ricostruzione parte dal pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969, dalla strage di Piazza Fontana. Subito dopo gli attentati si procede agli arresti degli anarchici: tra loro ci sono Pinelli e Pietro Valpreda, che rimarrà a lungo in carcere.
Secondo Sofri lo stesso Calabresi era convinto che la pista anarchica fosse quella giusta e in un passaggio del libro riporta l'episodio in cui a Pinelli e ad un altro anarchico interrogato Calabresi dice: «Non venirmi a raccontare (...) che sono stati i fascisti; la matrice è anarchica, fa parte della tradizione vostra».
Nel libro dell'ex leader di Lotta Continua emergono altri due elementi: il primo è che Pinelli diffidava di Valpreda, considerandolo pericoloso; il secondo è relativo alla presunta amicizia tra Pinelli e Calabresi. Un'amicizia che, secondo l'autore, non ci sarebbe stata. Quanto alle circostanze della morte di Pinelli, Sofri si sofferma sull'orario della tragedia che viene cambiato nel corso degli anni e delle inchieste.
All'inizio si parla di mezzanotte, ma, ricostruisce Sofri, la versione verrà cambiata fino ad arrivare alle 19,30 forse per dimostrare che Calabresi non era in quella stanza. Ma secondo Sofri è stato un esercizio inutile poiché il commissario realmente non era nella stanza della questura nel momento in cui Pinelli volò dalla finestra.
Dagospia il 9 gennaio 2009. Un capitolo del libro di Sofri sull’anarchico “volato” dalla questura di Milano - “mi sento responsabile per aver detto o scritto “Calabresi sarai suicidato”” - finale: al momento del ‘volo’ Calabresi forse non era nella stanza. (Forse…)
Adriano Sofri: Così è morto Pinelli. Arriva in libreria ‘La notte che Pinelli', il nuovo libro di Adriano Sofri (editore Sellerio) nel quale l'ex leader di Lotta Continua condannato a 22 anni per l'omicidio del commissario Calabresi ricostruisce la fine dell'anarchico Pino Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano dopo la strage di piazza Fontana. Anticipiamo l'inizio del libro. Il 12 dicembre fu un giorno - una sera - così. Si sentì che la vita non sarebbe stata più la stessa, che c'era stato un prima, e che cominciava un dopo. Mi servo di questi modi di dire usati, ragazza, benché sappia che quello sbigottimento non si può davvero comunicare. Bisognava esserci, dicono sospirando certi vecchi, certe vecchie scuotendo la testa. E dicono: Tu non puoi capire. Era un altro mondo, del resto. Quarant'anni fa - quasi il doppio del tempo che separava il 12 dicembre da una guerra mondiale! Non serve a granché dirti che la televisione aveva due canali, ed era in bianco e nero: lo sarebbe stata ancora fino al 1977. Servirebbe di più raccontarti quanto, e soprattutto come si fumava, nel dicembre del 1969.
C'è una stanza al quarto piano della Questura di Milano, è di Luigi Calabresi, un giovane commissario dell'Ufficio Politico, ha solo 32 anni. C\'è un interrogato, un ferroviere di 41 anni, Giuseppe Pinelli. Sono presenti altri quattro sottufficiali di polizia, e un tenente dei carabinieri. Fumano tutti. Sono lì da ore, è quasi mezzanotte.
Al processo, il giudice chiederà a uno di loro, il verbalizzante, brigadiere Caracuta: «Avete fumato tutti durante l'interrogatorio?».
Caracuta: «Sì, lei capisce eccellenza... fumavamo tutti come turchi».
Perciò, nonostante sia una notte di mezzo dicembre - il 15, proprio - la finestra è socchiusa, per cambiare l'aria. C'è anche un'ottava persona, il carabiniere Sarti, quasi sulla soglia.
Sarti: «Uscii dalla stanza per andare a prendere le sigarette che avevo lasciate dentro l'impermeabile... rientrai subito, accesi la sigaretta e poi...».
Poi vede una persona, uno dei fumatori, buttarsi nel vuoto.
Sarti: «Mi ero distratto un attimo, stavo appunto fumando la sigaretta, e ad un certo punto ho sentito come qualcosa sbattere, un colpo secco. Allora mi girai di scatto e vidi proprio una persona buttarsi nel vuoto...».
Era Pinelli, il ferroviere. Appena prima un altro dei presenti, il brigadiere di P.S. Mainardi, gli aveva dato da fumare. L'ultima sigaretta.
Mainardi: «Io sono rimasto là, accesi una sigaretta; nella circostanza Pinelli mi chiese "mi dia una sigaretta" e io gliel'ho accesa».
Pinelli fuma, dice qualcuno, e va alla finestra per scuotere la cenere.
Un cronista dell'Unità, Aldo Palumbo, sta uscendo dalla Sala stampa, si ferma un momento sui gradini che scendono in cortile ad accendersi una sigaretta, sente il rumore di qualcosa che sbatte, poi dei tonfi.
Di sotto, nel cortile della Questura, un agente semplice, la guardia Manchia, sostiene di vedere un uomo - un'ombra - che cade giù dal quarto piano, e più distintamente di lui - è mezzanotte, il cortile è buio - la brace di una sigaretta che lo accompagna per qualche metro, prima di spegnersi.
Secondo altri fermati, Pinelli aveva trascorso quei tre giorni facendo parole crociate, leggiucchiando quello che trovava - un libro giallo, un opuscolo su automobili - e soprattutto fumando. «Mi colpì il fatto che il pavimento davanti a lui fosse cosparso di cenere di sigarette».
Più tardi, quella notte, morto Pinelli, il questore Marcello Guida riceve i giornalisti. C'è anche Camilla Cederna.
«La signora Cederna? Sono contento di conoscerla, la leggo sempre, anzi le dirò che sono un suo ammiratore... Vuol fumare? Le dà fastidio il fumo? Vuol che apriamo la finestra? Per carità, allora fumiamo noi».
Si fumava come matti, tutti, guardie e rivoluzionari, anarchici e monarchici. Nessuno avrebbe immaginato senza ridere un pacchetto di sigarette con su la scritta «Il fumo uccide». Gli anni di piombo erano di là da venire. Questi erano anni di fumo.
La moglie del ferroviere si chiamava Licia. Avevano due bambine. Quel giorno avevano già preparato i regali per Natale. Le bambine portarono poi al cimitero il regalo per il loro padre e lo posarono sulla tomba: un pacchetto di sigarette.
Non so che cos'altro dirti, ragazza, per darti un\'idea del trauma di quei tre giorni. Prima la strage, orrenda, inaudita. Poi l'anarchico, «suicida» confesso, dal quarto piano della Questura. Poi - subito dopo, a soppiantare e insieme completare la notizia - la cattura della belva Valpreda. Una voragine si era spalancata, e già si richiudeva.
Al momento della tragedia Calabresi forse non era nella stanza. Forse...Francesco La Licata per La Stampa il 9 gennaio 2009. È un giallo il libro che Adriano Sofri dedica alla tragica fine dell'anarchico Pino Pinelli. Un racconto che va avanti a cerchi concentrici e man mano che si espande - partendo dalla semplice descrizione, quasi asettica, della stanza dove matura la vicenda che spaccherà l'Italia - restituisce al lettore un clima: com\'erano la società, la politica nel 1969.
Il 15 dicembre di quell'anno, tre giorni dopo il criminale attentato di piazza Fontana, a Milano, Pinelli vola dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi, al quarto piano della Questura. Era sotto interrogatorio, era sospettato - come l'altro anarchico Pietro Valpreda - di aver provocato quel massacro: sospetti che si sarebbero rivelati sbagliati.
E in questo racconto sotto forma di monologo in risposta alle domandE di una giovane che nulla sa di quella storia (La notte che Pinelli, Sellerio, 283 pagg. in libreria il 15 gennaio), ovviamente, c\'è anche il commissario Luigi Calabresi. Ma, fa sapere Sofri, il libro non vuole essere assolutamente una risposta, una verità alternativa a quella descritta nel «diario» scritto da Mario Calabresi (Spingendo la notte più in là, Mondadori), giornalista e figlio del commissario assassinato tre anni dopo «la notte che Pinelli», nel pieno di una campagna d'odio che lo indicava come l'assassino dell'anarchico.
E che l'intento di Sofri non sia quello di rimettere in discussione la figura di Calabresi, fedele servitore e non killer di uno Stato «nemico», sembra dimostrato dall'asetticità con cui l'autore «rilegge» una montagna di carte polverose nel tentativo di offrire una fedele ricostruzione dei giorni che Pinelli trascorse in questura come sospettato di strage.
Giuseppe Pinelli
Una ricostruzione che porta Sofri a spostare più volte gli orari dei diversi interrogatori, fino ad arrivare alla conclusione che al momento della tragedia Calabresi forse non era in ufficio.
Eppure c'è qualcosa che, al di là delle ferme intenzioni di Sofri, sembra contrastare con il ricordo di Mario Calabresi. Si tratta della presunta amicizia tra il commissario e l\'anarchico. Sofri nega in maniera convinta che vi fosse amicizia tra i due. Una convinzione suffragata dal trattamento che Pinelli subìva dalla polizia milanese: fermato e costantemente intercettato, sospettato addirittura anche di due attentati precedenti, costretto a rimanere sveglio in camera di sicurezza.
Lo stesso Calabresi tenterà il bluff consigliandogli di confessare perché «Valpreda ha parlato». Una frase che rimarrà a lungo scolpita nell'immaginario collettivo del «Movimento», attraverso la Ballata dedicata alla morte di Pinelli.
Resta l'infamia della campagna contro Calabresi. L'unica «colpa» che Sofri ammette: «Di nessun atto terroristico degli Anni ‘70 mi sento responsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e scrivesse, "Calabresi sarai suicidato"».
Dagospia il 16 dicembre 2010. SOFRI SPIEGA PERCHE' FU LANCIATO Il CITATISSIMO e famigerato appello del 1971 contro Luigi Calabresi, SOTTOSCRITTO DA 800 FIRMATARI (DA ECO A MIELI, DA CARLO ROSSELLA A OLIVIERO TOSCANI) - "Era avvenuto questo. Che il processo Calabresi-Lotta Continua, aperto nel 1970, aveva un giudice presidente, Biotti, e un avvocato per la parte civile Calabresi, Lener, e giudice e avvocato erano amici personali da una vita"...
Adriano Sofri per "Il Foglio" il 16 dicembre 2010. Il 15 dicembre di 41 anni fa è morto Pino Pinelli. Una scultura a lui dedicata sarà posta oggi nella Stazione Garibaldi di Milano. Bene. Ho provato a fare un conto: se non sbaglio, dell'intera vicissitudine che prende le mosse dalla strage di piazza Fontana, io sono l'unico condannato detenuto. Non è poco. Non è a questo titolo che ricordo anch'io Pinelli oggi, ma per molte altre ragioni, e specialmente per averne studiato a distanza di tanto tempo la passione e la morte e la giustizia derisa. Ciascuno è autorizzato a dire qualsiasi cosa su Pino Pinelli, ma chiunque ne parli senza aver letto il mio libro, "La notte che Pinelli", uscito l'anno scorso da Sellerio, non sa abbastanza di che cosa parli. Lo dico con tutta tranquillità, e voglio oggi offrirne un esempio fra i tanti. Si tratta del famoso e famigerato appello del 1971 contro Luigi Calabresi, citatissimo e misconosciutissimo. Poco fa, a proposito di un giornale sciagurato che ha incitato a una raccolta di firme contro Roberto Saviano - colpevole di lesa padanità - il direttore della Stampa, Mario Calabresi, dissentendo fermamente da quell'iniziativa, ha ribadito la propria risoluzione di non partecipare a raccolte collettive di firme, ricordando l'esperienza di quell'appello contro suo padre. Per parte sua, nel programma che conduce su La7, Antonello Piroso ha appena interpellato bruscamente Oliviero Toscani chiedendogli conto della firma in calce a quel manifesto. (Toscani ha risposto di non ricordarla, e di ritenere che la firma fosse stata apposta senza interpellarlo: ma questi sono fatti suoi). Da anni quel manifesto viene citato, se non - spesso - come un mandato morale all\'assassinio del commissario Calabresi, almeno come il documento esemplare di un delirio vanesio, feroce e gregario che si era impadronito del fior fiore dell'intelligenza italiana. Proprio perché si assegna a quel testo un significato così cruciale, moralmente e civilmente, ci si aspetterebbe, salvo che lo si intenda come il bruto manifestarsi di una follia clinica, che venisse conosciuto e ricordato il contesto di quell'iniziativa e il suo contenuto: ciò che non è avvenuto, se non, scrupolosamente, nel mio libro. Lo dico anche per me. Io non fui fra i firmatari. Ma ero partecipe di quegli eventi con tutto me stesso: eppure, quando rimisi insieme le carte su cui scrivere, mi accorsi di avere dimenticato quella circostanza e quel contenuto. E mi sono accorto poi che la stessa cosa era avvenuta ai famosi firmatari di allora, che si trattasse di dimenticanza o di rimozione, o di tutt'e due. Nel suo libro, "Spingendo la notte più in là", che è soprattutto un libro di memoria e non una ricostruzione giudiziaria o storica, Mario Calabresi scrive solo della querela del commissario contro Lotta Continua e del processo che "si ritorse contro di lui, perdendo di vista l'oggetto della querela", e conclude: "Alla fine il giudice venne ricusato e il processo venne sospeso e assegnato ad altri giudici". Quanto a Piroso, non ha detto una parola per spiegare che cosa fosse avvenuto, e non so se ne sia a conoscenza. In appendice al mio libro è ristampato il testo dell'appello e l'elenco degli 800 firmatari. Era avvenuto questo. Che il processo Calabresi-Lotta Continua, aperto nel 1970, aveva un giudice presidente, Biotti, e un avvocato per la parte civile Calabresi, Lener, e giudice e avvocato erano amici personali da una vita. Dopo otto mesi di dibattimento, la corte deliberò clamorosamente una esumazione - la seconda - della salma di Pinelli per una nuova perizia. Allora, il 21 aprile 1971, Lener ricusa il giudice Biotti. E lo motiva riferendo un loro colloquio di cinque mesi prima. Era stato Biotti, racconta, a chiedergli un incontro urgente con dei pretesti. Si vedono a casa dell'avvocato. Biotti - racconta Lener - gli dice di essere preoccupato perché la sua pratica di promozione giace in Cassazione, e lui riceve pressioni dal tribunale milanese in favore di Baldelli (l'imputato, per aver firmato come direttore responsabile di Lotta Continua) e soprattutto gli dice che lui e gli altri giudicanti sono "convinti che il colpo di Karate a Pinelli sia stato dato e abbia colpito il bulbo spinale". E gli anticipa che avrebbe ordinato la nuova perizia, e però, per compiacerlo, gli propone di suggerire lui i nomi dei tre periti da nominare. Lener sostiene di aver tenuto per sé l\'episodio per mesi, per vedere come si metteva il processo. Biotti nega, e allega qualche dettaglio tragicomico sulla propria terzietà (protesta contro l'insinuazione di aver parlato del processo addirittura allo stadio: "Allo stadio di san Siro il sottoscritto, da vecchio e inveterato tifoso, non parla che di calcio..."). La Corte d'appello toglie il processo a Biotti. L'episodio comunicava a un\'opinione pubblica esterrefatta che presidente e parte civile di un processo (così delicato e tormentato) erano amiconi, e che il suo andamento si barattava e si sputtanava in una tribuna di stadio o in un salotto di casa; che il giudice preannunciava in privato la propria convinzione della colpevolezza del commissario; che l\'avvocato si teneva in tasca questa carta per mesi per far saltare il processo, una volta che avesse preso una piega sfavorevole. Come quando la corte decise la riesumazione. Allora l'opinione pubblica italiana, ormai avvertita della montatura infame per incolpare del 12 dicembre gli anarchici, si sentì dire che il giudice naturale del processo e i suoi colleghi a latere erano convinti che Pinelli fosse stato colpito e quindi defenestrato; e che se Biotti non l\'avesse detto davvero a Lener, sarebbe stato l'avvocato di Calabresi ad arrivare a una simile invenzione pur di affossare il processo e impedire la riesumazione. Questo era il movente dell'appello famigerato. "Una ricusazione di coscienza rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni". Uomini come Amendola o Pajetta, Argan e Bassetti, Carniti e De Mauro, Fellini e Gorresio, Primo Levi e Monicelli, Muscetta e Nono, Paci e Pasolini, Piccardi e Sapegno, Terracini e Terzani, Trentin e Viano, e le altre centinaia di quell'impressionante elenco, non davano la propria firma alla leggera, per sbarazzarsi di una telefonata, e tanto meno la lasciavano comparire a propria insaputa. Che abbiano poi sentito un dolore o un vero pentimento per quella firma, è la più plausibile e sincera e rispettabile delle evenienze. Che questo si sia tradotto nella cancellazione delle circostanze che l'avevano motivata, forse è ancora più spiegabile: ma non è una buona cosa. Il tempo non è né un galantuomo né un gangster: tutt'al più un ospite irridente. Si può aspettare quarant'anni per rendere l\'onore a Pinelli e commuoversi alla sua sorte. E 41 per intimare agli intervistati di giustificarsi: e gli intervistati non si ricordano di che cosa, e il pubblico non lo sa.
Malcom Pagani e Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 27 marzo 2012. Quel giorno Marco Tullio Giordana aveva 19 anni ed era a bordo di un tram. Le luci natalizie, i vetri appannati, un freddo venerdì milanese, Piazza Fontana a 20 metri. L'orologio fermò la storia alle 16,37 del 12 dicembre. In una banca di Milano piena di agricoltori, mediatori e padroncini di risaie.
Esplosione: 16 morti, 84 feriti. Era il 1969. L'anno in cui Feltrinelli pubblicava volumi dal titolo profetico "La minaccia incombente di un colpo di Stato all'italiana" e nei campeggi ci si passava eccitati "L'agente segreto" di Conrad con il protagonista, Mr. Vladimir, impegnato a indottrinare Verloc, l'agente provocatore infiltrato negli anarchici: "Poiché le bombe sono la vostra lingua, v'insegno con quale filosofia si gettano".
Pinelli, Calabresi, i fascisti, gli americani, i servizi. Burattini e pupari. Complotti e "tintinnar di sciabole". Slogan, minacce e auspici: "Ankara/ Atene/ adesso Roma viene". Il clima generale. L'Italia povera come sempre. Il Romanzo di una strage già letto da Pasolini: "Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, uno che cerca di seguire tutto ciò che succede... di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace".
Il regista che raccontò il tramonto di Pier Paolo, Peppino Impastato e le barricate di un '68 troppo breve da dimenticare ha voluto ricordare ancora. Senza indulgere alle convinzioni di allora: "Se avessi fatto un film da vecchio ragazzo sulle tracce della mia adolescenza, lo avrei sbagliato. Se invece tanti giovani vedranno il film e capiranno perché l'Italia è stata l'unico paese d'Occidente che ha combattuto la Guerra fredda non solo con le spie, ma con le armi e il sangue, la scommessa sarà vinta".
Com'è iniziata la scommessa?
Quando il produttore Riccardo Tozzi mi parlò per la prima volta del progetto, lo commiserai. Pensavo fosse impossibile racchiudere in due ore 33 anni di processi, ipotesi e depistaggi. Aveva ragione lui, ma c'è voluto tempo, studio, chiarezza. Ho deciso di fare il film quando ho letto una ricerca fra studenti: "Piazza Fontana? Le Br no?". I ragazzi di oggi non sanno nulla di quella mattanza, volevo un'opera rivolta a loro.
La complicazione maggiore?
Limitare l'arco degli avvenimenti fermandosi all'omicidio del commissario Luigi Calabresi. E fare di lui e di Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico che volò da una finestra della questura di Milano tre giorni dopo la bomba, non due figure stancamente antitetiche, ma speculari.
A parte la strepitosa bravura di Mastandrea e Favino, come ha fatto?
Ho provato a evitare santificazioni o processi a posteriori, rappresentando le loro solitudini al di fuori delle ideologie. Piazza Fontana è l'anno zero, il vero inizio della Seconda Repubblica. Tutto ciò che è piovuto dopo, terrorismo compreso, è una conseguenza. Senza la strage, non sarebbe nata l'idea malata che l'unico conflitto possibile con lo Stato fosse quello armato.
Un'opzione rischiosa.
Sì perché fa scattare automaticamente i mantra ripetuti per decenni da entrambe le fazioni senza verifiche o approfondimenti.
Il film è più per i giovani che non sanno nulla o per i troppi che credono di sapere tutto?
A tutti. A quelli che, una volta scoperte le manine dei servizi e i tentativi di inquinare il quadro, hanno smesso di credere nella democrazia. E a tutti gli altri che, chiusa nella memoria dell'epoca un'idea preconcetta sugli avvenimenti, preferirono buttare per sempre la chiave di un'ulteriore comprensione.
Chi era per lei Calabresi?
Un idealista al pari di Pinelli. Due figure tragiche, due solitudini tradite da una trama superiore alle loro forze. Con Calabresi ho provato ad andare fino in fondo e a lui ho cominciato a pensare fin dal giorno della sua morte, nel maggio 1972.
Venne ucciso sotto casa da un commando di Lotta Continua.
Sono sempre stato contro la violenza, ma quando morì provai un profondo senso di colpa. La campagna d'odio orchestrata da Lotta Continua (ma non solo) contro il poliziotto torturatore aveva suggestionato anche me. Anche per via delle bugie della Questura sulla morte di Pinelli
Il figlio Mario sostiene che dal film quella campagna sia sparita.
Secondo me non è vero, nel film la campagna d'odio c'è e lo spettatore se ne rende perfettamente conto. Ma capisco che per la famiglia Calabresi nessun risarcimento sia sufficiente. Nessuno può restituire né il padre né il marito.
Teme reazioni dalla lobby di Lotta Continua?
Se ci fossero, sarebbero un automatismo deludente. Ma, già prima ancora che esca il film, registro bordate inutili e deprimenti.
Tra le molte bugie che "Romanzo di una strage" aiuta a cancellare, c'è quella su Calabresi presente nella stanza dell'interrogatorio quando Pinelli precipita.
Delle due l'una: o Calabresi era colpevole e dunque andava tolto dalla scena del delitto; o era innocente e davvero non era lì. La verità è la seconda, come è emerso dalle univoche testimonianze e risultanze processuali: l'ha ammesso anche Adriano Sofri. E poi è impossibile che Calabresi fosse così cinico da defenestrare Pinelli nella propria stanza e poi continuare a lavorare ogni giorno in quella stanza come se nulla fosse accaduto.
In caso contrario non avrei potuto girare il film.
"Romanzo di una strage" teorizza che alla Banca dell'Agricoltura, il 12 dicembre 1969, esplosero non una, ma due bombe.
Una delle ragioni per cui è difficile fare un'indagine sul presente è che gli anni restituiscono frammenti e prove che in tempo reale non si colgono nella loro essenza.
O spariscono.
Esattamente. A metà anni 90 lo storico Aldo Giannuli ritrovò, in un archivio abbandonato dell'Ufficio Affari Riservati del Viminale a Forte Boccea, una miccia e alcune informative del servizio militare che all'epoca erano state manipolate. Elementi che non comparvero al processo di Catanzaro e quindi, per la giustizia, non esistono.
Cosa significa la miccia?
Un tassello che, pur non incompatibile col timer subito rinvenuto, fa pensare a un doppio innesco e dunque a una doppia bomba. Teoria che fra l'altro spiega i due diversi odori di esplosivo nella banca subito dopo lo scoppio. E il cratere troppo profondo per essere provocato da un solo ordigno.
Teoria affascinante che rimanda all'incendio del Reichstag, a Portella della Ginestra e persino all'attentato dell'Addaura: dietro c'è sempre un doppio Stato.
La ricorrenza della doppia valigetta è una costante dei misteri italiani. Per sapere cosa sia avvenuto esattamente a Piazza Fontana bisognerebbe essere stati nella testa degli attentatori. Io mi sono limitato al verosimile, che spesso coincide con il vero.
Come andò secondo lei?
Io credo che i colpevoli siano i fascisti veneti di Ordine nuovo (Freda e Ventura, come ha confermato la Cassazione nell'ultimo processo di Milano) con la collaborazione dei servizi segreti, italiani e americani. La prima bomba la mise un sosia di Pietro Valpreda che bazzicava gli ambienti anarchici, per far pagare il conto a loro. La seconda fu opera di servizi italiani e "atlantici".
Ognuno pensava ai propri affari e i servizi, che infiltravano tutti, anarchici e neri, diedero via libera alla manovalanza di destra per usarla e poi magari arrestarla. Intanto lo scopo era quello di piegare la mano al governo Rumor perché proclamasse almeno momentaneamente lo Stato d'emergenza per frenare l'avanzata delle sinistre. L'Italia era l'unica democrazia del Mediterraneo, fra la Grecia dei colonnelli e la Spagna di Franco.
Il film ricalca la tesi del libro a tema di Paolo Cucchiarelli?
Neanche un po'. Ho letto il suo volume assieme a molti altri. È interessante, ma non va preso a scatola chiusa. Anche se, ora che lo attaccano tutti, mi vien voglia di difenderlo. Questo non significa che io sposi in toto le sue deduzioni.
Lui è convinto che la prima bomba potrebbe averla piazzata Valpreda a scopo dimostrativo, da far esplodere a banca chiusa; e che Pinelli sapesse di quelle bombe-petardo anarchiche che, da dimostrative, nelle mani sbagliate, divennero letali. Per dimostrarlo, dà voce a una fonte anonima dei servizi. Ma, se non puoi rivelare la fonte, io non ti credo.
Perché?
Sapete quante persone mi hanno raccontato cos'era successo la notte in cui morì Pasolini? Un'infinità. Quando chiedevo loro di ripetere il racconto davanti al magistrato, giravano le spalle. Per quanto suggestiva e verosimile sia una tesi, è inevitabile che s'infranga contro la mancata narrazione con nomi e riscontri.
Nel film c'è un tragico Moro, interpretato da Fabrizio Gifuni.
Mi piacerebbe raccontare la sua figura, magari a teatro. È un'altra solitudine straziante. Un'altra figura centrale della nostra storia, su cui non sappiamo fino in fondo quale partita si sia giocata.
Perché non un film su di lui?
Ci ha già provato e bene Bellocchio. Non me la sento di sfidarlo.
Neanche in una dimensione meno onirica?
Il sogno sulla liberazione di Moro rende la conclusione drammatica dei fatti ancor più atroce.
Nel film brilla anche un'altra figura complessa, il numero due dell'Ufficio Affari Riservati, Federico Umberto D'Amato.
Uno strano caso di vice più forte del suo capo. Il suo superiore, Catenacci, informava Freda e Ventura delle indagini sul neofascismo svolte a Padova dal commissario Juliano. E lui smistava veline, tenendo nel tempo libero rubriche gastronomiche sull'Espresso fondato da Scalfari.
Sofri rivela che D'Amato gli propose un delitto su commissione.
L'ho sentito dire, non ho mai visto il documento. Ma non mi stupirebbe. Sofri dovrebbe decidersi a raccontare tutto per intero, perché si possa voltare pagina e aprire un nuovo capitolo. Nel film D'Amato ha un dialogo illuminante sulla strage con il commissario Calabresi. Descrive il regno del caos, un sistema di gestione dell'esistente fondato sull'ambiguità. Più tardi, per manipolare gli italiani, non ci fu nemmeno più bisogno delle bombe e dei depistaggi: bastò usare la televisione.
Come da Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli.
Quasi la stessa cosa in un contesto immobile, indifferente. La normalità italiana è questa: dopo la strage i tram seguitarono a lisciare le rotaie, i giornali a uscire, i telefoni a funzionare...
Oggi nella politica italiana, fin dai palazzi più alti, c'è voglia di rimozione, dimenticare e archiviare il passato più nero con la scusa dell'emergenza e del "voltar pagina". Il film è in controtendenza.
Il divorzio di questa nostra politica mediocre e insopportabile dalla verità è ciò che la condannerà alla perdizione. Ma, se i nostri politici non sanno far altro che compromessi e scambi, gli intellettuali devono fare il mestiere opposto: non per fare gli incendiari, ma perché non c'è cosa più normale al mondo che cercare la verità. Come dice Donald Sutherland in JFK, "la gente ha un debole per la verità".
Lettera di Adriano Sofri a "il Fatto Quotidiano" il 6 aprile 2012.
Avendo io ridicolizzato la tesi di un libro su Piazza Fontana che raddoppia le bombe e ne assegna una agli anarchici e una ai fascisti, Marco Travaglio scrive che "solo Sofri può spiegare" perché Federico Umberto D'Amato, eminenza nera degli Affari Riservati, si fosse rivolto "proprio a lui (Sofri)". Si tratta di un episodio, raccontato da me cinque anni fa, che sarà ignoto alla stragrande maggioranza dei suoi lettori, ai quali vorrei indicare dove trovare il mio articolo. A qualunque cosa mirasse quella provocazione, evidentemente la mancò, a meno che gli bastasse poter aggiungere al suo curriculum un incontro con me. (Tutte le carte "segrete" riguardanti quegli anni dovrebbero essere rese pubbliche, comprese quelle di polizia, e non solo attraverso bidoni di spazzatura).
L'interpretazione che ne dà Travaglio, che quel signore venisse a parlarmi confidando nella mia qualità di capo di una banda di omicidi, è troppo lusinghiera perché io vi acceda. Non ho una sola parola da aggiungere a quel resoconto. In cambio mi lasci annotare che il Travaglio che mi ammonisce a "spiegare" è già un passo avanti rispetto al Travaglio che nel 1996 mi intimava di "implorare l'indulgenza plenaria da quello Stato borghese che... sognava di rovesciare.
Ma lo faccia alla chetichella, dietro le quinte, con un fil di voce, lasciando perdere le tv e i giornali... E quando uscirà di galera, lo faccia in punta di piedi, strisciando contro i muri magari nottetempo, senza farsi vedere né sentire... Meglio che scompaia dalla circolazione. Perché a qualcuno, sentendolo ancora parlare, potrebbe venire la tentazione di ripensarci e di andarlo a cercare". Gli diedi allora l'indirizzo dei miei itinerari diurni, al centro della strada. Non sono cambiati.
La questione è molto semplice. Io (ma non soltanto io: vedi le dichiarazioni da me citate di Erri De Luca) non credo al racconto che Sofri fa del suo incontro col capo dell'Ufficio Affari Riservati del ministero dell'Interno, il famigerato Federico Umberto D'Amato che, presentatogli da un conoscente comune, sarebbe andato a casa sua per proporgli "un mazzetto di omicidi" e garantirgli la successiva impunità.
Non ci credo perché D'Amato non era così sprovveduto da rendere visita a domicilio all'allora capo di un'organizzazione rivoluzionaria, senza neppure sincerarsi di non essere ripreso, registrato e dunque in seguito sputtanato da chi (in teoria) aveva tutto l'interesse a screditare un così altolocato rappresentante delle istituzioni che Lotta continua si proponeva di abbattere. Sofri ritiene di non dover aggiungere una sola parola? Pazienza. Chi nutriva dubbi sulla completezza del suo racconto continuerà a nutrirli.
Che poi il vertice di Lotta continua fosse coinvolto in almeno un omicidio non lo dico io: lo dicono due sentenze definitive della Cassazione che indicano in Sofri, Pietrostefani (tuttora latitante), Bompressi e Marino i responsabili dell'assassinio del commissario Luigi Calabresi. Il che, almeno sulla carta, potrebbe spiegare come mai D'Amato si rivolse qualche anno dopo proprio a Sofri per commissionargli altri omicidi.
Quanto poi alle frasi che Sofri estrae da un mio articolo uscito sul Giorno nel 1996, le riscriverei tali e quali oggi se si riproducesse la circostanza che le originò: una vergognosa puntata di "Porta a Porta" in cui il capo delle Brigate Rosse, Renato Curcio, e il capo di Lotta continua, Adriano Sofri, all'epoca entrambi detenuti, discettavano amabilmente di amnistia (anzi, di autoamnistia) in una puntata dal titolo "Si può uscire dall'emergenza degli anni di piombo?".
Pensai, e continuo a pensare, che chi è stato condannato per delitti così orribili, ma soprattutto chi scriveva cose orrende come quelle che portarono al linciaggio di Calabresi e di altri "nemici del popolo", dovrebbe evitare di impartire lezioni di morale o di politica agli altri. Non foss'altro che per rispetto per le vittime. E che queste, per anni regolarmente escluse dai dibattiti sull'amnistia e sull'uscita dall'emergenza", avessero tutto il diritto di andare a cercare questi signori per dirgliene quattro.
Adriano Sofri per "il Foglio" l'11 aprile 2012. Ehi, un giornale su cui scrive Travaglio ha accettato di pubblicare Travaglio. E' una notizia. Quando toccò all'Unità, il direttore Furio Colombo si scusò e disse che non poteva. Ieri invece il Fatto di Antonio Padellaro l'ha fatto. Ha pubblicato le righe minatorie per conto terzi che Travaglio mi indirizzò tanti anni fa, ammonendomi a uscire solo di notte e rasente i muri.
Travaglio ha accompagnato il sacrificio con altre notizie delle sue, per esempio che io avessi partecipato da detenuto nel salotto di Vespa a una puntata di "Porta a Porta", il che sarebbe stato troppo anche per un detenuto ultraprivilegiato come fui io, a quel che si dice. Non ero affatto detenuto, naturalmente. Nella sua versione attuale, quelli che avrebbero dovuto, o dovrebbero, venire a cercarmi "sentendomi ancora parlare", sono "le vittime". E' un'innovazione. L'unica cosa che resta immutata è che non ci viene lui.
Paolo Cucchiarelli per "il Fatto Quotidiano" l'11 6 aprile 2012. Autore de "Il segreto di Piazza Fontana". Caro Sofri, che "gliene cale" a lei se a Piazza Fontana sono esplose una o due bombe? Cosa cambia, visto che la mia inchiesta "Il segreto di Piazza Fontana", da lei così sarcasticamente attaccata, inchioda fascisti di Ordine Nuovo, politici, servizi segreti italiani e stranieri alle loro responsabilità? Perché le due bombe, che potrebbero permettere di capire a fondo il "modulo" usato dai servizi per tappare la bocca a tutti, le sono così indigeste?
Non c'è nell'inchiesta un punto - se non le due bombe - che diverga da quel senso comune storico che non è bastato, però, nonostante 11 giudizi, a mettere ordine nelle tessere scomposte del mosaico della strage. E allora perché questo tentativo di stroncare - non di criticare - questa mia tesi?
Non ripropongo la pista anarchica, né gli opposti estremismi, né la commistione tra rossi e neri: parlo di una trappola studiata a tavolino, pianificata con l'infiltrazione, realizzata attraverso l'intervento di un fascista che "raddoppia" una specie di petardo attaccato a un orologio, che l'avrebbe fatto scoppiare certamente a banca chiusa. Si tratta di un modulo poi usato altre volte da Ordine Nuovo. Dov'è lo scandalo? Nell'agosto 1969, dopo le bombe del 25 aprile messe dai fascisti, vanno in galera gli anarchici; dopo le bombe sui treni messe dai fascisti, vanno in galera gli anarchici; dopo Piazza Fontana vanno in galera gli anarchici, ma la bomba che uccide l'han messa i fascisti. In tutti e tre i casi, il costante tentativo di coinvolgere la sinistra con tecniche che racconto in dettaglio.
Alcuni pensano che lei non sia un interlocutore perché parte in causa o perché condannato per l'uccisione di Calabresi. Io non lo penso, ma lei non è il depositario della verità su Piazza Fontana. Semmai il custode di un segreto politico amministrato per decenni.
I più non comprendono tanta veemenza e cosa le renda insopportabile questa lettura complessiva della strage, dei suoi retroscena operativi e politici, visto che dimostra proprio quello che a suo tempo Lotta continua cercava di raccontare con la sua contro-informazione. Perché tanto nervosismo dopo tanto silenzio? Il mio libro è uscito nel maggio 2009. All'epoca lei scrisse che "faceva caldo" (il "Maestro" era troppo assorto, troppo in alto per abbassarsi a rispondere).
Ora ha scritto oltre cento pagine che attaccano, divagano, insultano, con l'unico intento di gettare un anatema sulla mia tesi. Non se ne può discutere perché lei si stranisce e smadonna? Scusi, Sofri, ma lei chi è? Un tribunale? Un'entità morale superiore? Lei è parte interessata, perché la strage e la morte di Pinelli sono legate anche all'inchiesta che Calabresi intraprese sui retroscena del 12 dicembre - dopo un percorso che il film di Giordana sintetizza, anche se non racconta che quel dossier fu fatto sparire dalla scrivania del commissario dopo la sua uccisione -.
A fine maggio del 1972 Calabresi avrebbe dovuto dar conto ai magistrati di quello che aveva scoperto. In questa confusione di ruoli e opinioni (si sono visti storici, per di più in ginocchio, dar lezioni con la penna tremolante), "Romanzo di una strage" è un'opera "corsara", nel segno di Pasolini, perché rompe - nel rispetto di tutti i protagonisti di quella tragedia - un tabù che non doveva essere violato. Ecco perché lei ha atteso l'uscita del film per far colare odio sulla mia inchiesta .
Come fa, ad esempio, con cinismo sconfinato, attribuendomi la volontà di "‘infangare" Pinelli, leggendo quel capitolo con una superficialità che non è concessa a lei, che per anni si è "nascosto" dietro quella morte per giustificare le accuse orribili a Calabresi. Anche perché lei nel 2009 chiude il suo "La notte che Pinelli" gettando la spugna. Alla giovane che le chiede cosa sia successo in quella stanza lei dice: "Non lo so". Proprio lei?
Il libro tenta di spiegare perché spariscono i reperti decisivi per capire l'operazione - i finti manifesti anarchici, la miccia nel salone della Bna, l'esplosivo che raddoppia la bombetta depositata da una mano ignara - ma lei cassa tutto, ridicolizza, sostiene che le fonti sono anonime e per di più di destra. Un'altra menzogna. Ho fondato tutto sul solo lavoro d'inchiesta. In appendice, c'è una testimonianza di un fascista che ho cercato io, forte degli elementi raccolti. Nel testo riporto due, tre volte alcune sue affermazioni, tutelo la sua identità come ha chiesto quel signore e mi impone la mia professione.
Non è anonima la testimonianza di Silvano Russomanno, da cui sono andato non come dice lei, a chiedere informazioni, ma per raccogliere anche la sua versione dei fatti; né quella di Ugo Paolillo, il primo magistrato a indagare sulla strage e a cui venne tolta l'inchiesta perché stava capendo cosa era avvenuto. Del resto, lei stesso nel suo "L'Ombra di Moro" (pag. 20) sostiene tutto su una fonte anonima, in base alla quale Licio Gelli avrebbe partecipato a riunioni di esperti durante il sequestro Moro al ministero della Marina.
Contro la mia lettura dei fatti si è scatenata un'isterica campagna, ridicola e fuori del tempo, con vette di vera comicità. Come quando il direttore di Repubblica fa il "copia e incolla" dal dossier Sofri, gridando che non ci sono sufficienti verità giudiziarie sulla strage, per poi criticarmi perché il mio libro non avrebbe riscontri giudiziari! Legge Sofri, ma non la fonte delle critiche di Sofri e sostiene, insomma, che mi sarei inventato tutto.
Non sarebbe più utile ricordare che alla magistratura fu impedito di capire? Lo ammette la sentenza di Catanzaro del 1981 quando dice che i giudici non sono riusciti a indagare il ruolo del fascista Mario Merlino nel gruppo "22 marzo", quello definito da Gerardo D'Ambrosio, ne "Il Belpaese", "un circolo pseudo -anarchico perché, a contarli tutti, di esso facevano parte fascisti, infiltrati, informatori, addirittura un agente di pubblica sicurezza in incognito". Merlino era l'anello di congiunzione tra gli imputati del gruppo veneto e del gruppo pseudo-anarchico. Il danno investigativo e di conoscenza fu irreparabile. Ma tutto questo per lei non conta.
Il film "Romanzo di una strage", al di là delle differenze, anche consistenti, con il mio lavoro, coglie narrativamente il nucleo che tiene prigioniera questa vicenda ancora oggi e che spiega la virulenza della sua reazione: le doppie bombe e le bombe in più che dovevano scoppiare a Milano. Ecco perché lei ha atteso il film per replicare a un libro di tre anni prima. L'obiettivo è la de-legittimazione dell'ipotesi della doppia bomba. Perché la tutela del segreto di Piazza Fontana è il cuore della battaglia combattuta da Lc.
"Romanzo di una strage" è il film che rivela quel segreto, lo divulga, lo fa entrare nel circuito popolare. Questo è il nocciolo dell'isteria. E ora capisco bene perché a lei, Sofri, sia cara una frase di Kafka: "Non ci fa tanto male ricordare le nostre malefatte passate, quanto vedere i cattivi effetti delle azioni che credevamo buone".
Fabrizio Rondolino per thefrontpage.it il 6 agosto 2012. Mario Calabresi è un caso fortemente emblematico: la sua rapida e immeritata carriera racconta esemplarmente le psicosi e le ipocrisie italiane, e ci aiuta a capire il nostro disgraziato Paese. Il fatto che non se ne possa parlare, se non in termini encomiastici, e che chi ne parla venga subissato di insulti, è un'ulteriore prova della sua centralità (oltreché, naturalmente, dell'ipocrisia italiana). Torno dunque a scriverne, senza i rigidi limiti (e le semplificazioni) imposte da Twitter.
Ho cominciato a chiamare pubblicamente Mario Calabresi l'Orfanello dopo aver visto la prima puntata del suo programma su Rai3 dello scorso anno. Anziché parlare dell'Italia, Mario Calabresi parlava di sé: cioè della sua tragedia personale e familiare. La tecnica è ben nota agli americani: non si vendono fatti e opinioni, ma personaggi e storie (Obama non si è lanciato verso la Casa Bianca con un saggio politico, ma con un'autobiografia).
Nulla di male né di strano, dunque: nel teatro mediatico-politico Mario Calabresi ha scelto di impersonare l'Orfanello. Lo aveva fatto con un libro di successo, con innumerevoli presentazioni pubbliche e comparsate televisive, e persino con una stucchevole cerimonia quirinalizia.
Il punto è che Mario Calabresi è un orfano del tutto particolare. Quando suo padre, il commissario Luigi Calabresi, fu assassinato sotto casa dai sicari di Lotta continua, tutta l'Italia democratica e antifascista, tutta l'Italia dei salotti e delle redazioni brindò spensierata e allegra. Perché il commissario Calabresi era il responsabile - morale, politico, simbolico - di un altro omicidio: quello di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico ingiustamente sospettato per la strage di piazza Fontana, illegalmente trattenuto da Calabresi in questura e infine misteriosamente volato giù da una finestra del quarto piano.
Calabresi aveva una vera e propria ossessione per anarchici e "cinesi", come allora venivano chiamati gli extraparlamentari; mentì più volte su Pinelli; era famoso per i metodi spicci, da "duro".
Camilla Cederna scrisse un manifesto contro di lui, pubblicato dall'Espresso e sottoscritto dalla crema del giornalismo e dell'intellettualità italiana (fra cui Natalia Ginzburg, la cui nipote Caterina è oggi la moglie di Mario). Quando Calabresi fu ammazzato, nessuno dei firmatari versò una lacrima o condannò l'omicidio. E vent'anni dopo, quando finalmente un magistrato formalizzò ciò che tutti sapevano da sempre, e cioè che era stata Lotta continua ad organizzare l'attentato, quella stessa opinione pubblica democratica e antifascista insorse sdegnata in difesa di Adriano Sofri.
Quel che è troppo, è troppo: persino nella sinistra italiana. E così, quello stesso mondo che brindò alla morte del padre pensò bene di lavarsi la coscienza risarcendo il figlio con una splendida carriera. Mario Calabresi ne approfittò volentieri, in nome di non si sa bene quale spirito di riconciliazione nazionale, scalando Repubblica e diventando infine (su proposta di Berlusconi, che voleva liberarsi di Giulio Anselmi) direttore della Stampa.
Questa è la storia, e non c'è molto da aggiungere. L'Italia fa notoriamente schifo, e la storia pubblica dell'Orfanello e dei suoi molti sponsor non fa eccezione.
Un'ultima osservazione sul ‘fatto personale'. È vero, Mario Calabresi mi ha cacciato dalla Stampa, e lo ha fatto nel peggiore dei modi: per un anno e mezzo non ha risposto né alle mail, né alle telefonate, né alle proposte di articoli; poi mi ha convocato per dirmi che scrivevo poco, e che La Stampa era in difficoltà. Questo fa di lui una persona con scarse qualità umane; quanto a me, ci sono ovviamente rimasto molto male. Ma il ‘caso Mario Calabresi' resta in tutta la sua imponenza, e accusarmi di interesse personale è un'altra forma di ipocrisia.
Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano" il 19 dicembre 2013. Mariano Rumor, Presidente del Consiglio. L'aria grave. La voce meccanica. Il bianco e nero del 12 dicembre 1969: "L'azione fermissima, immediatamente intrapresa per individuare e colpire i vili delinquenti, è la certezza che io in nome del governo dò al Paese". Quarantaquattro inverni dopo, in quel cratere di delusioni che sono le promesse, Piazza Fontana è ancora lì.
Ne "Gli anni spezzati", la trilogia sui Settanta che Rai Unomanderà in onda da metà gennaio in sei puntate, Emilio Solfrizzi la percorre riflettendo con un amico a passo lento. "Questo luogo non sarà mai più lo stesso". Parla di golpe, fascisti e finti anarchici. Si scopre a dar ragione agli editori rivoluzionari.
Interpreta un Luigi Calabresi lucido e molto solo che dal giorno della morte in Questura del "frenatore delle Ferrovie dello Stato in servizio a Porta Garibaldi" Giuseppe Pinelli: "Nel mio ufficio, con i miei uomini" sente il dovere di razionalizzare: "Non siamo stati in grado di spiegare che è successo", e conta il tempo che gli resta.
Lotta Continua gli augura la morte. All'università, sui volantini, ballano domande che sono già risposte: "Commissario che fai, spingi?". Nei cortei cupi, con i caschi in testa, il volto coperto e i bastoni in bella vista, gli urlano fascista e gli gridano assassino. La genesi La finzione restituisce il clima d'epoca. Il repertorio conferma l'impressione.
Graziano Diana, regista e sceneggiatore per Albatross e Rai fiction di 600 minuti che attraversano un decennio della storia d'Italia raccontata dalla parte delle vittime, non l'ha edulcorata. Ha chiesto l'aiuto di Luciano Garibaldi, Adalberto Baldoni e Sandro Provvisionato per la consulenza storica e poi nelle relative ristrettezze di bilancio (progetto elaborato fin dalla fine del 2005, 9 milioni di euro complessivi, ricostruzione impeccabile, affidata allo scenografo di Benigni, Bellocchio, Fellini e Risi, Giantito Burchiellaro, qualche interno serbo, qualche compromesso, una manciata di validi attori slavi), ha tracciato con pazienza le rette convergenti di tre destini.
Un poliziotto, Luigi Calabresi. Un giudice (il magistrato genovese Mario Sossi sequestrato dalle Brigate Rosse nel ‘74, l'ottimo Alessandro Preziosi). Un dirigente della Fiat (Giorgio Venuti, l'attore Alessio Boni) che nella Torino del '79 si trova a firmare sessantuno lettere di licenziamento a operai sospettati di avere contiguità con il terrorismo scoprendo poi di avere una figlia militante in una costola di Prima Linea (nel film Giulia Michelini).
L'unico profilo di pura invenzione narrativa (con molte aderenze nel reale, compresa l'arbi - trarietà di alcune di quelle "comunicazioni aziendali") che la filologia de "Gli anni spezzati" concede all'atmosfera. Che è quella della guerra. Nel mondo rovesciato in cui si può entrare da stragisti in un'aula di giustizia, essere condannati in contumacia e diventare miliardari, travestirsi per diluire coscienza e rimorso in accettabile equilibrio, Graziano Diana ha scelto di non farlo.
I suoi eroi hanno il fascino dimesso di chi si autoinfligge il castigo del princìpio. L'umanità dei martiri per caso che anche nella paura e nell'insonnia, marciano: "Chissà come sarai tu da grande", dice Calabresi al figlio Mario: "Forse papà non riuscirà a vederti".
Il senso del dovere di Francesco Coco, procuratore presso la Corte d'Appello di Genova, un Ennio Fantastichini, tragico e dolente. Per impugnare la sentenza della Corte d'Assise (e dire una parola decisiva sullo scambio tra Mario Sossi e gli otto detenuti della XXII ottobre proposto dai brigatisti che tengono prigioniero il giudice) ha pochi giorni e una mostruosa pressione sulle spalle. Da un lato il suo delfino, l'amico Sossi, sorvegliato da Mara Cagol, processato da Alberto Franceschini, infine liberato dopo 35 giorni di cattività trascorsi in una villetta dell'Alessandrino. Dall'altra lo Stato.
La linea della fermezza anni prima di Aldo Moro. In tribunale i colleghi gli chiedono clemenza e firmano petizioni. La moglie di Sossi, Grazia (Stefania Rocca) evade dall'embargo della Rai per chiedere la liberazione del marito e affidare il suo durissimo appello alla Televisione Svizzera. La notte prima di presentare il parere, Coco soffre e si tormenta. Lo scrive e strappa fogli, fuma e inizia di nuovo. Poi firma e va a dormire.
Gli telefona il Presidente della Repubblica. Gli chiede di non cedere. Coco spegne la luce, non cambia il testo di una virgola, infrange il suo universo di riferimento per sempre e dopo essersi espresso per il no ("Un arrogante voltafaccia" dirà Renato Curcio) va a morire ai piedi di una salita genovese intitolata a una santa, discutendo di diritto con un uomo della scorta, due anni dopo il sequestro Sossi.
La vendetta ha la memoria lunga e non offre consolazioni. Non riannoda i fili, ma li sfrangia. Sfuma le stinte ideologie di un tempo accorciando le distanze tra i nemici, minaccia il perdono globale, pretende l'amnistìa ma da sempre dimentica- unica costante di un abito nazionale a identità variabile gli anelli deboli su cui il film di Diana (patrocinato dai familiari delle vittime del terrorismo e dall'Associazione Nazionale Polizia di Stato) allarga meritoriamente lo sguardo.
Così tra il portavalori Alessandro Floris, immortalato ad occhi aperti in istantanee da amatori che per alcuni segnano l'alba della lotta armata, ucciso come un cane nel 1971 mentre si attacca a una Lambretta in fuga, "perché ostacolava l'operazione di autofinanziamento dei compagni" e il tramonto della Fiat, ne "Gli anni spezzati" ritrovi il doloroso tributo dato dalle retrovie a un decennio atroce.
L'odio. Le "risoluzioni strategiche". Gli slogan. "Guida e Calabresi/ sarete presto appesi". "Coco/Coco/è ancora troppo poco". I cori da stadio. Il branco. A Milano come a Genova. A Settimo Torinese come nel cuore della produzione automobilistica italiana, fotografata nei mesi che precedono il corteo dei quarantamila, il declino industriale e la riconversione definitiva che Nicola Tranfaglia definirà: "Una radicale trasformazione della città".
Cognomi anonimi confinati in una breve. Baristi trucidati per sbaglio. Medici coraggiosi che denunciano i sabotaggi e pagano con la vita. Guardie giurate. Studenti della scuola di amministrazione aziendale della Fiat rastrellati, riuniti nella palestre, come a Beslan e gambizzati da commandi paramilitari a sangue freddo. Corone di fiori avvizziti.
Ai margini della solitudine di chi dovette fare una scelta, al confine di un'opzione irreversibile, nel film di Diana prodotto da Alessandro Jacchia e Maurizio Momi, balla anche l'ostinazione di chi provò ad evadere altrove. In una complicata normalità che celebrava il futuro e lo sbarco sulla Luna, Italia-Germania 4-3 e Jon Voight sui manifesti di Midnight Cowboy, i beat, l'austerity, il disimpegno, l'amore libero e il referendum sul divorzio.
Per dare un quadro d'insieme che tenesse uniti spirito civile, deliri verbosi: "Vogliamo essere sabbia non olio nei meccanismi del sistema", buoni, cattivi, sommersi, salvati e stanze stanche in cui si discuteva "di terrorismo e di fotografia", Diana ha evitato derive ideologiche.
Lo attaccheranno (Garibaldi e Baldoni si sono occupati e forse sono ancora -se la definizione conserva un significato- di destra) ma anche se l'ambizione è enorme, non tutto funziona e certe sottotrame sentimentali del film hanno un impatto minore dell'affresco particolare, intimo e casalingo, alla destra politica (segnalata puntualmente e senza omissioni nei suoi tentativi di mimèsi e sovversione da Franco Freda in giù) il regista ha evitato di erigere impropri monumenti.
Nel disegnare l'Italia dei Settanta, Diana che fu sceneggiatore dell'Ambrosoli di Placido, ha messo passione. La stessa che nella brughiera dove non si vede a un passo, Luigi Calabresi scorge come unico, nitido orizzonte verso cui puntare: "Il nostro paese è uscito dalla dittatura solo da vent'anni e adesso si trova al confine di due mondi, spinto da una parte e dall'altra. Noi siamo nel mezzo, siamo il vaso di coccio, questo mestiere non puoi farlo se non hai passione".
Ne "Gli anni spezzati", si tenta di indulgere alla retorica un po' meno dello stretto necessario. La strada è un'altra. Togliere polvere all'oblìo. Addentrarsi nelle sfumature, comprendere la forza brutale del dissidio interiore. Le barriere familiari, di linguaggio, di generazione. Il livore gratuito. L'equilibrio impossibile. L'incomunicabilità che come in "Colpire al cuore" di Amelio trascina a fondo "le vittime delle circostanze" condannando colpevoli e innocenti.
Gli inganni della prospettiva: "Benvenuto nel mondo dei grandi" dice ancora Calabresi a una giovane recluta: "Il posto in cui i ladri sono spesso guardie mascherate". In questo vorticare di specchi in cui il riverbero del dolore spazza via ragioni e convinzioni e in cui finire nella rete di un gioco più grande di sè che non mette premi in palio, è la regola, Diana si è affidato a volti che al copione hanno aggiunto il talento. Ne "Gli anni spezzati" ci sono prove distantissime dalla routine.
Uno degli attori più sottovalutati d'Italia, Thomas Trabacchi (già Marco Nozza in "Romanzo di una strage" di Giordana), poliziotto di ferro e brusco comandante della celere. Non una smorfia in più. Alessio Boni, quadro dell'azienda fondata da Agnelli, vedovo e docente, sprofondato in un abisso esistenziale che ne cambia i tratti somatici restituendolo allo spettatore dimagrito, efebico, quasi irriconoscibile.
Allucinato e incredulo: "Mia figlia spara nella scuola in cui insegno io". Alessandro Preziosi che del Sossi originale conserva la ritrosìa modulando (e sorprendendo) con mano ferma rabbia, disgusto e sofferenza. Emilio Solfrizzi che ha tra tutti il ruolo più difficile si confronta suo malgrado con il commissario già messo in scena da Valerio Mastandrea.
Pur essendo un'altra cosa e non sempre servito, quando non penalizzato dalla scrittura delle scene corali, trova in quelle in cui si muove da solo (circondato da uno spazio vuoto, ostile, grigio e atono) una dignità sobria e la cifra giusta per commuovere di sottrazione, rendendo omaggio all'umanità nascosta di Luigi Calabresi, alle sue debolezze, ai suoi dubbi e non al santino.
Arrivare al risultato in dieci ore di film non era facile. E se l'ambiente risulta credibile e certi articoli di stampa, certi appelli vergati dagli intellettò e certe carezze da Linotype: "Vogliamo la morte dei nostri nemici" contrastano con la voce di Leonard Cohen che accompagna Suzanne sulle rive del fiume finendo per dare ragione più in là dei dibattimenti infiniti a quel che Giampiero Mughini disse a Jacopo Iacoboni: "Io contesto l'impudenza vergognosa degli ex di Lotta Continua che ancora oggi si mettono sul piedistallo dei presunti guru e continuano a volersi raccontare come se fossero stati una forma di innocuo francescanesimo scalzo", se accade, si deve anche alla recitazione.
Dei maschi al fronte senza divisa (molto bravo anche Enzo De Caro, terrorizzato primario ospedaliero costretto a dormire in astanteria) e delle donne che chiamate alla supplenza, salgono in cattedra dando lezioni di contegno e determinazione. Quando sono figlie disperate o smarrite (Giulia Michelini, intensa neoterrorista sulle orme del padre). Mogli furibonde (Stefania Rocca, diafana, bellissima nei panni di Grazia Sossi) o preoccupate (Luisa Ranieri, una Gemma Capra che intuisce l'importanza del trasferimento di Calabresi a Roma).
Nonne comprensive con gli sbagli dell'età acerba (Paola Pitagora), bambine solo troppo piccole per inseguire un sogno (Arianna Jacchia, all'esordio, convincente sorella di Giulia Michelini ne "L'ingegnere") o segretarie intimidite che davanti ai dubbi dei capi azienda: "Non si è mai visto un corteo di gente in cravatta", si danno coraggio, sciolgono i propri e il 14 ottobre dell'80, insieme ad Alessio Boni, fendendo Torino, decidono di scegliere finalmente da che parte stare. In cammino, senza più sacchi davanti alle finestre, paure o opportunismi miserabili.
In marcia, insieme a un fiume di persone che - dissero i testimoni con il grado di benevola approssimazione che si concede all'evento capace di rivoluzionare veramente (e per sempre) i rapporti di forza non solo nella Fiat - furono quarantamila. Da quel giorno, giurarono sollevati i sopravvissuti alla garrota aziendale e agli errori della politica e del sindacato (15.000 licenziati), non ci sarebbe più identificati con la fabbrica, ma "con il lavoro in fabbrica". Allora parve un soffio di consapevolezza. Trent'anni dopo è quasi archeologia industriale, catena che si spezza, motore collettivo che non gira e che non girerà mai più.
GIAMPIERO MUGHINI A DAGOSPIA il 16 gennaio 2014. Caro Dago, e siccome non ho uno straccio di giornale su cui poter scrivere neppure il mio codice fiscale sono qui a chiederti ospitalità. A proposito di questa recente fiction televisiva dedicata al tragico destino del commissario Luigi Calabresi. Non fosse stato per due successivi articoli apparsi sul "Fatto", prima un editoriale di Marco Travaglio e adesso un commento di Massimo Fini, le critiche più diffuse di questa fiction (assai modesta) sarebbero state quelle di chi lamentava che nelle due puntate mancavano immagini dell'"autunno caldo" o immagini che raccontassero quanto fossero numerose le bombe messe all'epoca dal "terrorismo nero". Roba che c'entrava sì ma non a tal punto con la vicenda di quel commissario di 33 anni di cui 800 intellettualoni italiani scrissero e sottoscrissero che era un assassino e un torturatore (dell'anarchico Giuseppe Pinelli) e pure non avevano in mano nulla che lo comprovasse, a parte il fatto che Pinelli s'era sfracellato cadendo dal quarto piano della questura milanese dov'era stato a lungo interrogato. La vicenda precipua di questa fiction era tutt'altra, era la solitudine profonda di questo commissario di polizia e fino alla mattina del 17 maggio 1972, quando un ragazzo alto gli si avvicinò alle spalle mentre Calabresi stava per aprire lo sportello della 500 con cui ogni mattina andava al lavoro. Senza scorta e disarmato.
L'"autunno caldo" certo che c'era e c'era stato, e pure le bombe dei fascisti (ma anche degli anarchici). Ma il cuore del racconto televisivo è un altro. Che quando Calabresi va in aula perché ha querelato "Lotta continua", il giornale portabandiera della campagna micidiale contro di lui, in quell'aula è solo come un cane, a parte l'avvocato che gli siede accanto. Solo come un cane, e muore solo come un cane. Mentre, lo ha raccontato una volta Nando Adornato, in un liceo "bene" di Torino scoppiano gli applausi alla notizia dell'attentato.
Ebbene, date le premesse del racconto televisivo è di certo singolare (come hanno scritto prima Travaglio e poi Fini) che nulla di nulla la fiction dedichi al chi, al come e al perché di quello che è stato il primo agguato mortale del terrorismo "rosso". La prima volta che dei "compagni" diventavano degli assassini.
Singolare sino a un certo punto. In Italia è pressoché invalicabile il muro fatto di omertà generazionale e di viltà intellettuale che copre l'assassinio Calabresi e dunque la vicenda giudiziaria fatta partire (nell'estate del 1988) dalle confessioni di Leonardo Marino, il militante di Lotta continua che guidava l'auto su cui risalì l'assassino di Calabresi.
Una vicenda giudiziaria infinita, suggellata da una condanna definitiva a 22 anni di Ovidio Bompressi (quello che spara), Giorgio Pietrostefani (il "duro" della Lotta continua milanese che avrebbe organizzato l'agguato), Adriano Sofri (il leader carismatico che avrebbe dato il suo suggello morale al tutto).
Una vicenda di cui meno si parla e meglio è, e difatti nella fiction se ne accenna furtivamente solo nei titoli di coda. Ne parlo per esperienza diretta. Una volta che Claudio Sabelli Fioretti mi stava interrogando e mi chiese chi fossero stati gli assassini di Calabresi, a me parve fin troppo ovvio rispondere che era stato un commando di Lotta continua e che era un bel drappello quello degli ex dirigenti di Lotta continua che sapevano com'era andata.
Successe il finimondo. Luca Sofri, il figlio di Adriano, scrisse che io e Sabelli eravamo dei killer. Uno dei pochi "ex" di Lotta continua che la pensavano come me, Claudio Rinaldi (il miglior direttore di giornali della mia generazione), venne intervistato dal "Corriere della Sera" e lo disse anche lui che non c'erano dubbi che a uccidere fosse stato un commando di Lc. Ebbene il redattore del gran quotidiano lombardo, appose all'intervista un titolo che era all'opposto del pensiero di Rinaldi.
Più tardi ho scritto un libro sull'argomento. Gelo assoluto, e a parte un bellissimo articolo del mio amico fraterno Aldo Cazzullo. Fra quelli che conoscevo ce n'erano che si dichiaravano esterrefatti che io avessi voluto scrivere un libro talmente malintenzionato. Ma chi me lo faceva fare, perché? Alcuni di quelli che si ergevano a difesa dell'innocenza di Lc, lo vedevi bene che non conoscevano una pagina che fosse una di quello sterminato materiale giudiziario.
E del resto uno scrittore e intellettuale che stimo, lo aveva scritto su una rivista da lui diretta. Che se ne vantava di non aver voluto leggere nemmeno una pagina di quelle circa 600 pagine a stampa dove sono trascritte le motivazioni della condanna di primo grado: dov'è enorme la mole di dati e di fatti che corroborano la confessione di Marino.
Perché mai avrebbe dovuto leggerle dato che il tutto si riduceva a un complotto di magistratura e polizia contro "i compagni di Lc"? Tutta robaccia, tutte invenzioni. A leggere quella sua vanteria gli mandai un sms più agro che dolce. Non mi ha mai risposto. Gelo. Silenzio. Omertà.
Massimo Fini per "Il Fatto Quotidiano" il 16 gennaio 2014. Nel serial documentaristico Gli anni spezzati (gli anni di piombo) Rai Uno si è anche occupata dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio del 1972. Quella mattina mentre il commissario usciva di casa, in via Cherubini 6, e stava per salire sulla sua 500, fu avvicinato alle spalle da un uomo che sparò due colpi di pistola, uno alla nuca, l'altro alla schiena, poi risalì su una 125 blu guidata da un complice e sparì nel traffico.
É curioso che in questo documentario, nel complesso abbastanza sgangherato non si facciano mai i nomi degli assassini (se non nei titoli di coda): Adriano Sofri, il leader carismatico di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani, il suo braccio destro, condannati a 22 anni di carcere come mandanti, di Ovidio Bompressi e Leonardo Marino esecutori materiali del delitto (il primo sparò, il secondo guidava la 125 blu).
Come se si volesse rimuovere dalla memoria dell'opinione pubblica non solo i responsabili di quel delitto ma anche l'ambiente in cui maturò. É strabiliante che si tenti questa obliterazione mentre, pur essendo quei fatti assai lontani, molti testimoni del tempo sono ancora vivi.
Io sono fra questi. Nel 1972 facevo il cronista all'Avanti! e abitavo in via Verga a non più di duecento metri da via Cherubini. Fui uno dei primi ad arrivare sul luogo del delitto. Il corpo di Calabresi era già stato portato via, ma sull'asfalto c'erano ancora pozze di sangue mentre qualcuno stava spazzando via, mischiandoli a della segatura e buttandoli in una di quelle palette che servono per sbarazzarsi della spazzatura, brandelli di cervello.
Lotta Continua e il suo settimanale, di cui erano o erano stati o sarebbero stati direttori-prestanome intellettuali di più o meno chiara fama, da Piergiorgio Bellocchio a Pio Baldelli, Pasolini, Adele Cambria, Pannella, Giampiero Mughini, aveva condotto una feroce campagna contro il commissario Calabresi accusandolo di essere il responsabile della morte dell'anarchico Pino Pinelli "caduto" nella notte fra il 15 e il 16 dicembre dal quarto piano della Questura di Milano dopo tre giorni di interrogatori in seguito alla strage di Piazza Fontana avvenuta pochi giorni prima (12 dicembre).
Conoscevo bene gli ambienti anarchici. Nel 1962 quando facevo la prima liceo al Berchet, un gruppo di giovanissimi anarchici aveva rapito a Milano il viceconsole spagnolo (a cui peraltro non verrà torto un capello) per cercare di impedire la condanna a morte di un antifranchista, Conill Valls.
Alcuni di quel gruppo venivano dal Berchet, ne erano usciti da pochissimo. Altri giovani anarchici, Tito Pulsinelli, Joe Fallisi, Della Savia li avevo conosciuti in seguito in uno dei bar di Brera, frequentato anche da Calabresi, poliziotto moderno, abile e accattivante, che girava in maglione, avevo incontrato anche Pino Pinelli, più anziano degli altri, sulla quarantina, che faceva il ferroviere.
Pinelli era il classico anarchico d'antan, lo era culturalmente e sentimentalmente, ma come uomo era mitissimo, uno che non avrebbe fatto del male a una mosca. Che si fosse gettato dal quarto piano gridando "É la fine dell'anarchia!" andandosi a spiaccicare nel cortile della Questura, che era la versione della polizia, pareva a tutti inverosimile.
Da qui la campagna contro Calabresi (che verrà poi assolto da ogni addebito perché al momento del volo di Pinelli non era nella stanza, c'erano altri poliziotti) condotta da Lc ma anche, sia pur con toni meno accesi, dall'Espresso e dall'Avanti!. Le indagini invece di puntare su Lotta Continua, il cui giornale nel titolo e nell'editoriale di Sofri aveva sostanzialmente plaudito all'omicidio (c'era stata anche una riunione del Direttivo di Lc in cui si era discusso se attribuirsene anche materialmente la paternità) si diressero a destra.
Perché in quegli anni postsessantottini in cui quasi tutti i giornali e i giornalisti se la davano da rivoluzionari era un delitto di lesa maestà indagare a sinistra, anche se la stella a cinque punte delle Br aveva già cominciato a brillare. Mi ricordo il tempo che si perse a seguire le piste di un giovane estremista di destra, Gianni Nardi, figlio di una facoltosa famiglia di San Benedetto del Tronto. Passarono così inutilmente gli anni e alla fine l'omicidio Calabresi fu archiviato fra i tanti casi irrisolti della recente, e torbida, storia italiana.
Sedici anni dopo, nel 1988, Leonardo Marino, un ex operaio della Fiat, ex militante di base di Lc, che vendeva frittelle in un baracchino ambulante di Bocca di Magra, mentre molti suoi compagni di origine borghese, Sofri compreso, si erano ben sistemati nei giornali, nell'editoria, nella politica e, più in generale, nell'intellighentia, si autodenunciò per l'omicidio Calabresi: lui e Ovidio Bompressi erano stati gli esecutori materiali, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani i mandanti.
Marino non era un pentito, diciamo così, classico, non era in prigione, non era indagato, nessuno lo cercava, viveva tranquillo a Bocca di Magra, non aveva nessun interesse a confessare un omicidio che gli sarebbe costato undici anni di galera (anche se poi, grazie proprio alla capacità degli altri imputati a portare il processo per le lunghe, la sua pena cadrà in prescrizione, ma al momento della sua confessione Marino questo non poteva saperlo).
Al processo, iniziato nel novembre del 1989, Sofri e gli altri si difesero malissimo. Negando anche l'evidenza. Negando che esistesse un secondo livello di Lc dedito agli "espropri proletari", cioè alle rapine. Una di quelle rapine fu compiuta con la mia macchina, una Simca coupè rossa che un mio amico, Ilio Frigerio, militante di Lc, mi aveva chiesto per uscirci, disse, con una ragazza, la sera.
Me l'avrebbe riportata la mattina dopo. E in effetti la mattina la macchina, intatta, era nel mio garage. Qualche tempo dopo Ilio mi confessò che aveva dato la mia macchina ad altri militanti di Lc che avevano bisogno di un'auto "pulita" per fare una rapina. In quanto a Pietrostefani dalle sue dichiarazioni sembrava che in Lc fosse stato solo di passaggio. Mentre tutti sapevano che se Sofri era l'ideologo Pietrostefani era il capo dell'organizzazione. "Chiedilo a Pietro", dicevano i militanti di Lc quando c'era un problema di questo genere da risolvere.
Durante i vari processi che si conclusero nel 1997 con una condanna definitiva della Cassazione, e anche dopo, venne fuori tutto il ripugnante classismo dell'entourage degli ex Lotta Continua (Roberto Briglia, Gad Lerner, Luigi Manconi, Marco Boato, Paolo Zaccagnini, Enrico Deaglio, Guido Viale): la testimonianza di Leonardo Marino non valeva niente, perché era un venditore di frittelle, un ex operaio, un plebeo, niente a che vedere con la raffinatissima intelligenza di Sofri. Una degna conclusione per chi era partito per buttare giù dal trespolo i padroni.
Sofri ha avuto otto processi, due sentenze interlocutorie della Cassazione, una assolutoria (la cosiddetta "sentenza suicida" perché il dispositivo era volutamente in stridente contraddizione con la motivazione), quattro condanne. Ha goduto anche di un processo di Revisione, a Venezia, cosa rarissima in Italia che probabilmente nemmeno Silvio Berlusconi riuscirà a ottenere. E anche il processo di Revisione ha confermato la sentenza definitiva della Cassazione del 1997.
Nessun imputato in Italia ha mai avuto le garanzie di Adriano Sofri. Nonostante tutto ciò la potente lobby di Lotta Continua, divenuta trasversale e incistata in buona parte dei media, ha continuato a proclamare a gran voce la sua innocenza e a pretenderne la scarcerazione per grazia autoctona del Capo dello Stato.
Nel frattempo Sofri è diventato editorialista principe del più venduto settimanale di destra, Panorama, e del più importante quotidiano della sinistra, La Repubblica. Per meriti penali, suppongo, perché in tutta la sua vita Sofri ha scritto solo due pamphlet, mentre proprio la prigionia gli avrebbe dato la possibilità di scrivere, perché il carcere è un posto atroce ma ha infiniti tempi morti (Caryl Chessman, Il bandito della luce rossa, condannato a morte per dei presunti stupri, scrisse in galera quattro libri, fra cui due capolavori : Cella 2455 braccio della morte e La legge mi vuole morto).
Quando, a volte, un'università o qualche liceo mi invitano a tenere lezioni di soi-disant giornalismo e, alla fine, i ragazzi mi si affollano attorno e mi chiedono come si fa a diventare giornalista, rispondo: "Uccidete un commissario di polizia o, se non avete proprio questo stomaco, prendete tangenti come Cirino Pomicino".
Indubbiamente Adriano Sofri, da giovane, aveva un indiscutibile carisma. Anche un uomo di forte personalità come Claudio Martelli ne subiva il fascino se ha chiamato Adriano uno dei suoi figli in omaggio all'amico. Io questo fascino non l'ho mai capito. Era piccolo, mingherlino, il mento sfuggente del prete, l'aspetto molliccio per nulla virile.
Ma, si sa, le vie del carisma sono misteriose. Il giornale di Lotta Continua pubblicava le foto, i nomi, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di fascisti o presunti tali, alcuni dei quali aggrediti sotto casa, specialità della ditta, sono finiti in sedia a rotelle. Almeno questo dovrebbe far riflettere i difensori d'ufficio di Adriano Sofri.
Dagospia il 16 gennaio 2014. Polemiche sulla fiction su Calabresi, gli anarchici del Ponte della Ghisolfa: ‘Operazione orribile che ci ha ferito’ – Caccia agli errori e alle inesattezze sul web (il manifesto contro Casapound nel 1969!) – Crainz: ‘Non accennare al golpe Borghese, cancellare la pesante presenza dei neofascisti: quelle sono colpe’…
Silvia Fumarola per ‘La Repubblica' il 14 gennaio 2014.
«Si difenderanno dicendo che una fiction è un'opera di fantasia, ma allora non dovevano chiamare il commissario col nome di Calabresi e non dovevano ambientarla a Milano ma in una città di fantasia. Hanno fatto un'operazione orribile che ci ha ferito». Mauro Decortes, portavoce del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, critica Gli anni spezzati-Il commissario la contestatissima serie di Graziano Diana trasmessa su RaiUno.
Operazione ambiziosa, raccontare gli anni 70, che ha scatenato polemiche feroci. Dopo il film su Calabresi con Emilio Solfrizzi, il 14 e il 15 andrà in onda quello dedicato al rapimento del giudice Sossi; chiude la trilogia, il 27 e il 28, la storia di un immaginario dirigente Fiat che combatte il terrorismo in fabbrica mentre la figlia abbraccia la lotta armata.
«Il bar degli anarchici a Milano non è mai esistito» spiega Decortes «Ma l'operazione è sottile: lo spettatore ha l'impressione di entrare in un bar di malviventi. Se alla fine si fa capire che non hanno messo la bomba, restano lo stesso delinquenti e drogati». Twitter demolisce la fiction «revisionismo storico in diretta», scena per scena, dai dialoghi ai costumi ai "buchi" nel racconto.
Un errore clamoroso viaggia in rete, notato da quelli che sono considerati gli anarchici del terzo millennio, il collettivo Militant. Durante una perquisizione nella stanza di un anarchico appare un manifesto contro Casapound. «Nel 1969! Con 40 anni d'anticipo! C'eravamo sbagliati», si legge sul sito antagonista «questo non è RAIvisionismo storico; questo è RAIvisionismo futurista».
Guido Crainz, docente di Storia contemporanea nella Facoltà di Scienze della comunicazione dell'Università di Teramo boccia la serie: «Tralasciamo i dettagli, che pure hanno colpito il pubblico e hanno valore. Nel momento in cui scompare il clima dell'autunno caldo, quello che accade dopo resta incomprensibile» spiega il professore
«Questo per me è l'aspetto centrale. Non se ne fa cenno e risulta incomprensibile, nella seconda puntata, l'emergere della pista nera. All'inizio del racconto non si spiega mai che la stragrande parte degli atti violenti sono fascisti: penso alle bombe dell'aprile e dell'agosto ‘69. La responsabilità principale è far scomparire le offensive di quei mesi, ignorare la pista nera, che era battibile da subito».
Un'altra pecca, secondo lo storico, è che gli autori non sono riusciti a restituire l'immagine autentica dell'Italia di quegli anni. «Manca il clima sociale» dice lo storico. «Quella rappresentata è un'Italia finta, inesistente. Non faccio il processo alle intenzioni, vedo una falsificazione del periodo. Poi ho trovato che altri aspetti, invece, sono stati curati, senza omissioni: come il fermo protratto di Pinelli. Alcuni punti chiave ci sono, e sono spiegati allo spettatore. Per esempio mentre Pinelli scompare, Calabresi dice: "È la mia stanza, quelli sono i miei uomini"».
«Per capire quale fosse il clima di quegli anni» continua Crainz, «c'è un documentario straordinario di Giuseppe Fiori e Sergio Zavoli, Quelli che perdono, trasmesso da
Tv7 il 19 dicembre del 1969: partiva dalla folla ai funerali delle vittime di Piazza Fontana». E qui si apre il discorso sul ruolo del servizio pubblico «che ha una grande responsabilità quando si tratta di raccontare la storia di questo Paese. Che sia un prodotto di quart'ordine si vede, ma è insensato prendersela con gli attori» dice Crainz «fanno il loro lavoro, la colpa è nella scrittura.
Non accennare al golpe Borghese, trattare in quel modo la morte di Annarumma, quelle sono colpe. Cancellando la pesante presenza dei neofascisti - c'è solo una scritta su un muro - si deforma tutto, non si capisce come nasca la pista nera. E infatti leggo che ai giornali di destra la serie è piaciuta... La sinistra da salotto, il modo di rappresentare Pansa o la Cederna, certe fesserie non le considero. Il punto è questo: scompaiono i fascisti, le ragioni da cui nasce la strage di Piazza Fontana, e scusate se è poco. Dietro quella strage c'è tutto quello che sarebbe successo dopo».
Giampaolo Pansa per “Libero Quotidiano” il 24 giugno 2015. Sotto i chiari di luna del giugno 2015 siamo costretti a riparlare di Adriano Sofri, arruolato dal ministro della Giustizia come grande esperto di carceri. I giornali oggi in edicola saranno pieni di ritratti del vecchio capo di Lotta Continua. Ma temo che scriveranno assai di meno del vero protagonista di uno dei drammi italiani degli anni Settanta: il commissario Luigi Calabresi. Chi è morto giace, chi è vivo si dà pace. E conquista una poltroncina governativa. E allora io parlerò di quel funzionario dello Stato ucciso al culmine di una campagna d’odio scatenata contro di lui dalla truppa al comando di Sofri. Era una mattina di fine marzo del 1972, uno dei giorni del caso Feltrinelli, e noi cronisti stavamo mendicando notizie alla questura di Milano. Nella stanza di Antonino Allegra, che dirigeva la sezione politica, ci fu un incontro casuale con quel giovane commissario linciato su tutti i muri della città. Calabresi indossava il solito maglione girocollo e appariva travolto dall’amarezza. Mi disse: «Da due anni vivo sotto questa tempesta e lei non può immaginare che cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere». Continuò quasi tra sé: «Non riesco più a muovere un passo. L’altro giorno è bastato che mi vedessero uscire dall’obitorio per sostenere che avevo cominciato a trafficare con il cadavere di Feltrinelli». Si prese la testa tra le mani e mormorò: «Ma che Paese è mai diventato questo?». Allegra, il capo di Calabresi, lo ascoltava in silenzio. Poco prima si era discusso dei nuovi nuclei di terroristi che, mese dopo mese, diventavano più aggressivi. «Speriamo che non comincino a sparare sui poliziotti!», sospirò Allegra. Guardai Calabresi e gli chiesi se avesse paura. Mi rispose: «Paura no, perché ho la coscienza tranquilla. Ma è terribile lo stesso. Potrei farmi trasferire da Milano, però non voglio andarmene di qui». Poi, dopo un lungo silenzio ribadì: «No, non ho paura. Ringraziando Iddio, trovo in me stesso, nei miei princìpi, nell’educazione che ho ricevuto, la forza per superare questa prova». Il commissario tentò di sorridere. Ma in quella stanza si avvertiva un gelo quasi mortuario. Calabresi aveva gesti nervosi e si muoveva a scatti. Nella memoria ho il ricordo di un essere umano che si sentiva un animale braccato. Due mesi dopo, la mattina del 17 maggio 1972, rividi Calabresi steso sul selciato con tre proiettili in corpo. Allora non pensai: ecco una morte annunciata! Non lo pensai perché il romanzo di Gabriel Garcia Marquez sarebbe uscito con quel titolo soltanto dieci anni dopo.
Tuttavia mi dissi: gli italiani onesti dovrebbero piangere un uomo perbene che aveva cominciato a morire la sera della strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969. Calabresi, 33 anni, sposato con Gemma Capra e padre di due bambini, si era trovato dentro uno dei buchi neri della storia italiana. La bomba alla Banca dell’Agricoltura era esplosa da qualche ora e la sensazione di molti era che si trattasse di un ordigno collocato da anarchici. La questura di via Fatebenefratelli cominciò a fermare gente di quell’area politica. Tra loro c’era Giuseppe Pinelli, un ferroviere allora sconosciuto a tutti, ma non ad Allegra e a Calabresi.
Tante volte l’avevano notato nei cortei e spesso convocato per accertamenti. Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre, il commissario lo vide davanti al circolo anarchico di via Scaldasole e gli disse: «Venga in questura, è una formalità». Pinelli seguì con il motorino la Fiat 850 della polizia. Fu un tragitto lento attraverso il traffico convulso di Milano, nebbia, smog, folla nelle strade. Andava adagio verso una fine orrenda. Tre sere dopo, Pinelli volò da una finestra dell’ufficio politico e si schiantò in un giardinetto stento della questura, coperto di neve sporca. Emerse un altro mistero. Molti pensavano che il ferroviere anarchico fosse stato scaraventato nel cortile da uno degli agenti del commissario.
Ma poteva anche aver deciso di morire. Oppure la caduta era stata accidentale, durante una pausa dell’interrogatorio. Ancora oggi, quarantacinque anni dopo, l’unica certezza è che assieme a Pinelli cominciò a morire anche Calabresi. La sentenza la scrissero, giorno dopo giorno, quasi tutti i gruppi della sinistra eversiva. Loro non avevano dubbi: a uccidere Pinelli era stato il commissario. Di prove non ne esistevano, ma in quel tempo di follia sovversiva era soltanto un dettaglio senza importanza. Cominciò un linciaggio feroce che sarebbe durato più di due anni. Il giornale di Lotta Continua fu il più spietato in quella campagna odiosa.
Articoli, commenti, vignette lanciavano un solo grido: Calabresi assassino! Ricordo un disegno che gelava il sangue. Con una ghigliottina giocattolo, il commissario insegnava alla figlia bambina come tagliare la testa a una bambola con la “A” degli anarchici sulla camiciola. L’odio nei confronti di Calabresi fu un delirio che travolse anche ottocento big della cultura, della scienza, della mondanità e del giornalismo italiani. Pronti a firmare un manifesto pubblicato dall’Espresso che indicava nel commissario il torturatore e l’assassino di Pinelli. Un vergogna assoluta di cui, in seguito, soltanto pochissimi si dichiararono pentiti. Ma in quel modo il cerchio di fuoco si chiudeva. Le eccellenze firmavano.
E nei cortei si urlava: «Calabresi sarai suicidato!». Quando fu promosso commissario capo, i muri di Milano vennero tappezzati di manifesti che lo mostravano con le mani lorde di sangue. Un scritta spiegava: «Così lo Stato assassino premia i suoi sicari». Calabresi divenne il simbolo del poliziotto da annientare. Poi ci fu la trafila che molti di noi, cronisti con i capelli bianchi, ricordano. La querela per diffamazione del commissario a Lotta continua, la denuncia contro di lui della vedova Pinelli, la comunicazione giudiziaria per omicidio volontario, spedita a Calabresi da una magistratura fuori di senno.
Il commissario disse: «Ho fiducia nella giustizia», ma non ebbe mai la possibilità di difendersi in un processo. Nel frattempo, la Milano rossa era diventata una città di pazzi. Quando la signora Gemma andò all’obitorio per vedere il cadavere del marito, all’uscita fu costretta a passare tra due ali di giovani isterici e maneschi che la insultarono, cercando di coprirla di sputi. Non credevo di dover ripetere quello che avevo scritto nel 1972. Mi ha costretto a farlo il colossale errore di un giovane ministro della Giustizia che in un Paese normale si sarebbe già dimesso.
Ha mostrato più saggezza Adriano Sofri. Oggi ha 73 anni, scrive su giornali pesanti, viaggia in tante parti del mondo, pontifica. Da leader dei lottacontinua mostrava tutta intera la propria arroganza. Era gonfio di disprezzo per chi non la pensava come lui, sembrava pervaso da un odio politico assoluto. La sua rinuncia alla poltroncina è la prova che la vecchiaia un po’ di buon senso te lo regala.
Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 2 gennaio 2016. Antonino Allegra aspettava la morte. Per gli insistenti attacchi delle malattie (conseguenze d' una pesantissima bronchite nel 2003, che l' aveva costretto a rinunciare alle adorate sigarette), per la spossante stanchezza della vecchiaia (aveva 91 anni) e per svelare i propri segreti. In un libro di memorie. Rigorosamente postumo. Questo pomeriggio, nella parrocchia Regina Pacis di via Quarenghi, nel quartiere di Bonola, periferia Nordovest, non lontano dall' abitazione in un anonimo palazzo di sette piani, si terranno i funerali dell' ex poliziotto, questore a Trieste e Torino, direttore al ministero dell' Interno dell' Ufficio ispettivo, ma nell' opinione pubblica rimasto «legato» al dicembre 1969, quand' era capo dell' Ufficio politico della Questura di Milano. Piazza Fontana, Giuseppe Pinelli. Gli ultimi anni di vita, dopo essersi ritirato in pensione in anticipo per star vicino alla moglie bisognosa di cure, Allegra li ha trascorsi a scrivere. Pagine e pagine per raccontare quello che i giornalisti hanno invano continuato a chiedergli. Ovvero che cosa davvero successe, in quelle vicende come nel delitto di Luigi Calabresi, nel 1972. Allegra, spentosi mercoledì, non aveva mai risposto. Al telefono, al citofono, braccato per strada nelle passeggiate verso il bar, aveva sempre taciuto. Ora c' è il libro che il figlio Salvatore, imprenditore, pubblicherà. «Aveva chiesto di farlo soltanto alla sua scomparsa. Anche con me ha evitato certi discorsi. Diceva che non ero pronto...Ha pianificato tutto. Come il "secondo" matrimonio, da vedovo, con una donna albanese che s' era occupata di mia mamma malata e che successivamente ha seguito papà. Era scappata da Tirana perché perseguitata. L' ha sposata per garantirle un futuro sereno». Chi è stato Allegra? Quanto ha inciso, nel resto dei suoi giorni, l' anno tragico 1969? Su Pinelli ha «coperto» responsabilità? Ha difeso qualcuno? E per quale motivo non ha mai voluto pubblicamente «difendersi»? Il figlio Salvatore dice che ripeteva una frase: «Sono un funzionario dello Stato e ho il dovere di mantenere il segreto». Ma è chiaro che non può bastare. O forse sì. Nel luglio 2000, nella seduta numero 73 della Commissione parlamentare d' inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Allegra ascoltò gli interrogativi di senatori e deputati. Domanda: «Perché subito dopo piazza Fontana le indagini vennero indirizzate sugli anarchici?».
Risposta di Allegra, una persona corpulenta con voce ferma, originario di Santa Teresa di Riva, novemila abitanti sul mare, in provincia di Messina: «Non è vero... Non dicemmo che si trattasse di certi o di altri... Si decise di accompagnare in Questura il maggior numero possibile di esponenti di gruppi di estrema destra e di estrema sinistra».
Domanda: «Il dottor Calabresi per anni seguì i fatti relativi all' estrema sinistra... Chi è in una certa area viene a conoscenza di notizie che non verbalizza perché rimangono confidenze... Può essere che sia arrivato a scoprire qualcosa di molto importante per cui doveva essere fermato?». Risposta di Allegra: «Se avesse scoperto qualcosa di molto importante lo avrei saputo».
L' addio a Milano cadde nella seconda metà degli anni Settanta. E altri avvenimenti, con al centro il furore sanguinario delle Brigate rosse, incrociarono la storia di Allegra.
Il quale, per ammissione del figlio che ha scelto un altro percorso («Ne faccio parte da ventisei anni»), nonostante la forte insistenza «declinò le offerte della Massoneria». Conosceva mezza Italia, Antonino Allegra. Compreso Silvio Berlusconi che, riferisce il figlio, «è stato il mio padrino alla cresima». Ma tornando alle memorie, a che punto sono?
«Non posso anticipare... C' è un unico giornalista, che papà apprezzava: Pansa... E sappia che, ad esempio su Pinelli, tanto non è stato svelato». Com' è morto l' anarchico? «Nessuno vuol credere a un ruolo del Kgb...
Papà... conosceva forse troppo... Adesso verrà alla luce. No, aspetti, nessuna strategia di marketing, nessuna volontà di approfittarmi della situazione... Ho amato mio padre, mi ha dato e insegnato la vita. Il libro è un atto doveroso, anzi obbligatorio».
Alessandro Sallusti per ''Il Giornale'' il 21 maggio 2017. Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano la Repubblica, ieri sul suo giornale ha scritto un lungo (e noioso come sempre) articolo zeppo di insulti contro Vittorio Feltri e chi, come noi, sostiene che lui e tanti altri intellettuali e giornalisti furono, nel 1971, i mandanti morali e politici dell' omicidio del commissario Calabresi di cui in questi giorni cade l' anniversario. Firmarono un appello, questi fenomeni, che sapeva di condanna a morte, che infatti poco dopo fu eseguita dai compagni di Lotta continua. Oggi, a distanza di quarantacinque anni, Scalfari scrive che noi siamo «ciarpame» e svela di avere recentemente chiesto personalmente scusa alla vedova Calabresi per quella sciagurata firma sull' appello del 1971. Questo mascalzone pensa insomma che l' omicidio Calabresi sia stato, e sia ancora oggi, un fatto privato tra lui e i familiari della vittima, come fanno i banditi comuni pentiti - spesso per convenienza processuale - dei loro «raptus». No Scalfari, quell' appello non fu un «raptus» ma la libera scelta di stare dalla parte sbagliata - come poi si è dimostrato - della storia e per di più in modo criminale. Che oggi diventa furbo, perché non vuole ammetterlo né pagare pegno. Per Scalfari il «ciarpame» siamo noi, che Calabresi lo avremmo difeso fisicamente se ne avessimo solo avuto la possibilità, non lui e i suoi amici killer. È incredibile come in questo Paese ci sia gente in galera per «concorso esterno in associazione mafiosa» e quelli che fecero «concorso esterno in associazione terroristica» l' abbiano sfangata e ancora oggi si permettano di pontificare e giudicare. Essere di sinistra è stato per troppo tempo un salvacondotto che ha fatto più danni che se lo avessimo concesso a Vallanzasca. Ma adesso basta, Scalfari. Gente così dovrebbe togliersi di mezzo, ha perso su tutti i fronti. Questo giornale, per il coraggio e la visione, è stato fin dall' inizio dalla parte che la storia ha dimostrato essere quella corretta, non la Repubblica e l' utopia socialista che tanti danni ha fatto e continua a fare. Purtroppo sotto la regia di un direttore che porta lo stesso cognome del commissario Calabresi.
Adriano Scianca per ''La Verità'' il 21 maggio 2017. Forse anche voi avete un vecchio zio che insiste, di tanto in tanto, per somministrarvi interminabili pistolotti conditi da ricordi sbiaditi e rimbrotti bacchettoni. Ci sta e ve li sorbite. I vostri zii, tuttavia, non sono autoproclamate «autorità morali» di questa nazione, non scrivono su uno dei principali giornali del Paese e soprattutto non inquinano le acque rispetto a uno degli episodi più tragici della storia italiana: l' omicidio del commissario Luigi Calabresi. A meno che non siate i nipoti di Eugenio Scalfari. A pochi giorni dal 45° anniversario di quell' assassinio, Barbapapà usa il quotidiano diretto dal figlio del commissario, Repubblica, per dichiarare che la sua firma nel famoso appello contro Calabresi fu un errore. Ma lo fa al termine di una serie di ricordi confusi, salti logici, omissioni colpevoli, narcisistiche divagazioni, inconcludenti parentesi, revisionismi interessati, scorrettissimi ammiccamenti, per cui alla fine la toppa è di gran lunga peggiore del buco. L' idea, dice, sarebbe quella di «ricordare il tema» e «aggiungere qualcosa che fino ad oggi era rimasto un fatto privato» al fine di «chiarire una vicenda che coinvolse in qualche modo l' Italia democratica (e anche quella antidemocratica)». Caspita. Detta così par di capire che il giornalista stia per tirare fuori dai suoi archivi qualche fatto cruciale di cui lui è stato testimone e che potrebbe far luce su un caso controverso. Diciamo subito che nell' articolo non c' è nulla di tutto questo, solo una ricostruzione da Wikipedia del contesto dell' epoca e un bislacco tentativo finale di sfilarsi dall' accusa di corresponsabilità morale, mossa da più parti nei confronti di tutti i 757 intellettuali, giornalisti e politici che sottoscrissero l' appello dell' Espresso sui «commissari torturatori», i «magistrati persecutori» e i «giudici indegni». Per infiocchettare il suo temino sugli anni Settanta, e soprattutto per scagionare gli anarchici dall' accusa di aver compiuto la strage di piazza Fontana, Scalfari ha pensato bene di buttare lì, per vedere l' effetto che fa, qualche dato storico a casaccio. Scrive il fondatore di Repubblica: «La parte violenta degli anarchici non aveva mai infierito contro la popolazione anonima, com' era accaduto alla Banca dell' Agricoltura. I suoi obiettivi semmai erano persone molto potenti. Così agivano certi anarchici non solo in Italia ma anche in Europa e in altri paesi: il regicidio. E così era stato ucciso Umberto I re d' Italia e qualche anno dopo a Sarajevo uno dei figli dell' imperatore d' Austria scatenando in quel caso addirittura la prima guerra mondiale 1914-'18». Ora, già spiegare i fatti degli anni Sessanta e Settanta ricorrendo a questioni antecedenti la Grande guerra è esercizio discutibile. Se poi l' esempio pesca dati a caso, la situazione non migliora. Il politologo Alessandro Campi ha avuto buon gioco, infatti, nel bacchettare Scalfari su due sviste storiche: «Francesco Ferdinando, ucciso a Sarajevo, non era il figlio dell' imperatore Francesco Giuseppe, ma il nipote; il suo assassino Gavrilo Princip non era un anarchico, come Gaetano Bresci attentatore di Umberto I, ma un nazionalista serbo», ha scritto lo studioso sul suo profilo Facebook, polemizzando con il giornalista. Errori veniali, ma quando si parla come il verbo dell' impegno civile incarnato ci si espone anche alle pernacchie. Ma c' è di peggio: in tutto l' articolo si cercheranno invano le parole «Lotta» e «Continua». Calabresi, semplicemente, a un certo punto viene ucciso. Da chi? Mistero. Eppure qui dei colpevoli, almeno per la giustizia italiana, ci sono, con tanto di sentenze definitive. Ma se non si ricorda che Calabresi fu ucciso da un commando di estrema sinistra, non si capisce bene tutto l' imbarazzato giro di parole di Scalfari sul punto che gli sta veramente a cuore: l' appello dell' Espresso. Anche qui, però, la reticenza la fa da padrona: il testo, scrive il giornalista, «fu stilato» e «fu discusso da un gruppo del quale anch' io facevo parte». Bizzarra perifrasi per non dire: «Anche io firmai». E infatti, leggendo il testo, non si capisce proprio che Scalfari firmò. Né si entra nel merito del testo, se non per dire pudicamente che vi si chiedeva «l' allontanamento del commissario Calabresi dalla sua sede di lavoro». Nessun accenno ai «commissari torturatori». Raccontata così, sembra una cosa innocua. Anzi, una cosa chic, dato che Scalfari si dà la pena di aggiungere che, tra i firmatari, c' erano anche Rossana Rossanda e Umberto Eco. Un appello che piace alla gente che piace, quindi. Poi, nel finale, Scalfari tira fuori il coniglio dal cilindro: le scuse fatte alla signora Gemma, la vedova Calabresi, nel 2007. «Parlammo brevemente dei fatti del passato, del manifesto e delle firme, le dissi che quella firma era stata un errore. Lei accettò le mie scuse e si commosse». Un modo brillante per cavarsi d' impaccio: tirare in ballo la vedova per zittire i critici. Che classe. Salvo che i chiarimenti fra le persone appartengono all' aspetto umano della vicenda, le colpe politiche restano tutte lì, in attesa di un' autocritica che probabilmente non vedremo mai. Ma, sfortunatamente, abbiamo fatto in tempo a vedere il finale di questo articolo, in cui si ha il coraggio di citare «il figlio Mario, che allora era corrispondente di Repubblica da New York e che ora, da oltre un anno, dirige questo giornale».
Ha dato anche il suo giornale al figlio di Calabresi, come vi permettete di scocciarlo ancora?
Davvero elegantissimo.
Paolo Biondani per l’Espresso il 2 novembre 2017. Pier Paolo Pasolini era spiato dall'ufficio D del Sid, il famigerato reparto dei servizi segreti militari che negli stessi anni stava inquinando e depistando le indagini sulla strage nera di Piazza Fontana. E poco prima di essere ucciso, il grande scrittore si scambiava lettere riservate con Giovanni Ventura, il terrorista di destra, legato proprio al Sid, che dopo l'arresto e mesi di carcere sembrava sul punto di pentirsi e aveva cominciato a confessare le bombe sui treni dell'estate 1969 e gli altri attentati preparatori della strategia della tensione. Un carteggio inedito, durato sette mesi, che ha portato l'intellettuale di sinistra a chiedere apertamente all'ex editore neonazista di uscire finalmente dall'omertà e raccontare tutta la verità sull'attentato che ha cambiato la storia d'Italia. Sono passati esattamente 42 anni dalla morte violenta di Pasolini, assassinato nella notte tra l'1 e il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Per il brutale omicidio dello scrittore, regista e polemista scomodo, c'è un unico colpevole ufficiale: Pino Pelosi, 17enne all'epoca del delitto, condannato dal tribunale minorile a nove anni e sette mesi, scarcerato nel 1983, morto nel luglio scorso dopo una lunga malattia. I familiari, gli amici più stretti, gli avvocati di parte civile e molti studiosi sono sempre stati convinti, come gli stessi giudici di primo grado, che l'omicidio sia stato deciso da mandanti rimasti occulti ed eseguito da altri complici, probabilmente un gruppo di criminali legati alla destra eversiva, come lo stesso Pelosi aveva finito per confermare, tra molte reticenze (giustificate dalla paura di vendette anche sui parenti), in una celebre intervista televisiva alla Rai. Ora un nuovo libro-inchiesta, firmato da Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna, e da Andrea Speranzoni, avvocato e saggista, chiede ai magistrati di Roma di riaprire le indagini sull'omicidio Pasolini. Per approfondire nuove piste investigative, portate alla luce grazie alla digitalizzazione dell'enorme archivio del processo di Catanzaro su Piazza Fontana: tonnellate di carte rimaste sepolte dagli anni Settanta negli scantinati giudiziari, trasportate a Milano e a Brescia negli anni Novanta per far ripartire le inchieste sulle stragi impunite, e poi scannerizzate da una cooperativa di detenuti di Cremona. Con il risultato di rendere accessibili e ricercabili decine di migliaia di documenti perduti, dimenticati e in qualche caso del tutto inediti. Il libro, “Pasolini. Un omicidio politico” (prefazione di Carlo Lucarelli, editore Castelvecchi) viene presentato dai due autori giovedì 2 novembre nella sala Aldo Moro della Camera dei deputati, dove è atteso l'intervento dell'avvocato Guido Calvi, che come parte civile fu il primo a denunciare, insieme al collega Nino Marazzita, i possibili complici neri che terrorizzavano Pelosi. Paolo Bolognesi, che è anche deputato, è il primo firmatario della proposta di legge per istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sull'omicidio Pasolini. Negli atti dello storico processo di Piazza Fontana, in particolare, gli autori del libro hanno trovato documenti che provano l'esistenza di un fascicolo del Sid, protocollato con il numero 2942, intestato personalmente a Pasolini. Un dossier, finora ignoto, che comprova un'inquietante attività di spionaggio della sua vita privata e professionale, che mirava a scoprire, in particolare, cosa avesse scoperto negli ottantamila metri di pellicola utilizzati per realizzare il documentario «12 dicembre»: un filmato che sosteneva la tesi della «strage di Stato» quando gli apparati di sicurezza accreditavano ancora la falsa “pista rossa” degli anarchici milanesi. L'esistenza e il numero di protocollo del dossier segreto su Pasolini è documentata, in particolare, da un'informativa del Sid, pubblicata integralmente nel libro, datata 16 marzo 1971 e indirizzata dagli agenti di Milano all'ufficio D di Roma: il reparto dei servizi destinato ad essere soprannominato “ufficio stragi”, dopo la scoperta che il suo capo, l'allora colonnello (poi generale) Gian Adelio Maletti, e il suo braccio destro, il capitano Antonio Labruna, invece di aiutare la giustizia facevano sparire le prove contro i terroristi neri. Al punto da fornire soldi e documenti falsi per far scappare all'estero e pagare la latitanza ai neofascisti ricercati dai magistrati di Milano. Maletti e Labruna, entrambi affiliati alla P2, sono stati condannati con sentenza definitiva per il reato di favoreggiamento. Freda e Ventura sono stati proclamati colpevoli in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati preparatori del 1969 e assolti in appello per la strage di piazza Fontana, per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Il libro-inchiesta rivela che Pasolini era spiato anche dall'Ufficio Affari Riservati, il servizio parallelo che completava il lavoro sporco degli apparati deviati perseguitando gli innocenti anarchici milanesi. "Un'altra scoperta sorprendente è il ritrovamento, tra gli atti ora informatizzati del maxi-processo di Catanzaro, di un carteggio tra Pasolini e Ventura. Le prime notizie di queste lettere erano emerse grazie a un altro libro-inchiesta, firmato da Simona Zecchi (“Pasolini, massacro di un poeta”, pubblicato nel 2015 dalla casa editrice Ponte alle Grazie), che rivelava per la prima volta anche altri elementi di prova, come la foto di una seconda macchina sul luogo del delitto, diversa dall'auto dello scrittore (con cui Pelosi passò sul corpo della vittima prima di darsi alla fuga), le minacce subite dall'intellettuale antifascista poco prima dell'omicidio e il possibile collegamento con le sue indagini su piazza Fontana. Documentato anche dal carteggio finito agli atti dello storico processo sulla strage." Poco prima, il 14 novembre 1974, Pasolini aveva firmato il famoso articolo, sul Corriere della Sera di Piero Ottone, che si apriva con queste parole: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. (…) Io so. Ma non ho le prove (…)». Nel carteggio, controllato dalla direzione del carcere, Ventura allude a verità inconfessabili, ma resta evasivo e reticente. Poco prima del suo omicidio, in una delle ultime lettere ora pubblicate nel libro-inchiesta, Pasolini lo invita personalmente a confessare tutto: «Gentile Ventura», gli scrive, «vorrei che le sue lettere fossero meno lunghe e più chiare. Una cosa è essere ambigui, un’altra è essere equivoci. Insomma, almeno una volta mi dica sì se è sì, no se è no. La mia impressione è che lei voglia cancellare dalla sua stessa coscienza un errore che oggi non commetterebbe più. (…) Si ricordi che la verità ha un suono speciale, e non ha bisogno di essere né intelligente né sovrabbondante (come del resto non è neanche stupida né scarsa)». Il processo di primo grado per l'omicidio Pasolini si è chiuso con la condanna di Pino Pelosi «in concorso con ignoti»: i giudici del tribunale considerano assolutamente certa la presenza di altri assassini non identificati. In appello, su richiesta dell'allora procuratore generale, la sentenza cambia: Pelosi diventa l'unico colpevole. In questi anni gli avvocati di parte civile hanno cercato più volte di far riaprire il caso, ma senza risultati. Ora il libro-inchiesta pubblica molti nuovi elementi di prova, tra cui le testimonianze, finora inedite, di alcuni abitanti dell'Idroscalo, che già nel 2010 hanno verbalizzato che quella notte nel luogo dell'omicidio non c'erano soltanto Pasolini e Pelosi, ma diverse altre persone. La speranza è che il nuovo vertice della procura di Roma, che sta facendo dimenticare la nomea della capitale giudiziaria come «porto delle nebbie», possa fare ogni sforzo per cercare verità e giustizia su un delitto di portata storica come l'omicidio di Pier Paolo Pasolini.
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 6 dicembre 2019. “Polizia. Deve venire subito a palazzo di giustizia. C' è da fare un confronto. Si tratta di Valpreda». Piazza Fontana per Guido Calvi cominciò così, quattro giorni dopo la strage. Mentre diventava l' avvocato di Pietro Valpreda (e poi protagonista di tanti processi chiave della storia italiana, da Pasolini a Moro), aveva 29 anni e tutt' altro per la testa. «Insegnavo filosofia del diritto. Se non avessi risposto a quella telefonata, tornato a casa dopo una lezione su Leibniz, non avrei mai fatto l'avvocato».
Che scena si trovò di fronte nel palazzo di giustizia?
«Nella stanza, da una parte il giudice Occorsio, il teste Rolandi, il capo dell' ufficio politico della Questura di Milano, Allegra. Dall' altra cinque poliziotti sbarbati e ben vestiti accanto a Valpreda in pantaloncini e canottiera, coi capelloni, la barba incolta e la faccia stravolta da due notti insonni».
Parlò con Valpreda?
«No, tutto era pronto per il confronto. Chiesi solo al testimone se qualcuno gli avesse già mostrato una foto di Valpreda. Rolandi negò tre volte, poi ammise: il questore mi ha mostrato la foto di Valpreda, dicendomi che era l' uomo che dovevo riconoscere».
Che cosa accadde dopo?
«Prima di uscire andai da Valpreda e gli dissi: tranquillo, abbiamo vinto».
Ma il tassista Rolandi aveva riconosciuto Valpreda come l'uomo che aveva portato in piazza Fontana.
«Dopo la frase sulla foto, il riconoscimento valeva zero. Avevo capito che il processo era tutto lì. Ma non che avremmo impiegato quasi vent'anni per una verità giudiziaria e storica».
Che cosa accadde dopo?
«Nell' istruttoria l'avvocato non aveva nemmeno il diritto di assistere all' interrogatorio del suo assistito. Per fortuna un giornalista mi passava i verbali di nascosto».
Com'era Valpreda?
«Personaggio singolare. Ballerino, anarchico, esibizionista, ma mite e inoffensivo. Un marginale. Che uscito di prigione, rifuggendo la vanità, si sposerà, farà un figlio e aprirà una paninoteca».
Com' era il vostro rapporto?
«Quando andavo a trovarlo in carcere, mi contestava perché ero socialista "e non avevo capito niente"».
Mai avuto dubbi su di lui?
«Qualcuno lo insinuò. In realtà li avevo su me stesso. Era il mio primo processo. Solo contro tutti. Cercai un collega più esperto per farmi affiancare, ma in tutta Roma non ne trovai uno disponibile, a parte Lelio Basso».
Perché?
«Cautela, se non paura».
Lei no?
«Avevo l' età in cui ci si può permettere di non averla. Nonostante i proiettili, le minacce, l'isolamento».
In che senso?
«Insegnavo all'università di Camerino, ma in mensa non potevo sedermi al tavolo dei professori, perché ero l'avvocato degli anarchici».
Si fece pagare da Valpreda?
«Non ho mai preso una lira per quel processo».
Come fece quando il processo fu spostato a Catanzaro?
«Il sabato sera prendevo una cuccetta di seconda classe, da sei posti. A Lamezia aspettavo i giornalisti, che avevano il vagone letto, per un passaggio in taxi. A Catanzaro dormivo su una brandina in un corridoio della federazione del Pci. Poi l' Anpi fece una colletta, almeno per albergo e ristorante».
Di piazza Fontana sappiamo tutto?
«Sì».
Fu strage di Stato?
«No, strage neofascista agevolata dallo Stato dirottando e depistando le indagini».
In che modo?
«Prima distruggendo la prova regina, la seconda bomba inesplosa alla Banca commerciale. Poi puntando sulla pista anarchica, come scrisse il ministro dell' Interno Restivo in un appunto».
Perché scelsero Valpreda?
«Probabilmente il primo obiettivo era Pinelli, con una struttura politica superiore».
Che idea le fecero i depistatori?
«Reazionari, rozzi, cialtroni. Guida, questore di Milano, era stato direttore del carcere di Ventotene sotto il fascismo. Motivo per cui Pertini, in visita di Stato a Milano, si rifiutò di stringergli la mano. Nel processo di Catanzaro, gli chiesi come avesse avuto la foto di Valpreda. Disse di non ricordarlo perché era un accanito fumatore e il fumo annebbia la memoria».
Quale fu il ruolo del Viminale?
«Centrale. Russomanno, vicedirettore dell'Ufficio Affari Riservati che guidò le indagini andando a Milano, in gioventù era nella Repubblica di Salò e poi si era arruolato in una formazione militare tedesca».
Come gestì il peso politico del processo?
«Nella prima fase il consenso popolare contro gli anarchici era diffuso. Alzando subito il tiro, evocando i colonnelli greci o la Cia, saremmo andati contro un muro. Puntai sui dettagli. Fu una lenta costruzione».
Come fu possibile?
«L'episodio decisivo fu il funerale delle vittime nel Duomo di Milano. Dietro le bare tutte le autorità. Di fronte centomila operai in tuta blu. Era un messaggio: attenti, difenderemo la democrazia».
Fu colto?
«Si aprirono contraddizioni nella magistratura, nei giornali, nella polizia. Lo Stato contro lo Stato: da una parte forze vecchie e intrise di fascismo; dall' altra energie nuove e democratiche».
Quando capì che stavate vincendo?
«Quando cadde la P2 e fu svelato il doppio Stato, secondo la definizione di Bobbio. In quel momento la magistratura si legittima come baluardo costituzionale. Il che spiega ciò che è successo dopo».
Giampiero Mughini per Dagospia il 13 dicembre 2019. Caro Dago, e dunque fanno cinquant’anni esatti che ci giriamo attorno a quella stramaledetta bomba di Piazza Fontana e alle sue ripercussioni sulla successiva storia italiana. E comunque bellissime le parole del sindaco Giuseppe Sala, il quale a nome dello Stato e di Milano ha chiesto perdono agli anarchici Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Meritoria la decisione dell’amministrazione comunale di Milano di piantare in un parco di San Siro una quercia rossa in memoria della ”diciottesima vittima” di Piazza Fontana, ossia il ferroviere milanese Pinelli caduto innocente dal quarto piano della questura di via Fatebenefratelli.
Bellissima - ai miei occhi - la foto di Licia Pinelli seduta a Palazzo Marino accanto a Gemma Calabresi, una delle donne più squisite e discrete che io abbia mai incontrato. Accanto a Gemma c’era suo figlio, Mario, l’ex direttore di “Repubblica” , il quale nel suo ultimo libro racconta di avere incontrato a Parigi Giorgio Pietrostefani, il militante di Lotta continua condannato come l’organizzatore dell’agguato mortale al commissario Luigi Calabresi. Ho molto apprezzato l’eleganza di Calabresi figlio, che non ha riferito una sola virgola di quello che si sono detti. E comunque Calabresi non è la “diciannovesima” vittima di piazza Fontana, è la prima vittima di un fenomeno successivo e che in un certo modo ne discende, il terrorismo omicida nato a sinistra.
Mi spiego meglio. Sono un cittadino della Repubblica che nel guardare la foto di quelle due donne -entrambe segnate dalla tragedia - che seggono accanto, non tifa per l’una o per l’altra, non ritiene più notevole il dolore dell’una o dell’altra. Di quella cui Giampaolo Pansa e altri giornalisti bussarono a casa a dirle che suo marito il ferroviere era andato giù dalla finestra, o di quella che era incinta del suo terzo figlio quando bussò alla porta suo padre e dalla sua espressione lei capì che il marito trentatreenne era stato appena assassinato sotto casa sua.
Ai miei occhi non c’è nessun derby del dolore fra queste due pur differenti figure femminili. L’una e l’altra specchiano le tragedie recenti del nostro Novecento, e la tragedia di Piazza Fontana è di quelle che perdurano e fanno male nella nostra memoria. Nessun derby, all’una e all’altra i segni del mio più profondo rispetto.
Non credo che sia l’atteggiamento di tanti, specie fra quelli della mia generazione. Le stimmate di 50 anni fa molti di loro le conservano intatte. Una campagna contro “il torturatore” Calabresi, una campagna durata quasi due anni e mezzo, non s’è asciugata come si asciuga l’acqua dopo una pioggia notturna. Molti di loro continuano a crederci alla balla sesquipedale che il commissario Calabresi fosse in qualche modo responsabile della morte di Pinelli.
Non hanno un particolare, non hanno un elemento che giustifichi questa convinzione, solo che non demordono. E difatti nell’articolo di oggi sul “Fatto”, l’articolo che è arredato dalla foto di Licia Pinelli e di Gemma Calabresi di cui ho detto, vengono riferite le parole che la vedova Pinelli ha pronunciato ancora in questi giorni: “Non mi aspettavo che il sindaco Sala chiedesse perdono alla nostra famiglia. Io non mi aspetto niente da nessuno. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà”.
Parole che Licia Pinelli ha tutto il diritto di pronunciare, non fosse che annullano in parte il significato di quella foto e della toccante cerimonia a Palazzo Marino. Perché lasciano intendere, senza beninteso addurre il minimo elemento concreto, che è vera quell’altra narrazione, la narrazione che in questi 50 anni ha fatto da sottofondo della memoria di tanti: che nella stanzuccia della questura Pinelli fosse stato aggredito, colpito, scaraventato giù. E dunque che una qualche ragion d’essere i due colpi sparati alla testa e alla schiena di Calabresi ce l’avessero. O no?
Piazza Fontana: cronaca dei 30 giorni prima della strage. Dagli scioperi continui alle battaglie nelle piazze tra opposti estremismi. I primi morti degli anni di piombo, la violenza degli extraparlamentari alla vigilia della bomba. Edoardo Frittoli il 10 dicembre 2019 su Panorama. Cinquant'anni fa, il 12 dicembre 1969, si consumava uno dei più gravi attentati della storia italiana: la bomba in Piazza Fontana nel cuore di Milano, che provocò 17 vittime e più di 80 feriti tra i clienti della Banca nazionale dell'agricoltura. L'ordigno esplose in uno dei momenti di massima tensione politica e sociale del Paese, investito dalla violenza di piazza innescata dalle schiere dei movimenti "extraparlamentari" di sinistra e destra e paralizzato dalla lunga stagione degli scioperi nelle fabbriche nota come l'"autunno caldo". Esaminiamo dalle cronache dell'epoca quell'escalation di violenze che fecero da premessa alla strage di Piazza Fontana.
Il mese di ottobre del 1969 era stato caratterizzato da un crescendo della conflittualità nel mondo operaio, alimentata anche dall'azione combinata degli studenti in lotta dall'anno precedente e dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare che si erano unite ai lavoratori nelle assemblee, nelle manifestazioni e negli scioperi per il rinnovo contrattuale delle varie categorie. In particolare i Marxisti-leninisti, i "filo-cinesi", il gruppo di "Potere operaio" avevano spinto per una radicalizzazione della lotta in fabbrica mirata alla preparazione di una auspicata "rivoluzione armata delle masse operaie" in netto contrasto con le sigle sindacali nazionali e soprattutto con il Pci, considerato dagli estremisti come alleato del "governo borghese". Le conseguenze della pressione politica sugli operai in lotta non si fece attendere: all' inizio del novembre 1969 la direzione della Fiat sospese 85 lavoratori in seguito a gravi episodi di violenza e sabotaggio negli stabilimenti di Mirafiori dove un dirigente, l'ingegner Luigi Stellacci, fu aggredito e percosso da un gruppo di scioperanti. A poche ore di distanza dal grave episodio, a Milano il corteo dei lavoratori del settore chimico degenerava in guerriglia urbana, con un funzionario di PS finito in ospedale e decine di feriti e fermati. Alla Pirelli, dove i Cub avevano inaugurato l'"autunno caldo" la produzione era paralizzata da settimane. L'episodio più grave, che può considerarsi assieme alla morte dell'agente Antonio Annarumma come prime tra le vittime degli scontri tra "opposti estremismi" si consumò a Pisa il 27 ottobre durante una manifestazione sfociata in violenza a cui avevano preso parte gruppi di Potere Operaio. Durante l'assalto alla sede del Msi della città toscana rimase ucciso lo studente Cesare Pardini, colpito in pieno petto da un lacrimogeno sparato dalla Polizia.
L'ultimo mese prima della strage di Piazza Fontana.
12 novembre. Anche Napoli fu investita dai disordini, quando si consumarono gravi scontri tra missini e manifestanti di sinistra in occasione di un comizio dei sindacati. Una bomba carta esplose ferendo uno studente e gli arresti furono una trentina. Durante le indagini furono trovate armi ed esplosivi nella sede locale del Msi. A Torino trecento operai Fiat aggredivano gli impiegati che non avevano aderito allo sciopero. Bloccati negli uffici, saranno liberati dall'intervento della Polizia che agì sotto un fitto lancio di bulloni e porfido.
14 novembre. La Fiat identifica e denuncia 50 lavoratori per i disordini dei giorni precedenti, mentre alla Lancia un gruppo di operai blocca la produzione divulgando propaganda contro il sindacato dei metalmeccanici. A Bologna viene ferito il Vice-questore dopo scontri con gli studenti tra i quali si erano infiltrati militanti di Potere Operaio. A Roma si consuma lo strappo tra il Pci e il gruppo de "Il Manifesto", che viene accusato dalla dirigenza comunista di "frazionismo" nel giorno della manifestazione per la pace in Vietnam, a cui prese parte anche Paul Getty Jr.
16 novembre. Viene proclamato lo sciopero generale per la casa, quello durante il quale sarà ucciso Antonio Annarumma. La discussione principale riguardava la "legge sui fitti", ossia il futuro "equo canone".
19 novembre. In via Larga a Milano, durante gli scontri in occasione dello sciopero generale, muore l'agente Antonio Annarumma, colpito da un tubolare di ferro scagliato dai manifestanti. E'la prima vittima degli anni di piombo. La guerriglia si estende anche molte città italiane come Torino, Genova, Alessandria, Catania. A Venezia viene occupata la sede delle Assicurazioni Generali. Duro attacco dei gruppi extraparlamentari contro i comizi dei sindacati nazionali, mentre a Bologna gli studenti in sciopero devastano l'aula magna dell'Università. L'Istat dichiara che nei primi sei mesi dell'anno sono state perse oltre 93 milioni di ore di lavoro a causa degli scioperi. Il Presidente del Consiglio Mariano Rumor arriva a Milano per omaggiare la salma di Annarumma, mentre i maoisti e gli studenti sono ancora asserragliati all'interno dell'Università Statale.
21 novembre. Nel giorno dei funerali di Annarumma gli studenti del Movimento Studentesco chiedono davanti a San Vittore il rilascio dei fermati per gli incidenti di via Larga. In San Babila i missini di Giovane Italia intonano canti del ventennio e scatenano tafferugli con gli studenti di sinistra. Al corteo funebre di Annarumma partecipano migliaia di cittadini. Giunti presso la chiesa di San Carlo, a due passi da San Babila, un militante inneggia a Mao Tse-Tung sventolando un fazzoletto rosso. Viene bloccato da un gruppo di missini che iniziano a percuoterlo. Viene separato dalla Polizia che lo porta all'interno di un cinema, poi cinto d'assedio dai giovani di destra. Si scatena la guerriglia che causerà 28 feriti. Durante la funzione funebre il ministro dell'Interno Restivo ribadisce fermamente il ruolo delle Forze dell'Ordine e la presenza necessaria della Polizia nelle manifestazioni, dichiarando che soltanto negli ultimi mesi erano state registrate più di 1.000 denunce per turbamento dell'ordine pubblico. Alle 15.30 un gruppo di missini si era dato appuntamento al Policlinico, dove era stata allestita la camera ardente dell'agente ucciso. Poco più tardi il drappello si mosse verso la vicina Università Statale riuscendo a penetrare nell'androne di ingresso dove fu asportato materiale di propaganda maoista. In Tribunale si svolge una accesa discussione tra gli avvocati riguardo lo svolgimento dei processi a carico degli anarchici arrestati nell'aprile precedente per le bombe alla Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale.
23 novembre. A Cosenza si tiene un comizio del deputato Msi Nino Tripodi, futuro direttore del Secolo D'Italia. Durante la manifestazione vengono a contatto giovani di estrema sinistra e giovani missini. Vengono sparati anche alcuni colpi di pistola. A Roma manifestano i baraccati dell'Esquilino, appena sgomberati da due edifici pericolanti che avevano occupato, impedendo lo svolgimento di uno spettacolo teatrale.
24 novembre. Mentre a Milano è un giorno di tregua apparente, iniziano gli interrogatori dei 19 fermati per l'omicidio di Annarumma. A Roma invece sono colpite dalle molotov due sedi del Pci e la caserma dei Carabinieri di piazza del Popolo. Lungo la linea ferroviaria Siracusa-Catania gli operai bloccano i binari in solidarietà ai colleghi che avevano occupato una cartiera. In Calabria, a Bovalino, una bomba al plastico devasta la sede del Msi.
26 novembre. I fondatori del gruppo de "Il Manifesto" (Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Valentino Parlato e altri) sono esplusi dal Pci, mentre alla Camera passa il primo voto sul divorzio (legge Fortuna-Baslini). Incomincia il processo a Francesco Tolin, direttore di "Potere Operaio". Era stato inquisito per una serie di articoli comparsi sul giornale della formazione di estrema sinistra che inneggiavano apertamente alla "violenza rivoluzionaria" nelle piazze e nelle fabbriche. Parallelamente all'interno dell'avvocatura si genera una spaccatura dove gli avvocati di "Magistratura Democratica" esprimono solidarietà a Tolin. Il processo è istruito a Roma davanti al Sostituto Procuratore Vittorio Occorsio, che ne aveva convalidato l'arresto.
27 novembre. A Milano scioperano i bancari e commercianti compresi quelli della grande distribuzione, nel giorno in cui nel quartiere popolare di Baggio viene colpita con bombe molotov la locale sede del Msi. Roma è paralizzata da 50mila operai in corteo nel giorno della stretta finale sul contratto dei metalmeccanici del settore pubblico. Il secondo numero del giornale "Lotta Continua" esce con un violento attacco contro i sindacati. Alla Fiat i dati divulgati dall'azienda parlano di 220mila auto prodotte in meno a causa delle continue agitazioni.
3 dicembre. All'indomani delle dichiarazioni sulle perdite della Fiat durante l'ennesimo sciopero si verificano gravi scontri con due operai feriti e decine di auto danneggiate nei parcheggi di dirigenti e impiegati. L'azienda annunciava sospensioni disciplinari per gli incidenti causati da elementi extra-sindacali. Sottoposto alle pressioni di una parte di Magistratura Democratica e dagli appelli di intellettuali e personaggi dello spettacolo durante il processo a Francesco Tolin di "Potere Operaio", Vittorio Occorsio si dimette. Il giudice romano sarà Sostituto Procuratore durante i primi interrogatori di Pietro Valpreda dopo la strage di Piazza Fontana.
4 dicembre. Proseguono feroci gli scioperi alla Fiat, durante i quali vengono danneggiate due tonnellate di ingranaggi. Le trattative per il contratto dei metalmeccanici del settore privato si arenano di fronte al Ministro del lavoro Donat Cattin. A Genova si fermano tutti gli operai del bacino, che bloccano in porto due navi da crociera della Costa. L'armatore minaccia la messa in disarmo delle imbarcazioni.
5 dicembre. Scioperano medici e infermieri, cortei di scioperanti impongono la chiusura dei grandi magazzini milanesi nei giorni degli acquisti pre-natalizi.
7 dicembre. E'il giorno della prima della Scala, dove era in programma l'"Ernani" di Giuseppe Verdi diretto da Claudio Abbado (fu il debutto di Placido Domingo). Come l'anno precedente, i contestatori attendevano gli ospiti sulla piazza omonima. Le personalità dell'imprenditoria, della politica e dello spettacolo si presentarono con minor sfarzo dopo l'esperienza dell'anno precedente. Ciò nonostante, intorno alle 20:30 circa 500 contestatori cinsero d'assedio gli spettatori in arrivo protetti dai Carabinieri. I manifestanti erano capeggiati da Potere Operaio, da esponenti anarchici e del Movimento Studentesco. Il commissario Luigi Calabresi intervenne personalmente per scongiurare danni all'albero di Natale di piazza della Scala, che l'anno precedente era stato distrutto dai contestatori. Durante la giornata alla Camera, l'ordine del giorno era stato il dibattito sull'ordine pubblico. Dopo una seduta accesissima, la stessa durata del monocolore Dc guidato da Rumor veniva messo in discussione con numerosi appelli al ritorno ad una nuova esperienza di centro-sinistra ( che avrebbe dovuto prevedere il dialogo con il Pci per isolare la violenza extraparlamentare).
8 dicembre. A Milano marciano i terremotati del Belice, all'addiaccio da quasi due anni, nel giorno della paralisi della scuola per lo sciopero dei docenti delle medie inferiori e superiori. L'autunno caldo giunge al giro di boa con la firma del contratto dei metalmeccanici del settore pubblico. Per quelli del settore privato invece la strada appare ancora lunga e tortuosa, con oltre un milione di lavoratori in estrema tensione per la lunga attesa. Rimanevano senza contratto anche altre categorie ad alto tasso di conflittualità, come gli autoferrotranvieri e i braccianti agricoli.
9 dicembre. il Ministro dell'Interno Franco Restivo, parlando durante il lungo dibattito sull'ordine pubblico, ribadiva fermamente il ruolo delle forze dell'ordine e del radicamento nel Paese delle istituzioni democratiche e la loro "resistenza agli urti" provocati dalla violenza politica nelle piazze. Mancano solo tre giorni alla strage di Piazza Fontana.
11 dicembre. Alla vigilia della strage di Milano, a Roma si consumano violenti scontri davanti alla sede del Provveditorato agli studi. Due agenti rimangono seriamente feriti durante la manifestazione degli insegnanti aderenti ai sindacati autonomi. Viene approvato dal Senato il testo dello Statuto dei Lavoratori, che entrerà in vigore nel 1970. A Bruxelles il Consiglio d'Europa condanna i Colonnelli greci, che in risposta all'azione dei governi europei si ritirano dal Consiglio. Ventiquattro ore dopo, l'Italia era sconvolta dalla bomba di Piazza Fontana.
1969/2019, Piazza Fontana, cronostoria di una strage. Il Dubbio il 12 dicembre 2019. Le date fondamentali per capire una vicenda che ha attraversato 50 anni della storia italiana.
12 dicembre 1969: alle 16.37 esplode una bomba al tritolo nel salone centrale della Banca dell’Agricoltura, a Milano. Muoiono 17 persone e 87 rimangono ferite.
15 dicembre 1969: muore in circostanze ancora non chiarite, precipitando dal quarto piano della questura, l’anarchico Giuseppe Pinelli, indagato come esecutore della strage.
16 dicembre 1969: vengono arrestati gli anarchici Pietro Valpreda e Mario Merlino ( neofascista infiltrato nel circolo anarchico). La provenienza delle borse per l’esplosivo, però, apre la «pista nera».
13 aprile 1971: vengono arrestati i militanti dell’estrema destra padovana di Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura.
23 febbraio 1972: si apre a Roma il primo processo per la strage contro Valpreda e Merlino, trasferito poi a Milano e infine a Catanzaro per motivi di ordine pubblico.
17 maggio 1972: il commissario di polizia Luigi Calabresi viene ucciso a Milano da un commando di militanti di Lotta Continua.
20 marzo 1981: a Catanzaro si conclude il processo di appello con l’assoluzione dei neofascisti per insufficienza di prove ( confermata anche dalla Corte d’assise d’Appello di Bari nel 1985).
11 aprile 1995: inizia l’inchiesta di Milano di Guido Salvini.
30 giugno 2001: vengono condannati all’ergastolo per strage Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni.
12 marzo 2004: gli imputati vengono assolti in appello per insufficienza di prove.
10 giugno 2005: la Cassazione conferma le assoluzioni degli imputati ma nelle motivazioni scrive che la strage fu organizzata da Ordine Nuovo, capitanato da Freda e Ventura, non più processabili perchè già assolti.
Piazza Fontana, Mattarella accusa: «Stato colpevole per depistaggi». Il Dubbio il 13 dicembre 2019. 50 anni fa la strage di piazza Fontana. Il presidente della Repubblica: «Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana». «L’attentato di piazza Fontana è stato uno strappo lacerante recato alla pacifica vita di una comunità e di una Nazione, orgogliosa di essersi lasciate alle spalle le mostruosità della guerra, gli orrori del regime fascista, prolungatisi fino alla repubblica di Salò, le difficoltà della ricostruzione morale e materiale del Paese». Il capo dello Stato Sergio Mattarella celebra con queste parole il cinquantesimo anniversario della strage di piazza Fontana. Una ricorrenza che il presidente ha voluto onorare accanto alla signora Pinelli e Calabresi. «Nel momento in cui facciamo memoria delle vittime di piazza Fontana e, con loro di Giuseppe Pinelli, del Commissario Luigi Calabresi, sappiamo di dover chiamare le espressioni politiche e sociali del Paese, gli uomini di cultura, l’intera società civile, a un impegno comune: scongiurare che si possano rinnovare in Italia le fratture terribili in cui si inserirono criminalmente quei fatti», ha infatti dichiarato Sergio Mattarella durante il suo intervento. «Il destino della nostra comunità non può essere preda dell’odio e della violenza – ha aggiunto . Per nessuna ragione la vita di una sola persona può essere messa in gioco per un perverso disegno di carattere eversivo» «L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato – ha poi accusato Mattarella – è stata doppiamente colpevole. Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana».
Strage di Piazza Fontana, viaggio nei sotterranei di un processo senza colpevoli. Dai depistaggi alle testimonianze dirette, un documentario rivisita la storia dolorosa della strage realizzata dai neofascisti veneti di Ordine Nuovo. Gianluca Di Feo il 10 dicembre 2019 su La Repubblica. Quella della strage di Piazza Fontana è una storia dolorosa, che ha condizionato mezzo secolo di vita italiana. L’esplosione nella Banca nazionale dell’Agricoltura ha cambiato tutto: la strategia della tensione ha partorito gli anni di piombo, chiudendo nel sangue i sogni di un decennio. Dalla crescita economica del boom e dai successi sindacali conquistati con gli scioperi dell’Autunno caldo, si è passati alla crisi e alla stagione degli omicidi, rossi e neri, ma egualmente crudeli. Con una parte dello Stato che ha soffiato sul fuoco, aizzando gli scontri di piazza e negando ogni giustizia. Il risultato è che oggi esiste una verità storica su quell’eccidio, realizzato dai neofascisti veneti di Ordine Nuovo e depistato da ampi settori dei servizi segreti, ma non esiste una responsabilità processuale: nessuno ha pagato per la morte di 17 persone e il ferimento di altre 88. Adesso che l’anniversario porta di nuovo a parlare di Piazza Fontana, è importante che molti comprendano gli snodi di una vicenda tanto complessa e importante. Un valido aiuto arriva da un documentario che verrà trasmesso mercoledì 11 dicembre alle 21.50 da History Channel: una ricostruzione chiara dei cardini di questa trama, con le testimonianze dirette di molti protagonisti a partire dai superstiti e dai familiari delle vittime. Uno dei punti di forza del filmato è la suggestione dei sotterranei degli archivi di Perugia dove, dopo avere girato l’Italia, sono finiti milioni di documenti originali dei tanti processi che hanno segnato questo procedimento. E’ come se l’onda d’urto dell’ordigno dalla sala cilindrica - dove quel venerdì pomeriggio si ritrovavano gli imprenditori agricoli del milanese per chiudere i contratti con una stretta di mano - avesse assunto una potenza incredibile, stravolgendo tutti i livelli delle società italiana. E infliggendo un colpo irreparabile alla credibilità delle istituzioni. Ne parla Ugo Paolillo, il primo pubblico ministero dell’inchiesta e il primo a dubitare della pista anarchica immediatamente accreditata dagli apparati di sicurezza, tanto da venire sollevato dall’indagine. I ricordi dell’ingresso nei locali distrutti scorrono sulle immagini terribili di corpi straziati e si accompagnano alle memorie di figli che non hanno mai ottenuto giustizia. E tra tanti interventi di rilievo - come quello di Guido Calvi, legale di Pietro Valpreda; della storica Benedetta Tobagi; dell’avvocato Federico Sinicato che ha assistito le famiglie delle vittime; di Martino Siciliano, ordinovista che ha preso parte alle prove dell’attentato – sorprende la sobrietà delle parole di Roberto Gargamelli, all’epoca anarchico diciannovenne del circolo 22 marzo, arrestato e processato ingiustamente assieme a Valpreda. Nonostante nel suo caso persino l’unico testimone ne avesse negato il riconoscimento.
Piazza Fontana "vista" attraverso il ricordo dei parenti delle vittime. In prima serata Rai, Giovanna Mezzogiorno dà voce al dolore di chi non ha avuto giustizia. Laura Rio, Mercoledì 11/12/2019, su Il Giornale. Un'intera vita spesa alla ricerca della giustizia, mai arrivata. Almeno non nelle aule dei tribunali. È l'esistenza dei familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana, di cui proprio domani ricorre il cinquantenario. E nel giorno dell'anniversario Raiuno manda in onda la docu-fiction Io ricordo che, dopo tante inchieste, libri, programmi che hanno tentato di fare luce sulla strage, sui processi, sui servizi segreti, sui depistaggi, sulle parti deviate dello Stato, vuole invece puntare i riflettori su mogli, figli, fratelli, genitori di chi ha avuto la vita spezzata entrando in banca il 12 dicembre 1969 e non uscendone mai più. Io ricordo, presentato ieri mattina a Milano in un incontro commovente con alcuni dei parenti di quelle 17 vittime, ripercorre più di trent'anni di storia giudiziaria principalmente attraverso gli occhi di Francesca Dendena, figlia di Pietro, diventata presidente dell'Associazione dei familiari. A dare parola e volto a Francesca una intensa Giovanna Mezzogiorno (Nicole Fornaro nel ruolo di lei da ragazza) che ha preso molto a cuore la causa. Io ricordo - regia di Francesco Micciché, produzione Aurora Tv - non è una fiction e neppure un documentario, è un mix di entrambi: le parti sceneggiate sono intervallate da interviste a magistrati, avvocati, giornalisti e ai medesimi parenti. Cercando di tenersi lontano dalla retorica, riesce in due ore nel difficile compito di riassumere una complicata e intricatissima storia giudiziaria che è diventata storia del nostro Paese, la strage che ha segnato l'inizio della strategia della tensione. «Il nostro obiettivo fondamentale - spiega Eleonora Andreatta, responsabile di Rai Fiction - era raccontare ai giovani cosa è stata e cosa ha rappresentato quella strage. I ragazzi di oggi non sanno neppure cosa sia o ne hanno una idea assai vaga. La memoria è fondamento identitario del nostro Paese e questo è il ruolo che deve avere la televisione pubblica». Il racconto segue il filo della vita di Francesca, che quando il padre morì aveva 17 anni. Io ricordo è l'inizio di un telegramma che inviò al Presidente della Repubblica dopo i tanti Non ricordo detti dai politici italiani che sfilarono al processo di Catanzaro. Da quel 12 dicembre 1969, quando il padre seduto al tavolo sotto cui fu piazzata la bomba saltò in aria, ha passato tutta la vita a chiedere giustizia, con fiducia ed entusiasmo, fino alla delusione finale della sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 2005 che nonostante attribuisse la strage al gruppo eversivo neofascista di Ordine Nuovo, dichiarò non punibili Freda e Ventura in quanto già assolti in via definitiva anni prima. «È stato un onore ma non è stato facile - racconta Giovanna Mezzogiorno - interpretare Francesca e ripercorre con i suoi occhi la storia della strage, piena di date, di fatti, di punti oscuri. Io ricordo piazza Fontana perché negli anni '90 ero al Liceo e partecipavo alle manifestazioni e ai cortei studenteschi. C'è stato e c'è qualcosa sopra di noi, sopra le nostre teste che non è venuto e non viene a gala. Mi auguro che questa fiction abbia successo perché la gente non deve dimenticare». Per l'attrice anche una condivisione del dolore. «Posso ben capire cosa voglia dire perdere un padre da ragazza, io il mio (Vittorio Mezzogiorno) l'ho perso in sei mesi, Francesca in pochi secondi, è un buco nero che rimane per sempre». La disperazione per la verità giudiziaria mai arrivata, non ha fermato i familiari che si sono trasformati da vittime in testimoni. Il fratello di Francesca (scomparsa nel 2010) Paolo, i figli, gli altri parenti girano ancora le scuole per parlare agli studenti, e sono stati e saranno presenti alle cerimonie di questi giorni. «Perché il cancro di questo Paese - conclude Paolo Silva, figlio di Carlo - non è solo l'indifferenza dei giovani, ma di molti italiani che si chiedono cosa vogliono questi qui dopo tutti questi anni...». La docu-fiction resterà su Raiplay ed è disponibile per le scuole e le associazioni.
Piazza Fontana 1969, il film “Romanzo di una strage” è un fake. Vladimiro Satta l'11 Dicembre 2019 su Il Riformista. Quando un film avente ad oggetto una vicenda storica nonché giudiziaria si annuncia mediante una pubblicità che ripete spesso: «la verità esiste» ed il regista dichiara che «il vero senso del film è spiegare ai ragazzi d’oggi cos’è stato quel tempo e quell’età», allora l’opera deve essere valutata secondo criteri storiografici, oltre che cinematografici. È il caso di Romanzo di una strage, diretto da Marco Tullio Giordana. Intorno a Romanzo di una strage, al libro Il segreto di Piazza Fontana del giornalista Cucchiarelli da cui il film è stato «liberamente tratto» e ai temi ivi trattati si è aperto un ampio dibattito. Al film e al libro –tra i quali esistono differenze, ma secondarie rispetto alle analogie – i commentatori hanno mosso numerosi rilievi. La peculiare tesi di Cucchiarelli prima e di Giordana poi è che le bombe di Piazza Fontana fossero non una ma due; la prima di bassa potenza, simbolica o quasi, piazzata da qualcuno (Valpreda secondo il libro, manovalanza fascista secondo il film) il quale ignorava che altri avrebbero affiancato alla sua un secondo ordigno destinato invece a fare una strage. Il segreto cui allude il titolo del libro di Cucchiarelli e che viene rappresentato nel film di Giordana è un presunto patto tra Moro e l’allora Capo dello Stato Saragat stretto il 23 dicembre 1969, e da allora sempre rispettato da apparati pubblici e forze politiche sia di maggioranza, sia di opposizione, che avrebbe impegnato l’esponente Dc a occultare la verità in cambio della dismissione di qualsivoglia tentazione eversiva da parte del Quirinale. Come ha osservato Stajano, Giordana «ha imboccato la via del realismo nutrita di finzione», commettendo così un errore «in cui non sono caduti né Francesco Rosi né Gillo Pontecorvo». Rosi, a proposito di Romanzo di una strage, ha dichiarato che «quando si trattano avvenimenti che riguardano la nostra vita pubblica, l’unica cosa che bisogna tener presente è la verità giudiziaria, bisogna procedere senza mai perderla di vista». Viceversa, Giordana si è discostato spesso e volentieri dalle sentenze e ha eletto quale suo principale riferimento un libro che dagli esperti aveva ricevuto molte più stroncature che consensi. Il dissenso rispetto ai giudicati penali è un diritto, ma andava esplicitato ed evidenziato, altrimenti lo spettatore poco informato è indotto a credere erroneamente che la ricostruzione cinematografica sia in linea con le ricostruzioni giudiziarie. In mezzo alle tante scene sufficientemente corrispondenti a episodi documentati ce ne sono altre, formalmente indistinguibili dalle prime, inventate di sana pianta o che deformano la realtà storica introducendovi elementi spuri. Le falsità prodotte dall’intreccio tra storia e fiction talvolta sono di poco conto, talaltra no. Ad esempio, che Junio Valerio Borghese abbia telefonato irato a non si sa chi, lamentando che l’attentato non avesse provocato la proclamazione dello stato di emergenza, è un’invenzione cinematografica la quale suggerisce un’ipotesi sul movente e sugli autori della strage mentre Borghese, che fu alla testa del colpo di Stato abortito tra il 7 e l’8 dicembre 1970, è invece estraneo al massacro di Piazza Fontana. Delle Chiaie, capo di Avanguardia Nazionale, fu accusato di essere il mandante della strage ma fu assolto con formula piena, dunque non si spiega la sua ricorrente presenza nel film. Sono fantasie i colloqui tra Moro e un ufficiale dei Carabinieri il quale il 20 dicembre gli avrebbe promesso un rapporto contenente la verità sulla strage, che l’uomo politico avrebbe portato tre giorni dopo a Saragat – in un incontro altrettanto privo di riscontri – e sarebbe stato da loro insabbiato di comune accordo. Il deus ex machina che nel film informa Moro poteva avere smascherato Freda e Ventura entro il 20 (o 23) dicembre 1969? No. La pista Freda-Ventura fu originata dalla testimonianza di Lorenzon, verbalizzata il 15 gennaio 1970, e decollò soltanto dopo il fortuito ritrovamento di armi a Castelfranco Veneto di fine 1971, che diede i primi sostanziosi riscontri alle dichiarazioni del titubante teste. Moro, nel memoriale vergato durante il sequestro di cui fu vittima, disse anzi di non essere «depositario di segreti di rilievo» in materia di stragi: «quanto a responsabilità di personalità politiche per i fatti della strategia della tensione non ho seriamente alcun indizio. Posso credere più a casi di omissione per incapacità e non perspicace valutazione». Per di più, un incontro tra lui e Saragat il 23 dicembre avrebbe potuto decidere ben poco, sia perché Moro all’epoca era in minoranza nella Dc, sia perché già il 15 i partiti di centro-sinistra avevano risposto politicamente all’attentato rafforzando i legami di coalizione e impegnandosi a formare un nuovo governo. L’immagine dell’antifascista Saragat alleato con i fascisti stragisti è una tragicomica montatura. Sul piano metodologico, fonti anonime non vanno bene né nei tribunali, né nei libri di storia. Di conseguenza, è squalificato il contributo proveniente da un fascista ignoto (inesistente?) cui si richiama Cucchiarelli. Il principio vale anche per il volume Il segreto della Repubblica da cui ad ottobre 1978 partì l’idea – recepita da Giordana – che l’inchiesta su Piazza Fontana fu depistata dal patto tra Moro e Saragat di cui sopra. Infatti, Il segreto della Repubblica si basa su confidenze che sarebbero state fatte a Fulvio e Gianfranco Bellini da un fantomatico “conoscente inglese” di cui Fulvio, interrogato dal giudice Salvini, ha sostenuto di non avere mai saputo né nome né cognome. L’ipotesi della doppia bomba, la quale, per coerenza, richiede pure due attentatori, due taxi che li accompagnarono sul luogo, due cordate di mandanti, due scopi – in pratica, «doppio tutto» – fu criticata già nel 2009 da Giannuli e altri. Nel 2012 fu la volta di Boatti, che tuonò contro il «delirio di sdoppiamento» prolifico di «soggetti che si moltiplicano con geometrica espansione», e di Sofri che attaccò il «Raddoppio Universale» con una serie di contestazioni. Da ultimo, la Procura di Milano sancì «l’assoluta inverosimiglianza» della teoria della doppia bomba. Romanzo di una strage e Il segreto di Piazza Fontana sfiorano anche altre drammatiche vicende degli anni 70, prospettandole in modi assai discutibili. Qui non si può rettificare tutto quel che si dovrebbe, ma almeno un paio di cose sì. La prima riguarda Feltrinelli, che morì accidentalmente mentre manipolava esplosivo. Nel film, mediante la trovata di una telefonata, si insinua un’immotivata incertezza sull’episodio. La seconda concerne l’omicidio del commissario Calabresi, delitto per il quale furono condannati alcuni esponenti di Lotta Continua. Il film dà pochissimo spazio alla lunga campagna diffamatoria contro Calabresi svolta da Lotta Continua e molto invece a un’indagine su un traffico di armi e di esplosivi e ad un immaginario colloquio tra lui e il prefetto D’Amato, inducendo a sospettare un nesso causale con il delitto. Non ci si inganni (…) il colloquio Calabresi-D’Amato alla vigilia della morte del primo è doppiamente falso; perché non si verificò, e perché a D’Amato si attribuiscono frasi che in parte sono di Taviani, in altra parte riflettono le opinioni di Cucchiarelli e sono agli antipodi di quel che D’Amato abbia mai detto. L’Italia superò la prova del terrorismo (…) spacciarla per una Repubblica fondata sul fango è ingiusto, prima ancora che oltraggioso nei confronti della Repubblica stessa, degli uomini che furono in prima fila a difenderla e del popolo intero che, ribadendo fedeltà alle istituzioni e voltando le spalle agli eversori, creò il fondamentale presupposto affinché le minacce fossero sventate. Hanno invitato, inascoltati, «con urgenza il potere giudiziario» a «una postura rigorosa di rispetto e di osservanza delle leggi e della Costituzione». La questione è la solita: come si devono usare le dichiarazioni di chi accusa qualcun altro in un’inchiesta? E soprattutto: cosa è legittimo fare per ottenerle? In alcuni casi sono saltate fuori le prove dei fatti contestati, presentate come tali in processi arrivati a sentenza. Ma a tenere in piedi la Lava Jato sono le delazioni premiate a tappeto di detenuti in via preventiva che, magicamente, escono dal carcere appena indicano il nome di un presunto corrotto. Che non viene mai trattato come tale, ma finisce sbattuto nelle aperture dei tg come fosse un reo confesso. A osservare il dettaglio delle principali inchieste, a controllare sul calendario i nomi di chi esce e di chi entra dalla cella, il timore che la prigione preventiva sia usata per forzare la chiusura degli accordi di collaborazione, sembra fondato. Nel bel mezzo della guerra in corso, anche dentro l’avvocatura brasiliana si è scatenata più di una battaglia. Approfittando del rifiuto di alcuni studi legali di difendere gli imputati che firmano accordi di delazione premiata, spuntano come funghi avvocati che si stanno specializzando nella contrattazione con l’accusa, per conto dell’assistito, per accedere ai benefici offerti a chi collabora. Benefici che, a volte, somigliano a un regalo. Prendiamo il caso di Joesley Batista, il proprietario della principale azienda mondiale per l’esportazione di carne, la Jbs. Incastrato da intercettazioni pesanti, Batista ha confessato e descritto il giro vorticoso di tangenti che gli ha consentito, tra l’altro, di evadere tutte le tasse sull’export. Il contratto di delazione premiata da lui firmato gli ha permesso di dirsi colpevole della corruzione dell’intera classe dirigente brasiliana degli ultimi quindici anni – destra, sinistra, centro, più alcuni giudici – pagata secondo le sue accuse con milioni di dollari per un’enormità di favori illeciti, e di scampare illeso dal processo vendendo la testa dei politici da lui accusati in cambio dell’impunità. Ha confessato crimini clamorosi ed è improcessabile. La notizia non è stata presentata come scandalosa e non ha fatto scandalo. Il biglietto da pagare per lo show.
Brano tratto da “La strage di piazza Fontana tra storia e fiction” in “Nuova storia contemporanea” (numero 3/2012)
Strage piazza Fontana: 50 anni tra depistaggi, innocenti puniti e terroristi fascisti liberi. Il 12 dicembre del 1969 una bomba neofascista uccideva 17 persone a Milano. I responsabili, protetti da settori dello Stato, l'hanno fatta franca. Paolo Biondani su L'Espresso il 10 dicembre 2019. Una chiesa ottagonale, molto bella, al margine del parco di una storica villa veneta, accanto all’antica via Postumia. Il muro di cinta della proprietà, in pietre chiare contornate da strisce di mattoni, prosegue lungo una stradina laterale, per circa 200 metri. Alla fine c’è un casolare bianco, con la facciata esterna senza finestre. Il terrorismo politico in Italia è nato qui. Le bombe nere che nel 1969 hanno per la prima volta insanguinato la nostra democrazia sono state fabbricate in questo piccolo rustico alla periferia del comune di Paese, fra Treviso e Castelfranco Veneto. Dove oggi i vicini sono increduli, ignari di questo pezzo di verità ormai accertata da definitive sentenze giudiziarie. Gli stessi proprietari hanno scoperto solo con le ultime inchieste di aver ospitato, nel casolare dietro la loro villa, il covo segreto dei terroristi neri. Dalla strage di piazza Fontana sono passati 50 anni. Mezzo secolo di giustizia negata, depistaggi dei servizi, innocenti perseguitati, processi scippati, colpevoli impuniti. Il 12 dicembre 1969 una bomba in una banca di Milano uccide 17 innocenti e fa precipitare l’Italia nel terrorismo. Prima di spegnersi il giudice Gerardo D’Ambrosio spiegò così, all’Espresso, quella “strategia delle tensione”: «Alla fine degli anni ’60 alcuni settori dello Stato, e mi riferisco al servizi segreti, al Sid, ai vertici militari e ad alcune forze politiche, pianificarono l’uso di giovani terroristi di estrema destra per fermare l’avanzata elettorale della sinistra, che allora sembrava inarrestabile. Le bombe servivano a spaventare i moderati e l’effetto politico veniva amplificato infiltrando e accusando falsamente i gruppi di estrema sinistra». Prima e subito dopo la strage di piazza Fontana, gli apparati di Stato rafforzano la strategia arrestando decine di anarchici, poi tutti assolti. Il loro ipotetico arsenale, localizzato (da un infiltrato neofascista) a Roma sulla via Tiburtina, si rivela solo una buca vuota. Agli anarchici milanesi non viene trovato neanche un petardo, neanche una fionda. Solo quando i giudici di Treviso e Milano incriminano i neofascisti veneti, arrivano le prime prove vere, con i riscontri più pesanti: gli arsenali di armi ed esplosivi. Già nel primo, storico processo di Catanzaro, il neonazista mai pentito Franco Giorgio Freda e il suo complice Giovanni Ventura, morto in libertà dopo la fuga in Argentina, vengono condannati in tutti i gradi di giudizio per ben 17 attentati del fatale 1969. Bombe all’università di Padova (15 aprile), alla fiera e alla stazione di Milano (25 aprile, 10 feriti). Bombe nei tribunali di Torino, Roma e Milano (12 maggio e 24 luglio). Bombe su dieci treni delle vacanze (notte tra l’8 e 9 agosto 1969, venti feriti). Per l’eccidio di piazza Fontana, entrambi vengono assolti in appello, per insufficienza di prove. E abbondanza di depistaggi, che costano una condanna definitiva per favoreggiamento a due ufficiali (piduisti) del Sid. Anche le tante indagini successive si chiudono senza alcuna condanna, però alla fine convincono tutti i giudici, compresa la Cassazione, che Freda e Ventura erano colpevoli anche della strage di Milano, ma non sono più punibili perché ormai assolti. Nell’ultimo processo, concluso nel 2006, l’imputato più importante, il capo di Ordine nuovo nel Triveneto, Carlo Maria Maggi, segue la stessa sorte: condanna all’ergastolo in primo grado, assoluzione in appello e Cassazione, motivata dall’insufficienza dei riscontri alle accuse del pentito Carlo Digilio. «L’incoerenza più grave», per i giudici innocentisti, era proprio «il mancato ritrovamento del casolare di Paese»: la fabbrica delle bombe di Freda e Ventura. La caccia al covo nero riparte con l’ultima indagine sulla strage di Brescia (28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti) e sembra la trama di un giallo. L’unico indizio sono i ricordi del pentito. La chiesa sulla strada. Il muro in pietra. Il casolare senza finestre. Un rustico sullo sfondo, tra i campi. I primi inquirenti erano partiti dalla chiesa principale, nel centro di Paese, senza trovare nulla. A fare centro è un tenace ispettore capo della polizia, Michele Cacioppo: la chiesa descritta da Digilio è la cappella privata di villa Onesti-Bon. All’epoca la proprietà era gestita da Sergio Bon, morto nel 2004, che aveva affittato quel casolare retrostante proprio a Giovanni Ventura. Il terrorista, sulla sua agenda del 1969, aveva annotato “Digilio” e “Paese” accanto al nome di un avvocato di Treviso, Giuseppe Sbaiz. Sentito dal poliziotto, il legale chiude il cerchio: «Sergio Bon mi aveva incaricato di sfrattare Ventura, perché aveva visto che nascondeva armi nel casolare». Anche gli eredi di Bon confermano l’affitto all’editore trevigiano complice del padovano Freda. Oggi il luogo è irriconoscibile. Il casolare è stato ristrutturato, ampliato e diviso in tre abitazioni. Ed è circondato da villette e palazzine. Una vicina con i capelli bianchi conferma però che «qui, 50 anni fa, era tutta campagna: c’era solo quel casolare». E dietro il parco c’è ancora il vecchio rustico che vedeva Digilio, ora nascosto da un labirinto di case. Digilio, secondo le sentenze definitive, è un pentito a metà, che ha cercato di minimizzare le sue responsabilità nelle stragi. Felice Casson fu il primo magistrato a farlo condannare come terrorista e armiere di Ordine Nuovo, subordinato proprio a Maggi. Indagato a Milano, solo nel 1998 Digilio ammette di aver aiutato Freda e Ventura a fabbricare ordigni esplosivi. E confessa, in particolare, di aver preparato le bombe sui treni dell’agosto 1969 proprio nel casolare di Paese. Ventura replica di non averlo mai conosciuto: «Il nome di Carlo Digilio non mi dice assolutamente nulla». Invece lo ha anche pagato, perfino il giorno prima delle bombe sui treni, come dimostra una serie di assegni recuperati dall’ispettore Cacioppo, ne pubblichiamo uno in questa pagina. Il casolare di Paese diventa così un nuovo prezioso riscontro alle dichiarazioni di Digilio, che nel 2017 portano alla condanna definitiva di Maggi per la strage di Brescia. La sentenza riguarda anche piazza Fontana e conclude che, dal 1969 al 1974, le stragi hanno lo stesso marchio: Ordine nuovo. Ma se il terrorismo rosso era contro lo Stato, all’epoca gli stragisti neri erano dentro lo Stato. E sono stati protetti per anni da diversi apparati, scatenati sulla falsa pista anarchica di Valpreda e Pinelli, l’innocente precipitato da una finestra della questura. Mentre gli arsenali neri venivano nascosti. Il primo si scopre subito dopo la strage di piazza Fontana. Il 13 dicembre Ventura si tradisce con un amico che vorrebbe reclutare, Guido Lorenzon: gli confida che la bomba di Milano non ha provocato l’atteso golpe, per cui lui e Freda programmano altri attentati sanguinari. Spaventato, Lorenzon ne parla a un avvocato che lo porta dal giudice Giancarlo Stiz, il primo a indagare sui terroristi neri. Il 20 dicembre 1969 viene perquisita la casa di Ventura a Castelfranco Veneto, dove spuntano «un fucile, una bomba a mano e un pugnale della milizia, mai denunciati». Lui nega tutto: mai fatto attentati o violenze, il “fucile da caccia” era del padre, la “granata” sarebbe «un cimelio di guerra custodito come oggetto ornamentale». Nella stessa casa, alla periferia di Castelfranco, vive ancora la sorella, Mariangela Ventura. È identica a lui. E non sente alcun bisogno di nascondersi: il cognome è sul campanello. «Non sarà mica qui per l’anniversario di piazza Fontana?». Indovinato. «Mio fratello è morto. Piazza Fontana è stata una tragedia, durata trent’anni, anche per la mia famiglia». Si figuri per le vittime. «Ora basta. Arrivederci». Peccato. La sorella fu una testimone seria: fu lei a consegnare ai magistrati la famosa chiave del Sid, che apriva tutte le porte del carcere di Monza, per far evadere Ventura nel 1973, quando era crollato confessando a D’Ambrosio tutti gli attentati del 1969, tranne la strage. E l’arsenale di Paese? Dopo la prima perquisizione a casa, Ventura e Freda imboscano le armi e gli esplosivi. E avvertono subito i capi di Ordine Nuovo: non solo Maggi, ma anche Pino Rauti, il leader nazionale, arrestato per pochi giorni e poi prosciolto, quindi eletto parlamentare del Msi. Il casolare di Paese torna ai proprietari. E le indagini deviate dai servizi puntano sempre sulla pista anarchica. Che frana per caso, il 5 novembre 1971, quando si scopre un grosso arsenale nero in una soffitta di Castelfranco: cinque mitra, otto pistole, oltre mille cartucce, 27 caricatori, quattro silenziatori e una bandiera nera con il fascio littorio. Qui, in piazza Giorgione 48, in un palazzo d’epoca di fronte al castello, vive ancora un signore di 78 anni che ha assistito a quella svolta: «Un vicino stava ristrutturando la casa. Un muratore ha aperto un foro nella soffitta comune, per controllare la canna fumaria, e ha trovato i due borsoni con quell’arsenale». Il giorno stesso il custode delle armi confessa che appartengono a Giovanni Ventura, che le ha fatte portare lì, nel 1970, dal fratello Angelo e da un suo dipendente, Franco Comacchio. Che conferma: erano di Freda e Ventura, era un arsenale di una loro «organizzazione segreta», eversiva, che collocava anche «ordigni esplosivi sui treni». Comacchio e la sua convivente aggiungono che prima, «nella primavera 1970», l’arsenale fu portato a casa loro «in una cassa»: tra le armi, videro anche «candelotti di esplosivo». Impauriti, li nascosero alle pendici del Monte Grappa, «in una fenditura tra le rocce». Nel punto indicato, la sera del 7 novembre, i carabinieri trovano «35 cartucce di esplosivo: 20 di colore marrone, 15 blu scuro». Il perito di turno ne accerta «l’avanzata decomposizione e l’estrema pericolosità», ordinandone «la rapida distruzione, senza poter prelevare campioni». Impossibile, dunque, fare confronti con la bomba di piazza Fontana, che secondo l’intero collegio dei periti era composta proprio da due tipi di esplosivo: «dinamite-gelatina da mina», contenuta in «cartucce», e «binitro-toluolo», un’altra sostanza «di frequente uso militare». Non a caso, la chiamavano strage di Stato. Oggi, nel bar al centro della piazza, di fianco al palazzo che custodiva l’arsenale, sono seduti otto universitari, tutti di Castelfranco. Due ammettono, imbarazzati, di sapere «poco o niente» di piazza Fontana. Gli altri sei conoscono la matrice politica: «Terroristi neri, destra». Solo un ragazzo con la barba sa che fu arrestato «anche uno di Castelfranco, Ventura». Ma «neofascisti o brigatisti» gli sembrano «una storia superata»: «Il terrorismo, nero o rosso, appartiene al passato, il nostro è un mondo diverso». Speriamo.
“LA GUERRA TRA PROCURE CI HA IMPEDITO DI FARE GIUSTIZIA”. Dagospia il 12 dicembre 2019. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista rilasciata dal giudice Guido Salvini a Panorama Storia, lo speciale in edicola dedicato alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, di cui oggi ricorre il cinquantesimo anniversario. Quel giorno alle 16.37 una bomba, nascosta in una valigetta con sette chili di tritolo e un timer, esplose scavando una buca profonda nel pavimento della filiale della Banca nazionale dell’agricoltura, a pochi passi dal Duomo di Milano. I morti furono 17, 84 i feriti. Da quel giorno l’Italia entrò nella cupa stagione del Terrore. Il giudice Salvini, che riuscì a individuare il filo che legava tutti gli attentati del sanguinoso quinquennio 1969- 1974, torna sui depistaggi e sulle gelosie tra Procure che ostacolarono le indagini. Estratto dell’articolo di Maurizio Tortorella per “Panorama”, pubblicato da “la Verità”. Per un quarto di secolo ha condotto indagini sul terrorismo rosso e nero. Alla fine degli anni Ottanta, da giudice istruttore, è stato lui a riaprire l' inchiesta su Piazza Fontana. E nonostante l' assoluzione degli imputati indicati come autori materiali della strage, è sempre grazie a lui se la responsabilità dell' attentato del 12 dicembre 1969 è stata attribuita al gruppo neonazista Ordine nuovo. Guido Salvini, 65 anni, è il magistrato italiano che ha trovato il filo della «strategia della tensione», il sanguinoso quinquennio tra il 1969 e il 1974 che vede l' Italia colpita da cinque stragi, mentre un' altra mezza dozzina fallisce solo per caso. A lui Panorama ha chiesto di raccontare quale sia la sua visione di quegli orribili anni di sangue. Partendo proprio da quella strage su cui - nel cinquantenario - è in libreria il suo La maledizione di Piazza Fontana (Chiarelettere).
Dottor Salvini, in che atmosfera avviene la strage del 12 dicembre 1969?
«Al governo c' è un debole monocolore Dc, guidato da Mariano Rumor. Il clima sociale è incandescente. Il rinnovo dei contratti mobilita centinaia di migliaia di operai. Anche in Italia, con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese, inizia la dura protesta studentesca. E in Parlamento si avviano riforme importanti: lo Statuto dei lavoratori, le Regioni, la legge sul divorzio...».
E a livello internazionale?
«Richard Nixon è il presidente degli Stati Uniti e il suo segretario di Stato, Henry Kissinger, lancia la famosa "dottrina" in base alla quale i governi italiani e i partiti di centro devono respingere ogni intesa con i comunisti e con la sinistra socialista. Il 27 febbraio 1969, mentre Roma s' incendia per la protesta studentesca, Nixon incontra al Quirinale il presidente Giuseppe Saragat. Si è da poco consumata la scissione del Psi e attorno al Psdi, di cui Saragat è il leader, si radunano le correnti più contrarie al proseguimento del centrosinistra».
Che cosa si dicono, i due?
«Secondo un dossier negli archivi di Washington desecretato pochi anni fa, Saragat e Nixon concordano sul "pericolo comunista". Il nostro presidente afferma che agli occhi degli italiani il Pci si fa passare per un "partito rispettabile", ma in realtà è dedito agli interessi del Cremlino».
Questa è verità storica: il Pci ha continuato a incassare i dollari dei sovietici fino alla fine degli anni Ottanta. Ma come si arriva a Piazza Fontana?
«Sì, quella era la guerra fredda, l' epoca della contrapposizione tra due blocchi: ora ci sembra tanto lontana che si stenta a ricordarla. In un simile quadro, quella del 1969 è stata una lunga campagna stragista. La bomba del 12 dicembre è preceduta da una sequenza di 17 attentati: colpiscono tribunali, università, uffici pubblici e la Fiera di Milano».
E qual è l' obiettivo di questa campagna?
«Vincenzo Vinciguerra, esponente di Ordine nuovo, ha spiegato in sede giudiziaria che tutto puntava a un' adunata indetta dai neofascisti del Msi per domenica 14 dicembre, a Roma, enfaticamente propagandata come "appuntamento con la nazione". Vinciguerra rivela soprattutto che la scelta della data era collegata a ciò che i "livelli più alti" sapevano sarebbe avvenuto due giorni prima».
Cioè la bomba alla Banca nazionale dell' agricoltura «Esattamente».E nei piani che cosa sarebbe dovuto accadere?
«Quarantott' ore dopo la strage, un tempo perfetto per far montare al massimo la tensione, Roma sarebbe stata piena di militanti di destra pronti allo scontro, che invocavano interventi contro la sovversione. Sarebbe bastata una scintilla per scatenare incidenti incontrollabili: assalti alle sedi dei partiti di sinistra, con l' inevitabile reazione da parte dei loro militanti, e quindi scontri con la polizia, magari con morti tra le forze dell' ordine».
Lo scopo?
«Rendere inevitabile la dichiarazione dello "stato di emergenza": era quello il vero obiettivo della strage».
E che cosa blocca il piano?
«Il 13 dicembre, quando Vinciguerra con gli ordinovisti arrivati da ogni parte d' Italia è già a Roma, il ministro dell' Interno, Franco Restivo, vieta la manifestazione e cade il tentativo di far precipitare la situazione. E la determinazione e la compostezza con cui la borghesia e gli operai milanesi presenziano ai funerali delle vittime fanno definitivamente fallire il piano». [...]
Come mai è stato tanto difficile indagare su queste stragi, e perché la verità giudiziaria in molti casi resta incompleta?
«Ci sono tanti motivi. Il primo è il muro che, almeno sino alla fine degli anni Ottanta, è stato opposto alle indagini dell' autorità giudiziaria dai servizi di sicurezza e da una parte dei vertici degli organi investigativi, polizia e carabinieri. Ostruzionismo e depistaggi sistematici». [...]
Ma c' è altro: ostracismi e guerre tra Procure. Lei ne sa qualcosa, no?
«Di certo, tra i magistrati che negli anni Novanta indagavano sui vari episodi di strage, ci sono state gelosie e invidie: in certi casi sono andate ben oltre la semplice mancanza di collaborazione».
Immagino lei si riferisca al pm veneziano Felice Casson. Come scoppiò il conflitto tra di voi?
«La Procura di Venezia non aveva gradito che le nuove indagini milanesi, nei primi anni Novanta, non confermassero il presunto coinvolgimento di Gladio nelle stragi: una tesi sostenuta con enfasi, anche se più in forma mediatica che giudiziaria. Il pm Casson non aveva apprezzato nemmeno che le nostre indagini avessero fatto breccia proprio sull' ambiente ordinovista di Venezia e Mestre, che la sua Procura aveva indagato negli anni precedenti, ma con risultati molto inferiori».
Il risultato è stato devastante: una delle prime guerre tra Procure.
«Nel 1995 accadde qualcosa che oggi può apparire incredibile, eppure è successo così come lo racconto. Casson coltivò i contenuti di un esposto contro gli investigatori milanesi, ispirato e pagato dal latitante Delfo Zorzi e presentato dal capo ordinovista Carlo Maria Maggi, tra gli indagati per la strage di Piazza Fontana».
Cosa capitò, a quel punto?
«Il risultato fu l' incriminazione mia e dei carabinieri che lavoravano con me sul fronte dell' eversione nera, da parte dello stesso Casson. Seguì una serie di segnalazioni disciplinari al Csm, tutte rivelatesi false e infondate. Ci fu addirittura il tentativo di farmi trasferire d' ufficio da Milano, un tentativo in cui si distinse la Procura di Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D' Ambrosio cui, dopo non aver fatto nulla sulla strage di Piazza Fontana, per anni, non dispiaceva appropriarsi dei miei atti e dei miei interrogatori».
Accuse forti. Quale risultato ebbero, queste iniziative?
«Il risultato fu la delegittimazione dell' istruttoria milanese agli occhi di testimoni e indagati, e il rallentamento della nostra indagine sulla strage. L' esito fu una ciambella di salvataggio per gli ordinovisti imputati a Milano. Maggi per Piazza Fontana è stato assolto». [...]
Per finire, ci sono altri episodi tragici di quegli anni di cui non si sa ancora tutto: per esempio l' omicidio del commissario Calabresi, che è collegato alla morte di Pinelli e quindi alla strage di Piazza Fontana.
«Per quell' omicidio c' è una sentenza definitiva nei confronti degli esponenti di Lotta continua che nel 1972 organizzò l' agguato, e su questo non ci sono dubbi. Ma ancora, a causa del silenzio dei suoi capi, non sappiamo molte cose. Non si conosce, se non in parte, come l' omicidio fu deciso e nemmeno tutta la fase esecutiva».
Il figlio di Luigi Calabresi, Mario, si è incontrato di recente con Giorgio Pietrostefani. Che cosa ne ha pensato?
«Pietrostefani, latitante da molti anni, era il capo militare di Lotta continua. Lui certamente sa tutto: sa com' è stata presa quella decisione. È gravemente malato e certo non mi auguro il carcere per lui. Ma credo abbia il dovere morale di raccontare, anche senza far nomi, che cosa è successo: come maturò quell' omicidio commesso in nome di tanti giovani che, ottenebrati da un clima di violenza, nelle strade inneggiavano alla morte di Calabresi. Non sappiamo che cosa il figlio del commissario ucciso e l' ex dirigente di Lotta continua si siano detti quel giorno. Aspettiamo».
Quella sera in piazza Fontana. Il 12 dicembre 1969 scoppia in piazza Fontana a Milano la bomba che uccide 17 persone e dà il via alla strategia della tensione: ecco il racconto che ne fece, a distanza di 40 anni, Giorgio Bocca. La Repubblica l'11 dicembre 2019. Nel 50esimo anniversario della strage di Piazza Fontana pubblichiamo un articolo scritto da Giorgio Bocca sulle pagine di Repubblica l'11 dicembre del 2009, per ricordare le vittime della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano 40 anni dopo la bomba che ha cambiato la storia d'Italia. Della sera del 12 dicembre 1969, la sera della bomba nella Banca dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano, ricordo la nebbia fitta, la caligine da Malebolge. Allora abitavo in via Bagutta, a quattro passi dalla piazza. Ma il mio studio stava nell'interno e non avevo sentito il fragore dell'esplosione. Mi chiamò al telefono Italo Pietra, il direttore del Giorno: "Vai in piazza Fontana, è scoppiata una bomba in una banca. Vai a vedere poi vieni a scrivere al giornale". C'erano già i cordoni della polizia attorno alla banca, impossibile entrare, ma bastava guardare alla luce dei fari la ressa di autoambulanze, di autopompe per capire che c'era stata una strage, udire le urla dei soccorritori che uscivano con i morti e i feriti sulle barelle. A forza di giocare con il fuoco degli opposti estremismi eravamo entrati in una guerra vera, e già in quella sanguinosa confusione si poteva capire che nel gioco era entrato qualcuno di superiore alle nostre politiche inimicizie. Un potere feroce come una lama rovente squarciava il nostro grigio Stato democristiano, la nostra burocrazia furba e sorniona e li metteva di fronte al fatto compiuto aprendo la tetra stagione che sarà ricordata come "gli anni di piombo", gli anni del terrorismo. Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. "Secondo te - mi chiese - chi le ha messe queste bombe?". A bruciapelo risposi: "I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti". "Tu dici?", fece Pietra che conosceva l' arte dell' understatement, e aggiunse: "Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici". Era cominciata l'umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell'eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall'arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura. Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della Prima Repubblica, finita l'unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell'impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle "autorità", l'ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni. La strage di piazza Fontana fu davvero una tragica rivelazione, un annuncio che lasciava sbigottiti i trecentomila milanesi accorsi ai funerali delle vittime, e il cardinale arcivescovo di Milano Colombo, che chiedeva in Duomo ai rappresentanti del governo di assumersi le loro responsabilità. E fu l'inizio degli anni di piombo. Per alcuni la decisione sbagliata ma irrinunciabile della guerra civile, del ricorso alle armi. Per altri l'impegno a mantenere comunque la democrazia, lo stato di diritto anche a costo di stare in prima fila esposto ai fanatismi e alle feroci semplificazioni. Risale a quei giorni la presa di coscienza della grande crisi contemporanea, dell'impossibilità di ridurre la storia a scienza esatta, a matematica. Ci rendemmo conto che la storia è una corrente inarrestabile di cose, di idee, di eventi, qualcosa che ti sovrasta e ti trascina. Cosa c'era nella tumultuosa corrente sociale dei primi anni Settanta? Di certo la coda della grande utopia comunista, l'ultimo picco delle occupazioni operaie delle fabbriche, l'ultima illusione sulla missione salvifica della classe operaia, classe generale capace di assumersi i doveri e i sacrifici necessari a una crescita sociale universale. Anche la fine dell'utopia socialista, delle richieste dell'impossibile: più salari e meno lavoro, più soldi e meno disciplina, più capitale e meno sfruttamento. E nessuno di noi testimoni saprebbe spiegare oggi perché quel terremoto sociale avvenne allora e non prima e non dopo, perché ogni giorno si tenevano assemblee studentesche e operaie. Di certo c' è solo che quella febbre c' era, e cresceva irresistibile, si formavano movimenti di opinione e di azione, come Autonomia Operaia, movimenti studenteschi, e i primi gruppi di lotta armata, senza nessuna reale possibilità di successo ma irresistibili. L'unica spiegazione non spiegazione, l'unica irragionevole ragione di quella confusa temperie, me l'ha data il brigatista rosso Enrico Fenzi, quando lo incontrai nel carcere di Alessandria: "Perché abbiamo scelto la lotta armata? Perché io, perché noi eravamo quella scelta. C'è qualcuno che sa spiegare quello che si è e perché lo si è? Eravamo lotta armata perché per noi non era una forma della politica, ma la politica". Qualcosa di simile mi ha poi detto un altro brigatista, Bonisoli: "Siamo entrati nel grande mutamento con una cultura vecchia, la vecchia cultura rivoluzionaria, e a chi ci rimproverava per l'uccisione di un riformista dicevamo: ma non ci avete sempre detto che i nemici della rivoluzione, i traditori della classe operaia, vanno eliminati". Ma c'era un'utopia anche nella repressione imperialista, che produceva le stragi come quella di piazza Fontana: c'era l'utopia che fosse possibile, con la forza e con la violenza, rovesciare il corso della storia, o anche, più modestamente, "spostare a destra il governo della repubblica italiana". Anche nell'estrema destra non ci si rendeva conto che a chiudere la stagione rivoluzionaria era stato il mutamento del modo di produrre, le trasferte automatizzate, la perdita del controllo operaio della produzione, l'avvento dei computer e di un mercato unico che consentiva di spostare la produzione nei luoghi dove l'opposizione operaia era debole o inesistente.
Pino Nicotri su blitzquotidiano.it il 13 dicembre 2019. In occasione del 50esimo anniversario della strage milanese di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e delle bombe fatte esplodere in contemporanea anche a Roma sono stati pubblicati libri e inchieste giornalistiche riassuntive riguardanti sia la strage e le altre bombe di quel giorno sia il contorno che le aveva precedute nel corso dell’anno. Con l’occasione, ho deciso di ripubblicare il libro Il Silenzio di Stato che ho scritto nel ’72 e che condusse i magistrati a scoprire finalmente che la verità era a Padova. Per essere reperibile in tempo per il 12 dicembre il libro Silenzio di Stato l’ho pubblicato con Il Mio Libro, di Kataweb, con una nuova copertina che ricalca quella originale. La riedizione l’ho arricchita con una sostanziosa e DOCUMENTATA introduzione, che spiega meglio varie cose alla luce di quanto avvenuto dal ’72 ad oggi. Nei vari libri in uscita in occasione del 50esimo quell’episodio cruciale è citato solo dal magistrato Guido Salvini, nel suo libro recentissimo intitolato La maledizione di Piazza Fontana: l’unico che ha fatto rilevare un particolare tanto strano quanto grave, del quale parleremo tra poco. Vediamo cosa è successo a suo tempo. Intanto notiamo che le bombe erano contenute tutte in borse di similpelle della ditta tedesca Mosbach&Gruber, particolare accertato grazie al fatto che un ordigno, quello piazzato nella filiale della Banca Commerciale (Comit) in piazza della Scala a Milano, non era esploso ed era stato ritrovato pertanto intatto, alle 16:25, compresa la borsa che lo conteneva. Borsa che risulterà identica a quelle contenenti gli altri ordigni, tutte caratterizzate dalla chiusura laterale metallica di colore giallo recante impresso il disegno del profilo di un gallo: il logo della ditta tedesca Mosbach&Gruber. La borsa conteneva una cassetta metallica marca Juwel, che a sua volta conteneva l’esplosivo fortunatamente non esploso. Pochi minuti dopo tale rinvenimento in piazza della Scala un altro ordigno composto da circa sette chili di esplosivo saltava in aria, alle 16:37, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, uccidendo 17 persone e ferendone 88. La più grave strage italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dai reperti rinvenuti sul luogo della strage di Milano i periti hanno potuto stabilire che la bomba era contenuta in una cassetta metallica marca Juwel nascosta in una borsa di similpelle marca Mosbach&Gruber. Gli inquirenti e quindi i giornali e la Rai, all’epoca le radio e le tv private non esistevano ancora, sostennero immediatamente e in coro compatto che quel tipo di borse erano in vendita solo in Germania e che in Italia non se ne trovavano. Un modo per insinuare che gli anarchici subito accusati della strage non fossero un gruppo di balordi milanesi e romani, ma avessero invece ramificazioni e rapporti con altri Paesi, quanto meno con anarchici e terroristi tedeschi. Una versione pubblica durata ben 33 mesi, vale a dire poco meno di tre anni. La strage era avvenuta nel pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969. Ma solo dopo il 10 settembre del 1972, cioè dopo ben tre anni meno tre mesi, si scoprirà che la vulgata delle Mosbach&Gruber inesistenti in Italia era assolutamente e sfacciatamente falsa. E che erano sicuramente in vendita in almeno due negozi della città di Padova. Uno dei negozi padovani aveva venduto a un unico acquirente proprio quattro borse di quel tipo due giorni prima della strage. E la commessa che le aveva vendute, signora Loretta Galeazzo, era corsa a dirlo in questura non appena aveva appreso dalla Rai e dai giornali i particolari del ritrovamento nella filiale della Banca Commerciale. A riconoscere Freda era stata anche la collega della Galeazzo in valigeria, che aveva chiacchierato con l’acquirente mentre un commesso andava a prendere dal deposito le altre tre borse. E quando a Padova hanno arrestato per istigazione dei militari all’eversione Giorgio Franco Freda, neonazista di Ordine Nuovo, la stessa commessa è corsa di nuovo in questura per dire che dalle immagini in televisione e sui giornali locali aveva riconosciuto in Freda la persona che aveva comprato le borse. Due testimonianze che avrebbero potuto far arrestare gli autori della strage nel giro di pochi giorni. E che invece sono sparite…Questa assurda negligenza del mondo dell’informazione giornalistica è stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di diventare giornalista. Ero uno studente di Fisica, fuoricorso perché per studiare e campare facevo vari lavori saltuari, ero il presidente dell’Assemblea d’Ateneo e abitavo dal ’65 o dal ’66 in un appartamento di cinque stanze più bagno e cucina, preso in affitto all’ultimo piano di via Oberdan 2, in pieno centro storico di Padova, affianco al famoso caffè Pedrocchi. La stanza più grande la utilizzavo come ufficio, non aperto al pubblico, dell’Italturist, l’agenzia turistica del PCI specializzata in viaggi soprattutto di gruppo nei Paesi comunisti dell’est europeo. Due stanze le avevo affittate a due studenti di Treviso: Giorgio Caniglia, che studiava Ingegneria, e Carla, che studiava Lettere. Il venerdì nel primo pomeriggio se ne tornavano entrambi a casa dei rispettivi genitori a Treviso, cosa che fecero anche quel venerdì 12 dicembre della strage, per tornare a Padova la domenica sera, cosa che fecero anche la domenica successiva alla strage, cioè il 14 dicembre sera. Sabato pomeriggio sono arrivati a casa mia i carabinieri con tre mandati di perquisizione, uno per me, uno per Giorgio e uno per Carla, assenti perché andati a casa loro a Treviso come sempre per il fine settimana. Il giorno dopo, sabato 13 dicembre, in serata sono poi arrivati come al solito anche Giorgio e Carla. Appena entrato in casa Giorgio mi ha mostrato la sua borsa di similpelle nera, quella che usava ogni giorno anche per andare a lezione e che avevo visto in varie occasioni dentro e fuori casa. Con una mano me la mise davanti agli occhi dal lato della chiusura di metallo e con l’altra mi indicò il disegno che ne caratterizzava la borchia: era il disegno di un gallo preso di profilo. Era cioè proprio il logo delle Mosbach&Gruber. Poi Giorgio mi disse: “Non capisco perché radio, televisione e giornali dicono tutti in coro che queste borse in Italia non si trovano. Io l’ho comprata qui a Padova”. Ho detto a Giorgio: “Beh, domattina va in questura, mostra la borsa e racconta dove l’hai comprata. Così, se non ti arrestano accusandoti della strage, capiscono che in Italia si vendono. E che si vendono anche a Padova, dove c’è quel gruppo di fanatici nazifascisti capitanato da Giorgio Franco Freda e Massimiliano Facchini con base alla libreria Ezzelino di via Patriarcato”. Lunedì sera Giorgio mi ha raccontato che era uscito di casa poco dopo le 10 con la sua borsa per andare a farla vedere in questura, distante più o meno 200 metri, ma dopo pochi passi aveva incontrato un poliziotto della squadra politica della questura, quello che era solito tenere d’occhio l’area del caffè Pedrocchi e del Bo, compreso il portone di casa nostra, e di avere mostrato subito a lui la borsa e il logo della Mosbach&Gruber. Ricevendone come tutta risposta un ben strano: “Ah, ma ormai non ci interessa, sappiamo già chi è il colpevole, uno di Milano”. Se il poliziotto fosse stato meno menefreghista e più professionale i colpevoli della strage e delle altre bombe del 12 dicembre, oltre che degli altri mesi dello stesso anno, potevano essere individuati nel giro di 48 ore. Ripeto: a quell’epoca ero studente universitario e il giornalismo non sapevo neppure cosa fosse. Inoltre non avevo ancora fatto il servizio militare a quell’epoca obbligatorio, era detto “nàia”, motivo per cui temevo che se avessi reso pubblico a gran voce, magari con una apposita assemblea d’Ateneo, lo scandaloso falso delle borse tedesche introvabili in Italia e annesso menefreghismo del commissario della squadra politica, sarebbe potuto capitarmi per vendetta di un qualche apparato statale qualcosa di grave durante la nàia. Decisi così di restare zitto, aspettare di fare il servizio militare, che all’epoca durava 18 mesi, e di scrivere solo in seguito un libro per raccontare come a Padova Freda e i suoi erano stati protetti sistematicamente da organi dello Stato, fino all’iperbole del falso sulle borse introvabili in Italia e del rifiuto del funzionario della squadra politica di prendere in considerazione quanto gli aveva detto e mostrato il mio amico e inquilino Giorgio. Il libro volevo intitolarlo significativamente Il Silenzio di Stato. E poiché ero ben lontano dal pensare di poter fare il giornalista decisi di non firmarlo col mio nome, ma come Comitato di Documentazione Antifascista di Padova, che in realtà ero pur sempre io. Col mio nome mi sarei limitato a formare la poesia che avevo composto per dedicare il libro a quattro miei amici. E in effetti, finito il servizio militare, iniziato a metà del ’70 e concluso verso la fine del ’71, mi sono messo all’opera raccogliendo anche materiali d’archivio della stampa locale riguardanti i rapporti Freda/magistratura/polizia/carabinieri, uno strano suicidio probabile omicidio, altri attentati nel corso del ’69 e molto altro ancora. Ad agosto del’72, ormai ben documentato e pronto a scrivere, mi sono ritirato nella isolatissima casa di montagna dei miei suoceri vicino a Gallio, poco più di mille metri di altezza sull’altipiano di Asiago. Tramite la moglie di un giovane docente universitario, andata per qualche giorno da amici a Roma, la notizia che stavo preparando un libro sulle bombe del 12 dicembre ’69 è arrivata alle orecchie di Mario Scialoja, giornalista del settimanale L’Espresso, già molto famoso. Stavo lavorando nel silenzio più assoluto al terzo piano della casa, un pezzo di casera di montanari in un posto isolato, quando verso le 11 ho sentito arrivare dall’ingresso e cucina al pian terreno un baccano di porte aperte e richiuse con forza e sedie spostate senza tanti complimenti. Mi sono affacciato piuttosto allarmato alla tromba delle scale e ho visto un signore trafelato, con barba biondastra e un grande naso rosso come un pomodoro, che guardando in alto mi gridava:
“Buongiorno! Sono il giornalista Mario Scialoja, del settimanale L’Espresso”.
“Buongiorno! Io sono Napoleone Bonaparte. Mi dica”.
“Ma io sono davvero Mario Scialoja!”.
“E io sono davvero Napoleone Bonaparte. Osa forse mettere in dubbio la mia parola, qui in casa mia? Guardi che la caccio via. Perché è entrato, facendo ‘sto fracasso? Cosa vuole?”.
“Cerco Pino Nicotri, che mi hanno detto sta scrivendo un libro anche con la storia delle borse delle bombe del 12 dicembre ’69, borse che a quanto pare lui sostiene si vendessero anche a Padova”.
La mia lunga amicizia fraterna con Mario e il mio inopinato ingresso nel giornalismo sono iniziati così. Sempre correndo come un pazzo e bevendosi una dozzina di tornanti in discesa come fossero tutti rettilinei, Mario mi ha portato a Treviso, dove a casa sua Giorgio mi ha venduto per 5.000 lire la borsa. E così l’ho regalata a Mario perché la portasse al magistrato Gerardo D’Ambrosio, che in veste di giudice istruttore a Milano conduceva l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana senza risultati apprezzabili. Ringraziandolo calorosamente, ha ricevuto la borsa dalle mani di Mario già il mattino successivo, 2 settembre. Mario nel numero de L’Espresso datato 10 settembre ha pubblicato il grande scoop che raccontava della consegna della borsa al magistrato e di come ne avesse avuto notizia dal sottoscritto. D’Ambrosio inviando a Padova a fare ricerche il maresciallo dei carabinieri Sandro Munari poteva finalmente scoprire dove erano state vendute le borse utilizzate per trasportare e nascondere le bombe del 12 dicembre ’69. Scoperta clamorosa, che non solo ha fatto crollare rumorosamente la pista anarchica di Valpreda&Co, ma che ha anche permesso di scoperchiare l’incredibile verminaio delle protezioni statali a favore di Freda&Co, arrivate a fare scomparire non solo le due testimonianze della commessa della valigeria Al Duomo. E io finalmente pubblicai, con Sapere Edizioni, il libro. Con il titolo che avevo in mente da tempo: Il Silenzio di Stato. Conservo ancora alcune copie del libro con la dedica di Valpreda, che venne a Padova per la presentazione del libro e che non ha mai smesso di ringraziarmi. Per risparmiare sulle tasse il libro è stato edito come numero del periodico InCo, acronimo di Informazione e Controinformazione, periodico registrato presso il tribunale di Milano, avente come editore Sapere Edizioni e come direttore responsabile un sindacalista, non ricordo se della CISL o delle ACLI. Il fatto che fosse stato pubblicato come periodico mi ha infine convinto a farmi rilasciare dal direttore responsabile la dichiarazione firmata che tutti i singoli capitoli erano miei articoli e che mi erano stati pagati. E’ stato così che quando mi sono iscritto come pubblicista all’albo dei giornalisti ho allegato anche quelli – vale a dire, tutti i capitoli de Il Silenzio di Stato – assieme ai vari articoli pubblicati su giornali veri negli ultimi 24 mesi prima della domanda di iscrizione. Ho voluto che fosse documentato in modo incontrovertibile, anche per tabulas e non solo per la firma della mia poesia di dedica ai miei amici, che quel libro era totalmente ed esclusivamente frutto del mio lavoro.
Giampiero Mughini per Dagospia il 13 dicembre 2019. Caro Dago, e dunque fanno cinquant’anni esatti che ci giriamo attorno a quella stramaledetta bomba di Piazza Fontana e alle sue ripercussioni sulla successiva storia italiana. E comunque bellissime le parole del sindaco Giuseppe Sala, il quale a nome dello Stato e di Milano ha chiesto perdono agli anarchici Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Meritoria la decisione dell’amministrazione comunale di Milano di piantare in un parco di San Siro una quercia rossa in memoria della ”diciottesima vittima” di Piazza Fontana, ossia il ferroviere milanese Pinelli caduto innocente dal quarto piano della questura di via Fatebenefratelli. Bellissima - ai miei occhi - la foto di Licia Pinelli seduta a Palazzo Marino accanto a Gemma Calabresi, una delle donne più squisite e discrete che io abbia mai incontrato. Accanto a Gemma c’era suo figlio, Mario, l’ex direttore di “Repubblica” , il quale nel suo ultimo libro racconta di avere incontrato a Parigi Giorgio Pietrostefani, il militante di Lotta continua condannato come l’organizzatore dell’agguato mortale al commissario Luigi Calabresi. Ho molto apprezzato l’eleganza di Calabresi figlio, che non ha riferito una sola virgola di quello che si sono detti. E comunque Calabresi non è la “diciannovesima” vittima di piazza Fontana, è la prima vittima di un fenomeno successivo e che in un certo modo ne discende, il terrorismo omicida nato a sinistra. Mi spiego meglio. Sono un cittadino della Repubblica che nel guardare la foto di quelle due donne -entrambe segnate dalla tragedia - che seggono accanto, non tifa per l’una o per l’altra, non ritiene più notevole il dolore dell’una o dell’altra. Di quella cui Giampaolo Pansa e altri giornalisti bussarono a casa a dirle che suo marito il ferroviere era andato giù dalla finestra, o di quella che era incinta del suo terzo figlio quando bussò alla porta suo padre e dalla sua espressione lei capì che il marito trentatreenne era stato appena assassinato sotto casa sua. Ai miei occhi non c’è nessun derby del dolore fra queste due pur differenti figure femminili. L’una e l’altra specchiano le tragedie recenti del nostro Novecento, e la tragedia di Piazza Fontana è di quelle che perdurano e fanno male nella nostra memoria. Nessun derby, all’una e all’altra i segni del mio più profondo rispetto. Non credo che sia l’atteggiamento di tanti, specie fra quelli della mia generazione. Le stimmate di 50 anni fa molti di loro le conservano intatte. Una campagna contro “il torturatore” Calabresi, una campagna durata quasi due anni e mezzo, non s’è asciugata come si asciuga l’acqua dopo una pioggia notturna. Molti di loro continuano a crederci alla balla sesquipedale che il commissario Calabresi fosse in qualche modo responsabile della morte di Pinelli. Non hanno un particolare, non hanno un elemento che giustifichi questa convinzione, solo che non demordono. E difatti nell’articolo di oggi sul “Fatto”, l’articolo che è arredato dalla foto di Licia Pinelli e di Gemma Calabresi di cui ho detto, vengono riferite le parole che la vedova Pinelli ha pronunciato ancora in questi giorni: “Non mi aspettavo che il sindaco Sala chiedesse perdono alla nostra famiglia. Io non mi aspetto niente da nessuno. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà”. Parole che Licia Pinelli ha tutto il diritto di pronunciare, non fosse che annullano in parte il significato di quella foto e della toccante cerimonia a Palazzo Marino. Perché lasciano intendere, senza beninteso addurre il minimo elemento concreto, che è vera quell’altra narrazione, la narrazione che in questi 50 anni ha fatto da sottofondo della memoria di tanti: che nella stanzuccia della questura Pinelli fosse stato aggredito, colpito, scaraventato giù. E dunque che una qualche ragion d’essere i due colpi sparati alla testa e alla schiena di Calabresi ce l’avessero. O no?
Piazza Fontana, quando l'Isola del Giglio si ribellò a Freda e Ventura. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. Ogni anno, ogni 12 dicembre. Gabriello Galli apre la busta dove tiene i ritagli di giornale dell'epoca e ne estrae un cartoncino rosa. Tanti anni fa era quello il colore delle comunicazioni giudiziarie. Gli arrivò il 27 gennaio 1977 all'Istituto dei Salesiani di Livorno, dove studiava. «Si invita la Signoria vostra a nominare un difensore di fiducia... in quanto pendente presso questo Ufficio — era la procura di Grosseto — il procedimento penale nel quale Ella è indiziato del reato blocco del porto, commesso il 28 e 29 Agosto 1976 in Isola del Giglio». Dopo la citazione dell'articolo, del comma, del decreto legge, c'era una postilla. «Commesso in concorso con +31», che significa con altri trentuno. Erano molti di più, la mattina del 28 agosto 1976 all'ingresso del porto. Il giorno prima, la corte d’Appello di Catanzaro aveva scarcerato per decorrenza dei termini di Giovanni Ventura e Franco Freda, imputati per la strage di Piazza Fontana, disponendo per loro il soggiorno obbligato nell’Isola del Giglio. Si mobilitarono, tutti, abitanti e turisti. Tesero un cavo di acciaio che rese impossibile l'attracco alle motonavi che collegano l'isola a Porto Santo Stefano per protestare contro l'arrivo dei due neofascisti. Non riuscirono a impedirlo, dopo due traghetti rispediti al mittente le forze dell'ordine riuscirono infine a far sbarcare i due imputati. Nell'impossibilità di prendere le generalità a tutti, il mare davanti al Giglio fu per due giorni una distesa di barche e barchini, i carabinieri fecero rapporto citando solo le persone che conoscevano. «Il più vecchio era un marittimo ottantenne, che al processo costrinse il giudice a gridare, perché era quasi completamente sordo. C'erano studenti come me, commercianti, pescatori, tutti gigliesi. Sapevamo di non avere speranze, ma almeno riuscimmo a far capire cosa pensavamo, noi e l'isola, di quei due».
Il «muro» di barche contro l'approdo di Freda e Ventura. I giornali dell'epoca diedero grande risalto alla notizia dell'isola che si ribella, che solo nel 2012 tornerà sulle prime pagine, per ben altra vicenda, il naufragio della Costa Concordia, avvenuto a pochi metri e una spiaggia di distanza dal porto dove andò in scena la protesta. Poi, come spesso accade e come forse è inevitabile, se ne dimenticarono. Era una nota a margine nella storia della strage di piazza Fontana. Ma per molto tempo Gabriello Galli e gli altri trentuno furono le uniche persone condannate per fatti in qualche modo collegati alla bomba che cambiò la storia d'Italia. L'8 marzo 1978, il processo «Stato italiano contro Giovanni Andolfi +30» si concluse con una condanna a trenta giorni di reclusione per tutti. Il reato era stato derubricato, passando da blocco del porto a interruzione di pubblico servizio. L'articolo del Corriere della Sera Sarebbe rientrato nell'amnistia concessa da Sandro Pertini poco dopo la sua elezione, avvenuta il 9 maggio 1978. Ma al processo d'appello, che si svolse a Firenze il 20 novembre di quell'anno, venne di nuovo applicato il reato di blocco navale. Ai venti gigliesi condannati, altri undici andarono assolti, toccò una pena di cinque mesi e dieci giorni, con la condizionale. Il ricorso in Cassazione venne respinto per vizio di forma. Galli, che di quei trentuno fu il più giovane con i suoi 18 anni, ricorda un senso di incredulità che dura ancora oggi, che è un tranquillo pensionato, ex bancario, ex consigliere comunale. «La strage, le bugie e i depistaggi, le complicità. E alla fine gli unici o quasi a pagare siamo stati noi, un gruppo di paesani che poi furono costretti a subire per mesi la vista di Freda e Ventura in giro per le strade del Giglio. Vivevano in un residence di lusso, sempre scortati da una ottantina di carabinieri. Non abbiamo mai capito perché decisero di mandarli proprio a noi». Le ragioni per cui nel processo d'appello ci furono dieci assoluzioni, per posizioni sostanzialmente simili, e nei confronti di gente che si dichiarava rea confessa, forse risiedono proprio nel momento dell'identificazione, a protesta in corso. I venti gigliesi condannati, secondo il rapporto dei carabinieri, avevano tutti «spiccate simpatie socialiste, comuniste ed anarchiche». Sugli altri, invece, nulla da segnalare.
Dagospia il 16 dicembre 2019. Mario Calabresi su Facebook: Ieri sera, appena tornato a Milano da Roma, sono andato a vedere l’albero che è stato piantato per ricordare Giuseppe Pinelli. È di fronte alla mia scuola media, a pochi metri da dove sono cresciuto. Le nostre vite continuano ad incrociarsi. Giuseppe Pinelli, detto Pino, ferroviere anarchico, marito di Licia e padre di Claudia e Silvia, morì esattamente cinquant’anni fa, cadendo dalla finestra dell’ufficio di mio padre nella Questura di Milano. Una morte tragica e insensata che cambiò la vita della sua famiglia e della mia. So con certezza che Giuseppe Pinelli morì da innocente, così come sappiamo che mio padre non ha responsabilità nella sua morte e che non era in quella stanza. Molti erano lì ma non lui. Mezzo secolo dopo credo che finalmente si possa essere liberi di ricordare questi due uomini senza più contrapporli. Mia madre e Licia Pinelli sono due donne serene, capaci di comprendersi, la vita le ha segnate ma le ha anche rese delle persone notevoli. Pochi reduci, tra loro chi porta la colpa dell’omicidio di mio padre, continuano a gettare fango e a spargere veleni, ma non vale la pena dare loro retta, meglio concentrarsi su ciò che serve a ricucire le ferite della nostra società. Quell’albero, una quercia rossa, farà radici e vivrà più a lungo di tutti noi, ricordando a chi si fermerà nella sua ombra una persona mite e perbene.
Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano il 13 dicembre 2019. Un ineccepibile Giuseppe Sala è riuscito a spezzare, quest' anno, i rituali di routine degli anniversari di piazza Fontana. Cinquant' anni dopo, ha piantato una quercia rossa in un parco di San Siro, in ricordo della diciottesima vittima della strage, il ferroviere Giuseppe Pinelli, morto cadendo da una finestra della questura di Milano tre giorni dopo la strage, mentre era detenuto illegalmente e accusato ingiustamente per la strage.
Sala ha chiesto "scusa e perdono a Pinelli, a nome della città, per quello che è stato".
Poi ieri, nella seduta straordinaria del consiglio comunale convocata in occasione del 12 dicembre, il sindaco ha ripetuto e raddoppiato: "Dobbiamo scusarci, per la persecuzione subita, con Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli", anarchici ingiustamente accusati della bomba nera scoppiata in piazza Fontana.
Accanto al sindaco di Milano, c' era il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha voluto partecipare alla seduta straordinaria del consiglio comunale milanese. "Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia", ha detto Mattarella.
"L' attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata doppiamente colpevole. Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana, a vent' anni dall' entrata in vigore della sua Costituzione. L' identità della Repubblica è segnata dai morti e dai feriti della Banca nazionale dell' agricoltura. Un attacco forsennato contro la nostra convivenza civile prima ancora che contro l' ordinamento stesso della Repubblica".
La verità cercata per cinque decenni - e rimasta incompleta sul piano giudiziario - è ora scritta nella formella che il Comune ha voluto porre in piazza Fontana, insieme ad altre 17 che ricordano i nomi delle vittime della strage. Sulla prima formella è scritto: "12 dicembre 1969.
Ordigno collocato dal gruppo terroristico di estrema destra Ordine nuovo". Quel che ancora manca è stato aggiunto da una signora in un foglio scritto a mano con il pennarello e appoggiato accanto alla formella: "e dallo Stato (Ufficio affari riservati)".
È toccato poi al presidente della associazione delle vittime della strage, Carlo Arnoldi, ricordare che qualcosa aveva cominciato a muoversi lo scorso anno, quando il presidente della Camera Roberto Fico aveva per quattro volte chiesto scusa a nome dello Stato ai famigliari delle vittime. "Oggi lo Stato è più vicino? Sì", ha risposto Arnoldi, "con la più alta carica dello Stato che per la prima volta dopo cinquant' anni viene a Milano, ci incontra privatamente, ci invoglia ad andare avanti, e dice che effettivamente in quegli anni qualcuno dello Stato voleva portare a deviazione i processi per non arrivare alla verità".
Ad ascoltare le parole di Mattarella c' era anche Licia Rognini, vedova di Pinelli, con le figlie Claudia e Silvia. Poco distante, Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi che aveva fermato Pinelli, con il figlio Mario. "Ho deciso partecipare anch' io, oggi", ha spiegato Licia Pinelli a Radio Popolare. "Quello di quest' anno è un passaggio importante, è una svolta. Ogni parola del presidente della Repubblica sarà un incentivo ad andare avanti per la democrazia.
Parlare di mio marito Pino in un certo modo è anche un tassello per la democrazia. Non mi aspettavo che il sindaco Sala chiedesse perdono alla nostra famiglia. È stato un bel gesto, che ci restituisce qualcosa. Io non mi aspetto niente da nessuno, quello che arriva arriva, come è avvenuto in questi cinquant' anni. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà".
Mattarella, nella sala gialla di Palazzo Marino, ha incontrato e salutato Licia Pinelli e Gemma Calabresi. Poi un corteo, con i gonfaloni di Milano e di altre città e gli striscioni dei famigliari delle vittime, si è mosso da piazza della Scala per raggiungere piazza Fontana, dove sono stati ricordati i morti, alle 16.37, l' ora dell' esplosione, con un minuto di silenzio e la deposizione delle corone di fiori.
Nel tardo pomeriggio c' è stato il corteo degli anarchici e dei gruppi antifascisti, da piazza Cavour fino a piazza Fontana, slogan centrale: "La strage è di Stato". In serata, un concerto dedicato alle vittime della strage e, al circolo Arci Bellezza, l' incontro-concerto "I pesci ci osservano". Il 15 dicembre ci sarà la catena umana musicale in ricordo di Pinelli dalla questura di Milano a piazza Fontana.
Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano il 28 dicembre 2019. Nelle ultime settimane. Abbiamo visto porre in piazza Fontana la formella su cui è inciso che la bomba del 12 dicembre 1969 fu messa dai fascisti di Ordine nuovo. Abbiamo sentito il presidente Sergio Mattarella affermare che le indagini sulla strage sono state inquinate da depistaggi di Stato. Abbiamo ricordato Giuseppe Pinelli con la più allegra, musicale, anarchica e sconclusionata manifestazione mai vista a Milano. Abbiamo ascoltato il sindaco Giuseppe Sala chiedere scusa, a nome della città, a Pietro Valpreda e a Pino Pinelli, ingiustamente accusati. Ci sono voluti 50 anni, ma qualche passo avanti è stato fatto. Ora sappiamo - e in modo ufficiale - chi ha messo la bomba: i fascisti di Ordine nuovo e quel Franco Freda che gira libero per l'Italia, indicato come responsabile della strage da una sentenza della Cassazione che lo dice non più processabile perché già definitivamente assolto. Sappiamo chi ha depistato le indagini: gli apparati dello Stato che hanno indicato la pista anarchica (l'Ufficio affari riservati) e sottratto ai giudici testimoni e prove sulla pista nera (il Sid, Servizio informazioni difesa). Sappiamo che Pinelli non solo è innocente, ma è anche la diciottesima vittima della strage. Ora ci vorrebbe uno scatto. Non sappiamo ancora tutto. Non sappiamo i nomi dei neri entrati in azione quel 12 dicembre. Non abbiamo certezze sugli uomini dello Stato responsabili dei depistaggi e della morte di Pinelli. Qualcuno dovrebbe ora prendere la parola. Gli uomini ancora vivi di Ordine nuovo, per esempio. Il giudice Guido Salvini ha indicato nel suo libro su piazza Fontana i possibili componenti del commando che entrò in azione a Milano. E negli ultimi giorni si è avviato uno strano dibattito (a distanza) su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli tra Adriano Sofri, Benedetta Tobagi, Giampiero Mughini, Guido Salvini. Sofri, sulle pagine del Foglio, il 14 dicembre 2019 ricorda la testimonianza dell'anarchico Pasquale Valitutti, fermato in questura dopo la strage di Milano, che continua a dire che non vide uscire Calabresi dalla stanza da cui Pinelli precipitò nella notte del 15 dicembre 1969, come invece stabilito dalla sentenza D' Ambrosio. Potrebbe non averlo visto: lo scrivono anche Gabriele Fuga ed Enrico Maltini (anarchico del circolo Ponte della Ghisolfa) nel libro Pinelli. La finestra è ancora aperta. Sofri (condannato definitivo, insieme a Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino per l' assassinio di Calabresi, ucciso il 17 maggio 1972) chiede anche la riapertura delle indagini, sulla base - dice - di un fatto nuovo: nella questura di Milano, dal 12 dicembre 1969 al lavoro sulla pista anarchica, il questore Marcello Guida, il capo della squadra politica Antonino Allegra, il suo vice Luigi Calabresi erano "guidati" dagli uomini degli Affari riservati del ministero dell' Interno arrivati da Roma. A prendere la direzione delle operazioni è la "Squadra 54" guidata da Silvano Russomanno e Ermanno Alduzzi. È una "novità" che conosciamo, in verità, da qualche anno: la ricostruiscono proprio Fuga e Maltini nel loro libro scritto nel 2016, sulla base dei documenti sequestrati a metà degli anni Novanta in un armadio blindato del Viminale dal giudice Carlo Mastelloni, che rivelano anche l'esistenza della "Squadra 54". Il manovratore degli Affari riservati era il prefetto-gourmet Federico Umberto D' Amato, che aveva uno stuolo di informatori ("Le trombe di Gerico"), tra cui il capo di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie e l'infiltrato tra gli anarchici Enrico Rovelli (nome in codice: Anna Bolena), poi fondatore di locali milanesi (il Rolling Stone, il City Square, l'Alcatraz) e agente di Vasco Rossi. Proprio di D' Amato scrive Sofri, in due vecchi articoli pubblicati sul Foglio il 27 e il 29 maggio 2007: rivela che un ignoto "conoscente comune" lo mise in contatto con l'anima nera degli Affari riservati, il quale gli propose di compiere "un mazzetto d' omicidi", garantendogli impunità. Lo ricorda Benedetta Tobagi nella sua replica sul Foglio del 17 dicembre 2019, richiamando anche una mezza conferma di D' Amato, contenuta in un documento rinvenuto dopo la sua morte avvenuta nel 1996: un abbozzo d' autobiografia dal titolo Memorie e contromemorie di un questore a riposo, in cui D' Amato racconta dei rapporti amichevoli con personaggi "come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac)". Tobagi ricorda che fu messa "in dubbio la veridicità del ricordo, dicendo che Sofri è astemio", ma "nulla vieta di ipotizzare che mentre il gourmet D' Amato sorseggiava alcolici d' annata, Sofri bevesse, che so, chinotto". Al di là delle bevande, sarebbe bello che l'allora capo di Lotta continua raccontasse chi era il misterioso "conoscente comune" e come sia stato possibile che D' Amato - lo stesso che manovrava la "Squadra 54" - gli abbia chiesto quel "mazzetto d' omicidi". Conclude Benedetta Tobagi: "L' ennesimo scambio indiretto di messaggi allusivi, ambigui e omertosi intorno a vicende degli anni Settanta su cui permangono spesse coltri di nebbia". Aggiunge il giudice Salvini, nascosto in pagina, sul Foglio del 27 dicembre: "Credo che Pietrostefani abbia il dovere morale di raccontare cosa è accaduto. Non si ha il diritto di chiedere la verità sul 12 dicembre 1969 se si sceglie di tacere su ciò che è avvenuto il 17 maggio 1972, se non si racconta chi mandò quei due sciagurati di Bompressi e Marino in via Cherubini a uccidere il commissario. Sarebbe ora, ex poliziotti o ex capi di Lotta continua, di dire qualcosa e ciascuno ha il dovere di prendersi le proprie responsabilità. La verità è tale solo se intera, non se si sceglie solo la parte che è più gradita".
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 15 dicembre 2019. Ma a un condannato per l'omicidio di un commissario di polizia, che per meriti giornalisti ha ottenuto vari benefici, compreso quello di passare una parte della pena ai domiciliari, è consentito di diffamare a mezzo stampa lo stesso commissario di polizia che ha contribuito a far ammazzare? La domanda me la sono fatta ieri, dopo aver letto l' articolo di Adriano Sofri su Il Foglio. L'ex fondatore di Lotta continua è da anni un collaboratore del quotidiano fondato da Giuliano Ferrara. Lo è dal tempo in cui il pentito Leonardo Marino confessò di aver fatto parte del commando che uccise Luigi Calabresi, indicando lui come mandante. La sinistra giornalistica, quella che per anni ha dettato legge nei giornali (come ha magnificamente spiegato Michele Brambilla in L'eskimo in redazione), mentre Sofri era dietro le sbarre pensò di risarcirlo elargendogli varie rubriche, oltre che sul Foglio, su Panorama e su Repubblica, e ciò ha consentito al leader di Lc di elevarsi al rango di maître à penser. Ovviamente tutti, anche un ex carcerato condannato per omicidio, hanno diritto di dire la loro. Ma che a distanza di cinquant'anni dai fatti, Sofri getti a mezzo stampa altre ombre su una tragedia come quella di piazza Fontana, di Pino Pinelli e di Luigi Calabresi, è francamente inaccettabile. Già in passato Sofri, che pure è stato ritenuto colpevole in vari gradi di giudizio, ha provato a riscrivere la storia. Dieci anni fa, ad esempio, compose per Sellerio un pamphlet dal titolo La notte che Pinelli, cercando di alimentare il sospetto di un brutale omicidio del povero Pinelli. Peccato che ci sia una sentenza, per di più pronunciata da un giudice come Gerardo D'Ambrosio, certo non sospettabile di partigianeria per i fascisti, i servizi segreti o la polizia, che dice il contrario. Pinelli non fu ucciso dagli agenti della Questura guidati da Luigi Calabresi: cadde dalla finestra per un malore. Lo so che all'ex fondatore di Lotta continua questa sentenza non piace e la vorrebbe confutare e riformare per dimostrare che no, l' anarchico fermato dai poliziotti dopo la strage di Piazza Fontana non morì cascando da solo dalla finestra, ma fu brutalmente picchiato dagli agenti del servizio politico i quali forse, dopo essersi accorti di averlo manganellato troppo, per liberarsi dall' accusa di omicidio lo presero e lo buttarono giù dal quarto piano. Ma la tesi alimentata dai giornalisti di sinistra, dai compagni, da Lotta continua fu ed è smentita dagli atti. Dall' autopsia, dalle perizie che furono eseguite, dalle indagini, dalle testimonianze e, infine, da una sentenza. So altrettanto bene che per Sofri, uno che si proponeva di abbattere lo Stato borghese, le sentenze sono carta straccia. Da anni infatti ripete che la sua, quella che lo ha condannato a 22 anni di carcere come mandante dell' assassinio Calabresi, è sbagliata, anche se è stata confermata in Cassazione, riaffermata dopo la revisione del processo e pure certificata dalla Corte europea dei diritti dell' uomo. Sì, per Sofri ci sono stati ben sette gradi di giudizio, ma lui si ritiene vittima, tanto che si è sempre rifiutato di chiedere la grazia, pretendendo che fosse lo Stato a risarcirlo di un' ingiusta detenzione, liberandolo. Ma in uno Stato di diritto le sentenze si rispettano, soprattutto quando sono definitive. Vi chiedete però perché l'ex leader di Lotta continua insista tanto nel gettare ombre sul caso Pinelli? La risposta è semplice. Perché se Pinelli è stato buttato giù, se in quella stanza c' era Luigi Calabresi, beh allora il commissario non era quel santo che dipingono e dunque chi lo ha assassinato è sì un assassino, ma con meno responsabilità di quelle che gli si possano addebitare. Se l'anarchico, invece di essere caduto per «un malore attivo», è finito giù dal quarto piano dopo essere stato ammazzato di botte e Calabresi era lì, perché l' anarchico Pasquale Valitutti dice che c'era, allora quella campagna criminale che Lotta continua fece contro il commissario non era così sbagliata. Dopo la morte di Pinelli il giornale di Sofri, come molti ricorderanno, scatenò una vera e propria caccia all' uomo contro il vice capo dell' ufficio politico della Questura, dipingendolo come un picchiatore e un agente della Cia. Contro di lui fu fatto anche un manifesto, pubblicato su l'Espresso e firmato da centinaia di sedicenti intellettuali, molti dei quali poi sono finiti a dirigere giornali o a occupare posti importanti nelle redazioni, e alcuni hanno ospitato gli articoli di Sofri. Il giorno in cui il commissario fu ucciso da un commando che lo attese fuori casa, Lotta continua titolò: «Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell' omicidio di Pinelli». Sulla prima pagina seguiva un commento in cui si ribadiva che il commissario era un assassino e si concludeva nel seguente modo: «L'omicidio politico non è certo l'arma decisiva per l'emancipazione delle masse dal dominio capitalista, così come l'azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che noi attraversiamo. Ma queste considerazioni non possono assolutamente indurci a deplorare l'uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Basta per capire che a distanza di mezzo secolo Sofri prova ancora a lavarsi la coscienza gettando fango su Calabresi?
Estratto dell'articolo di Adriano Sofri per “il Foglio” il 15 dicembre 2019. Calabresi, Pinelli: ancora? Ancora, e ricominciando daccapo. Intanto comincerò da una cronaca. Roma, un' aula della Sapienza, mercoledì 4 dicembre. […] Era una "Giornata di studi sulla strage di piazza Fontana", titolo: "Noi sappiamo, e abbiamo le prove", organizzata dall' Archivio Flamigni e dall' Università. […] A questo punto una voce dal pubblico […] ha chiesto compitamente di fare una domanda. L'ha fatta. Vorrei sapere, ha detto, come fate a sostenere che Calabresi era uscito dalla stanza. […] Era Pasquale "Lello" Valitutti […] è l' anarchico ventenne che aspettò il suo turno seduto accanto a Pino Pinelli nel salone comune al quarto piano della questura milanese, quando già tutti gli altri fermati erano stati mandati a casa. Ed era seduto nel salone comune ad aspettare che Pinelli uscisse dalla stanza del commissario Calabresi, la notte che Pinelli ne uscì dalla finestra. Valitutti è quel genere di persona di cui gli oratori di un convegno non possono fare a meno di dirsi: "Eccolo, questo rompicoglioni!". Dunque, ha potuto parlare. Ha detto quello che dice da sempre, e qualcos' altro. Dice che dal suo posto "vedeva perfettamente la porta dell' ufficio del dottor Allegra, capo della sezione politica della questura, e la porta dell' ufficio del dottor Calabresi". Che "circa 15-20 minuti prima della mezzanotte il silenzio venne rotto da rumori nell' ufficio di Calabresi, come di trambusto, di una rissa, di mobili smossi ed esclamazioni soffocate. Poi un incredibile silenzio". Che nei minuti precedenti "nessuno era uscito dall' ufficio e tantomeno entrato in quello di Allegra". Che a mezzanotte udì "un tonfo, che non ho più dimenticato e che spesso mi rimbomba". Che "un attimo dopo ho sentito uno smuoversi di sedie e passi precipitosi". Che "due sbirri si sono precipitati da me e mi hanno messo con la faccia al muro". Che subito dopo è arrivato Calabresi e gli ha detto: "Stavamo parlando tranquillamente, non capisco perché si è buttato". Che la mattina dopo l' hanno rilasciato. Che ha ripetuto la sua testimonianza al processo Calabresi-Lotta Continua e che il difensore di Calabresi non l' ha neppure controinterrogato. Che durante il sopraluogo del tribunale nella questura ha mostrato al giudice Biotti i segni sulla parete che dimostravano come una macchina distributrice fosse stata spostata nel frattempo per far credere che ostruisse la sua vista la notte che Pinelli. Che il giudice D' Ambrosio non lo chiamò mai a testimoniare, benché fosse l' unico testimone civile presente quella sera. Che Calabresi e gli altri presenti nella stanza, "tutti assassini di Pinelli", avevano tutti mentito, e che la beatificazione di Calabresi è inconcepibile, eccetera. Benedetta Tobagi […] Ha anche detto - lasciandomi qui interdetto - che la presenza degli uomini degli Affari Riservati nella questura milanese, che è la più rilevante acquisizione ultima dell' indagine e della ricerca, può confermare che Calabresi fosse uscito dalla sua stanza, per andare non da Allegra ma da Russomanno e dagli uomini degli Affari Riservati. "Ma Calabresi ha detto che è uscito per andare da Allegra, e ha mentito", ha ovviamente replicato Valitutti. Tobagi: ma abbiamo detto che Calabresi ha mentito, su Pinelli tutti hanno mentito. Poiché le mie citazioni non sono testuali, invito caldamente a vedere e ascoltare la registrazione sul sito di Radio Radicale, dibattiti, 4 dicembre. […] […] di tutti gli sviluppi della ricerca attorno al 12 dicembre della strage degli innocenti e al 15 dicembre della defenestrazione di Pinelli, il più importante, e sbalorditivo, è la notizia (una vera "ultima notizia", di quarant' anni dopo) dell' arrivo da Roma alla questura milanese di un manipolo di funzionari dell' Ufficio Affari Riservati - "fra i 10 e i 15" - guidati dal vice di Federico Umberto D' Amato, Silvano Russomanno. Costoro presero da subito il comando pieno dell' indagine, direttamente sopra il capo dell' Ufficio politico, Antonino Allegra, e il giovane commissario dell' ufficio politico addetto all' estrema sinistra e agli anarchici, Luigi Calabresi. Questa dirompente notizia è diventata pubblica per la prima volta nel 2013, quando l' anarchico Enrico Maltini, fondatore della Croce Nera, che dal 15 dicembre del 1969 non aveva mai smesso di dedicarsi a Pinelli (è morto nel marzo del 2016) e Gabriele Fuga, avvocato penalista, pubblicarono un libretto intitolato "E a finestra c' è la morti" (Zero in condotta), ripubblicato poi, rivisto e arricchito di nuovi documenti, nel 2016, col titolo "Pinelli. La finestra è ancora aperta" (ed. Colibrì). Così esordivano gli autori: "Nel 1996 dagli archivi di via Appia si scopre che almeno altre 14 persone facenti capo al ministero dell' interno e mai sentite dai magistrati si aggiravano in quel quarto piano della questura di Milano la notte in cui Pinelli morì". […]dunque per 44 anni, si è discusso, denunciato, giudicato e condannato di una questura di Milano spigionata di quei "10 o 15" signori dagli Affari Riservati, Russomanno, Catenacci, Alduzzi e la sua "squadra 54" Farò un esempio risentito: nel 2009 scrissi un libro cui tenevo molto, "La notte che Pinelli" (Sellerio). Studiai con tutto lo scrupolo di cui ero capace le carte dei processi che avevano riguardato Pinelli, e specialmente quelle che avevano preteso di mettere la parola fine al "caso" della sua morte, firmate da Gerardo D' Ambrosio. Argomentai, al di là della inaccettabile tesi che passò sotto il nome di "malore attivo", errori documentabili del giudice, che aveva per esempio frainteso il racconto dell' ultimo giorno che costituiva l' alibi di Pinelli. Era il 1975, a D' Ambrosio premeva liberare la memoria di Pinelli dalle accuse mostruose che l' avevano colpito, e insieme liberare quella di Calabresi: lo fece consacrando la versione secondo cui Calabresi era uscito dalla stanza per andare dal suo capo, Allegra, e che in quella sua assenza Pinelli, col quale erano rimasti altri quattro poliziotti e un ufficiale carabiniere, era precipitato. Nel mio libro, tenni certo conto della testimonianza, così precisa (e mai smentita, quanto alle circostanze e alle parole dette a lui da Calabresi), di Valitutti. Scrissi che doveva "almeno" essere considerata quanto quella di ogni altro testimone. Tuttavia io stesso mi volli persuadere che nel tempo non breve dell' interrogatorio di Pinelli l' attenzione di Valitutti avesse potuto attenuarsi e impedirgli di notare il passaggio di Calabresi da un ufficio all' altro. Nell' ultima riga risposi alla domanda su che cosa fosse successo quella notte nella questura di Milano: non lo so. Mi costò quella risposta. Il giudice, poi parlamentare, D' Ambrosio, commentando il mio libro, si lasciò sfuggire un lapsus impressionante. A confermare che Calabresi uscì dalla stanza, disse, c' è anche la testimonianza oculare del giovane anarchico Valitutti. La sua memoria aveva benevolmente rovesciato la cosa. Mi colpì allora e mi colpisce di più oggi. […] Perché tacere, come un sol uomo, la presenza di quei capi degli Affari Riservati, non è un' innocua omissione: è una menzogna. […] Perché qualcuno, prima dell' anarchico Maltini e dell' avvocato libertario Fuga, era venuto a conoscenza di quel dettaglio, l' esproprio della questura milanese e dell' indagine ac cadaver, perinde da parte degli Affari Riservati. Precisamente, due magistrati (almeno, e i loro superiori): Grazia Pradella, giovane sostituto della Procura di Milano che condusse dal 1995 fino al 1998 una nuova inchiesta su piazza Fontana, col collega Massimo Meroni. La signora Pradella ottenne dai suoi interrogati informazioni clamorose. Lo stesso Russomanno, interrogato lungamente e rigorosamente, dichiarò di essere stato a Milano "quando morì Pinelli".[…] Dal 1996-97 al 2013, quando per la prima volta il pubblico, "gli Italiani", come si dice infaustamente oggi, ricevono la notizia sugli Affari Riservati nella Milano che impacchetta Valpreda e defenestra Pinelli, sono passati almeno sedici anni. Per sedici anni, "gli Italiani", quelli che hanno interesse alla cosa, hanno rimisurato metro per metro, passo per passo di poliziotti e anarchici, il quarto piano di via Fatebenefratelli senza urtare i 10 o 15 pezzi grossi. C' è una spiegazione? Erano forse tenuti, i magistrati che avevano raccolto quella notizia sconvolgente, al segreto? E D' Ambrosio, superiore di Pradella e corresponsabile dell' inchiesta e antico firmatario di una indagine e una sentenza su Pinelli che questa notizia inficia da capo a fondo, non ne è stato informato? E quando D' Ambrosio e Pradella vengono ascoltati a Roma dalla "Commissione sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi", presieduta da Giovanni Pellegrino, il 16 gennaio 1997, e non ne parlano nemmeno lì (salvo che io mi sbagli), a che cosa è dovuto il loro silenzio? […] Esiste dunque un segreto di Stato, e poi dei segreti di cui non si riesce a immaginare l' origine e il movente. […]
I retroscena. La storia di Pino Pinelli, 18esima vittima della Strage di Piazza Fontana. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Dicembre 2019. «E a un tratto Pinelli cascò» oppure «una spinta e Pinelli cascò»? Nelle due versioni della Ballata, diffusa nel 1970 su un 45 giri “parole e musica del proletariato”, c’è la storia di un uomo, della sua vita e della sua morte. Giuseppe Pinelli, detto Pino, anarchico, ferroviere e staffetta partigiana. Brava persona, bravo padre di famiglia, bravo militante. “Suicida” secondo il questore e i suoi uomini che in quella notte del 14 dicembre di cinquant’anni fa l’avevano in custodia eppure non ne seppero proteggere l’integrità fisica. “Suicidato”, secondo le certezze di coloro che ne conoscevano personalmente le passioni che non contemplavano quel mal-di-vivere che può portare al desiderio di morire. Poi ci sono tutti quei testimoni dell’epoca, i sopravvissuti di un giornalismo curioso che con puntiglio voleva guardare dentro i fatti al di là delle versioni ufficiali. Coloro che non si sono mai arresi a una verità giudiziaria che non è una verità, che ha tormentato a lungo lo stesso magistrato, il giudice Gerardo D’Ambrosio, autore ed estensore di una sentenza che crea disagio. Prima di tutto in chi l’ha scritta. Che cosa sia esattamente un “malore attivo” non lo sa nessuno. Quel che è certo è che un corpo, in una notte di dicembre milanese degli anni in cui ancora c’era la nebbia e tanto caldo non poteva esserci, è volato da una finestra del quarto piano, ha poi rimbalzato due volte sui cornicioni ed è precipitato a terra dopo una traiettoria diritta, come fosse stato un pacco. Invece era un uomo, si chiamava Pino Pinelli, era uno degli ottanta anarchici fermati la sera del 12 dicembre dopo la bomba di piazza Fontana. Quell’uomo, nella terza sera trascorsa in questura senza l’avallo di alcun magistrato, a un certo punto nella stanza del commissario Calabresi dove lo stavano interrogando, non c’era più. Era giù, nel cortile della questura di via Fatebenefratelli. Volato via dalla finestra aperta. Oggi possiamo dire, tutti dicono, che l’anarchico del Ponte della Ghisolfa è stato la diciottesima vittima della strage alla banca dell’agricoltura. Ci voleva il cinquantesimo anniversario per arrivare a questo riconoscimento. Ma nel 1969 valevano le parole del questore, a Milano: «Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto». Aggiungendo in seguito, in una conferenza stampa, che «il suo alibi era crollato». Nulla, neanche i morti di piazza Fontana, le sedici bare in una piazza Duomo grigia uggiosa e smarrita, nulla ha diviso la città, i suoi pensieri, le sue grida rabbiose, come i fatti di quella notte in questura e quel corpo giù nel cortile. Lo spettacolo di Dario Fo, “Morte accidentale di un anarchico”, visto e rivisto da migliaia di persone all’interno di un triste capannone, la grande tela del pittore Enrico Baj ( “I funerali dell’anarchico Pinelli”), e poi i tanti libri e il grande lavoro di quel gruppo di giornalisti che non si è mai arreso all’ipotesi del suicidio. E poi un’altra notte, ancora fredda, con il buio squarciato dalle luci di grandi fari, eravamo tutti lì, in quello stesso cortile, ad assistere alla prova del manichino: buttato e poi caduto, e ancora buttato e poi caduto. Il cuore stretto, magistrati, poliziotti, giornalisti. Una cosa fu certa, Pino Pinelli non poteva essersi suicidato, la caduta verticale lo escludeva. Il corpo che era precipitato nel cortile era un corpo morto (pur se non in senso letterale), esprimeva un certo abbandono, una certa passività. Ma non si poteva neppure dimostrare che qualcuno avesse afferrato quel corpo e lo avesse buttato giù. E per quale motivo, poi? Perché, in quella stanza, dove insieme ai poliziotti stranamente c’era anche un ufficiale dei carabinieri, era successo qualcosa di pesante, qualcuno si era sentito male e qualcun altro aveva perso la testa? Non si saprà mai, e tutti coloro che erano in quella stanza, pur con le loro testimonianze contraddittorie, furono assolti. Il commissario Calabresi, capo dell’ufficio politico della questura, non era in quell’ufficio, che pure era il suo, in quel momento. Ma nelle piazze si gridò a lungo “Calabresi assassino”, lo si scrisse sui giornali, lo si raccontò nelle vignette in cui il commissario era sempre vicino a una finestra aperta. Ci fu una denuncia per omicidio presentata da Licia Rognini, vedova Pinelli e ci fu una querela per diffamazione di Calabresi nei confronti del quotidiano Lotta continua. E poi, mentre il caso Pinelli era stato archiviato dal giudice D’Ambrosio con quell’ipotesi di “malore attivo” che in definitiva scontentava tutti, il commissario Calabresi fu assassinato con due colpi alla nuca in via Cherubini, di fronte alla casa dove abitava. È il 1972, non sono passati tre anni da quella notte del dicembre 1969 e qualcuno pensa che giustizia sia stata fatta. Nel modo peggiore possibile. Non sarà così, ovviamente. Di nuovo con le sentenze non ci sarà pace su questa vicenda. E la condanna di Sofri, Pietrostefani e Bompressi per l’omicidio Calabresi lascia l’amaro in bocca come tutte le sentenze frutto di processi indiziari. Sarebbe meglio non delegare più alle toghe il ricordo di Pinelli. Come ha già fatto con un grande gesto l’ex presidente della repubblica Giorgio Napolitano che nel 2009, nel giorno della memoria, ha riunito al Quirinale le due donne simbolo della sofferenza, Licia Rognini, vedova Pinelli, e Gemma Capra, vedova Calabresi. E ad altre due donne, le figlie del ferroviere anarchico Claudia e Silvia, il merito, la capacità, l’intelligenza di aver preparato per questo 14 dicembre 2019 la “catena musicale” che unirà anche fisicamente (pur nell’assenza degli anarchici) piazza Fontana con i suoi morti e la questura con la sua diciottesima vittima, Pino Pinelli.
50 anni fa la strage di Piazza Fontana: è ancora mistero. Tiziana Maiolo il 12 Dicembre 2019 su Il Riformista. Sarà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a onorare con la sua partecipazione oggi pomeriggio il consiglio comunale di Milano e poi a guidare il breve corteo che da piazza della Scala porterà in piazza Fontana il ricordo della strage di cinquant’anni fa alla Banca dell’agricoltura. I diciassette morti (cui ci sembra giusto aggiungere come diciottesima vittima l’anarchico Pinelli) e gli ottantotto feriti non possono, non devono essere dimenticati, fanno parte della storia di Milano e della storia d’Italia. Questo va ben oltre le cinque istruttorie, i dieci processi che hanno popolato trentasei anni della nostra vita e nessuna sentenza che abbia in modo definitivo sancito chi ha messo le bombe, le cinque bombe che furono collocate, tre a Roma e due a Milano, il 12 dicembre del 1969. Il processo più lungo nella storia della Repubblica italiana. Ma è importante chiarire un altro punto. Chi ha a che fare con esplosivi, chi mette le bombe per motivi politici, fosse anche in luoghi disabitati e come puro gesto dimostrativo, compie comunque un atto tragico che non va giudicato solo nei tribunali ma anche nella società e nella storia. Per questo, e anche perché tutti gli imputati – prima gli anarchici e poi i fascisti – sono usciti indenni dai processi, non ha più molta importanza se mandanti ed esecutori volessero o meno uccidere, come pensano e hanno pensato tante persone degne e non sospettabili di complicità con gli attentatori. Il ragionamento è elementare, e fa ormai parte della storiografia: se le bombe erano cinque e sono state messe per uccidere, come mai solo una ha avuto effetti tragici? E se le banche chiudono gli sportelli alle 16, ma quel venerdì gli agricoltori si erano attardati per le loro transazioni commerciali, è possibile che chi ha fatto esplodere la bomba alle 16,37 non sapesse dello spostamento di orario? Sì, è possibile. Ma questo non cambia niente. I morti e i feriti ci sono stati. E questa è realtà. Milano ha subìto uno squarcio ben più profondo di quello che ha sfondato il pavimento della banca dell’agricoltura. E questo è un dato storico. Ma non significa che qualcuno possa arrogarsi, in modo arbitrario e soggettivo, il diritto a conoscere e a raccontare, magari a ignari ragazzini, “la verità”, con la V maiuscola, a modo proprio e anche alterando la storia. Lo ha spiegato bene su questo giornale due giorni fa il professor Vladimiro Satta a proposito di Romanzo di una strage, il film di Marco Tullio Giordano, che andrà in onda su Rai 2 questa sera, tratto liberamente dal libro di Paolo Cucchiarelli. Ancor prima del 1974, quando sul Corriere della sera apparve lo scritto di Pierpaolo Pasolini “Io so”, ma non ho le prove e neanche gli indizi, in molti si sono (ci siamo) esercitati sui “misteri” di piazza Fontana. Ancora oggi quella non è una piazza normale, con una banca, l’arcivescovado, la fontana, la sede dei vigili urbani, il capolinea del tram numero 24. Non solo per la targa e le formelle messe pochi giorni fa a ricordo di ogni vittima, citati per nome uno a uno, come è giusto. Ma per l’impossibilità a rassegnarsi. Rassegnarsi al fatto che la realtà probabilmente è stata più semplice, ben diversa da quella immaginata dall’ideologia del complotto politico-eversivo che ha nutrito tanti di noi giovani democratici del tempo. “La strage è di Stato”? Nessuno oggi può dirlo. E se non sono state sufficienti le bugie e le reticenze al processo di Catanzaro del presidente Andreotti e degli altri politici venuti a testimoniare, ha ancor meno senso oggi accusare l’ex presidente Saragat piuttosto che Mariano Rumor di aver tentato di organizzare un colpo di Stato. Sono argomenti che non hanno solidità neppure per chiacchiere da bar. Certo, qualche piccola certezza la storia ce l’ha consegnata, anche attraverso le migliaia di pagine dei dieci processi. Che il Veneto sia stato culla dell’eversione di destra di Ordine Nuovo e di quella singolare coppia di intellettuali che si chiamavano Freda e Ventura, l’uno che si trastullava con i timer e l’altro che confidava a un amico che “qualcosa di grosso” sarebbe potuto accadere, è stato scritto e riscritto. Ma non è stato sufficiente per esser giudicato prova di colpevolezza di autori di strage. E ci sono ancora persone convinte che qualche “pasticcetto” (come l’ipotesi della bomba dei buoni, il secondo ordigno del libro di Cucchiarelli) l’abbia combinato anche Valpreda, visto che i tanti magistrati che l’hanno giudicato sono ricorsi in gran parte ad assolverlo per insufficienza di prove. Invece, se c’è stata una testimonianza granitica fin dal primo momento a favore della sua estraneità è stata sempre quella della zia Rachele: io so che Piero è innocente, perché quel giorno era a casa mia a letto ammalato e non in piazza Fontana. Non è stata creduta, e anche questo è un fatto storico. Sono dunque stati inutili i tanti libri pubblicati in questi anni e i film e poi le commemorazioni e il ricordo dei tanti 12 dicembre fino a questo cinquantesimo? Assolutamente no. Tutti saremo in piazza, oggi. Per ricordare le vittime e per gridare che ci hanno ferito, ma che saremo sempre lì per impedire, nei limiti del possibile, che un’altra bomba ferisca ancora così la città di Milano e l’Italia intera. Solo per questo, senza esser depositari di nessuna “Verità”. Ma non è poco.
Piazza Fontana, le carte segrete del presidente del Consiglio Rumor: «No a un governo sulle bombe». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Maurizio Caprara su Corriere.it. È stato descritto come «uno dei veri padroni della politica italiana tentati dalla suggestione autoritaria», per usare a titolo di esempio una definizione impiegata da Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin nel libro del 1999 La Strage. Piazza Fontana. Verità e memoria, Feltrinelli editore. Per descrivere il suo ruolo nel 1969, i due autori aggiunsero: «Neofascisti e circoli atlantici oltranzisti contano su di lui per una svolta tanto attesa». La tesi ricorre in varie pubblicazioni. Sta di fatto che da carte sepolte dal tempo e tornate alla luce 50 anni dopo i fatti può uscire un profilo anche un po’ diverso di Mariano Rumor, presidente del Consiglio italiano quando morte e dolore il 12 dicembre 1969 irruppero con un’esplosione nella Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano (Qui tutto lo speciale interattivo del Corriere, con foto, ricostruzioni e commenti). Un ritratto quanto meno integrabile del democristiano vicentino della corrente dorotea nota per una sua familiarità con il potere. «Personalmente dico no a un Governo sulle bombe. Se c’è qualcuno che pensa a cogliere occasione per involuzioni, questi non può essere nella Democrazia Cristiana, e ancor di meno la Democrazia cristiana», si legge nella minuta di un discorso che Rumor preparò per una riunione di dirigenti della Dc. Contenuti in una cartellina color senape con l’intestazione «SEGRETERIA PARTICOLARE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI» i fogli non sono datati, ma più elementi portano a ritenere che fossero stati battuti a macchina per la riunione della Direzione del partito di maggioranza relativa del 19 dicembre, una settimana dopo la strage. In un’altra versione dello stesso testo che Rumor conservava tra i suoi appunti, con più correzioni a mano e dunque probabilmente precedente a questa, la presa di posizione è formulata così: «Il problema, dunque, non è quello di formare un Governo quasi di salute pubblica. Personalmente dico ‘no’ ad un Governo sulle bombe». Un’annotazione a penna sembra suggerire approfondimenti delle due frasi: «Sviluppare un po’».
Uno dei passaggio dei documenti riservati, in cui Rumor promuoveva la ricostituzione del centro-sinistra per creare un ampio fronte politico in grado di contrastare gli attacchi del terrorismo. Queste pagine appartengono al Fondo Rumor conservato a Palazzo Giustiniani. Sono state ottenute da chi scrive dopo che il presidente della Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico del Senato, Gianni Marilotti, ne ha accennato in una sua lettera a Claudia Pinelli, figlia del ferroviere morto nella questura di Milano mentre era ingiustamente accusato della strage. Dal 2016, quando il fondo è stato «versato» a Palazzo Giustiniani, come si dice in gergo, nessuno studioso risulta averle consultate. Prima non erano catalogate. Non sono i soli documenti che aggiungono dettagli alla ricostruzione del periodo storico nel quale venne compiuta la strage. Da un’altra lettera che Rumor conservava emerge che il mese prima dell’attentato il comandante generale dell’Arma dei carabinieri, in via riservata, faceva presente il «possibile verificarsi di una situazione da ritenere di assoluta emergenza» nelle forze armate. Al capo del governo e al ministro della Difesa Luigi Gui, in quel messaggio, il generale Luigi Forlenza segnalava un «grave malcontento» dei militari verso un «riassetto» in programma che li avrebbe messi in condizioni di «notevole inferiorità rispetto agli altri dipendenti dello Stato». Con un tono che è improbabile sia stato abituale da parte di alti ufficiali verso chi era al governo, il comandante avvisava: «Ove tale fatto si verificasse, ciò sarà valutato dall’opinione pubblica qualificata e dai componenti delle FFAA (Forze armate, ndr) come concreta dimostrazione di scarsa considerazione da parte della classe politica dirigente verso tutti i militari». Ancora di più: «Tale malcontento, di cui ritengo superfluo sottolineare a V. S. On. le l’estrema pericolosità, sarà rivolto verso il governo e verso le alte gerarchie militari a cui si farà addebito di non aver voluto o saputo rappresentare, in forma adeguata, le necessità dei propri dipendenti. Verrà, quindi, a mancare quel rapporto di fiducia verso i capi che è elemento indispensabile per la coesione e l’unità delle FFAA, che il Paese ritiene custodi insostituibili delle libere Istituzioni democratiche della nostra Patria». Come se a Rumor venisse ipotizzato uno scenario di ammutinamenti multipli, se non peggio. Altro che un rispetto uniforme della massima «usi a obbedir tacendo». Non va tenuto conto soltanto del cosiddetto autunno caldo, stagione di imponenti proteste sindacali, per avere un’idea del clima nel quale vengono messe nero su bianco queste righe. In un mondo diviso in due tra un’area di influenza sovietica e una americana, il 1969 in Italia è anche l’anno che precede il colpo di Stato tentato, e poi abortito sul nascere, nella notte tra 7 e 8 dicembre 1970. A prepararlo fu Junio Valerio Borghese, già comandante della X Mas e fascista che i servizi segreti di Regno Unito e Stati Uniti avevano salvato da una probabile fucilazione da parte di formazioni partigiane. Borghese puntava sui militari nella speranza di raddrizzare con mano forte uno spostamento dell’Italia verso sinistra. Di certo Rumor era uno degli uomini di governo e della Dc che più era in grado di percepire quanto poteva muoversi nelle Forze armate. Una parte della pubblicistica su piazza Fontana attribuisce al presidente del Consiglio di aver cambiato idea sull’appoggio a una svolta autoritaria, rinunciando ad avallarla, dopo la mobilitazione operaia scattata a Milano in occasione dei funerali delle vittime. Le carte delle quali riferiamo non affrontano questo aspetto, ma almeno nelle tracce del suo intervento Rumor non lascia trasparire titubanze in un orientamento a promuovere un ricompattamento della maggioranza Dc, socialisti, socialdemocratici e repubblicani allora sfibrata dalle divisioni tra Partito socialista italiano e Partito socialista unitario. Nei testi per la Dc Rumor citava l’«autunno caldo», «la morte del giovane Annarumma», ossia la guardia della Celere Antonio Annarumma morto a 22 anni durante scontri di piazza, e «di uno studente» oltre a «tentativi di portare fuori dal suo ambito proprio la dialettica sindacale». Il presidente del Consiglio proseguiva così: «I fatti più recenti possono darci oggi una visione esatta delle cause e sottolineare, com’è doveroso, il senso di responsabilità e lo sforzo fatto dai sindacati per non consentire il gioco pesante ed oscuro di elementi estranei e di gruppi eversivi. Oggi è chiara a tutti quella che ieri poteva apparire una preoccupazione eccessiva; e cioè che c’è la tentazione diffusa di gravare di violenza le tensioni sociali e politiche, che pur rientrano nella varia e positiva manifestazione della vita democratica, ad opera di gruppi che sotto l’una o l’altra etichetta puntano allo scardinamento dello Stato democratico». Poi un’aggiunta a penna: «E della fiducia dei cittadini». Segue una valutazione inquietante sullo stato d’animo dell’Italia del momento: «Il rischio di uno sbandamento psicologico, dunque, c’è». Nulla di tutto questo sconvolge il quadro storico o aggiunge elementi di prova a carico o a discarico dei colpevoli di una strage compiuta da fascisti non certo colpiti con tempestività dallo Stato. Uno Stato in quei giorni ancora proiettato nel perseguire gli anarchici innocenti Pietro Valpreda e Pinelli. Quest’ultimo morì il 15 dicembre. Sarebbe il caso tuttavia di non perdere d’occhio le sfumature e i dettagli che possono venire fuori da documenti del genere e da declassificazioni ancora non avvenute. Dianese e Bettin intanto nel loro ultimo libro La strage degli innocenti hanno sfumato quanto era stato attribuito a Rumor e hanno messo in risalto che erano neofascisti a ritenerlo responsabile di una «retromarcia» su una dichiarazione di stato d’emergenza. Per quanto riguarda i timori di spinte a destra favoriti dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura, chi scrive può ricordare ciò che gli spiegò molti anni più tardi a Montecitorio Elio Quercioli, nel 1969 dirigente del Partito comunista milanese. Per contrastare tentazioni autoritarie, e favorire un clima adatto all’«unità delle forze democratiche», innanzitutto comunisti e democristiani, il Pci ricorse tra l’altro a un espediente. Predispose lungo il percorso di una troupe della Rai durante i funerali delle vittime di piazza Fontana una serie di persone pronte a dichiarare che la minaccia terroristica richiedeva impegno unitario dell’arco costituzionale, ossia delle forze antifasciste. Anche in questo consisteva la propaganda politica di allora. La sera del 15 dicembre Rumor aveva ricevuto in casa sua a Milano i segretari della coalizione di governo che si era frantumata: il democristiano Arnaldo Forlani, il socialista Giuseppe De Martino, il repubblicano Ugo La Malfa e il socialdemocratico Mauro Ferri. Il comunicato ufficiale sull’incontro riferiva che i quattro si erano «impegnati ad approfondire, sentiti gli organi dirigenti dei rispettivi partiti, la proposta del presidente del Consiglio per una ripresa organica della collaborazione di centro-sinistra». Collaborazione organica significava un’autentica, e nelle intenzioni duratura, coalizione di governo. Il governo monocolore Rumor II rimase in carica fino al 27 marzo 1970. Poi lo sostituì il Rumor III che aveva all’interno ministri dei quattro partiti. Di centro-sinistra. Perché la svolta autoritaria non ci fu. Il 17 maggio 1973 Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico che frequentava neofascisti, uccise con una bomba a mano quattro persone e ne ferì 52 davanti alla questura di Milano in via Fatebenefratelli. Lì, fino a pochissimo prima, si trovava Rumor, non più presidente del Consiglio bensì ministro dell’Interno.
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 6 dicembre 2019. “Polizia. Deve venire subito a palazzo di giustizia. C' è da fare un confronto. Si tratta di Valpreda». Piazza Fontana per Guido Calvi cominciò così, quattro giorni dopo la strage. Mentre diventava l' avvocato di Pietro Valpreda (e poi protagonista di tanti processi chiave della storia italiana, da Pasolini a Moro), aveva 29 anni e tutt' altro per la testa. «Insegnavo filosofia del diritto. Se non avessi risposto a quella telefonata, tornato a casa dopo una lezione su Leibniz, non avrei mai fatto l'avvocato».
Che scena si trovò di fronte nel palazzo di giustizia?
«Nella stanza, da una parte il giudice Occorsio, il teste Rolandi, il capo dell' ufficio politico della Questura di Milano, Allegra. Dall' altra cinque poliziotti sbarbati e ben vestiti accanto a Valpreda in pantaloncini e canottiera, coi capelloni, la barba incolta e la faccia stravolta da due notti insonni».
Parlò con Valpreda?
«No, tutto era pronto per il confronto. Chiesi solo al testimone se qualcuno gli avesse già mostrato una foto di Valpreda. Rolandi negò tre volte, poi ammise: il questore mi ha mostrato la foto di Valpreda, dicendomi che era l' uomo che dovevo riconoscere».
Che cosa accadde dopo?
«Prima di uscire andai da Valpreda e gli dissi: tranquillo, abbiamo vinto».
Ma il tassista Rolandi aveva riconosciuto Valpreda come l'uomo che aveva portato in piazza Fontana.
«Dopo la frase sulla foto, il riconoscimento valeva zero. Avevo capito che il processo era tutto lì. Ma non che avremmo impiegato quasi vent'anni per una verità giudiziaria e storica».
Che cosa accadde dopo?
«Nell' istruttoria l'avvocato non aveva nemmeno il diritto di assistere all' interrogatorio del suo assistito. Per fortuna un giornalista mi passava i verbali di nascosto».
Com'era Valpreda?
«Personaggio singolare. Ballerino, anarchico, esibizionista, ma mite e inoffensivo. Un marginale. Che uscito di prigione, rifuggendo la vanità, si sposerà, farà un figlio e aprirà una paninoteca».
Com' era il vostro rapporto?
«Quando andavo a trovarlo in carcere, mi contestava perché ero socialista "e non avevo capito niente"».
Mai avuto dubbi su di lui?
«Qualcuno lo insinuò. In realtà li avevo su me stesso. Era il mio primo processo. Solo contro tutti. Cercai un collega più esperto per farmi affiancare, ma in tutta Roma non ne trovai uno disponibile, a parte Lelio Basso».
Perché?
«Cautela, se non paura».
Lei no?
«Avevo l' età in cui ci si può permettere di non averla. Nonostante i proiettili, le minacce, l'isolamento».
In che senso?
«Insegnavo all'università di Camerino, ma in mensa non potevo sedermi al tavolo dei professori, perché ero l'avvocato degli anarchici».
Si fece pagare da Valpreda?
«Non ho mai preso una lira per quel processo».
Come fece quando il processo fu spostato a Catanzaro?
«Il sabato sera prendevo una cuccetta di seconda classe, da sei posti. A Lamezia aspettavo i giornalisti, che avevano il vagone letto, per un passaggio in taxi. A Catanzaro dormivo su una brandina in un corridoio della federazione del Pci. Poi l' Anpi fece una colletta, almeno per albergo e ristorante».
Di piazza Fontana sappiamo tutto?
«Sì».
Fu strage di Stato?
«No, strage neofascista agevolata dallo Stato dirottando e depistando le indagini».
In che modo?
«Prima distruggendo la prova regina, la seconda bomba inesplosa alla Banca commerciale. Poi puntando sulla pista anarchica, come scrisse il ministro dell' Interno Restivo in un appunto».
Perché scelsero Valpreda?
«Probabilmente il primo obiettivo era Pinelli, con una struttura politica superiore».
Che idea le fecero i depistatori?
«Reazionari, rozzi, cialtroni. Guida, questore di Milano, era stato direttore del carcere di Ventotene sotto il fascismo. Motivo per cui Pertini, in visita di Stato a Milano, si rifiutò di stringergli la mano. Nel processo di Catanzaro, gli chiesi come avesse avuto la foto di Valpreda. Disse di non ricordarlo perché era un accanito fumatore e il fumo annebbia la memoria».
Quale fu il ruolo del Viminale?
«Centrale. Russomanno, vicedirettore dell'Ufficio Affari Riservati che guidò le indagini andando a Milano, in gioventù era nella Repubblica di Salò e poi si era arruolato in una formazione militare tedesca».
Come gestì il peso politico del processo?
«Nella prima fase il consenso popolare contro gli anarchici era diffuso. Alzando subito il tiro, evocando i colonnelli greci o la Cia, saremmo andati contro un muro. Puntai sui dettagli. Fu una lenta costruzione».
Come fu possibile?
«L'episodio decisivo fu il funerale delle vittime nel Duomo di Milano. Dietro le bare tutte le autorità. Di fronte centomila operai in tuta blu. Era un messaggio: attenti, difenderemo la democrazia».
Fu colto?
«Si aprirono contraddizioni nella magistratura, nei giornali, nella polizia. Lo Stato contro lo Stato: da una parte forze vecchie e intrise di fascismo; dall' altra energie nuove e democratiche».
Quando capì che stavate vincendo?
«Quando cadde la P2 e fu svelato il doppio Stato, secondo la definizione di Bobbio. In quel momento la magistratura si legittima come baluardo costituzionale. Il che spiega ciò che è successo dopo».
Letterine per Piazza Fontana. Pubblicato venerdì, 06 dicembre 2019 su Corriere.it da Antonio Castaldo. Angoscia e timori: trovati in un archivio i pensieri per le vittime spediti a Milano da bambini sardi nel 1969. C’era il sole quella mattina a Barega. I bambini usciti in fila da scuola entrarono a casa della bidella, la signora Gisa. L’unica nei dintorni con la tv. Era il 15 dicembre 1969, la Rai trasmetteva dalla gelida Milano i funerali di piazza Fontana. La nebbia sfumava i contorni del Duomo, una distesa di paltò scuri, signore avvolte nei foulard, e ragazzi appesi ai lampioni con lo sguardo alla sfilata di bare. Le immagini di quel dolore misurato nei toni ma oceanico nelle dimensioni colpirono l’Italia. A Barega, minuscolo borgo dell’Iglesiente, i bambini erano rapiti dallo schermo in bianco e nero. Tornati in classe, ancora scossi, scrissero un tema. Qualcuno a bordo pagina disegnò coroncine di fiori rossi. Cinquant’anni dopo, la studentessa Clara Belotti, impegnata a preparare la sua tesi in archivistica, ha trovato negli archivi del Comune di Milano un faldone con su scritto: «Piazza Fontana». E dentro cartoline, telegrammi, lettere scritte a mano o battute a macchina su carta velina. Erano i messaggi di solidarietà che il sindaco di Milano Aldo Aniasi ricevette dopo la strage del 12 dicembre. E tra questi c’erano anche i temi di Barega, che la maestra Lydia Siddi spedì a Milano, pensando, forse a ragione, di regalare un sorriso al sindaco che era stato partigiano e vedeva la sua città tornare in guerra. «La gente piangeva, una signora stava per svenire e la figlia l’ha mantenuta, se no sarebbe caduta», scriveva Antonella Cocco, classe IV, che oggi ha sessant’anni, e nella sua casa di Tortolì prepara i culurgiones. «Certo che ricordo quel giorno — racconta —. La maestra ci prese per mano e ci portò dalla signora Gisa. Le parole del vescovo ci commossero tutti». Antonella lavora al ministero della Sanità, sua sorella Paola, di un anno più grande, era con lei quel giorno. «Sono passati cinquant’anni — dice — ma molte cose sono rimaste uguali. Quasi tutti i compagni d’allora sono ancora in paese. Molti lavorano la terra che i nostri genitori ci hanno lasciato. Proprio come chi morì in quella strage». E nelle sue parole si avverte la vicinanza di ambienti e abitudini tra la bassa padana delle vittime e l’entroterra sardo degli alunni di allora. «Che vivono la stessa vita dei familiari colpiti dall’ultima disgrazia», scrisse la maestra nel biglietto accluso al pacchetto. Erano infatti allevatori, mediatori, agricoltori le vittime, riunite nella Banca dell’Agricoltura per il mercato. Il direttore della Cittadella degli archivi, Francesco Martelli, ha raccolto il materiale trovato nel fondo Aniasi dedicato alla strage, finito in una mostra curata da Marco Cuzzi ed Elia Rosati a Palazzo Marino e in un documentario realizzato dalla «3D produzioni» che sarà presentato nell’anniversario dei funerali: «Mi sono commosso per le lettere dei bambini — spiega Martelli — si ha la percezione di un’Italia diversa dalla nostra: il senso di un’empatia impressionante». Un sentimento che segna un passaggio d’epoca. «Paura, ecco cosa provai», ricorda Tore Colomba, contadino. La cerimonia lo colpì al punto che scrisse: «I feretri sono stati trasportati in ogni posto della Lombardia», come se in quella piazza fosse radunata l’intera regione. «Oggi a Milano tirava vento e pioveva, e il cielo era grigio», annotava invece Rosa Moi, ora impiegata comunale a Carbonia: «Sulle bare c’erano rose e garofani», particolare che ha poi disegnato. «Immagini che tornano spesso alla memoria», spiega ora. «Avevo 8 anni e non capivo cosa fosse successo. Ma fu la prima di una serie di stragi. La prima tragedia. Quelle venute dopo, non so perché, sono volate via. Piazza Fontana è rimasta».
Piazza Fontana, la strage nera. Il dovere della memoria. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 su Corriere.it da Antonio Carioti. Le inchieste, i testimoni, l’ombra dei servizi:50 anni dopo. resta l’intreccio tra eversori e apparati dello Stato. L’Italia repubblicana conosceva da sempre la violenza politica, ma la bomba esplosa cinquant’anni fa a Milano, nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, segnò una svolta agghiacciante. Il 12 dicembre 1969 vennero assassinate e ferite, a tradimento e a caso, persone innocenti e ignare, alle prese con gli impegni del lavoro e della vita quotidiana. Si colpiva nel mucchio, senza alcun riguardo. Da quel momento nessun cittadino poteva più ritenersi al sicuro. Mezzo secolo dopo, il bilancio che se ne può trarre è duplice. Da una parte la democrazia italiana ha respinto con successo l’aggressione del terrorismo, cominciata allora. Dall’altra non vi è stata giustizia: l’eccidio resta senza colpevoli, anche se dalle inchieste giudiziarie e dalle ricerche storiche emerge con sufficiente chiarezza che la responsabilità va addebitata all’estrema destra neonazista. Molti interrogativi però rimangono aperti, specie in riferimento al ruolo equivoco svolto da alcuni apparati di sicurezza. E resta il dovere della memoria verso le vittime e i loro cari, verso coloro che furono ingiustamente accusati (come l’anarchico Giuseppe Pinelli, morto mentre era trattenuto illegalmente dalla polizia), verso la città e il Paese intero. Su questi due versanti si muove il libro La strage di piazza Fontana (in edicola da sabato 7 dicembre), aperto da una prefazione di Giangiacomo Schiavi, con il quale il Corriere della Sera ha voluto portare un proprio contributo al dibattito. Abbiamo cercato di ricostruire i fatti: un contesto storico segnato da forti tensioni; la meccanica dell’azione terroristica, con cinque attentati (due a Milano e tre a Roma) in poche ore; l’avvio delle indagini, la perdita di credibilità della pista anarchica e l’affiorare di quella nera, con la scoperta di rapporti inquietanti tra eversori e servizi segreti. Inoltre abbiamo ripercorso, con Luigi Ferrarella, il tortuoso iter giudiziario, il controverso trasferimento del processo da Milano a Catanzaro, le condanne in primo grado e le assoluzioni in appello, la riapertura dell’inchiesta negli anni Novanta, le nuove sentenze, gli ultimi filoni battuti dagli inquirenti. Abbiamo puntato i riflettori anche su alcuni aspetti particolari: Giovanni Bianconi narra la sorte di tre coraggiosi magistrati (Vittorio Occorsio, Emilio Alessandrini, Antonino Scopelliti) che si occuparono degli attentati avvenuti nel 1969 e poi vennero assassinati per altre ragioni; Gianfranco Bettin esplora l’ambiente in cui maturò la trama criminale, l’estremismo di destra del Nordest. Abbiamo dato la parola ai testimoni: il nostro collega Giacomo Ferrari, che era nella banca in cui esplose l’ordigno; un maestro del giornalismo come Corrado Stajano, che fu tra i primi ad accorrere sul posto. E poi ci siamo rivolti, con Giampiero Rossi, all’Associazione delle famiglie delle vittime di piazza Fontana (17 furono in tutto i morti), che si è battuta coraggiosamente per ottenere giustizia e da parecchi anni svolge un lavoro encomiabile per evitare che vada dispersa la memoria di quanto accadde. Sul punto più spinoso, cioè sulle ragioni dell’eccidio e su quanta responsabilità portino alcuni settori dello Stato, specie per la mancata individuazione dei responsabili, abbiamo chiamato a confrontarsi due studiosi di opinioni diverse, Aldo Giannuli e Vladimiro Satta, che hanno dato vita a una discussione a tratti polemica, ma pacata e civile nei toni. Piazza Fontana è un evento lontano, ma denso d’insegnamenti. Bene hanno fatto il Comune e il sindaco Giuseppe Sala, nel cinquantesimo anniversario, a preparare una nuova installazione nel luogo dell’eccidio e a programmare una serie d’iniziative commemorative, alla quali parteciperà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Milano ha superato quella terribile prova, ma non la dimentica. E il Corriere con lei.
Piazza Fontana, per sempre «incisi» su targhe i nomi delle diciassette vittime. Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 da Corriere.it. Diciassette nomi. Diciassette formelle. E una targa che ricorda quello che è successo il 12 dicembre di cinquanta anni fa quando intorno alle 16 una bomba devastò il salone della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana uccidendo 17 persone e ferendone 88. Ma a differenza della lapide commemorativa posata dieci anni dopo la strage che si limita a indicare un generico «attacco eversivo», quella fortissimamente voluta dall’Associazione dei familiari delle vittime di piazza Fontana punta il dito contro gli autori dell’attentato terroristico, anche se paradossalmente mai condannati: esponenti di Ordine Nuovo, la formazione neofascista che ebbe un ruolo chiave nella cosiddetta «strategia della tensione». Quel giorno Milano perse l’innocenza ma non ha perso la memoria e il 9 dicembre, a poche ore di distanza dall’anniversario della strage, il Comune, per volontà del sindaco Beppe Sala, poserà intorno alla fontana da cui la piazza prende il nome le 17 formelle. Ognuna porterà il nome di una vittima. Giovanni Arnoldi, 42 anni, Giulio China 57, Pietro Dendena 45, Eugenio Corsini 65, Carlo Gaiani 37, Calogero Galatioto 37, Carlo Garavaglia 71, Paolo Gerli 45, Luigi Meloni 57, Vittorio Mocchi 33, Gerolamo Papetti 78, Mario Pasi 48, Carlo Perego 74, Oreste Sangalli 49, Angelo Scaglia 61, Carlo Silva 71, Attilio Valè 52. Ognuno con la propria storia, con la casualità che accompagna e si incrocia con il destino. C’è chi come Mocchi si reca in banca per chiudere la trattativa su due trattori Ford. Chi, come Arnoldi, quel giorno non aveva intenzione di andare a Milano. La nebbia e un malessere gli avevano fatto rimandare tutti gli appuntamenti. Il destino si è presentato con un trillo del telefono. Un agricoltore di Lodi lo chiama e insiste, c’è da chiudere un affare per una cascina nel Milanese. «Mio padre cerca in qualche modo di rimandare ma l’agricoltore insiste e lui a malavoglia accetta, saluta mia madre prende l’auto e si dirige a Milano. Per mia madre sarà l’ultima volta che vede vivo mio padre» scrive il figlio Carlo che nel ’69 aveva 15 anni e oggi è presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime. Tante storie strazianti raccontate sul sito della Casa della Memoria. Dove prologo e conclusione accomunano figli, mogli e genitori. «Quel giorno, dopo lunghe ricerche negli ospedali senza esito — scrive Paolo, figlio di Carlo Silva — dopo aver chiesto direttamente sul luogo della strage, vedendo quello che era accaduto, mi sono recato alla questura centrale dove ho incontrato mio fratello Giorgio anche lui coinvolto nelle medesime angoscianti ricerche. In tarda serata siamo stati accompagnati all’obitorio per l’eventuale riconoscimento; abbiamo purtroppo riconosciuto, in quel cadavere dilaniato e mutilato, nostro padre Carlo». Sono parole molto simili a quelle di altri parenti delle vittime. Lo stesso copione con la telefonata che avverte dello scoppio di una caldaia nella banca, che ci sono dei feriti, delle corse inutili negli ospedali cittadini. Si parlano da un anno il sindaco Sala e l’Associazione dei familiari. E ai primi di ottobre il sindaco ha riunito la sua giunta e ha approvato la delibera per la realizzazione e la posa delle formelle e della targa. Perché come dice il sindaco Sala nella lettera inviata al Corriere, «Milano ricorda e fa memoria di ogni singolo evento che ha sporcato con la violenza e la morte la sua anima democratica e pacifica».
Piazza Fontana: storia di "altre bombe". La piazza della strage del 12 dicembre 1969 fu bombardata nel 1943. Nel 1949 alla Banca nazionale dell'agricoltura fu trovato un ordigno. Nell'aprile 1969 le molotov ferirono due giovani. Edoardo Frittoli il 30 novembre 2019 su Panorama. Cinquant'anni fa piazza Fontana fu teatro della sanguinosa strage che aprì la lunga stagione della "strategia della tensione". La lunga storia della piazza alle spalle del Duomo racconta di tre momenti in cui altre bombe furono protagoniste nel medesimo luogo, tra il 1943 e il 1969.
Una nuova piazza per i Milanesi. La prima grande metamorfosi per piazza Fontana avvenne nel 1782 con uno degli ultimi atti del governatore austriaco di Milano, Carlo Firmian. Fino ad allora lo spazio alle spalle del Duomo era stato sede del mercato ortofrutticolo della città, il famoso "verziere". La riqualificazione dell'area caotica e popolare prevedeva anche il rifacimento della facciata del palazzo dell'Arcivescovado e la costruzione della prima fontana artistica di Milano, alimentata dalle acque del fiume Seveso tramite un complesso sistema di condotte e meccanismi alloggiati nell'albergo Biscione affacciato sulla piazza. Il disegno della fontana fu affidato al prestigio dell'architetto Piermarini, che si occupò anche di riorganizzare gli spazi attorno al nuovo monumento divenuto il fulcro della piazza rinnovata. Anche il perimetro della piazza, allora molto più raccolta di oggi, fu soggetto a sostanziali modifiche attraverso l'abbattimento dell'antico edificio della Scuola delle Quattro Marie, pio istituto per fanciulle oltre ad una chiesetta sull'angolo della oggi scomparsa via Alciato. Durante il secolo XIX piazza Fontana fu luogo di eventi pubblici e spettacoli, con ascensioni di aerostati, esposizione di bestie feroci ed esotiche, corse equestri. Alla metà del secolo si sviluppò la presenza di alberghi, tra cui il maestoso Albergo Commercio che occupava buona parte del lato settentrionale della piazza. L'ultimo intervento urbanistico di rilievo avvenne alla fine degli anni '20, quando al posto di vecchi edifici commerciali (dove aveva sede il consorzio agrario cittadino) fu costruito il grande palazzo della Banca nazionale dell'agricoltura, teatro della strage del 1969. Alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale la piazza era popolata dai tanti agricoltori che si riunivano attorno alla fontana nei pressi del consorzio dove trattavano i propri affari prima di ufficializzare gli accordi presso la banca di piazza Fontana, la cui vita e il cui volto cambierà per sempre una notte di metà agosto del 1943.
Le bombe dal cielo: ore 00:31 del 16 agosto 1943. La città bruciava già da due giorni, martoriata dai bombardamenti a tappeto ad opera di centinaia di quadrimotori del Bomber Command della RAF. L'area bombing, così definita dal comandante Sir Arthur Harris (detto "the butcher" - il macellaio), aveva sfigurato Milano. Erano state colpite innumerevoli abitazioni civili, oltre ad edifici monumentali, fabbriche, scuole, ospedali. I Vigili del fuoco stavano ancora lottando contro le fiamme degli spezzoni incendiari e la pressione dell'acqua crollata per i danni alla rete idrica quando la sirena suonò di nuovo mezz'ora dopo la mezzanotte. Questa volta i "Lancaster" inglesi erano 199 ed aggiunsero distruzione a distruzione. Quella notte una bomba dirompente sfondò il tetto e devastò i palchi del Teatro alla Scala, simbolo universale di Milano. Anche il Duomo fu danneggiato con il crollo di alcune guglie. Pochi istanti dopo sarà devastata anche piazza Fontana. Una pioggia di bombe dirompenti ed incendiarie rasero al suolo i vecchi edifici che si trovavano al centro della piazza, provocando la cancellazione dalle mappe della antica via Alciato che dalla piazza portava all'ingresso dell'attuale Comando della Polizia Locale di piazza Beccaria, anch'esso semidistrutto dall'incursione di quella notte. L'ultimo bombardiere abbandonò il cielo di Milano attorno alle 2 e 20 del mattino del 16 agosto, acceso di rosso dal bagliore degli incendi visibili a decine di chilometri di distanza. Quando finalmente albeggiò, la piazza Fontana appariva irriconoscibile, spianata dagli scoppi. Si era salvata la fontana del Piermarini, mentre un'ala del grande albergo Commercio era ridotta ad un cumulo di macerie, come altri edifici adiacenti. L'area della piazza non ritornerà mai più quella originale, nè saranno ricostruite le case che la rendevano pittoresca e raccolta. Fino alla fine della guerra la fontana sarà protetta dalle stesse macerie delle case dai cui balconi era stato possibile ammirarla, ammassate attorno al suo perimetro.
"C.L.N. 25934": la bomba dell'ex partigiano. (31 maggio 1949). Nella camera blindata della Banca nazionale dell'agricoltura due funzionari si apprestavano ad aprire una delle cassette di sicurezza del caveau sotto piazza Fontana. Da oltre un anno cercavano di contattare i due titolari che l'avevano riservata durante la guerra -nel dicembre del 1943- senza però ottenere alcuna risposta. Scaduti i termini di legge, gli addetti furono autorizzati all'ispezione per prolungata morosità. All'interno dello scomparto blindato fu ritrovata una scatola di sigarette in latta, alla quale era fissato un talloncino con la scritta "C.L.N. 25934". La sigla fece scattare le misure di sicurezza, perché a soli quattro anni dalla fine della guerra tutti sapevano cosa significassero quelle tre lettere, iniziali del Comitato di Liberazione Nazionale cioè il comando delle forze partigiane. I funzionari chiamarono immediatamente le forze dell'ordine, che mandarono in piazza Fontana una squadra di artificieri. I militari ebbero conferma che in quella scatola di latta era nascosto un ordigno ed anche molto potente. Si trattava di una bomba al T-4 (trinitrotoluene o TNT) ad alto potenziale, che fu aperta con cautela dagli artificieri e fatta brillare poco più tardi in aperta campagna. Gli intestatari della cassetta di sicurezza erano Camillo Gaggini e Ugo Massa, due individui con una lunga lista di precedenti penali per furto, truffa e rapina. Il primo aveva militato nella resistenza sin dal 1943 e dopo la guerra era entrato a far parte della cosiddetta "Polizia ausiliaria", il reparto di pubblica sicurezza nato dalle file dei partigiani dopo la fine della guerra. il 22 novembre 1945 il tenente Gaggini fu scoperto dalla Polizia giudiziaria in una bisca clandestina a poca distanza da piazza Fontana, in un appartamento di via Silvio Pellico. L'ufficiale della Polizia partigiana fu colto in flagranza di reato mentre estorceva una percentuale sui proventi illeciti del gioco. Il giorno dopo il ritrovamento della bomba alla Banca nazionale dell'agricoltura fu scoperto presso il campo d'aviazione della Breda (attuale aeroporto civile di Bresso) un vero e proprio arsenale con armi in piena efficienza. Nelle vecchie trincee nelle vicinanze dei rifugi antiaerei erano stati nascoste mitragliatrici pesanti Breda 37 e 30, fucili, 26 bombe a mano e addirittura granate anticarro tedesche modello "panzerfaust". Poco dopo il ritrovamento dell'arsenale clandestino, fu rintracciato anche Camillo Gaggini che all'epoca dei fatti era detenuto nel carcere di Forlì per numerosi reati pregressi.
Le bombe molotov all'albergo Commercio: 12 aprile 1969. I bombardamenti dell'agosto 1943 cambiarono per sempre il volto della piazza progettata dal Piermarini. Il vuoto creato dal crollo delle case che affacciavano sulla scomparsa via Alciato non fu mai più colmato e nel dopoguerra piazza Fontana appariva come un'ampia spianata estesa dall'Arcivescovado sino alla sede dell'ex Tribunale - oggi Comando del Polizia Locale - anch'esso sfigurato dalle bombe. Nel 1953 il Comune di Milano avanzò una proposta di ricostruzione dell'antica via cancellata dalla guerra, che dieci anni dopo i bombardamenti era rimasta un'area desolata e polverosa accerchiata dagli edifici con le ferite di guerra ancora in mostra. Il progetto affondò, lasciando spazio ad un parcheggio dove presero posto le automobili negli anni del boom economico. Si salvò il grande edificio dell'Albergo Commercio, che rimase in esercizio fino alla fine del 1965 e di cui fu proposto l'abbattimento in seguito all'abbandono dell'attività. Tre anni più tardi, il 29 novembre 1968, lo stabile fu occupato da studenti e anarchici e ribattezzato "nuova casa dello studente e del lavoratore". Il Comune di Milano, proprietario dell'edificio, tergiversò e lasciò gli occupanti nelle camere dell'ex albergo di piazza Fontana. Poco dopo l'occupazione iniziarono a frequentare il Commercio anche alcuni anarchici vicini alla corrente degli "Iconoclasti" di Pietro Valpreda quando all'esterno il clima politico si faceva rovente con continui scontri di piazza tra opposti estremismi e con le forze dell'ordine. L'11 aprile del 1969 a Milano si scatenò la guerriglia urbana in occasione dello sciopero indetto in seguito ai gravi scontri tra lavoratori e Polizia a Battipaglia (Salerno) di due giorni prima, che avevano causato la morte di due operai. Accanto al corteo silenzioso dei sindacati scesero in piazza i maoisti e gli anarchici, che giunti in piazza del Duomo assieme agli studenti iniziarono a provocare durante il comizio dei sindacati. Le violenze andranno avanti per tutto il giorno, con lanci di molotov, pietre e bastoni. Verso sera, dopo aver lasciato 88 feriti tra le forze del ordine, un gruppo di filo-cinesi diede l'assalto alla sede della Giovane Italia, l'organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano in corso Monforte. Dalle finestre della sede i giovani di destra risposero con le molotov, fino all'intervento della Polizia. La ritorsione non si fece attendere e la notte stessa si concentrerà sulla "centrale anarchica" individuata nell'ex-albergo occupato di piazza Fontana. Erano circa le 23 quando due giovani estranei ai fatti della giornata e neppure frequentatori della "nuova casa dello studente" si fermarono di fronte all'androne di ingresso dell'ex albergo. Sergio Bergamini e Luciano Treu tornavano dopo una serata alla "Crota piemunteisa" di Piazza Beccaria dove avevano trascorso la serata e si erano soffermati per alcuni minuti a leggere i cartelli affissi dagli anarchici dopo gli scontri. All'improvviso furono assaliti da un gruppo di uomini vestiti con maglioni neri che in un istante lanciarono due bombe molotov verso i due ragazzi. La prima bottiglia incendiaria esplose ed investì in pieno Bergamini, che divenne una torcia umana. La seconda fu scagliata quando Treu stava cercando di spegnere i vestiti dell'amico e lo colpì di striscio ustionandolo ad un braccio, mentre il commando faceva perdere le proprie tracce fuggendo a bordo di un'auto parcheggiata in piazza. L'assalto all'albergo fu il preludio alla scomparsa dello storico edificio di piazza Fontana. Lo sgombero fu effettuato all'alba del 19 giugno 1969 dalla Polizia, che alle 5:45 fece irruzione. All'interno furono rinvenuti, oltre alle bottiglie molotov, anche esplosivi e armi. Tra gli anarchici fermati figurava Aniello D'Errico, detto "baby" per la sua giovane età (aveva solo 17 anni). Rilasciato pochi giorni dopo, sarà poi accusato di essere stato l'artificiere della strage di piazza Fontana, di poco successiva allo sgombero dell'ex albergo. Sarà fermato assieme ad un compagno del gruppo "iconoclasti" di Valpreda, Leonardo Claps, dopo una breve latitanza a Canosa di Puglia. La demolizione dello storico albergo di piazza Fontana fu deliberata appena dopo lo sgombero ed eseguita in fretta a partire dalla fine dell'agosto del 1969. Quando ormai non rimaneva che lo scheletro dell'edificio ottocentesco sopravvissuto alla guerra e alla ricostruzione, il 12 dicembre 1969 di fronte al suo rudere esplose la bomba nell'atrio della Banca nazionale dell'agricoltura. Nella piazza che ancora una volta cambiava faccia, quel maledetto giorno era cambiata anche la storia dell'Italia repubblicana.
Piazza Fontana, il Buco che ci ha ingoiati. Sono nato a Milano mentre scoppiava la bomba. Quando cominciò il buio che avvolge l’Italia. E tutti ne siamo figli. Giuseppe Genna il 12 dicembre 2018 su L'Espresso. È il 12 dicembre 1969, ore 16.37, Milano. Succede questo: un’esplosione a pochi metri dietro il Duomo, nella nebbia una vampata di luce. È cominciata la storia d’Italia, per l’ennesima volta, una vicenda che si trascina come un ferito nelle nebbie di un dopobomba perenne. È scoppiata la bomba di piazza Fontana. Un giovane vicecommissario si trova davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, dove l’ordigno ha devastato uomini donne bambini e cose. È Achille Serra, destinato a evolvere nel tempo in un prefetto leggendario. Entra a pochi secondi dall’esplosione, in un luogo che costituirà la scena primaria della nazione, che è sempre una scena del crimine: corpi sciolti, a brandelli, un bambino urla, cadaveri tra le macerie. Serra si precipita al telefono in una cabina, chiede l’invio di cento ambulanze. Non gli credono, lo prendono in giro, poi mandano davvero cento lettighe sul posto. Su una barella, che fa il suo ingresso nella banca, c’è accidentalmente il corredino di un neonato, che è nato proprio alle 16.37, insieme con la madre di tutte le stragi. Quel neonato sono io. Ho, dunque, due madri: la mia e quella di tutte le bombe. Io avvengo insieme a piazza Fontana, crescerò avendo per fratelli tutti i fantasmi, i morti, gli assassinati successivi, gli accusati, gli innocenti, i commentatori, i leggendari giornalisti, le spie, i neofascisti, gli anarchici - il teatro umano che da quasi cinquant’anni si muove intorno a una strage, rimasta senza colpevoli fino al 2005, quando i responsabili sono stati identificati da una sentenza di Cassazione, nell’impossibilità di processarli, perché assolti in precedenza.
Nasco insieme a piazza Fontana. Cresco con l’ossessione della strage. Il sospetto è per me un obbligo. Appena capace di consapevolezza, scruto ossessivamente le foto in bianco e nero, scattate poco dopo l’esplosione. Al centro della scena, sotto un tavolo pesante, sbalzato dalla conflagrazione, si è creato un buco nel pavimento. Il Buco diviene l’emblema nazionale. È il buco dei proiettili nel corpo inerte di Aldo Moro, rannicchiato nel baule della Renault 4, essa stessa un ulteriore buco, orizzontale, che sfigura la memoria di tutti i bambini come me. È il buco in cui sprofonda e resterà invisibile, piangente nel pozzo artesiano, il piccolo Alfredino Rampi a Vermicino, foro su cui si china il capo dello Stato e in cui finiamo tutti, a favore delle televisioni unite. È il buco in cui scompare infinitamente Emanuela Orlandi.
È un Paese con il Buco, l’Italia. Buchi ovunque, a partire da quelli che costellano le indagini. Il giovane Bruno Vespa compare, nel permanente bianco e nero, microfono in mano, a dare in diretta la notizia della colpevolezza indiscutibile dell’anarchico Pietro Valpreda. Quando Vespa inaugura l’oscenità televisiva, svezzando la nazione, io ho quattro giorni di vita, come la strage. Il giorno precedente è stato assassinato Giuseppe Pinelli, volato dalla finestra della questura per un evento catalogato come “malore attivo”, durante un interrogatorio, mentre il commissario Luigi Calabresi si trova fuori dalla stanza - il momento enorme in cui Calabresi incomincia a morire, il 17 maggio 1972, per mano di terroristi che non avevano compreso nulla o forse avevano compreso troppo.
Aldo Moro, nell’istante in cui io nasco e la bomba deflagra, si trova a Parigi e nelle lettere dal carcere brigatista, pressato dall’angoscia, sbaglia il ricordo e colloca l’esplosione al mattino del 12 dicembre. L’allora ministro degli Esteri, autentico artefice della Repubblica, è autore di una controinchiesta, che svela da subito responsabilità, connivenze, scenario in cui la strage si è prodotta. Un ulteriore memoriale Moro. Che annoterà dal carcere Br: «Personalmente ed intuitivamente, non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (e manifestare) almeno come solida ipotesi che questi ed altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra ed avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato (tale è proprio la caratteristica della reazione di destra), allo scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere». Era tutta la verità. I fantasmi si scatenarono, dagli schermi dei televisori invasero le menti degli italiani, che si allenavano a diventare un popolo di spettatori. Quella fosforescenza in bianco e nero è una forma della Repubblica.
Si rivedono in bianco e nero i funerali delle 17 vittime (i feriti furono 88, tra cui un bambino a cui verrà amputata la gamba: un altro fantasma personale e generazionale), partecipati da “una folla composta” e oceanica, nel gelo decembrino milanese e nel clima glaciale che andrà a ossessionare non soltanto me, ma tutta l’Italia, per anni. In bianco e nero avviene l’apparizione sconcertante dell’imputato Franco Giorgio Freda, ordinovista, stalagmite nazimaoista, nel 1977, quando sto alle elementari e il processo per piazza Fontana è stato trasferito da Milano nella città di Catanzaro, che io e i miei coetanei scopriamo esistere come luogo in cui compare questo anti-Moro dai capelli precocemente imbiancati, il golf chiaro a collo alto accecante come la sua cofana, il volto scolpito e il lessico antisalgariano, tutto metafore taglienti e verbi squadrati (nel confronto con l’agente segreto Guido Giannettini, secondo Freda costui «afferma una menzogna con notevole impudenza» e deve «estrinsecarsi»). Freda sarà assolto per insufficienza di prove, ma resterà stampato nell’orrendo Parnaso italiano del terrore. Mi tornerà addosso quando io e la strage compiamo vent’anni, come reggente del Fronte Nazionale, una formazione extraparlamentare di estrema destra, che ha per simbolo una svastica a metà e aggredisce l’invasione dei migranti, chiamandoli “allogeni extraeuropei”. In quel caso, a difendere Freda sarà Carlo Taormina, avvocato pop nell’arco della seconda Repubblica, in cui, rivestendo la carica di sottosegretario agli Interni, attaccherà i procedimenti su piazza Fontana, che continuano a perseguire una verità inaccertabile.
L’Italia rovinava con i suoi misteri, ombrosi a chiunque e chiarissimi a tutti. Io e la strage invecchiavamo insieme. Non mi riusciva di dire, come Pasolini nella memorabile poesia “Patmos”, «oppongo al cordoglio un certo manierismo». La strage era un’esplosione inestinta, che non smetteva di esplodere, così come la ragazza Orlandi non smetteva di scomparire, Alfredino non smetteva di inabissarsi, Moro non smetteva di parlare la sua lingua precisa e articolata. Non smettevano di morire. Le bombe erano due o erano una? E gli americani? Adriano Sofri precisava davvero la realtà dei fatti nel suo “43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film”? Perché non cessava di rimbombare l’inchiesta di Camilla Cederna su Pinelli? Fino a questi giorni, alla catatonia dell’attuale vicepremier Luigi Di Maio davanti a Mario Calabresi che contesta l’incredibile causa che il Movimento gli ha intentato, denunciando Luigi Calabresi. Un ulteriore e sconcio buco: il Buco diventa lo spazio abissale in cui la memoria affonda, la verità e la menzogna non hanno interrotto il loro eterno lavorìo tutto italiano, mentre l’oblio è un nuovo valore collettivo. Io, noi, invece: ricordo, ricordiamo. I giudici Calogero e Stiz, D’Ambrosio che indaga i fascisti e poi diviene uno dei volti dell’affaire Tangentopoli, Ventura che in Argentina pubblica le poesie di Zanzotto, l’inchiesta di Franco Lattanzi detto Sbancor che viene trovato morto mentre sta scrivendo un testo cruciale sulla strage, l’agente neofascista internazionale Guérin Sérac, Pietrostefani e Bompressi, il questore Guida, quelli del Sid, i supposti pentiti Digilio, Delfo Zorzi, il giudice Salvini, le vedove, i parenti delle vittime, gli agenti in sonno di Gladio - la danse macabre di Piazza Fontana attraversa la storia italiana. Da quarantanove anni io sono lì, il 12 dicembre alle 16.37, in piazza Fontana. Da decenni ci vado fisicamente, misuro l’estinguersi progressivo della folla che interviene al pubblico ricordo, sono sempre meno, non si alzano più i pugni, nel giardinetto davanti al comando dei vigili c’è la lapide a Pinelli, “ucciso innocente”. La notte della Repubblica era questa: le tenebre della violenza e poi il buio della dimenticanza.
A mia madre, che mi aveva partorito in quel momento tragico, ridiedero il corredino, ritrovato come uno straccio tra i ruderi, accanto al buco al centro della Banca dell’Agricoltura. Il cognome rammendato a filo azzurrino aveva permesso di riportare in ospedale il reperto. Il ricordo, come tutti i ricordi, era santo e raccapricciante. Il cotone bianco era macchiato di sangue coagulato. Il loro sangue era ricaduto su di me: su noi tutti.
La verità, vi prego, su Pinelli. Un saggio di Paolo Brogi aggiunge un nuovo tassello per ricostruire le circostanze in cui morì l'anarchico precipitato da una finestra della Questura di Milano dopo la strage di piazza Fontana. Silvana Mazzocchi il 27 giugno 2019 su La Repubblica. Depistaggi e montature hanno segnato i tanti processi sulla strage di Piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969. A cinquant’anni dall’eccidio, zone d’ombra mai chiarite impediscono ancora la verità sulla morte di Giuseppe Pinelli, detto Pino, 41 anni, ferroviere e anarchico che a pochi giorni dalle bombe, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, precipitò dal quarto piano della Questura di Milano. Una morte allora archiviata come conseguenza di un “malore” e una verità giudiziaria che, fin da subito, non sembrò coincidere con la verità sostanziale. Mentre silenzi, omissioni, menzogne e contraddizioni hanno a lungo impedito di ricostruire con esattezza il quadro in cui, nella Questura milanese, avvennero i fatti. Oggi, un libro, Pinelli l’innocente che cadde giù, firmato da Paolo Brogi, giornalista e scrittore, aggiunge un tassello utile a illuminare almeno la cornice in cui avvenne la morte di “Pino”. Si tratta di un verbale, finora inedito, che racconta come alcuni uomini dell’Ufficio Affari Riservati , il servizio segreto del Viminale, trasferiti da Roma a Milano all’indomani del 12 dicembre, divennero subito di casa in Questura, diventando di fatto i veri “padroni delle indagini”, utili per collegare gli ambienti anarchici alla strage. Il verbale, che contiene la deposizione di un dirigente dell’Ufficio Affari Riservati, (ne parla Paolo Brogi nell’intervista che segue), è oggi pubblico grazie alla Direttiva Renzi che, nel 2014, chiese alle istituzioni di riversare nell’Archivio di Stato tutte le carte riguardanti le stragi. Il contenuto del verbale è importante, è una tessera significativa di un mosaico ben più vasto che intreccia segreti e depistaggi e che aiuta a delineare, attraverso un documento ufficiale, lo scenario che cinquant’anni fa dette inizio alla stagione delle stragi e alla lunga catena dei misteri italiani rimasti in gran parte insoluti. Il libro affronta anche la vicenda umana della famiglia Pinelli e contiene la testimonianza di Claudia e Silvia, le figlie di Giuseppe Pinelli, allora bambine. Oggi donne decise a non dimenticare.
Qual è stato il ruolo dei servizi segreti nella morte di Pino Pinelli?
“La Questura di Milano in quel dicembre del 1969, quando morì l’anarchico Giuseppe Pinelli precipitato dal quarto piano mentre era in corso il suo interrogatorio, pullulava di agenti segreti. Il paradosso, a partire dalle inchieste condotte allora sulla morte di Pinelli, è che di questi uomini degli Affari Riservati – almeno una dozzina arrivati da Roma - non si trova traccia. Fantasmi, che riemergeranno a distanza di venticinque anni quando giudici di Venezia e Milano chiederanno loro conto di quelle giornate milanesi del ’69. Ma a ridosso degli avvenimenti nessuno se ne occupa. Eppure il potente organismo che sarebbe stato finalmente sciolto nel 1974 dopo la nuova strage di Brescia a Piazza della Loggia era lì per dirigere le indagini. Come? Con il teorema anarchico, che la Questura milanese adottò senza incertezze. A guidare il gruppo era Silvano Russomanno, numero due del servizio, un ex repubblichino che dopo l’8 settembre si era direttamente arruolato in un reggimento tedesco e che alla fine della guerra era stato poi portato nel campo di concentramento di Coltano. Al povero Pinelli, che a 15 anni era stato staffetta partigiana, veniva contestato un attentato compiuto il 25 aprile del 1969. Un attentato per il quale sono stati poi condannati i fascisti ordinovisti. Ecco qual era il ruolo dei servizi.”
Il libro contiene un verbale rimasto sepolto tra le carte dell’Archivio Centrale di Stato. Che cosa rivela di quanto accadde mezzo secolo fa?
““A Milano portai io la lista degli anarchici”. Si chiama Francesco D’Agostino e in una deposizione al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni l’ex alto dirigente degli Affari Riservati ha spiegato, nel 1997, cosa successe subito dopo la strage di Piazza Fontana. Il documento appartiene all’inchiesta su un altro attentato del 1973, ma il giudice s’informa anche su Milano nel ‘69. Grazie alla Direttiva Renzi che nel 2014 ha chiesto a tutte le istituzioni di riversare all’Archivio centrale dello Stato i documenti sulle stragi, anche il verbale di D’Agostino è oggi consultabile. Che quadro ci rivela? L’arrivo a Milano, a poche ore dalla strage di Piazza Fontana, di D’Agostino e di Silvano Russomanno. I due alloggiano all’hotel Aosta e sono di casa in Questura, dove spiega D’Agostino il capo dell’Ufficio Politico Antonino Allegra e il commissario Luigi Calabresi erano ancora incerti sulla pista da seguire. In sintesi da questo verbale come da quello di altri interpellati viene fuori che gli Affari Riservati erano i “padroni” dell’inchiesta, soggiornavano in Questura dalla mattina alla sera, disponevano di fonti come quella su cui è stato costruito il teorema anarchico.”
Pino Pinelli nella testimonianza di Claudia e Silvia , le figlie allora bambine.
“Claudia e Silvia Pinelli avevano allora solo otto e nove anni. La loro è la storia di un’infanzia rubata, dove Pino è il padre che spesso le andava a prendere a scuola e magari al ritorno disegnava su un muretto l’A cerchiata anarchica, un uomo vivace che come caposquadra ferroviere lavorava spesso di notte e rientrava al mattino, in una casa popolare a San Siro dove la porta era sempre aperta e arrivavano studenti e professori della Cattolica a far battere le loro tesi alla mamma Licia. Di Pino ricordano la piccola moto Benelli che accomodava da solo giù nel cortile sotto casa, la passione per la cucina e i suoi risotti, l’interesse per i libri come la famosa Antologia di Spoon River un cui pezzo è inciso oggi sulla sua tomba a Carrara. Un uomo poco più che quarantenne, impegnato tra incontri, manifestazioni, difesa dei compagni incarcerati. E piuttosto idealista, come hanno ricordato i docenti della Cattolica che frequentavano la sua casa o come lo descrive il primo obiettore di coscienza del servizio militare, il cattolico Giuseppe Gozzini. Uno a cui non piaceva la violenza, da giovane – ha ricordato sua madre Rosa - aveva lasciato la boxe perché non gli andava di picchiare qualcuno.”
L'anniversario della morte dell'anarchico. Omicidio Pinelli, parla la figlia Claudia: “Lo Stato ha ucciso mio padre e non ci ha mai detto perché”. Angela Stella su Il Riformista il 15 Dicembre 2021. Dal 9 dicembre è in libreria Pino, vita accidentale di un anarchico di Silvia Pinelli e Claudia Pinelli, Niccolò Volpati e Claudia Cipriani (Milieu Edizioni). È la storia di Giuseppe Pinelli raccontata dalle figlie, Claudia e Silvia, in un docu-romanzo grafico. Riprendendo il lavoro che aveva portato alla realizzazione dell’omonimo docufilm animato (regia di Claudia Cipriani e sceneggiatura di Niccolò Volpati), gli autori raccontano in maniera inedita, attraverso immagini e fotografie – tra le quali compaiono scatti originali di Uliano Lucas -, una storia intricata e opaca, che non è mai stata dimenticata: la stessa che Dario Fo scelse di narrare in Morte accidentale di un anarchico.
Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre ’69, il corpo di “Pino” precipitò da una finestra della Questura di Milano. Aveva 41 anni, era stato fermato in seguito alle prime indagini sulla strage di Piazza Fontana che era avvenuta tre giorni prima: la polizia aveva deciso immediatamente di seguire la pista anarchica. Difficile dire se fu un abbaglio o un depistaggio. Comunque la pista anarchica si rivelò quasi immediatamente una falsa pista anche se poi fu tenuta viva per altri tre anni. Furono fermati diversi anarchici di Milano e di Roma. I più noti erano Pino Pinelli e Pietro Valpreda. Pinelli, dopo o durante un durissimo interrogatorio, volò dalla finestra dell’ufficio della questura di Milano e morì. La sua sua morte venne fatta passare per un suicidio, e quindi per una confessione. Ma prima un gruppo di giornalisti (tra i quali Camilla Cederna e Gianpaolo Pansa) e di militanti politici di sinistra, poi uno schieramento molto più ampio contestarono questa tesi e sostennero che Pinelli era stato gettato dalla finestra. Alla fine la magistratura trovò una mediazione. Nell’ ultima e definitiva sentenza su quella morte escluse il suicidio ma non prese in considerazione l’omicidio: parlò di «malore attivo». Nessuno ha mai capito bene cosa fosse un malore attivo. La sentenza fu firmata da Gherardo D’Ambrosio, diventato poi famosissimo quando da Procuratore aggiunto guidò, quasi 25 anni più tardi, il pool “mani pulite”.
La famiglia di Pino Pinelli non ha mai creduto al malore attivo e per questo non ha mai smesso di cercare la verità. Solo a quarant’anni dalla morte, nel Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dichiarò: «Rispetto e omaggio per la figura di un innocente Giuseppe Pinelli che fu vittima due volte. Prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine». Pinelli diventava così «la diciottesima vittima della strage di Piazza Fontana». Ne parliamo con Claudia Pinelli.
Come mai questo libro ora e con questo stile della graphic novel?
Con questa opera vogliamo arrivare anche ad un pubblico più giovane ma in generale a tutte le persone che non conoscono la vicenda di nostro padre. Però attenzione: il fumetto non vuole semplificare la storia. È chiaro che non può esserci tutto quello che è avvenuto in questi 52 anni, però può suscitare una curiosità nel lettore che potrebbe essere spinto ad approfondire. Dopo oltre mezzo secolo questa può diventare una storia di tutti, che non significa condivisa da tutti, ma conosciuta da tutti per continuare a parlarne.
Nella prefazione scrivete: «La verità non ha bisogno di martiri, di santi e tantomeno di eroi. Né di commozione, della facile lacrima che lascia tutto immutato, ma dell’empatia che susciti una sana indignazione per quello che è stato, per quello che non si è voluto affrontare».
Vorremmo che le persone prendessero coscienza di quello che è accaduto al nostro Paese in quegli anni. La verità su Giuseppe Pinelli è una verità sul Paese, che deve interessare tutti. Magari qualcuno si chiederà cosa non siamo stati capaci di affrontare in tutti questi lunghi anni. Conoscere vuol dire anche assumersi la responsabilità del cambiamento, significa sviluppare una capacità critica che non dovrebbe farci voltare dall’altra parte, ma pretendere verità.
Nel libro mostrate un vecchio ritaglio di giornale in cui c’è una intervista a sua madre che dice «voglio solo scoprire la verità». E aggiungete: «nessuno della magistratura ha mai indagato il questore, il commissario, il capo della digos e i poliziotti che per tanto tempo hanno dichiarato il falso? Per loro non esiste il reato di calunnia e diffamazione? I presenti in questura quella notte hanno mentito. Tutti».
Tutte le denunce presentate dalla mia famiglia sono state archiviate. Allora come oggi devi essere molto forte per resistere, perché nel momento in cui una persona muore mentre è nelle mani dello Stato non saranno le istituzioni a cercare verità e giustizia. Lo Stato non indaga su se stesso, ma si autoassolve. Sei tu che come famiglia devi metterti in gioco, devi riuscire ad andare avanti nonostante quello che ti verrà riversato addosso, nonostante i tentativi di colpevolizzarti. Dovrai sopportare emotivamente, e anche economicamente, per periti e avvocati, un onere che non tutti sono in grado di reggere. All’inizio poche erano le persone a noi solidali, poi sono cresciute col tempo. Ci sono rimaste accanto e mia madre, Licia, è diventata sempre più forte, sempre più ‘roccia’ come dico spesso. Non è assolutamente facile, quando sei una persona come mia madre che credeva nella giustizia, e che questa fosse uguale per tutti, doversi scontrare con un muro di gomma. Ma non ti fermi, vai avanti e combatti per arrivare ad una verità storica, grazie anche all’impegno di tanti che si sono attivati con noi: giornalisti, avvocati, anche magistrati, i familiari delle vittime di Piazza Fontana che hanno perseverato nel chiedere la verità. Però gli storici si basano sulle sentenze: e allora cosa rimarrà della storia di Giuseppe Pinelli?
L’ultima e definitiva sentenza sulla morte di Pino parla di «malore attivo». Stressato dalla situazione, suo padre si sarebbe sentito male ma invece di accasciarsi a terra è precipitato dalla finestra.
Quando ho parlato per l’unica volta con il giudice Gerardo D’Ambrosio mi disse «ho fatto quello che ho potuto». Non si doveva arrivare a parlare della morte di Giuseppe Pinelli in un’aula di Tribunale, era una vicenda da dimenticare.
Facciamo un passo indietro: nel libro raccontate che ad un certo punto dei fotografi e dei giornalisti bussarono alla vostra porta e vi dissero che suo padre era caduto da una finestra. Sua madre prese il telefono e chiamò la questura. Rispose il commissario Calabresi. Licia gli chiese: «Perché non mi avete avvisato?» Si sentì rispondere: «Ma sa signora, abbiamo tanto da fare…». Un ritratto di una persona fredda.
Mia madre ha sempre narrato questo episodio e anche adesso che ha 93 anni lo ricorda benissimo. Inoltre è quanto Calabresi ha testimoniato in Tribunale. Non so che pensiero si possa avere sul commissario Calabresi. Quello che posso dire è che era un funzionario di polizia ed era all’interno di quel sistema. Se lei legge il libro Pinelli: una finestra sulla strage di Camilla Cederna, che è una delle giornaliste che arriva alla nostra porta e che assiste alla conferenza stampa della Questura quella famosa notte, vi troverà scritto che i primi dubbi le vengono proprio per il clima che c’era all’interno di quella Questura. Non interessava a nessuno che fosse morta una persona, interessava solo che la loro pista trovasse in qualche modo una conferma. Io non posso esprimere un giudizio sul commissario Calabresi perché non l’ho mai conosciuto. Quando mio padre è morto ero una bambina di 8 anni. Non mi sento di mettere aggettivi inutili su di lui, ma allo stesso tempo penso che dopo 52 anni possiamo non avere più paura della verità. Potremmo considerare che ci furono delle responsabilità in quello che avvenne quella notte in Questura.
Qual è la vostra verità su quella notte? In quella stanza c’era il commissario Calabresi secondo voi?
Io non ero in Questura quella notte e non so cosa sia avvenuto. Altri avrebbero dovuto dare delle risposte. Secondo il giudice D’Ambrosio, nel momento in cui mio padre è precipitato, il commissario Calabresi non era presente in quella stanza. Un testimone, tuttavia, ha affermato sempre il contrario, ossia che il commissario non è mai uscito da quella stanza. È ancora vivo, si chiama Pasquale Valitutti ma non è mai stato ascoltato dal giudice D’Ambrosio. Io quello che posso dirle è che mio padre è stato fermato, che ha seguito con il suo motorino la volante della polizia e che poi è stato ucciso nel momento in cui è entrato in quella Questura e si è visto privato di tutti i suoi diritti. Ha subìto un fermo illegale che è durato più dei limiti consentiti dalla legge: e nessuno è stato chiamato a rispondere neanche di questo. Tutti i funzionari presenti in quella stanza quella notte hanno mentito ma non gli è successo nulla.
Dopo tanti anni a chi può far paura la verità sulla morte di suo padre?
Sicuramente è una storia scomoda. Forse c’è qualcuno ancora da coprire. Dopo tutto questo tempo sarebbe giusto che qualcuno si liberasse la coscienza. Lo stesso ex Presidente Napolitano ha pronunciato delle parole importanti perché ha parlato di Giuseppe Pinelli, vittima due volte: «Prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine».
Dopo queste dichiarazioni si aspettava una svolta?
Ci saremmo aspettati un proseguimento nella ricerca della verità e un riconoscimento di responsabilità da parte delle Istituzioni non solo sulla morte di mio padre, ma per tutto quello che è successo in tutta quella stagione della strategia della tensione. All’interno della Questura quella notte, dai documenti che sono stati ritrovati e resi accessibili, è emerso che c’erano appartenenti ai servizi segreti. Noi siamo ancora qui, senza nessuna voglia di vendetta, a chiedere la verità per noi e per il Paese.
Secondo Lei cercavano non il colpevole ma un colpevole?
Può darsi, oppure volevano coprire i veri responsabili. Mentre la polizia a Milano metteva nel mirino gli anarchici, da Treviso arrivava la prima segnalazione sui progetti di attentati del libraio neofascista Giovanni Ventura, grazie alla testimonianza dell’insegnante di francese Guido Lorenzon. Volutamente questo filone investigativo si è ignorato e sono continuate le accuse verso gli anarchici.
Vuole rivolgere un appello a qualcuno?
No, non è nel mio stile chiedere qualcosa a qualcuno. La giustizia dovrebbe essere un atto dovuto ma nel nostro Paese non lo è. Angela Stella
Chi era Giuseppe Pinelli. Ferroviere anarchico, aveva partecipato alla Resistenza. Morì in circostanze poco chiare durante un fermo di polizia, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969. L'Espresso il 15 gennaio 2009. Giuseppe Pinelli era un ferroviere anarchico milanese, che da ragazzo aveva partecipato alla Resistenza. Negli Anni Sessanta, svolgeva attività politica con gli anarchici milanesi, in particolare con il Circolo Ponte della Ghisolfa, luogo di animazione storico dell'anarchismo in città. Dopo lo scoppio di una bomba in una sede della Banca nazionale dell'Agricoltura nel centro di Milano (Strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969), Pinelli venne fermato insieme ad altri anarchici milanesi. La Questura di Milano riteneva infatti che l'attentato potesse avere una matrice anarchica, e aveva accusato in particolare Pietro Valpreda (che poi verrà assolto).
Il 15 dicembre, tre giorni dopo la strage, Pinelli si trovava negli uffici della questura milanese, al quarto piano di via Fatebenefratelli, dove si era recato da solo - con il proprio motorino - convocato dal giovane commissario Luigi Calabresi, che Pinelli già conosceva. Nell'ufficio di Luigi Calabresi, Pinelli fu interrogato per ore dallo stesso commissario e da altri ufficiali, tra cui Antonino Allegra, responsabile dell'ufficio politico della questura. Il questore di Milano era Marcello Guida, già direttore del confino politico cui venivano condannati gli antifascisti a Ventotene. Nella serata del 15 dicembre, attorno a mezzanotte, il corpo di Pinelli precipitò dalla finestra e si schiantò nel cortile della questura.
Ma quale fu la reale dinamica di quella morte? Cadde? Fu buttato? si suicidò?
In una prima fase la polizia riferì che Pinelli si era suicidato, gettandosi dalla finestra. Più avanti cambiò versione, parlando di una caduta accidentale. Successivamente a una serie di inchieste e dopo la riesumazione del cadavere, la magistratura stabilì che Pinelli era caduto per un "malore attivo", cioè si era avvicinato alla finestra e a seguito di un malore aveva perso l'equilibrio ed era precipitato. Una violenta campagna di stampa dell'estrema sinistra, e in particolare di "Lotta Continua", indicò il commissario Luigi Calabresi come assassino di Pinelli.
Il 15 maggio 1972 Luigi Calabresi venne ucciso a Milano. Nel luglio del 1988 la Procura di Milano arrestò quattro ex membri di Lotta Continua: Adriano Sofri, Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Leonardo Marino. L’accusa si basava sulle parole di Marino, che sosteneva di aver svolto la funzione di autista in quell'omicidio, mentre Bompressi sarebbe stato l'esecutore materiale, Sofri e Pietrostefani (che di Lotta Continua erano i dirigenti) i mandanti. Dopo diversi processi, nel 2000, la Cassazione ha reso definitiva l'ultima sentenza della Corte d'Assise di Appello che aveva condannato Bompressi, Pietrostefani e Sofri a 22 anni (per Marino 11 anni, con prescrizione). Attualmente Adriano Sofri si trova in detenzione domiciliare per motivi di salute. Bompressi è stato graziato da Napolitano. Pietrostefani vive in Francia ed è ufficialmente latitante.
Piazza Fontana, quando morì Pinelli, in questura c’erano i depistatori dei servizi segreti. Le manovre per incastrare l’anarchico e proteggere i terroristi neri. L’interrogatorio fatale con almeno nove agenti segreti. Il poliziotto «graffiato». E l’appuntato in ambulanza con il moribondo. Un libro-inchiesta riapre il mistero della «diciottesima vittima» della strage di piazza Fontana. Paolo Biondani il 13 giugno 2019 su L'Espresso. Nella notte in cui morì Pinelli, in questura a Milano non c'erano solo i normali poliziotti. C'era anche uno squadrone di agenti e alti dirigenti del servizio segreto civile dell'epoca, l'Ufficio affari riservati, inviati da Roma con una missione di depistaggio: incastrare gli anarchici milanesi per la strage di piazza Fontana e per l'intera catena di attentati esplosivi del 1969, che inaugurarono gli anni del terrorismo politico in Italia. Una pista rivelatasi falsa, totalmente demolita dalle indagini e dai processi che negli anni successivi hanno comprovato le responsabilità dei veri criminali di opposta matrice ideologica: l'estrema destra eversiva. In questi tempi di leader politici e ministri che sdoganano movimenti apertamente neofascisti, giovani che si lasciano irretire da ex terroristi neri condannati per banda armata, neonazisti che tornano alla violenza e inneggiano al razzismo, anarchici delinquenti che spediscono pacchi-bomba per ferire o uccidere, la storia dell'innocente ferroviere Giuseppe Pinelli, arrestato ingiustamente per un eccidio infame e morto misteriosamente dopo un interrogatorio costellato di accuse false, andrebbe spiegata nelle scuole, ai tanti ragazzi che poco o nulla sanno di piazza Fontana e delle troppe vittime dirette e indirette degli anni di piombo. A raccontare tutto quello che si sa, oggi, sulla «diciottesima vittima» della prima strage nera è un libro di Paolo Brogi (“Pinelli, l'innocente che cadde giù”, editore Castelvecchi), giornalista e saggista che ha lavorato per anni al Corriere della Sera: un lavoro di ricostruzione che non azzarda improbabili scoop storici, ma mette in ordine fatti documentati, testimonianze inedite, carte inoppugnabili, recuperate negli archivi di polizie e tribunali. Che offrono poche, solide certezze: non tutta, ma almeno un pezzo di verità e di giustizia. Per i lettori più giovani, conviene partire dall'inizio. Giuseppe Pinelli è un ferroviere milanese che viene arrestato il 12 dicembre 1969, poche ore dopo la strage di Piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), nella stessa retata che colpisce decine di innocenti, tutti poi scagionati. Un poliziotto onesto oggi racconta che «per fare numero, ci dissero di fermare anche i barboni». Pinelli viene trattenuto illegalmente per tre giorni in questura, senza avvocato, senza alcuna autorizzazione dei giudici. Tra il 15 e 16 dicembre, poco dopo la mezzanotte (ma anche l'ora è controversa), alla fine di un lunghissimo interrogatorio, precipita da una finestra della questura e muore. La notte stessa il questore Marcello Guida, in una conferenza stampa improvvisata, dichiara che Pinelli si sarebbe lanciato dalla finestra «con un balzo felino» perché era colpevole: «Era un anarchico individualista, il suo alibi era crollato, si è visto perduto: è stato un gesto disperato, una specie di auto-accusa». Queste parole, oggi, risultano totalmente false: Pinelli non era colpevole, non si è suicidato, non era neppure un anarchico individualista, ma un pacifista di famiglia partigiana, amico del primo obiettore di coscienza cattolico che rifiutò le armi e il servizio militare.
Quella notte in Italia nasce anche la prima squadra di giornalisti d'inchiesta capaci di mettere in dubbio e contraddire la versione ufficiale. Il libro cita maestri oggi scomparsi come Marco Nozza e trascrive per intero la storica cronaca di Camilla Cederna, grande penna dell'Espresso, che quella notte fu «tirata giù dal letto da Giampaolo Pansa e Corrado Stajano». Giornalisti straordinari, di testate diverse, che lavorano insieme e firmano un libro-inchiesta profetico, «Le bombe di Milano», il primo a parlare di stragi nere. Per anni gli apparati dello Stato continuano invece ad incolpare solo gli anarchici. Alcuni sono in carcere già da prima della strage, con l'accusa, anch'essa falsa, di aver organizzato gli attentati esplosivi del 25 aprile 1969 in stazione e alla fiera di Milano. Lo stesso Pinelli, nel fatale interrogatorio, si vede contestare di aver collocato le bombe precedenti, nascoste su otto treni nell'agosto 1969. Pietro Valpreda, arrestato come stragista la mattina del 15 dicembre, resta in carcere per più di tre anni, fino all'approvazione della legge sui termini massimi di carcerazione preventiva, che porta il suo nome. È l'unico imputato ad essere assolto già in primo grado.
La pista anarchica frana solo a partire dal 1971, quando a Castelfranco Veneto si scopre un arsenale di armi ed esplosivi del gruppo nazi-fascista guidato da Franco Freda e Giovanni Ventura. La svolta fa riemergere altre prove fino ad allora ignorate, come le intercettazioni eseguite da un ottimo poliziotto di Padova (nel frattempo rimosso) e la testimonianza di un insegnante veneto, Guido Lorenzon, a cui lo stesso Ventura aveva confessato la strage del 12 dicembre 1969, pochi giorni dopo, organizzata «per favorire un golpe». A quel punto le indagini passano a Milano, dove il giudice Gerardo D’Ambrosio, con i pm Luigi Fiasconaro ed Emilio Alessandrini (poi ucciso dai terroristi rossi di Prima Linea), raccolgono prove gravissime contro quella cellula veneta di Ordine nuovo. L’inchiesta milanese accerta, tra l'altro, che Freda ha acquistato una partita di «timer a deviazione» identici a quelli della strage (e delle altre 4 bombe del 12 dicembre '69). Nel 1973, dopo l’arresto (e prima della provvidenziale fuga in Argentina), Ventura arriva a confessa tutti gli altri attentati esplosivi del 1969, tranne piazza Fontana. Quindi è il gruppo Freda che ha collocato le bombe in stazione, in fiera e sui treni delle vacanze, per cui furono invece incarcerati ingiustamente gli anarchici milanesi.
Quando i magistrati milanesi scoprono i rapporti tra i terroristi neri e il servizio segreto militare (il famigerato Sid), la Cassazione sposta il processo a Catanzaro. Dove Freda e Ventura, dopo la condanna in primo grado, vengono assolti per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi) per la strage, ma condannati con sentenza definitiva per gli altri 17 attentati del 1969. Compresi quelli attribuiti falsamente a Pinelli. Nei successivi processi di questi anni, da Milano a Brescia, le sentenze dichiarano dimostrata, grazie a nuove prove, la responsabilità storica anche per piazza Fontana degli stessi terroristi neri Freda e Ventura, non più processabili perchè ormai assolti.
Sulla morte di Pinelli, invece, non c'è ancora giustizia. Il libro di Brogi ricostruisce però importanti pezzi di verità. Partendo da un verbale dimenticato, ritrovato nell'archivio di Stato, si scopre che in questura a Milano, durante il fatale interrogatorio, c'erano almeno nove agenti segreti, guidati da Silvano Russomanno, un ex fascista repubblichino diventato il numero due dell'Ufficio affari riservati. Sono gli stessi agenti che con la «squadra 54» hanno creato la falsa pista anarchica. Ed è Russomanno in persona che ha raccolto i falsi elementi contestati a Pinelli, nel vergognoso tentativo di incastrarlo per le bombe sui treni. Il saggio rilegge criticamente tutte le indagini sulla morte dell'anarchico. La prima inchiesta che insabbiò il caso, sposando la tesi del suicidio del colpevole, senza neppure ordinare l'autopsia. La preziosa istruttoria in tribunale, in un processo per diffamazione. E l'indagine successiva del giudice D'Ambrosio, che a distanza di anni arrivò a dimostrare con certezza i primi pezzi di verità: Pinelli non era colpevole di nessun attentato; e non si è suicidato. Dopo la vedova Licia, che firmò un famoso libro con Piero Scaramucci (“Una storia quasi soltanto mia”), in questo saggio parlano per la prima volta le figlie di Pinelli, Claudia e Silvia. Che raccontano la tragedia familiare vissuta da bambine. L'emozione per l'invito al Quirinale per il “giorno della memoria”, nel 2009, quando l'allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, inserisce anche Pinelli tra le vittime del terrorismo, mentre la vedova stringe la mano ai familiari di Luigi Calabresi: il commissario di polizia che fu ucciso da un killer rosso per ordine dei capi di Lotta Continua, proprio perché sospettato (ingiustamente: non era neppure nella stanza) della morte dell'anarchico. Claudia Pinelli rivela anche una sofferta confidenza di D'Ambrosio. Sempre nel 2009, a una commemorazione per piazza Fontana, l'ex giudice le si avvicina per chiederle scusa a nome dello Stato: «Mi devo giustificare con lei. Ho fatto quello che ho potuto. Sono stato il primo magistrato a fare i rilevamenti, tre anni dopo, ma avevo tutti contro».
Il libro contesta il verdetto finale di D'Ambrosio, che in mancanza di qualsiasi elemento per parlare di omicidio, dopo aver escluso il suicidio, ipotizza una caduta involontaria di Pinelli, stremato da tre notti insonni con arresti illegali e interrogatori truccati. Una tesi poi ridicolizzata dall'ultrasinistra inventando l'espressione «malore attivo», mai usata dal giudice. Di certo, nelle diverse indagini sul caso Pinelli, i testimoni continuano a cambiare versione dei fatti. Gli unici agenti identificati come partecipanti all'interrogatorio di Pinelli sono un carabiniere e quattro poliziotti (all'epoca erano tutti militari). Nella prima indagine dichiarano in coro di aver visto Pinelli «che con un balzo improvviso si gettava dalla finestra», come sostenevano i loro capi. Nelle istruttorie successive, però, quattro su cinque ritrattano, finendo per ammettere di non aver assistito al volo dell'anarchico. Solo un poliziotto insiste di averlo visto lanciarsi dalla finestra. E giura persino di aver cercato di fermarlo, afferrandolo per una gamba, tanto da subirne «un graffio». Uno strano contatto fisico, di cui l'agente parla per la prima volta davanti a D'Ambrosio, il temuto giudice di piazza Fontana, sostenendo di essersi ricordato di quell'escoriazione solo poco prima dell'interrogatorio, anni dopo i fatti, discutendo con un altro collega a sua volta convocato come teste, che avrebbe quindi potuto parlarne per primo. I nuovi elementi sui depistaggi, emersi solo a partire dagli anni Novanta, portano Brogi a rivalutare soprattutto la testimonianza di Pasquale Valitutti, l'unico anarchico rimasto nello stanzone dei fermati durante tutto l'interrogatorio di Pinelli. Valitutti testimonia fin dall'inizio di aver «sentito chiaramente, circa un quarto d'ora prima della morte di Pinelli, un insieme di rumori che mi hanno fatto pensare: “Stanno picchiando Pino”». E aggiunge che, subito dopo il fattaccio, mentre in questura scoppiava il caos, un brigadiere di polizia «molto alterato» (lo stesso che poi parlerà del “graffio”) gli urlò senza motivo che «Pinelli era un delinquente» e «si era buttato perché coinvolto». Già allora l'anarchico testimonia che a quel poliziotto «si aggiunsero quattro o cinque persone in borghese, a me non note, che mi portarono nella stanza seguente». Col senno di poi, è un chiaro riferimento agli agenti segreti della squadra depistaggi, che dopo decenni di silenzio hanno poi confermato di essersi «installati» in questura subito dopo la strage. Con l'obiettivo dichiarato di «accusare gli anarchici», alimentando ad ogni costo la falsa pista preconfenziata «dai vertici dei servizi a Roma».
Un'altra catena di stranezze evidenziata nel libro è la reazione degli agenti della questura al preteso suicidio (oppure all'ipotetica caduta involontaria). Dagli atti risulta che solo un carabiniere si precipita nel cortile, dove Pinelli è ancora agonizzante. Tutti i poliziotti (come gli agenti segreti di cui per anni si ignora perfino la presenza) restano invece nei loro uffici in questura, senza curarsi delle condizioni della vittima. Eppure, dopo l'arrivo degli infermieri, un appuntato di fiducia dei capi s'infila nell'ambulanza con il ferito gravissimo. Ed entra addirittura nella sala operatoria dell'ospedale, dove resta fino alla morte di Pinelli. Il libro riconosce che a tuttoggi non è emerso alcun riscontro oggettivo all'ipotesi di un omicidio o di un pestaggio alla Cucchi, ma conclude che troppi fatti anomali, come l'assurdità di mandare un agente in sala operatoria a sorvegliare un moribondo, continuano a sollevare interrogativi inquietanti: «Perché tutto ciò? Cosa si temeva che dicesse Giuseppe Pinelli?»
Pinelli me l'hanno ucciso mille volte. La tragedia. Le "bugie dei processi". Le difficoltà della sua famiglia. Parla la vedova dell'anarchico Colloquio con Licia Pinelli. Chiara Valentini il 15 gennaio 2009 su L'Espresso. Non è facile avvicinare Licia Rognini. Da quella notte di quasi quarant'anni fa, quando suo marito, il ferroviere anarchico Pino Pinelli, era volato giù dal quarto piano della Questura di Milano, ha sempre scelto di parlare pochissimo. Ma il rumore che ancor prima di arrivare in libreria ha provocato il libro di Adriano Sofri anticipato da 'L'espresso' ('La notte che Pinelli', Sellerio) l'ha convinta. Di quelle vicende drammatiche che hanno cambiato per sempre la sua vita d'altra parte Licia Pinelli non ha mai smesso di occuparsi. Attiva e lucidissima a 81 anni compiuti (ma ne dimostra dieci di meno), nella sua casa dietro Porta Romana a Milano sta scannerizzando la montagna degli atti dei vari procedimenti giudiziari "perché la carta cominciava a disfarsi e invece la memoria deve restare". Ma va anche a scuola di yoga, si occupa dei quattro nipoti che ha avuto dalle figlie Claudia e Silvia, bambine di 8 e 9 anni al momento della tragedia. E con un'amica scrive inaspettatamente piccoli trattati di astrologia, quasi una parentesi nella severità della sua vita.
Signora Licia, Sofri ha ricostruito puntigliosamente la vicenda di suo marito sulle carte giudiziarie spiegando, queste sono le sue parole, "è il debito che pago alla memoria di Pinelli". Pensa che ce ne fosse bisogno?
"Molto probabilmente è un lavoro utile. Tanti, da Camilla Cederna a Marcello Del Bosco ad altri l'avevano fatto negli anni '70. Io stessa ne avevo parlato in un libro scritto nell'82 con Piero Scaramucci che è da tempo introvabile. Ma rivedere tutto quel che è successo con gli occhi di oggi, mostrando le contraddizioni dei vari processi, può servire. La morte di mio marito, a 40 anni di distanza, è una ferita aperta, un'ingiustizia che deve essere riparata".
Crede che sia possibile?
"Ancora oggi mi è difficile parlarne. Quel che ho vissuto mi ha fatto diventare dura, diffidente. Non sopporto i bugiardi, gli ipocriti, le versioni di comodo. Ma nonostante tutto spero che qualche margine ci sia ancora. Sono troppe le bugie di quei processi, le contraddizioni fra Caizzi, il primo giudice che archivia il fatto come morte accidentale, il giudice Amati che parla di suicidio e D'Ambrosio che conclude per il “malore attivo”. Non posso credere che questa tragedia sia sepolta senza una verità".
Pensa che Sofri, che sta scontando una condanna come mandante dell'omicidio del commissario Calabresi, sia la persona più adatta?
"Non ho mai creduto alla colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni, neanche come ispiratori di quel delitto. Sofri non l'ho mai conosciuto di persona, ma anni fa ho risposto a una sua lettera arrivata dal carcere appunto dicendogli questo. Non so neanche se poi gliel'avevano recapitata".
Alla fine del suo libro è Sofri stesso, che pure si è sempre dichiarato innocente, ad assumersi nuovamente una corresponsabilità morale di quell'omicidio per la campagna di Lotta continua contro il commissario.
"È mia convinzione che i responsabili vadano cercati altrove. So che è un'opinione poco condivisa, ma credo che Calabresi sia stato ammazzato perché non potesse più parlare, come tanti altri che avevano avuto a che fare con la strage di piazza Fontana".
Qualcuno ha osservato che dopo quarant'anni potrebbe trovare una pacificazione con la famiglia Calabresi, incontrare quell'altra vedova.
"Potrebbe anche darsi".
Che cosa ha provato quando ha saputo della morte del commissario?
"Per me era stato come se mettessero una pietra sopra la ricerca della verità. Ma a caldo avevo avuto anche una reazione emotiva, smarrimento e paura per me e le mie figlie. Non ci potevo credere, non volevo affrontare un'altra tragedia, essere bersagliata di nuovo dalle telefonate, dalle lettere anonime. Pensi che proprio quel giorno, il 17 maggio 1972, a Milano si doveva presentare a Palazzo Reale un quadro di Enzo Baj con la caduta di mio marito dalla finestra della Questura. Ovviamente non se ne fece più niente".
In quegli anni era riuscita a ritrovare un po' di normalità quotidiana?
"Non è stato facile. Per sfuggire all'assedio della stampa ho dovuto cambiare casa e mettere le bambine in una nuova scuola. Eravamo una famiglia di sole donne, noi tre più mia madre e una gatta, che cercavano di far barriera contro le ostilità esterne".
Che cosa l'aveva più colpita?
"C'era stato il tentativo di infangarmi per rendermi meno credibile. Il giudice Caizzi, invece di cercare la verità mi aveva chiesto se avevo degli amanti. Mia suocera poi era stata fermata per strada da uno sconosciuto che le aveva detto: 'Lo sa che sua nuora quella sera era con un altro uomo?'".
Ma aveva anche molte persone che la sostenevano. Pinelli era diventato un simbolo.
"Sì, mi stavano vicino i vecchi amici e poi erano arrivate persone nuove, di un ambiente diverso, come gli avvocati, come Camilla Cederna. Dopo la sua morte è stata volutamente dimenticata, non le hanno perdonato di aver scritto con tanta maestria di Pinelli e di piazza Fontana".
Dario Fo ha raccontato la storia di suo marito in un testo grottesco, "Morte accidentale di un anarchico", che ha contribuito a fargli assegnare il Nobel e che è ancor oggi uno dei lavori più rappresentati al mondo. Si è mai chiesta perché?
"Perché non è una vicenda solo italiana. L'ingiustizia e gli abusi del potere ci sono dappertutto".
Nel libro Sofri ricostruisce i tre giorni di suo marito in questura. Lei che cosa ricorda?
"Fino alle ultime ore non ero molto preoccupata. Pino aveva telefonato più volte per rassicurarmi, aveva una voce calma. Erano anche venuti i poliziotti a frugare in casa e si erano accaniti su una delle tesi di laurea che battevo a macchina per gli studenti della Cattolica. Credo parlasse di una rivolta contro lo Stato Pontificio nelle Marche, ma loro l'avevano presa per un documento sovversivo".
Da chi aveva saputo del volo dalla finestra?
"Da due giornalisti, arrivati all'una di notte. Mi ero precipitata a chiamare in Questura, chiedendo di Calabresi. Me l'avevano passato subito. Chiesi cos'era successo e perché non mi avevano avvertito. 'Sa signora, abbiamo molto da fare', era stata la risposta. La verità è che intanto il questore Guida stava preparando la famosa conferenza stampa dove disse che Pinelli si era ucciso perché schiacciato dalle prove. Il 28 dicembre l'avevo querelato per diffamazione. Ma anche se intanto avevano dovuto ammettere che Pinelli non era colpevole, Guida era stato assolto".
'Le ultime parole' è il titolo di uno dei capitoli del libro di Sofri. Pensa che suo marito abbia cercato di dire qualcosa prima di morire?
"Non ne ho nessuna prova. Quel che so è che non hanno lasciato entrare nella stanza mia suocera, che era corsa in ospedale mentre io portavo le bambine a casa di amici. Finché Pino non è morto, vicino al suo letto ci sono stati i poliziotti. Solo quando tutto è finito hanno aperto la porta".
Sofri conclude il suo lavoro rispondendo con tre semplici parole, "non lo so", alla domanda su come è morto Pinelli. E lei cosa risponde?
"L'ho detto anche ai giudici che me l'hanno chiesto, ne sono così convinta che è come se l'avessi visto con i miei occhi. L'hanno colpito, l'hanno creduto morto e l'hanno fatto volare dalla finestra. Solo qualcuno che era in quella stanza può raccontare la verità, non ho mai smesso di sperarlo".
La morte di Ivano Toniolo porta con sé i segreti di Piazza Fontana. Con lui se n’è andato l’ultimo grande testimone delle stragi impunite che hanno insanguinato il nostro Paese tra il 1969 e i primi anni Ottanta. L'ordinovista padovano da tempo viveva in Angola, dove è deceduto per febbre malarica senza essere mai stato interrogato nonostante gli appelli in tal senso dell'allora Presidente della Repubblica Napolitano. Andrea Sceresini l'11 dicembre 2016 su L'Espresso. Nessuno sa, con esattezza, che cosa abbia fatto negli ultimi quarant’anni. Neppure i magistrati, che pure, dopo le recenti rivelazioni sul suo conto, non lo hanno mai cercato. E ormai è troppo tardi: Ivano Toniolo è deceduto in Angola circa un anno fa – ironia della sorte - proprio a ridosso del 12 dicembre, l’anniversario della strage di piazza Fontana. La data esatta non è chiara, così come non lo sono molti particolari della vita di questo misterioso personaggio, il cui nome, probabilmente, risulterà ignoto ai più. Eppure, se avesse parlato, Toniolo avrebbe potuto forse fare chiarezza su una delle pagine più oscure e drammatiche della storia repubblicana: l’eccidio del 12 dicembre 1969 presso la Banca nazionale dell’agricoltura. Era il maggio del 2000, quando in un’aula di Assise di Milano, durante il primo grado dell’ultimo processo sulla strage, l’ex ordinovista padovano Gianni Casalini ammise clamorosamente che gli attentati ai treni dell’8 e 9 agosto 1969 – considerati dalla magistratura come la “prova generale” della strage di piazza Fontana – erano stati opera sua e dei suoi camerati. Casalini stesso aveva partecipato al collocamento di due ordigni all’interno di altrettanti convogli in sosta presso la Stazione Centrale di Milano (uno dei quali era esploso, pur non causando vittime). Casalini aggiunse spontaneamente un altro particolare importante: colui che lo aveva arruolato per l’operazione, e che fisicamente aveva recuperato l’esplosivo e innescato le bombe, era proprio Ivano Toniolo, il “duro” della cellula nera guidata da Franco Freda e Giovanni Ventura, che la Cassazione avrebbe indicato, nel 2005, come il “gruppo eversivo” responsabile dell’eccidio del 12 dicembre. Padovano, classe 1946, figlio di una dirigente locale dell’Msi, amico fraterno di Franco Freda, Ivano Toniolo era considerato un uomo d’azione. Già militante della Giovane Italia, durante gli anni dell’università si era spostato verso posizioni sempre più estreme, aderendo poi alla cellula padovana di Ordine Nuovo, che di lì a poco avrebbe abbracciato lo stragismo. La grande svolta – stando alle ricostruzioni della magistratura – sarebbe avvenuta durante una riunione riservata che si tenne a Padova il 18 aprile 1969, presenti Freda, Ventura, il bidello neofascista Marco Pozzan, Toniolo e due misteriosi personaggi arrivati da Roma, le cui identità non sono mai state accertate: in quell’occasione, gli ordinovisti patavini pianificarono i primi attentati dinamitardi che sarebbero culminati, otto mesi più tardi, nell’esplosione di piazza Fontana.
L’incontro – secondo quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche dell’epoca, i cui contenuti sono stati poi confermati da Gianni Casalini – si sarebbe svolta proprio a casa di Toniolo. “Dopo l’udienza del 2000 nessuno si è più occupato di Casalini - racconta il giudice Guido Salvini, autore dell’ultima istruttoria sulla strage -. Nel 2009 egli mi ha scritto una lettera, sono andato a trovarlo diverse volte a Padova e mi ha raccontato molte altre cose. Ivano Toniolo, a quanto riferito dal suo ex camerata, era un elemento operativo di primo piano, gestiva uno degli arsenali del gruppo e aveva partecipato alla strage, o quantomeno sapeva ciò che era successo. Sin da allora avevo scritto alla Procura di Milano, nella persona del dottor Spataro, invitandola ad attivarsi per sentire Toniolo, e lo stesso aveva fatto il difensore delle vittime l’avvocato Federico Sinicato. Non vi fu nessuna risposta. Eppure per trovarlo sarebbe bastato fare una telefonata al Consolato in Angola. Proprio nel 2009 il presidente Napolitano aveva esortato i magistrati a cercare ancora ogni “ogni elemento di verità”: un invito che purtroppo è rimasto del tutto inascoltato”. L’ipotesi del coinvolgimento di Toniolo nella strage è stata recentemente confermata dal generale Gian Adelio Maletti, ex numero due del Sid, il servizio segreto militare, condannato in via definitiva per i depistaggi alle indagini e tuttora latitante in Sudafrica. “Il commando stragista era composto da quattro persone - ha dichiarato in un’intervista del 2009 – Io conosco dei nomi, anche di gente mai indagata. Quello di Toniolo è uno di essi, e sto parlando di chi partecipò attivamente all'organizzazione dell'iniziativa”. Toniolo fu interrogato in un’unica occasione, nel 1972, dal giudice Giancarlo Stiz, che per primo - quando gli unici indagati per la strage erano ancora gli anarchici - intuì l’esistenza di una “pista nera”. Proprio all’indomani di quell’interrogatorio, Toniolo lasciò precipitosamente l’Italia. Prima si rifugiò nella Spagna franchista, poi in Angola, dove ha trascorso indisturbato il resto della sua vita. Quali sono le ragioni di una fuga così precipitosa? Quali segreti custodiva il “duro” del gruppo padovano di Ordine Nuovo?
Probabilmente non lo sapremo mai. Con Toniolo se n’è andato, forse, l’ultimo grande testimone delle stragi impunite che hanno insanguinato il nostro Paese tra il 1969 e i primi anni Ottanta (l’unico bombarolo nero reo confesso e condannato in via definitiva dalla magistratura è stato l’ordinovista Vincenzo Vinciguerra, autore, nel 1972, dell’attentato di Peteano). Durante gli anni del suo “esilio” angolano, Toniolo era riuscito a edificare intorno a sé un vero e proprio sistema di protezione. Aveva sposato una donna del posto, nipote di un importante esponente dell’Mpla, il movimento fino-cubano che da quarant’anni governa il Paese, e, a quanto sembra, aveva persino cambiato cognome. “E’ un uomo molto schivo, soprattutto con i connazionali – ci aveva rivelato qualche anno fa uno dei pochi imprenditori italiani residenti in pianta stabile a Luanda -. Sappiamo che è fuggito dall’Italia per ragioni politiche, ma la nostra convinzione era che avesse militato in qualche formazione dell’estrema sinistra, non certo in Ordine Nuovo”. Non deve essere stato facile farla franca per una vita intera. Eppure Ivano Toniolo ce l’ha fatta: il decesso – a quanto apprendiamo – è avvenuta “per febbri malariche”. Non sappiamo se abbia lasciato qualcosa di scritto, né dove si trovi la sua tomba. Quello che è certo, è che nessuno potrà più interrogarlo.
Strage di Piazza Fontana, Valpreda era innocente: 18 anni di ingiustizie e tormenti. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Dicembre 2019. 1969 Archivio Storico Pietro Valpreda (Milano, 29 agosto 1933 – Milano, 6 luglio 2002) è stato un anarchico, scrittore, poeta e ballerino italiano, noto per il suo coinvolgimento nel procedimento giudiziario per la strage di Piazza Fontana, dal quale uscì poi assolto. Come per un effetto ottico, quando ho visto le immagini dell’arresto di Massimo Bossetti, lui come un animaletto ferito, impaurito, e i suoi inseguitori che gridavano «prendilo prendilo!» mi è tornato alla mente un viso di tanti anni fa, quello di Pietro Valpreda. Storie e persone molto diverse. Se non altro perché uno, forse non colpevole, è stato condannato all’ergastolo, l’altro, sicuramente innocente, è stato assolto. Alla fine. Dopo diciotto anni di ingiustizie e tormenti. Un concetto non riesce a staccarsi dai mei pensieri: capro espiatorio. L’analogia qui comincia e qui finisce. L’Italia della fine anni sessanta, quella con la democrazia cristiana sempiterna e anche con il movimento degli studenti e l’autunno caldo, fanno da sfondo alla sorte di un ragazzo di ringhiera un po’ anarchico e un po’ baùscia, cioè fanfarone, che sognava di fare il ballerino e a causa di un morbo che gli rallentava i movimenti si era dovuto adattare a confezionare lampade in stile Liberty, mettendo insieme pezzetti di vetro colorati. Una vita niente di che, che non gli sarà più restituita, dopo quel accadde a Milano in una bella piazza dietro al Duomo, che si chiamava piazza Fontana ed era sempre bagnata da tanti zampilli. Era il 12 dicembre del 1969, ore 16,30 quando ancora molti impiegati sono negli uffici, tranne chi lavora in banca, perché gli istituti di credito chiudono prima. In genere, tranne quel giorno alla banca dell’agricoltura di piazza Fontana, quando scoppiò la bomba e nella banca c’era tanta gente. La strage di piazza Fontana cambiò la storia di tutti noi, di noi giovani e del paese intero. E soprattutto quella del giovane anarchico Pietro Valpreda. Ci eravamo conosciuti proprio lì in quella piazza, così come ci si conosceva tutti, in quegli anni. Il 28 novembre del 1968 c’era stata una grande manifestazione di studenti, che al termine era sfociata proprio lì, dove c’era un vecchio albergo, l’hotel Commercio, da tempo disabitato e la cui proprietà da un paio di anni era stata rilevata dal Comune. Il Commercio quel giorno fu occupato, nonostante il dissenso del Movimento studentesco guidato da Mario Capanna che avrebbe preferito un’invasione simbolica di palazzo Reale. Lo stabile divenne da quel momento una sorta di casa dello studente per i tanti ragazzi che venivano a Milano a frequentare l’università e a lavorare. L’occupazione ebbe una forte componente anarchica, di cui anch’io facevo parte. Quando, con una sorta di piccolo golpe estivo, il 19 agosto 1969, il Commercio fu sgomberato e immediatamente raso al suolo, ebbi persino un piccolo momento di gloria. Ma la mia mamma pianse mentre era al mare con le amiche aprendo l’Espresso con le sue lenzuolate nel vedere un’enorme foto che mi ritraeva seduta per terra con i lunghi capelli e il viso un po’ corrucciato mentre stringevo tra le ginocchia un megafono. L’immagine era stata scelta come simbolo dello sgombero di quel “covo di anarchici”. Le ruspe avevano annientato quello che era stato definito “un pugnale nel cuore della città” e che aveva dato parecchio fastidio alla giunta di sinistra del sindaco Aniasi. Piero (nessuno di noi l’ha mai chiamato Pietro) era un anarchico vero e lo è stato fino all’ultimo giorno della sua vita. Non è mai stato serioso né intransigente come spesso erano all’epoca molti militanti politici. Lo si poteva incrociare all’hotel Commercio come al circolo della Ghisolfa o in giro per librerie. Era protetto da una famiglia a forte componente femminile molto solidale, il che non gli gioverà, quando tutti i suoi parenti saranno incriminati per falsa testimonianza perché avevano osato confermare il suo alibi quando fu arrestato e accusato di aver messo la bomba. La sua prima immagine dopo l’arresto è quella di un uomo stravolto e anche stupito, quando, davanti a una selva di flash, un fotografo lo aveva apostrofato in modo crudele: “Alza la capoccia, Mostro!”. Era stato battezzato. Ormai per tutti era il Mostro. Dopo l’occupazione del Commercio era andato a vivere a Roma. Ma la sua famiglia era sempre a Milano. E saranno proprio loro, facendogli sapere tramite un avvocato di una convocazione per una testimonianza davanti a un giudice istruttore per un volantino anticlericale, a farlo decidere ad arrivare nel capoluogo lombardo proprio per il 12 dicembre. La convocazione in realtà era per il 9, inoltre la sorella di Valpreda che l’aveva ricevuta e firmata, non aveva saputo specificare di che cosa si trattasse, tanto che lui, un po’ spaventato, si era rivolto a un legale in quanto temeva di esser stato incriminato per vilipendio al papa. La sua preoccupazione era tutta lì, un normale pensiero da anarchico anticlericale. Ma il clima era già pesante, poche ore dopo lo scoppio della bomba alla banca dell’agricoltura di Milano. I 17 morti e gli 88 feriti erano stati immediatamente messi in conto al mondo anarchico, anche se gli inquirenti in realtà non avevano in mente altri se non un mandante illustre, niente di meno che l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Una pista che furono costretti ad abbandonare poi in gran velocità. Ma il vestito cucito addosso a Piero Valpreda ha avuto per un certo periodo successo proprio perché lui era un anarchico che non veniva difeso neanche dalla sinistra. Tanto che neanche il quotidiano comunista L’Unità gli riconobbe la dignità del suo essere “compagno”, visto che nella foto in cui lui appariva con il pugno chiuso il braccio veniva regolarmente moncato dalla censura di partito. Non fa parte del nostro album di famiglia, dicevano quei tagli nelle foto. Mentre qualcuno metteva la bomba, Piero era a casa di zia Rachele, una prozia in realtà, quella che di più lo ha difeso con le unghie e con i denti. Anche perché era lei il suo alibi più solido. Il nipote, mentre in piazza Fontana scoppiava quell’inferno che nessuno di noi potrà mai più dimenticare, era proprio nella sua casa, a letto e mezzo influenzato. Non era lui l’uomo con la valigetta nera di cui parlò il tassista Rolandi e che sarebbe salito sulla sua auto in piazza Beccaria per percorrere cento metri e poi compiere l’attentato. Ammesso che quella persona sia mai davvero salita su quell’auto gialla. Ma i magistrati di Roma e Milano che si palleggiarono l’inchiesta, prima fecero una ridicola ricognizione di persona e infine costrinsero il tassista a una testimonianza a futura memoria prima della morte. Per poter incastrare Pietro Valpreda. C’è da domandarsi perché una persona così poco importante agli occhi delle istituzioni sia stata presa di mira in modo così pervicace. I casi sono solo due: o lui è stato solo un capro espiatorio preso per caso, oppure, visti i numerosi depistaggi e le frequenti smemoratezze che colpirono gli uomini delle istituzioni al processo di Catanzaro, altri, i veri responsabili, furono tenuti nascosti e protetti. Ma questo non possiamo saperlo perché per la magistratura quella strage non ha avuto colpevoli. La mia amicizia con Piero Valpreda è nata qualche anno dopo, quando ero cronista giudiziaria al Manifesto ed entrai a far parte di un gruppo di giornalisti che dal primo momento avevano creduto alla sua innocenza. Abbiamo svolto un lavoro certosino, giorno dopo giorno, sugli atti processuali, senza che nessun magistrato ci passasse le veline come si usa oggi. Abbiamo studiato e scarpinato, come si dice a Milano. Nel 1972 il Manifesto ha anche tentato la carta elettorale, candidandolo capolista a Roma e svolgendo una campagna elettorale appassionata (ho avuto di nuovo l’occasione di usare il megafono per gridare “Valpreda è innocente, la strage è di Stato!”), ma purtroppo abbiamo mancato il quorum. Piero è uscito da carcere grazie a una legge ad personam, con la quale si consideravano scaduti dopo un certo periodo i termini di custodia cautelare anche per i reati gravi come la strage. Ed è stato infine assolto al processo di Catanzaro e nei tre gradi di giudizio. In quegli anni era riuscito ad aprire un piccolo bar in corso Garibaldi, nella zona di Brera. Ed è stato lì, in quei giorni, che ho potuto conoscere meglio la persona, quello che era stato il suo pervicace ottimismo, ma anche le sue malinconie. Ero diventato un simbolo, diceva, mi hanno appiccicato addosso un’etichetta, ma dei miei sentimenti non importava niente a nessuno. Non aveva acrimonia. Raccontava la sua vita così, come se tutto fosse stato, in un modo assurdo, “normale”. I suoi sentimenti stavano in quel recinto di persona come le altre.Ma anche uno che sognava l’anarchia, la libertà, l’antiautoritarismo. Ero diventato ballerino, mi diceva, perché dopo la guerra ascoltavo la musica americana e mi ero messo a ballare il boogie-woogie. Il momento più emozionante, raccontava, era stata la nascita del figlio, che aveva voluto chiamare Tupac come un condottiero rivoluzionario peruviano. Piero Valpreda è morto a Milano nel 2002, nella sua modesta casa di corso Garibaldi. Negli ultimi tempi scriveva gialli in collaborazione con il giornalista Piero Colaprico. Un’attività imprevista e lontana da lui. Ma non dalla sua vita come gli era stata cucita addosso. Per caso o per complotto?
Paolo Virtuani per il “Corriere della Sera” il 16 novembre 2020. «Una cosa non l' ho mai raccontata: ho sempre stretto la mano a tutti coloro che me la porgevano, ma a tre persone mi sono rifiutato. Quando hanno avanzato la loro mano verso di me, la mia l' ho portata dietro la schiena. È stato il mio modo di dire "Non avete mai detto la verità, ma io la conosco e so il ruolo che avete avuto"». Nell' intenso incontro (a distanza per ragioni di Covid) con Aldo Cazzullo nell' ambito di BookCity Milano, Mario Calabresi ha svelato particolari inediti della sua vita e della genesi del suo ultimo libro, Quello che non ti dicono , incentrato sulla tragica vicenda di Carlo Saronio, rampollo dell' alta borghesia milanese e simpatizzante dei movimenti di sinistra più estremisti degli anni Settanta. Poi, da quelli che credeva compagni, rapito per finanziare la lotta armata e assassinato. L' appello di Calabresi ricorda il famoso «chi sa parli» di Otello Montanari, l' ex partigiano che nel 1990 invitò a raccontare i fatti più oscuri del dopoguerra, come ha sottolineato Cazzullo nel corso della video-intervista. La richiesta del figlio del commissario ucciso a Milano nel 1972 si rivolge alla «zona grigia», ai simpatizzanti - proprio com' era Carlo Saronio - che hanno consentito al terrorismo brigatista di proseguire fino agli anni Ottanta. «C' è chi dice che del terrorismo non si sanno ancora molte cose importanti. Penso invece che la verità storica sia presente, anche se mancano parti di quella giudiziaria», chiarisce Calabresi. «Ai processi è emerso un quadro preciso della parte stragista legata all' estrema destra e ad ambienti deviati dello Stato, e anche di quella legata alla sinistra extraparlamentare. È come avere di fronte un mosaico: da lontano si capisce il soggetto, quando ci si avvicina si nota che mancano delle tessere. Vorrei che queste tessere venissero ricomposte dai tanti che in quel periodo fiancheggiavano i terroristi». Secondo Calabresi a distanza di decenni permane un atteggiamento che non esita a definire omertoso. «Qualcuno a sinistra si è offeso perché pensa che l' omertà sia legata solo alla mafia. Io vorrei che i ragazzi di quella generazione, che ora sono dei nonni, uscissero dal loro silenzio. Penso che non abbiano mai voluto raccontare la verità per un motivo: hanno voluto difendere le loro carriere». L' accusa, per nulla velata, è di non essere stati in grado di assumersi le responsabilità di quanto avevano fatto in quegli anni di gioventù. «Alcuni hanno fatto carriera in aziende e nel mondo della comunicazione: come potevano spiegare che stavano dalla parte dei brigatisti a figli e nipoti? Si può anche non rivangare il passato, ma c' è un passaggio fondamentale - dice ancora Calabresi -: la violenza e il suo rapporto con la politica. La violenza ha causato distruzione e ha chiuso la possibilità di cambiamento sociale. Quella stagione ha liberato germi che vivono ancora oggi».
Resta una domanda: chi sono le tre persone alle quali si è rifiutato di stringere la mano?
«Per l' omicidio di mio padre sono stati condannati in quattro: il mandante morale, il capo del servizio d' ordine di Lotta continua - ancora latitante a Parigi -, chi ha sparato e chi ha guidato l' auto. Ma sappiamo anche chi ha acquistato le armi, chi le ha custodite, chi ha fatto i sopralluoghi, chi faceva il palo, chi ha seguito per giorni l' auto di mio padre. Questi non sono mai stati processati perché mancavano gli elementi. Ma non hanno nemmeno mai parlato. A tre di loro ho rifiutato la stretta di mano».
Giampiero Mughini per Dagospia il 16 novembre 2020. Caro Dago, davvero mica male quel che l’ex direttore di “Repubblica” Mario Calabresi ha raccontato ad Aldo Cazzullo via Skype in occasione della presentazione di un suo recente libro. E cioè che s’era trovato di fronte gente di rilievo in quello che è il suo mondo, l’editoria e la comunicazione, i quali gli porgevano la mano per salutarlo e lui che la sua mano se la teneva indietro perché lo sapeva benissimo che ciascuno di quei tre personaggi aveva avuto un suo ruolo (piccolo o grande che fosse) nell’assassinio di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano alla mattina del 17 maggio 1972 da due colpi di pistola sparatigli alla nuca e alle spalle da un militante di Lotta continua, l’allora venticinquenne Ovidio Bompressi. Voi conoscete i fatti. Che dopo un lungo e tormentatissimo processo sono stati condannati per quel delitto Adriano Sofri (reputato mandate morale di quell’azione), Giorgio Pietrostefani (il leader milanese dell’ala “dura” di Lotta continua che quell’azione la volle e la organizzò), Bompressi per avere sparato e Leonardo Marino per avere condotto l’auto da cui discese Bompressi per andare a uccidere. Giustizia è stata fatta? Non so quanti siano quelli di voi che pensano di no, nel senso che reputano che Lotta continua non c’entrasse nulla con quel delitto, immagino siano rimasti pochi e che abbiano una voce che s’è fatta afona. Per quanto mi riguarda io non sono affatto sicuro che Sofri sia stato davvero “il mandante” e non invece uno che quell’azione l’ha come seguita e approvata a distanza. Per tutto il resto è fuori di dubbio che quell’azione è stata il battesimo di sangue del terrorismo “rosso”, il punto di partenza di una storia dove tutto era possibile a cominciare dal togliere la vita all’avversario “di classe”. Sulla prima pagina del quotidiano “Lotta continua” apparve un editoriale in cui stava scritto che la classe operaia era stata messa di buonumore dall’assassinio di un commissario di polizia trentatreenne padre di tre figli. Resta che l’omertà generazionale su quella vicenda resta immane ed è esattamente su questa piaga che ha messo il dito Calabresi, il quale oltretutto ha incontrato di recente a Parigi un Pietrostefani giunto all’epilogo della sua avventura umana e che a questo punto deve avergli raccontato per filo e per segno com’era andata poco meno di cinquant’anni fa. Appunto. Com’era andata un’impresa di cui certo non erano soltanto quattro i protagonisti impegnati o corresponsabili dell’azione. A Milano era funzionantissimo il servizio d’ordine di Lotta continua, i cui dirigenti conosciamo per nome cognome e soprannome. Di certo alcuni di loro avevano studiato l’agguato, avevano studiato i tempi di uscita da casa ogni mattina del commissario Calabresi, avevano rincuorato Bompressi ad agire, avevano poi aiutato Bompressi e Marino a prendere il largo. Ho tra le mie carte la lettera anonima di un ex militante di Lotta continua che mi aveva fatto il nome e cognome di uno che s’era preso sulla sua moto Bompressi per riportarlo a Massa in modo da fargli avere un alibi. Quanti saranno stati quelli che in un modo o in un altro furono complici della messa a morte di Calabresi? Venti, forse di più. E siccome quelli di Lotta continua erano intellettualmente i più vitali della nostra furente generazione, nulla di strano che molti di loro siano ascesi alle vette del giornalismo e dell’editoria. Ebbene, è stata l’omertà generazionale la loro dea non la verità, o semmai una verità alla maniera di quella di Dario Fo, che ci ha costruito delle pièces di successo sul raccontare quanto e come Leonardo Marino (il pentito da cui partì l’indagine e i successivi processi) si fosse inventato tutto ma proprio tutto. Panzane inaudite quelle di Fo che hanno avuto larghissima cittadinanza nella mia generazione, panzane per le quali provo solo il massimo di disprezzo intellettuale di cui sono capace. Tutto questo l’ho scritto, raccontato, rievocato in un libro del 2009 che aveva per sottotitolo “l’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione”. Persone a me vicine si domandarono e mi domandarono perché mai avessi scritto un tale libro, com’è che avessi potuto mettere in dubbio l’innocenza assoluta di quelli di Lotta continua. In tutto e per tutto quel libro si guadagnò un magnifico (come sempre) pezzo di Aldo Cazzullo che l’allora direttore del “Corriere della Sera” richiamò in prima pagina. Null’altro. Non un club o un circolo che mi chiamasse a parlarne. Piuttosto alcune querele, poi tutte ritirate perché sapevano che in tribunale avrebbero avuto la peggio. Per il resto un silenzio di tomba, talmente d’acciaio era il muro dell’omertà generazionale, il muro della menzogna ideologica costruito a tutto spiano. Ha perfettamente ragione Calabresi junior. Ma possibile che a cinquant’anni di distanza non uno di quelli che c’erano e che seppero sorga a dire: “Sì, è esattamente così che è andata. Mandammo uno di noi a uccidere alle spalle un commissario di polizia contro cui non avevamo in mano nulla di nulla se non la furia ideologica della peggio gioventù”. Non uno. Come si fa a vivere per 50 anni nella menzogna la più bieca?
Con «Quello che non ti dicono», in uscita per Mondadori, torna alla luce la storia di Carlo Saronio, vittima degli anni di piombo. Morì il 15 aprile 1975 durante il suo rapimento. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 18/10/2020. Il ragazzo tradito e ucciso dagli amici che gli promettevano la rivoluzione. «Buonasera Dott. Calabresi, la leggo con piacere perché sono legato a lei dalla perdita di una persona cara a causa del terrorismo. Mi chiamo Piero Masolo, sono prete missionario in Algeria, sono nipote di Carlo Saronio, rapito e ucciso il 15 aprile 1975. Mi piacerebbe poterle inviare una mail per chiederle consiglio su come celebrare l’anniversario dello zio. La ringrazio di cuore». È la mattina del 3 ottobre 2019, quando Mario Calabresi riceve su Facebook questo messaggio dal deserto algerino. La ricerca ha inizio. Calabresi rintraccia rapidamente il nome e la storia: Carlo Saronio, erede di una delle famiglie più ricche di Milano, laureato in ingegneria, ricercatore all’Istituto Mario Negri, fu sequestrato nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1975 da un banda composta da criminali comuni e militanti dell’area di Potere Operaio, movimento per cui Saronio simpatizzava. La vittima morì nelle prime fasi del sequestro, per una dose sbagliata di narcotico. Aveva 26 anni. I rapitori finsero che fosse ancora vivo e riuscirono a ottenere una parte del riscatto. Il corpo sarà ritrovato solo tre anni e mezzo dopo.
La mail del missionario e l’incontro con Marta Saronio. Il 5 ottobre 2019 Calabresi riceve la mail del missionario: «In famiglia lo zio Carlo è sempre stato un tabù, non se ne poteva parlare... Con Marta Saronio, mia cugina e figlia naturale di Carlo, abbiamo finalmente pensato di ricordarlo». Calabresi si rimette a cercare; ma da nessuna parte, neppure nel formidabile archivio del Corriere, c’è traccia di una figlia di Carlo Saronio. Mercoledì 15 gennaio 2020, «a Lodi il mondo sembra ancora normale. Nessuno può sapere quello che sta per scoppiare, che tra quattro settimane il virus sceglierà proprio questa terra per sbarcare in Europa e cambiare le nostre vite» annota Calabresi. Che quella sera a Lodi presenta davanti a 900 persone il suo long-seller «La mattina dopo». Alla fine nella grande sala resta una lettrice, con il libro in mano. Dice soltanto: «Sono Marta». Mario non capisce. «Sono quella Marta». È la figlia di Carlo Saronio: nata otto mesi e mezzo dopo il rapimento e la morte di un padre che non ha mai conosciuto. Prima della tragedia, sua madre Silvia, allora fidanzata di Carlo, era rimasta incinta: e aveva deciso di tenere la bambina. Quando nacque si chiamava Marta Latini. Fu la nonna ad andare dall’avvocato Cesare Rimini per farla riconoscere. Quando aveva tre anni cambiò cognome e divenne Marta Saronio. Ora ha due figli e una vita felice. Ma le manca il padre; e le mancano la sua memoria, le notizie su di lui, e sui suoi assassini.
Il fascino delle idee rivoluzionarie e la vergogna di essere ricco. A questo punto Calabresi, che con «Spingendo la notte più in là» ha cambiato la nostra percezione degli anni Settanta, dando la parola alle vittime dopo che troppo a lungo avevamo letto e ascoltato soltanto i carnefici, avverte come un dovere morale ricostruire la vicenda di Saronio. Ritrova la sua foto di classe, che è diventata la copertina del libro («Quello che non ti dicono», in uscita martedì da Mondadori). Legge una lettera della sua insegnante, Alba Carbone Binda, che ricorda quando i compagni lo prendevano in giro dopo aver letto sul Corriere la classifica dei contribuenti milanesi (i Saronio venivano subito dopo i Rizzoli, i Crespi, i Pirelli, i Borletti, i Mondadori). Carlo a scuola era molto bravo, pieno di talento e di fiducia negli altri, ma tormentato da un senso di colpa. In un tema di quarta ginnasio, raccontò la domenica in cui era andato a fare una gita sulla Rolls-Royce di famiglia: quando era sceso dall’auto, tutti i bambini del luogo si erano affollati intorno a lui; e Carlo avrebbe voluto scomparire. Si vergognava di essere ricco. Anche per questo, lui che al liceo Parini si era avvicinato al movimento di don Giussani (Gioventù studentesca, poi divenuto Comunione e Liberazione) crescendo sentirà il fascino delle idee rivoluzionarie. Sceglierà di andare a insegnare alle scuole serali a Quarto Oggiaro. E per finanziare i compagni di Potere Operaio arriverà a simulare il furto della Porsche che gli avevano regalato i genitori, rimpiazzata con un’Alfasud.
Le riunioni clandestine e il Professorino. Il libro è il racconto dell’inchiesta condotta dall’autore, che passa il lockdown a lavorare sulle carte che la questura di Milano gli ha messo a disposizione, e su quelle custodite in un armadio di famiglia e ritrovate grazie al missionario. Si susseguono dettagli inattesi, coincidenze impressionanti, incastri a sorpresa. E si delinea la figura del colpevole. Del traditore. Carlo Fioroni, detto il Professorino, militante della sinistra extraparlamentare, vicino a Giangiacomo Feltrinelli. È stato lui a stipulare, a nome di una persona che non ne sa nulla, l’assicurazione del pulmino Volkswagen trovato sotto il traliccio su cui è morto l’editore rivoluzionario. La polizia lo cerca, Fioroni sparisce: è nascosto nella bella casa di Carlo Saronio, in corso Venezia. La madre di Carlo non ne sa nulla. Più tardi le viene presentato come Bruno, «un amico romano». E alla Mercurina, la cascina della famiglia Saronio nella campagna tra Lombardia e Piemonte, si tengono riunioni clandestine: per due volte si incontrano di fronte al camino Toni Negri e Renato Curcio. È l’alba dell’eversione, l’inizio degli anni di piombo. È possibile che già allora Fioroni abbia proposto di inscenare un falso rapimento, per spillare soldi alla famiglia; ma Carlo Saronio ha rifiutato. La macchina che porterà alla tragedia è già avviata. Certo, Fioroni avrebbe potuto e dovuto essere fermato. E viene quasi un brivido quando, leggendo il libro, si scopre che un investigatore lo stava cercando, prima di essere assassinato: il commissario Luigi Calabresi. Il padre di Mario.
Il ricordo della sua insegnante. Grazie a «Quello che non ti dicono», la figura di Carlo Saronio torna alla luce. Ora Marta ha conosciuto in qualche modo l’uomo che le ha dato la vita. Così lo ricordava la sua insegnante: «La luminosa promessa che era in lui fu soffocata da un ottuso tampone di cloroformio»; anzi, di toluolo, contenuto in uno smacchiatore o in un solvente comprato in colorificio, scelto perché più facile da trovare rispetto al cloroformio. «Carlo sbagliò a non sospettare la malizia di chi lo tradiva mentre gli chiedeva aiuto. Spero che non lo abbia saputo, che fino all’ultimo respiro lo abbia accompagnato la sua fiducia».
Luigi Calabresi condannato a morte dall’Italia dell’odio e della vendetta. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su Corriere.it da Walter Veltroni. Quale Italia era quella in cui fu ucciso, quarantotto anni fa, il commissario Luigi Calabresi? Talvolta, inabissati nel gorgo delle miserie di questo tempo che ci appare straniero, si è portati a rimpiangere i «bei tempi andati». Si può avere, certo, nostalgia per la passione civile di milioni di persone, per il livello del dibattito politico e culturale, per la statura dei leader dei partiti, dei sindacati, delle imprese. Ma non si può rimpiangere il clima d’odio di quegli anni vitali e bastardi. Oggi segnaliamo, dovremmo farlo di più, l’imbarbarimento del linguaggio dei social, il dilagare di violenza verbale, di antisemitismo, sessismo, intolleranza nei confronti dell’altro da sé. Allora, non dimentichiamolo mai, si sparava. Si mettevano le bombe, si aspettava sotto casa un ragazzo di destra o di sinistra per prenderlo a coltellate o a sprangate, si sequestrava, si uccideva con la facilità con cui lo si fa in guerra. In quegli anni il sangue è stato versato a litri, in una guerra in cui, diversamente da quella di Liberazione, non esistevano un torto e una ragione, definiti dalla libertà, ma solo due giganteschi, stupidi, inutili e sanguinosi torti. Neppure si può avere nostalgia per il tempo di Sindona, di Gelli, della P2, di Gladio, dei servizi deviati, dei rapporti di scambio tra governo e mafia. O per l’inflazione a due cifre e il debito pubblico alle stelle. Era un Paese bloccato, senza alternanza politica, condizionato pesantemente dalla guerra fredda. I grandi meriti di quella classe dirigente, la Costituzione e la ricostruzione modernizzatrice del Paese, vennero dissipati dalla trasformazione del potere da mezzo a fine. Era questa l’Italia che aveva condannato a morte il commissario di polizia Luigi Calabresi. L’Italia dell’odio e della vendetta, dell’estremismo intollerante, l’Italia sgusciante e velenosa degli apparati dello Stato inquinati dalla continuità col fascismo e dalle logiche della guerra fredda. Giuseppe Pinelli Ancora oggi non sappiamo chi ha materialmente messo la bomba a Piazza Fontana, non certo Valpreda, non sappiamo come è morto Pino Pinelli «un innocente che fu vittima due volte, prima di pesantissimi, infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine» come disse Giorgio Napolitano nel 2009. E così per le troppe stragi e per le tante assurde uccisioni di quel tempo. Sappiamo, ha avuto il coraggio di dirlo Sergio Mattarella davanti alle vedove Calabresi e Pinelli nel cinquantesimo anniversario di Piazza Fontana, che: «Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia. L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata, quindi, doppiamente colpevole». Calabresi fu vittima di una campagna di odio terribile. Fu definito su «Lotta Continua»: «Torturatore di alcuni compagni, assassino di Giuseppe Pinelli, complice degli autori della strage di Milano». Fino alla famosa frase, dopo l’assassinio, in cui diceva che non si poteva «deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Era il clima di quegli anni odiosi, in cui persone di valore, come si sono rivelati nel tempo molti dei dirigenti di Lotta Continua, potevano sottoscrivere le parole disumane del loro giornale. In cui democratici di sicura fede e di ogni orientamento potevano aderire a un appello in cui tornava la parola «torturatore». Firmarono Parri e Amendola, Fellini e Pierre Carniti, Terracini e Lombardi. Erano anni in cui tutto era in bianco e nero, in cui esistevano recinti che separavano le idee e le rendevano incomunicabili tra loro, in cui la diversità politica, ogni diversità, era una colpa da lavare col sangue. Bisogna tornare lì, per capire. Valgono le parole di Gemma Calabresi, quando al Quirinale si diede la mano con Licia Pinelli: «Ho sempre detto che mio marito e Pinelli sono vittime del terrorismo e della campagna di odio che in quegli anni lacerò l’Italia». Luigi Calabresi è stato ucciso al termine di una lunga campagna d’odio. Era un uomo che camminava con un bersaglio addosso. Eppure lo lasciarono solo, con la sua Fiat Cinquecento, ad aspettare che lo ammazzassero. Era un esito previsto, non prevedibile, in quegli anni orrendi. Esisteva allora un codice di stampo mafioso che prevedeva la punizione di chi si riteneva nemico, vendetta che veniva consumata nei confronti di avversari politici, poliziotti, magistrati, funzionari dello Stato, spesso persino propri compagni di gruppo terroristico. Fino all’orrore del sequestro e dell’uccisione di Roberto Peci, perpetrato per colpire il fratello Patrizio, o all’assassinio di tanti terroristi di destra, in carcere e fuori, accusati di aver « tradito» i loro camerati dell’eversione nera. C’era sempre un reprobo da punire e qualche improvvisato tribunale autocratico che, senza consentire difesa, comminava e faceva eseguire pene di morte. Come la mafia, proprio come la mafia. Pino Pinelli un giorno regalò al commissario Calabresi, che conosceva da tempo, l’Antologia di Spoon River. Ora anche loro due «dormono, dormono sulla collina». Come tutte le vite spezzate dal tempo dell’odio. Il più pericoloso dei sentimenti umani. Sarà bene non dimenticarlo, oggi.
La pista anarchica. La prima graphic novel dedicata a Giuseppe Pinelli, vittima della strategia della tensione. Ilaria Chiavacci su linkiesta.it il 13 Dicembre 2021. Una graphic novel curata dalle sue figlie ricorda la storia del grande innocente accusato di essere il colpevole di Piazza Fontana, a cinquant’anni dalla sua morte misteriosa. Ce la racconta Silvia Pinelli. 1969: nella Milano degli anni di piombo si consuma una delle pagine più buie e tristi della cronaca nera cittadina, la morte di Giuseppe Pinelli, per tutti Pino, ingiustamente accusato di aver preso parte alla strage di Piazza Fontana e poi morto durante l’interrogatorio, precipitato da una delle finestre della questura nella notte tra il 15 e il 16 dicembre. Sulla vicenda si è scritto e detto tanto: il premio Nobel Dario Fo ci ha basato una delle sue commedie più famose, “Morte accidentale di un anarchico” e, nel 2009, durante il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì Pinelli la «la diciottesima delle vittime della strage di Piazza Fontana: vittima due volte, prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine».
Il 9 dicembre, a cinquantadue anni da quel 1969, è uscito un nuovo volume per l’editore Milieu, “Pino, vita accidentale di un anarchico”, curato stavolta dalle figlie di Pinelli, Silvia e Claudia, da anni attive nel tenere viva la memoria sul periodo buio della storia italiana che è stato quello della strategia della tensione, e soprattutto del ricordo e della ricostruzione dell’immagine del padre: grande appassionato dell’antologia di Spoon River e di Topolino, che si era avvicinato al movimento anarchico dopo le prime esperienze di militanza antifascista. Pinelli era un attivista, una parola che all’epoca non si usava, ma che in ogni caso non avrebbe avuto un’accezione positiva: aveva partecipato alla fondazione del circolo anarchico Sacco e Vanzetti del Ponte della Ghisolfa ed era stato tra i sostenitori di una delle realtà editoriali della controcultura milanese, la rivista Mondo Beat.
La graphic novel “Pino, vita accidentale di un anarchico”, è stata curata dalle figlie insieme a Niccolò Volpato e Claudia Cipriani, già autori di un film dallo stesso titolo, le fotografie invece sono di Uliano Lucas. Questo libro vuole restituire un ritratto intimo e familiare di quello che fu, suo malgrado, il protagonista di uno degli avvenimenti cruciali di quegli anni, motore di una spirale di violenza che culminò poi con l’uccisione del commissario Luigi Calabresi, titolare insieme a Tonino Allegra dell’interrogatorio di Pinelli.
Un percorso doloroso per la famiglia, ma necessario, ci racconta Silvia Pinelli, che con la sorella ha la missione di ricordare la vicenda di Pino soprattutto per le nuove generazioni, continuando quella che era una vocazione del padre. «Lui faceva sempre da tramite tra le vecchie generazioni degli anarchici, quelli che avevano fatto la guerra di Spagna magari, e i giovani che si avvicinavano al circolo. Anche per questo aveva messo a disposizione la sua ciclostile per stampare il primo numero di Mondo Beat. Molte delle persone che si sono avvicinate a noi nel corso degli anni all’epoca erano giovanissimi e si ricordano di quando, avvicinandosi al movimento anarchico, avevano conosciuto Pino: la sua prima risposta di fronte alle loro idee rivoluzionarie era quella di metter loro in mano un libro da leggere».
Cosa ha portato lei e sua sorella a curare questa graphic novel?
Un giorno mia nipote è andata dalla mamma chiedendole di parlarle del Nonno Pino per un compito a scuola e lei le rispose di parlare dell’altro nonno. Mia nipote quindi è andata su internet ed è tornata piangendo e chiedendo di sapere cosa fosse successo veramente. Questo ci ha fatto capire l’importanza di raccontare la storia di mio padre per le generazioni future, della nostra famiglia, e per i giovani di oggi in generale. Ecco perché anche la scelta della graphic novel: un fumetto è un modo più accessibile per arrivare ai giovani.
Cosa volete trasmettere ai giovani con la storia di Pino?
Diciamo ci sono ancora delle criticità nell’anima società che si possono cambiare solo facendo prendere coscienza alle persone di certi meccanismi. Purtroppo mio padre è entrato nella storia uscendo da una finestra, e molte cose si sono venute a sapere dopo, è importante che i giovani si riapproprino della storia e della memoria di argomenti e avvenimenti che nei libri di scuola non vengono trattati o, se succede, si tratta di una disamina frettolosa e sommaria. Capire il contesto di quel periodo è importante per arrivare al cuore di certe rivendicazioni che, purtroppo, sono attuali ancora oggi.
A cosa si riferisce in particolare?
La fine degli anni Sessanta è stato un periodo di grandi speranze, in cui si sono innestati cambiamenti fondamentali della società, sui quali però in questi cinquant’anni non sono stati fatti molti passi avanti, anzi. Penso alla legge sull’aborto, che ancora oggi viene reso complicato alle donne, o alla tutela della salute dei lavoratori. Sono temi di cui si parlava cinquant’anni fa e sono temi di cui si parla ancora oggi, la stessa cosa succede relativamente al dibattito del disarmo della polizia. È dai fatti di Battipaglia del ‘69 che si chiede che venga messo un numero identificativo sulle divise dei poliziotti. Conoscere ciò che è stato è importante anche per affrontare le battaglie del presente e costruire quelle del futuro».
Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 22 luglio 2020. La sera del 12 dicembre 1969 anche lui fu portato in questura, insieme a Giuseppe Pinelli e agli altri anarchici militanti dei circoli Ponte della Ghisolfa e Scaldasole. Paolo Finzi era il più giovane: studente di terza liceo classico, diciottenne da un mese e febbricitante. Anche per questo fu rilasciato dagli uffici in cui Pinelli morì tre giorni dopo. Paolo Finzi è morto lunedì pomeriggio, travolto da un treno poco lontano dalla stazione di Forlì. Il macchinista ha raccontato di aver visto un uomo lanciarsi verso i binari. Aveva 68 anni, quasi tutti vissuti nel segno dell' anarchia, soffriva di crisi depressive e agli amici aveva sempre detto: deciderò io come andarmene. «Maestro di anarchia e di etica, di dialogo e confronto. Uomo brillante, intelligente, sensibile e gentile - è il ricordo dei colleghi di A-Rivista anarchica, da lui fondata nel 1971 e mai abbandonata -. Ci ha insegnato il dubbio e la riflessione, l' ascolto e il rispetto profondo e sincero. Continueremo a navigare in direzione ostinata e contraria, portando avanti un progetto che era la sua casa e la sua vita, nel solco del suo impegno e dei suoi ideali di libertà e giustizia». E un ricordo arriva anche dal direttivo del Club Tenco («Figura rara di intellettuale appassionato, di inossidabile coerenza e di rara umanità»), perché Finzi era stato a lungo amico di Fabrizio De André e vicino a quel mondo di artisti. Al cantautore genovese ha dedicato moltissime iniziative di studio e racconto, così come alla stagione terribile delle stragi di Stato, inaugurata proprio quel 12 dicembre 1969. «Autorevole nel mondo anarchico ma mai supponente, sempre aperto al dialogo e convintamente non violento - lo ricorda Claudia Pinelli - proveniva da una famiglia ebrea e aveva sempre mantenuto vivo l' interesse verso la religione». In collaborazione con l' Anpi aveva condotto ricerche storiche sul ruolo degli anarchici nella Resistenza, ma al tempo stesso, in perfetta sintonia con l' amico De Andrè, si era impegnato per anni alla condizioni di rom e sinti, andando di persona nei campi della periferia milanese. Un impegno sfociato nella produzione di un documentario: «A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli zingari». Intanto ha continuato a reggere, tra mille difficoltà, le sorti della Rivista anarchica. Fino al momento in cui ha deciso altro per sé.
LA STORIA. Ivano e Liliana, morti insieme a Milano. Anarchici e amici di Pinelli. Ivano Guarnieri, 73 anni, e Liliana Puorro, 81, sono stati rinvenuti in casa a Quarto Oggiaro una settimana dopo la morte. Lui fu l’ultimo a vedere in vita Pinelli. Redazione online su corrieredelveneto.corriere.it il 19 agosto 2021. Lui è stato trovato dai carabinieri per terra vicino alla porta, probabilmente stroncato da un malore mentre stava uscendo di casa per andare a fare delle commissioni. Lei era invece a letto, dove da tempo la costringeva una malattia, probabilmente a causa della perdita di quella sua «metà» che se ne prendeva cura a tempo pieno. Sono rimasti lì così per almeno una settimana, fino a quando i vicini si sono insospettiti, sentendo provenire un cattivo odore dal loro appartamento di un complesso di case popolari in via Lopez a Quarto Oggiaro, quartiere della periferia di Milano. È stato un dramma della solitudine quello che ha portato al decesso Liliana Puorro, 80enne di origine veneziana, e il marito Ivano Guarnieri, 73enne rodigino di Adria. I due da tempo vivevano a Milano in quella casa di proprietà del Comune e gestita da MM, la società della metropolitana che da qualche anno si occupa anche del patrimonio immobiliare pubblico.
Anarchici e amici di Pinelli
Dietro di loro una storia che riconduce al cuore del Novecento, al Sessantotto, alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, animatore del Circolo della Ghisolfa, che morì tra il 15 e il 16 dicembre 1969 precipitando dalle finestre della Questura di Milano dove era stato condotto per depistare le indagini dopo la strage di piazza Fontana. Ivano «Ivan» Guarnieri fu l’ultimo a vedere Pinelli prima della sua tragica morte e insieme alla moglie erano due frequentatori del Circolo della Ghisolfa, anarchici storici e amati di Milano. Liliana «Fabrizia» era un’artista, scultrice e pittrice molto apprezzata. La morte di Pinelli s’iscrisse nella vita di Ivan che testimoniò in tribunale, di fronte al giudice Gerardo D’Ambrosio, nei dibattiti pubblici e sulla rivista «A». Ma Ivan e Fabrizia conobbero da vicino anche Pietro Valpreda, un altro degli anarchici accusati per la strage di piazza Fontana e poi assolto, e in occasione del decennale dalla morte gli dedicarono una lirica: «A Pietro Valpreda. A Te, sognatore fantastico ed inguaribile romantico, irrequieto eterno ragazzo militante dell’Idea di Libertà, di quell’Anarchia che ha nutrito il tuo esagerato ardore di rivalsa sociale, dai più vista scioccamente come arroganza iconoclasta (...). Sembra banale dire che sarai sempre nei nostri cuori, caro Pietro, ma Tu lo sai, lo sapevi già poco prima di lasciarci. Eravamo a casa tua, io e Fabrizia: ti muovevi con difficoltà per i dolori e le pesanti terapie che subivi, i tuoi occhi, da eterno ragazzo erano umidi, offuscati, ma la tua mano si è posata lenta ma decisa sul mio braccio e con un accenno di sorriso che malamente copriva una smorfia di dolore mi dicesti: “caro Ivan, mio compagno”; non trovai parole di risposta ma misi la mia mano sulla tua, come fratello che sa. Rimanemmo così per un po’, prima che la stanchezza ti costringesse a letto. Questo è stato non il tuo addio ma un arrivederci da anarchici (...)».
Il ritrovamento
I vicini di casa si sono prima rivolti alla custode per segnalare il forte odore, accentuato anche delle giornate di grande caldo di quest’ultima settimana. La donna a quel punto si è resa conto che effettivamente era da parecchio che non vedeva il 73enne, che era l’unico attivo della coppia e usciva per fare le spese e comprare le medicine per la moglie, e ha chiamato i soccorsi. Intorno alle 17 sono dunque arrivati in gran forze i carabinieri della stazione Milano Musocco, i soccorritori del Suem 118 e i Vigili del fuoco, che quando hanno aperto la porta hanno fatto la macabra scoperta. Ovviamente sarà l’autopsia dei prossimi giorni a stabilire nel dettaglio la causa della morte di entrambi, ma la ricostruzione fatta sul posto è quella di cui si è detto. L’alloggio era in ordine e chiuso dall’interno con le chiavi inserite nella serratura, per cui è esclusa l’ipotesi di una presenza di terze persone. Ma soprattutto il personale sanitario intervenuto in un primo momento e poi anche il medico legale non hanno riscontrato alcun segno di violenza sui cadaveri, derubricando i decessi a «cause naturali».
I problemi di salute di Liliana
Da quello che è emerso anche dalle testimonianze dei vicini, infatti, lei era molto malata e non si alzava dal letto, tanto meno usciva di casa. Lui, che aveva sette anni di meno, si occupava di tutto, nonostante avesse i suoi acciacchi e le sue patologie da monitorare con grande attenzione, e dunque di fatto garantiva la sopravvivenza della moglie. Nel momento in cui un malore improvviso l’ha stroncato, lei si è trovata completamente incapace di badare a se stessa, anche solo di telefonare a qualcuno per chiedere aiuto in quella situazione tragica. E sarebbe così morta di stenti.
51 anni fa l'attentato. Piazza Fontana, chi furono gli autori della strage? Non basta dire fascisti…David Romoli su Il Riformista il 12 Dicembre 2020. Chi si macchiò della strage di piazza Fontana, il 12 dicembre di 51 anni fa? “Gli ordinovisti veneti” risponderebbe chiunque non volesse accontentarsi di uno sbrigativo “i fascisti”. Interrogato sul movente della mattanza, la medesima persona risponderebbe probabilmente: “Per portare al massimo livello la tensione, nella speranza di provocare un pronunciamento militare, come era avvenuto due anni prima in Grecia”. Le cose sono più complesse. Pino Rauti, uno dei leader assoluti di Ordine nuovo, la principale e più longeva organizzazione della destra extraparlamentare, era stato effettivamente nel 1966 autore con Guido Giannettini, con lo pseudonimo ”Flavio Messalla”, del libretto Le mani rosse sulle forze armate commissionato dal capo di Stato maggiore Giuseppe Aloja. Ma On è anche il gruppo che prese apertamente posizione contro il progetto golpista: «Il colpo di Stato militare è sempre un fatto controrivoluzionario, uno dei tanti mezzi attraverso i quali l’ordine costituito trova una momentanea e forzosa soluzione alle contraddizioni che paralizzano il sistema». Lo stesso On, fu, durante il golpe Borghese dell’8 dicembre 1970, una vicenda meno boccaccesca di quanto sia stato poi fatto credere, il solo gruppo della destra radicale a tirarsi indietro. Non per passione democratica, certo, ma perché, come disse Clemente Graziani, l’altro leader storico del gruppo, a Rauti: «È certamente un progetto conservatore dietro il quale potrebbero esserci settori della Dc». On, come tutta la destra radicale italiana, è stato molte cose diverse, a volte opposte. Il volume di Sandro Forte Ordine nuovo parla. Scritti, documenti e testimonianze (Mursia, 2020, pp. 317, euro 22.00) permette di rendersene conto. Non è propriamente una storia del gruppo ma una panoramica cronologica della sua elaborazione politico-culturale, delineata con evidente simpatia, dunque certamente parziale. Supplisce però a una carenza che rende difficile mettere davvero a fuoco la storia di quel periodo. Considera cioè On per quel che voleva essere ed era: un’organizzazione politica, la cui parabola non si può cogliere se si concentra l’interesse, come fa lo studioso Aldo Giannuli nella sua storia di On, solo sui rapporti e sui contatti degli ordinovisti con le centrali della destabilizzazione neofasciste in Europa, basandosi esclusivamente sulle note e sulle informative dei servizi segreti. Come se l’elaborazione politico-culturale, per un’organizzazione politica, fosse un particolare insignificante. Abitudine del resto comune: nei decenni sono usciti centinaia di volumi sul delitto Moro senza che gli autori si siano quasi mai presi la briga di analizzare la Risoluzione strategica che del sequestro e della sua gestione era all’origine. Forte fa parlare i testi, gli articoli, a volte le testimonianze. L’impressione che ne deriva è che la parabola del più agguerrito gruppo neofascista sia stata non solo mutevole nel tempo ma anche più divisa e contraddittoria al proprio interno di quanto lo stesso autore non segnali. L’attività del Centro Studi Ordine Nuovo fuoriuscito dal Msi negli anni ‘50 non va oltre la pubblicistica e la saggistica, su posizioni molto diverse da quelle del Movimento Politico Ordine Nuovo, nato dopo il rientro di Rauti nel Msi, che verrà sciolto nel novembre 1973 dal ministro degli Interni Taviani, come quella che lui stesso definì “una scelta politica, non un atto dovuto”. La lotta contro il comunismo russo e la democrazia americana da un lato, la guerra dei bianchi contro i popoli colonizzati dall’altro erano i cavalli di battaglia della prima On, influenzata sin nelle virgole da Julius Evola. Il primo vessillo verrà abbandonato quando nei ‘60, in nome della comune crociata anticomunista, soprattutto Rauti mette da parte l’antiamericanismo e si lega anzi alla destra del Partito Repubblicano. La seconda bandiera verrà rovesciata nei primi ‘70, quando On passa dalla difesa strenua dei colonizzatori all’esaltazione della rivolta dei colonizzati. Ma ai vertici dello stesso gruppo, la “svolta atlantista” e golpista (su sua stessa ammissione) di Rauti non sembra condivisa, o lo è con palese diffidenza, dal “rivoluzionario” Graziani, che non seguirà Rauti nel Msi e darà vita al Movimento Politico On. Come si incrocia questo libro, che del 12 dicembre quasi non parla, con la visione storica della strage che cambiò la mentalità degli italiani? I colpevoli sono accertati, anche se mai puniti perché già assolti con sentenza definitiva. A differenza della strage di Bologna, quasi tutti, negli stessi ambienti della destra, sono convinti che verità storica e processuale in questo caso coincidano. Ma le definizioni con cui viene indicato di quel massacro, “strage fascista”, “strage di Stato”, sono insieme giustificate e fuorvianti. Confondo almeno quanto chiariscono, forse anche di più. La strage fu fascista, perché dagli ambienti del neofascismo veneto, che si può assimilare a Ordine nuovo solo con una enorme forzatura essendo un’area del tutto autonoma, venivano gli autori del crimine. Fu “di Stato”, perché lo Stato, almeno in alcune sue articolazioni, aveva senza dubbio creato le strutture finalizzate alla provocazione dalle quali provenne e discese Piazza Fontana e perché, dopo il 12 dicembre, lo Stato tutto scelse consapevolmente di indicare negli anarchici i colpevoli precostituiti. Ma parlare senza sfumature di strage fascista e di Stato finisce per identificare con lo stragismo un intero ambiente, in realtà molto diversificato e articolato come la ricerca di Forte dimostra, e finisce anche per attribuire allo Stato tutto e direttamente una responsabilità che è invece parziale e indiretta. È probabile che nessuno nello Stato e neppure ai vertici del neofascismo e di Ordine Nuovo volesse la strage, che fu invece frutto di una forzatura da parte di un gruppo nazista particolarmente feroce e determinato come quello di Freda. In parte, all’origine della confusione che impedisce di mettere nitidamente a fuoco cosa successe non solo il 12 dicembre ma in tutti i primi anni ‘70, c’è una conoscenza dell’estrema destra di allora che oggi è scarsa e fino a pochi anni fa inesistente e che si limita, come fa Giannuli nel suo libro su On, a considerare gli ordinovisti come manovalanza del terrore. Il libro di Forte si muove all’estremo opposto. Glissa sui particolari della assoluta internità di una parte di On al “partito del golpe”. In compenso restituisce la realtà di un’area che, per quanto minoritaria, sideralmente distante e nemica la si consideri, era a tutti gli effetti una realtà politica e culturale dell’Italia del secondo Novecento.
Quante vie partirono da piazza Fontana…Marcello Veneziani, La Verità 12 dicembre 2019. Ma cosa è stata, cosa ha rappresentato la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre ‘69 nella storia e nella vita italiana? Sta lì al centro di un’epoca come cerniera incandescente tra i briosi anni Sessanta e i furiosi anni Settanta, come l’Evento Oscuro per antonomasia, un enorme mistero insoluto che non riusciamo ancora a chiudere definitivamente. Facile liquidarla come una strage fascista, ma poi resta incomprensibile il mistero che la circonda, che la originò e che ha circondato i suoi veri e presunti protagonisti. Ne abbiamo scritto nello speciale di Panorama storia dedicato a Una strage italiana. Un mistero che si fa ancora più fitto se si considera quella strage come la prima di una lunga, insensata e feroce catena di stragi a Brescia, a Firenze, a Bologna. Se la strage di Milano, a tre settimane dall’assassinio del poliziotto Antonio Annarumma, poteva avere avuto come scopo suscitare una controrivoluzione preventiva contro il caos, l’eversione, l’anarchia, a cui si attribuì in un primo tempo l’eccidio, le stragi seguenti come quella di Brescia o dell’Italicus o della stazione di Bologna a cosa servirono se non a spaventare l’Italia e criminalizzare l’estrema destra? Non si faceva in tempo a dare la notizia e prima di ogni indizio i tg e i giornali già la bollavano come “strage di chiara marca fascista”. Che scopo potevano avere i terroristi di destra a suscitare questa ondata di odio, repressioni e carcere contro se stessi? Il terrorismo nero è una pagina oscura della nostra storia, non si comprendono i confini, le finalità, i collegamenti. A dover spiegare quelle stragi alla luce del cui prodest, sappiamo per certo che non giovarono all’estrema destra, e tantomeno alla destra politica e parlamentare che nel nome delle “trame nere” si trovò criminalizzata, ricacciata in un ghetto ed esclusa. Agli inizi degli anni Settanta il Msi aveva raccolto un grande successo politico, di piazza e di voti. E le stragi furono la principale arma usata contro il partito di Almirante e l’area di destra per isolarli e demonizzarli per un disegno eversivo di cui erano palesi vittime. Quelle stragi servirono a riaccendere in Italia la mobilitazione antifascista e a reinserire il partito comunista nel gioco politico attraverso la ripresa del Cln nell’arco costituzionale. E servirono a far nascere nel paese la paura degli estremismi e la necessità di governi consociativi. Meglio un’infame sicurezza che il fanatismo dei terroristi. In quelle stragi si trovarono invischiati, accusati e scagionati, personaggi di estrema destra, oscillanti tra nazifascismo, anarchia e servizi segreti. Ogni atto terroristico di matrice nera si convertiva in una retata negli stessi ambienti dell’estrema destra. Se c’era un disegno dietro le stragi quel disegno era semmai concepito contro di loro, o comunque passava sopra le loro teste; i neri che vi parteciparono furono piuttosto manovrati, usati e poi gettati dopo l’uso. Qui subentra il Mistero Profondo della storia italiana: che ruolo ebbero i servizi deviati, gli apparati statali in queste operazioni? Col tempo si parlò anche di matrici straniere, servizi americani, sovietici e medio-orientali; nelle ultime stragi emerse il ruolo della mafia che adottava strategie di diversione. Ma il nodo centrale resta lì e bisogna nuovamente pronunciare la domanda fatidica: furono allora stragi di Stato o comunque di settori dello Stato che rispondevano a grandi registi politici, anche collusi con la criminalità? Gira e rigira non riusciamo a trovare spiegazioni alternative. Più lineare è stato il terrorismo di matrice comunista, dalle Brigate rosse a Prima linea e agli altri gruppi terroristici di ultrasinistra. Si colpivano obbiettivi mirati, simboli e personaggi-chiave del sistema o giovani militanti di destra. Le Br cercarono pure di far saltare il compromesso storico tra Pci e potere democristiano-capitalistico-atlantico. A lungo negato nella sua matrice comunista, quel terrorismo ha goduto di complicità e omertà assai estese. Giorni fa è morto il magistrato genovese Mario Sossi che fu sequestrato dalle Brigate rosse nel ’74. Tra le sue indagini imperdonabili, Sossi si era occupato di un personaggio chiave, l’avvocato Lazagna, ex-partigiano ritenuto un ponte non solo simbolico tra la vecchia e la nuova Resistenza. A tale proposito nello stesso ’74 accadde un episodio ad un altro magistrato, Gian Carlo Caselli, che lo raccontò sulla rivista MicroMega: “In quel periodo, ai tempi delle Brigate rosse, non si poteva pensare diversamente che subito si era accusati di essere fascisti. I primi tempi delle inchieste sulle Br io ero trattato da fascista. Di fatto, sono stato espulso da Magistratura democratica – vogliamo dirle queste cose una buona volta? – perché facendo il mio dovere, ho osato portare a giudizio l’avvocato Lazagna (un partigiano doc che assisteva a tutti i convegni di Md”. Caselli aveva emesso su richiesta del pm Caccia, “un mandato di cattura contro Lazagna per collusione con le Br, in base a fatti riscontrati” e perciò, diceva il magistrato torinese “sono stato di fatto “condannato” ed espulso da Magistratura democratica”. Strana storia…Ma tornando a Piazza Fontana, fu un evento-chiave non solo perché fu l’inizio delle stragi oscure, ma anche perché da lì originò la vicenda Pinelli-Calabresi, la condanna a morte del Commissario da parte di Lotta continua, preceduta da quelle famose ottocento firme contro Calabresi che restano una vergogna della storia civile e intellettuale d’Italia. Insomma, troppo facile sbrigare Piazza Fontana con la pista fascista e la storia che ne segue come lo svolgimento di una trama nera: quella strage aprì una stagione infame, che fu rossa, nera e oscura, soprattutto oscura. MV, La Verità 12 dicembre 2019.
Piazza Fontana, il Senato rilancia la pista anarchica. Gianni Barbacetto il 13 dicembre 2021 su ilfattoquotidiano.it. Citare ancora gli anarchici come possibili esecutori della strage di piazza Fontana, 52 anni dopo. E dopo che le sentenze definitive hanno sancito che a mettere le bombe del 12 dicembre 1969 furono certamente i fascisti di Ordine nuovo. Eppure è successo: e addirittura nel sito del Senato. “Sostenere che ‘per Piazza Fontana, gli anarchici […]
Citare ancora gli anarchici come possibili esecutori della strage di piazza Fontana, 52 anni dopo. E dopo che le sentenze definitive hanno sancito che a mettere le bombe del 12 dicembre 1969 furono certamente i fascisti di Ordine nuovo. Eppure è successo: e addirittura nel sito del Senato. “Sostenere che ‘per Piazza Fontana, gli anarchici vennero completamente assolti dall’accusa di strage’, significa (…) affermare un falso storico”.
Così dice la relazione firmata da due ex senatori del Movimento sociale italiano, Alfredo Mantica e Vincenzo Fragalà, linkata ieri sul profilo Twitter ufficiale del Senato in occasione del 52° anniversario della strage. “Storia di depistaggi: così si è nascosta la verità”, hanno scritto dal Senato nel tweet collegato proprio a quella relazione che sì depista e travisa, tornando sulla pista anarchica, mentre le indagini hanno evidenziato, come ricordato anche ieri dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che quell’attentato, 17 morti, fu neofascista.
Il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, ha attaccato duramente la presidente del Senato Elisabetta Casellati: “Un oltraggio alle vittime, ai loro familiari, alla città di Milano”. La presidente Casellati si è ben nascosta dietro l’ufficio stampa di Palazzo Madama che in una nota nel tardo pomeriggio, dopo aver rimosso il tweet, si è assunto la colpa: “È per un mero errore di collegamento al link delle relazioni depositate in sede di Commissione stragi che un tweet dell’ufficio stampa del Senato, e non della presidente, dava accesso anche alle relazioni di minoranza presentate a titolo individuale da alcuni componenti dell’epoca. Nessun intento di avvalorare tali opinioni così come quelle di altri”. La nota finisce per essere una pezza peggiore del buco, perché concede dignità di “opinioni” a quelli che sono invece clamorosi errori e veri depistaggi.
Anche il giornalista Primo Di Nicola, senatore del Movimento cinque stelle, ha criticato l’accaduto: “Utilizzare i siti social del Senato per rilanciare le tesi neofasciste intorno alle responsabilità degli anarchici sulla strage del 12 dicembre del 1969 è semplicemente un’operazione vergognosa di mistificazione storica. Un colpo alla memoria delle vittime e alla sofferenza dei familiari. Le responsabilità dei movimenti clandestini neofascisti dell’epoca e le collusioni degli apparati deviati dello Stato sono ormai un fatto acquisito. Mi auguro che la presidente del Senato Casellati faccia sentire presto la sua voce per tutelare l’immagine e il prestigio del Senato”.
Ma la voce, appunto, non è pervenuta. Anzi, anche nelle celebrazioni della mattinata, Casellati aveva evitato di citare i reali responsabili della strage limitandosi a queste parole senza accennare ad alcuna matrice: “Lo sdegno dell’Italia intera per la strage di piazza Fontana non si è mai spento. Il 12 dicembre 1969 ci furono sgomento, dolore, indignazione. Fu l’inizio di una lunga stagione di sangue. Ma a 52 anni di distanza, il pensiero per le 17 vittime e il ricordo di quel barbaro crimine devono essere un monito affinché le trame eversive e le sofferenze che ne derivarono, individuali e collettive, non si ripetano più nel futuro”.
Nella cerimonia in piazza Fontana, ieri, è stato contestato il sindaco Giuseppe Sala, che a proposito dello sciopero indetto per il 16 dicembre ha detto: “Lo sciopero è probabilmente sbagliato, ma è un diritto”. Fischi e grida hanno interrotto il suo intervento.
Alessandra Arachi per il "Corriere della Sera" il 13 dicembre 2021. Sono passati cinquantadue anni da quel pomeriggio a Milano. Era un venerdì, erano le 16.37: sette chili di tritolo squarciarono il salone centrale della Banca Nazionale dell'Agricoltura, in piazza Fontana. Quella bomba uccise 17 persone, ne ferì 88. E cambiò il corso della storia italiana. «La prova a cui l'Italia venne sottoposta fu drammatica. Ma vinse la democrazia, e con essa prevalsero i valori di cui la Costituzione è espressione. Anche per questo è necessario fare memoria». Il ricordo del Capo dello Stato Sergio Mattarella è nitido: quella strage fu un attacco alla democrazia. «Tutto questo è stato chiaro ben presto alla città di Milano e alla comunità nazionale. La risposta unitaria, solidale, di popolo contro il terrorismo, e contro tutti i terrorismi che insanguinarono l'Italia dopo piazza Fontana, è risultata decisiva per isolare, sradicare e quindi sconfiggere l'eversione. La democrazia è un bene prezioso che va continuamente difeso e ravvivato». La risposta fu unitaria e solidale. E il presidente Mattarella ricorda che «la verità non è stata pienamente svelata». Ma aggiunge: «Tuttavia, nonostante manipolazioni e depistaggi, emerge nettamente dal lavoro di indagine e delle sentenze definitive la matrice eversiva neofascista e l'attacco deliberato alla vita democratica del Paese». Parole decise, quelle del Capo dello Stato. Che per qualche ora sono andate in rotta di collisione con il contenuto di un tweet sull'account ufficiale del Senato. Con un link alla relazione del 2000 di due parlamentari missini, quel tweet rilanciava la pista anarchica per la strage di piazza Fontana, «il ruolo ancora non chiarito di Pietro Valpreda». «Un mero errore tecnico di collegamento al link», preciserà poi l'ufficio stampa di Palazzo Madama rimuovendo il tweet. Era stato il segretario di Sinistra Unita Nicola Fratoianni a segnalare quell'«incredibile» post: «Spero che la senatrice Casellati rettifichi al più presto, spiegando perché sia potuto accadere un episodio simile». Dal Senato è arrivata la spiegazione dell'errore, mentre Elisabetta Casellati aveva già manifestato «lo sdegno mai spento dell'Italia intera per la strage». Per la presidente del Senato «il 12 dicembre 1969 fu l'inizio di una lunga stagione di sangue, e a 52 anni di distanza il pensiero per le 17 vittime e il ricordo di quel barbaro crimine devono essere un monito affinché le trame eversive e le sofferenze che ne derivarono, individuali e collettive, non si ripetano più nel futuro». Anche il presidente della Camera Roberto Fico è convinto che la strage di piazza Fontana «seminò morte e terrore, ma la strategia della tensione non riuscì nell'intento di sovvertire l'ordine democratico. Il nostro Paese, seppure a caro prezzo, seppe resistere e opporsi all'attacco eversivo». È stato proprio in piazza Fontana che ieri pomeriggio i cittadini milanesi si sono stretti attorno a quel ricordo doloroso, una manifestazione per commemorare i caduti della strage. Una manifestazione pacifica che ad un certo punto è stata interrotta da urla e un po' di fischi contro Beppe Sala. Tutto per una frase sullo sciopero generale del 16 dicembre indetto da Cgil e Uil che il sindaco non ha fatto in tempo a terminare. «Lo sciopero è probabilmente sbagliato, ma è un diritto...», ha iniziato Sala. Spiazzato dai cori e dalle urla, ha avuto anche una serie di battibecchi con i manifestanti che gli hanno fatto perdere la pazienza. «Non dite ca...», si è lasciato sfuggire il primo cittadino di Milano prima di poter poi concludere il suo discorso.
Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi. 73a SEDUTA MERCOLEDI 5 LUGLIO 2000 Presidenza del Presidente PELLEGRINO
Indice degli interventi
PRESIDENTE
ALLEGRA
BIELLI (Dem. di Sin.-L’Ulivo), deputato
DOZZO (Lega Forza Nord Padania), deputato
FRAGALA' (AN), deputato 1 - 2 - 3
MANCA (Forza Italia), senatore
MANTICA (AN), senatore 1 - 2 - 3
MIGNONE (Misto Dem.-L'Ulivo), senatore
La seduta ha inizio alle ore 20.15.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.
Invito l'onorevole Fragalà, segretario f.f., a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.
FRAGALÀ, segretario f.f., dà lettura del processo verbale della seduta del 4 luglio 2000.
PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
INCHIESTA SU FENOMENI DI EVERSIONE E TERRORISMO: AUDIZIONE DEL DOTTOR ANTONINO ALLEGRA.
Viene introdotto il dottor Antonino Allegra.
PRESIDENTE. Do il benvenuto all'onorevole Dozzo che, come in precedenza annunciato, ha sostituito la deputata Giovanna Bianchi Clerici.
Ringrazio il dottor Antonino Allegra di aver accettato il nostro invito e gli do la parola chiedendogli di ricostruire brevemente le date del suo impegno a Milano presso l'ufficio politico della questura, per permettere così ai commissari di rivolgere successivamente alcune domande. In particolare chiedo al dottor Allegra di fare riferimento al periodo dal 1968 in poi.
ALLEGRA. Ho assunto la direzione nel febbraio 1968, pochi giorni prima dell'occupazione dell'università di Milano e dell'inizio formale della contestazione. Sono andato via da Milano nel gennaio del 1973 perché avevo avuto la promozione a vice questore e questa non era compatibile con l'incarico che avevo prima.
PRESIDENTE. Potrebbe descriverci qual era l'atmosfera di quel periodo, con riferimento alla contestazione studentesca, all'"autunno caldo", alla morte dell'agente Annarumma, agli scontri di via Solferino?
ALLEGRA. I fenomeni contestativi a Milano non sono apparsi improvvisamente, sono stati preceduti da certi atteggiamenti quali il rifiuto di un certo modello borghese. Soprattutto c'è stato prima un fenomeno che ritengo importante: persino nelle file del Partito comunista c'era un fenomeno di antirevisionismo; i giovani non erano soddisfatti dell'atteggiamento del loro partito e si erano posti in una posizione se non di conflittualità, senza dubbio di critica. Anche nella parte cattolica c'era qualcosa del genere. Tutte queste situazioni cominciavano a far pensare che, quando si fossero saldate queste diverse istanze contestative, potesse verificarsi una contestazione generale. Era allora questore di Milano il dottor Parlato, una persona molto sensibile, con il quale ho avuto un ottimo rapporto e con il quale discutevo dell'opportunità di organizzarci per poter fronteggiare una simile evenienza. I fenomeni contestativi di una certa importanza si verificarono molto prima di quanto avevamo preventivato. Il 17 febbraio 1968 vi fu a Milano una manifestazione che ritengo importante. Credo sia stata l'ultima grande manifestazione indetta dalla Consulta per la pace sul problema del Vietnam. In quella circostanza i gruppi cosiddetti filomaoisti, che in realtà erano gli antirevisionisti, formarono una sorta di contro corteo. Il corteo principale percorse tutte le vie del centro dirette a piazzale Loreto, passando davanti al consolato americano. Da parte degli organizzatori e di chi partecipava al corteo ufficiale non c'era volontà di creare incidenti, ma quelli che erano più indietro cominciarono a lanciare oggetti e pietre e alla fine vi furono scontri di una certa importanza. La cosa finì lì, ma erano i primi sintomi che la situazione cominciava a diventare se non più allarmante, più preoccupante. Il 22 febbraio vi fu l'occupazione dell'università statale che fu possibile anche perché, tre mesi prima, nel novembre 1967, vi era stato un inizio di contestazione alla "Cattolica", anche se non molto chiara, nel senso che si parlava dell'aumento delle tasse e sembrava una delle tante manifestazioni di protesta contro le autorità scolastiche. Invece c'era qualcosa di più. In effetti, vi fu una occupazione che si risolse in poco tempo perché il rettore, professor Franceschini, richiese il nostro intervento e noi la stessa notte sgombrammo l'università. Le autorità accademiche presero un provvedimento nei confronti di tre dei loro iscritti che ritenevano fossero gli organizzatori di questa manifestazione e che erano Mario Capanna, Spada e Luciano Pero che di autorità furono trasferiti all'università statale. Vi fu allora una confluenza di forze diverse di varie estrazioni, poi quando iniziò la contestazione confluirono anche persone che con l'università non avevano niente a che vedere e si creò un primo nucleo di contestazione violenta, anche perché, mentre in passato non si pensava di reagire quando la polizia decideva un divieto, da quel momento i ragazzi si premunirono di caschi, scudi e così via e cominciò una conflittualità molto più violenta di quanto fosse accaduto in precedenza. Rispetto a questa contestazione, che poi fu definita globale, ci si accorse che la richiesta sul piano accademico e scolastico prevedevano un altro assetto, non si potevano ottenere senza modificare certi aspetti della struttura statale e quindi la contestazione dall'ambiente scolastico e accademico finì per orientarsi in altra direzione, cominciò a diventare quello che si potrebbe definire un movimento piuttosto rivoluzionario. È chiaro che ci preoccupavamo non tanto dell'impatto in sé, perché la nostra era una democrazia e aveva i mezzi per risolvere certi problemi in via pacifica piuttosto che attraverso gli scontri. Però, avevamo chiaro che da questo formarsi di forze contestative eterogenee, potessero nascere anche filiazioni più o meno pericolose. Questa era la nostra preoccupazione, tanto che, dopo i primi mesi, dopo un continuo tumultuare di assemblee, si cercò anche da parte del movimento studentesco di trovare un terreno ideologico unico per tutti i contestatori, ma si verificarono situazioni centrifughe. C'era il gruppo anarchico individualista che andava per conto suo, c'era il gruppo dell'unione italiana marxisti-leninisti che andava per conto suo, poi con il tempo, si costituirono altre formazioni come Avanguardia operaia, Lotta continua, Potere operaio che già esisteva ma non sotto questa forma. Quindi, nonostante i nostri sforzi, la situazione si andava aggravando ogni giorno di più; anche perché – questo è piuttosto un giudizio personale – se chi ne aveva il potere avesse studiato bene il fenomeno e avesse cercato delle soluzioni, forse si sarebbe potuto non dico eliminare ma senza dubbio attenuare questa sfida, che poi, con il passare del tempo, portò anche a conseguenze tragiche.
PRESIDENTE. Devo chiederle soltanto due chiarimenti. In primo luogo, la radicalizzazione di opposto segno politico quando comincia a manifestarsi a Milano?
ALLEGRA. Comincia a manifestarsi già all’inizio. Nel momento in cui viene occupata l’università, vengono interrotte le lezioni, vengono interrotti gli esami, da parte di altri vi era la volontà di opporsi in qualche maniera: "Io voglio andare a studiare!". Lì cominciano i primi scontri; ma la situazione era impari: il Movimento studentesco comprendeva una grande massa di persone, gli altri invece non erano che una piccola parte e appartenevano ad alcune organizzazioni (non è che ce ne fossero molte poi), come il FUAN, l’organizzazione universitaria di estrema destra. L’organizzazione più attiva comunque era quella dei giovani, che erano più numerosi, la Giovane Italia.
PRESIDENTE. E da parte vostra, un’attività di monitoraggio dall’interno di questi nascenti gruppi rivoluzionari di sinistra iniziò immediatamente? La faceste? Ci pensaste?
ALLEGRA E’ chiaro, ci pensavamo. Seguivamo con attenzione per vedere cosa si andava formando.
PRESIDENTE. Non mandavate qualche poliziotto con i capelli lunghi a fare pure lui delle assemblee?
ALLEGRA. Con i capelli lunghi non ce n’erano.
PRESIDENTE. Con i capelli corti lo avrebbero riconosciuto subito. Non pensaste di farli crescere a qualcuno?
ALLEGRA. Alcuni nostri poliziotti erano già studenti, quindi non c’era bisogno che si camuffassero: avevano la possibilità di essere presenti in qualche assemblea e comunque di avere dei rapporti.
PRESIDENTE. Per dirla chiara, non pensaste di infiltrare questi gruppi immediatamente?
ALLEGRA. Di infiltrazione se ne parlò tanto, ma non abbiamo avuto questa…
PRESIDENTE. Mi sembra però – come dire – una grave mancanza, visto che quei movimenti erano permeabilissimi, almeno nella fase iniziale.
ALLEGRA. Infatti, come le dicevo, avevamo dei nostri poliziotti-studenti che erano in condizione di avere rapporti con il movimento studentesco. Poi, molte cose riuscivamo a saperle perché avevamo contatti continuati, tutti i giorni, anche con i maggiori contestatori. Dai dialoghi e dai colloqui che c’erano molte cose si capivano. E’ quando non si parla che non si …
PRESIDENTE. L’impressione che stessero cominciando forme di compartimentazione, quindi di clandestinità di questi gruppi, quando iniziaste a percepirla? Quand’è che dal movimento, dalla contestazione dichiarata nasce Prima linea?
ALLEGRA. Nasce dopo. La prima enucleazione, se così si può chiamare, ma che è nell’essenza stessa dei fatti, è quella di un gruppetto che si definiva "anarchici individualisti". Anche il Movimento studentesco a volte cercava di emarginarli perché non corrispondevano alla sua logica. Era un gruppo che bazzicava la zona di via Brera, via Madonnina, quella parte lì. Iniziarono a fare dei piccoli attentati; il primo addirittura nel marzo 1968, contro la Dow Chemical. Lasciarono un volantino che in parte rimase bruciacchiato, ma dai pezzi che rimasero fu in parte ricostruito. Un altro attentato si verificò pochi mesi dopo, nel maggio, contro la Citroen, in concomitanza con il famoso "Maggio francese". Poi via via se ne verificarono altri. Erano attentati dimostrativi, anche perché non erano molto potenti. Erano realizzati con ordigni rudimentali, a base di nitrato di potassio. Tuttavia nell’agosto di quell’anno, 1968, vi è stato un grosso allarme per il rinvenimento a "La Rinascente" di Milano di un ordigno esplosivo incendiario che fortunatamente non esplose. Abbiamo creduto allora che la mancata esplosione dipese dal fatto che la forza che la pila dava alla resistenza elettrica per fare incendiare il nitrato di potassio non era stata sufficiente.
PRESIDENTE. In che data avvenne?
ALLEGRA. Nell’agosto 1968, mi sembra il 31. Un altro ordigno, sempre a "La Rinascente" venne trovato nei giorni precedenti il Natale 1968. Il sistema più o meno è lo stesso però questa volta al posto della resistenza venne messo un fiammifero "contro vento". Si erano resi conto che il primo ordigno non era esploso perché la resistenza non aveva avuto forza sufficiente per far incendiare il nitrato di potassio e quindi usarono quest’altro sistema. L’attentato non riuscì perché un guardiano notturno vide l’ordigno e staccò i fili. Questo episodio ci fece molto preoccupare. Il primo di questi attentati fu rivendicato in forma diversa. Infatti, i piccoli attentati di cui dicevo prima (contro il Banco ambrosiano, la Banca d’Italia, la Chiesa di San Babila) venivano rivendicati con un volantino scritto a stampatello ciclostilato in parecchie copie e lasciato sul posto. Quelli de "La Rinascente", invece, furono rivendicati in maniera diversa. Perché non potevano lasciare un volantino sul posto in cui si presumeva che si sarebbe verificato un incendio; e allora fu mandata una lettera, a firma "Gruppo anarchico Ravachol" che giunse in questura. Naturalmente queste cose ci preoccuparono e fu questo il motivo – l’abbiamo detto mille volte, forse non ci credono, non lo so – per cui noi avevamo la percezione che la cosa avvenisse nella zona di Brera. Fra le altre cose, da quelle parti bazzicava anche il Feltrinelli, allora, che pubblicava il famoso "Tricontinental", che invitava la gente a fare la rivoluzione anche a livello individuale: chi va in un supermercato e non paga compie un atto rivoluzionario. Nella rivista "Tricontinental" in prima pagina si diceva: "Chi vuole fare la rivoluzione non a parole si guardi l’ultima pagina di copertina". Nell’ultima pagina di copertina era descritta la confezione rudimentale di un’arma o di un ordigno esplosivo. Anche sulla base non dico di confidenze precise, ma di notizie che si riuscivano ad acquisire nell’ambiente, avevamo il sospetto che lì, nella zona di Brera, ci fosse qualcosa su cui dovevamo porre attenzione.Occorre chiarire una volta per sempre certe cose. Noi contattammo alcuni esponenti dell’anarchia, che consideravamo ideologicamente più maturi e quindi meno propensi a fare delle azioni pericolose, se vogliamo anche irrazionali. Tra questi cito appunto il Pinelli, Amedeo Bertolo e qualche altro di cui non ricordo il nome. Amedeo Bertolo lo conoscevamo dai tempi del sequestro del vice consolo spagnolo Isu Elias; li consideravamo gente che dava un certo affidamento.
PRESIDENTE In che periodo siamo?
ALLEGRA. Verso la fine del ‘68 e agli inizi del ’69, in quell’inverno lì. Non ci illudevamo che queste persone ci dicessero se sapevano, ammesso che lo sapessero, chi faceva questi attentati. Abbiamo però fatto un ragionamento, e non è stata l’unica volta (il senatore Mantica che è qui presente sa che lo facevamo anche in altre direzioni), quello cioè di chiamare delle persone responsabili, avere dei colloqui, e dire: "signori, stiamo attenti, può succedere questo e quest’altro"; è chiaro che non ci aspettavamo che ci dicessero queste cose, ammesso che lo sapessero, naturalmente. Avrebbero però potuto convenire sulle nostre considerazioni. Noi dicevamo che fino a quel momento non era accaduto niente ma se un domani ci fosse "scappato il morto" la faccenda poteva iniziare a diventare grave. Quindi anche dal punto di vista dell’interesse del movimento non era una cosa che poteva essere utile. Era un ragionamento che noi forse facevamo anche in senso utilitaristico, se si vuole, però era anche un ragionamento logico. Quindi speravamo che questi soggetti avessero la possibilità di dire: "Signori, smettetela con queste cose qui perché non serve a nessuno". Questo ci avrebbe lasciati un po’ più tranquilli anche a noi. Invece i fatti continuarono, tant’è vero che Della Savia e un certo Braschi andarono nel bergamasco e rubarono un certo quantitativo di esplosivo da mina, che utilizzarono per diversi attentati, tra gli altri, quello del palazzo di giustizia di Livorno del Natale del ‘68 e quelli di Genova e di Roma (al palazzo di giustizia, al Senato e mi sembra al Ministero della pubblica istruzione). Si è trattato anche di attentati gravi, perché, pur essendo compiuti di notte e non avendo fatto vittime, erano di una potenzialità che cominciava ad essere preoccupante. Questo esplosivo Braschi e Della Savia se lo erano diviso. Sembra anche che una parte era stata sottratta da altri e utilizzata per altri attentati. Uno di questi riuscì, quello contro l’ufficio spagnolo del turismo; un altro contro la caserma Garibaldi non riuscì perché l’ordigno non esplose; un altro ancora non fu portato a termine perché un giovane, che aveva questo involucro in mano, fu sorpreso da una guardia giurata e scappò lasciando l’involucro che conteneva questi candelotti di esplosivo. Questo avveniva a marzo del ’69. Si sa poi che il 25 aprile avvengono quei due attentati alla fiera di Milano e all’ufficio cambi della stazione di Milano. In quella circostanza noi naturalmente accentuammo le indagini. Vorrei premettere che qualche tempo prima, anche sulla base di una informazione, dopo un attentato alla biblioteca ambrosiana facemmo una perquisizione a casa di un certo Francesco Bertoli, in via Lanzoni se non ricordo male, e trovammo dell’esplosivo. Questo tizio fu arrestato, fu poi processato e così via; ma credo che ciò non abbia nulla a che vedere con questi fatti successivi. In quei giorni noi perciò intensificammo le indagini le quali ci portarono al fermo di Paolo Braschi e poi di Faccioli.
PRESIDENTE. Dopo le bombe all’ufficio cambi e alla fiera.
ALLEGRA. Infatti.
PRESIDENTE. Ma il fatto che quelle bombe esplodessero il 25 aprile non vi diceva niente? Cioè, vi sembrava una data in cui degli anarchici avrebbero potuto fare un attentato? Non era più facile pensare che fossero quelli che ritenevano il 25 aprile una data infausta?
ALLEGRA. Le dirò una cosa. Il 25 aprile 1955 io ero a Milano e c’erano delle manifestazioni contro tale ricorrenza da parte della destra; ricordo persino che furono diffusi dei volantini nei quali si considerava il 25 aprile un lutto nazionale. Noi in quella circostanza individuammo alcuni ragazzi ed un signore che diffondevano questo volantino i quali furono processati. Era molto interessante sapere come la pensava la magistratura; noi li denunciammo per vilipendio alle forze di resistenza. Ma, dopo quella volta, il 25 aprile era sempre passato più o meno senza tanti problemi. Forse una volta – ma non ricordo se era il 25 aprile, forse sì - furono messi dei simulacri di bombe nei pressi di certi obiettivi, che non ricordo quali erano, e noi scoprimmo che erano delle latte che contenevano del gesso con dei fili che uscivano fuori con scritto "pericolo di morte"; praticamente era uno scherzo: il 25 aprile del ‘69 tutto si poteva pensare, anche che fossero stati elementi di destra. Però non è che la fiera di Milano, così come "La Rinascente", fossero obiettivi ben visti anche dagli estremisti di sinistra, in particolare anche dagli anarchici. Quindi, siccome avevamo queste prime indicazioni, poi le sviluppammo ed esse portarono alla scoperta che un certo numero di attentati erano stati fatti proprio da Della Savia, Braschi e Faccioli. Noi allora procedemmo nei confronti di costoro e di chi ritenevamo che stesse sopra di loro. Occorre anche chiarire una cosa. Nel rapporto che noi facemmo alla magistratura - che sicuramente la Commissione ha - noi denunciammo per reati commessi realmente Della Savia, Faccioli e Braschi.
PRESIDENTE. Che erano sempre gli anarchici.
ALLEGRA. Sì. Li denunciammo per quei fatti in ordine ai quali si era raggiunta la prova assoluta. Per altri reati li avevamo denunciati come sospetti. Cioè, non avevamo detto che erano loro ma che sospettavamo che fossero loro per dei motivi che specificammo nel rapporto, che posso solo accennare perché non ricordo con precisione: in particolare, perché avevano usato il nitrato di potassio, perché c’era un interruttore all’esterno della borsa e questo corrispondeva ad un ordigno il cui schizzo avevamo trovato in una tasca del Faccioli, perché il Faccioli e il Della Savia in quei giorni si sono trovati a Milano e alcuni giorni prima erano stati a Livorno, dove avevano utilizzato un saldatore elettrico del Braschi in sua assenza e perché pochi giorni prima era stato acquistato un chilo di nitrato di potassio in via Lanzoni. Erano tutti elementi che potevano far supporre che, così come avevano fatto in precedenza, avevano fatto anche questa volta. Premetto anche che l’attentato alla stazione di Milano all’ufficio cambi aveva molta analogia con quello de "La Rinascente" perché, da quanto arguimmo dall’ordigno esploso, questo doveva essere formato da esplosivo al nitrato di potassio e da una bottiglia incendiaria, che poteva essere di benzina, trielina o cose del genere. Aveva molta similitudine con quello de "La Rinascente". Quando riferimmo al magistrato dicemmo che di alcuni reati eravamo sicuri che fossero stati commessi da loro, mentre per alcuni altri sospettavamo che fossero stati loro. Questa vicenda è consacrata in un rapporto che sicuramente molti dei commissari avranno avuto modo di vedere e che credo sia a disposizione della Commissione.
PRESIDENTE. Ormai sono passati trentuno anni dal 1969. Vi è stata una serie di accertamenti giudiziari e ritengo che lei oggi sappia che gli attentati dinamitardi avvenuti nella primavera di quell’anno venissero dall’opposta radicalizzazione. Nel leggere la sentenza relativa alla strage di Bologna colpisce soprattutto il fatto che la ricostruzione di tale strage è su base indiziaria; però nel ricostruire la credibilità degli indizi i giudici bolognesi fecero un lunghissimo elenco di attentati attribuiti in sede giudiziaria sicuramente a gruppi di giovani dell’estrema destra. Lei oggi, a distanza di trentuno anni, sulla vicenda dell’ufficio cambi e della fiera di Milano non opera nessun ripensamento? E’ sempre convinto che siano stati gli anarchici?
ALLEGRA. Non ne sono affatto convinto, come del resto non ne ero convinto neanche allora, anche se non posso escluderlo. Il nostro rapporto è chiaro. Non abbiamo mai affermato che questi attentati sono stati eseguiti da tali persone e per quanto riguarda i fatti di Bologna cui lei accennava io ignoro quali elenchi siano stati fatti. Mi devo riferire alla realtà che conosco, avendo vissuto a Milano. Gli attentati che ci furono a Milano in quel periodo sono quelli. Vi furono anche degli attentati di destra ma avvennero molto prima, negli anni 1964-1965.
MANTICA. In primo luogo mi permetto di ricordare al presidente Pellegrino che a Milano esiste una tradizione anarchica.
PRESIDENTE. Mi sembra che continua ad esistere.
MANTICA. Questa tradizione nasce da una vicenda precisa: l’attentato al Diana del marzo del 1921 fatto per protestare contro la detenzione del Malatesta, che non voglio dire che appartenesse agli anarchici, ma non è stupefacente che ad aprile si registrassero degli attentati anarchici.
Nel ringraziare il dottor Allegra per essere intervenuto questa sera, mi permetto di rivolgergli alcune domande partendo in primo luogo da una premessa che certamente il presidente Pellegrino considererà un mio ricordo personale. Quando ha fatto la domanda sulle infiltrazioni o sui tentativi di infiltrazioni, devo dire che negli anni 1968-1969 la DIGOS di Milano aveva questa capacità di affiancare o di introdurre negli ambienti allora ufficiali, sia di destra che di sinistra, funzionari ai quali nessuno diceva mai niente, ma che alla fine della serata dopo aver parlato con venti o trenta persone della stessa area venivano a conoscenza di molte cose. Era una tecnica consolidata e visto che ho parlato di ricordi personali il mio addetto era l’agente Berolo che mi seguiva più o meno ovunque. Fino al 12 dicembre 1969, vale a dire l’attentato alla Banca dell’agricoltura meglio conosciuto come strage di piazza Fontana, alla DIGOS di Milano risultarono mai bombe o comunque attentati con esplosivi fatti dall’estrema destra milanese?
ALLEGRA. Senatore Mantica, l’attentato al Diana del 1921 fu fatto contro il questore Gasti che si salvò perché quella sera doveva andare ad una cerimonia – mi pare fosse uno spettacolo teatrale – cui all’ultimo momento non andò per ragioni di lavoro. C’è poi un altro attentato del 1928 contro il re durante l’inaugurazione della fiera in piazza Giulio Cesare. In ogni caso i nostri elementi non si "intrufolavano"; ci limitavamo a tenere dei contatti. Voglio chiarirlo ancora una volta perché tante volte si parla di infiltrati come di agenti provocatori. Così non è.
PRESIDENTE. Le mie parole non erano intese in questo senso.
ALLEGRA. Signor Presidente, parlavo in generale, perché mi è capitato di sentire anche queste affermazioni. In effetti una delle armi migliori di un ufficio che funziona è di avere continui rapporti personali, magari non di amicizia stretta ma comunque buoni rapporti di vicinato o comunque di conoscenza, perché da una parola si vengono a sapere tante cose. Certamente non tutto, ma quanto basta talvolta per avviare in una certa direzione determinate indagini. Ritengo pertanto che tale rapporto sia una cosa normale.
MANTICA. Lei mi conferma che fino al 12 dicembre 1969 l’ufficio DIGOS di Milano…
ALLEGRA. Allora, si chiamava ufficio politico.
PRESIDENTE. La interrompo per un attimo, senatore Mantica, perché vorrei precisare quanto avevo precedentemente detto. La sentenza della Corte di assise di Bologna del 16 maggio 1994 enumera diciassette su ventidue attentati terroristici, avvenuti tra l’aprile e il dicembre 1969, di cui afferma essere pacifica l’attribuibilità a Freda e Ventura.
MANTICA. Mi scusi, signor Presidente, ma noi stiamo parlando di Milano.
PRESIDENTE. Infatti, la mia intenzione era soltanto di fare una precisazione rispetto a quanto io avevo detto precedentemente.
MANTICA. Quando il prefetto Mazza nel 1970 scrisse quel famoso rapporto, voi contribuiste? In ogni caso lei ritiene che quel rapporto fosse veritiero e descrivesse la situazione milanese come la conoscevate, o a suo modo di vedere, era carente in qualche parte?
ALLEGRA. Il rapporto Mazza del 1970 è il rapporto Mazza. E’ chiaro che il prefetto Mazza si avvalse di informazioni che furono richieste a noi. Ricordo infatti che allora facemmo un rapporto indicando movimento dopo movimento, di estrema destra e di estrema sinistra, indicando il numero approssimativo di quelli che ne facevano parte, il numero di coloro che nell’ambito di ciascun gruppo consideravamo i più pericolosi. Su diecimila persone vi sono sempre cinquecento disposti a battersi mentre gli altri sono sempre pronti a scappare. Questo era il quadro che davamo. Bisogna inoltre ricordare la situazione esistente all’epoca a Milano. Una situazione veramente invivibile, per non parlare poi delle grandi manifestazioni, dei grandi blocchi stradali e degli scontri di piazza. Il prefetto Mazza ha preso da noi le informazioni sui gruppi di cui lui parla, come del resto anche alcuni orientamenti. Era una persona di grande cultura e perciò in grado si giudicare da sé.
MANTICA. Secondo lei, perché subito dopo la strage di piazza Fontana sia l’ufficio politico della questura di Milano, sia il sostituto procuratore Vittorio Occorsio di Roma (dove vi furono attentati che non ebbero l’effetto che purtroppo ebbero a Milano), indirizzarono le indagini sugli anarchici?
ALLEGRA. Questo non è vero. Quando avvenne il fatto così grave non eravamo in grado di fare una simile supposizione, non era nel nostro costume, nella nostra educazione e nella nostra preparazione professionale. Il fatto che in altri ambienti possano essere stati fatti certi ragionamenti è qualcosa di pericolosissimo, come del resto è pericolosa la teoria del cui prodest perché si rischia di indirizzare le indagini su piste sbagliate facendo anche perdere tempo prezioso. In questi casi ogni ritardo è pregiudizievole per le indagini.
MANTICA. Mi riferivo alle ore subito dopo la strage di piazza Fontana.
ALLEGRA. Non dicemmo con certezza che si trattasse di certi o di altri, anche se ognuno di noi aveva una propria ipotesi. La cosa certa era che fosse necessario cominciare le indagini sugli elementi a disposizione: chiunque poteva aver commesso il fatto, anche un folle. La nostra prima preoccupazione quella sera concerneva le conseguenze che un attentato del genere potesse provocare sull’ordine pubblico a Milano. Questo fu il motivo per cui alla fine si decise di accompagnare, anche coattivamente, in questura il maggior numero possibile di esponenti di gruppi di estrema destra e di estrema sinistra, oltre ad elementi che ritenevamo, per precedenti ragioni, maggiormente sospettabili. Non bisogna dimenticare un aspetto, secondo me, importante: nel momento in cui agiva il gruppo Della Savia, Faccioli, eccetera, che ritengo rispetto ad altri anarchici che frequentavano la stessa zona su una posizione elitaria nei confronti di Feltrinelli perché gli altri venivano poco considerati, tra questi vi era anche Valpreda, il quale costituì un gruppetto di due o tre persone con i quali stampava un giornaletto, il cui titolo era "Terra e libertà" oltre ad un manifesto intestato "L’iconoclasta" per il quale noi li denunciammo per offesa a Capo di uno Stato estero e, cioè, il Papa. L’opuscolo "Terra e libertà" conteneva frasi quali: "si sono verificati per ora questi attentati; la polizia naviga nel buio ma altri ne arriveranno; i borghesi devono avere paura; e finiva con le altre: sangue, bombe ed anarchia". Questo era il linguaggio utilizzato da questo signore. Non indagammo su di lui per il semplice motivo che eravamo a conoscenza del fatto che aveva lasciato Milano. Quindi nel caso si fosse resa necessaria una indagine su di lui ritenemmo lo avrebbe fatto qualcun altro. Se avessimo saputo in quei giorni che era a Milano avremmo anche indagato su di lui non fosse altro per questo precedente; questo però è normale. Che cosa abbiamo fatto noi? Abbiamo accompagnato in questura tante persone innanzitutto evitando in tal modo eventuali fatti che sarebbero potuti succedere in piazza l’indomani. Questo era lo scopo principale della nostra iniziativa. Nel frattempo, pur nella difficoltà dei tanti impegni di quei giorni tremendi, cominciammo a chiedere a queste persone che cosa avessero fatto ed esse, man mano, fornivano alibi: alla nostra domanda su cosa avessero fatto nel pomeriggio costoro davano risposte, a volte credibili, per cui non si rendeva necessario riscontrarne la veridicità; qualche volta, al contrario, si è proceduto ad un loro riscontro. L’unico riscontro che non risultò vero fu quello concernente Pinelli, il quale raccontò di essere uscito di casa per andare al bar dove aveva giocato a carte fino alle 17.00 circa quando se ne era andato. Recatici quindi sul luogo, il gestore del bar e suo figlio ci dissero che aveva preso il caffè con un’altra persona ed era andato via. Abbiamo dovuto procedere ad ulteriori indagini, non ritenendo sufficiente la prima dichiarazione del gestore e di suo figlio i quali il giorno dopo furono interrogati più volte per chiedere conferma ufficiale di quanto raccontato e capire, dunque, il motivo per cui lui non lo avesse detto. Avevamo proceduto alla perquisizione; non ricordo esattamente se avevamo già riscontrato che quel giorno aveva consegnato un assegno ad un certo Sottosanti; non mi ricordo se lo riscontrammo lo stesso giorno o il giorno dopo. Personalmente dirigevo l’ufficio; i colleghi mi riferivano delle indagini, gran parte delle quali svolgevano direttamente. L’interrogatorio avviene il giorno 14. La sera dello stesso giorno la questura di Roma chiede notizie di Valpreda e alla nostra risposta negativa chiede di cercarlo perché nuovamente scomparso da Roma e sospettato, sulla base di informazioni provenienti dal Circolo XXII marzo.
PRESIDENTE. Su cinque due erano poliziotti.
ALLEGRA. Uno solo di loro, un certo Ippolito se non sbaglio, era poliziotto.
PRESIDENTE. Diciamo che si trattava di un circolo infiltrato. Riemerge anche in altre vicende. Personalmente penso che debba esistere. L’infiltrazione è una delle cose da fare; non la considero affatto negativamente. Diverso è il passaggio dall’infiltrazione all’agente provocatorio; diversa ancora è la strumentalizzazione.
ALLEGRA. L’infiltrazione può essere effettivamente pericolosa.
PRESIDENTE. Oggi io darei una medaglia a coloro che si infiltrassero tra quelli che hanno ammazzato D’Antona.
ALLEGRA. Non è necessario procedere ad infiltrazioni; si può arrivare a delle conclusioni anche attraverso delle buone indagini.
MANTICA. La sera del giorno 14 dicembre 1969 fu chiamato da Roma perché non trovavano più Valpreda?
ALLEGRA. Lo cercavano in quanto erano giunte loro delle informazioni: parlavano, innanzitutto, di un deposito di esplosivi, se ricordo bene, fuori Roma; comunque sia Valpreda si era allontanato da Roma. Tra l’altro, eravamo ridotti al lumicino quando ricevemmo la telefonata alle 10 di sera; decidemmo comunque di riunire gli uomini disponibili per cercare a tutti i costi Valpreda. Si formò allora la squadra che cominciò a cercarlo la mattina dopo; non lo trovarono a casa; la nonna, presso la quale si recarono successivamente, disse che quella mattina si doveva recare al Palazzo di Giustizia. Quindi la squadra si recò là, dove lo trovarono. Venne condotto in questura ed avvertita la questura di Roma venne lì inviato, accompagnato da un funzionario.
PRESIDENTE. Nel frattempo con l’ufficio affari riservati del Viminale avevate rapporti e riferivate i vostri risultati?
ALLEGRA. Riferivamo al Ministero tutto quanto succedeva; per le cose di competenza degli affari riservati riferivamo all’ufficio competente.
PRESIDENTE. Quanto di tutto quello che ci ha raccontato faceva parte della competenza di questo ufficio?
ALLEGRA. Questo ufficio non svolgeva indagini. Era nostro compito farle. Noi riferivamo gli effetti, i risultati e per quanto riguarda altri campi non criminosi riferivamo sulle notizie importanti che potevano interessare il centro.
PRESIDENTE. Per esempio?
ALLEGRA. Si veniva a sapere che si costituiva una nuova organizzazione che poteva avere determinati obiettivi. Allora si scriveva affinché il centro fosse in condizione di controllare se analoghe informazioni fossero pervenute da altre parti dello Stato.
MANTICA. Siamo arrivati quindi a capire perché ad un certo punto Pinelli e Valpreda in una platea di "osservati speciali" diventarono…
ALLEGRA. Non si trattava di osservati speciali, o meglio, senatore Mantica, diventarono osservati speciali più tardi. Non è che noi ci aspettassimo che lui mettesse in opera l’operazione che gli avevamo richiesta, tuttavia speravamo che la manifestazione di buona volontà da parte degli elementi più responsabili potesse essere utile. Dopo un po’ di tempo, tuttavia, abbiamo cominciato ad avere qualche sospetto su Pinelli, sia per certe frequentazioni, sia per le sue dichiarazioni dal momento che prima aveva affermato che era impossibile che gli attentati fossero stati condotti da elementi anarchici e altresì che se ne fosse stato informato sarebbe stato comunque il primo a prenderli a calci nel sedere, per poi successivamente impegnarsi al massimo per aiutarli e fargli avere i mezzi necessari per l’assistenza legale. Tra l’altro ci risultava che egli avesse delle frequentazioni all’estero, aveva molti rapporti perché metteva il naso un po’ dappertutto. La mia impressione è che Pinelli fosse una persona che non intendesse in alcun modo essere enucleata o messa da parte, ma volesse essere un protagonista. In tal senso va collocata anche una letteraccia inviatagli dalla signora Vincileoni che era la moglie di Corradini, un personaggio coinvolto nella vicenda di via Madonnina. Allora non esisteva il termine sorvegliato speciale, questa espressione appartiene ad un’altra epoca, Pinelli e Valpreda erano persone che comunque noi tenevamo in considerazione.
MANTICA. A proposito dei rapporti internazionali del Pinelli vi risulta quindi che ricevesse nell’ottobre 1969 dell’esplosivo da Parigi?
ALLEGRA. Avemmo questa informazione, tuttavia purtroppo non potemmo riscontrarla, nel senso che la prova certa non l’abbiamo mai avuta. In ogni caso era notorio che fosse in qualche maniera stato contattato e coinvolto in una faccenda che riguardava la Grecia.
MANTICA. Infatti l’esplosivo che proveniva da Parigi avrebbe dovuto essere destinato alla Grecia?
ALLEGRA. Queste erano le voci che correvano allora, o meglio erano voci estremamente diffuse. In ogni caso ci risultava che avesse rapporti con una signora francese di cui non ricordo il nome e con un certo Jean Pierre De Nanter che era uno di quei personaggi che si erano messi in vista nel famoso maggio francese; mi sembra tra l’altro che si trattasse di un soprannome perché credo che in realtà si chiamasse Deteuil. Dico questo perché successivamente attraverso un identikit riuscimmo anche ad immaginare chi potesse essere, visto che si trattava di un personaggio che ci preoccupava dal momento che ci risultava che venendo in Italia avesse fatto dichiarazioni di un certo tipo, in base alle quali era necessario agire, fare attentati e altre azioni. Come ho già detto facemmo fare un identikit attraverso l’aiuto di una persona che lo aveva conosciuto personalmente e tramite il Ministero spedimmo questo identikit a Parigi; ci risposero che in base a quell’identikit poteva trattarsi di quel soggetto e ci mandarono anche una fotografia.
MANTICA. Mi sembra che lei non partecipò direttamente all’interrogatorio di Pinelli, ma che fosse effettuato dai suoi collaboratori. Le risulta che a Pinelli fosse stata mostrata una cassetta metallica identica a quelle impiegate nel fallito attentato alla Banca Commerciale e nella strage di piazza Fontana?
ALLEGRA. Non mi risulta. Ricordo semplicemente che una cassetta di questo tipo l’abbiamo invece trovata, una juwelparma quando effettuammo la perquisizione dell’abitazione di un certo Enzo Fontana che era uno di quelli che aveva organizzato i GAP di Feltrinelli, mi riferisco a quel soggetto che poi uccise il nostro brigadiere e che a sua volta fu ucciso durante un conflitto a fuoco. Costui aveva in casa una juwelparma con due revolver, due colt special, tanto è vero che il Procuratore della Repubblica manifestò il suo stupore per la somiglianza delle due cassette.
MANTICA. Nella deposizione del processo Calabresi-Lotta continua lei parlò di una repentina visita dell’onorevole Alberto Malagugini in questura pochi minuti dopo che Pinelli era precipitato dalla finestra. Dal verbale della deposizione risulta che lei abbia dichiarato: "E’ a causa di una visita dell’onorevole Malagugini e perché Calabresi era stato invitato a prendere contatto con la magistratura che si sospese quella piccola inchiesta".
ALLEGRA. Chi ha verbalizzato questa dichiarazione ha sbagliato. La magistratura sospese che cosa?
MANTICA. L’inchiesta interna che voi stavate svolgendo sulla morte di Pinelli. In ogni caso la domanda che volevo rivolgere è la seguente: ci può spiegare come mai l’onorevole Malagugini venne a farvi visita in questura in quel frangente e quali rapporti c’erano tra di lui e la questura di Milano? Torno a sottolineare che Pinelli quando arrivò Malagugini era morto da pochi minuti.
ALLEGRA. Le dirò che quella visita era un fatto quasi normale. Può sembrare strano, tuttavia bisogna considerare che l’onorevole Malagugini a quell’epoca seguiva molto da vicino i fenomeni della contestazione.
MANTICA. Per sua passione culturale?
ALLEGRA. No, non vorrei entrare in altri ambiti. L’onorevole Malagugini evidentemente quando succedeva qualcosa, non so se lo facesse a titolo personale o fosse il partito ad incaricarlo, veniva a prendere contatti con noi per avere notizie. Del resto non è stato neanche il solo ad avere contatti con noi, anche se va detto che Malagugini era quello "sempre in giro". In ogni caso anche il senatore Maris è venuto a contattarci per avere notizie.
MANTICA. Si trattava di Gianfranco Maris, appartenente al PCI?
ALLEGRA. Sì, era una persona molto corretta; più di una volta venne da noi per avere informazioni e per manifestare le sue preoccupazioni, i suoi pensieri, le sue idee. Del resto ribadisco che non era il solo. Penso che le risulti, senatore Mantica, che venivano rappresentanti di altre forze politiche. E questo non ci dispiaceva, perché ritengo che il dialogo sia sempre utile sia per chiarire, sia…
MANTICA. L’interrogatorio di Pinelli su che cosa verteva, sul suo alibi?
ALLEGRA. Credo che questo aspetto sia chiaro, ritengo comunque che sia opportuno chiarirlo anche da parte mia. Pinelli doveva essere sottoposto quella sera all’interrogatorio definitivo non più vertente soltanto sull’alibi, o meglio doveva essere interrogato da molti giorni, ma bisogna considerare che c’erano stati i funerali delle vittime ed inoltre il fermo di Valpreda e quindi una serie di iniziative per cui alla fine nessuno aveva avuto il tempo di interrogare il Pinelli. Allora, dal momento che Calabresi aveva trascorso il pomeriggio a casa ed era di turno quella sera dalle ore 20 alle 8 del giorno successivo, si decise che l’interrogatorio finale lo dovesse svolgere lui, giacché il mattino dopo avremmo dovuto trasferire il Pinelli in carcere. Infatti avevamo dichiarato il fermo il 14 mattina e nella mattinata del 16 al massimo dovevamo o rilasciarlo o associarlo al carcere. Il Pinelli doveva essere interrogato sull’alibi, sui documenti che avevamo sequestrato – mi riferisco alla vicenda Sottosanti -. Tuttavia, dal momento che la mattina dopo, cioè il 16 dicembre, dovevo partire per Roma con Cornelio Rolandi - che quel giorno si era presentato e aveva dichiarato di avere il sospetto di aver accompagnato in macchina quello che supponeva essere l’attentatore - volevo poter andare a casa per riposare un po’. Chiesi al dottor Calabresi che prima di procedere all’interrogatorio vero e proprio, svolgesse un piccolo interrogatorio sui rapporti di Pinelli con Valpreda per vedere che cosa sapesse. Io avrei poi portato il verbale con me a Roma per consegnarlo alla magistratura. Purtroppo, però, queste verbalizzazioni che avrebbero dovuto occupare mezz’ora o al massimo quarantacinque minuti di tempo andarono invece per le lunghe per il semplice motivo che il Pinelli prima faceva un’affermazione e poi si correggeva. Faccio presente che allora non utilizzavamo registratori perché si operava ancora a livello artigianale e quindi si rese necessario più volte procedere a verbalizzazioni diverse ed ecco perché le cose andarono per le lunghe ed anche perché io mi recai due volte nell’ufficio a sollecitare…
PRESIDENTE. Quindi era Calabresi ad interrogare Pinelli?
ALLEGRA. Sì.
PRESIDENTE. Le pongo questa domanda perché nella letteratura corrente questo fatto viene addirittura contestato.
ALLEGRA. No, signor Presidente, ci si riferisce al fatto che Calabresi non fosse presente nella stanza quando Pinelli precipitò.
PRESIDENTE. Però fino a quel momento era stato Calabresi ad interrogarlo?
ALLEGRA. Sì certamente.
MANTICA. Lei era andato per ben due volte a sollecitare il dottor Calabresi a chiudere questo interrogatorio?
ALLEGRA. Sì, ed a una di queste due volte si riferisce la famosa frase che pare avrei detto: "C’è altro ferroviere anarchico a Milano?" Domanda a cui mi fu risposto "No, ci sono solo io".
MANTICA. Comunque sull’episodio che riguarda l’onorevole Malagugini c’è anche una versione che viene fatta propria dal dottor D’Ambrosio su questa faccenda in base alla quale l’onorevole Malagugini pare intervenisse presso il questore allo scopo di porre termine a questa indagine o affinché quest’ultima non fosse considerata importante.
ALLEGRA. Le dico subito che, per quanto riguarda il questore, la troppa disponibilità molte volte è una forma di ingenuità: egli non aveva alcun obbligo in quel momento. Viene svegliato di notte, si alza, si veste, viene in questura e dopo cinque minuti riceve i giornalisti. Ha ricevuto non soltanto l’onorevole Malagugini ma anche i giornalisti. Lui doveva dire semplicemente di portare pazienza perché si doveva rendere conto della situazione. Dopo di che eventualmente avrebbe potuto parlare; poteva anche dire loro di aspettare fuori. Poteva quindi limitarsi a dire poche cose, invece ha parlato un po’ di più non rendendosi conto, secondo me, che qualunque cosa si dice quando si ha da fare con certi ambienti è sempre pericoloso: può essere fraintesa e anche fuorviata. Il questore ingenuamente disse quello che gli passava per la mente in quel momento, ma non mi sembra che abbia commesso un grande delitto, perché lui credeva veramente, in quel momento lì, che il Pinelli potesse essersi suicidato per non sopportare questa grossa responsabilità.
MANTICA. Nel covo di Robbiano di Mediglia delle Brigate rosse – è un reperto che abbiamo trovato – vi è una relazione redatta da un brigadiere, suo sottoposto, in base alla quale le Brigate rosse giungono da parte loro alla convinzione che Pinelli si fosse realmente suicidato. Lei è mai stato informato di tutto questo?
ALLEGRA. Questa notizia l’ho conosciuta tramite i giornali, è una faccenda che si è saputa dopo. Quando è stato scoperto il covo di Robbiano di Mediglia, io non ero più a Milano. Nelle indagini da noi svolte nel 1972 scoprimmo in aprile i covi di Feltrinelli e il 2 maggio i covi delle Brigate rosse, praticamente avevamo scoperto via Pelizza da Volpedo, via Boiardo (che era la prigione predisposta per De Carolis), e a Torino in via Ferrante Aporti; rimaneva, per ammissione dello stesso Pisetta, un solo covo nel Lodigiano. Ce lo descrisse come una cascina a forma di ferro di cavallo, con una strada di ghiaia bianca. Non era certo facile trovarla, per cui ci servimmo di un elicottero. Volammo sul Lodigiano, ma di cascine che si somigliavano, a ferro di cavallo e con la strada di ghiaia bianca non ne esisteva certo una sola, quindi non siamo riusciti ad individuare quella giusta. Poi quando quel covo è stato scoperto, abbiamo capito che era proprio quello che noi cercavamo e che non avevamo individuato.
MANTICA. Per l’ufficio politico della questura di Milano, a quei tempi, chi era Giangiacomo Feltrinelli?
ALLEGRA. Era una persona che da tanto tempo ci preoccupava. All’inizio non avevamo la percezione precisa che lui stesse organizzando quei famosi Gruppi di azione partigiani, ma cominciammo a preoccuparci molto di lui da quando venne espulso dalla Bolivia, nel 1967, con la Melega. Nella borghesia milanese, anche quella che non è di sinistra, molte volte le cose le sapevano però facevano finta di non saperle. Quando morì Feltrinelli che fosse morto, a Milano, in tanti lo sapevano la sera stessa; noi lo abbiamo saputo solo la sera del giorno dopo quando, trovato il cadavere, è stato riconosciuto per una foto che gli era stata trovata addosso. Ma la sera prima parecchia gente a Milano sapeva che Feltrinelli era saltato e, nonostante questo, hanno sempre detto che la polizia, i Servizi o non so chi l’avessero portato lì e poi fatto saltare.
FRAGALA’. Lo disse Camilla Cederna.
ALLEGRA. Non soltanto lei. C’è stato anche uno scienziato che ha spiegato che a distanza di 100 metri, con un fucile di precisione, si poteva colpire la capsula. Si tratta di uno scienziato che insegnava all’università.
MANTICA. Quindi Giangiacomo Feltrinelli era sotto osservazione dell’ufficio politico.
ALLEGRA. Devo aggiungere che era sotto osservazione perché sapevamo che aveva questi rapporti, anche all’estero. Qualcuno, non un nostro confidente, ci aveva detto che lui ambiva ad avere un esercito.
PRESIDENTE. Voleva portare Cuba in Sardegna.
ALLEGRA. Era andato anche in Sardegna da Mesina. Alcuni di coloro che abbiamo individuati, e che erano sardi, li aveva reclutati in Germania. Ci avevano chiesto notizie su un revolver che era servito per uccidere il console boliviano di Amburgo e quel revolver fu comprato in un’armeria che c’era in via della Croce Rossa a Milano, questo fu accertato. A questo punto quel personaggio ci impensieriva. Quando successe l’attentato e Rudy Dutsche uscì dall’ospedale fu accolto da Feltrinelli e tenuto sotto scorta, tutelato e protetto da un certo Umberto Rai. Lui aveva una foresteria, da quelle parti, di cui questo Umberto Rai aveva perfino le chiavi. Ci fu un primo tentativo di aggancio del movimento studentesco che non gli riuscì, ma comunque nei primi tempi riuscì ad interessare certi gruppi, quelli che poi quando marciavano facevano con le mani il segno "5 Vietnam 5". Noi chiedemmo che cosa significasse e ci venne chiarito che era un detto che proveniva dal Centro America, cioè che c’erano tanti Vietnam e l’Italia era uno di questi (insieme alla Grecia, alla Spagna, eccetera). Quando ci fu l’aggressione al "Corriere della Sera", dopo l’attentato di Rudy Dutsche, eravamo nel periodo di Pasqua nel 1968, molti dei contestatori erano andati in ferie; Capanna si era perfino tagliato la barba. Erano rimasti i soliti che bazzicavano la zona di Brera, un po’ racimolati così fino ad arrivare a cinquecento e fecero una manifestazione che era diretta, secondo me, al consolato germanico, in via Solferino. Quella sera però il consolato tedesco era protetto da una nostra compagnia, anche se in numero ridotto perché anche noi avevamo mandato il maggior numero di uomini in ferie, approfittando delle giornate festive. Passando per via Solferino arrivarono davanti al "Corriere della Sera", lo circondarono e lo riempirono di sassi e dal giornale fotografarono Feltrinelli lì davanti. La fotografia fu pubblicata anche sui giornali. Questo avvenne nell’aprile del 1968.
PRESIDENTE. Dopo piazza Fontana faceste degli accertamenti su Feltrinelli?
MANTICA. Il dottor Allegra chiese l’autorizzazione a perquisire gli uffici di Feltrinelli, ma gli venne negata dal procuratore Ugo Paolillo.
ALLEGRA. Non so che fine abbia fatto il dottor Paolillo.
MANTICA. E’ ancora vivo, credo che in questo momento sia nella magistratura a Perugia. Ma io vorrei sapere sulla base di quali notizie lei chiese l’autorizzazione a perquisire gli uffici di Feltrinelli dopo l’attentato di piazza Fontana.
ALLEGRA. Su Feltrinelli abbiamo svolto indagini per gli attentati del 25 aprile. La sera del 25 aprile tutto il gruppo mangiò a casa di Feltrinelli compreso Della Savia che si fece anche tagliare i capelli.
PRESIDENTE. Può dirci qualcosa su eventuali rapporti tra Feltrinelli e Fumagalli?
ALLEGRA. Di Fumagalli ci siamo occupati (e forse siamo stati gli unici) a seguito di informazioni che ci hanno messo in allarme. Abbiamo chiesto l'autorizzazione a perquisire, Fumagalli fuggì, ma non risultava che avesse rapporti con Feltrinelli.
PRESIDENTE. Anche il generale Delfino in un suo libro di memorie ne parla.
MANTICA. Il 2 maggio 1972 arrivaste in via Boiardo, nel primo covo delle BR, però quel giorno fuggirono i maggiori responsabili, Curcio, Cagol, Franceschini e Moretti. Si ricorda come andò questa operazione?
ALLEGRA. L'operazione fu una delle migliori che facemmo. Quando qualcuno viene a farci delle confidenze è un bene, però il più delle volte ci arrivano notizie frammentarie e l'importante è approfondirle. Eravamo preoccupati di queste BR perché avevano fatto già dei sequestri: ricordo quello di Bartolomeo Di Mino, che era uno dei suoi senatore Mantica, avvenuto a Cesano Boscone. Quando fu portato all'ospedale, ci rivolgemmo al magistrato di turno che all'inizio non voleva venire. Gli dicemmo che si trattava di una aggressione e che il segretario di quel gruppo era stato ferito. Il magistrato venne in ospedale. Il Di Mino riferì quello che era successo e alla fine il magistrato commentò con la frase: "Ha detto nu cofano e fesserie". Per quanto riguarda via Boiardo, noi conoscevamo Curcio, avevamo fatto una perquisizione nel marzo 1971 in via Cesana e in via Castelfidardo, dove c'era Castellani e dove trovammo le micce per gli incendi a Lainate. Conoscevamo la Cagol, altre due o tre della Pirelli di minore importanza, avevamo il nome di sette-otto persone tra cui Salvoni, la Tuscher, Franco Troiano, Berio, avevamo fatto anche delle perquisizioni andate a vuoto perché stavano in un covo e poi dopo uno o due mesi sparivano, non capivamo se perché non pagavano o per far perdere le tracce. Una delle ultime loro sedi era in via Muratori. Lo venimmo a sapere perché la proprietaria ad un certo punto non fu più pagata e non aveva più traccia della persona che aveva firmato il contratto e venne a dircelo. Mandammo un funzionario, non c'era niente, ma in un angolo c'era della cenere, segno che erano state bruciate delle carte e proprio da un frammento di carta emerse la stella a cinque punte e capimmo che si trattava delle BR. Il contratto era stato firmato da un certo geometra Luigi Russo. Era arrivata notizia che ad un certo elemento che faceva parte del gruppo come esecutore era stato detto di tenersi pronto per un eventuale lavoro e si parlava del sequestro di un esponente della DC. Ci preoccupava molto la possibilità di un sequestro in quel momento. Intensificammo la nostra attività, avevamo tentato di pedinare Semeria attraverso un nostro sottufficiale molto giovane che ritenevamo poco sospettabile di essere riconosciuto come poliziotto. Questo pedinamento non era riuscito. I giorni passavano e incombeva la possibilità di un sequestro. Ci venne allora in mente di utilizzare un suggerimento che avevamo letto su uno dei libri sui Tupamaros sequestrato a Feltrinelli a via Subiaco nel quale si sottolineava l'importanza di utilizzare le donne in campo rivoluzionario perché protette dai pregiudizi borghesi. Facemmo telefonare da una agente della polizia femminile, che non svolgeva attività di polizia giudiziaria, a casa di questa persona. La madre rispose che Giorgio era uscito per lavoro, e quindi capimmo che era presente. Cominciammo di nuovo il pedinamento attraverso una agente della polizia femminile accompagnata da un sottufficiale il quale si accorse che la casa aveva una uscita posteriore dove mise un lucchetto per evitare che venisse utilizzata quella via. La ragazza riconobbe subito la persona, continuò il pedinamento in via Pelizza da Volpedo dove sapevamo esserci una base. Il giorno dopo il pedinamento portò a via Boiardo e qui la ragazza dimostrò che ci sono anche poliziotti di classe. La donna, curiosa, non si accontentò di individuare il covo, guardò l'orologio e lo vide uscire dopo tre minuti vestito diversamente, con una casacca e lo vide entrare in una drogheria. Entrò anche lei nella drogheria e poi tornò in ufficio per riferire. Quei tre minuti sono stati di importanza decisiva. Individuammo l'amministratore dello stabile, l'ingegner Cicala che risultò essere una persona affidabile. Prendemmo contatti con lui, ci disse di una ragazza che abitava al terzo piano che riceveva visite un po’ strane; controllammo se aveva dei precedenti, ma continuavo a chiedermi come si poteva in tre minuti arrivare al terzo piano, cambiarsi d'abito e tornare indietro. Conclusi che probabilmente il covo doveva essere ad un piano più basso. E allora telefono, dicendo: "Aspettatemi, vengo anch’io, dobbiamo parlare un po’". E parlo io con questo Cicala e gli dico: "Senta un po’, mi tolga la curiosità, se questo ha impiegato tre minuti… mi dica lei: a piano terra cosa c’è?". "Ci sono i negozi". Dico: "Va bene: me li elenchi uno per uno". E quello comincia: "Questo, questo, … qui c’è uno studio di geometra". "Come si chiama questo geometra?". "Il geometra Russo". "E chi dava la referenze?". "Il geometra Pirotta". E allora sono quelli lì, via Ludovico Antonio Muratori, non c’è dubbio. Questo è il punto. A quel punto l’ingegnere ci lascia e dice: "State attenti: c’è anche una cantina, vi si accede attraverso una botola, che è coperta ma c’è". Era sabato sera, domenica era 30 aprile e il 1° maggio veniva di lunedì (mi pare). Eravamo con l’acqua alla gola, nel senso che dovevamo agire; però pensavamo che agire nei giorni di festa è sempre poco idoneo: gli uffici sono chiusi, mancano le persone, se si devono sviluppare delle indagini ci si trova in difficoltà. Decidemmo allora di fare le operazioni il 2 maggio, martedì. E il martedì si fecero le operazioni: via Pelizza da Volpedo, via Boiardo (c’era anche un altro posto che non ricordo, a proposito del quale però non avevamo certezze). In via Boiardo troviamo la prigione, esplosivo, armi; sotto la botola c’era la prigione, tutta insonorizzata, con l’apparecchiatura per sentire. Inoltre troviamo un pezzetto di carta dove c’era scritto: "Caro Bramini, sono tanti giorni che la cerco. Lei non ha pagato l’affitto, ma almeno si faccia sentire" (una cosa di questo genere). Allora ci chiediamo: ma chi è questo Bramini? La carta era intestata ad un ragioniere. E mandammo subito un funzionario a rintracciare questo ragioniere che, per combinazione, si trovava in casa. Egli ci dice: "Sì, ho affittato un locale a questo Bramini. Non si è fatto più vedere, non mi ha ancora pagato eccetera". Andiamo a vedere questo locale e, quando l’apriamo, troviamo un arsenale. Non solo un arsenale di armi ed esplosivo…
PRESIDENTE. Dove lo avete trovato questo arsenale?
ALLEGRA. In via Delfico.
BIELLI. Potevano almeno pagare!
MANTICA. Beh, ci hanno raccontato che le BR erano ragazzi che non avevano nemmeno i soldi per mangiare la pizza. Lo stesso giorno di via Boiardo si trova via Delfico.
ALLEGRA. Lì troviamo persino i documenti personali di Feltrinelli.
MANTICA. Perché in via Boiardo voi fermaste Pisetta, che è uno dei primi pentiti, e tre giorni dopo lo rilasciate.
ALLEGRA. Non abbiamo rilasciato solo lui, abbiamo rilasciato anche Bianchi Anna Maria e il Perotti.
MANTICA. Però Pisetta è il primo pentito delle BR.
ALLEGRA. Diciamo che fa delle ammissioni; che sia pentito non lo so, lo sa lui. Pisetta viene arrestato nel covo di via Boiardo. Era addetto ai lavori manuali. Lì noi avevamo lasciato i nostri, come qualche giorno prima avevamo fatto per una casa di Fioroni, dove avevamo fermato parecchie persone: ci lasciavamo dentro degli agenti e quando qualcuno entrava: "Alt, polizia…". La stessa cosa volevamo fare in via Boiardo. Questo ci avrebbe consentito di fermare sia Curcio…
PRESIDENTE. Quindi Pisetta non era un infiltrato, lo diventa dopo.
ALLEGRA. No, ma quale infiltrato? Pisetta era un terrorista come tutti gli altri; solo era una persona non di grande cultura: ma non era un infiltrato. Non si tratta di usarlo o non usarlo, abbiate pazienza, è questione di usarlo nel momento opportuno. Dare dell’infiltrato a uno che ne faceva parte, che aveva fatto degli attentati… perché Pisetta non era la prima volta che li faceva. E’ chiaro che tentiamo di prendere anche gli altri. Purtroppo si verificò un fatto che – adesso non so – forse dipese da un po’ di leggerezza da parte di chi ritenne di indire una conferenza stampa in quel posto, in contrasto con quelle che erano state le nostre decisioni, cioè lasciare degli uomini…
PRESIDENTE. Chi la fece la conferenza stampa?
ALLEGRA. Fu indetta dal questore Allitto. Noi fummo contrariati, però pensavamo che egli intendesse dare lustro alla questura o forse credeva di fare bella figura con la stampa (ci teneva a diventare forse vice capo della Polizia). Sta di fatto che, una volta che i giornalisti erano stati avvertiti, noi non potevamo fare più niente. Però alla fine pensammo: abbiamo raccolto tanto materiale, se lo riferiamo alla magistratura essa farà quello che deve fare; noi siamo qui, si va avanti. Senonché la cosa si bloccò, questa è la realtà.
MANTICA. La magistratura bloccò?
ALLEGRA. Non è che fu molto attiva; tanto è vero che poi Dalla Chiesa denunciò quel magistrato.
BIELLI. Rispetto a questo episodio lei è anche intervenuto successivamente e ha scritto alcune cose. Fra l’altro dice che "vi furono incomprensioni (non sempre limpide) e, tra quelli che avrebbero dovuto provvedere, qualcuno si rese colpevole di lassismo, inazione, sottovalutazione e anche colpevoli omissioni". Più avanti sempre lei dice che "a ciò contribuirono persone consapevoli, e non poche; infine, convinte di poter trarre vantaggi". Rispetto alla versione che ha dato questa sera qui è molto più preciso. Sono cose che ha detto lei in passato. Può spiegare meglio? Perché mi sembra un fatto importante.
ALLEGRA. Ma questo si riferisce a ciò che avvenne dopo il 2 maggio.
BIELLI. Ci spieghi bene.
ALLEGRA. Il materiale che avevamo messo a disposizione della magistratura era tale che avrebbe dovuto allarmare la magistratura non solo di Milano, ma di tutto il paese. Poi la stampa cominciò a dire che non era possibile che noi avessimo scoperto questi covi, perché se era un movimento clandestino la polizia non poteva arrivarci; come se nella vita non esistano casi di errori, di bravure, o momenti di fortuna e di sfortuna: fa parte delle vicende della vita. C’è un’organizzazione clandestina: per quanto forte, per quanto capace, arriva il momento in cui o fa un errore o siamo noi che facciamo qualcosa di buono, oppure un colpo di fortuna. Questi signori, che pure sono degli intellettuali, non le hanno capite queste cose, che sono alla portata di qualsiasi persona di buon senso. E allora hanno cominciato a dire che forse la prigione l’avevamo fatta noi; perché quella volta, quando ci fu la conferenza stampa, un maresciallo, rivolgendosi ai giornalisti diceva: "Non toccate niente, per favore non toccate", come se avesse paura che se qualcuno avesse toccato la prigione sarebbe caduta… Perché, ammesso che l’avessimo fatta noi, non potevamo farla altrettanto bene di come l’avevano fatta loro! Sono cose che potrebbero far ridere, ma erano tragiche.
BIELLI. Rispetto a questo episodio c’è una questione che a me interessa. Lei dice che avete fatto un’opera di monitoraggio precisa della situazione, al punto che otteneste risultati significativi. Si ha quasi l’impressione che, se aveste potuto lavorare con mano libera, andare avanti, sareste arrivati molto oltre il livello cui siete pervenuti. Nelle nostre discussioni tornano sempre alcuni personaggi delle Brigate rosse, in particolare viene fuori sempre il nome di Moretti, che è diventato in questa Commissione un personaggio pieno di significato, e si scopre che quest’ultimo, sarà la casualità o altre situazioni, alla fine doveva essere comunque conosciuto e individuato ma non si riesce mai a farlo arrestate. Con il lavoro che lei stava facendo e con quello che avevate svolto, quando lei parla in qualche modo di inerzia – sembra quasi che parla di colpevoli –, secondo lei si poteva arrivare veramente…
ALLEGRA. Moretti sfuggì il pomeriggio, pochi minuti prima che si facesse questa conferenza stampa. Arrivò in macchina in via Boiardo con la 500 di sua moglie.
BIELLI. Quindi lei dice che anche in quella occasione…
ALLEGRA. Sarebbe stato arrestato.
PRESIDENTE. Ma lo avevate già individuato come un elemento di vertice dell’organizzazione.
ALLEGRA. Sì, già si sapeva che faceva parte di questa organizzazione. Alcuni ancora non si conoscevano, però una gran parte di nomi era già conosciuta. Noi eravamo convinti che dopo aver dato tutto questo materiale alla magistratura non ci si sarebbe fermati lì, ma a "spron battuto" si sarebbe agito per cercare di arrivare fino in fondo, ma siamo stati ad un certo punto estromessi.
BIELLI. Dottor Allegra, la ringrazio per quanto ci ha detto, di cui credo che lei abbia grande conoscenza, ed anche per la chiarezza della sua esposizione. Parlando con altri auditi in ordine a Moretti ci è stato detto che quasi fino al 1978 il ruolo di questo personaggio non è conosciuto; lei oggi ci dice una cosa molto diversa rispetto al senso comune, che Moretti in qualche modo dal 1972 è considerato comunque una mente. In questi anni, sarà il caso o il destino - ma io non credo molto a quest’ultimo -, viene fuori che il Moretti ha potuto fare quanto ha fatto pur essendo stato sotto controllo da parte dei nostri servizi di sicurezza. È la questione su cui ci stiamo arrovellando.
ALLEGRA. Ammesso che non avessimo conosciuto prima il Moretti, se non altro, in quel giorno avevamo trovato la macchina. Una persona del terzo piano ci disse che era scappato qualcuno su quella macchina; abbiamo cercato un ladro di macchine per aprirla e, una volta aperta, abbiamo visto che era intestata a Cochetti Amelia, abitante in via delle Ande n. 15 (proprio di fronte a casa mia) e nel covo abbiamo trovato la fotografia di uno dei suoi figli. Io ho poi interrogato la moglie di Moretti; lei diceva che era stata costretta, sebbene non con la forza, a vivere per un po’ di tempo in una comune in via Paris Bordoni, con un certo Gaio Di Silvestro ed altri. A me questa donna fece anche pena. Però già si sapeva che Moretti era un pezzo importante in quel momento. I capi si ritenevano fossero in quel momento Curcio e Franceschini.
PRESIDENTE. Quindi ha ragione Bielli, perché, se non sbaglio, un anno dopo, con l’infiltrazione di Girotto, che è sicuramente un infiltrato, perché ce lo ha detto…
ALLEGRA. È senz’altro un infiltrato.
PRESIDENTE. …si organizza un blitz in cui cadono Curcio e Franceschini. Noi abbiamo acquisito tutte le fotografie degli incontri di Girotto con Curcio e con Levati, che era il medico che lo metteva in contatto con le Brigate rosse; gli unici incontri che non sono fotografati sono quelli in cui ha partecipato Moretti.
ALLEGRA. Quello che posso dire su questo, perché si tratta di fatti di cui ho sentito parlare e che ho ricostruito ma di cui non mi sono occupato, è che "frate Mitra" penso sia stato – poi ognuno ha le sue idee e opinioni – in Sudamerica proprio per procurarsi la patente da terrorista che poi gli servì per infiltrarsi.
PRESIDENTE. Quindi, è un’infiltrazione che viene da lontano.
ALLEGRA. Secondo me sì. C’è un racconto in un libro scritto da un giornalista, certo Chierici, il quale dice che (Girotto) era andato a comprare del pane e che quanto era tornato avevano già arrestato quell’altro, che lo ha guardato in faccia con uno sguardo molto… forse Chierici non lo aveva nemmeno capito questo qui, non lo so. Comunque, era infiltrato.
PRESIDENTE. Il punto non è se Girotto fosse un infiltrato ma perché Moretti sfugge a voi, sfugge a Girotto…
BIELLI. Sfugge anche a Caselli, il quale dà ai carabinieri delle foto perché controllino e gli dicano che non c’era Moretti.
ALLEGRA. Secondo voi, Moretti avrebbe fatto la spia per cose di questo genere?
PRESIDENTE. Noi non pensiamo questo. E’ venuto in audizione tempo fa un ufficiale di grado elevato dei carabinieri che ha collaborato con Dalla Chiesa in tutte queste operazioni e che ci ha detto che la tecnica che veniva utilizzata era sempre quella di non tagliare tutta la pianta ma di tagliare i rami secchi e di lasciare qualche ramo verde, perché continuasse a svilupparsi, seguendolo nello sviluppo. Mi piace fare sempre le ipotesi più interne all’albero della probabilità, non quelle più estreme; un’ipotesi è che Mario Moretti era un ramo verde che si lasciava crescere ma che poi ogni tanto sfuggiva di mano, finché non uccide Moro. Sono stato criticato per come conduco gli interrogatori, perché spesso dico delle cose, il che significa che arrivo a delle conclusioni: io faccio delle domande per avere le risposte.
BIELLI. Aggiungo un'altra considerazione a quella del Presidente. Dalle documentazioni che abbiamo e da quanto è stato detto mi sembra che lo stesso Curcio nel ‘78 affermi che avevano avuto dei dubbi sul fatto che Moretti potesse essere un, non vorrei usare il termine infiltrato…
ALLEGRA. Non un infiltrato, ma uno che può darsi avesse saputo che poteva essere arrestato e che si era tirato fuori. Questo l’ho letto anch’io. Su questo non posso che esprimere un parere personale: non credo che Moretti fosse così come lo si vuol descrivere. Penso che lui fosse un eversore che probabilmente su molti punti non andava d’accordo con gli altri, perché non era un tipo tanto facile. D’altra parte, dal 1972 a dopo il sequestro di Sossi, che avviene nel ‘74, le Brigate rosse non sono state disturbate per niente da nessuno, diciamo la verità. Quando viene fuori il famoso memoriale di Pisetta.
MANTICA. Perché in quel caso non verbalizzaste?
ALLEGRA. Perché i colloqui con coloro che ci davano delle notizie non li verbalizzavamo; non bisogna verbalizzarli: si scrivono le loro dichiarazioni e si approfondiscono, ma non si verbalizzano le confidenze. Chi lo fece compì un errore. Quelle stesse notizie Pisetta le aveva date all’ufficio politico della questura di Milano; se andate a vedere – non so se ce lo avete – ci devono essere ancora dei fogli di carta scritti a mano dal povero dottor Calabresi ove egli aveva trascritto quanto gli diceva Pisetta. Cosa facciamo con queste dichiarazioni? Accertiamo frase per frase se corrispondono alla verità. Se troviamo riscontri procediamo, in caso contrario possiamo "sbattere" in galera una persona anche se non c’entra niente solo perché lo ha detto Pisetta? Questo è il concetto. Secondo me il confidente non va mai verbalizzato, perché altrimenti abbiamo il pentito.
PRESIDENTE. Pisetta non era un infiltrato, però subito dopo essere stato fermato nel covo di via Boiardo diventa un vostro confidente e vi dà una serie di informazioni.
ALLEGRA. Dopo di che scompare, anche se aveva promesso che avrebbe continuato a farci sapere. Non so se sia stato per paura od altro. Poi viene ripreso a Trento.
BIELLI. Presidente, vorrei fare un’ultima domanda e poi chiedo scusa ma mi dovrò assentare. È la prima volta che andrò via prima del termine della seduta e non lo considero un fatto positivo. Lei, a proposito di questi collaboratori, ha in qualche modo gestito o avuto dei rapporti con Francesco Marra di Quarto Oggiaro.
ALLEGRA. Marra non mi dice niente in questo momento.
PRESIDENTE. Il nome Rocco le dice niente?
ALLEGRA. E’ un nome o un cognome?
PRESIDENTE. No, è un soprannome. Le dice niente come fonte?
ALLEGRA. No, almeno per quanto mi risulta, anche se può avere avuto dei contatti con qualcuno dei nostri.
PRESIDENTE. Quindi, non è a conoscenza del fatto che fosse uno degli informatori del commissario Musocco.
ALLEGRA. Potrebbe anche darsi, ma certamente il commissario Musocco non veniva a dirlo a noi.
MANTICA. Credo che il dottor Allegra abbia sufficientemente illustrato una situazione nell’ambito della quale si svolgevano i rapporti a Milano e di come si comportava l’ufficio politico. Questo lo dico perché le ultime domande le vorrei fare in merito al commissario Luigi Calabresi, una vicenda che ha segnato la storia di Milano. Da quanto ho capito, almeno dalle poche cose che lei ha detto, Luigi Calabresi seguiva in modo particolare le indagini relative all’area della sinistra, su Feltrinelli, lavorando negli anni 1971-1972 allo smantellamento dei gruppi di azione partigiana e alla scoperta delle prime basi brigatiste a Milano. Le chiedo un giudizio personale. Questa sua conoscenza di tale comparto dell’estremismo milanese può essere stata una della ragioni per le quali fu ucciso?
ALLEGRA. E’ necessario chiarire questo punto. Il Calabresi lo hanno fatto diventare dirigente dell’ufficio politico, poi il braccio destro di Allegra, poi il vice dirigente, insomma gli sono state attribuite un po’ tutte le possibili qualifiche. Era uno dei dieci funzionari ai miei ordini presso l’ufficio politico, che in quel momento aveva una dimensione abbastanza grande. Sia per età che per anzianità non era ai primi posti. Era più giovane di Giancristofori, di Zagari e di Pagnozzi. Ognuno di questi funzionari aveva un suo settore. Il Pagnozzi si occupava di contestazioni, il Calabresi dell’estrema sinistra, il Valentini dell’estrema destra, un altro funzionario del settore sindacale e un altro ancora si occupava esclusivamente di questioni pratiche inerenti alla polizia giudiziaria. L’indagine veniva fatta in collaborazione con chi poteva fornire informazioni anche se sul piano materiale compiti specifici, come la stesura dei verbali, erano in capo ad un altro funzionario. Il Calabresi era quindi uno dei tanti e quindi non si può dire che abbia avuto una parte determinante nella scoperta del covo.
MANTICA. Il dottor Calabresi nell’ambito dei suoi collaboratori si interessava particolarmente dell’area della sinistra. In quegli anni, per una serie di eventi, dai Gap di Feltrinelli alla scoperta delle basi brigatiste, l’area della sinistra forniva molto materiale di lavoro e il Calabresi era una persona conosciuta.
ALLEGRA. I nostri funzionari, ognuno nel suo ambito, erano molto conosciuti anche perché il nostro ufficio non era segreto.
PRESIDENTE. Le ragioni dell’omicidio Calabresi…
ALLEGRA. Non hanno niente a che vedere con questi fatti, perché il Calabresi non ha avuto una parte determinante.
PRESIDENTE. Il Calabresi poteva avere acquisito nella sua attività indagativa informazioni o conoscenze sul mondo della sinistra estrema - di cui si doveva interessare - che possono essere state alla base del suo omicidio?
ALLEGRA. Il Calabresi dava il suo contributo all’ufficio. Il suo settore di indagine non era un suo compito esclusivo, anche se si trattava certamente di un settore che lui curava in modo particolare rispetto ad altri. La vicenda di via Subiaco nasce da una confidenza che un privato fa ad un brigadiere del commissariato di via Cinisio. Questa persona viene a sapere dai giornali che noi cercavamo un furgone di cui esisteva una foto. Una sera al bar questa persona incontra il suddetto brigadiere e gli rivela di aver probabilmente visto quel furgone vicino alla propria abitazione. Andarono in questura verso le 11 di sera e quando io tornai verso mezzanotte trovai un verbale. Mi adirai notevolmente perché questo tipo di verbale non si doveva fare. Si trattava di una semplice notizia - che tale doveva rimanere - che poi è risultata veritiera perché il posto indicato corrispondeva effettivamente a via Subiaco.
MANTICA. La mia domanda aveva una valenza più complessiva. Il dottor Calabresi per anni segue i fatti relativi all’estrema sinistra insieme ad altri suoi collaboratori. Da quanto lei mi sta dicendo - ed è logico - usavate giustamente molto le confidenze. Chi è in una certa area viene a conoscenza di notizie che non verbalizza perché rimangono appunto confidenze. Siccome il dottor Calabresi lavorava in quest’area e poteva aver avuto delle sensibilità o aver cominciato ad intuire qualcosa, può essere che questa sua attività in tale settore fosse una delle ragioni per cui fu poi ucciso? Può essere che il dottor Calabresi sia arrivato a scoprire qualcosa di molto importante per cui doveva essere fermato?
ALLEGRA. Se avesse scoperto qualcosa di importante lo avrei saputo, me lo avrebbe detto.
MANTICA. Le ricordo – ed è scritto in un libro – che il Calabresi pochi giorni prima di morire avrebbe confidato alla moglie di essere stato in Friuli o nel Veneto e di aver perlustrato un enorme deposito di armi e di esplosivi.
ALLEGRA. Questa notizia non corrisponde a verità. Non so se abbia sbagliato la moglie o chi ha scritto il libro, ma l’unica cosa che si può dire su di lui è che una volta fu mandato ad interrogare in carcere un tizio che sosteneva di avere delle rivelazioni da fare. Questa persona sosteneva di essere a conoscenza di attentati in Alto Adige e di altre vicende relative a carabinieri o a poliziotti. Siccome si trattava di vicende che territorialmente non erano nostre…
PRESIDENTE. Non ho ben capito il suo riferimento ai carabinieri e ai poliziotti.
ALLEGRA. Si trattava di vicende relative all’Alto Adige.
MANTICA. Lei in questo momento sostiene che le notizie di un certo significato che potevano essere a disposizione del Calabresi venivano riferite a lei. Lei sostanzialmente oggi dice che ciò che sapeva il Calabresi lo sapeva anche lei.
ALLEGRA. Ero certamente a conoscenza delle cose importanti anche se è possibile che quelle più piccole le tenesse per sé.
PRESIDENTE. Oggi ci conferma come la ragione dell’omicidio Calabresi più probabile sia nel valore simbolico che aveva assunto perché veniva considerato uno dei responsabili della morte di Pinelli.
ALLEGRA. In parte era così; sono, però, contrario a fare teoremi. Ecco perché intendo attenermi ad elementi reali. Se devo esprimere un giudizio posso farlo ma deve rimanere tale. Perché avviene il 17 maggio l’omicidio Calabresi? Cosa avviene nel periodo che intercorre dal mese di marzo al 17 maggio? Ritrovamento del covo di Feltrinelli, dei GAP; di tutte le armi nelle cascine e così via; seguono le Brigate rosse; il 2 maggio scopriamo il covo di via Boiardo; qualche giorno dopo andiamo a via Ferrante Aporti a Torino, dove scopriamo il covo di Levate e compagni; il 17 maggio segue l’omicidio Calabresi. Qualcuno dei nostri si è anche impaurito: abbiamo dovuto trasferire qualcuno; altri hanno ritenuto che fosse, comunque, loro dovere restare; indubbiamente, però, un freno alle indagini lo ha dato perché ci si doveva occupare di un’altra cosa in quel momento più pressante.
PRESIDENTE. Ha una sua logica il suo ragionamento; quello che non torna è che non viene rivendicato come tutti gli omicidi simbolici delle BR.
ALLEGRA. Ha spiegato Curcio nell’intervista rilasciata a Scialoja il motivo per cui non è stato rivendicato.
FRAGALA’. Vorrei sapere l’argomentazione che ha usato Curcio.
ALLEGRA. Curcio ha detto che in occasione dell’omicidio Calabresi alla domanda posta, determinati ambienti di sinistra hanno risposto adducendo come motivazione che si trattava di un atto di giustizia proletaria e non si capiva il motivo per rivendicare una cosa di questo genere.
PRESIDENTE. Ciò esclude che lo abbiano fatto le BR.
FRAGALA’. Le BR fecero la controinchiesta. Infatti, in tutto l’ambiente della sinistra tutti sanno che è stata Lotta continua. E’ vero?
ALLEGRA. Sì.
MANTICA. Aldilà della sua considerazione in base alla quale la morte di Calabresi sposta le attività dell’ufficio investigativo su questo omicidio è anche vero che, poco dopo la morte di Calabresi, in realtà l’ufficio politico della questura di Milano, che aveva ottenuto una serie di successi, viene sostanzialmente smantellato.
ALLEGRA. Non viene smantellato: un componente va via timoroso, avendolo comunque deciso tanto tempo prima. Più o meno tutti avevamo timori. In un momento successivo mi fu imposta la scorta che ho rifiutato ritenendo che un qualsiasi appostamento avrebbe fatto fuori me e la scorta. Ho preso certamente qualche precauzione. Prima di uscire di casa la mattina guardavo alla finestra per vedere se c’era qualcuno. Inoltre, un buon appuntato sostava nei pressi della mia casa per notare se c’era qualcosa di strano. Tutti avevamo timore che potesse succedere qualcosa; però, decidemmo che, avendo scelto questo mestiere, avremmo dovuto correre questi rischi e restare. Qualcuno è stato effettivamente sostituito perché andato via; d’altro canto, se aveva paura era inutile e dannoso tenerlo lì. Successivamente a questi fatti, nel mese di settembre sono accusato di reato per la faccenda del cordino. Noi non fummo più interessati alle indagini dopo il rapporto fatto al magistrato cui mandammo tutto il materiale che si preoccupò solamente di farmi una telefonata nella quale mi disse – ed immagino chi glielo ha detto, visto il comitato…–…
MANTICA. Un comitato che aveva sede presso il tribunale di Milano.
ALLEGRA. …che quella fotografia nella quale si vede il lupo, Cattaneo, che tiene fermo il Macchiarini, sequestrato dalle Brigate rosse, è un fotomontaggio. Gli risposi che non sapevo chi potesse avergli detto una tale sciocchezza; gli consigliai però di guardare gli atti dove avrebbe potuto trovare il negativo, di cui non sapeva niente. L’unica cosa che ha avuto il bisogno di dirmi il magistrato è stata questa. Non voglio fare processi a nessuno. Certamente di errori ne facciamo tutti. Alcune cose però producono alcuni risultati.
DOZZO. Chi è il magistrato cui ha inviato tutta la documentazione che ha riferito il collega Bielli?
ALLEGRA. De Vincenzo.
PRESIDENTE. E’ acquisito agli atti della Commissione. Fu oggetto di un’inchiesta e poi prosciolto.
MANCA. Sarò breve considerato che sta parlando da tanto tempo e con tanta dovizia di particolari. Sul carattere nazionale o meno delle Brigate rosse abbiamo idee abbastanza chiare. Ci può dire se agli inizi degli anni ‘70 le Brigate rosse avessero avuto contatti con gruppi terroristici internazionali, per esempio la banda Baader-Meinhof, la RAF e se le Brigate rosse avessero rapporti con i servizi stranieri dell’epoca?
ALLEGRA. A proposito di eventuali rapporti dei servizi segreti non posso darle una risposta certa, nel senso che al riguardo non ho elementi. Posso dire semplicemente che ci risulta che Franceschini si sia recato a Praga. Tuttavia, queste informazioni le abbiamo avute solo dopo; o meglio le ho sapute non perché me ne sia occupato direttamente -giacché avevo altre cose da fare- ma in quanto credo di averle lette da qualche parte. A proposito di Fontana posso dire che abbiamo trovato un documento, o meglio una specie di certificato sanitario, uno di quelli necessari per ottenere un visto; in base a tale documento risulta che Fontana si dovesse recare in Turchia, tanto è vero che c’è stato un momento in cui abbiamo ritenuto che potesse essere coinvolto in una sparatoria, mi pare in una Commissione internazionale, non ricordo l’episodio. Ci risulta, invece che Viel, quel personaggio che faceva parte del gruppo Ventidue ottobre e che arrestammo in via Subiaco si sia recato in Cecoslovacchia. Tuttavia che questi soggetti avessero rapporti con i servizi segreti non sono in grado di dirlo. Ritengo invece che ci sia stato qualche contatto con la Baader Meinhof, in particolare con Andreas Baader e Ulriche Meinhof di cui risulta traccia di un passaggio a Milano, o meglio a Sesto San Giovanni. Ripeto, tracce di questa banda in Italia risultano intorno alla fine del 1969, in ogni caso bisognerebbe controllare gli atti perché in questo momento non ricordo molto bene.
PRESIDENTE. Su questi aspetti forse sappiamo molto più noi, perché abbiamo a riguardo delle documentazioni e un lungo capitolo della relazione della Commissione di inchiesta sulla strage di via Fani.
MANCA. Signor Presidente, mi permetta di rivolgere queste domande al nostro ospite visto che è una persona così informata dei fatti, peraltro sul periodo iniziale e più interessante del fenomeno terroristico…
ALLEGRA. Non so se all’inizio si sia trattato di appoggi o di input, questo non lo posso dire con certezza, del resto, non posso neanche smentirlo. Ritengo tuttavia che ci siano stati dei contatti più che con la banda Baader-Meinhof con la successiva RAF, ma ritengo si sia trattato solo di scambi di informazioni. Invece c’è un episodio che credo non rientri negli interessi della Commissione e forse non so se sia il caso che ne faccia cenno. In ogni caso anni dopo, quando a Padova o a Verona - non ricordo – ci fu l’incontro del Capo del Governo tedesco che allora mi sembra fosse Schmid e l’allora Presidente del Consiglio italiano che mi pare fosse Andreotti o forse Rumor, si verificò una circostanza. Un nostro sottufficiale al valico di Brogeda fermò due macchine, due Alfa Romeo con targa austriaca, ognuna di queste macchine aveva una persona a bordo. Questo sottufficiale si insospettì e chiese che venisse effettuata la perquisizione, il finanziare presente era d’accordo, ma l’ufficiale di dogana ritenne che non fosse il caso. Tuttavia dal momento che questo nostro sottufficiale, che fu veramente in gamba, non era convinto di questa decisione, approfittando della normativa che prevede la possibilità di respingere i mezzi che non corrispondono alle regole vigenti in Italia, dal momento che una di queste macchine aveva la marmitta che non rientrava in tali regole non fece entrare queste due macchine. I due personaggi tentarono di fare ingresso in Italia attraverso altri valichi; però bisogna considerare che quando un soggetto viene respinto ad un valico ne viene data comunicazione agli altri valichi e quindi alla fine la polizia svizzera si insospettì di questi strani movimenti e fermò i due personaggi e al momento della perquisizione questi soggetti tirarono fuori la pistola. Questi due austriaci furono trovati in possesso dei soldi derivanti dal sequestro Palmers, un industriale del legname austriaco; costoro non viaggiavano da soli, guidavano le macchine perché evidentemente si dovevano recare ad un appuntamento. In ogni caso in una delle due auto furono trovate le impronte di un’appartenente della RAF di cui non ricordo il nome, allora molto nota alla polizia. Il che fece sospettare che questi soggetti si fossero dati appuntamento – naturalmente si tratta solo di un’ipotesi - per recarsi poi a Verona o a Padova per effettuare qualche attentato contro il Primo ministro tedesco o quello italiano.
MANCA. La Commissione ad un certo punto dei suoi lavori si è trovata dinanzi ad una serie di fatti che l’hanno portata a concludere o a ritenere che soprattutto al tempo del rapimento Moro, gli organi preposti a condurre le indagini su questi aspetti specifici non fossero molto preparati. Tra l’altro in tal senso sono state rilasciate dichiarazioni agghiaccianti da parte degli auditi ed è stata fatta anche una specie di graduatoria dell’impreparazione. E’ vero che stasera ci stiamo riferendo ad un periodo diverso, tuttavia è altrettanto vero che questo periodo dovrebbe essere caratterizzato da una maggiore impreparazione visto che si era agli inizi del fenomeno. Questa sera ho invece avuto l’impressione che soprattutto da parte delle forze di polizia non ci fosse quel dilettantismo e quella superficialità che sono emerse successivamente. Detto questo a suo avviso, nonostante gli insuccessi in cui sono incorse, come mai le Brigate rosse non sono state fermate fin dall’inizio, mi riferisco soprattutto all’area milanese dove mi sembra che ci fossero degli apparati a livello di polizia abbastanza attivi? Allargando il campo della mia domanda, vorrei anche sapere se a questa preparazione, vitalità, effervescenza degli apparati di polizia, a suo avviso corrispondesse analogo atteggiamento da parte della magistratura? Infatti, gli organi interessati alle vicende terroristiche sono le forze di polizia investigativa e la magistratura e noi abbiamo sentito dire da alcuni magistrati che si erano sentiti impreparati dal momento che si era ancora all’inizio della lotta contro il terrorismo. Qualcuno addirittura ha spostato l’accusa di impreparazione sulle forze di polizia; da parte nostra, invece, attraverso la verifica di atti e mediante successive audizioni abbiamo potuto verificare che alle forze di polizia per quanto gli competeva non erano attribuibili responsabilità di questo genere. Ebbene, qual è il suo giudizio riguardo a questi aspetti?
ALLEGRA. Debbo dire che il fatto che si sia accennato alla questione dell’impreparazione mi sorprende.
MANCA. A chi si riferisce?
ALLEGRA. Intendo riferirmi al fatto che si sia accennato a questa impreparazione.
MANCA. A quale di questi due soggetti si riferisce? Alla polizia o alla magistratura?
ALLEGRA. Parlo della magistratura. Si riferisce a quella di Milano?
MANCA. Il magistrato che ci ha parlato di tale questione non è della procura di Milano .
ALLEGRA. E’ indubbio che non sia stato fatto tutto quello che in realtà si sarebbe dovuto fare. In ogni caso, ad un certo punto è come se fossimo stati tagliati fuori dal momento che nessuno ci chiese più niente. Ciro De Vincenzo si è avvalso della collaborazione di un ufficiale dei carabinieri giovane, per carità validissimo, ma che ha dovuto imparare tutto. In ogni caso dovrei verificare gli atti che ha prodotto. Siamo arrivati nel 1974, al sequestro di Sossi e sono passati due anni, hanno potuto ricostituirsi. Poi, non vogliamo fare una causa alla magistratura come tale, ma bisogna dire che c’è stato anche questo: una disinformazione colpevole, stupida e talvolta non so se anche per mala fede o per ignoranza. Tutto ciò ha avuto la sua influenza su certi settori anche della stessa magistratura. Non so se lei ricorderà questa notizia, ma si diceva che noi avevamo preso Feltrinelli, l’avevamo trasportato fino a sotto il traliccio per farlo saltare in aria, cose di questo genere, quando tutti sapevano, la sera stessa, e la signora Schöntal era stata rintracciata, in un salotto milanese e l’avevano chiamata d’urgenza, quindi sapevano tutti cosa era accaduto. Non è possibile che certa stampa, anche di sinistra, non sapesse certe cose, dovevano saperle anche più di noi che facevamo fatica ad avere certe informazioni, dovevamo raccattarle. Pertanto anche la stasi che si è verificata, secondo me, è stata gravissima dal punto di vista degli effetti che ha prodotto. Ci si è arrivati quando questi sono diventati più aggressivi e più forti e non si era nelle condizioni per fronteggiarli.
MANCA. Secondo lei quali sono le ragioni per cui, in sostanza, si è verificata questa stasi?
ALLEGRA. Lo sto dicendo. Basta leggere tutto ciò che si scriveva in quei giorni nei nostri confronti e nei confronti delle Brigate rosse: "i messaggi che fanno sono farneticanti", ma quelli non farneticavano affatto. Quello che scrivevano lo pensavano veramente.
PRESIDENTE. Su questo sono pienamente d’accordo.
ALLEGRA. Questa è stata l’atmosfera che si è creata. Ad un certo punto si aveva quasi paura. Per fortuna io sono andato via nel gennaio del 1973, ma mi metto nei panni dei miei colleghi perché fare indagini in certi campi significava essere accusati di tutto. E allora, chi glielo faceva fare?
FRAGALA’. Dottor Allegra, la ringrazio per la sua disponibilità e mi aggancio all’ultima risposta da lei fornita alla domanda del senatore Manca. In pratica, lei sostiene che in quel periodo in Italia vi era una vera e propria contro-informazione che ostacolava le indagini. Faccio un esempio. Il quotidiano "Il Giorno" di Milano, di proprietà pubblica, il 23 febbraio del 1975 sentii il dovere di dare ai suoi lettori la chiave di lettura di un fenomeno che stava diventando sempre più inquietante, cioè le Brigate rosse; per farlo impegnò una delle sue firme più prestigiose, quella di Giorgio Bocca. L’articolo, a pagina 5, aveva un titolo che non lasciava spazio ad equivoci "L’eterna favola delle Brigate rosse". "A me queste Brigate rosse" – scriveva Giorgio Bocca - "fanno un curioso effetto di favola per bambini scemi o insonnoliti e quando i magistrati, gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti ricominciano a narrarla mi viene come un ondata di tenerezza perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla". Purtroppo, come lei sa e come hanno saputo tante vittime, quella delle Brigate rosse non era una favola come voleva sostenere Bocca. La mia prima domanda è la seguente: secondo lei, vi era una vera e propria contro-informazione, in quel periodo, che utilizzava firme "prestigiose" come quella di Giorgio Bocca per garantire l’impunità alle Brigate rosse e per impedire che si indagasse a sinistra?
ALLEGRA. Che ci sia stato un fenomeno di grandi proporzioni di disinformazione su questo non ci piove. Gli storici cercheranno le cause e vedranno i relativi motivi, se si tratta di iniziativa di singole persone che si danno l’aria di essere grandi uomini e poi sono di modesta entità. Un giornalista di cui non faccio il nome una volta mi intervistò e mi definì – eravamo all’inizio della contestazione – "un funzionario che viene dal profondo sud", detto con un senso di razzismo. Tra le altre cose mi veniva da ridere perché il profondo sud da dove io provengo ha cinquemila anni di storia, mentre la parte da dove proveniva questo signore era ancora all’età delle palafitte. Comunque non c’è dubbio su questo. Ricordo un giornalista importante, che ha diretto anche un giornale cattolico, che si avvicina a Cossiga, allora ministro dell’interno, parlandogli di "fascisti" dopo un fatto a firma delle Brigate rosse. Il Ministro replicò che non si trattava di fascisti, ma di Brigate rosse. Si doveva influenzare il Ministro a dare una certa risposta. Pertanto, non so se si sia trattato di un fatto di snobismo, o se sia stato fatto perché qualcuno aveva interesse che si facesse questo tipo d’informazione. Vorrei che anche i giovani poliziotti d’oggi lo sapessero e non si facessero illusioni: per certi ambienti noi siamo una razza inferiore perché siamo meridionali, si tratta di un fenomeno inconscio ma che esiste. Certo, questo ha giustificato l’inerzia o provocato in molti il disincanto: in fin dei conti chi ce lo fa fare?
PRESIDENTE. Il problema non è che noi stiamo facendo un’indagine ma riguarda il fatto che queste cose non sono avvenute soltanto nel 1975, sono avvenute anche successivamente, dopo che il Capo dello Stato, onorevole Scalfaro, pose il problema se oltre alle responsabilità accertate, nel caso Moro ci fossero altre intelligenze. Questa Commissione da allora, bene o male, nei suoi limiti, sta cercando di dare risposta a questo interrogativo: ci possono essere state altre intelligenze? Personalmente nell’estate del 1999 avevo distribuito un documento istruttorio per dire quello che potevamo fare in quest’ultimo anno; allora Giorgio Bocca ha scritto un articolo di fuoco nei confronti della Commissione affermando che era inutile cercare altre intelligenze, perché tutto il mondo sapeva che nella direzione strategica delle Brigate rosse c’erano degli intellettuali, che però non contavano niente perché alla fine le decisioni le prendevano i capi militari, Moretti, Azzolini e Bonisoli e che noi facevamo un inutile lavoro per cercare di sapere chi fossero questi intellettuali che facevano parte della direzione strategica delle Brigate rosse. Il problema però è che non si muove solo Giorgio Bocca ma contemporaneamente, in una settimana, i giornali italiani furono pieni di articoli di questo genere: si muove Ernesto Galli della Loggia, si muove Lino Jannuzzi, si muove Teodori, parte una grancassa. Noi avevamo e abbiamo tuttora il problema di sapere (per lo meno gli ambiti dove possono esserci state queste altre intelligenze pensiamo di averli capiti), ma si è fatto un fuoco di sbarramento per dire di lasciare stare, di chiudere, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Poi è venuta una persona come Piperno e ci ha detto che aveva capito quanto fossero infiltrate nella società italiana le Brigate rosse quando ha potuto riflettere sul proprietario della casa alto borghese in cui nell’agosto del 1978 incontrò l’uccisore di Moro, cioè Moretti. E’ venuto Maccari e ci ha detto che noi saremmo stupiti nel sapere quante persone che oggi possono avere un posto importante nell’informazione, nell’università e nel sindacato in quegli anni facevano a gara per avere a cena i capi guerriglieri. Era l’Italia di quel periodo. Scusi onorevole Fragalà, ma volevo attualizzare questa sua polemica poiché quanto avvenuto con l’articolo che lei ha citato è avvenuto tale e quale nell’estate del 1999 e, devo dire, da postazioni di fuoco contrapposte; si è sparato su questa Commissione perché ci ponevamo quel problema.
ALLEGRA. Voglio citare anche un giornalista, che conosceva l'ambiente e che in un certo senso all'inizio si mise su quella strada, ma che ad un certo punto ha avuto il coraggio di fare autocritica ricevendo l'attacco di tutti. Quando ancora ero a Milano, quando le BR si erano trasformate da collettivo politico metropolitano in Nuova sinistra, pubblicavano un giornale che così si chiamava dove non facevano mistero delle loro intenzioni e dove dicevano che era necessario armarsi. Eravamo preoccupati di questo giornale, lo dissi al capo della polizia Vicari, facendo scandalo perché mi ero permesso di dire che stavamo andando incontro alla guerriglia. Vi fu allora una manifestazione sindacale che partiva dai Bastioni fino a piazza Duomo. Ero di servizio in testa al corteo e con me c'era quel giornalista assieme ad altri. Mi chiese se avevo letto quel giornale. Risposi di sì e che ero convinto che prima o poi qualcosa sarebbe accaduto. Dopo lui per un po’ si orientò come gli altri e successivamente fece autocritica e io lo chiamai per ricordargli quell'incontro durante il corteo. Voglio dare atto a quel giornalista di aver avuto il coraggio di fare autocritica. Anzi ad un certo punto mi ha dato ragione perché scrisse proprio: "Allegra aveva ragione". Così non hanno fatto altri che continuano a dire certe cose dimostrando di non aver capito niente. Certe persone a volte si sopravvalutano, in realtà scrivono di certe cose senza aver capito nulla. Ci sono fenomeni che non si possono riconoscere in pochi giorni...
PRESIDENTE. Anche l'articolo di Bocca che è stato citato è del 1975. Poi Bocca è diventato uno dei più realistici rispetto alla ricostruzione dell'organizzazione delle BR. Lo ha fatto attraverso le interviste a Moretti e a Franceschini, è stato uno dei primi a ricostruire con chiarezza la storia delle BR in anni successivi al 1975, quando alcuni furono catturati e poteva cominciare a intervistarli.
FRAGALA'. Però il tema che stasera ha posto il dottor Allegra è un altro. Non ci troviamo di fronte a persone come a Bocca o altri che avevano gli occhi foderati di prosciutto e che poi hanno fatto autocritica. Il tema che ha posto il dottore Allegra è che quando saltò in aria Feltrinelli tutta la Milano bene lo sapeva e c'era una campagna dolosa di controinformazione per impedire le indagini a sinistra o per ostacolarle. È un fatto diverso. Quando Bocca, Pansa o Camilla Cederna scrivevano in quel modo….
ALLEGRA. Anche Ghirelli.
FRAGALA'. …sapevano bene quello che era successo a Calabresi, a Feltrinelli, ad altri, solo che scrivevano in quel modo perché la loro militanza politica li portava a fare questa opera di controinformazione per impedire o ostacolare le indagini a sinistra. Il dottore Allegra ha posto questo tema e mi pare molto rilevante. Quello che sostiene lei è cosa diversa, di cui prendiamo atto.
PRESIDENTE. Non è diversa, è l'inerzia di quel fenomeno, perchè il problema è capire chi l'ha fatta franca ancora oggi.
FRAGALA'. Vorrei chiedere alcune cose specifiche. Può confermare che dopo l'attentato di piazza Fontana le pervenne la notizia da una fonte del SID che indicava Feltrinelli come il personaggio che stava dietro gli attentati?
ALLEGRA. No, il SID non aveva rapporti diretti con noi.
FRAGALA'. Non il SID, una fonte del SID. Non ebbe alcuna indicazione che Feltrinelli era dietro gli attentati dopo piazza Fontana?
ALLEGRA. Era un sospetto anche nostro all'inizio, ma poi non è emerso niente, anzi risultò che si trovava all'estero perché era uscito dall'Italia poco prima.
FRAGALA'. Perché secondo lei Feltrinelli lasciò Milano il 5 dicembre 1969, dopo essere stato interrogato dal giudice su precedenti attentati?
ALLEGRA. Perché non lo so, forse aveva attività all'estero non solo di tipo editoriale.
FRAGALA'. Attività guerrigliere.
ALLEGRA. In Germania e in Francia. So che rientrò in Italia e si presentò a Moscatelli dicendo che era pronto, pensando che ci sarebbe stato un colpo di Stato e che sarebbe stato necessario combattere, ma quello non lo prese sul serio. Lo dico solo perché l'ho letto e l'ho sentito da qualche parte, ma non è una faccenda di cui sono in grado di dare una certa informazione.
FRAGALA'. Su Pinellli, il capitano dei carabinieri Lo Grano, nel processo Calabresi-Lotta continua ha dichiarato che poco prima che Pinelli precipitasse dalla finestra sul tavolo della stanza fu posta una cassetta jewelparma identica a quelle usate negli attentati. Lei ne è al corrente?
ALLEGRA. Non lo ricordo affatto, non vorrei smentirla, però mi giunge nuova.
FRAGALA'. Ci può parlare dei rapporti intrattenuti con la fonte "Anna Bolena", ovvero Enrico Rovelli?
ALLEGRA. Per quanto riguarda i rapporti confidenziali, Enrico Rovelli era da noi sospettato, insieme con Tito Pulsinelli, di aver fatto, o appoggiato o agevolato l'attentato contro l'ufficio spagnolo del turismo, quello contro la caserma Garibaldi e quello non riuscito contro la chiesa Delle Grazie di Milano. Questo ci venne detto da Ivo Della Savia il 1° maggio 1969. Della Savia, dalle indagini svolte a Milano, risultò essere l'autore, insieme al fratello, dell'attentato al palazzo di giustizia a Roma. Noi chiedemmo alla questura di Roma di procedere e di portarlo a Milano. Della Savia è uno che parla; ha parlato persino degli attentati avvenuti il 25 aprile 1963 contro il comune di Milano. Quando, il 25 dell’anno scorso (o di due anni addietro), ci fu un attentato di "Azione diretta" contro il Comune di Milano, andai in Questura per ricordare che anche il 25 aprile 1963 era stato commesso un attentato contro lo stesso Comune e, precisamente, da Ivo Della Savia. Mi risulta che, dato il lungo tempo trascorso, le ricerche dei precedenti non hanno avuto un esito favorevole. Io ricordo bene l’avvenimento perché ero in ospedale per un incidente stradale patito mentre facevo la scorta all’onorevole Fanfani. Per quanto riguarda il Pulsinelli, in base a una perizia calligrafica risultava che potesse essere l’autore dell’attentato all’ufficio spagnolo del turismo, perché vi era una rivendicazione scritta a penna con una "t" finale. E Ivo Della Savia in questo senso ci aveva indicato. Decidemmo allora di chiedere un’autorizzazione alla perquisizione di questo Rovelli, perché sapevamo che il Pulsinelli viveva con lui. Era il 1° maggio e purtroppo abbiamo dovuto aspettare le 6 per trovare un magistrato disponibile addetto a questa autorizzazione. Quindi andammo a casa di Rovelli, fuori Milano, e trovammo che se l’era squagliata con il Pulsinelli. Furono rintracciati dopo qualche mese a Riccione, dove mi pare che avessero messo una specie di edicola. Per Pulsinelli vi era un ordine di cattura, per il Rovelli avevamo chiesto il fermo, perché volevamo interrogarlo su quanto ci aveva detto Della Savia. Pertanto, la sera stessa partiamo per Riccione. Per portare Rovelli a Milano bisognava farlo interrogare dal procuratore della Repubblica del posto, che ci doveva autorizzare; altrimenti non potevamo portarlo a Milano. Quindi dovemmo rimandare al giorno dopo. Il Pulsinelli non disse niente; per lui vi era un ordine di cattura, venne ammanettato e i Carabinieri lo spedirono direttamente da Riccione a San Vittore; compiendo un atto doveroso, in un certo senso, ma forse avrebbero potuto aspettare noi, avremmo potuto portarlo noi. Niente di male, ma questo ha determinato un danno. Rovelli aveva una attività commerciale, aveva una famiglia e dei figli a cui era molto legato. Cominciò a dire: "Mah, io… se voi mi aiutate… non ho fatto niente di male. Vi posso aiutare, eccetera". "Va bene. Cosa puoi fare per noi?". "Se mi mettete a contatto con Pulsinelli… può darsi che egli sappia qualcosa che io non so: perché quando il giornale ha pubblicato la notizia che vi erano stati degli attentati sui treni, lui ha detto: ‘Ma allora quelli facevano sul serio’».
PRESIDENTE. Pulsinelli era l’altro anarchico.
ALLEGRA. Sì. "Allora facevano sul serio", aveva detto Pulsinelli, per cui Rovelli pensava che sapesse qualcosa. Lui bazzicava l’ex Hotel Commercio di Milano. Ho detto: "Va bene, adesso vediamo". Intanto, siccome Pulsinelli lo avevano portato a San Vittore, questo contatto non si poteva fare. Comunque Rovelli disse che avrebbe collaborato. Qualcosa ci disse: ci parlò di qualche personaggio che lui riteneva importante; ci fece anche l’identikit di Jean Pierre da Nanterre, che lui conosceva. Non è che fu…, però aveva dei rapporti internazionali. C’è un particolare, che risale al periodo in cui ero ancora a Milano: un giorno, al circolo Ponte La Ghisolfa, gli diedero l’incarico di fare un passaporto falso (credo che sia anche grafico o qualcosa del genere); gli diedero una fotografia. Lui ci avvertì e ci disse: "Mi hanno chiesto questo".
PRESIDENTE. Era la fotografia di Bertoli?
ALLEGRA. Sì. Ci chiedemmo chi fosse questo tizio del passaporto falso. Allora non vi erano gli strumenti di oggi: facemmo una riproduzione fotografica e la inviammo alle questure del Nord. Comunque facemmo delle indagini.
PRESIDENTE. Un appunto su questo è stato ritrovato nell’archivio-deposito di via Appia. E’ stato casualmente scoperto anni fa.
ALLEGRA. Ci fu risposto (credo dalla questura di Venezia): "Questo si chiama Bertoli, è un anarchico eccetera". Poi "Anna Bolena" ci disse: "No, non si sono fatti più vivi, mi è rimasta la fotografia". Ci disse che il Bertoli si sarebbe servito di un documento fornitogli da altra persona. Quindi la vicenda finì. Poi, uno o due anni dopo (adesso non ricordo)…
PRESIDENTE. Nel maggio 1973.
ALLEGRA. Io purtroppo mi trovavo sul posto: scoppiò questa bomba.
PRESIDENTE. Si doveva scoprire un busto dedicato al commissario Calabresi.
ALLEGRA. Sì, era l’anniversario della sua uccisione. Quando è scoppiata la bomba, pochi istanti prima, mi stavo incontrando con gli ufficiali dei carabinieri, il comandante dei vigili urbani e così via: ci stringevamo la mano per accomiatarci. Arrivò il collega Zagari, mi prese per un braccio e mi disse: "Andiamo su a salutare Palumbo". In quel momento scoppiò la bomba: praticamente portandomi via mi ha salvato la vita.
FRAGALA’. "Anna Bolena" quali informazioni vi diede su piazza Fontana?
ALLEGRA. Su piazza Fontana non diede informazioni. Su piazza Fontana espose anche i suoi dubbi, ma non fu in grado di dare informazioni. Solo – ma lo aveva detto prima – ha citato un personaggio che secondo lui poteva essere importante. Ma siccome non è stato coinvolto in niente, è inutile che faccia il suo nome. Anche se personalmente ritengo che poteva essere una persona importante.
PRESIDENTE. Chi era?
ALLEGRA. No, non si è potuto indagare a fondo su di lui perché… forse D’Ambrosio ha fatto quancosa, non so.
PRESIDENTE. Prima lei ha parlato di una diversa fonte informativa che vi aveva segnalato la possibilità che l’autore della strage di piazza Fontana potesse essere un ferroviere anarchico.
ALLEGRA. Non di piazza Fontana, dell’attentato sui treni.
PRESIDENTE. Quindi vi domandavate se Pinelli fosse l’unico ferroviere anarchico?
ALLEGRA. Glielo chiesi io stesso a lui, ma non è che ci tenessimo tanto. Però, si fa la domanda e si vede come risponde.
FRAGALA’. Nella informativa che viene da Enrico Rovelli, cioè "Anna Bolena", c’è scritto che: "Avviandosi alla conclusione delle sue confidenze, l’Augusta ha detto"…
ALLEGRA. Sì, me lo ricordo, sebbene in modo vago. L’Augusta era un’edicolante di fede anarchica.
FRAGALA’. Si chiamava Augusta Farvo.
ALLEGRA. Aveva un’edicola in via Passaggio degli Osii; aveva contatti un po’ con tutti e gli fece queste confidenze. Mi sembra che c’entrasse il Sottosanti…
FRAGALA. C’entrava "il Nino" e il Pinelli.
ALLEGRA. Il Sottosanti era quello che il pomeriggio del 12 dicembre andò a trovare Pinelli e riscosse l’assegno di 15.000 lire; Pinelli non ha mai voluto dire che era insieme con lui. Questo è il motivo per cui il fermo di quest’ultimo si protrasse: aveva dato un alibi che era stato smontato.
MANTICA. Nino Sottosanti era di destra?
ALLEGRA. Lui frequentava gli ambienti anarchici e diceva che suo padre era un martire fascista. Quindi lo chiamavano "Nino il fascista". A me sembrava una persona che "se ne fregava" della destra e della sinistra e pensava ai fatti suoi. Era stato anche nella Legione straniera…
MANTICA. Allora era di moda.
ALLEGRA. Ci andavano i delinquenti.
FRAGALA’. Dottor Allegra, le leggo la nota così lei può avere un ricordo preciso: "Avviandosi alla conclusione delle sue confidenze, l’Augusta Farvo ha detto che il Nino è giunto a Milano il 2 dicembre e che ripartì il 13, il giorno dopo l’attentato alla Banca dell’Agricoltura. Assicura di essere a conoscenza che il Nino, dopo il pranzo a casa di Pinelli, tentò in tutti i modi di convincere quest’ultimo ad accompagnarlo in centro ma che Pinelli rifiutò. L’Augusta avrebbe saputo questo dalla moglie di Pinelli. Questo categorico rifiuto del Pinelli a portarsi in centro è interpretato dalla stessa come una conferma che il Pinelli stesso era a conoscenza di quello che doveva accadere e che preferiva rimanere al bar per l’alibi. L’Augusta ha detto anche di aver saputo dalla madre di Pulsinelli che durante la notte dall’11 al 12 dicembre il Nino non ha toccato letto; ha passeggiato per la stanza tutta la notte, fumando molte sigarette. Il Nino dal giorno 2 alla partenza da Milano era stato ospite a casa del Pulsinelli". Lei ricorda questa informativa?
ALLEGRA. Adesso la ricordo.
MANTICA. Nino il fascista sembra il sosia di Valpreda.
ALLEGRA. Che poi sosia non è; hanno cercato di tirarlo in ballo come sosia a suo tempo questi signori dell’informazione di cui si parlava prima.
MIGNONE. Dottor Allegra, vorrei tornare un po’ al ‘74, quando il dottor D’Amato diviene dirigente dei servizi di polizia stradale, ferroviaria, postale e di frontiera e lei era a Ponte Chiasso. Proprio lì, al confine con la Svizzera, fu arrestato Valerio Morucci e Libero Maisano. Ci sa dire se quell’arresto fu fatto dalla polizia svizzera?
ALLEGRA. Sì, la stazione di Chiasso è in territorio Svizzero.
MIGNONE. Ma in quell’occasione furono anche sequestrate alcune agende?
ALLEGRA. Un fucile, o forse due, che era stato rubato…
MIGNONE. Quelle agende furono sviluppate? Cioè in esse c’erano i nomi un po’ di tutti.
ALLEGRA. La polizia svizzera non è che sia stata molto disponibile in quella circostanza, non so perché. Esisteva una convenzione, che mi sembra si chiamasse "convenzione sui controlli abbinati". Noi facevamo controlli per quelli che venivano in Italia o andavano dall’Italia. Anche se era compito nostro arrestarli, la convenzione del Gottardo prevede che quando questi soggetti hanno commesso un reato in territorio svizzero in tal caso interviene l’autorità svizzera. Cioè loro hanno detto che se questi avevano delle armi rubate in Svizzera avevano commesso un reato contro di loro e che quindi veniva meno la competenza della polizia di frontiera. Non ci hanno nemmeno detto niente. Poi abbiamo saputo confidenzialmente, perché ero diventato amico del capo della polizia cantonale, il dottor Lepri, che li espulsero attraverso l’Austria.
MIGNONE. Sarebbe molto importante sapere se erano indicati alcuni nomi che poi sono diventati un po’ le componenti fondamentali.
ALLEGRA. Io mi ricordo Libero Maesano e Valerio Morucci.
MIGNONE. Le risulta però se nelle loro agende c’erano nomi di personaggi importanti; le risulta se nell’agenda di Maesano c’era anche il nome di Germano Maccari?
ALLEGRA. Noi queste agende non le abbiamo viste, deve chiederle agli svizzeri. Furono loro ad arrestarli.
MIGNONE. E ci sa dire qualcosa sul traffico di armi tra la Svizzera e l’Italia attraverso Ponte Chiasso?
ALLEGRA. Quello è un romanzo, di realtà non c’è niente. C’era gente che andava in Svizzera e si comprava un fucile dell’esercito svizzero, che veniva modificato e diveniva un fucile da caccia grossa; una volta portato in Italia poteva ritornare…
PRESIDENTE. Un fucile da caccia in zona Alpi?
ALLEGRA. No, da caccia grossa. Una volta, dalle parti di Domodossola fu preso un personaggio con un fucile di questo genere, il quale diceva trattarsi di un fucile normale e che in Svizzera gli era stato venduto come fucile da caccia; quindi poteva essere temporaneamente importato. In quell’occasione un mio collega funzionario sostenne che secondo lui era un fucile da guerra. Però, che andassero in Svizzera o in Liechtenstein a comprare delle armi corte, pistole o cose del genere, senza grandi formalità è certamente una cosa che è avvenuta e di cui si hanno elementi di riscontro.
PRESIDENTE. Morucci ci ha raccontato di altri acquisti di armi che lui ha fatto in Svizzera.
ALLEGRA. Avevano degli appoggi formidabili, ad esempio, un certo professor Galli e tale Jairo Daghino; però che ci fosse un traffico d’armi in grande stile fra il Ticino e l’Italia non mi sembra.
MIGNONE. Lei, dottor Allegra, tra i primi brigatisti ha citato la Tuscher, cioè la nipote della Abbé Pierre, che più tardi è diventata un’esponente dell’Hyperion, la scuola di lingue di Parigi. Ci sa dire qualche cosa in più sui primi brigatisti che poi sono emigrati a Parigi?
ALLEGRA. Quando sorsero le Brigate rosse, lei sa che la prima riunione la fecero a Chiavari alla "Stella Maris", un albergo del luogo, poi, una volta organizzati, si chiamarono "collettivo politico metropolitano". Da quelle notizie che siamo riusciti a percepire di questo gruppo inizialmente faceva parte Franco Troiano, Corrado Simioni, Salvoni Innocente, la Tuscher Françoise, Schiavi Elvira ed un certo Ravizza Garibaldi. All’inizio erano così, però tra di loro sorse qualcosa. Fecero una rapina sotto Natale in un supermercato che fruttò anche parecchi soldi. Questo gruppo di primi fondatori a quanto pare – è una notizia da verificare – si appropriarono di questi soldi e se ne andarono in Liguria e furono in qualche maniera anche sospettati di aver sfruttato questa situazione. Quelli, invece, pare che non intendessero andare d’accordo con questi perché non erano in linea sul problema della clandestinità. A quell’epoca le Brigate rosse non erano infatti eccessivamente clandestine.
PRESIDENTE. Il gruppo si chiamava "superclan".
ALLEGRA. Questo gruppo, che poi perdemmo di vista perché molti si recarono all’estero e vennero fuori sotto l’Hyperion, però operò ancora in Italia, anche se non abbiamo mai potuto accertarlo. Sta di fatto che la Françoise Tuscher, la Schiavi Elvira e il Salvoni Innocente e quindi anche gli altri, furono protagonisti di questo episodio. La Schiavi Elvira sedusse una nostra guardia di pubblica sicurezza che faceva servizio fisso presso la sede del partito comunista. In poche parole lo convinse a seguirlo a casa sua. Questo ragazzo le credette seguendola all’idroscalo. Ad un certo punto la ragazza, dopo avergli chiesto di aspettarla, sostenendo che doveva controllare che i suoi parenti fossero partiti per le ferie e quindi che l’abitazione fosse libera, si allontanò assicurandogli che sarebbe presto tornata. Il ragazzo rimase lì, fu aggredito da quattro persone che lo spogliarono nudo, lo legarono con le sue stesse manette e gli sottrassero la pistola. All’epoca del fatto mi trovavo in ferie e appresi la notizia dai giornali. Telefonai a Milano e dissi che bisognava stare attenti perché si trattava di un delitto politico. Il dirigente della Squadra Mobile di allora mi disse che ero fissato e che vedevo in ogni cosa la politica. Risposi che la delinquenza comune non avrebbe mai legato un agente di polizia con le mani dietro la schiena. Al massimo gli avrebbe sottratto la pistola dopo averlo pestato. Sta di fatto che il comandante della celere di cui faceva parte questa guardia gli concesse tre mesi di tempo per girare liberamente a Milano insieme ad un collega e per cercare di rintracciare questa ragazza. Alla fine dopo tanti giri finirono per incontrarla insieme a questa Françoise Tuscher, la bloccarono e le sequestrarono la borsetta. Nella borsetta fu trovato un materiale interessantissimo: ipotesi di rapine, le rapine fatte, come si costruisce una base clandestina, la stufa sempre accesa, il documento che quando si esce deve essere sempre portato nella borsetta, se non si fa in tempo lo si deve mangiare e altre questioni del genere. Queste donne furono arrestate fino a quando il fatto non fu chiarito. Quando la Schiavi Elvira fu rilasciata andò via da Milano per poi credo finire a Firenze in una scuola.
MIGNONE. Perché non avete effettuato accertamenti su Hyperion?
ALLEGRA. A parte il fatto che sarebbe stato necessario andare a Parigi – non era un nostro compito –, il vero problema è che ne siamo venuti a conoscenza soltanto successivamente.
PRESIDENTE. Il giudice Calogero però andò a Parigi.
ALLEGRA. In che anno?
PRESIDENTE. Parliamo del 7 aprile 1979.
ALLEGRA. Quindi, lei si riferisce ad un fatto accaduto sette anni dopo.
PRESIDENTE. La soffiata ai giornali però partì dal Viminale. Lei quindi era sempre alle dipendenze di D’Amato quando lui passò alla polizia di frontiera.
ALLEGRA. In realtà, io dipendevo dal Ministero dell’interno anche se certamente come settore di servizio ero alle sue dipendenze.
PRESIDENTE. Agli atti della Commissione abbiamo una lettera di D’Amato al ministro Rognoni in cui lui afferma di aver sempre diretto l’ufficio affari riservati finché nel 1974, per una polemica nata con il servizio segreto militare, fu ritenuto opportuno il suo spostamento a dirigere la polizia di frontiera. Vorrei che fosse chiaro – scrisse al Ministro – che, su richiesta del Ministro dell’interno dell’epoca e del Capo della polizia (un fatto confermato da tutti i ministri e da tutti i capi della polizia succedutisi nel tempo), non ho mai smesso di svolgere compiti di polizia politica.
ALLEGRA. Il fatto che non abbia mai smesso non significa che abbia lavorato per noi. Probabilmente svolgeva un incarico per il Ministero.
PRESIDENTE. E poi aggiunge che se la sua attività si dovesse inquadrare in una luce fosca poteva forse di volta in volta sembrare agente di una parte o dell’altra, essere stato vicino ai terroristi palestinesi o all’eversione di destra? Poteva svolgere questa attività da solo? Doveva certamente avere delle persone fidate.
ALLEGRA. Signor Presidente, conosco bene i colleghi che lavoravano allora presso il servizio affari riservati. Mi riferisco a Milioni, Carlino, Russomanno, Pierantoni e Bonagura che credo sia ancora in servizio. Si trattava di persone di buona cultura e a mio giudizio correttissime. Sono a conoscenza del fatto che il Carlino ha scritto anche una lettera ad un giornale di Roma. Considerati i rapporti che avevo con loro e il fatto che metterei la mano sul fuoco sulla correttezza di questi funzionari, se avessero avuto sentore di qualcosa, qualche notizia mi sarebbe pure arrivata.
PRESIDENTE. Il vero problema è se determinate funzioni anziché essere imputate al luogo istituzionale deputato a ciò, non venissero svolti da luoghi diversi.
ALLEGRA. Le specialità non avevano niente a che fare con questa faccenda. Anche l’attività di frontiera poteva essere connessa con un’attività politica. Ricordo che una sera, durante il sequestro Moro, fermammo alla frontiera di Brogeda cinque persone, quattro donne tedesche e un italiano.
PRESIDENTE. Secondo lei è una millanteria quella che D’Amato scrive al Ministro dell’interno?
ALLEGRA. Non credo che sia una millanteria. Ritengo anzi che lui potesse essere spesso sentito per la sua esperienza e per i suggerimenti che era in grado di dare. Poi, non sono in grado di dire se ciò avvenisse e in quale maniera, ma non sono neanche in grado di escluderlo. Indubbiamente era considerato una persona di grande intelligenza.
PRESIDENTE. Lei ha detto che metterebbe la mano sul fuoco per tutti i funzionari che ha nominato. Sul fatto che il dottor Russomanno passa al giornalista Isman l’interrogatorio di Peci, che idea si è fatto?
ALLEGRA. Lui stesso mi ha raccontato la vicenda e quindi ho il dovere di credergli.
PRESIDENTE. Ovviamente il nostro dovere non è il credere, ma di indagare.
ALLEGRA. All’epoca dell’interrogatorio di Peci lui si trovava al SISDE. Siccome in quell’interrogatorio vi erano una o più pagine in cui spiegava le ragioni morali che lo avevano spinto a collaborare con lo Stato, lui ritenne che se quell’argomento di una o due pagine avesse avuto una diffusione, avrebbe potuto trattenere – dal momento che in quel momento a Roma c’erano più di trenta ragazzi pronti a passare al terrorismo…
PRESIDENTE. E’ una giustificazione da lui data anche nel corso del processo. Comunque le Brigate rosse furono avvertite della possibilità del pentitismo. Ricordo infatti che il fratello di Peci ci rimise anche la pelle.
ALLEGRA. Comunque, sta di fatto che – me lo ha raccontato personalmente – assente quando Isman ha avuto il verbale, aveva raccomandato ad un suo collaboratore di darne solo due pagine nel caso si fosse presentato un giornalista; venne dato invece tutto il verbale. Mi è stato detto anche che si è meravigliato di non aver ricevuto un aiuto da chi era al corrente di questa decisione.
MIGNONE. Ha il ricordo di un colloquio con Grassini, D’Amato ed altri funzionari all’Hotel Metropole di Roma nell’aprile del 1980? In tal caso, di che cosa si parlò e chi ebbe a convocare quell’incontro?
ALLEGRA. Ricordo vagamente l’incontro; secondo me, convocato dal Capo della polizia. Lo scopo era quello di avere il parere di chi si era occupato di questi problemi in merito alla situazione. Se non erro, era un periodo nel quale erano stati uccisi anche dei magistrati del Ministero di grazia e giustizia.
MIGNONE. Non sa dirci quindi se furono prese delle decisioni operative?
ALLEGRA. E’ stata più che altro una riunione informativa.
MIGNONE. Non si ricorda se si parlò di terrorismo, dei rapporti internazionali, visto che qualcuno parlava della pista cecoslovacca?
ALLEGRA. Si parlò senz’altro di terrorismo ma non di questa pista.
MIGNONE. Le ricordo che nel 1998 scrisse un articolo in cui parlava della pista cecoslovacca.
ALLEGRA. La ripresi da "Panorama", pubblicata giorni prima, come del resto citato.
FRAGALA’. Perché non avete interrogato Augusta Farbo che sapeva parecchie cose sulla strage di piazza Fontana?
ALLEGRA. Se l’avessimo interrogata non ci avrebbe detto niente. Era una donna molto particolare.
FRAGALA’. Era disposta a fare da confidente?
ALLEGRA. No; parlava solamente con uno della sua fede politica. Non faceva confidenze alla polizia ma ad un suo collega, ad un suo compagno di stesso orientamento politico.
FRAGALA’. Quando fu scoperto il cadavere dell’editore Giangiacomo Feltrinelli fu poi ufficialmente riconosciuto il 16 marzo 1972 dal confronto delle impronte digitali custodite al carcere di S. Vittore. Vuole dire alla Commissione per quali fatti Feltrinelli era stato detenuto a S. Vittore nel ‘48?
ALLEGRA. Quando faceva parte della Federazione giovanile comunista fu sorpreso una sera insieme con altri ad affiggere manifesti in luoghi non consentiti. In base all’articolo 24 del Testo unico della legge sulla Pubblica Sicurezza, era possibile l’arresto per contravvenzione.
FRAGALA’. Questo di cui lei parla fu il primo arresto. Venne poi arrestato una seconda volta nel ’48 perché aveva nascosto delle armi.
ALLEGRA. Ricordo solamente che quella sera Calabresi, attraverso una fotografia, aveva sospettato che potesse trattarsi di Feltrinelli. Andò con l’ufficiale dei carabinieri all’obitorio per una conferma e tornarono con questa convinzione. Quindi, si decise di cercare dei precedenti perché sembrava che Feltrinelli in passato ne avesse uno. Se non l’avessimo avuto noi il carcere avrebbe certamente posseduto le sue impronte digitali. La prima cosa che si fece la mattina successiva fu proprio questa. Riuscimmo però a fare il riconoscimento ufficiale alle ore 24.00 della sera; convocammo la signora Schöntal ed un cugino di Feltrinelli; un certo Carpe De Resmini il quale in primo luogo negò, sperando di fare controinformazione, che fosse lui. Allora Schöntal, molto decisa, disse senza alcun dubbio che si trattava proprio di lui. Si arrivò quindi al riconoscimento.
FRAGALA’. Ebbe modo di vedere il passaporto originale di Feltrinelli, rinvenuto il 2 maggio 1972 nel covo di via Delfico dove le Brigate rosse avevano immagazzinato armi e materiali proveniente dai GAP di Feltrinelli?
ALLEGRA. Sì.
FRAGALA’. Ci sa dire quali visti erano stampigliati su quel passaporto?
ALLEGRA. E’ agli atti. Tra l’altro, non aveva un solo passaporto ma cinque, con vari nomi (vedi Scotti e così via) caratterizzati da un particolare: tutti i documenti falsi che loro stessi fabbricavano, anche per gli adepti, riportavano l’esatta data di nascita della persona in possesso del documento. E’ importante poiché, in caso di controllo di polizia, non ci si sbagliava sulla data di nascita.
FRAGALA’. Conosce i motivi per cui dopo l’omicidio Calabresi il brigadiere dell’ufficio politico Vito Panessa rassegnò le dimissioni dalla polizia?
ALLEGRA. Panessa è stato un altro di quelli considerati addirittura l’alter ego di Calabresi per il male che si poteva dire di entrambi. Ad un certo punto "i colpevolisti" di Calabresi si chiedevano perché lo avessero fatto. I più danneggiati eravamo noi: Calabresi è un agente della CIA che ha fatto un corso in America, la scorta al generale Walker, che ha presentato questo generale non so a quale Capo di Stato; costui era cioè diventato un personaggio importante. Panessa era considerato quasi come lui tanto è vero che un giornalista ha scritto che quando mi sono recato a piazza Armerina non potevo più interrogarlo, in base alla nuova legge, entrata in vigore, che vietava l’interrogatorio formale da parte della polizia. Però fui seguito dal maresciallo Panessa con il compito di controllarmi.
FRAGALA’. Come ha spiegato il depistaggio attraverso il quale fu attribuito l’omicidio Calabresi al neofascista Nardi fermato alla fine del settembre ’72 al Valico di Ponte Chiasso? Chi organizzò questo depistaggio?
ALLEGRA. Non so dire chi l’abbia organizzato. Questa indagine era caduta sin dall’inizio. Fui io che telefonai a Riccardelli per invitarlo a venire a Como, e alla fine addivenimmo alla convinzione che non c’entrasse con questa vicenda. Tuttavia dal momento che era rimasto il dubbio si decise di continuare l’indagine. Poi di questo non si parlò più, successivamente andai via, e dopo qualche anno sentii dire la notizia in base alla quale Calabresi stava conducendo delle indagini sul traffico di armi e che aveva effettuato continui viaggi a Lugano. Mi risulta, invece, che a Lugano non sia mai stato e francamente non so come sia nata questa notizia. Non bisogna tuttavia dimenticare che c’era un Comitato che "bazzicava" gli ambienti del Palazzo di Giustizia e che veniva definito il "Comitato dei giornalisti democratici" all’interno del quale ci saranno state anche brave persone, ma ce ne erano delle altre che possibilmente hanno "ciurlato". Vorrei anche chiarire un’altra faccenda; c’è stato infatti un momento in cui il procuratore della Repubblica, mi riferisco al dottor Micale, propose due magistrati, il Riccardelli e un certo Sinagra, al Consiglio superiore della magistratura - si tratta comunque di notizie che ho appreso attraverso i giornali – mossa contro la quale mi risulta ci sia stata una grossa reazione contraria, tanto è vero che è stato detto che il Riccardelli era stato molto impegnato dalle indagini sulla morte del dottor Calabresi.
FRAGALA’. La relazione di servizio ritrovata a Robbiano di Mediglia, nel covo delle Brigate rosse, era stata redatta dal brigadiere Panessa?
ALLEGRA. Non credo. Non so come quella relazione sia andata a finire in quel luogo, infatti, non mi risulta che le relazioni interne normalmente vadano in giro. Al riguardo ho letto qualche notizia, ma suppongo che non si trattasse di una relazione, ma delle dichiarazioni rilasciate da questo brigadiere, ma ripeto, non credo che si trattasse di una vera e propria relazione.
FRAGALA’. Nel verbale di sequestro dei carabinieri si parla di "relazione di servizio".
ALLEGRA. Mi scusi, onorevole Fragalà, vorrei capire meglio. Con questa relazione mi si sarebbe dovuto riferire che cosa, che il Pinelli era coinvolto?
FRAGALA’. Sì, perché secondo le Brigate rosse Pinelli era coinvolto nella strage di piazza Fontana.
ALLEGRA. Mi sembra di aver capito che praticamente questi soggetti avrebbero redatto questa relazione in cui si sosteneva che le Brigate rosse avessero accertato questi fatti; tuttavia, questa relazione non era rivolta a me, ma all’ufficio dal momento che probabilmente avevo già lasciato il mio incarico. Ebbene, questo potrebbe essere possibile.
PRESIDENTE. La domanda, onorevole Fragalà quale è? Vuole sapere se c’era una relazione di servizio del brigadiere, o se si trattava di una relazione delle Brigate rosse?
FRAGALA’. Si trattava di una relazione di servizio del brigadiere Panessa…
ALLEGRA. …Il quale dice di aver saputo che le Brigate rosse sostenevano che Pinelli… Ebbene, questo è possibile.
PRESIDENTE. Dove si trovava questa relazione?
FRAGALA’. Nel covo delle Brigate rosse di Robbiano di Mediglia.
PRESIDENTE. Come facevano le Brigate rosse ad avere queste notizie?
ALLEGRA. Mi chiedo anch’io come fosse possibile e poi credo che Panessa non c’entrasse niente. Personalmente ho sentito parlare di Fainelli, visto che costui frequentava l’ambiente di via Brera; tra l’altro si trattava di un ottimo sottufficiale, probabilmente credo che si sia svolta una discussione su questi argomenti e che ne sia stato riferito il contenuto alle Brigate rosse con cui non credo che Fainelli fosse in contatto diretto.
FRAGALA’. Ha saputo i motivi per cui la Procura di Milano nel 1997 ha provveduto ad effettuare delle intercettazioni del suo telefono ed anche intercettazioni ambientali nei suoi confronti?
ALLEGRA. Non mi risulta, né conosco i motivi.
FRAGALA’. Lei è stato sentito nel processo attualmente in corso a Milano sulla strage di piazza Fontana?
ALLEGRA. No.
PRESIDENTE. Prima di concludere questa audizione volevo avere una considerazione conclusiva da parte del dottor Allegra. Se ho ben capito il senso complessivo della sua audizione, mi sembra che lei sia tuttora convinto che le piste che furono originariamente imboccate per quanto riguarda la strage di piazza Fontana, Valpreda ed in genere sull’ambiente anarchico, fossero comunque valide. A distanza di tempo ha rivisitato questa convinzione?
ALLEGRA. In assoluto tutto è relativo. In ogni caso non intendo sostenere di avere la totale certezza che le piste imboccate fossero quelle giuste, tuttavia posso dire che dalle inchieste svolte allora risultarono degli elementi che comunque rimangono validi e che fanno pensare.
PRESIDENTE. Che valutazione ha fatto di tutti gli elementi che emersero successivamente, dopo le indagini di Juliano e del giudice Stiz?
ALLEGRA. Abbiamo sempre ritenuto - ne è una dimostrazione l’indagine condotta a Roma nei confronti di Merlino- che non fosse opportuno chiudere la porta su certi ambienti di destra, anzi la porta è stata aperta. E’ possibile che questi personaggi avessero già l’intenzione di effettuare degli attentati ed è possibile anche che fossero stati guidati in un certo senso; infatti, perché creare una nuova organizzazione quando ci sono dei soggetti disposti ad effettuare determinati atti di terrorismo? Pertanto che ci potessero essere alle spalle di questi soggetti anche degli ispiratori non l’abbiamo mai messo in dubbio, né del resto possiamo affermarlo con certezza. Bisognerà vedere come si concluderà questo nuovo processo, mi auguro bene; tuttavia fino a questo momento materialmente non si sa ancora chi abbia fatto questi attentati; si sa da chi sono stati organizzati, ma non chi materialmente li abbia portati termine.
PRESIDENTE. Mi fa piacere che lei abbia detto queste cose perché abbiamo avuto modo di sentire il senatore a vita Taviani che è stato a lungo Ministro dell’interno e della difesa. Il senatore Taviani ha dichiarato che non è possibile capire niente della strage di piazza Fontana se non si parte dal presupposto che la bomba sarebbe dovuta scoppiare quando la banca era chiusa. In tal senso il senatore Taviani ha inoltre aggiunto che la strage di piazza Fontana fu organizzata da persone e che non avrebbe mai potuto pensare che delle persone serie potessero aver voluto uccidere deliberatamente sedici italiani, né che un ipotetico colonnello dei carabinieri avesse potuto organizzare questa strage. Ha quindi sostenuto che quella bomba non dovesse fare vittime come del resto non fecero vittime le bombe che contemporaneamente scoppiarono a Roma. Il punto è questo: questi anarchici erano soltanto tali? Ci spiega inoltre qualcosa in riferimento a Bertoli?
FRAGALA’. …o erano sedicenti anarchici ed in realtà fascisti come sostengono Bocca e Camilla Cederna?
PRESIDENTE. Ho semplicemente ripetuto quanto dichiarato dal senatore Taviani.
ALLEGRA. Quando ci siamo occupati del Bertoli ci è stato descritto dalle questure competenti come un anarchico, che poi fosse qualcos’altro non lo so dire.
FRAGALA’. Ha tentato il suicidio per affermare di essere anarchico.
ALLEGRA. Ribadisco che non so se abbia avuto altri contatti o abbia subito influenze diverse, posso dire solo quello che mi consta. In secondo luogo, bisogna considerare che vi era una seconda bomba che noi non facemmo esplodere per nostro piacere, ma in seguito a degli ordini che provenivano dal Ministero della difesa. Si erano verificati, infatti, dei precedenti gravissimi, a Verona erano morti due agenti di sicurezza per aver spostato una valigia che conteneva un ordigno. In tal senso le disposizioni vigenti prevedevano che quando si trovava un ordigno di cui era impossibile trovare il meccanismo dell’innesco fosse necessario farlo esplodere con una piccola carica. Successivamente fu rinvenuta a Sesto San Giovanni una bottiglia con una matita dentro…
PRESIDENTE. Secondo lei neanche questo fu un errore?
ALLEGRA. Signor Presidente, a quelli che sostengono il contrario vorrei domandare come in realtà si sarebbe potuto fare. Il maresciallo Bizzarri, che non era un artificiere, sostenne che fosse necessario mettere una miccia detonante: …ma se quella bomba è saltata con venti grammi di tritolo! Inoltre, se anche fosse stato possibile aprire quella bomba - tra l’altro rischiando la pelle di tanta gente -, che cosa si sarebbe ottenuto di più di quello che si è trovato successivamente?
PRESIDENTE. E il cordino?
ALLEGRA. Il cordino è un’altra faccenda. Poi, dove e perché si è perso, non lo so.
PRESIDENTE. Non è a lei che devo spiegare che cosa si è pensato, quale danno alle indagini si è ritenuto sia stato causato per il fatto che la bomba sia stata fatta esplodere.
ALLEGRA. Chi lo dice questo?
PRESIDENTE. Mi sentirei in imbarazzo, è una vicenda giudiziaria.
ALLEGRA. Dico questo: anche il magistrato che afferma che si poteva non farla esplodere ignora in primo luogo che le disposizioni vigenti in quel momento erano tassative; poi, le cognizioni e le concezioni degli esperti; infine, i fatti avvenuti precedentemente per cui non potevamo rischiare di far morire venti-trenta persone perché poi, una volta fatta esplodere, si trovano tutti i frammenti che sono necessari.
FRAGALA’. Aggiungo che voi allora, nel giro di ventiquattro ore, siete riusciti a ricostruire chi aveva venduto le cassette, chi era il fabbricante, e addirittura che una cassetta era stata venduta vicino alla casa di Pinelli. Quindi, avete ricostruito tutto, l’indagine non ebbe nessun ostacolo.
PRESIDENTE. Lei conosceva il commissario Juliano?
ALLEGRA. No.
PRESIDENTE. Peccato che è morto altrimenti un confronto con lei sarebbe stato interessante, avremmo percepito una dinamica interna all’amministrazione della polizia italiana.
ALLEGRA. Non so quanto sarebbe stato interessante…
FRAGALA’. Dottor Allegra, lei non lo sa, ma nel 1997, quando Russomanno la venne a trovare, le fu collocata una microspia con telecamera nel forno del suo appartamento.
PRESIDENTE. Questo da che cosa risulta?
FRAGALA’. Dagli atti pubblici depositati nel processo in corso a Milano, non sono atti della Commissione, sono del processo attualmente in corso. Tale microspia era stata messa per registrare tutto il vostro colloquio. Però, nel momento in cui avete parlato di Calabresi e della sua morte, la registrazione, incredibilmente, non è venuta bene, non si capisce niente.
PRESIDENTE. Per soddisfare la mia curiosità, che cosa dice la parte registrata?
FRAGALA’. Banalità.
PRESIDENTE. E’ stata utilizzata dall’accusa?
FRAGALA’. L’hanno dovuta depositare.
PRESIDENTE. Non dovevano fare niente, lei lo sa meglio di me. Se l’hanno depositata, evidentemente nella logica dell’accusa ha un qualche significato. Quindi, il pubblico ministero non le ha valutate banalità.
FRAGALA’. Obiettivamente sono banalità, poi il pubblico ministero può considerare quello che vuole.
PRESIDENTE. Sarà la Corte d’assise a stabilirlo.
FRAGALA’. Nella parte in cui lei e Russomanno parlate della morte di Calabresi la registrazione è venuta male e non si capisce niente, solo quella parte.
ALLEGRA. Sarei curioso di sapere di quale forno lei parla.
PRESIDENTE. Questo che senso avrebbe avuto visto che, contemporaneamente, la Corte d’assise di Milano, sempre per iniziativa della procura di Milano, aveva condannato Sofri una volta, due volte, tre volte, eccetera?
FRAGALA’. Questa è un’altra faccenda, signor Presidente. Nel 1997 Russomanno va a trovare il dottor Allegra.
PRESIDENTE. Quello che si potevano dire il dottor Allegra e Russomanno sulla morte di Calabresi in che modo avrebbe messo in imbarazzo la procura di Milano visto che nel frattempo aveva celebrato il processo a Sofri?
FRAGALA’. Questo lo dovremmo chiedere a chi ha ordinato l’intercettazione ambientale e il dottor Allegra è stato intercettato nei suoi telefoni per un lunghissimo periodo.
PRESIDENTE. Non riesco a vedere uno schieramento, un indirizzo politico in quel tipo di indagine, visto che stiamo parlando di uffici giudiziari che hanno condannato Sofri per l’omicidio Calabresi e, non molto tempo fa, Bertoli, Maggi e compagnia bella per via Fatebenefratelli. Dovremmo leggere le sentenze, così potremmo farci un’idea più precisa. Lei sa che c’è stata una Corte d’assise che ha ritenuto che Bertoli non era un puro anarchico?
ALLEGRA. L’ho letto sui giornali.
PRESIDENTE. Può darsi che quella sentenza sia sbagliata, ma quando ne leggeremo le motivazioni, forse potremo avere un’idea più precisa.
ALLEGRA. Però io mi meraviglio, adesso, a sentire che sono stato sottoposto ad una intercettazione ambientale, quando penso alle difficoltà che noi avevamo in passato.
PRESIDENTE. Si assume la responsabilità della domanda l’onorevole Fragalà, io non lo sapevo.
ALLEGRA. Non è che non me lo sarei aspettato, perché ormai succede di tutto. Voglio dire che noi all’epoca abbiamo chiesto e abbiamo avuto respinta la richiesta di mettere sotto ascolto telefonico il telefono di Feltrinelli.
PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Allegra per questa lunga audizione e gli facciamo ancora i complimenti per la sua memoria di fatti sia pure lontani nel passato. Evidentemente lei ha molto esercitato la sua memoria su questi. La ringrazio ancora e dichiaro conclusa l’audizione.
La seduta termina alle ore 23,45.
La morte dell'anarchico. Omicidio di Giuseppe Pinelli, così la polizia buttò l’anarchico fuori dalla finestra. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Dicembre 2020. “Pinelli è stato assassinato”. E se oggi ce lo confermasse qualche “barba finta”? Quante volte il grido è risuonato nelle strade e nelle piazze degli anni settanta. Quante volte, per lunghi cinquanta anni, si è chiesta verità, una verità che almeno assomigli un poco alla realtà dei fatti, su quel che accadde in quell’ufficio della questura di Milano dalla cui finestra l’anarchico Pino Pinelli precipitò e morì verso la mezzanotte del 15 dicembre 1969. Ed ecco che spunta, mentre ci prepariamo alla cinquantunesima ricorrenza, dal nulla di una lunghissima latitanza africana, la voce di un uomo di novantanove anni, il generale Adelio Maletti, che fu uomo importante dei servizi segreti di quei tempi e che fu condannato per il depistaggio sulle indagini della strage di piazza Fontana. E dice che in effetti qualcosa andò storto quella notte. E che la tesi ufficiale del suicidio di Pinelli “era una bufala”, come gli confidò un altro che la sapeva lunga, il generale Miceli. Se dobbiamo credere alle barbe finte, l’anarchico Pino Pinelli è proprio stato sbattuto giù dalla finestra. L’intervista a Miceli, pubblicata dal Fatto quotidiano, è stata realizzata da Andrea Sceresini e Alberto Nerazzini ed è stata registrata per un programma su piazza Fontana. È stata anche raccolta una battuta di uno dei poliziotti che quella notte erano nella stanza del commissario Calabresi, uno dei due sopravvissuti, il brigadiere Panessa: “Quella notte Pinelli se l’è cercata”. Una frase violenta e impietosa. Ma che non fa che confermare come quella notte sia accaduto qualcosa di diverso dal suicidio di un colpevole, ma anche qualcosa di diverso dall’”incidente di lavoro”. In quella stanza, lascia intendere Panessa, non c’era stato solo un imprevisto di poliziotti un po’ maneschi. No, qualcuno si era vendicato nei confronti del reprobo che si ostinava, dopo tre giorni di interrogatorio illegale, a non confessare. Il generale Maletti non si limita ad avanzare un’ipotesi, anche se nell’intervista la presenta come tale. “Pinelli si rifiuta di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedersi sul davanzale. A ogni risposta negativa, Pinelli viene spinto un po’ più verso il vuoto. Infine perde l’equilibrio e cade”. Non è un’ipotesi, perché a Maletti, che sarà al Sid solo dal 1971, lo scenario viene confermato da diversi personaggi che invece allora c’erano, se non nella stanza, negli ambienti dei servizi segreti dove si costruì la famosa tesi ufficiale del suicidio di Pino Pinelli. E cioè dal maggiore di carabinieri Giorgio Burlando, responsabile del centro di controspionaggio di Milano, dal colonnello Antonio Viezzer, capo della segreteria del reparto D del Sid, e appunto dal generale Vito Miceli, capo del servizio segreto militare dal 1970 al 1974, quello che definì “una bufala” la storia del suicidio. A qualcuno è scappata la mano? O è sfuggito di mano proprio il corpo di Pinelli? Per un’intera generazione, per quelli di noi che c’erano, per quelli che hanno gridato e ritmato “Pinelli- è stato- assas-sinato”, l’intervista di Maletti è solo una conferma. La conferma di quel che la giustizia penale non ha saputo o voluto accertare. È la dimostrazione del fatto che non sono state inutili le nottate passate con il giudice D’Ambrosio in quel cortile della questura a guardar buttare giù in vari modi quel manichino che non era Pinelli e che in nessun modo mai veniva giù come un corpo di chi si dà una spinta volontaria. Cadeva sempre come un corpo morto. Anche se poi, in modo poco coraggioso la sentenza finale parlò di “malore attivo”. Oggi uno che si intende di intrighi e imbrogli e bugie di Stato ci dice che non ci fu nulla di “attivo” in quella precipitazione. Perché il volo di Pinelli non fu suicidio, ma neanche accostamento volontario alla finestra. No, l’anarchico ci fu spinto e poi sempre più spinto all’infuori del davanzale fino a cadere. Questo si chiama omicidio. E questi si chiamano sistemi da Gestapo. Il codice penale usa tante formule e sfumature, compresa quella del dolo eventuale, per definire situazioni come quella che dipinge il generale Maletti. E insieme a lui una serie di altri spioni di Stato molto anziani e molto, ne siamo sicuri, di buona memoria. Non credo sia interesse di nessuno oggi processare i morti o mandare in galera i vegliardi. Ma la verità si, quella vogliamo saperla. Per Pino, per la moglie Licia e le figlie indomite Claudia e Silvia, per il movimento anarchico. E per tutti noi ragazzi e ragazze di allora che avevamo capito e siamo stati imbrogliati da una giustizia che ci ha messo il bavaglio perché non potessimo più dirla, quella verità. Oggi, 15 dicembre, il nostro amaro in bocca è un po’ meno amaro. Che cosa diceva quella ballata incisa su un 45 giri, “parole e musica del proletariato”? Una spinta e Pinelli cascò. E non faceva neanche tanto caldo, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969.
I retroscena. La storia di Pino Pinelli, 18esima vittima della Strage di Piazza Fontana. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Dicembre 2019. «E a un tratto Pinelli cascò» oppure «una spinta e Pinelli cascò»? Nelle due versioni della Ballata, diffusa nel 1970 su un 45 giri “parole e musica del proletariato”, c’è la storia di un uomo, della sua vita e della sua morte. Giuseppe Pinelli, detto Pino, anarchico, ferroviere e staffetta partigiana. Brava persona, bravo padre di famiglia, bravo militante. “Suicida” secondo il questore e i suoi uomini che in quella notte del 14 dicembre di cinquant’anni fa l’avevano in custodia eppure non ne seppero proteggere l’integrità fisica. “Suicidato”, secondo le certezze di coloro che ne conoscevano personalmente le passioni che non contemplavano quel mal-di-vivere che può portare al desiderio di morire. Poi ci sono tutti quei testimoni dell’epoca, i sopravvissuti di un giornalismo curioso che con puntiglio voleva guardare dentro i fatti al di là delle versioni ufficiali. Coloro che non si sono mai arresi a una verità giudiziaria che non è una verità, che ha tormentato a lungo lo stesso magistrato, il giudice Gerardo D’Ambrosio, autore ed estensore di una sentenza che crea disagio. Prima di tutto in chi l’ha scritta. Che cosa sia esattamente un “malore attivo” non lo sa nessuno. Quel che è certo è che un corpo, in una notte di dicembre milanese degli anni in cui ancora c’era la nebbia e tanto caldo non poteva esserci, è volato da una finestra del quarto piano, ha poi rimbalzato due volte sui cornicioni ed è precipitato a terra dopo una traiettoria diritta, come fosse stato un pacco. Invece era un uomo, si chiamava Pino Pinelli, era uno degli ottanta anarchici fermati la sera del 12 dicembre dopo la bomba di piazza Fontana. Quell’uomo, nella terza sera trascorsa in questura senza l’avallo di alcun magistrato, a un certo punto nella stanza del commissario Calabresi dove lo stavano interrogando, non c’era più. Era giù, nel cortile della questura di via Fatebenefratelli. Volato via dalla finestra aperta. Oggi possiamo dire, tutti dicono, che l’anarchico del Ponte della Ghisolfa è stato la diciottesima vittima della strage alla banca dell’agricoltura. Ci voleva il cinquantesimo anniversario per arrivare a questo riconoscimento. Ma nel 1969 valevano le parole del questore, a Milano: «Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto». Aggiungendo in seguito, in una conferenza stampa, che «il suo alibi era crollato». Nulla, neanche i morti di piazza Fontana, le sedici bare in una piazza Duomo grigia uggiosa e smarrita, nulla ha diviso la città, i suoi pensieri, le sue grida rabbiose, come i fatti di quella notte in questura e quel corpo giù nel cortile. Lo spettacolo di Dario Fo, “Morte accidentale di un anarchico”, visto e rivisto da migliaia di persone all’interno di un triste capannone, la grande tela del pittore Enrico Baj ( “I funerali dell’anarchico Pinelli”), e poi i tanti libri e il grande lavoro di quel gruppo di giornalisti che non si è mai arreso all’ipotesi del suicidio. E poi un’altra notte, ancora fredda, con il buio squarciato dalle luci di grandi fari, eravamo tutti lì, in quello stesso cortile, ad assistere alla prova del manichino: buttato e poi caduto, e ancora buttato e poi caduto. Il cuore stretto, magistrati, poliziotti, giornalisti. Una cosa fu certa, Pino Pinelli non poteva essersi suicidato, la caduta verticale lo escludeva. Il corpo che era precipitato nel cortile era un corpo morto (pur se non in senso letterale), esprimeva un certo abbandono, una certa passività. Ma non si poteva neppure dimostrare che qualcuno avesse afferrato quel corpo e lo avesse buttato giù. E per quale motivo, poi? Perché, in quella stanza, dove insieme ai poliziotti stranamente c’era anche un ufficiale dei carabinieri, era successo qualcosa di pesante, qualcuno si era sentito male e qualcun altro aveva perso la testa? Non si saprà mai, e tutti coloro che erano in quella stanza, pur con le loro testimonianze contraddittorie, furono assolti. Il commissario Calabresi, capo dell’ufficio politico della questura, non era in quell’ufficio, che pure era il suo, in quel momento. Ma nelle piazze si gridò a lungo “Calabresi assassino”, lo si scrisse sui giornali, lo si raccontò nelle vignette in cui il commissario era sempre vicino a una finestra aperta. Ci fu una denuncia per omicidio presentata da Licia Rognini, vedova Pinelli e ci fu una querela per diffamazione di Calabresi nei confronti del quotidiano Lotta continua. E poi, mentre il caso Pinelli era stato archiviato dal giudice D’Ambrosio con quell’ipotesi di “malore attivo” che in definitiva scontentava tutti, il commissario Calabresi fu assassinato con due colpi alla nuca in via Cherubini, di fronte alla casa dove abitava. È il 1972, non sono passati tre anni da quella notte del dicembre 1969 e qualcuno pensa che giustizia sia stata fatta. Nel modo peggiore possibile. Non sarà così, ovviamente. Di nuovo con le sentenze non ci sarà pace su questa vicenda. E la condanna di Sofri, Pietrostefani e Bompressi per l’omicidio Calabresi lascia l’amaro in bocca come tutte le sentenze frutto di processi indiziari. Sarebbe meglio non delegare più alle toghe il ricordo di Pinelli. Come ha già fatto con un grande gesto l’ex presidente della repubblica Giorgio Napolitano che nel 2009, nel giorno della memoria, ha riunito al Quirinale le due donne simbolo della sofferenza, Licia Rognini, vedova Pinelli, e Gemma Capra, vedova Calabresi. E ad altre due donne, le figlie del ferroviere anarchico Claudia e Silvia, il merito, la capacità, l’intelligenza di aver preparato per questo 14 dicembre 2019 la “catena musicale” che unirà anche fisicamente (pur nell’assenza degli anarchici) piazza Fontana con i suoi morti e la questura con la sua diciottesima vittima, Pino Pinelli.
Strage di Piazza Fontana, Valpreda era innocente: 18 anni di ingiustizie e tormenti. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Dicembre 2019. 1969 Archivio Storico Pietro Valpreda (Milano, 29 agosto 1933 – Milano, 6 luglio 2002) è stato un anarchico, scrittore, poeta e ballerino italiano, noto per il suo coinvolgimento nel procedimento giudiziario per la strage di Piazza Fontana, dal quale uscì poi assolto. Come per un effetto ottico, quando ho visto le immagini dell’arresto di Massimo Bossetti, lui come un animaletto ferito, impaurito, e i suoi inseguitori che gridavano «prendilo prendilo!» mi è tornato alla mente un viso di tanti anni fa, quello di Pietro Valpreda. Storie e persone molto diverse. Se non altro perché uno, forse non colpevole, è stato condannato all’ergastolo, l’altro, sicuramente innocente, è stato assolto. Alla fine. Dopo diciotto anni di ingiustizie e tormenti. Un concetto non riesce a staccarsi dai mei pensieri: capro espiatorio. L’analogia qui comincia e qui finisce. L’Italia della fine anni sessanta, quella con la democrazia cristiana sempiterna e anche con il movimento degli studenti e l’autunno caldo, fanno da sfondo alla sorte di un ragazzo di ringhiera un po’ anarchico e un po’ baùscia, cioè fanfarone, che sognava di fare il ballerino e a causa di un morbo che gli rallentava i movimenti si era dovuto adattare a confezionare lampade in stile Liberty, mettendo insieme pezzetti di vetro colorati. Una vita niente di che, che non gli sarà più restituita, dopo quel accadde a Milano in una bella piazza dietro al Duomo, che si chiamava piazza Fontana ed era sempre bagnata da tanti zampilli. Era il 12 dicembre del 1969, ore 16,30 quando ancora molti impiegati sono negli uffici, tranne chi lavora in banca, perché gli istituti di credito chiudono prima. In genere, tranne quel giorno alla banca dell’agricoltura di piazza Fontana, quando scoppiò la bomba e nella banca c’era tanta gente. La strage di piazza Fontana cambiò la storia di tutti noi, di noi giovani e del paese intero. E soprattutto quella del giovane anarchico Pietro Valpreda. Ci eravamo conosciuti proprio lì in quella piazza, così come ci si conosceva tutti, in quegli anni. Il 28 novembre del 1968 c’era stata una grande manifestazione di studenti, che al termine era sfociata proprio lì, dove c’era un vecchio albergo, l’hotel Commercio, da tempo disabitato e la cui proprietà da un paio di anni era stata rilevata dal Comune. Il Commercio quel giorno fu occupato, nonostante il dissenso del Movimento studentesco guidato da Mario Capanna che avrebbe preferito un’invasione simbolica di palazzo Reale. Lo stabile divenne da quel momento una sorta di casa dello studente per i tanti ragazzi che venivano a Milano a frequentare l’università e a lavorare. L’occupazione ebbe una forte componente anarchica, di cui anch’io facevo parte. Quando, con una sorta di piccolo golpe estivo, il 19 agosto 1969, il Commercio fu sgomberato e immediatamente raso al suolo, ebbi persino un piccolo momento di gloria. Ma la mia mamma pianse mentre era al mare con le amiche aprendo l’Espresso con le sue lenzuolate nel vedere un’enorme foto che mi ritraeva seduta per terra con i lunghi capelli e il viso un po’ corrucciato mentre stringevo tra le ginocchia un megafono. L’immagine era stata scelta come simbolo dello sgombero di quel “covo di anarchici”. Le ruspe avevano annientato quello che era stato definito “un pugnale nel cuore della città” e che aveva dato parecchio fastidio alla giunta di sinistra del sindaco Aniasi. Piero (nessuno di noi l’ha mai chiamato Pietro) era un anarchico vero e lo è stato fino all’ultimo giorno della sua vita. Non è mai stato serioso né intransigente come spesso erano all’epoca molti militanti politici. Lo si poteva incrociare all’hotel Commercio come al circolo della Ghisolfa o in giro per librerie. Era protetto da una famiglia a forte componente femminile molto solidale, il che non gli gioverà, quando tutti i suoi parenti saranno incriminati per falsa testimonianza perché avevano osato confermare il suo alibi quando fu arrestato e accusato di aver messo la bomba. La sua prima immagine dopo l’arresto è quella di un uomo stravolto e anche stupito, quando, davanti a una selva di flash, un fotografo lo aveva apostrofato in modo crudele: “Alza la capoccia, Mostro!”. Era stato battezzato. Ormai per tutti era il Mostro. Dopo l’occupazione del Commercio era andato a vivere a Roma. Ma la sua famiglia era sempre a Milano. E saranno proprio loro, facendogli sapere tramite un avvocato di una convocazione per una testimonianza davanti a un giudice istruttore per un volantino anticlericale, a farlo decidere ad arrivare nel capoluogo lombardo proprio per il 12 dicembre. La convocazione in realtà era per il 9, inoltre la sorella di Valpreda che l’aveva ricevuta e firmata, non aveva saputo specificare di che cosa si trattasse, tanto che lui, un po’ spaventato, si era rivolto a un legale in quanto temeva di esser stato incriminato per vilipendio al papa. La sua preoccupazione era tutta lì, un normale pensiero da anarchico anticlericale. Ma il clima era già pesante, poche ore dopo lo scoppio della bomba alla banca dell’agricoltura di Milano. I 17 morti e gli 88 feriti erano stati immediatamente messi in conto al mondo anarchico, anche se gli inquirenti in realtà non avevano in mente altri se non un mandante illustre, niente di meno che l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Una pista che furono costretti ad abbandonare poi in gran velocità. Ma il vestito cucito addosso a Piero Valpreda ha avuto per un certo periodo successo proprio perché lui era un anarchico che non veniva difeso neanche dalla sinistra. Tanto che neanche il quotidiano comunista L’Unità gli riconobbe la dignità del suo essere “compagno”, visto che nella foto in cui lui appariva con il pugno chiuso il braccio veniva regolarmente moncato dalla censura di partito. Non fa parte del nostro album di famiglia, dicevano quei tagli nelle foto. Mentre qualcuno metteva la bomba, Piero era a casa di zia Rachele, una prozia in realtà, quella che di più lo ha difeso con le unghie e con i denti. Anche perché era lei il suo alibi più solido. Il nipote, mentre in piazza Fontana scoppiava quell’inferno che nessuno di noi potrà mai più dimenticare, era proprio nella sua casa, a letto e mezzo influenzato. Non era lui l’uomo con la valigetta nera di cui parlò il tassista Rolandi e che sarebbe salito sulla sua auto in piazza Beccaria per percorrere cento metri e poi compiere l’attentato. Ammesso che quella persona sia mai davvero salita su quell’auto gialla. Ma i magistrati di Roma e Milano che si palleggiarono l’inchiesta, prima fecero una ridicola ricognizione di persona e infine costrinsero il tassista a una testimonianza a futura memoria prima della morte. Per poter incastrare Pietro Valpreda. C’è da domandarsi perché una persona così poco importante agli occhi delle istituzioni sia stata presa di mira in modo così pervicace. I casi sono solo due: o lui è stato solo un capro espiatorio preso per caso, oppure, visti i numerosi depistaggi e le frequenti smemoratezze che colpirono gli uomini delle istituzioni al processo di Catanzaro, altri, i veri responsabili, furono tenuti nascosti e protetti. Ma questo non possiamo saperlo perché per la magistratura quella strage non ha avuto colpevoli. La mia amicizia con Piero Valpreda è nata qualche anno dopo, quando ero cronista giudiziaria al Manifesto ed entrai a far parte di un gruppo di giornalisti che dal primo momento avevano creduto alla sua innocenza. Abbiamo svolto un lavoro certosino, giorno dopo giorno, sugli atti processuali, senza che nessun magistrato ci passasse le veline come si usa oggi. Abbiamo studiato e scarpinato, come si dice a Milano. Nel 1972 il Manifesto ha anche tentato la carta elettorale, candidandolo capolista a Roma e svolgendo una campagna elettorale appassionata (ho avuto di nuovo l’occasione di usare il megafono per gridare “Valpreda è innocente, la strage è di Stato!”), ma purtroppo abbiamo mancato il quorum. Piero è uscito da carcere grazie a una legge ad personam, con la quale si consideravano scaduti dopo un certo periodo i termini di custodia cautelare anche per i reati gravi come la strage. Ed è stato infine assolto al processo di Catanzaro e nei tre gradi di giudizio. In quegli anni era riuscito ad aprire un piccolo bar in corso Garibaldi, nella zona di Brera. Ed è stato lì, in quei giorni, che ho potuto conoscere meglio la persona, quello che era stato il suo pervicace ottimismo, ma anche le sue malinconie. Ero diventato un simbolo, diceva, mi hanno appiccicato addosso un’etichetta, ma dei miei sentimenti non importava niente a nessuno. Non aveva acrimonia. Raccontava la sua vita così, come se tutto fosse stato, in un modo assurdo, “normale”. I suoi sentimenti stavano in quel recinto di persona come le altre.Ma anche uno che sognava l’anarchia, la libertà, l’antiautoritarismo. Ero diventato ballerino, mi diceva, perché dopo la guerra ascoltavo la musica americana e mi ero messo a ballare il boogie-woogie. Il momento più emozionante, raccontava, era stata la nascita del figlio, che aveva voluto chiamare Tupac come un condottiero rivoluzionario peruviano. Piero Valpreda è morto a Milano nel 2002, nella sua modesta casa di corso Garibaldi. Negli ultimi tempi scriveva gialli in collaborazione con il giornalista Piero Colaprico. Un’attività imprevista e lontana da lui. Ma non dalla sua vita come gli era stata cucita addosso. Per caso o per complotto?
Paolo Virtuani per il “Corriere della Sera” il 16 novembre 2020. «Una cosa non l' ho mai raccontata: ho sempre stretto la mano a tutti coloro che me la porgevano, ma a tre persone mi sono rifiutato. Quando hanno avanzato la loro mano verso di me, la mia l' ho portata dietro la schiena. È stato il mio modo di dire "Non avete mai detto la verità, ma io la conosco e so il ruolo che avete avuto"». Nell' intenso incontro (a distanza per ragioni di Covid) con Aldo Cazzullo nell' ambito di BookCity Milano, Mario Calabresi ha svelato particolari inediti della sua vita e della genesi del suo ultimo libro, Quello che non ti dicono , incentrato sulla tragica vicenda di Carlo Saronio, rampollo dell' alta borghesia milanese e simpatizzante dei movimenti di sinistra più estremisti degli anni Settanta. Poi, da quelli che credeva compagni, rapito per finanziare la lotta armata e assassinato. L' appello di Calabresi ricorda il famoso «chi sa parli» di Otello Montanari, l' ex partigiano che nel 1990 invitò a raccontare i fatti più oscuri del dopoguerra, come ha sottolineato Cazzullo nel corso della video-intervista. La richiesta del figlio del commissario ucciso a Milano nel 1972 si rivolge alla «zona grigia», ai simpatizzanti - proprio com' era Carlo Saronio - che hanno consentito al terrorismo brigatista di proseguire fino agli anni Ottanta. «C' è chi dice che del terrorismo non si sanno ancora molte cose importanti. Penso invece che la verità storica sia presente, anche se mancano parti di quella giudiziaria», chiarisce Calabresi. «Ai processi è emerso un quadro preciso della parte stragista legata all' estrema destra e ad ambienti deviati dello Stato, e anche di quella legata alla sinistra extraparlamentare. È come avere di fronte un mosaico: da lontano si capisce il soggetto, quando ci si avvicina si nota che mancano delle tessere. Vorrei che queste tessere venissero ricomposte dai tanti che in quel periodo fiancheggiavano i terroristi». Secondo Calabresi a distanza di decenni permane un atteggiamento che non esita a definire omertoso. «Qualcuno a sinistra si è offeso perché pensa che l' omertà sia legata solo alla mafia. Io vorrei che i ragazzi di quella generazione, che ora sono dei nonni, uscissero dal loro silenzio. Penso che non abbiano mai voluto raccontare la verità per un motivo: hanno voluto difendere le loro carriere». L' accusa, per nulla velata, è di non essere stati in grado di assumersi le responsabilità di quanto avevano fatto in quegli anni di gioventù. «Alcuni hanno fatto carriera in aziende e nel mondo della comunicazione: come potevano spiegare che stavano dalla parte dei brigatisti a figli e nipoti? Si può anche non rivangare il passato, ma c' è un passaggio fondamentale - dice ancora Calabresi -: la violenza e il suo rapporto con la politica. La violenza ha causato distruzione e ha chiuso la possibilità di cambiamento sociale. Quella stagione ha liberato germi che vivono ancora oggi».
Resta una domanda: chi sono le tre persone alle quali si è rifiutato di stringere la mano?
«Per l' omicidio di mio padre sono stati condannati in quattro: il mandante morale, il capo del servizio d' ordine di Lotta continua - ancora latitante a Parigi -, chi ha sparato e chi ha guidato l' auto. Ma sappiamo anche chi ha acquistato le armi, chi le ha custodite, chi ha fatto i sopralluoghi, chi faceva il palo, chi ha seguito per giorni l' auto di mio padre. Questi non sono mai stati processati perché mancavano gli elementi. Ma non hanno nemmeno mai parlato. A tre di loro ho rifiutato la stretta di mano».
Giampiero Mughini per Dagospia il 16 novembre 2020. Caro Dago, davvero mica male quel che l’ex direttore di “Repubblica” Mario Calabresi ha raccontato ad Aldo Cazzullo via Skype in occasione della presentazione di un suo recente libro. E cioè che s’era trovato di fronte gente di rilievo in quello che è il suo mondo, l’editoria e la comunicazione, i quali gli porgevano la mano per salutarlo e lui che la sua mano se la teneva indietro perché lo sapeva benissimo che ciascuno di quei tre personaggi aveva avuto un suo ruolo (piccolo o grande che fosse) nell’assassinio di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano alla mattina del 17 maggio 1972 da due colpi di pistola sparatigli alla nuca e alle spalle da un militante di Lotta continua, l’allora venticinquenne Ovidio Bompressi. Voi conoscete i fatti. Che dopo un lungo e tormentatissimo processo sono stati condannati per quel delitto Adriano Sofri (reputato mandate morale di quell’azione), Giorgio Pietrostefani (il leader milanese dell’ala “dura” di Lotta continua che quell’azione la volle e la organizzò), Bompressi per avere sparato e Leonardo Marino per avere condotto l’auto da cui discese Bompressi per andare a uccidere. Giustizia è stata fatta? Non so quanti siano quelli di voi che pensano di no, nel senso che reputano che Lotta continua non c’entrasse nulla con quel delitto, immagino siano rimasti pochi e che abbiano una voce che s’è fatta afona. Per quanto mi riguarda io non sono affatto sicuro che Sofri sia stato davvero “il mandante” e non invece uno che quell’azione l’ha come seguita e approvata a distanza. Per tutto il resto è fuori di dubbio che quell’azione è stata il battesimo di sangue del terrorismo “rosso”, il punto di partenza di una storia dove tutto era possibile a cominciare dal togliere la vita all’avversario “di classe”. Sulla prima pagina del quotidiano “Lotta continua” apparve un editoriale in cui stava scritto che la classe operaia era stata messa di buonumore dall’assassinio di un commissario di polizia trentatreenne padre di tre figli. Resta che l’omertà generazionale su quella vicenda resta immane ed è esattamente su questa piaga che ha messo il dito Calabresi, il quale oltretutto ha incontrato di recente a Parigi un Pietrostefani giunto all’epilogo della sua avventura umana e che a questo punto deve avergli raccontato per filo e per segno com’era andata poco meno di cinquant’anni fa. Appunto. Com’era andata un’impresa di cui certo non erano soltanto quattro i protagonisti impegnati o corresponsabili dell’azione. A Milano era funzionantissimo il servizio d’ordine di Lotta continua, i cui dirigenti conosciamo per nome cognome e soprannome. Di certo alcuni di loro avevano studiato l’agguato, avevano studiato i tempi di uscita da casa ogni mattina del commissario Calabresi, avevano rincuorato Bompressi ad agire, avevano poi aiutato Bompressi e Marino a prendere il largo. Ho tra le mie carte la lettera anonima di un ex militante di Lotta continua che mi aveva fatto il nome e cognome di uno che s’era preso sulla sua moto Bompressi per riportarlo a Massa in modo da fargli avere un alibi. Quanti saranno stati quelli che in un modo o in un altro furono complici della messa a morte di Calabresi? Venti, forse di più. E siccome quelli di Lotta continua erano intellettualmente i più vitali della nostra furente generazione, nulla di strano che molti di loro siano ascesi alle vette del giornalismo e dell’editoria. Ebbene, è stata l’omertà generazionale la loro dea non la verità, o semmai una verità alla maniera di quella di Dario Fo, che ci ha costruito delle pièces di successo sul raccontare quanto e come Leonardo Marino (il pentito da cui partì l’indagine e i successivi processi) si fosse inventato tutto ma proprio tutto. Panzane inaudite quelle di Fo che hanno avuto larghissima cittadinanza nella mia generazione, panzane per le quali provo solo il massimo di disprezzo intellettuale di cui sono capace. Tutto questo l’ho scritto, raccontato, rievocato in un libro del 2009 che aveva per sottotitolo “l’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione”. Persone a me vicine si domandarono e mi domandarono perché mai avessi scritto un tale libro, com’è che avessi potuto mettere in dubbio l’innocenza assoluta di quelli di Lotta continua. In tutto e per tutto quel libro si guadagnò un magnifico (come sempre) pezzo di Aldo Cazzullo che l’allora direttore del “Corriere della Sera” richiamò in prima pagina. Null’altro. Non un club o un circolo che mi chiamasse a parlarne. Piuttosto alcune querele, poi tutte ritirate perché sapevano che in tribunale avrebbero avuto la peggio. Per il resto un silenzio di tomba, talmente d’acciaio era il muro dell’omertà generazionale, il muro della menzogna ideologica costruito a tutto spiano. Ha perfettamente ragione Calabresi junior. Ma possibile che a cinquant’anni di distanza non uno di quelli che c’erano e che seppero sorga a dire: “Sì, è esattamente così che è andata. Mandammo uno di noi a uccidere alle spalle un commissario di polizia contro cui non avevamo in mano nulla di nulla se non la furia ideologica della peggio gioventù”. Non uno. Come si fa a vivere per 50 anni nella menzogna la più bieca?
Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano il 28 dicembre 2019. Nelle ultime settimane. Abbiamo visto porre in piazza Fontana la formella su cui è inciso che la bomba del 12 dicembre 1969 fu messa dai fascisti di Ordine nuovo. Abbiamo sentito il presidente Sergio Mattarella affermare che le indagini sulla strage sono state inquinate da depistaggi di Stato. Abbiamo ricordato Giuseppe Pinelli con la più allegra, musicale, anarchica e sconclusionata manifestazione mai vista a Milano. Abbiamo ascoltato il sindaco Giuseppe Sala chiedere scusa, a nome della città, a Pietro Valpreda e a Pino Pinelli, ingiustamente accusati. Ci sono voluti 50 anni, ma qualche passo avanti è stato fatto. Ora sappiamo - e in modo ufficiale - chi ha messo la bomba: i fascisti di Ordine nuovo e quel Franco Freda che gira libero per l' Italia, indicato come responsabile della strage da una sentenza della Cassazione che lo dice non più processabile perché già definitivamente assolto. Sappiamo chi ha depistato le indagini: gli apparati dello Stato che hanno indicato la pista anarchica (l' Ufficio affari riservati) e sottratto ai giudici testimoni e prove sulla pista nera (il Sid, Servizio informazioni difesa). Sappiamo che Pinelli non solo è innocente, ma è anche la diciottesima vittima della strage. Ora ci vorrebbe uno scatto. Non sappiamo ancora tutto. Non sappiamo i nomi dei neri entrati in azione quel 12 dicembre. Non abbiamo certezze sugli uomini dello Stato responsabili dei depistaggi e della morte di Pinelli. Qualcuno dovrebbe ora prendere la parola. Gli uomini ancora vivi di Ordine nuovo, per esempio. Il giudice Guido Salvini ha indicato nel suo libro su piazza Fontana i possibili componenti del commando che entrò in azione a Milano. E negli ultimi giorni si è avviato uno strano dibattito (a distanza) su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli tra Adriano Sofri, Benedetta Tobagi, Giampiero Mughini, Guido Salvini. Sofri, sulle pagine del Foglio, il 14 dicembre 2019 ricorda la testimonianza dell' anarchico Pasquale Valitutti, fermato in questura dopo la strage di Milano, che continua a dire che non vide uscire Calabresi dalla stanza da cui Pinelli precipitò nella notte del 15 dicembre 1969, come invece stabilito dalla sentenza D' Ambrosio. Potrebbe non averlo visto: lo scrivono anche Gabriele Fuga ed Enrico Maltini (anarchico del circolo Ponte della Ghisolfa) nel libro Pinelli. La finestra è ancora aperta. Sofri (condannato definitivo, insieme a Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino per l' assassinio di Calabresi, ucciso il 17 maggio 1972) chiede anche la riapertura delle indagini, sulla base - dice - di un fatto nuovo: nella questura di Milano, dal 12 dicembre 1969 al lavoro sulla pista anarchica, il questore Marcello Guida, il capo della squadra politica Antonino Allegra, il suo vice Luigi Calabresi erano "guidati" dagli uomini degli Affari riservati del ministero dell' Interno arrivati da Roma. A prendere la direzione delle operazioni è la "Squadra 54" guidata da Silvano Russomanno e Ermanno Alduzzi. È una "novità" che conosciamo, in verità, da qualche anno: la ricostruiscono proprio Fuga e Maltini nel loro libro scritto nel 2016, sulla base dei documenti sequestrati a metà degli anni Novanta in un armadio blindato del Viminale dal giudice Carlo Mastelloni, che rivelano anche l' esistenza della "Squadra 54". Il manovratore degli Affari riservati era il prefetto-gourmet Federico Umberto D' Amato, che aveva uno stuolo di informatori ("Le trombe di Gerico"), tra cui il capo di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie e l' infiltrato tra gli anarchici Enrico Rovelli (nome in codice: Anna Bolena), poi fondatore di locali milanesi (il Rolling Stone, il City Square, l' Alcatraz) e agente di Vasco Rossi. Proprio di D' Amato scrive Sofri, in due vecchi articoli pubblicati sul Foglio il 27 e il 29 maggio 2007: rivela che un ignoto "conoscente comune" lo mise in contatto con l' anima nera degli Affari riservati, il quale gli propose di compiere "un mazzetto d' omicidi", garantendogli impunità. Lo ricorda Benedetta Tobagi nella sua replica sul Foglio del 17 dicembre 2019, richiamando anche una mezza conferma di D' Amato, contenuta in un documento rinvenuto dopo la sua morte avvenuta nel 1996: un abbozzo d' autobiografia dal titolo Memorie e contromemorie di un questore a riposo, in cui D' Amato racconta dei rapporti amichevoli con personaggi "come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac)". Tobagi ricorda che fu messa "in dubbio la veridicità del ricordo, dicendo che Sofri è astemio", ma "nulla vieta di ipotizzare che mentre il gourmet D' Amato sorseggiava alcolici d' annata, Sofri bevesse, che so, chinotto". Al di là delle bevande, sarebbe bello che l' allora capo di Lotta continua raccontasse chi era il misterioso "conoscente comune" e come sia stato possibile che D' Amato - lo stesso che manovrava la "Squadra 54" - gli abbia chiesto quel "mazzetto d' omicidi". Conclude Benedetta Tobagi: "L' ennesimo scambio indiretto di messaggi allusivi, ambigui e omertosi intorno a vicende degli anni Settanta su cui permangono spesse coltri di nebbia". Aggiunge il giudice Salvini, nascosto in pagina, sul Foglio del 27 dicembre: "Credo che Pietrostefani abbia il dovere morale di raccontare cosa è accaduto. Non si ha il diritto di chiedere la verità sul 12 dicembre 1969 se si sceglie di tacere su ciò che è avvenuto il 17 maggio 1972, se non si racconta chi mandò quei due sciagurati di Bompressi e Marino in via Cherubini a uccidere il commissario. Sarebbe ora, ex poliziotti o ex capi di Lotta continua, di dire qualcosa e ciascuno ha il dovere di prendersi le proprie responsabilità. La verità è tale solo se intera, non se si sceglie solo la parte che è più gradita".
Con «Quello che non ti dicono», in uscita per Mondadori, torna alla luce la storia di Carlo Saronio, vittima degli anni di piombo. Morì il 15 aprile 1975 durante il suo rapimento. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 18/10/2020. Il ragazzo tradito e ucciso dagli amici che gli promettevano la rivoluzione. «Buonasera Dott. Calabresi, la leggo con piacere perché sono legato a lei dalla perdita di una persona cara a causa del terrorismo. Mi chiamo Piero Masolo, sono prete missionario in Algeria, sono nipote di Carlo Saronio, rapito e ucciso il 15 aprile 1975. Mi piacerebbe poterle inviare una mail per chiederle consiglio su come celebrare l’anniversario dello zio. La ringrazio di cuore». È la mattina del 3 ottobre 2019, quando Mario Calabresi riceve su Facebook questo messaggio dal deserto algerino. La ricerca ha inizio. Calabresi rintraccia rapidamente il nome e la storia: Carlo Saronio, erede di una delle famiglie più ricche di Milano, laureato in ingegneria, ricercatore all’Istituto Mario Negri, fu sequestrato nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1975 da un banda composta da criminali comuni e militanti dell’area di Potere Operaio, movimento per cui Saronio simpatizzava. La vittima morì nelle prime fasi del sequestro, per una dose sbagliata di narcotico. Aveva 26 anni. I rapitori finsero che fosse ancora vivo e riuscirono a ottenere una parte del riscatto. Il corpo sarà ritrovato solo tre anni e mezzo dopo.
La mail del missionario e l’incontro con Marta Saronio. Il 5 ottobre 2019 Calabresi riceve la mail del missionario: «In famiglia lo zio Carlo è sempre stato un tabù, non se ne poteva parlare... Con Marta Saronio, mia cugina e figlia naturale di Carlo, abbiamo finalmente pensato di ricordarlo». Calabresi si rimette a cercare; ma da nessuna parte, neppure nel formidabile archivio del Corriere, c’è traccia di una figlia di Carlo Saronio. Mercoledì 15 gennaio 2020, «a Lodi il mondo sembra ancora normale. Nessuno può sapere quello che sta per scoppiare, che tra quattro settimane il virus sceglierà proprio questa terra per sbarcare in Europa e cambiare le nostre vite» annota Calabresi. Che quella sera a Lodi presenta davanti a 900 persone il suo long-seller «La mattina dopo». Alla fine nella grande sala resta una lettrice, con il libro in mano. Dice soltanto: «Sono Marta». Mario non capisce. «Sono quella Marta». È la figlia di Carlo Saronio: nata otto mesi e mezzo dopo il rapimento e la morte di un padre che non ha mai conosciuto. Prima della tragedia, sua madre Silvia, allora fidanzata di Carlo, era rimasta incinta: e aveva deciso di tenere la bambina. Quando nacque si chiamava Marta Latini. Fu la nonna ad andare dall’avvocato Cesare Rimini per farla riconoscere. Quando aveva tre anni cambiò cognome e divenne Marta Saronio. Ora ha due figli e una vita felice. Ma le manca il padre; e le mancano la sua memoria, le notizie su di lui, e sui suoi assassini.
Il fascino delle idee rivoluzionarie e la vergogna di essere ricco. A questo punto Calabresi, che con «Spingendo la notte più in là» ha cambiato la nostra percezione degli anni Settanta, dando la parola alle vittime dopo che troppo a lungo avevamo letto e ascoltato soltanto i carnefici, avverte come un dovere morale ricostruire la vicenda di Saronio. Ritrova la sua foto di classe, che è diventata la copertina del libro («Quello che non ti dicono», in uscita martedì da Mondadori). Legge una lettera della sua insegnante, Alba Carbone Binda, che ricorda quando i compagni lo prendevano in giro dopo aver letto sul Corriere la classifica dei contribuenti milanesi (i Saronio venivano subito dopo i Rizzoli, i Crespi, i Pirelli, i Borletti, i Mondadori). Carlo a scuola era molto bravo, pieno di talento e di fiducia negli altri, ma tormentato da un senso di colpa. In un tema di quarta ginnasio, raccontò la domenica in cui era andato a fare una gita sulla Rolls-Royce di famiglia: quando era sceso dall’auto, tutti i bambini del luogo si erano affollati intorno a lui; e Carlo avrebbe voluto scomparire. Si vergognava di essere ricco. Anche per questo, lui che al liceo Parini si era avvicinato al movimento di don Giussani (Gioventù studentesca, poi divenuto Comunione e Liberazione) crescendo sentirà il fascino delle idee rivoluzionarie. Sceglierà di andare a insegnare alle scuole serali a Quarto Oggiaro. E per finanziare i compagni di Potere Operaio arriverà a simulare il furto della Porsche che gli avevano regalato i genitori, rimpiazzata con un’Alfasud.
Le riunioni clandestine e il Professorino. Il libro è il racconto dell’inchiesta condotta dall’autore, che passa il lockdown a lavorare sulle carte che la questura di Milano gli ha messo a disposizione, e su quelle custodite in un armadio di famiglia e ritrovate grazie al missionario. Si susseguono dettagli inattesi, coincidenze impressionanti, incastri a sorpresa. E si delinea la figura del colpevole. Del traditore. Carlo Fioroni, detto il Professorino, militante della sinistra extraparlamentare, vicino a Giangiacomo Feltrinelli. È stato lui a stipulare, a nome di una persona che non ne sa nulla, l’assicurazione del pulmino Volkswagen trovato sotto il traliccio su cui è morto l’editore rivoluzionario. La polizia lo cerca, Fioroni sparisce: è nascosto nella bella casa di Carlo Saronio, in corso Venezia. La madre di Carlo non ne sa nulla. Più tardi le viene presentato come Bruno, «un amico romano». E alla Mercurina, la cascina della famiglia Saronio nella campagna tra Lombardia e Piemonte, si tengono riunioni clandestine: per due volte si incontrano di fronte al camino Toni Negri e Renato Curcio. È l’alba dell’eversione, l’inizio degli anni di piombo. È possibile che già allora Fioroni abbia proposto di inscenare un falso rapimento, per spillare soldi alla famiglia; ma Carlo Saronio ha rifiutato. La macchina che porterà alla tragedia è già avviata. Certo, Fioroni avrebbe potuto e dovuto essere fermato. E viene quasi un brivido quando, leggendo il libro, si scopre che un investigatore lo stava cercando, prima di essere assassinato: il commissario Luigi Calabresi. Il padre di Mario.
Il ricordo della sua insegnante. Grazie a «Quello che non ti dicono», la figura di Carlo Saronio torna alla luce. Ora Marta ha conosciuto in qualche modo l’uomo che le ha dato la vita. Così lo ricordava la sua insegnante: «La luminosa promessa che era in lui fu soffocata da un ottuso tampone di cloroformio»; anzi, di toluolo, contenuto in uno smacchiatore o in un solvente comprato in colorificio, scelto perché più facile da trovare rispetto al cloroformio. «Carlo sbagliò a non sospettare la malizia di chi lo tradiva mentre gli chiedeva aiuto. Spero che non lo abbia saputo, che fino all’ultimo respiro lo abbia accompagnato la sua fiducia».
Luigi Calabresi condannato a morte dall’Italia dell’odio e della vendetta. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su Corriere.it da Walter Veltroni. Quale Italia era quella in cui fu ucciso, quarantotto anni fa, il commissario Luigi Calabresi? Talvolta, inabissati nel gorgo delle miserie di questo tempo che ci appare straniero, si è portati a rimpiangere i «bei tempi andati». Si può avere, certo, nostalgia per la passione civile di milioni di persone, per il livello del dibattito politico e culturale, per la statura dei leader dei partiti, dei sindacati, delle imprese. Ma non si può rimpiangere il clima d’odio di quegli anni vitali e bastardi. Oggi segnaliamo, dovremmo farlo di più, l’imbarbarimento del linguaggio dei social, il dilagare di violenza verbale, di antisemitismo, sessismo, intolleranza nei confronti dell’altro da sé. Allora, non dimentichiamolo mai, si sparava. Si mettevano le bombe, si aspettava sotto casa un ragazzo di destra o di sinistra per prenderlo a coltellate o a sprangate, si sequestrava, si uccideva con la facilità con cui lo si fa in guerra. In quegli anni il sangue è stato versato a litri, in una guerra in cui, diversamente da quella di Liberazione, non esistevano un torto e una ragione, definiti dalla libertà, ma solo due giganteschi, stupidi, inutili e sanguinosi torti. Neppure si può avere nostalgia per il tempo di Sindona, di Gelli, della P2, di Gladio, dei servizi deviati, dei rapporti di scambio tra governo e mafia. O per l’inflazione a due cifre e il debito pubblico alle stelle. Era un Paese bloccato, senza alternanza politica, condizionato pesantemente dalla guerra fredda. I grandi meriti di quella classe dirigente, la Costituzione e la ricostruzione modernizzatrice del Paese, vennero dissipati dalla trasformazione del potere da mezzo a fine. Era questa l’Italia che aveva condannato a morte il commissario di polizia Luigi Calabresi. L’Italia dell’odio e della vendetta, dell’estremismo intollerante, l’Italia sgusciante e velenosa degli apparati dello Stato inquinati dalla continuità col fascismo e dalle logiche della guerra fredda. Giuseppe Pinelli Ancora oggi non sappiamo chi ha materialmente messo la bomba a Piazza Fontana, non certo Valpreda, non sappiamo come è morto Pino Pinelli «un innocente che fu vittima due volte, prima di pesantissimi, infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine» come disse Giorgio Napolitano nel 2009. E così per le troppe stragi e per le tante assurde uccisioni di quel tempo. Sappiamo, ha avuto il coraggio di dirlo Sergio Mattarella davanti alle vedove Calabresi e Pinelli nel cinquantesimo anniversario di Piazza Fontana, che: «Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia. L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata, quindi, doppiamente colpevole». Calabresi fu vittima di una campagna di odio terribile. Fu definito su «Lotta Continua»: «Torturatore di alcuni compagni, assassino di Giuseppe Pinelli, complice degli autori della strage di Milano». Fino alla famosa frase, dopo l’assassinio, in cui diceva che non si poteva «deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Era il clima di quegli anni odiosi, in cui persone di valore, come si sono rivelati nel tempo molti dei dirigenti di Lotta Continua, potevano sottoscrivere le parole disumane del loro giornale. In cui democratici di sicura fede e di ogni orientamento potevano aderire a un appello in cui tornava la parola «torturatore». Firmarono Parri e Amendola, Fellini e Pierre Carniti, Terracini e Lombardi. Erano anni in cui tutto era in bianco e nero, in cui esistevano recinti che separavano le idee e le rendevano incomunicabili tra loro, in cui la diversità politica, ogni diversità, era una colpa da lavare col sangue. Bisogna tornare lì, per capire. Valgono le parole di Gemma Calabresi, quando al Quirinale si diede la mano con Licia Pinelli: «Ho sempre detto che mio marito e Pinelli sono vittime del terrorismo e della campagna di odio che in quegli anni lacerò l’Italia». Luigi Calabresi è stato ucciso al termine di una lunga campagna d’odio. Era un uomo che camminava con un bersaglio addosso. Eppure lo lasciarono solo, con la sua Fiat Cinquecento, ad aspettare che lo ammazzassero. Era un esito previsto, non prevedibile, in quegli anni orrendi. Esisteva allora un codice di stampo mafioso che prevedeva la punizione di chi si riteneva nemico, vendetta che veniva consumata nei confronti di avversari politici, poliziotti, magistrati, funzionari dello Stato, spesso persino propri compagni di gruppo terroristico. Fino all’orrore del sequestro e dell’uccisione di Roberto Peci, perpetrato per colpire il fratello Patrizio, o all’assassinio di tanti terroristi di destra, in carcere e fuori, accusati di aver « tradito» i loro camerati dell’eversione nera. C’era sempre un reprobo da punire e qualche improvvisato tribunale autocratico che, senza consentire difesa, comminava e faceva eseguire pene di morte. Come la mafia, proprio come la mafia. Pino Pinelli un giorno regalò al commissario Calabresi, che conosceva da tempo, l’Antologia di Spoon River. Ora anche loro due «dormono, dormono sulla collina». Come tutte le vite spezzate dal tempo dell’odio. Il più pericoloso dei sentimenti umani. Sarà bene non dimenticarlo, oggi.
Il mistero della "Strage continua". La storia di uno dei segreti d'Italia. Una nuova pista sull'omicidio del giornalista Mino Pecorelli: il movente mai esaminato. Marco Gregoretti, Domenica 18/10/2020 su Il Giornale. Un foglio con frasi scritte, a matita, di suo pugno dal giornalista Mino Pecorelli, ucciso a Roma la notte del 20 marzo 1979, qualche ora dopo l’uscita in edicola di OP, il giornale di cui era fondatore e direttore. È lo schema della copertina del numero mai pubblicato della rivista, la cui pubblicazione era attesa con ansia e con una certa preoccupazione dall’establishment politico dell’epoca. In mezzo al foglio lo strillo centrale: La Strage continua. C’è una nuova pista per la soluzione del principe di tutti i cold case. La racconta la giornalista investigativa Raffaella Fanelli nel libro il cui titolo si ispira proprio a quegli appunti ritrovati: La strage continua- L’omicidio di Mino Pecorelli (Ponte alle Grazie editore). Più di duecento pagine da fiato sospeso perché per la prima volta si ipotizzano un movente mai esaminato e gli autori dell’agguato che provocò la morte del giornalista che indagava su tutto: dalla strage milanese alla Banca dell’agricoltura di piazza Fontana il 12 dicembre 1969, alla parabola politica di Aldo Moro. Fanelli spiega che Pecorelli aveva un dossier su Avanguardia nazionale e che avrebbe avuto diversi elementi sul coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie e di Licio Gelli nel tentativo di Golpe Borghese avvenuto tra il 7 e l’8 dicembre 1970. Già nel primo numero di OP, uscito a gennaio 1979, il giornalista scriveva delle misteriose bobine che poi, nel 1991, il capitano Antonio La Bruna (importante figura del Sid di Vito Miceli, reclutatore di agenti operativi anche della Gladio Stay behind) consegnò al giudice milanese che indagava sulla strage di piazza Fomtana Guido Salvini. Pecorelli stava approfondendo giornalisticamente tutto ciò che si muoveva intorno alla strage di piazza Fontana e per questo aveva incontrato Giovanni Ventura, come nel libro viene confermato da Franco Freda e dalla collaboratrice di Pecorelli Paola Di Gioia. La strage continua-L’omicidio di Mino Pecorelli contiene anche le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra, ribadite dall’intervista che rilascia in carcere a Opera all’autrice. Proprio quanto detto da Vinciguerra, peraltro, ha convinto il pubblico ministero Erminio Amelio a riaprire le indagini sull’omicidio, nel febbraio 2019. “Pecorelli” dice Fanelli a Dagospia “era un bravissimo giornalista ed è stato per anni coperto dal fango con lo scopo di delegittimare il lavoro di una persona che forse aveva scoperto la verità su fatti scottanti”. Nel libro, a cui Fanelli ha lavorato per due anni, dunque, si formula una ipotesi mai presa in considerazione e si va a fondo a 360 gradi. Per esempio con la testimonianza di Stefano Pecorelli, figlio di Mino, che per la prima volta rompe il silenzio dal Sudafrica, dove vive. Non poteva mancare, infine, la chicca delle chicche: il ruolo di Massimo Carminati, protagonista dell’ex Mafia Capitale, sospettato di appartenere ai Nar (Nuclei armati rivoluzionari) e alla Banda della Magliana. A tirarlo in ballo è l’ex agente segreto, crocevia di infinite vicende italiane e non solo, Francesco Pazienza che ci va giù veramente duro. Fino al punto da dichiarare che Carminati sarebbe stato coperto da un giudice. Un fatto è certo: il 20 marzo 1979 davanti al portone c’era una macchina con una persona che guidava e altre due sedute dietro. Ma a sparare a Pecorelli fu uno solo. Chi? Tutti lo sanno, ma nessuno lo dice. Effettivamente La Strage Continua di Raffaella Fanelli è un atto di coraggiosa investigazione giornalistica. Fatto piuttosto raro nell’anno del Coronavirus.
Dagospia il 14 ottobre 2020. Da radiocusanocampus.it. Sviluppi in arrivo per la nuova inchiesta sull’omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista fondatore della rivista OP (Osservatore Politico), ucciso a Roma il 20 marzo del 1979. Nuovi elementi per il magistrato della Procura di Roma Erminio Amelio titolare dell’inchiesta. Se ne è parlato a Cusano Italia TV durante la trasmissione “Crimini e Criminologia” curata e condotta da Fabio Camillacci. La giornalista Raffaella Fanelli, che ha fatto riaprire il caso, ha presentato “La Strage Continua”, un libro che a breve dovrebbe essere acquisito agli atti dell’inchiesta come ha annunciato ai microfoni della tv dell’Unicusano, l’avvocato Giulio Vasaturo, legale della FNSI che si è costituita parte offesa nella nuova inchiesta: “Insieme al legale della famiglia, l’avvocato Claudio Ferrazza, chiederemo l’acquisizione agli atti dell’indagine del libro di Raffaella Fanelli perché per i contenuti può essere un fondamentale strumento conoscitivo e di rilievo giudiziario nell’ambito dell’indagine in corso”. La novità rilevante emersa ultimamente, l’ha spiegata la stessa giornalista affermando: “Dopo aver intervistato Maurizio Abbatino, uno dei boss della Banda della Magliana, nel verificare una sua risposta in merito al sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, ho trovato un verbale del 1992 di Vincenzo Vinciguerra, con le parole che il neofascista di Ordine Nuovo-Avanguardia Nazionale rilasciò al giudice di Milano Guido Salvini, e in cui parla dell’omicidio di Mino Pecorelli. Vinciguerra parlò di un ricatto del quale era venuto a conoscenza attraverso le dichiarazioni di Adriano Tilgher, che fu tra i fondatori di Avanguardia Nazionale con Stefano Delle Chiaie. Tilgher e Vinciguerra erano in cella insieme e Tilgher disse a Vinciguerra che la pistola che uccise Pecorelli era in mano a Domenico Magnetta, un altro avanguardista. Magnetta –ha spiegato la giornalista- in precedenza aveva fatto a Tilgher una sorta di ricatto dicendo che se non lo avessero aiutato a uscire dal carcere attraverso le loro amicizie potenti, avrebbe tirato fuori la pistola che uccise Mino Pecorelli. Una pistola che dunque sarebbe stata conservata nell’arsenale di Avanguardia Nazionale e in particolare proprio da Domenico Magnetta; peraltro l’avanguardista arrestato con Massimo Carminati. E così, cercando nei verbali che riguardavano Magnetta ho trovato anche un verbale di sequestro di armi del 1995 dove figura una pistola dello stesso calibro di quella che uccise Pecorelli. Quando intervistai Vinciguerra nel carcere milanese di Opera, mi confermò quelle dichiarazioni. Oltretutto, dopo che Vinciguerra ne parlò col giudice Salvini, qualcuno in carcere cercò di ucciderlo. Voglio precisare che Vinciguerra non è un collaboratore di giustizia, non ha mai fatto dichiarazioni in cambio di benefici o sconti di pena ed è tutt’ora dietro le sbarre. E tutte le dichiarazioni che ha rilasciato in questi anni sono state verificate dal giudice Salvini e nessuna è risultata falsa. La pistola purtroppo non c’è –ha concluso Raffaella Fanelli- perché sembra sia andata distrutta così come non ci sono i bossoli raccolti in strada in via Orazio il 20 marzo 1979, furono sostituiti quando si indagava su Valerio Fioravanti poi prosciolto. Ma la perizia sarà fatta dalla polizia scientifica di Perugia sulle foto scattate all’epoca e quando le armi furono sequestrate. Quindi, per ulteriori sviluppi dell’inchiesta attendiamo l’esito di questa perizia”. A Cusano Italia Tv è intervenuta anche Rosita Pecorelli. La sorella del giornalista ucciso 41 anni fa ha dichiarato: “Io ritengo che questa nuova pista legata ad Avanguardia Nazionale sia il filo conduttore che può portare alla verità su mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio di mio fratello. Un filo nero legato alla ‘strategia della tensione’ che va dalla strage di Piazza Fontana alla strage di Bologna e su cui Mino ha sempre indagato. E sono contenta di essere finalmente affiancata in questa battaglia dalla Federazione nazionale della stampa italiana e per questo ringrazio il presidente Beppe Giulietti che vuole arrivare fortemente alla verità sull’uccisione di un suo collega”.
Dagospia il 2 marzo 2020. Da radiocusanocampus.it. Potrebbe essere a una clamorosa svolta la nuova indagine sull'omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso il 20 marzo 1979 a Roma. La giornalista Raffaella Fanelli che con la sua inchiesta ha permesso alla Procura di Roma di riaprire il caso, a Radio Cusano Campus ha parlato di documenti inediti e dossier dei servizi segreti mai svelati che porterebbero al movente dell’omicidio del fondatore e direttore della rivista OP (Osservatore Politico). Intervistata da Fabio Camillacci per “La Storia Oscura”, la giornalista ha rivelato: “Nelle carte raccolte dalla Procura di Bologna che ha chiuso le indagini sui mandanti della strage alla stazione del 2 agosto 1980 ci sono informazioni importanti che portano all’omicidio Pecorelli. In particolare, nel dossier redatto da Carlo Calvi, il figlio di Roberto Calvi, il banchiere del Banco Ambrosiano ucciso a Londra nel giugno 1982. Si tratta di documenti coperti da segreto che ho avuto la possibilità di visionare. In quelle carte ci sono i rapporti dei servizi segreti dell’epoca, redatti immediatamente dopo la strage e altri precedentemente, che dimostrano come le attività preparatorie della strategia stragista, con Licio Gelli mandante e Federico Umberto D’Amato organizzatore, sarebbero iniziate già nel febbraio del 1979, ovvero un mese prima dell’omicidio Pecorelli. Il direttore di OP è stato fatto fuori perchè era venuto a conoscenza del piano legato alla strategia della tensione di quegli anni”. Ai microfoni di Radio Cusano Campus è intervenuta anche Rosita Pecorelli. La sorella del giornalista assassinato ha detto: “Oggi finalmente dopo tanto tempo sono molto ottimista che si possa arrivare presto a conoscere la verità, a sapere chi uccise mio fratello e chi commissionò quell'omicidio. Non ho mollato mai in tutti questi anni e non mollerò fino all'ultimo dei miei giorni. Sono felice di avere finalmente al mio fianco anche l'FNSI. Ho ancora impresso nella mie mente tutto quello che fece Mino poche ore prima di essere ucciso cioè volle vedere tutti i suoi cari; ripensandoci, quello era il sentore della morte, l'atteggiamento di un condannato a morte. Non a caso la mattina del giorno in cui gli spararono, mio fratello mi disse che aveva mandato in tipografia un plico con materiale letteralmente esplosivo da far stampare su OP. Quel plico in tipografia non ci arrivò mai, un personaggio rimasto misterioso lo intercettò. Evidentemente, con quel plico Mino firmò la sua condanna a morte”. La FNSI ha deciso di costituirsi parte offesa nel nuovo procedimento penale a carico di ignoti aperto dalla Procura di Roma. A tal proposito l'avvocato Giulio Vasaturo della Federazione Nazionale della Stampa intervenuto a Radio Cusano Campus ha precisato: “E' stato deciso all'unanimità per dare supporto al pubblico ministero che sta indagando e per stare al fianco dei legali e della famiglia Pecorelli, erede di un grande giornalista d'inchiesta. Pecorelli era un giornalista scomodo per i potentati che negli anni 70 imperversavano, dominavano e insanguinavano l'Italia. Abbiamo motivo di credere che gli apparati deviati che hanno causato la strage di Bologna possano aver avuto un ruolo anche nel delitto Pecorelli”.
51 anni fa l'attentato. Piazza Fontana, chi furono gli autori della strage? Non basta dire fascisti…David Romoli su Il Riformista il 12 Dicembre 2020. Chi si macchiò della strage di piazza Fontana, il 12 dicembre di 51 anni fa? “Gli ordinovisti veneti” risponderebbe chiunque non volesse accontentarsi di uno sbrigativo “i fascisti”. Interrogato sul movente della mattanza, la medesima persona risponderebbe probabilmente: “Per portare al massimo livello la tensione, nella speranza di provocare un pronunciamento militare, come era avvenuto due anni prima in Grecia”. Le cose sono più complesse. Pino Rauti, uno dei leader assoluti di Ordine nuovo, la principale e più longeva organizzazione della destra extraparlamentare, era stato effettivamente nel 1966 autore con Guido Giannettini, con lo pseudonimo ”Flavio Messalla”, del libretto Le mani rosse sulle forze armate commissionato dal capo di Stato maggiore Giuseppe Aloja. Ma On è anche il gruppo che prese apertamente posizione contro il progetto golpista: «Il colpo di Stato militare è sempre un fatto controrivoluzionario, uno dei tanti mezzi attraverso i quali l’ordine costituito trova una momentanea e forzosa soluzione alle contraddizioni che paralizzano il sistema». Lo stesso On, fu, durante il golpe Borghese dell’8 dicembre 1970, una vicenda meno boccaccesca di quanto sia stato poi fatto credere, il solo gruppo della destra radicale a tirarsi indietro. Non per passione democratica, certo, ma perché, come disse Clemente Graziani, l’altro leader storico del gruppo, a Rauti: «È certamente un progetto conservatore dietro il quale potrebbero esserci settori della Dc». On, come tutta la destra radicale italiana, è stato molte cose diverse, a volte opposte. Il volume di Sandro Forte Ordine nuovo parla. Scritti, documenti e testimonianze (Mursia, 2020, pp. 317, euro 22.00) permette di rendersene conto. Non è propriamente una storia del gruppo ma una panoramica cronologica della sua elaborazione politico-culturale, delineata con evidente simpatia, dunque certamente parziale. Supplisce però a una carenza che rende difficile mettere davvero a fuoco la storia di quel periodo. Considera cioè On per quel che voleva essere ed era: un’organizzazione politica, la cui parabola non si può cogliere se si concentra l’interesse, come fa lo studioso Aldo Giannuli nella sua storia di On, solo sui rapporti e sui contatti degli ordinovisti con le centrali della destabilizzazione neofasciste in Europa, basandosi esclusivamente sulle note e sulle informative dei servizi segreti. Come se l’elaborazione politico-culturale, per un’organizzazione politica, fosse un particolare insignificante. Abitudine del resto comune: nei decenni sono usciti centinaia di volumi sul delitto Moro senza che gli autori si siano quasi mai presi la briga di analizzare la Risoluzione strategica che del sequestro e della sua gestione era all’origine. Forte fa parlare i testi, gli articoli, a volte le testimonianze. L’impressione che ne deriva è che la parabola del più agguerrito gruppo neofascista sia stata non solo mutevole nel tempo ma anche più divisa e contraddittoria al proprio interno di quanto lo stesso autore non segnali. L’attività del Centro Studi Ordine Nuovo fuoriuscito dal Msi negli anni ‘50 non va oltre la pubblicistica e la saggistica, su posizioni molto diverse da quelle del Movimento Politico Ordine Nuovo, nato dopo il rientro di Rauti nel Msi, che verrà sciolto nel novembre 1973 dal ministro degli Interni Taviani, come quella che lui stesso definì “una scelta politica, non un atto dovuto”. La lotta contro il comunismo russo e la democrazia americana da un lato, la guerra dei bianchi contro i popoli colonizzati dall’altro erano i cavalli di battaglia della prima On, influenzata sin nelle virgole da Julius Evola. Il primo vessillo verrà abbandonato quando nei ‘60, in nome della comune crociata anticomunista, soprattutto Rauti mette da parte l’antiamericanismo e si lega anzi alla destra del Partito Repubblicano. La seconda bandiera verrà rovesciata nei primi ‘70, quando On passa dalla difesa strenua dei colonizzatori all’esaltazione della rivolta dei colonizzati. Ma ai vertici dello stesso gruppo, la “svolta atlantista” e golpista (su sua stessa ammissione) di Rauti non sembra condivisa, o lo è con palese diffidenza, dal “rivoluzionario” Graziani, che non seguirà Rauti nel Msi e darà vita al Movimento Politico On. Come si incrocia questo libro, che del 12 dicembre quasi non parla, con la visione storica della strage che cambiò la mentalità degli italiani? I colpevoli sono accertati, anche se mai puniti perché già assolti con sentenza definitiva. A differenza della strage di Bologna, quasi tutti, negli stessi ambienti della destra, sono convinti che verità storica e processuale in questo caso coincidano. Ma le definizioni con cui viene indicato di quel massacro, “strage fascista”, “strage di Stato”, sono insieme giustificate e fuorvianti. Confondo almeno quanto chiariscono, forse anche di più. La strage fu fascista, perché dagli ambienti del neofascismo veneto, che si può assimilare a Ordine nuovo solo con una enorme forzatura essendo un’area del tutto autonoma, venivano gli autori del crimine. Fu “di Stato”, perché lo Stato, almeno in alcune sue articolazioni, aveva senza dubbio creato le strutture finalizzate alla provocazione dalle quali provenne e discese Piazza Fontana e perché, dopo il 12 dicembre, lo Stato tutto scelse consapevolmente di indicare negli anarchici i colpevoli precostituiti. Ma parlare senza sfumature di strage fascista e di Stato finisce per identificare con lo stragismo un intero ambiente, in realtà molto diversificato e articolato come la ricerca di Forte dimostra, e finisce anche per attribuire allo Stato tutto e direttamente una responsabilità che è invece parziale e indiretta. È probabile che nessuno nello Stato e neppure ai vertici del neofascismo e di Ordine Nuovo volesse la strage, che fu invece frutto di una forzatura da parte di un gruppo nazista particolarmente feroce e determinato come quello di Freda. In parte, all’origine della confusione che impedisce di mettere nitidamente a fuoco cosa successe non solo il 12 dicembre ma in tutti i primi anni ‘70, c’è una conoscenza dell’estrema destra di allora che oggi è scarsa e fino a pochi anni fa inesistente e che si limita, come fa Giannuli nel suo libro su On, a considerare gli ordinovisti come manovalanza del terrore. Il libro di Forte si muove all’estremo opposto. Glissa sui particolari della assoluta internità di una parte di On al “partito del golpe”. In compenso restituisce la realtà di un’area che, per quanto minoritaria, sideralmente distante e nemica la si consideri, era a tutti gli effetti una realtà politica e culturale dell’Italia del secondo Novecento.
Il giudice Salvini: Preparavano lo stato di emergenza. Senza giustizia, Piazza Fontana 1969-2019. I rapporti tra i nostri servizi segreti e Ordine Nuovo non furono occasionali ma organici, secondo un reciproco scambio di favori contro il nemico comune, che erano il Pci e le sinistre. Mario Di Vito il 10.12.2019 su Il Manifesto. Guido Salvini è l’uomo che più di tutti ha cercato nei tribunali la verità sulla strage di piazza Fontana. Negli anni ’70 faceva parte di un collettivo chiamato Movimento Socialista Libertario: una frangia ridottissima della sinistra extraparlamentare milanese del periodo («In sostanza eravamo in due: io e Michele Serra», dice oggi con un sorriso) di estrazione cattolica e radicale. Tempo dopo, a metà anni ‘90, da giudice istruttore del tribunale di Milano, Salvini avrebbe rimesso le mani sulla bomba di piazza Fontana, arrivando a processare i neofascisti Maggi e Zorzi, condannati all’ergastolo in primo grado e poi assolti in Appello e in Cassazione. La maledizione di piazza Fontana è l’ultima opera del magistrato, da poche settimane in libreria per Chiarelettere. Una storia amara di depistaggi e misteri, ma i segreti rivelati non sono più segreti e, a distanza di mezzo secolo dalla bomba, la verità è qualcosa in più della somma dei dubbi e dei sospetti accumulati.
Lei dice che la strage ormai non è più un mistero. Perché?
«Anche se la sentenza della Cassazione del 2005 ha assolto Maggi e Zorzi, ha confermato che responsabili della strage siano state le cellule venete di Ordine Nuovo, come avevano già visto negli anni ‘70 i magistrati Stiz e Calogero».
C’è stato però il ribaltamento totale del verdetto in Appello.
«È un problema di valutazione delle prove raccolte. Le sentenze vanno rispettate ma ritengo discutibile la logica della frammentazione degli indizi, ognuno dei quali viene valutato singolarmente e non concatenato a quelli successivi. Un modo di procedere che finisce per sottovalutare contesto storico e moventi, portando inevitabilmente all’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove».
Era già avvenuto con Freda e Ventura.
«Sì, anche in quel caso nel processo di appello. Comunque la sentenza del 2005 ha stabilito esplicitamente la responsabilità di Digilio, prescritto perché aveva collaborato, e la colpevolezza di Freda e Ventura, che non erano però più processabili in quanto definitivamente assolti nel precedente processo: il risultato sul piano giuridico è stato parziale ma su quello storico si è fatta invece definitiva chiarezza».
Cosa doveva succedere dopo quel 12 dicembre?
«Quel giorno ci furono tra Milano e Roma cinque attentati. Due giorni dopo avrebbe dovuto tenersi a Roma un grande raduno della destra, manifestazione che venne sospesa all’ultimo momento dal ministero dell’Interno. Ci sarebbero stati gravi incidenti che avrebbero reso inevitabile la dichiarazione dello stato di emergenza. Probabilmente fu anche il fatto che l’attentato alla Bnl di Roma fallì a non dare la forza sufficiente agli eversori per far precipitare la situazione».
Piazza Fontana e le altre stragi chiamano in causa la connivenza di parte dei nostri apparati di sicurezza.
«I rapporti tra i nostri servizi e Ordine Nuovo non furono occasionali ma organici, secondo un reciproco scambio di favori contro il nemico comune, costituito dal Pci e dalle sinistre con la tutela poi dell’inconfessabile segreto su quanto avvenuto. In molti casi uomini delle istituzioni ostacolarono il lavoro dei magistrati, fabbricando false piste, occultando reperti, agevolando l’espatrio di ricercati. Non si trattò di singole mele marce».
Il «lasciamoli fare» era la logica dei vertici della politica di allora?
«Sono esistiti livelli di collusione della politica sottili, una disponibilità a beneficiare di una strategia terroristica che avrebbe giovato al rafforzamento degli assetti di potere e allontanato il pericolo comunista. Qualche bomba dimostrativa come avvenuto nei mesi precedenti, non certo una strage come quella di piazza Fontana. È probabile che Ordine Nuovo andò oltre quelli che erano i taciti accordi».
A livello umano che impressione ha avuto degli esponenti di Ordine Nuovo?
«Erano autentici fanatici imbevuti di un’ideologia mitica, spesso esoterica e comunque del tutto antistorica. I loro piani, in un paese con una democrazia radicata come l’Italia, non potevano che fallire».
Nella sua indagine ha avuto degli ostacoli?
«Sì, e dall’interno del mio mondo purtroppo. Se il Csm non mi avesse reso le indagini e la vita impossibili con la minaccia del trasferimento d’ufficio e con i procedimenti disciplinari, finiti nel nulla ma durati sei anni, non sarebbero andate perse quelle energie che servivano per raggiungere l’intera verità. Chi ha voluto quegli attacchi contro di me porta addosso una grande responsabilità».
Quante vie partirono da piazza Fontana…Marcello Veneziani, La Verità 12 dicembre 2019. Ma cosa è stata, cosa ha rappresentato la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre ‘69 nella storia e nella vita italiana? Sta lì al centro di un’epoca come cerniera incandescente tra i briosi anni Sessanta e i furiosi anni Settanta, come l’Evento Oscuro per antonomasia, un enorme mistero insoluto che non riusciamo ancora a chiudere definitivamente. Facile liquidarla come una strage fascista, ma poi resta incomprensibile il mistero che la circonda, che la originò e che ha circondato i suoi veri e presunti protagonisti. Ne abbiamo scritto nello speciale di Panorama storia dedicato a Una strage italiana. Un mistero che si fa ancora più fitto se si considera quella strage come la prima di una lunga, insensata e feroce catena di stragi a Brescia, a Firenze, a Bologna. Se la strage di Milano, a tre settimane dall’assassinio del poliziotto Antonio Annarumma, poteva avere avuto come scopo suscitare una controrivoluzione preventiva contro il caos, l’eversione, l’anarchia, a cui si attribuì in un primo tempo l’eccidio, le stragi seguenti come quella di Brescia o dell’Italicus o della stazione di Bologna a cosa servirono se non a spaventare l’Italia e criminalizzare l’estrema destra? Non si faceva in tempo a dare la notizia e prima di ogni indizio i tg e i giornali già la bollavano come “strage di chiara marca fascista”. Che scopo potevano avere i terroristi di destra a suscitare questa ondata di odio, repressioni e carcere contro se stessi? Il terrorismo nero è una pagina oscura della nostra storia, non si comprendono i confini, le finalità, i collegamenti. A dover spiegare quelle stragi alla luce del cui prodest, sappiamo per certo che non giovarono all’estrema destra, e tantomeno alla destra politica e parlamentare che nel nome delle “trame nere” si trovò criminalizzata, ricacciata in un ghetto ed esclusa. Agli inizi degli anni Settanta il Msi aveva raccolto un grande successo politico, di piazza e di voti. E le stragi furono la principale arma usata contro il partito di Almirante e l’area di destra per isolarli e demonizzarli per un disegno eversivo di cui erano palesi vittime. Quelle stragi servirono a riaccendere in Italia la mobilitazione antifascista e a reinserire il partito comunista nel gioco politico attraverso la ripresa del Cln nell’arco costituzionale. E servirono a far nascere nel paese la paura degli estremismi e la necessità di governi consociativi. Meglio un’infame sicurezza che il fanatismo dei terroristi. In quelle stragi si trovarono invischiati, accusati e scagionati, personaggi di estrema destra, oscillanti tra nazifascismo, anarchia e servizi segreti. Ogni atto terroristico di matrice nera si convertiva in una retata negli stessi ambienti dell’estrema destra. Se c’era un disegno dietro le stragi quel disegno era semmai concepito contro di loro, o comunque passava sopra le loro teste; i neri che vi parteciparono furono piuttosto manovrati, usati e poi gettati dopo l’uso. Qui subentra il Mistero Profondo della storia italiana: che ruolo ebbero i servizi deviati, gli apparati statali in queste operazioni? Col tempo si parlò anche di matrici straniere, servizi americani, sovietici e medio-orientali; nelle ultime stragi emerse il ruolo della mafia che adottava strategie di diversione. Ma il nodo centrale resta lì e bisogna nuovamente pronunciare la domanda fatidica: furono allora stragi di Stato o comunque di settori dello Stato che rispondevano a grandi registi politici, anche collusi con la criminalità? Gira e rigira non riusciamo a trovare spiegazioni alternative. Più lineare è stato il terrorismo di matrice comunista, dalle Brigate rosse a Prima linea e agli altri gruppi terroristici di ultrasinistra. Si colpivano obbiettivi mirati, simboli e personaggi-chiave del sistema o giovani militanti di destra. Le Br cercarono pure di far saltare il compromesso storico tra Pci e potere democristiano-capitalistico-atlantico. A lungo negato nella sua matrice comunista, quel terrorismo ha goduto di complicità e omertà assai estese. Giorni fa è morto il magistrato genovese Mario Sossi che fu sequestrato dalle Brigate rosse nel ’74. Tra le sue indagini imperdonabili, Sossi si era occupato di un personaggio chiave, l’avvocato Lazagna, ex-partigiano ritenuto un ponte non solo simbolico tra la vecchia e la nuova Resistenza. A tale proposito nello stesso ’74 accadde un episodio ad un altro magistrato, Gian Carlo Caselli, che lo raccontò sulla rivista MicroMega: “In quel periodo, ai tempi delle Brigate rosse, non si poteva pensare diversamente che subito si era accusati di essere fascisti. I primi tempi delle inchieste sulle Br io ero trattato da fascista. Di fatto, sono stato espulso da Magistratura democratica – vogliamo dirle queste cose una buona volta? – perché facendo il mio dovere, ho osato portare a giudizio l’avvocato Lazagna (un partigiano doc che assisteva a tutti i convegni di Md”. Caselli aveva emesso su richiesta del pm Caccia, “un mandato di cattura contro Lazagna per collusione con le Br, in base a fatti riscontrati” e perciò, diceva il magistrato torinese “sono stato di fatto “condannato” ed espulso da Magistratura democratica”. Strana storia…Ma tornando a Piazza Fontana, fu un evento-chiave non solo perché fu l’inizio delle stragi oscure, ma anche perché da lì originò la vicenda Pinelli-Calabresi, la condanna a morte del Commissario da parte di Lotta continua, preceduta da quelle famose ottocento firme contro Calabresi che restano una vergogna della storia civile e intellettuale d’Italia. Insomma, troppo facile sbrigare Piazza Fontana con la pista fascista e la storia che ne segue come lo svolgimento di una trama nera: quella strage aprì una stagione infame, che fu rossa, nera e oscura, soprattutto oscura. MV, La Verità 12 dicembre 2019.
Mughini: «Lotta continua non ha lasciato nulla. Nel sentire comune quella stagione non c’è». Paolo Morelli su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.
Lo scrittore è fra le voci del documentario «Lotta Continua» (nel programma del Tff): «Un piccolo gruppo credette di poter diventare attore di una storia. Ma oggi un ragazzo di 25 anni non ha idea di quell'azione politica»
«In quel giornale non sono mai entrato, non lo leggevo neppure tanto, ma ho fatto il direttore responsabile, ho preso 3 condanne e ho subito 28 processi, pagando le spese da me». Giampiero Mughini, giornalista e scrittore, è fra le voci del documentario «Lotta Continua» di Tony Saccucci, che l’ha scritto con Andrea De Martino e Eleonora Orlandi ispirandosi al libro «I ragazzi che volevano fare la rivoluzione» di Aldo Cazzullo (Mondadori, 1998).
La pellicola è fuori concorso al 40esimo Torino Film Festival, attesa il 2 dicembre (ore 20.30 al Cinema Romano) e racconta la storia del movimento facendo parlare alcuni protagonisti. Ci sono Erri De Luca, Vicky Franzinetti, Marco Boato, Donatella Barazzetti, poi Gad Lerner, Paolo Liguori, Vincenzo Di Calogero, Cesare Moreno, Andrea Papaleo, Marino Sinibaldi e — forse il più critico — Giampiero Mughini, che firmò il loro giornale dopo la richiesta dell’allora leader Adriano Sofri (perché un giornale esca, serve un direttore iscritto all’Albo dei professionisti).
«Ho accettato e lo rifarei adesso, perché i giornali devono uscire e la voce di Lotta Continua era la più autentica», dice Mughini, molto distante da quell’area. Negli anni ha pubblicato libri molto critici come «Gli anni della peggio gioventù. L’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione» (Mondadori, 2009).
Il film è prodotto da Verdiana Bixio per Publispei con Luce Cinecittà, Rai Documentari e Rai Play, dove andrà come serie dal 4 dicembre, poi come film su Rai Tre il 12 gennaio, ed è definito «equilibrato» da Steve Della Casa, direttore del Tff che prese parte a Lotta Continua.
Mughini, lei nel film attacca i «militanti». Qual è la differenza fra loro e i leader?
«Adriano Sofri era il capo dei militanti, fra i talenti della mia generazione insieme a Marco Boato, oppure Enrico Deaglio, bravissimo direttore del giornale, Mauro Rostagno e il torinese Guido Viale. Il “militante” è il personaggio medio che nei cortei gridava cose che oggi non ricorda nemmeno più, come “uccidere un fascista non è reato”. Aveva una responsabilità anche chi lasciava gridare queste cose, tante parole erano usate con leggerezza e io ho sempre pensato che le parole fossero importanti».
Secondo lei il movimento ha sbagliato?
«Sì, credendo che un gruppetto potesse diventare l’attore protagonista di una storia complessa come quella di una democrazia industriale moderna. In Italia, a quell’epoca, c’era il più grande partito comunista europeo e c’era un partito socialista che ai tempi di Bettino Craxi era molto vivo. Il movimento pensava che questa fosse robetta».
Che cosa ha lasciato Lotta Continua?
«Nulla. Le nostre vite sono state segnate, ma nel sentire diffuso non c’è più niente. Oggi un ragazzo di 25 anni non ha idea di cosa sia. I libri di Adriano Sofri, ad esempio, sono importanti, ma sono i suoi libri, non di Lotta Continua».
Però era un periodo di fermento a tutti i livelli.
«C’era un’ondata generazionale che ha investito tutta Europa con effervescenze non da poco. Ho dedicato la mia vita alla storia della mia generazione e molti dei terroristi li conoscevo già prima, come Valerio Morucci, a lungo mio amico dopo che si era dissociato dal terrorismo. Lo ammiro di più rispetto a quelli di Lotta Continua che prendevano le distanze dall’omicidio Calabresi».
Erri De Luca, nel film, dice che qualunque militante dell’epoca avrebbe potuto farlo. Cosa ne pensa?
«È stata una caratteristica di un momento della storia italiana, non solo di Lotta Continua, che tuttavia ha all’attivo o al passivo l’omicidio che fa da atto di nascita del terrorismo rosso: quando una mattina una persona attende il commissario Calabresi, va alle sue spalle e gli spara. Molti militanti di Lotta Continua andarono via per fondare Prima Linea, gruppo terrorista che ne ha fatte tante quanto le Brigate Rosse».
Silvia Bombino per “Vanity Fair” l'8 marzo 2022.
Esterno, giorno. Gemma ha un cappotto rosso quando va all’obitorio. Un tailleur azzurro al funerale. Ha tre figli da crescere, sola. Presenzia ai processi. Piange alla fine. Riceve una medaglia. Stringe la mano alla vedova Pinelli.
Interno, notte. Un divano, un letto, il tavolo della cucina, il telefono e lo specchio del bagno ascoltano, in silenzio, le urla, le risate, le confessioni, i soprannomi, le parole mai dette di Gemma, dei suoi quattro figli - Mario, Paolo, Luigi e Uber -, del suo secondo marito Tonino e i bau di Milo, il golden retriever che oggi ha sei anni ed è il padrone di casa.
Qual è la differenza tra la scena e il retroscena, tra quello che si vede e quello che succede nelle stanze delle proprie case? Gemma Calabresi Milite, 75 anni, a 50 dall'omicidio del marito, il commissario Luigi Calabresi, traccia una linea netta con La crepa e la luce, il libro che ha scritto per raccontare la sua storia.
Che non sta tanto nelle cronache politiche e giudiziarie, ma è la propria educazione sentimentale e resilienza, e contiene delle domande che appartengono a tutti: si può perdonare chi ci ha fatto del male? Meglio fidarsi o essere prudenti? Si deve ricordare tutto o è meglio dimenticare? Quando entro in casa, Milo scodinzola, vuole giocare. A furia di carezze si accoccola accanto a noi, in salotto. Fa la guardia.
Partiamo dal divano. Quello in cui lei sprofonda il 17 maggio 1972, quando il suo parroco le dice: Luigi è morto.
«Su quel divano ho incontrato Dio. È stata una conversione. Ero una ragazza degli anni '60 che suonava la batteria e metteva la minigonna, ero cattolica per consuetudine di famiglia, non era una mia scelta.
In quel divano sono caduta con un dolore lancinante, anche fisico, alle ossa. I soprammobili sembravano guardarmi, le cose comprate insieme, tutto girava e non aveva più senso. Non so quante ore sono rimasta lì. Poi all'improvviso ho avuto una sensazione di ovattamento, di grande pace, e ho iniziato a sentirmi forte. Riesco a pensare: ce la farò. E dico al parroco: diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell'assassino. Non poteva essere farina del mio sacco».
Nonostante quella «conversione», lei confessa di aver immaginato di infiltrarsi negli ambienti dell'estrema sinistra dell'epoca e vendicarsi.
«La fede non toglie il dolore, ma lo riempie di significati. Ci sono stati anni bui, di tristezza, abbandono, pianto, e sì, sognavo di ammazzarli. Però mi ricordavo di quel divano».
Sua madre le suggerisce il necrologio, dal Vangelo: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
«A tanta violenza bisognava rispondere con parole d'amore».
Anni dopo si accorge del vero senso di quella frase.
«Nessun sacerdote me lo aveva mai spiegato, è stata un'Epifania: sulla croce non è Cristo che perdona. Chiede al Padre di farlo. È un uomo, non riesce. Scoprire che non dovevo perdonare io chi aveva ucciso Luigi mi ha liberato».
I suoi figli hanno perdonato?
«No. Hanno voltato pagina, cercano di vivere in pace. Io dico sempre: vedrete che quando avrete la mia età ce la farete».
È stata un'equilibrista, tra il desiderio di vivere ancora e quello di non offendere il passato, col dubbio che perdonare o risposarsi potesse essere un'offesa per chi non c'era più.
«Avevo 25 anni quando sono rimasta vedova, incinta del mio terzo figlio. Era normale che avrei poi avuto il desiderio di riavere una vita. Una volta Luigi me lo aveva chiesto: se restassi sola, ti risposeresti? Avevo risposto no e lui era felice. Ho pensato molto a quella promessa ma non mi sono mai sentita in colpa, poi.
Perché lo immaginavo nella gioia eterna. Infatti spesso mi arrabbiavo, quando avevo difficoltà coi ragazzi, adolescenti: certo, la fatica la faccio io, non tu, che sì sei stato ucciso, però ora sei in pace, aiutami! Sono convinta che sia stato Gigi a farmi incontrare un nuovo amore, Tonino, il mio secondo marito».
Lo chiamava Gigi: racconta che lui faceva una crostata buonissima e la decorava con «Ge» e «G i». L'ha mai rifatta?
«La crostata no, mai più. Era sua. Ho cucinato molto, però. Come gli involtini che piacevano al papà».
Ha cresciuto i figli nel segno della fiducia e dell'accoglienza.
«Rabbia e odio ti imprigionano. E poi Gigi era uno molto spiritoso, alla Alberto Sordi, prima dell'ultimo periodo. Lo stesso divertimento che oggi ritrovo nei miei figli».
Come quando la prendono in giro perché non toglie la medaglia d'oro al valor civile alla memoria di suo marito che le consegna il presidente Ciampi...
«Non perché mi servisse per sapere chi fosse Luigi Calabresi, ma era importante il fatto che lo Stato, dopo 32 anni, finalmente riconoscesse che un suo servitore era una persona di valore... L'ho tenuta tutto il giorno, i miei figli ridevano e mi dicevano che sembravo un ufficiale dell’Armata Rossa».
Non si sono arrabbiati quando ha buttato via lettere e articoli di giornale che riguardavano Luigi?
«Ho tenuto le più belle, quelle le lascerò a loro».
C'è qualcosa che i suoi figli scopriranno col libro?
«Della lettera più cattiva che ho ricevuto. Una coppia di amici di Luigi mi avevano scritto parole di cordoglio, ma sul retro del foglio si leggeva: chi la fa l'aspetti. L'ho distrutta subito. E anche per il timore, pensi che stupida, che se l'avessero letta i miei magari il dubbio sarebbe venuto anche a loro».
E molto umano.
«Vero? Ho convissuto spesso con il dubbio degli altri, su Luigi... Ma, al famoso tavolo della cucina, avevo deciso: lo riabiliteremo con il nostro comportamento e il nostro amore».
Tutte le volte che, in questi anni, qualcuno cerca, di nuovo, di «infangare» Luigi, lei come si sente?
«Se qualcuno tira fuori il dubbio, sto male. Il perdono non mi toglie il dolore o il desiderio di giustizia».
Dei 757 firmatari della lettera aperta dell'Espresso nel 1971, quanti sono venuti da lei a scusarsi?
«Quattro o cinque, in cinquant'anni ».
Rimasta sola, si è resa conto dell'odio riservato a suo marito dopo la morte di Pinelli, da cui lui l'aveva preservata. Poi ha ricevuto altre minacce?
«Solo una, poco dopo la confessione di Marino. Il telefono ha detto: "Farai la fine di Pinelli"».
Tra le «regole» che Luigi le aveva imposto, c'era quella di girarsi per controllare di non essere seguiti. Sono automatismi che le sono rimasti?
«Sì, la strada la guardo sempre. Soprattutto se c'è qualcuno fermo, senza senso».
Dopo le condanne, in aula, ha pianto. Perché?
«Non erano lacrime di gioia, né di vendetta. Pensavo ai figli di quelle persone, ero triste per loro. Prego quasi ogni giorno perché abbiano la pace nel cuore... Un tempo li chiamavo assassini».
Oggi come?
«I responsabili della morte di Luigi. Sono stata un'insegnante di religione per 31 anni, e grazie a un mio alunno che mi chiedeva perché dei morti si ricordano solo le cose belle ho capito che dei vivi non si possono ricordare solo le brutte.
Non ho diritto di appiattirli per sempre all'atto peggiore che hanno fatto. Saranno anche buoni padri, buoni mariti, buoni amici. Loro avevano disumanizzato Luigi, per annientarlo, io ho ridato ai carnefici la loro umanità, e così sono riuscita a perdonarli».
I suoi, di figli, hanno avuto un doppio trauma: prima essere rimasti orfani, poi capire perché lo erano. Che cosa ha provato quando ha scoperto che suo figlio Mario, a 14 anni, andava in biblioteca a leggere Lotta Continua?
«Pensando alla ricerca solitaria di Mario, e a quello che neanche io avevo avuto cuore di dirgli - gli insulti, le vignette infamanti, le minacce - sono stata male. Ma capisco che ricostruire la storia era necessario».
Racconta anche che, all'inizio, quando andava al cimitero, i suoi figli giocavano con i giocattoli lasciati sulle tombe dei bambini. Ha mai invidiato la normalità degli altri?
«Sì, ed era una tristezza che mi prendeva soprattutto quando, d'estate, nella casa in montagna con i miei, al venerdì arrivavano i papà dal lavoro. E allora vedevo tutti i bambini correre sullo stradone incontro ai loro padri... Lì facevo tanta fatica. I miei fratelli per fortuna erano attenti, e salutavano prima i miei figli. Erano affettuosi e pieni di progetti per il weekend».
La depressione, che l'ha colta in alcuni momenti della sua vita, l'ha curata anche ricorrendo alla psicoterapia?
«Ci sono andata in tre occasioni. Prima di sposarmi con Tonino, perché ero ancora molto triste. Ma la terapista disse subito che non avevo un profilo patologico, avevo subito un dolore grandissimo ed era normale che non andasse via.
La seconda volta ci sono andata perché prima di avere il mio quarto figlio, Uber, avevo avuto due aborti spontanei al terzo mese. Dovevo elaborare un blocco inconscio: quando era morto Gigi ero incinta di tre mesi ed era come se, tra un marito e un figlio, il mio corpo scegliesse di tenersi il primo.
L'ultima volta ci sono andata dopo l'incidente che ho avuto anni fa, cadendo e sbattendo la testa. Dopo la riabilitazione non volevo più uscire di casa, avevo paura di tutto».
Nonostante la fede, la terapia, la sua grande e bella famiglia, c'è qualcosa che è ancora «rotto» in lei?
«La ferita rimane, ho la cicatrice. Che ogni tanto fa più male, altre volte mi risparmia».
Quanto le pesa essere, praticamente da sempre, e nonostante il secondo matrimonio, «la vedova Calabresi»?
«È stata pesante perché è una storia infinita. Però più forte del peso è stata la solidarietà che ho ricevuto. Perché l'amore degli altri è stato immenso, l'amore che non sapevo, quello della maggioranza silenziosa, dei tanti che ci hanno scritto, inviato un regalo, raccontato di avere pregato per noi.
Mi fermano per strada ancora oggi. Lo sappia: gli altri sono la cosa più importante che abbiamo sulla terra. Non i familiari e gli amici intendo, proprio gli sconosciuti. Per cui non ce l'ho fatta io, ce l'abbiamo fatta noi. Il libro l'ho scritto anche per questo: volevo ringraziarli tutti».
Luigi Calabresi mezzo secolo dopo, il dovere della memoria. ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2022.
Martedì 17 un incontro al Teatro Gerolamo con la vedova e i figli del commissario assassinato nel 1972. Intervengono anche la ministra Marta Cartabia e Paolo Mieli.
Via Cherubini a Milano, dove Luigi Calabresi venne ucciso il 17 maggio 1972
Lo uccisero a Milano sotto casa sua, a colpi di pistola, il 17 maggio 1972, cinquant’anni fa. L’assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi fece seguito a una violenta campagna di stampa contro la vittima, accusata di essere responsabile per la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana.
Negli attacchi a Calabresi si distinse soprattutto il giornale «Lotta continua», organo dell’omonimo gruppo della sinistra extraparlamentare. E proprio a Lotta continua appartenevano coloro che, dopo un lungo e controverso iter giudiziario cominciato nel 1988, sono stati condannati per il delitto in seguito alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Marino: Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri.
A questa vicenda è dedicato l’incontro intitolato «Luigi Calabresi e il senso di questi cinquant’anni», che si tiene a Milano martedì 17 maggio alle ore 18.30 presso il Teatro Gerolamo (piazza Cesare Beccaria, 8), con ingresso a inviti. Racconteranno la loro drammatica esperienza di vita la vedova del commissario, Gemma Capra, che ha appena pubblicato il libro autobiografico La crepa e la luce (Mondadori), e i figli Mario (giornalista e scrittore, già direttore della «Stampa» e della «Repubblica»), Paolo e Luigi.
Sono previsti anche interventi della ministra della Giustizia Marta Cartabia e di Paolo Mieli, storico ed editorialista del «Corriere». La presenza di quest’ultimo è particolarmente significativa perché nel 1971 fu tra i firmatari, molto numerosi e illustri, di un appello comparso sul settimanale «L’Espresso» contenente espressioni molto dure nei riguardi del commissario Calabresi. Un gesto del quale a più riprese Mieli ha detto che si vergogna di averlo compiuto.
La serata, che sarà animata dalle letture di Luca Zingaretti e dalle musiche di Manù Bandettini, rievocherà un momento tragico della nostra storia, i primi terribili passi degli anni di piombo, ma nello spirito pacato, improntato al perdono, che è stato sempre proprio della famiglia Calabresi, nonostante la situazione difficile in cui si trovò la signora Gemma a 25 anni, sola con due figli piccoli e un terzo in arrivo. A questo proposito vale la pena di ricordare i suoi due incontri con Licia Pinelli, vedova di Giuseppe, in un clima sereno di reciproco rispetto.
Gemma Calabresi: «Volevo uccidere gli assassini di Luigi, Dio ha fermato la mia vendetta. E ho perdonato». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2022.
Gemma Calabresi Milite, la vedova del commissario Luigi Calabresi, si racconta in un libro a 50 anni dall’omicidio: sono stata arrabbiata con lui perché mi lasciò sola. Per i suoi killer ho sempre pregato
Signora Gemma, quando vide per la prima volta suo marito Luigi Calabresi?
«Era il Capodanno del 1968, non avevo ancora ventidue anni. I miei erano a Courmayeur, io ero da sola a Milano e non avevo niente da fare. La mia amica Maura insistette perché la accompagnassi a una festa. Lo vidi subito, all’ingresso, e dissi alla mia amica Maura: “Guarda quello, mica male…”».
Com’era?
«Elegante: doppiopetto scuro, con un righino leggero bianco. Ci ha sempre tenuto molto. Alto, prestante: un bell’uomo. Per tutta la sera ballò solo con me. Poi andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Lui mi tolse il bicchiere, lo posò, e mi diede un bacio».
E lei?
«Io avevo avuto qualche piccolo flirt, ma non mi era mai successo nulla del genere. Amore a prima vista. Mi chiese il numero di telefono. Risposi veloce: “4042334, e non te lo ripeto”. Il giorno dopo Gigi mi chiamò. L’aveva tenuto a mente».
Sulla copertina del suo libro «La crepa e la luce» c’è la foto del vostro matrimonio.
«Ci sposammo il 31 maggio 1969, la prima data in cui il nostro parroco, don Sandro, aveva la chiesa libera. Al ritorno dal viaggio di nozze in Spagna aspettavo già Mario. Abbiamo fatto tutto in fretta, e ora so perché».
Perché?
«Perché avevamo poco tempo. E tutto nella vita ha un tempo, e un senso. Siamo parte di un disegno. Volevamo molti figli, ed era giusto così, perché ognuno di loro ha un compito, ognuno ha da fare cose importanti per se stesso, per Dio, per gli altri. I miei figli sono il dono più bello».
Mario si chiama come il nonno materno, suo padre.
«Misi la condizione di non chiamare il secondo Paride, come il papà di Gigi. Infatti il secondo si chiama Paolo, come il suo migliore amico. Ma quando annunciai ai miei che aspettavo il terzo figlio, mio padre reagì male. Chiese: era proprio il caso?, e si mise a piangere. Mi sembrò fragile. Invece aveva capito tutto».
Piazza Fontana. La morte di Pinelli. Suo marito gli aveva mai parlato di lui?
«Sì. Si conoscevano bene, si regalavano libri a Natale. Commentavano i fatti, discutevano. Gigi si fermava sempre a parlare con i ragazzi fermati dopo i cortei, anche se il suo capo, Allegra, lo rimproverava. Voleva capire perché gettavano le molotov, perché si armavano. Dopo la sua morte ho ricevuto molte lettere di genitori e anche di giovani che volevano ringraziarlo per questo. Di recente al Miart di Milano ho incontrato uno scultore, un mio coetaneo, che mi ha detto: “Suo marito mi ha salvato, altrimenti avrei preso il mitra”. Era un ragazzo arrivato a Milano dal Sud, figlio di poliziotti, tentato dalla lotta armata…».
Cosa le disse suo marito della morte di Pinelli?
«Quello che gli raccontarono i suoi colleghi: che era caduto. Lui non era nella stanza. Dalla morte di Pinelli era distrutto. Quella notte non chiudemmo occhio. Quella, e tante altre notti».
Cominciò la campagna contro di lui.
«Trovavo le scritte sui muri vicino a casa, nella discesa verso la metro: “Calabresi assassino”, “Calabresi sarai giustiziato”, “Calabresi farai la fine di Pinelli”. Gigi una volta mi chiese: se dovessi restare sola, ti risposeresti? Risposi di no, e fu contento. Era un gelosone… Cercava di proteggermi».
Come?
«Faceva sparire le lettere minatorie, i giornali in cui si parlava di lui. Mi diede delle regole: mai dare il nome Calabresi, neanche dal parrucchiere. Le poche volte che andavamo al ristorante, sempre un tavolo appartato. Le poche volte che andavamo al cinema, entrare a film iniziato e uscire qualche minuto prima. Fare attenzione se qualcuno mi seguiva, o mi aspettava per strada. Lui però non ha fatto attenzione, non si è accorto di Bompressi e Marino che lo aspettavano…».
Non aveva paura?
«Sì, ne aveva. Una sera in casa sentimmo un botto di là, lui chiese al suo amico Paolo: mi accompagni a vedere? Temeva stessero sparando dalle finestre. Invece si era rotta la lavatrice».
Però non portava la pistola.
«La teneva smontata, in un cassetto, tra i maglioni. Diceva che tanto l’avrebbero colpito alle spalle. Un giorno ebbi un presentimento. Davanti alla farmacia di corso Vercelli mi dissi: sarai vedova. Scoppiai a piangere. Poi mi scossi: sei scema? Quando Gigi tornò a casa, tardi come sempre, pensai: lo vedi? È arrivato, tutto bene. Era un venerdì. Lo uccisero il mercoledì dopo».
Lei teneva un diario.
«Un po’ per polemica verso mio marito: “Gigi rientra tardi”, “Gigi passa a salutare poi torna in questura…”. Mai avrei immaginato che sarebbe servito al processo, per confermare il racconto di Marino. Avrebbero dovuto ucciderlo il giorno prima, ma rinunciarono perché non avevano visto la macchina sotto casa. In effetti la sera del 15 maggio io annoto nel diario: “Gigi torna presto!!!”. Aveva trovato posto in cortile, la 500 blu non era parcheggiata per strada come al solito. Guadagnò un giorno di vita».
Come ricorda il 17 maggio 1972?
«Era uscito, poi era tornato indietro per cambiarsi la cravatta. Ci ha sempre tenuto molto. Quella mattina aveva pantaloni grigi, giacca scura con i bottoni di madreperla, e una cravatta di seta rosa. La cambiò con una bianca e mi chiese: come sto? Stai bene Gigi ma stavi bene anche prima, gli risposi».
E lui?
«Sì, ma questo è il segno della mia purezza. È l’ultima frase che mi ha detto. La frase che mi ha lasciato».
Chi la avvisò della sua morte?
«Era il primo giorno di lavoro per la nuova signora delle pulizie. Arrivò in ritardo, trafelata: “Mi scusi, hanno sparato a un commissario…”. Mio marito è un commissario, risposi. Lei fu prontissima: “Cos’ha capito, hanno sparato a un commissario in piazzale Baracca, hanno fermato il tram e sono dovuta venire a piedi…”. Quella donna aveva compreso, era stata velocissima a inventarsi una frottola, cui io fui felice di credere. Non l’ho mai rivista. Ho ripensato molte volte a lei. Ha attraversato la mia vita nel giorno più drammatico, si è presa cura dei bambini, e non l’ho neppure pagata…».
Da chi seppe?
«Telefonai in questura; non rispondevano. Insistetti; attaccarono il telefono. Chiamai dal telefono della vicina, risposero: non è ancora arrivato. Poi suonò alla porta un sarto nostro amico, il signor Federico. Per anni mio figlio Mario ha avuto paura del signor Federico, anche se lui gli portava bellissimi regali…».
Cosa le disse il signor Federico?
«Niente. Mi guardava pallido, impietrito. Io lanciai un urlo: “Noooooo!”. Poi feci un gesto come per indicare i soprammobili, i libri, le cose comprate nel viaggio di nozze, come a dire: tutto questo non avrà più senso. Il signor Federico tentò di abbracciarmi, ma io non volevo essere abbracciata, così cominciai a girare, e Mario aggrappato alla mia gonna girava con me, e con suo fratello che era ancora nella mia pancia. L’ho chiamato Luigi, come il padre».
Non morì subito.
«Il signor Federico disse che lo stavano operando, il vicequestore che era ferito alla spalla, un collega diede un’altra versione. Arrivò don Sandro, il prete che ci aveva sposati, e mi accompagnò dai miei. Fu don Sandro a dirmi: è morto. Lo disse senza emettere suoni, solo con i muscoli della bocca. Me lo ricordo sempre quel volto che dice: è morto».
E lei?
«Mi accasciai sul divano. Mi sentivo distrutta, svuotata, abbandonata. Un dolore lacerante, anche fisico. Non so quanto tempo sono stata lì, con le mani nelle mani di don Sandro. So che a un certo momento Dio è arrivato».
Dio?
«Dio era lì con me, su quel divano. Ne sono assolutamente certa. Ho sentito una pace profonda. Tutto, le persone che parlavano piangevano gridavano, tutto era ovattato, distante».
Lei aveva già fede?
«Avevo avuto un’educazione religiosa come quasi tutti gli italiani, andavo in chiesa la domenica con Gigi, ma non ero particolarmente religiosa. Il dono della fede arrivò allora. Proposi a don Sandro: “Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino”. Ma non era roba mia. Io ero una ragazza di venticinque anni cui avevano appena ammazzato il marito. Era Dio che mi indicava la strada, che rendeva testimonianza attraverso di me. Lì ho capito che ce l’avremmo fatta, io e i bambini. Certo, sapevo che la vita non sarebbe più stata la stessa. Ma sentivo che non ero sola. Dio era già stato allertato, forse dai miei vicini di casa…”».
In che modo?
«Il nostro appartamento dava sull’interno; per questo non ho sentito gli spari, né ho visto il corpo. Ma i miei vicini hanno sentito, hanno visto. E per primi hanno pregato per lui. Così Dio è venuto da me».
E lei andò all’obitorio.
«Accarezzai il viso di Gigi, e ritrassi la mano: era già freddo. Gli accarezzai i capelli, ma erano rigidi, forse impregnati di sangue; ma io volevo ricordarmi i suoi capelli morbidi, lunghi, almeno per un poliziotto… E poi sì, l’avevano colpito alle spalle».
Cosa accadde fuori dall’obitorio?
«C’erano dei ragazzi che inveivano contro mio marito, che gridavano insulti e slogan. Mio fratello Dino ebbe un gesto gentile: mi tappò forte le orecchie, così non sentii nulla, solo il battito accelerato del cuore. Ora, io vorrei dire a quei ragazzi, cinquant’anni dopo, che hanno fatto una cosa terribile. Puoi anche essere contento in cuor tuo che abbiano ucciso il commissario Calabresi; ma non puoi urlarlo in faccia alla vedova, che poi era una ragazza poco più grande di loro. La morte esige silenzio».
Dei funerali cosa ricorda?
«La bandiera sulla bara. Volevano toglierla prima di seppellirlo, dicevano che andava restituita. Qualcuno dalla folla gridò: “Deve riposare con il tricolore!”. Così glielo lasciarono. È un pensiero che mi conforta».
Lei ebbe segni di ostilità, ma anche di solidarietà.
«Ogni giorno arrivava un pacco con un regalo per i bambini. Un bavaglino per Mario, una tutina per Paolo, una copertina per Luigi che doveva ancora nascere. Ma siccome all’obitorio indossavo un cappottino rosso, la prima cosa che avevo trovato per coprirmi in un maggio ancora freddo, dalla Sicilia mi scrissero: “Svergognata!”. Una coppia di amici di Gigi mi mandò una lettera di due pagine. Nella prima c’erano frasi di circostanza, che finivano con un “d’altronde”. Nella seconda pagina era scritto: “Chi la fa l’aspetti”. Mi sono sempre chiesta perché. Perché volessero ferirmi come se fossi la moglie di un assassino».
Nel necrologio lei scrisse le parole di Gesù in croce: «Perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
«Il cardinale di Milano Colombo disse che quelle parole erano un fiore che sarebbe fiorito nel tempo. E così è stato. Ma ci ho messo tutta la vita a perdonare. All’inizio volevo, al contrario, vendicarmi».
Vendicarsi come?
«L’unico momento di pace nella giornata erano i dieci minuti tra quando prendevo il Tavor e quando mi addormentavo, nel lettone accanto a mia madre, che papà mi aveva ceduto: ero tornata a vivere dai miei. In quei dieci minuti immaginavo di mettermi una parrucca rossa e infiltrarmi nei circoli dell’estrema sinistra, fino a quando non avrei trovato qualcuno che si vantava di aver ammazzato Calabresi. A quel punto avrei tirato fuori dalla borsetta la pistola. E gli avrei sparato. Se ripenso a quella ragazza e alla sua rabbia provo tenerezza. La cosa più importante della mia vita è stata questo cammino della pacificazione e del perdono, durato cinquant’anni».
Andava a trovarlo al cimitero?
«Tutte le settimane. Io gli parlavo, mentre Mario, Paolo e Luigi giocavano con gli altri bambini».
Quali altri bambini?
«Il loculo di Gigi era accanto alle tombe dei bambini, dove c’erano le macchinine e gli altri giocattoli lasciati dai genitori. Nel libro scrivo che i miei figli avevano il permesso di giocarci, a patto di rimettere tutto a posto. Quando Mario ha letto le bozze, mi ha fatto notare che invece avevano il permesso di portare a casa le macchinine, purché le sostituissero con altre. Idealmente si scambiavano i giocattoli con quei bambini che non c’erano più».
Signora Gemma, è una cosa straziante.
«Soffrivamo tutti, però Gigi era con noi. L’ho sempre fatto sentire vivo. Pettinavo i bambini come lui, con la riga: adesso ci pettiniamo come papà, dicevo. Preparavo gli involtini che gli piacevano tanto, dicevo: papà li avrebbe mangiati tutti, e loro facevano a gara a finirli. Qualche volta ho fatto sentire la voce del padre, registrata sul magnetofono Geloso; poi ho smesso, perché li intristiva. A Mario avevo detto: papà è andato a prepararci una casa dove vivere tutti insieme. Lui ogni sera mi chiedeva: ma quando è pronta questa casa? Era un bambino un po’ triste. Ma dal papà, come i fratelli, ha preso una certa spavalderia. Raccontavo loro i suoi scherzi…».
Quali scherzi?
«Anche feroci. In questura c’era un collega dongiovanni, che cambiava una fidanzata dopo l’altra. Gigi fece stampare false partecipazioni in cui annunciava il suo matrimonio: i colleghi si congratulavano, gli facevano i regali, e quello non si capacitava…».
Lei non aveva ancora trent’anni. Non aveva amici?
«Amici e niente più. Qualche volta uscivo, ma al ritorno i miei mi dicevano che uno dei bambini si era svegliato, e mi sentivo in colpa».
Poi, nella scuola dove insegnava religione, incontrò il suo secondo marito, Tonino Milite.
«Quando scoprì che avevo tre figli, disse: sarà dura dividere la michetta in cinque… Non ci eravamo ancora sfiorati. Poi abbiamo avuto un altro figlio, Uber. Dal latino: ubertoso, fertile, felice».
Tonino Milite era un pittore comunista.
«I miei, democristiani, non ne erano contenti. Poi capirono. Paolo e Luigi cominciarono a chiamarlo papi. Mario invece per anni l’ha chiamato per nome».
Cosa votava il commissario Calabresi?
«All’inizio Dc, poi socialdemocratico. E io pure, perché lo seguivo».
Nel 1988 finirono in carcere per il suo assassinio gli ex militanti di Lotta continua Marino e Bompressi, e gli ex dirigenti Sofri e Pietrostefani. «Dicevo che avrei dato dieci anni di vita in cambio della verità. Me ne hanno portati via undici. I processi furono il mio calvario».
I giornali erano quasi tutti innocentisti.
«È vero. Però nessuno ha mai scritto una riga contro di noi. Ai figli avevo detto: riabiliteremo papà con il nostro comportamento e con il nostro amore. Saremo come lui ci voleva. Dovranno riconoscere: una persona che ha avuto una moglie e dei figli così non può aver ammazzato qualcuno, non può aver gettato un altro uomo dalla finestra».
Ha mai pensato che gli accusati potessero essere innocenti?
«Ho anche detto: noi rispetteremo le sentenze, e non le commenteremo. Quando ci fu la prima condanna, piansi al pensiero della figlia di Bompressi, una bella ragazza dai capelli rossi, che avevo visto più volte. Ho perdonato tutti, anche se all’inizio in aula mi imponevo di fare la faccia dura, cattiva. E per tutti ho sempre pregato, a volte chiamandoli per nome, a volte pensando genericamente ai tanti che avevano inveito, che avevano firmato».
Il manifesto contro il «commissario torturatore» fu firmato dai più importanti intellettuali italiani.
«Alcuni, da Paolo Mieli a Eugenio Scalfari, hanno chiesto scusa. Altri, come Fulco Pratesi, mi hanno assicurato che non sapevano niente: erano iscritti a gruppi che aderivano e davano i nomi dei soci. Altri ancora, quando li ho incontrati, non mi hanno vista, o hanno fatto finta di non vedermi. Ma ora sono in pace con tutti».
Però i condannati non le hanno chiesto perdono.
«Questo per me non ha alcuna importanza. Il perdono non si chiede, si dà. È il frutto del cammino iniziato su quel divano, da quel necrologio. Non è stato un percorso facile. A volte bastava una frase, un articolo, per farmi tornare indietro. E comunque Marino il perdono l’ha chiesto».
Chiese anche di incontrarla, ma lei all’inizio rispose di no.
«C’era un processo in corso. Lo scorso anno però ci siamo visti. Lui cercò di minimizzare: “Io ho solo guidato la macchina, e per guidarla c’era la fila…”. Gli risposi che sapeva dove andava quella macchina, e che per me tutti erano responsabili allo stesso modo. Forse sono stata troppo severa. Certo, apprezzavo la sua confessione, il suo pentimento. E siccome l’avevano fatto sentire un traditore, alla fine gli ho detto: chi dice la verità non tradisce mai».
Suo figlio Mario ha incontrato Pietrostefani.
«Pietrostefani era il più duro, il più impenetrabile. Ma alla fine Dio è andato anche da lui».
Se ne attende l’estradizione.
«Saperlo in carcere non mi darebbe alcuna gioia. Me ne darebbe invece sentire parole di verità. All’inizio vedevo in loro soltanto degli assassini, ma ho capito presto che erano stati anche altro. Buoni padri, ad esempio. Persone che avevano fatto volontariato. Che avevano fatto anche del bene».
Con Sofri ha mai parlato?
«No».
Sogna ancora suo marito Luigi?
«A lungo non l’ho sognato. Poi ho cominciato a fare due sogni, sempre gli stessi. Nel primo corriamo insieme per mano, ma lui resta indietro, e muore. Nel secondo andiamo al ristorante, c’è un’esplosione, io esco ma lui resta, e c’è una seconda esplosione. Prima quei sogni mi angosciavano. Poi mi ha fatto piacere rivedere il suo volto. Noi siamo invecchiati, lui invece è sempre giovane».
A Luigi non sarà dispiaciuto che lei si sia risposata?
«No! Lui è lassù, è felice, ha una visione ben più ampia della nostra. Sono io che in passato sono stata arrabbiata con lui, che mi aveva lasciata sola…».
È certa di rivederlo?
«Tutti rivedremo le persone care. Ne sono sicura da quando Dio venne a trovarmi, seduta su quel divano».
Qualcuno vorrebbe farlo santo.
«Ma no! Era un poliziotto che amava il suo lavoro, e ne conosceva i rischi. Era una brava persona, ma una persona normale. Come ha detto nostro figlio Luigi: ci manca solo che lo facciano santo, e me lo portino via del tutto».
Nel 2009 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Quirinale riceve Licia Pinelli, vedova di Giuseppe e Gemma, vedova di Luigi. Entrambe sono state insignite dell’onorificenza di commendatrici al Merito della Repubblica Italiana.
Lei ha incontrato la vedova Pinelli, grazie a Napolitano.
«Per decenni hanno tentato di contrapporci, di presentarci come nemiche. Invece eravamo solo due donne che si erano ritrovate vedove, lei con due figlie. Quando sono arrivata al Quirinale era già là, seduta. Ci siamo date la mano. Poi si è alzata e ci siamo abbracciate. Io ho detto: finalmente. Licia ha risposto: peccato non averlo fatto prima».
Lei chiude il libro dicendo che senza quella tragedia oggi sarebbe una persona peggiore. Perché?
«Perché ho avuto tanto dolore ma anche tanti incontri, tanto affetto, tanto amore, tanta solidarietà, tanta gente che ha pregato per me. Ho scoperto che la cosa più importante della vita sono gli altri. Ho fatto un percorso inverso a quello dei terroristi. Loro disumanizzavano le vittime, illudendosi di uccidere dei simboli. Io li ho umanizzati, arrivando a capire che c’erano vittime anche tra loro».
Calabresi, il silenzio che pesa. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2022.
La sentenza definitiva di condanna non è mai stata accettata non solo da tre degli imputati, non solo dalla comunità di Lotta continua, ma da larga parte della sinistra italiana
Dopo la strage di piazza Fontana, l’assassinio del commissario Luigi Calabresi fu il primo delitto politico della storia repubblicana (a Torino era stato assassinato il 16 aprile 1952 il dirigente della Fiat Erio Codecà, ma la matrice politica dell’omicidio non fu mai provata).
Ne gli anni successivi al 1972 sarebbero caduti decine di poliziotti, carabinieri, magistrati, dirigenti d’azienda, giornalisti, professori universitari, guardie carcerarie, financo operai che rifiutarono l’omertà. Ma Luigi Calabresi fu la prima vittima di un attacco mirato, contro un obiettivo preciso. Certo, dobbiamo ribadire che c’era già stata la strage fascista nella Banca dell’Agricoltura, e altre ne sarebbero venute. Resta un fatto: l’assassinio di cui oggi ricorre il cinquantesimo anniversario fu la scintilla che riaccese la guerra civile italiana, o almeno quella mimesi, quella riproduzione in piccola scala che furono gli anni che chiamiamo di piombo.
Anche per questo fare piena luce sull’assassinio di Luigi Calabresi è di particolare importanza, per la storia della nostra comunità nazionale.
C’è stata una confessione, quella di Leonardo Marino, l’autista che guidava l’automobile dell’omicida. C’è stata una chiamata in correo. Ci sono stati dieci anni di processi, arrivati — dopo un tormentato percorso — a una sentenza definitiva di condanna per Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani, Adriano Sofri. Esiste quindi una verità giudiziaria. Non possiamo parlare di mistero italiano irrisolto.
Tuttavia sarebbe ipocrita tacere che quella sentenza definitiva di condanna non è mai stata accettata non solo da tre degli imputati, non solo dalla comunità di Lotta continua, ma da larga parte della sinistra italiana. Certo, molti degli ottocento intellettuali che a suo tempo firmarono il manifesto contro il «commissario torturatore» hanno chiesto scusa alla famiglia. Uno di loro, il grande regista Marco Bellocchio, l’ha fatto di persona dieci giorni fa, presentando a Castenedolo il libro della signora Gemma Calabresi Milite, «La crepa e la luce». Ma contro la condanna di Marino, Bompressi, Pietrostefani e Sofri si combatté una battaglia civile: si tornò a raccogliere firme; molti giornali sposarono la linea innocentista; Dario Fo portò in tutta Italia uno spettacolo intitolato «Marino libero! Marino è innocente!». Poi, più nulla. Silenzio. Conversazioni private, come quella tra il primogenito di Luigi Calabresi, Mario, e Giorgio Pietrostefani, di cui la signora Gemma ha detto in un’intervista al Corriere: «Dio è passato anche da lui».
Il 9 maggio scorso Mario Calabresi ha parlato alla Camera. E ha pronunciato queste parole: «Alcune tessere del mosaico ancora mancano. Molti di coloro che hanno ucciso o hanno fiancheggiato sono ancora tra noi; da mezzo secolo si sono rifugiati nel silenzio e nell’omertà. Il coraggio della verità sarebbe per loro un’occasione irripetibile e finale di riscatto. Il gesto che permetterebbe di chiudere una stagione».
Mario Calabresi forse non si riferiva solo all’assassinio di suo padre. Ma nel momento in cui parla degli uomini che «da mezzo secolo», quindi dal 17 maggio 1972, «si sono rifugiati nel silenzio e nell’omertà», si riferisce certo anche all’assassinio di suo padre.
Nessuno, tra i militanti dell’estrema sinistra in cui certamente maturò il delitto, e in particolare tra i militanti di Lotta continua cui la magistratura l’ha attribuito — anche in seguito alla confessione di uno di loro —, ha ritenuto di dover rispondere con una parola, una sola, all’appello di Mario Calabresi.
Qualcuno potrebbe replicare: abbiamo sempre detto che i nostri compagni sono innocenti; cos’altro potremmo aggiungere?
In realtà, Lotta continua non è il monolito che viene considerata. Per fare un solo nome, Erri De Luca non si è mai riconosciuto nella linea dei «trasecolati». «Chiunque di noi potrebbe avere assassinato Calabresi. Chiunque, tranne Marino» ha sempre sostenuto De Luca; offrendo una sorta di scambio, tra la libertà dei compagni e la verità. È possibile che tra gli ex militanti di Lotta continua la linea dei «trasecolati» non sia così condivisa. Sull’uso della violenza dissero in passato parole di verità, ad esempio, Paolo Sorbi e Massimo Negarville. È uscito ora un interessante libro (non sul caso Calabresi ma sulla stagione dei servizi d’ordine) di un altro dirigente torinese di Lc, Fabrizio Salmoni. In generale, però, dopo la stagione della militanza, sembra adesso prevalere un infastidito silenzio. Come a dire: facciamo finta di nulla, l’anniversario passerà.
Forse è comprensibile; certo è deludente. Forse non è omertà; certo è mancanza di coraggio.
Luigi Calabresi, il ricordo del figlio Mario: «Tra la folla sulle tue spalle, papà». Mario Calabresi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
Il giornalista ricorda il padre Luigi commissario ucciso 50 anni fa: «Avevo solo 2 anni e c’era una banda musicale. Sento ancora la sensazione di stare attaccato ai suoi capelli mentre mi stringe le gambe. Fui attirato da un trombone, me lo fece toccare. Ero felice».
Si può fare pace con la memoria grazie a una foto trovata in mezzo a sette milioni di negativi? Sì, se quella foto conferma il primo ricordo di una vita, se ti dice che quella sensazione che ti porti dietro da mezzo secolo era realtà. È una storia lunghissima che comincia cinquant’anni fa, il 17 maggio 1972. Alle 9.15 del mattino il commissario Luigi Calabresi, mio padre, veniva ucciso sotto casa in via Cherubini 6 a Milano con tre colpi di pistola alle spalle. Era l’alba degli Anni di Piombo, tre anni prima c’era stata la strage di Piazza Fontana, ma per la prima volta con quell’omicidio era stato scelto un bersaglio, era stata costruita una campagna per distruggerlo e alla fine lo si era eliminato. Sarebbe successo centinaia di volte negli anni successivi. Quella stagione si sarebbe conclusa tre decenni dopo con l’omicidio del professor Marco Biagi, colpito per le sue idee riformiste sul mercato del lavoro. L’omicidio di mio padre è lontano nel tempo quanto lo era il giorno della sua morte dalla marcia su Roma. Il mondo è completamente cambiato, non esistono più i partiti storici, è caduto il Muro di Berlino, è tornata la guerra in Europa, abbiamo conosciuto un altro terrorismo, di matrice islamica, sono nati internet e i social network, hanno inventato le auto elettriche e quelle a guida autonoma e l’Italia ha vinto due mondiali di calcio. Eppure il «caso Calabresi» non riesce a diventare finalmente un pezzo di storia e di memoria privata, continua a rimanere prigioniero della cronaca.
È accaduto perché gli assassini, appartenenti al gruppo Lotta Continua, vennero individuati 17 anni dopo, perché i processi ebbero un numero record di gradi di giudizio e si protrassero per quindici anni, perché poi seguì un decennio di dibattiti sulla clemenza e la grazia. Sembra incredibile ma domani, dopo cinquant’anni e un giorno, si terrà a Parigi l’udienza per l’estradizione dell’organizzatore dell’omicidio, Giorgio Pietrostefani, che oggi ha 78 anni e da venti è latitante in Francia. Verrebbe da dire che siamo tutti, la nostra famiglia e la società italiana, prigionieri della cronaca. Come uscirne? Alzando lo sguardo, dando sepoltura e ricordo ai morti e pacificandosi con i vivi. Mia madre ha insegnato a me e ai miei fratelli a non odiare, a non coltivare il rancore ma a guardare la vita con fiducia e serenità. Per questo, pur giudicando importante e preziosa, anche se tardiva, la decisione francese di non garantire ospitalità a chi si macchiò di reati di sangue negli Anni Settanta, noi oggi crediamo che il carcere di un uomo vecchio e malato non abbia più alcun senso. Più importante sarebbe avere da lui e dai suoi compagni di lotte parole di verità.
La fotografia
Ma torniamo a quella fotografia. Di mio padre conservo un solo ricordo: ero sulle sue spalle, eravamo in una piazza, in mezzo alla folla e c’era una banda musicale. Io ero un po’ spaventato dalla calca e dal rumore ma ero incredibilmente attratto dalla grande apertura dorata di un trombone. Lui mi chiese se volessi toccarlo, poi si mise a camminare e scavalcò qualcosa. Sento ancora la sensazione fortissima di stare attaccavo ai suoi capelli mentre lui mi stringe le gambe. Ci avvicinammo alla banda, lui parlò con qualcuno, chiese qualcosa, si piegò sul trombone e me lo fece toccare, solo per un attimo. Ero felice, non avevo più paura della folla, mi sembrava tutto solare e caldo. Quella sensazione di pienezza la sento ancora oggi, netta e pulita. Allora avevo solo due anni e mezzo e di quell’unica immagine non ne ho parlato con nessuno per molto tempo. Temevo potesse svanire, perché è l’eredità che mi ha lasciato: mi ha regalato la tranquillità in mezzo al disordine, una specie di pace che mi prende quando tutto intorno accelera. La raccontai a mia madre solo negli anni del liceo e lei confermò tutto, andò a prendere l’agenda-diario che teneva allora e c’era scritto: «14 maggio: Gigi porta Mario a vedere la sfilata degli alpini. Rientra con paste, gelato e rose». Tra le pagine c’è ancora oggi una rosa di quel mazzo.
L’archivio
Due anni e mezzo fa, a ottobre del 2019, entrai per la prima volta in un luogo meraviglioso, una miniera di memorie che era contenuta nel caveau blindato di una banca alla periferia di Milano: l’archivio Publifoto, un’immensa collezione di immagini che raccontano l’Italia dagli Anni Trenta alla fine del secolo scorso. L’archivio, che rischiava di andare disperso, venne acquistato da Intesa Sanpaolo e oggi è parte delle Gallerie d’Italia di Torino che hanno inaugurato proprio ieri. Venni accolto dalle archiviste, mi fecero fare un giro e mi mostrarono delle vetrine che contenevano i quaderni con l’elenco dei servizi fotografici scattati ogni giorno. Ne aprirono una e il caso volle che fosse quella del 1972. Io istintivamente afferrai un volume che aveva scritto «maggio» sul dorso, spiegai che volevo vedere che servizi erano stati fatti il giorno della morte di mio padre e poi ai funerali. Sfogliammo a partire dal 17 maggio, ma dopo un’istante sentii un’urgenza di tornare indietro, avevo fretta di andare alla domenica prima, il 14 maggio. Ci arrivammo e io trattenni il fiato, c’era scritto: «Sfilata degli alpini» e a seguire una serie di numeri di negativi e provini. Chiesi se potessi vederli e pochi minuti dopo li avevo tra le mani. Sono partito da una busta piena di provini, mi avevano chiesto di indossare dei guanti bianchi di tessuto per non rovinare quei piccoli pezzi di memoria, e con grande delicatezza avevo tirato fuori un primo mazzo di scatti. Non ho avuto nemmeno bisogno di cercare, quasi subito mi sono trovato tra le mani la fotografia che avevo nella testa fin da bambino: il trombone. Non ci potevo credere, avevo sotto gli occhi proprio una meravigliosa campana dorata, quella parte dello strumento che mi era rimasta impressa e che avevo toccato. Sullo sfondo le guglie del Duomo di Milano. Il mio ricordo aveva un’immagine fisica, era uscita dal tempo ed era davanti ai miei occhi, lo avevo tra le dita. Allora ho cominciato a sperare di trovare qualcos’altro, non sapevo nemmeno cosa, ma avevo sempre più fretta, così sono passato alla prima scatola: i negativi con le immagini della folla. Li ho sparsi sul tavolo, ho preso il lentino che mi avevano fornito e ho cominciato a passarli in rassegna, stavo cercando qualcosa che era sepolto nella memoria da decenni.
Quando ho visto lo scorcio di Largo Cairoli che guarda verso Via Dante ho sentito in modo forte e chiaro che ero al posto giusto. Dopo un attimo ho capito cosa stessi cercando: un bambino sulle spalle del padre. Il primo che ho trovato aveva un cappottino bianco e un cappellino, ma non mi diceva nulla. Il secondo era sulle spalle di un papà con un’impermeabile beige, ma lui era biondo. Poi ne ho trovato uno con una testa e delle orecchie simili alle mie, aveva una maglia chiara e del padre si intuivano solo le spalle e una giacca grigia. Ho smesso di cercare. Sono rimasto in silenzio. Mi sono improvvisamente calmato. Tutto era andato a posto. Ho chiesto se fosse possibile stampare la foto in un formato grande e quando me l’hanno consegnata, qualche settimana dopo, sono andato a trovare mia madre, le ho indicato il bambino e le ho chiesto: «Ho mai avuto una maglia così e papà aveva una giacca del genere?». «Sì, direi di sì», fu la risposta. «Pensi che possa essere io?». «Ti somiglia, ma come possiamo saperlo con certezza?». Siamo stati un po’ a guardare e a fare supposizioni e poi mi ha chiesto: «È importante sapere se eri proprio quello?». No, è più importante sapere che è accaduto e quella foto ha rimesso le cose a posto e le ha consegnate alla memoria.
Achille Serra: «Il mio amico Luigi Calabresi è stato ucciso ogni giorno, per due anni e mezzo». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
Luigi Calabresi (1937-1972)
Il prefetto fu il primo ad arrivare la mattina del 17 maggio 1972 in via Cherubini: «Era ancora vivo, mi attaccai alla radio. Sua moglie aprì la porta e disse: ho capito tutto. Il questore? Mi guardò piangendo»
Nelle due vicende che segnano la storia di Milano, e indelebilmente quella dell’Italia del Dopoguerra, Achille Serra entra in prima persona, da giovane poliziotto. La sua è la prima volante ad arrivare il 12 dicembre 1969 alla Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana. Lui, passato alla squadra Mobile, è il primo ad arrivare la mattina del 17 maggio 1972 in via Cherubini. Di Luigi Calabresi era amico, entrambi romani, divisi da solo quattro anni d’età (qui il ricordo del figlio Mario Calabresi).
Prefetto Serra, che ricordo ha del commissario Calabresi?
«Uomo mite, religioso, uno straordinario padre di famiglia, un bellissimo uomo. L’ho conosciuto nel ‘69. Al mio arrivo a Milano, avevo 28 anni e fui affidato a lui che era all’Ufficio politico ma aveva già grande esperienza. Nacque un feeling straordinario. Mi insegnò moltissimo, soprattutto una cosa».
Quale?
«Il dialogo, il punto di riferimento della mia vita professionale».
Lei era il “poliziotto senza pistola”, che è diventato anche il titolo del suo libro. Anche Calabresi non portava mai l’arma d’ordinanza.
«Ho questo ricordo indelebile: un giorno mi dice di salire in auto, usciamo dalla Questura e andiamo in piazza della Repubblica. C’era una manifestazione del movimento studentesco, avevano cattive intenzioni nei confronti del consolato americano».
Luigi Calabresi, il ricordo del figlio Mario: «Tra la folla sulle tue spalle, papà»
Erano gli anni delle rivolte di piazza, dei movimenti operai e studenteschi, di Lotta continua...
«Non erano anni facili per la polizia, a quei tempi si discuteva di disarmare gli agenti. Arriviamo in piazza, Calabresi scende e si avvicina agli schieramenti. Io pensavo che stesse per ordinare la carica, mi nascosi dietro la macchina. Invece vidi una scena fantastica: andò prima a parlare con il movimento studentesco, poi con gli agenti».
Immaginava che Calabresi potesse essere ucciso?
«Ne avevo la certezza matematica. Non ero il solo. Sui muri, nei documenti firmati da certi intellettuali famosissimi, nei cortei c’erano striscioni “Calabresi assassino”. Luigi è stato ucciso ogni giorno, per due anni e mezzo».
Una campagna incessante che trasformò il commissario in un simbolo oltre che in un obiettivo. Perché nessuno fece nulla?
«Sono molto inquieto quando penso al governo di allora che non prese provvedimenti che gli avrebbero salvato la vita. Poteva essere trasferito d’ufficio».
Morì senza scorta.
«Eravamo nel cortile di via Fatebenefratelli, gli chiesi: “Gigi, ma perché non te ne vai? Tua moglie è incinta, ci sono i figli”. Lui mi rispose: “Ma perché me ne devo andare, cos’ho fatto? Tu che faresti?”. Ecco, lo avrei fatto anch’io».
Calabresi venne ucciso da un commando di Lotta continua per vendicare la morte in Questura di Giuseppe Pinelli al termine dell’interrogatorio per la strage di piazza Fontana. Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani nel 2000 sono stati condannati in via definitiva.
«Come tutti sanno Calabresi era in un’altra stanza quando morì il povero Pinelli. E questo è assodato. In realtà era in grande confidenza con Pinelli, si scambiavano libri».
Oggi saranno 50 anni dall’omicidio. Cosa ricorda di quella mattina?
«Arrivò la chiamata, avevano sparato a un uomo in strada in via Cherubini. Il capo della mobile mi mandò subito lì. I vicini di casa mi dissero che si trattava di Luigi, il corpo era già stato portato via dall’ambulanza. Era ancora vivo. Mi attaccai alla radio: hanno ammazzato Calabresi, fate venire il questore, tutti i dirigenti. Lui non era ancora morto in quel momento».
Anche in piazza Fontana fu il primo ad arrivare.
«Si pensava allo scoppio di un tubo del gas. In questi casi si manda il più giovane, ero a Milano da pochissimo. Vidi una scena che ho ancora negli occhi e che non dimenticherò mai. Mi attaccai alla radio: mandate cento ambulanze. Mi presero per matto, inesperto. Purtroppo non mi sbagliavo».
In via Cherubini fu lei insieme al questore Ferruccio Allitto a parlare alla moglie del commissario.
«Allitto era un uomo di grande durezza, sapeva che conoscevo bene Calabresi: “accompagnami su dalla moglie”. Lei aprì e disse: “ho capito tutto”. Una grandissima donna, ricordo la sua dignità».
Cosa le disse il questore?
«Mi guardò piangendo: “hanno ucciso il mio migliore uomo”».
Il giorno dei funerali lei fu tra i poliziotti che portarono la bara di Calabresi. Martedì mattina sarà alle celebrazioni in suo ricordo.
«Lottammo contro il capo della polizia Angelo Vicari per accompagnare la bara dalla questura alla chiesa di San Marco. Non volevano si facesse un corteo. Quella fu una vergogna nazionale. Un uomo così grande non poteva essere nascosto. Sono particolarmente onorato di averlo fatto».
Calabresi, la lezione 50 anni dopo: «Sete di verità, non di giustizia». Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
La moglie Gemma e i figli chiedono luce sulle circostanze dell’attentato mortale. La ministra Cartabia: loro mi hanno indicato la via, quella della riconciliazione.
L’inizio sono foto, in bianco e nero, o a colori ingrigiti, foto del matrimonio, di sorrisi, foto di una moglie e di un marito, una madre e un padre, e di bambini, e poi di bambini diventati ragazzi. La donna nelle immagini ha il sorriso splendido di una ragazza felice. E poi alla fine eccola di nuovo, quella donna, sale sul palco, dice: «Ho 75 anni, all’epoca ne avevo 25». Ha quello stesso sorriso, largo, aperto. «Ho scelto di fare la pace con la vita e con gli altri». E nessuno saprà mai (forse Dio), quale sia il filo che nell’espressione del suo volto, in un tempo così lungo, dia una forma così simile all’espressione della felicità e della pace. In mezzo c’è il percorso che la signora Gemma Calabresi, con i figli Mario, Paolo e Luigi, ha fatto dal 17 maggio 1972, giorno dell’omicidio del marito e padre Luigi, commissario di polizia.
«La verità conta di più del carcere»
A cinquant’anni di distanza la commemorazione al teatro Gerolamo di Milano, dopo quella del mattino in questura, ha un senso più profondo. Lo spiega Mario Calabresi: «Passato questo tempo, vorremmo che la vicenda fosse consegnata da una parte alla storia, dall’altra alla memoria privata». Non sarà così, almeno non subito. Perché oggi si terrà a Parigi l’udienza per l’estradizione di Giorgio Pietrostefani, l’organizzatore dell’omicidio. Spiega ancora Mario Calabresi: «Oggi a noi che un uomo di 78 anni malato vada in carcere non restituisce più niente, sarebbe più importante qualche parola di verità». E da qui inizia il racconto e la riflessione del ministro della Giustizia, Marta Cartabia, che sottolinea di parlare «al cospetto» della famiglia Calabresi. Ricorda il momento, da poco aveva assunto il suo incarico, in cui la Francia aprì all’ipotesi dell’estradizione: «Le reazioni furono divergenti. Ma Gemma e Mario mi hanno mostrato la strada. Non la sete di giustizia, ma sete di chiarezza e di reale possibilità di riconciliazione, che non può esistere senza la verità». Un sentiero da seguire: «La giustizia riparativa passa dall’incontro. Passa dalla risposta al bisogno di verità. Ma guarda oltre, alla possibilità di spingersi con uno sguardo più avanti». Quel che insegna la famiglia Calabresi.
L’incontro con Leonardo Marino
L’altro figlio Paolo racconta l’incontro con Leonardo Marino, l’uomo che guidava l’auto degli assassini e poi ha permesso di attribuire le responsabilità per l’omicidio: «È stato un incontro di due ore. Cosa sono due ore in 50 anni? Niente. Ma ci ha dato un impulso, l’importante è non stare fermi, senza dimenticare da dove si è partiti». Anche il capo della polizia, Lamberto Giannini, ha detto ieri parole analoghe a quelle della famiglia. Anche se i figli e la moglie del commissario Calabresi sottolineano che questi 50 anni sono serviti anche «per la riabilitazione della memoria» del padre e marito, dopo anni di campagne di diffamazione. Lo ha ricordato lo storico ed editorialista del Corriere, Paolo Mieli, spiegando che lo slogan sulla bomba in piazza Fontana come «strage di Stato ha rappresentato una visione infernale», con le devastanti derive degli anni seguenti. Nessuno li vuole rimuovere, questi 50 anni, «ma vorremmo che il prossimo anniversario — conclude Mario Calabresi — fosse solo nei fiori che porteremo a papà al cimitero».
Nel perdono della vedova Calabresi una lezione (inascoltata) al Paese. Angelo Picariello su Avvenire il 17 maggio 2022.
Il 17 maggio 1972 veniva assassinato a Milano il commissario Luigi Calabresi, vicecapo dell’ufficio Politico della questura. Freddato alle 9.15 sotto casa, in via Cherubini, davanti alla sua Cinquecento. Una Messa sarà celebrata, oggi alle 10, nella chiesa di San Marco, presieduta dall’arcivescovo Mario Delpini. Alle 11, poi, la commemorazione in questura, col capo della Polizia Lamberto Giannini, dove prenderà la parola anche Gemma Capra, vedova del commissario.
«Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino», furono queste le sue prime - enormi - parole, che riuscì a sibilare quando a 25 anni, madre di due figli con un terzo in grembo, don Sandro Dellera, parroco di San Pietro in Sala, la chiesa in cui si era sposata, trovò per primo il coraggio di riferirle che quel trambusto sotto casa era proprio per la ragione che temeva, da tempo.
Un omicidio annunciato, perché una martellante campagna di stampa, con tanto di raccolta firme di quasi 800 noti intellettuali e dirigenti politico-sindacali in calce a un documento pubblicato dall’Espresso, aveva indicato il commissario come «il responsabile» della morte del ferroviere Luigi Pinelli.
Le indagini sulla strage di piazza Fontana, sulla spinta anche dei Servizi deviati del tempo, avevano imboccato una pista sbagliata, quella anarchica, per coprire la matrice neo-fascista poi storicamente - ma mai a livello giudiziario - accertata. Il ferroviere, in base a una sentenza molto discussa, era caduto dalla finestra della stanza di Calabresi, al quarto piano per un «malore attivo».
Ma il commissario, è stato accertato, non era in stanza in quel momento, chiamato nottetempo dal questore.
Tre giorni prima, il 12 dicembre 1969, l’ordigno esploso alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, aveva ucciso 16 persone, ferendone 88. A far montare la polemica contribuì anche il fatto che il questore Marcello Guida avesse un passato da direttore della celebre colonia di confino politico di Ventotene, durante il Regime.
Ma per due anni e mezzo Calabresi divenne l’unico capro espiatorio, additato da tutti e protetto da nessuno. Quella strage viene definita la "perdita dell’innocenza".
In realtà a Milano, in pieno "autunno caldo", la violenza era già esplosa il 19 novembre, meno di un mese prima del tragico venerdì pomeriggio della bomba, portando alla morte orrenda di un agente della Celere, Antonio Annarumma, finito con il cranio fracassato nella sua camionetta da un tubo Innocenti, senza che si fosse trovato un solo testimone disposto a collaborare.
Ma quella mattina di 50 anni fa la signora Gemma indicò la strada che avrebbe, forse, potuto evitare al nostro Paese un bagno di sangue, quello dei successivi "anni di piombo": la strada del perdono e della riconciliazione, che poi ribadì con un celebre necrologio: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
La riconciliazione è avvenuta, per lei, con Leonardo Marino, il pentito che confessò, 16 anni dopo (prima a un religioso e poi ai magistrati) di esser stato lui l’autista del commando omicida. Sentenze contestate, ma confermate in ogni ordine e grado (revisioni processuali e Corte di Giustizia europea inclusi) hanno indicato nell’ex leader di Lotta Continua Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, capo del "Servizio d’ordine" di Lc, i mandanti, e in Ovidio Bompressi l’esecutore materiale.
Sofri non ha mai accettato questo verdetto anche se di recente ha ammesso di sentirsi in qualche modo "corresponsabile" per le parole di violenza usate dal suo giornale. Più avanti si è spinta Licia Rognini, vedova Pinelli, stringendo la mano alla vedova del commissario: «Avremmo dovuto farlo prima», si sono dette, al Quirinale.
Luigi Calabresi jr.: “Io mio padre non l’ho neanche conosciuto. E non riesco a perdonare”. Piero Colaprico su La Repubblica il 16 Maggio 2022. Luigi, sua madre era incinta e lei è nato sei mesi dopo l'omicidio di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, vittima dei terroristi. Mi scuso per la domanda: come ha ricostruito dentro di lei la figura paterna?
"Dai racconti di mamma, dei nonni, degli zii. Mamma aveva sette tra fratelli e sorelle, ci coccolavano, io allora ero piccolo e prima di affrontare le notizie e leggere le cronache sono ovviamente passati anni.
Piero Colaprico per “la Repubblica” il 17 maggio 2022.
Luigi, sua madre era incinta e lei è nato sei mesi dopo l'omicidio di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, vittima dei terroristi.
Mi scuso per la domanda: come ha ricostruito dentro di lei la figura paterna?
«Dai racconti di mamma, dei nonni, degli zii. Mamma aveva sette tra fratelli e sorelle, ci coccolavano, io allora ero piccolo e prima di affrontare le notizie e leggere le cronache sono ovviamente passati anni. Ma che fosse un uomo buono lo so. Lo so grazie alla mia famiglia, agli amici, ai tanti che avevano a che fare con lui, quindi la prima idea me la sono fatta grazie ai ricordi degli altri. Il resto è venuto piano piano, anche con le visite al cimitero».
Cioè?
«Sono l'unico dei tre figli che va sulla sua tomba regolarmente da sempre, più o meno una volta ogni due mesi. Posso chiacchierarci. E posso piangere, nessuno fa caso se piangi al cimitero».
O se alzi la voce
«Beh, sì, ho avuto anche momenti di rabbia. Capita. Magari c'è stata un'udienza faticosa, o un articolo antipatico, che risvegliava sentimenti negativi. Ma là lo ritrovo ogni volta e mi è capitato anche di ridere».
A volte, quando si va al cimitero, si "parla" con persone che non ci sono più, ma con le quali abbiamo parlato. Lei con suo padre non ha mai parlato da vivo.
«Mia madre da sempre è religiosa, "Il Signore ti vede, anche i parenti che sono in quello che chiamiamo Paradiso ti vedono".
Quindi io andavo al cimitero e dicevo: "Papà, sono qui, e sono capace di affrontarti. E adesso ti dico che cosa ho combinato". Non sono religioso come mamma, certamente lo sono più di Mario e Paolo, e così a mio padre raccontavo anche perché avessi fatto o non fatto una certa cosa. A volte ai genitori non puoi o non vuoi dire perché, sai che magari rischi il rimprovero, se non un ceffone.
Con lui ho sempre potuto parlar chiaro, andandogli a raccontare il bello e il brutto di me. E nei decenni non ho cambiato idea sul fatto che fosse un uomo integerrimo».
C'è anche una storia che riguarda il nome di sua figlia.
«Chiara. Vabbè, gliela dico. Mamma non l'aveva mai confidato a nessuno, ma dopo due maschi erano convinti: "Sarà una femmina". E avevano pensato solo a un nome femminile, ed era Chiara. Papà è morto, e sono arrivato io, il terzo maschio. Mamma mi ha dato i nomi in fotocopia, Luigi Antonio Giuseppe, come papà.
Anni dopo, quando è nata mia figlia, non sapevamo ancora che nome darle, e ho detto "Ha una faccia da Chiara, chiamiamola così". Esco dalla sala parto, dico ai parenti che è una femminuccia e che l'avremmo chiamata Chiara. Mia madre sbianca.
"Che hai?". "È il nome che avrebbe voluto tuo padre". E così mi piace pensare che mi abbia messo le mani sulla testa e abbia voluto essere nonno, partecipare alla nostra festa».
Sua madre, e lo si capisce dall'ultimo libro, "La crepa e la luce", ha fatto un lunghissimo percorso, che alla fine si è concluso con il perdono per gli assassini. Posso chiederle che cosa pensa sia del perdono, sia di chi ha ucciso?
«Il percorso di mamma non l'ho fatto. Forse quando arriverò alla sua età. Forse, nel nome della serenità che lei ha raggiunto. Non faccio fatica a capirla, ma io porto questo cognome, ne ho vissute varie e non ho perdonato, anche se ho fatto anch' io la mia strada, e ho incontrato Leonardo Marino».
Che cosa ha chiesto all'uomo che ha fatto scoprire mandanti ed esecutori?
«Guardi, sono andato con mio fratello Paolo per ascoltare dalla sua bocca la storia. E a Paolo l'avevo detto prima, io chiedo tutto quello che voglio. E così quello che volevo sapere l'ho saputo e ho ridato umanità a uno che vedevo come un assassino. Ho compreso da dove veniva, che vita difficile aveva avuto. Certo, fai sempre fatica a giustificare.
Ma meno a comprendere. Però Marino ha chiesto perdono, gli altri no. E non so nemmeno se sarei capace ad andarli a incontrare, non mi piacciono nei loro comportamenti».
Sono passati 50 anni e, se posso dirlo, lei sembra in pace con il mondo.
«Noi figli orfani non siamo purtroppo mosche bianche. Ho parlato con alcuni, se la vivono con la rabbia, la voglia di vendetta, com' ero anch' io da giovane. E devo proprio ringraziare mamma, che ci ha insegnato a sorridere.
Ad apprezzare la vita, sempre. La ringrazio perché ha trovato un altro compagno, quando avevo quattro anni, quindi un padre meraviglioso l'ho avuto, Tonino Milite, ed è sepolto a 100 metri da papà Gigi. Uno artista e uno poliziotto. Faccio un mix tra i due, e mi dispiace quando vedo i figli di vedove che non si sono riprese. I momenti bui ci saranno sempre e so bene che vivere cercando di tenere lontano la tristezza non è facile, ma è possibile».
Sua madre allora ha fatto un buon lavoro?
«Ha trasformato il lutto in una maniera per farci crescere con più valori, con più rispetto. Sì, senza lei sarebbe stato più complicato».
Questa è la prima intervista che lei rilascia a un quotidiano. Perché sinora ha taciuto?
«Ho solo risposto alle domande di un libro di Bruno Vespa, per il resto mamma ci rappresenta e Mario è un personaggio pubblico. È il nostro portavoce. A volte si discute a casa, su che cosa dire, ma la calamita resta lui. Sono d'accordo con i miei, io e Paolo restiamo in pubblico un passo indietro. Anche perché sono il più fumantino, per me talvolta è meglio tacere».
Calabresi, 50 anni fa. Il commissario che la sinistra odiava. Il mandante del killer è latitante in Francia. Stefano Zurlo il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il linciaggio per il caso Pinelli, l'esecuzione del gruppo di fuoco di Lotta Continua. Mezzo secolo di processi, però giustizia non è ancora fatta. Pietrostefani non ha pagato ma domani si decide per l'estradizione in Italia.
La memoria fa brutti scherzi. «Che cosa ci eravamo detti in quegli ultimi momenti io e Gigi?» La risposta di Gemma Calabresi, affidata al recente libro «La crepa e la luce», è disarmante: «È terribile, ma non me lo ricordo».
Le nove e un quarto del mattino del 17 maggio 1972. Cinquant'anni fa. Milano. Il commissario Luigi Calabresi esce di casa, in via Cherubini, zona Pagano, quartiere borghese e famiglie benestanti. È in ritardo, ma dopo due minuti torna indietro. Si cambia al volo la cravatta, da rosa a bianca, poi si rivolge alla moglie: «Come vado così?», quindi pronuncia l'ultima frase, quasi una profezia della fine: «Questo è il simbolo della mia purezza».
La risaluta e va incontro alla morte. La pistola di Ovidio Bompressi non gli lascia scampo: due colpi e il poliziotto cade sull'asfalto. La corsa disperata all'ospedale non serve. Luigi Calabresi muore a 34 anni, lasciando la giovane vedova, due figli e un terzo in arrivo. Sembra incredibile ed è inammissibile, ma è la cronaca: domani, 18 maggio 2022, la Francia potrebbe decidere sull'estradizione di Giorgio Pietrostefani, il mandante del delitto, in libertà vigilata da un anno circa dopo una lunga stagione di latitanza blindata. Insomma, dopo mezzo secolo e ancora un giorno potrebbe arrivare, ma il condizionale è d'obbligo, la parola fine per una storia che è andata avanti troppo a lungo e continua a vivere sui giornali, mentre ormai il suo posto è nei libri di storia.
Il delitto Calabresi, come hanno accertato i giudici milanesi, fu organizzato all'interno di Lotta Continua, anche se è evidente che mancano tuttora pezzi di verità. Le sentenze indicano due livelli: l'ideazione e l'esecuzione. La prima nasce ai piani più alti del movimento extraparlamentare: l'ordine di uccidere Calabresi arriva infatti dai leader, Adriano Sofri e appunto Giorgio Pietrostefani. Poi c'è la manovalanza che porta a termine il piano: Bompressi e Leonardo Marino, l'anello debole della catena cresciuto nel mito di Sofri, l'autista che, recuperato il complice, scappa imboccando via Rasori.
Quella mattina l'Italia scivola irrimediabilmente verso gli anni di Piombo: le Brigate rosse ci sono già, ma non hanno ancora azzardato imprese del genere; quello è il primo omicidio politico di una nuova spaventosa stagione che le Br, ma non solo loro, battezzeranno, forse per errore, con il sangue di due missini ammazzati a Padova nel 1974. Quel giorno si capisce che nel magma dell'ultrasinistra italiana il seme dell'odio ha dato i primi frutti. D'altra parte il delitto Calabresi è, per certi aspetti almeno, un omicidio corale, incastrato dentro una stagione avvelenata della storia del Paese: il 12 dicembre 1969 una bomba ammazza 17 persone in Piazza Fontana. Gli investigatori puntano sulla pista anarchica: Giuseppe Pinelli viene convocato in questura e ad interrogarlo è proprio Calabresi. La notte del 15 dicembre, con un fermo protratto illegalmente, Pinelli è ancora lì. Poi il ferroviere cade dalla finestra. Secondo la versione ufficiale, in quel momento Calabresi non c'è perché è uscito dalla stanza e sta portando i verbali al capo dell'ufficio politico Antonino Allegra. Tutti concordano e sposano la versione del suicidio, tutti meno uno, l'anarchico Lello Valitutti che da allora ripete un'altra versione.
Calabresi è innocente e verrà scagionato dalla magistratura, ma diventa il bersaglio di una violentissima campagna di insulti, minacce, attacchi furibondi, ricostruzioni fantasiose, appelli di intellettuali famosi saturi di rancore e disprezzo. Calabresi è solo, perché lo Stato non lo difende e anzi lo abbandona al suo destino: il 17 maggio 1972 il destino si compie. E comincia una saga giudiziaria senza precedenti nella vita del Paese. Prima 16 anni di buio, silenzio, omertà, anche se molti, troppi, sanno. Poi Marino, il cui cuore sanguina, si pente e va dai carabinieri: è la svolta, supportata da riscontri inattaccabili. Il 28 luglio 1988 i protagonisti di quell'eccidio finiscono in manette. Marino accusa, loro si proclamano innocenti. Sofri si dice pentito per quella campagna orrenda orchestrata dal suo giornale con toni parossistici, ma afferma anche che lui non commissionò quell'infamia. Di nuovo storici, accademici, giornalisti mettono in dubbio il lavoro della magistratura ambrosiana, di solito osannata ma questa volta criticata con toni aspri. L'altalena sconcertante delle sentenze, in un affastellarsi di condanne e assoluzioni, si chiude solo a Venezia, con tanto di legge ad hoc, in sede di revisione. Dopo venti passaggi. I quattro sono colpevoli. La pena è di 22 anni, 11 solo per Marino.
Il caso è chiuso ma anche no. Fra un verdetto e l'altro, Pietrostefani è scappato a Parigi, dove i terroristi italiani hanno sempre avuto una equivoca e ingiustificabile copertura politica. L'anno scorso il vento cambia: lo arrestano, poi va in libertà vigilata. Domani, forse, l'ultimo atto.
Gli altri tre hanno scontato la pena e sono liberi. L'enigmatico e tormentato Bompressi, autore di poesie che per qualcuno aprono squarci lirici su quella giornata di orrore, ha ricevuto anzi una grazia parziale per le sue precarie condizioni di salute.
Cinquant'anni dopo, il delitto Calabresi è un tornante che non si può saltare nel ricostruire l'Italia del dopoguerra. L'intossicazione dell'ideologia e il germe della lotta armata, sullo sfondo di quella doppia tragedia: Piazza Fontana e la caduta mortale di Pinelli. E poi la vergogna di una verità negata e strappata per decenni, in parte anche oggi. A redimere quel disastro resta il necrologio scelto per i funerali. Le ultime parole di Cristo: Padre, persona loro perché non sanno quello che fanno. «L'arcivescovo di Milano Giovanni Colombo - scrive oggi Gemma Calabresi - disse che il mio necrologio era un fiore deposto sul sangue di Gigi e che non sarebbe mai appassito'. Oggi posso dire che aveva ragione perché, anno dopo anno, quelle parole sono fiorite dentro di me».
"L'intellighenzia radical chic lo uccise giorno per giorno". Luca Fazzo il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'ex prefetto, collega e amico di Calabresi: "La prima responsabilità fu del governo. Venne lasciato solo".
«Era bellissimo». La prima cosa che Achille Serra, già questore di Milano e poi deputato, dice quando gli si chiede del suo amico Luigi Calabresi non riporta ai giorni terribili della persecuzione e dell'omicidio, ma alla prima impressione, al primo incontro negli uffici al quarto piano della questura di via Fatebenefratelli. Primavera del '69, Serra appena arrivato da Roma, Calabresi anche lui romano, di poco più anziano: alto, moro, la simpatia contagiosa. Tra i due giovani romani trapiantati al nord sembrava l'inizio di una amicizia di quelle destinate a durare per decenni. E che invece si spezza nel sangue, tre colpi successivi - la strage in banca, la morte del ferroviere Pinelli, l'assassinio di Calabresi - che il mezzo secolo di distanza non ha finito di attutire.
Che tipo era Luigi Calabresi?
«Un poliziotto senza pistola. Non è un modo di dire, girava davvero disarmato, e questo riassumeva il suo modo di rapportarsi con chi gli stava davanti. La prima dimostrazione la ebbi poco dopo essere arrivato, inviato come da prassi a farmi per qualche tempo le ossa all'ufficio politico. Manifestazione sotto il consolato statunitense, erano arrivati con le peggiori intenzioni, eravamo nel pieno della guerra in Vietnam, la tensione era alta. Con qualcun altro al posto di Calabresi a dirigere la piazza chissà come sarebbe finita. Invece anche quella volta lui dimostrò che con il dialogo si potevano evitare molti guai. Questo insegnamento di Calabresi ho sempre cercato di metterlo in pratica».
Poi arrivarono la strage alla Banca dell'Agricoltura e tre giorni dopo la morte di Pinelli, che precipita dalla finestra dell'ufficio politico della Questura. E paradossalmente Calabresi, questo uomo del dialogo, venne dipinto come un assassino senza scrupoli. Fino a venire ucciso.
«Lo uccisero due anni e mezzo dopo, ma la verità è che il mio amico Calabresi venne assassinato giorno per giorno, in modo implacabile. Tutti i giorni con le scritte sui muri, nelle lettere, nei documenti degli intellettuali, nelle manifestazioni, lo slogan era sempre lo stesso: Calabresi assassino. Per due anni Luigi venne ucciso ogni giorno. Io credo che la gente non si immagini cosa voglia dire per un essere umano venire sottoposto a un trattamento del genere, a un martellamento quotidiano, incessante, ingiusto. Tanto che io un giorno gli dissi: ma scusa, Luigi, tu hai moglie e figli, perché non te ne vai, perché non chiedi di essere trasferito da Milano? E lui mi rispose: Ma tu te ne andresti? Perché me ne devo andare? Sono innocente, assolutamente innocente, non ho fatto niente di male. E io ebbi soltanto la forza di dirgli: hai perfettamente ragione».
Come è possibile che lo Stato abbia assistito senza reagire, senza proteggerlo in alcun modo, al linciaggio quotidiano di un suo servitore? Per i sicari di Lotta Continua ammazzarlo fu un gioco da ragazzi. Era solo, senza scorta.
«La prima responsabilità secondo me fu del governo, e fu una responsabilità grave. La verità è che Calabresi venne lasciato solo. Avrebbero dovuto trasferirlo immediatamente, appena cominciò la campagna di stampa contro di lui. Lo avrebbero dovuto trasferire per forza, anche contro la sua volontà. Si sapeva che avrebbe fatto una brutta fine, lo sapeva chiunque e purtroppo lo sapeva anche lui. Se il ministero degli Interni lo avesse trasferito dall'altra parte del paese probabilmente gli avrebbe salvato la vita. Invece venne lasciato qui, a sopportare ogni giorno, da solo, il peso di una campagna di odio. Lo chiamavano Commissario Finestra, circolavano fotomontaggi con Calabresi con le mani sporche di sangue. Una infamia senza fine».
Contro di lui non c'era solo la rabbia degli estremisti. Nei salotti intellettuali della Milano progressista circolavano battute orrende.
«È l'aspetto che oggi appare più assurdo. Ci furono documenti con settecento, ottocento firme di intellettuali importanti, c'erano personalità di primissimo piano che dissero delle cose incredibili. Alcuni di questi signori negli ultimi tempi se le sono rimangiate e hanno chiesto scusa. Ma conta poco. Conta che ci fu una condanna generale verso una persona e un padre di famiglia eccezionale e con una moglie splendida. Quando fu ucciso, il questore Allitto volle che io lo accompagnassi su dalla moglie. Allitto era un uomo durissimo, ma ricordo che sulle scale piangeva come un bambino. Quando arrivammo su da Gemma, lei senza lasciarsi andare a crisi isteriche disse solo: Me lo immaginavo. Una grande donna che era la moglie di un grande uomo».
L'uccisione di Calabresi ha rischiato a lungo di restare senza colpevoli. Cosa pensò quando si seppe che era stata Lotta Continua?
«Non mi stupì per niente. Mi ricordavo il titolo del loro giornale dopo l'uccisione, Giustizia è fatta. Bastava quello per capire con quanta cattiveria era stata pensata e preparata la morte di Calabresi».
Falsi, menzogne, minacce. Così il clan "Fake Continua" uccise l'innocente Calabresi. Luigi Mascheroni il 21 Novembre 2021 su Il Giornale.
Aurelio Grimaldi analizza la campagna diffamatoria orchestrata dai compagni che portò all'omicidio del commissario prima, e al plauso e alla giustificazione dei colpevoli poi. Un clamoroso caso di disinformazione, troppo spesso taciuto.
Nemesi politica e paradosso ideologico, la macchina del fango tanto invocata contro la destra, è invece figlia dottrinaria e prediletta della sinistra. Ce lo ricorda un libro che, appoggiandosi a una documentazione imponente, ricostruisce, con lucidità e puntiglio, il caso più esemplare di delegittimazione dell'avversario dell'Italia moderna. Ossia come l'azione coordinata di un preciso gruppo di pressione, una lobby o un clan, attraverso una campagna stampa di precisione scientifica è riuscita a ledere la credibilità di una persona screditandone l'immagine pubblica, fino a trasformarla in un obiettivo da colpire. E infatti: il commissario Luigi Calabresi fu ucciso, colpito da due proiettili, il 17 maggio 1972, nel parcheggio davanti a casa, a Milano, dopo due anni e mezzo di una feroce e spregevole campagna di stampa condotta dalla sinistra il cui esito, inevitabile in quel delirio ideologico, fu appunto la morte del commissario «torturatore e assassino», considerato responsabile senza processo né prove - della morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra di un ufficio della Questura di Milano dove si trovava in stato di fermo in seguito alla strage di piazza Fontana, nel dicembre 1969.
Il libro, Fango. L'omicidio Calabresi e la sinistra italiana (Castelvecchi) lo ha scritto Aurelio Grimaldi, autore e regista con una particolare sensibilità verso le trame nascoste della storia d'Italia (nel 2020 ha scritto e diretto Il delitto Mattarella sulle fosche vicende dell'omicidio del presidente della Regione Sicilia). Grimaldi all'epoca dei fatti aveva 12 anni ma ne ha trascorsi molti di più a studiare le carte dell'infinito iter giudiziario che ha portato alla condanna definitiva di Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani quali mandanti, e Leonardo Marino e Ovidio Bompressi come esecutori materiali, dell'omicidio del commissario Calabresi. E le carte sono parecchie, visto che fra processi e richieste di revisione, dal 1990 al pronunciamento della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo che nel 2003 respinse il ricorso degli imputati, si contano ben 17 sentenze (tutte, eccetto una, contrarie ai condannati). Nessuno in Italia ha mai avuto così tanti magistrati oltre cento - impegnati sul proprio caso.
Sul caso Calabresi e sulle responsabilità di Lotta continua nella sua morte, e del suo leader Adriano Sofri in primis, si è detto e scritto tanto. Ma l'originalità del saggio di Grimaldi è, oltre la ricostruzione della cronaca, dei processi e del clima dell'epoca, il suo arrabbiato j'accuse, da sinistra, contro l'ideologia marxista rivoluzionaria e delirante che ha inneggiato e praticato la violenza per anni, senza pentimenti, e contro una micidiale macchina del fango fanaticamente alimentata da una setE il triste campionario di menzogne, minacce, ricostruzioni romanzate, fake news e invocazioni di morte sfornato per anni dalla stampa di sinistra, è agghiacciante. L'Unità, l'Avanti!, il settimanale del Partito comunista Vie nuove (si legga l'ignobile racconto, del tutto falso, sulla tragica notte del 15 dicembre 1969 dentro la Questura di Milano), il manifesto e soprattutto L'Espresso e Lotta continua: eccola la macchina del fango che formò l'opinione pubblica, che costruì il mostro Calabresi il «commissario Finestra», il «dottor Cavalcioni» che ne fece un assassino-torturatore cui farla pagare, che appiccicò sulla sua schiena il bersaglio su cui i militanti di Lotta continua, ispirati dai loro peggiori maestri, spararono i due colpi mortali; militanti che ancora, dopo l'infame assassinio, per anni continuarono a plaudire la vendetta compiuta, a proteggere i colpevoli, a difendere la «giustizia proletaria» contro quella dei tribunali dello Stato.
Grimaldi di fatto compie due operazioni, una più meritoria dell'altra. Da una parte spazza via i molti luoghi comuni, pregiudizi e false informazioni che ancora aleggiano sulla morte di Pinelli e l'uccisione del «superpoliziotto» Calabresi; dall'altro analizza fin nei dettagli più infimi la vergognosa campagna di disinformazione operata dall'intellighenzia e dalla stampa di sinistra a difesa di Sofri&compagni. Nel primo caso l'autore ci ricorda che Calabresi non era nella stanza da cui cadde Pinelli (a distanza di decenni dichiara di non crederci più lo stesso Sofri); che l'anarchico Valpreda non mise la bomba a piazza Fontana, ma su quella giornata mentì su tutto ed era coinvolto in altri attentati dinamitardi, insomma era tutto tranne il santo e martire celebrato dalla sinistra antagonista, Dario Fo in testa; che Pinelli non fu gettato dalla finestra della Questura, ma o cadde per un malore dopo essersi sporto dal bassissimo parapetto, assonnato e spaventato (molto probabile) o si gettò suicidandosi (meno probabile), e comunque non fu mai picchiato né tanto meno torturato come dimostrarono tutte le perizie; che Calabresi con le cosiddette «violenze di Stato» non c'entrava niente, come tutte le indagini hanno comprovato.
Nel secondo caso invece Grimaldi elenca tutte le fake news che inquinarono la vicenda: il falso passato di Calabresi inventato dal nulla (non fu mai negli Usa ad addestrarsi con la Cia, non ebbe alcun rapporto col generale golpista De Lorenzo, non frequentò mai i servizi segreti...); la totale ignoranza in materia dell'intero clan del «Calabresi assassino», i cui adepti non lessero mai un documento e non credettero a fatti e prove, ma solo nel dogma che il commissario doveva essere un assassino; il totale pregiudizio con cui la crema dell'intellighenzia nazionale (quasi 800 nomi eccellenti) firmò l'immondo manifesto pubblicato sull'Espresso nel giugno del '71 il punto di non ritorno della macchina del fango contro il «torturatore» Luigi Calabresi, di fatto il lasciapassare perfetto per il suo assassinio.
Per il resto, ecco alcuni particolari del caso Calabresi, non essenziali ma significativi, che Aurelio Grimaldi ci ricorda impietosamente. Uno: alcuni passaggi malati di articoli usciti su Lotta continua (scritti anche in prima persona da Adriano Sofri): «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai», «Siamo stati troppo facili con Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, e continuare a perseguitare i compagni», «Calabresi è un assassino. Il proletariato ha già emesso la sua condanna. L'imputato è da tempo designato: torturatore e assassino», «Il proletariato emetterà il suo verdetto e lo renderà esecutivo». Due: uno dei pochissimi cronisti a prendere posizione a favore di Calabresi fu Enzo Tortora i casi della disgraziata giustizia italiana... -, allora corrispondente del Resto del Carlino. Tre: la peggiore di tutti, dal punto di vista etico e giornalistico, fu Camilla Cederna, ancora oggi santificata come grande penna (di costume forse, d'inchiesta per nulla, anzi), primo motore di quell'orrenda macchina del linciaggio che portò alla morte di Calabresi (si raccomanda la lettura del capitolo «Una maestra di giornalismo. Il metodo Cederna», sulle sue fallimentari inchieste, sia sul caso Calabresi sia sulla ancora più vergognosa vicenda che portò alle dimissioni di Giovanni Leone). Quattro: l'esilarante analisi filologica del libro Storia di Lotta Continua di Luigi Bobbio, dirigente del movimento marxista e figlio del celebre Norberto, che dà il senso del «caos ideologico e mentale di ragazzi che si autoimponevano un lavaggio del cervello anche lessicale che obnubilava ogni autonomia logico-concettuale». Cinque: l'annotazione che dei 757 firmatari della squadrista lettera contro Calabresi uscita sull'Espresso, solo due hanno fatto pubblicamente mea culpa: Norberto Bobbio e Paolo Mieli (e tutti gli altri?). Sei: il fatto che oltre agli articoli criminali Lotta continua pubblicava anche divertenti (?) vignette del commissario che insegna al figlioletto Mario a tagliare le teste dei rivoluzionari e a lanciare dalla finestra pupazzi di anarchici per preservare, da adulto, la tradizione torturatrice di famiglia. E ci fermiamo qui.
Omicidio Calabresi, Castelli: «La sinistra mi mise in croce per la grazia a Sofri, lui non la chiese mai». Il Dubbio il 15 maggio 2022.
L’ex ministro della Giustizia del secondo governo Berlusconi non accolse mai la richiesta, malgrado Ciampi avesse più volte manifestato la volontà di concederla
«Sono abbastanza vecchio da ricordare l’omicidio Calabresi, ero all’università, fu subito chiaro che si trattata di un omicidio vile, tipico dei campioni delle Br e dell’area terroristica di sinistra, usi a colpire alle spalle, killer che freddavano persone inermi». L’ex ministro della Giustizia del secondo governo Berlusconi, Roberto Castelli, tra i fondatori della Lega, ricorda così il clima in cui maturò, il 17 maggio del 1972, l’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi. Trenta anni dopo si ritrovò da ministro della Giustizia del governo Berlusconi a fare i conti con quella vicenda, negando più volte la grazia al leader di Lotta Continua Adriano Sofri, condannato nel frattempo come mandante dell’omicidio.
«Io – ricorda in un colloquio con l’Adnkronos Castelli – dopo la confessione di Marino, ritenuta credibile, attendibile e realistica, ritenni che la pena, quella condanna per i leader di Lc, fosse del tutto meritata, avesse tutte le ragioni del caso». Ma poi sulla sua scrivania arrivarono le richieste di grazia: «Per me non c’erano i termini per quel provvedimento – sottolinea l’ex guardasigilli – l’amnistia si concede per chiudere una stagione politica, un’era, come fece Togliatti nel ’46, qui parlavamo di grazia, che invece va prevista nei confronti di qualcuno che si ritiene abbia scontato una giusta pena e che si sia ravveduto, non mi pareva il profilo di Sofri».
Nel 2003 Castelli dice no, stessa cosa fa nel 2005. Nel frattempo il presidente della Repubblica Ciampi avvia la pratica per la grazia a Bompressi, firmata dal suo successore Napolitano nel maggio del 2006. «Una cosa incostituzionale, per me, anche se ci fu una sentenza della Consulta a favore, che grida ancora vendetta», sottolinea l’ex guardasigilli. Inoltre ribadisce oggi Castelli, tornando a Sofri «lui non ha mai fatto richiesta di essere graziato, troppa protervia, mentre la sinistra che mi mise in croce, ma a cui dissi sempre no, si mosse stranamente solo quando ministro ero io, con un governo di centrodestra, a guida Berlusconi». «Guarda caso – conclude – dopo quella stagione finirono le polemiche e nessuno tornò alla carica, tutti si dimenticarono di Sofri, non gliene fregò più nulla a nessuno».
I ripetuti inviti a dare corso alla richiesta di grazia, avanzati in maniera trasversale da esponenti della politica e della cultura, sono sempre stati respinti dal Ministro Castelli, malgrado Ciampi avesse nello stesso periodo più volte manifestato la volontà di concederla, tanto da giungere a un conflitto con il guardasigilli risolto poi dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 200 del 18 maggio 2006, ha stabilito che non spetta al Ministro della Giustizia di impedire la prosecuzione del procedimento di grazia, ma esso è un libero provvedimento motu proprio del Capo dello Stato. Alla fine la grazia non fu concessa perché la sentenza fu emessa tre giorni dopo che Ciampi aveva concluso il suo mandato di Presidente della Repubblica.
Dagospia il 2 agosto 2022. Dal profilo Facebook di Gad Lerner
I miei auguri per gli 80 anni di Adriano Sofri sono finiti sulla prima pagina di “Libero”, “Il Giornale” e “La Verità”. Hanno trovato insopportabile che glieli abbia fatti in pubblico e che definissi la sua come una vita vissuta dalla parte giusta. Ai sentimenti di ostilità coltivati con spirito di rivincita -come se Sofri fosse stato un vincitore- non sono in grado di opporre altro che la mia pazienza. Ma una spiegazione di quel pensiero voglio aggiungerla.
Non solo nutro la profonda convinzione che Adriano Sofri non sia un assassino. E che sia stato esemplare il suo comportamento nei diversi gradi del processo Calabresi e nello scontare gli anni di detenzione a cui è stato condannato. Guardo all’insieme delle sue scelte, prima dalla parte degli oppressi e degli sfruttati in Italia; poi con l’impegno prolungato in Bosnia, in Kurdistan e in Ucraina. E ne traggo il bilancio di una vita vissuta dalla parte giusta. Il che naturalmente non vuol dire una vita priva di errori, ma di certo non meritevole del marchio d’infamia con cui lo vedo trattare ancora oggi solo perché rifiuta di starsene zitto.
Luigi Mascheroni per il Giornale il 2 agosto 2022.
Gad Lerner ieri ha twittato l'intwittabile: sotto una foto di Adriano Sofri ha scritto «Buoni 80 anni caro Adriano. Vissuti dalla parte giusta», che ovviamente è solo un modo per farsi insultare e, una volta ottenuto lo scopo, rilanciare un tweet vittimista in cui denuncia i fascisti che lo attaccano, come fece quando si presentò al raduno leghista a Pontida nel 2019...
Ma ciò che interessa, qui, è altro. È che nel tweet c'è tutta la prosopopea da superiorità antropologica di un demi-monde intellettuale che, non facendo mai i conti con le proprie colpe, riverbera sul presente della campagna elettorale le ombre peggiori del proprio passato.
Dalle firme contro il Commissario Calabresi ai brindisi per la gambizzazione di Montanelli, è facile arrivare a oggi e, sempre dalla parte giusta, considerare le destre in arrivo al governo quali avanguardie del Male, dunque - per necessità geometrica e etica - inevitabilmente dalla parte sbagliata. Corrado Formigli che prende un abbaglio social con un tweet sul nero ammazzato cercando di sciacallare la Meloni e Salvini ha comunque a disposizione un autorevole giornale della parte giusta per prendersi l'ultima parola.
È la parte giusta è quella che rimette a posto il linguaggio, perché non sia mai machista, sessista, fascista. La parte giusta è quella che premia il romanzo giusto, nel momento giusto, perché dice le cose giuste. È quella che promuove il giornalista giusto nella trasmissione giusta. È la parte giusta che a Sanremo mette in scena tutto il suo repertorio arcobaleno. È quella che, sola!, distribuiscono le patenti di legittimità politica e intellettuale. Dire «dalla parte giusta» - in senso traslato, metaforico, simbolico e di sostanza - è come dire «vi tengo nel mirino», voi che state dalla parte sbagliata. E la foto di Adriano Sofri, allora, dice tutto. Dice chi sta dalla parte giusta del mirino.
Adriano Sofri compie 80 e finisce nel tritacarne della campagna elettorale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Agosto 2022
“Buoni 80 anni caro Adriano. Vissuti dalla parte giusta”. Come uccidere un uomo, fingendosi, o credendosi suo amico. Adriano Sofri impegnato a scrivere sul Foglio di una guerra vera, in Ucraina, e a raccontare “La strage di Olenivka” con i prigionieri uccisi come topi in trappola. Non ha tempo per pensare al proprio compleanno del primo agosto, probabilmente, anche se il calendario gli dice che sono 80 proprio quel giorno. E intanto una piccola squallida guerricciola viene scatenata su di lui e contro di lui, sui social, con seguito su alcuni quotidiani del giorno successivo. L’iniziativa è del provocatore di provincia Gad Lerner, che di Sofri fu compagno in Lotta Continua e che gli fa gli auguri a modo suo. Nulla di amoroso né di sincero, come ci si aspetterebbe da un amico. E neanche un vero ricordo di sogni e bisogni vissuti insieme. Solo una punturina spocchiosa gettata in mezzo a una campagna elettorale che già puzza di antichi sfoghi tra fascismo e antifascismo.
Se voleva far male a Sofri, se voleva metter sale su antiche ferite, Lerner ci è riuscito benissimo. Anche se, essendo lui notoriamente un anaffettivo, forse non se ne è neppure reso conto. Che cosa ha voluto dire con quel tweet “Buoni 80 anni caro Adriano, vissuti dalla parte giusta”? Viene in mente un famoso titolo del manifesto, il quotidiano in cui Lerner transitò furbescamente e provvisoriamente mentre attendeva che cessassero le turbolenze nelle stanze dell’Espresso in cui la gran parte della redazione era contraria alla sua assunzione. Il titolo era “Vent’anni dalla parte del torto”. Era il 1991, il giornale di Rossanda e Pintor con quel titolo intendeva valorizzare la propria storia di giornale corsaro che ancora esisteva, dopo vent’anni dalla nascita, pur essendo considerato, dalla sinistra “ufficiale”, dalla parte del torto. Era un messaggio soprattutto agli uomini del Pds, gli eredi di quel Pci che aveva saputo affrontare il dissenso interno solo con le radiazioni del gruppo dirigente del manifesto. Una lezione difficile da capire, per uno come Gad Lerner. Che ha infatti trasformato quel concetto di “torto” nello stare dalla parte giusta. Quella dei buoni? O forse degli onesti, nella salsa grillina del Fatto quotidiano, il giornale cui Lerner collabora?
O siamo invece tornati alla superiorità morale della specie comunista e di sinistra? Tutti argomenti, questi, che hanno occupato ieri numerose colonne di quotidiani di orientamento centro-destra. C’era da aspettarselo, del resto, questo tipo di reazione. Siamo nel bel mezzo di una campagna elettorale cominciata male con la consueta richiesta di analisi del sangue da parte della sinistra più spocchiosa nei confronti di Giorgia Meloni. Che cosa di meglio che vedersi servito su un piatto d’argento un argomento come questo? Siamo nel caso tipico dell’esibizionismo del personaggio che nel 2019 andò nel pratone di Pontida dove era in corso la consueta manifestazione della Lega, nella speranza che qualcuno lo picchiasse e portò a casa la delusione dell’esser stato accolto nell’indifferenza generale. Anche ieri le principali attenzioni non sono state per lui. Luigi Mascheroni sul Giornale lo accusa blandamente di aver twittato l’intwittabile apposta per farsi insultare e poi denunciare i fascisti che lo hanno attaccato. Francesco Storace su Libero gli dà del “cicisbeo social”, che non è male, e conclude con un lapidario “inopportuno, pessimo, cinico”. Che per uno come Gad non sono per niente insulti. Siamo sicuri che non se la è presa, anche perché ai suoi occhi uno come Storace più che un giornalista, è semplicemente uno che sta dalla parte sbagliata. Quindi, meglio se è contro.
Ma il problema vero, in questa vicenda, quello che caratterizza la stupidità di certe iniziative dettate da superficialità ed esibizionismo di sé, è il grave danno che quella frase ha arrecato a Adriano Sofri e a qualunque battaglia, mai come in questo momento importante per il futuro del Paese, sulla giustizia. Tutto quello che Sofri ha costruito in questi anni, dopo la sentenza di condanna della Cassazione arrivata dopo infiniti processi indiziari e senza prove, la sua cultura, le sue passioni, la sua eccezionale capacità di scrittura sono evaporati come se l’orologio si fosse fermato quella mattina del 17 maggio 1972 in cui fu ucciso il commissario Calabresi. Così ci si domanda se stare dalla parte giusta della storia vuol dire sparare o comunque giustificare il terrorismo. Si apre il vaso di Pandora del famoso “album di famiglia” della sinistra, quella stessa che non vuol fare i conti con quella parte della propria storia. E questo è vero, ma andrebbe recitato in altro modo. In altro contesto.
Ma la miopia politica genera altrettanta miopia. E il manicheismo altro manicheismo. Così, ecco il titolo di Libero “La sinistra è sempre dalla parte sbagliata”, che fa proprio il paio con l’infelice frase di Gad Lerner. E, pur senza riflettere, il che sarebbe dovuto, su come si sono celebrati in Italia certi importanti processi, lo stesso direttore Sandro Sallusti, lancia una provocazione un po’ da brivido, nel giorno che è anche anniversario tragico della strage di Bologna. Se io, ha lanciato nel suo editoriale, avessi scritto la stessa cosa a Giusva Fioravanti, “mi sarei preso del terrorista e avrei trascinato nella gogna tutti i leader del centrodestra”. Così il discorso continua con la denuncia di due pesi e due misure. Tutti e due sbagliati, tutti e due perdenti. A nessuno viene in mente la vergogna di certe sentenze e di tutti gli imbrogli e le mancanze delle indagini e dei processi, fino agli ultimi, sulla strage di Bologna. Così come nessuno mette in discussione quelli sull’uccisione di Mario Calabresi. Non c’è tempo né modo. Diventa tutto un rinfacciarsi sui “compagni che sbagliano”, e assassini che diventano quasi eroi, perché stanno dalla parte giusta. Ma in questo modo, quella che sta uscendo dalla porta, mentre è entrata la stupidità, è proprio la giustizia. Bel lavoro, compagno Gad.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
"Dalla parte giusta? Mio padre...". Rita Dalla Chiesa bacchetta Gad. Marco Leardi il 2 Agosto 2022 su Il giornale.
La figlia del generale Dalla Chiesa replica indignata al messaggio con cui Lerner celebrava gli 80 anni di Adriano Sofri. "È proprio sicuro che lui era dalla parte giusta?"
La retorica di Gad Lerner smontata con un tweet. Stavolta, certo, non era difficile mettere il giornalista alle strette: quel suo messaggio di auguri dedicato via social ad Adriano Sofri aveva già suscitato abbastanza polemiche. A stigmatizzare le parole riservate all'ex leader di Lotta Continua ci ha poi pensato Rita Dalla Chiesa, figlia del grande e compianto generale Carlo Alberto. L'ex conduttrice Mediaset, ricordando l'operato del padre (che fu anche capo del nucleo speciale antiterrorismo), ha infatti rimproverato a Lerner di aver celebrato gli 80 anni di Sofri vissuti - a suo dire - "dalla parte giusta".
Affermazioni che già avevano provocato reazioni indignate, dal momento che il festeggiato in questione fu condannato a 22 anni di carcere (assieme a Giorgio Pietrostefani) come mandante dell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972. "Dalla parte giusta? Ne è così sicuro? E glielo dice una figlia che ha visto combattere il proprio padre e i suoi uomini tutta la vita contro quella che lei definisce 'parte giusta'...", ha osservato Rita Dalla Chiesa su Twitter, rispondendo proprio al messaggio che Lerner aveva scritto in onore di Sofri.
Le parole dell'ex conduttrice Mediaset hanno ottenuto il plauso di diversi utenti, comprensibilmente infastiditi dal messaggio che il giornalista aveva pubblicato. "Stimatissima Rita Dalla Chiesa, la sua pacatezza le fa onore, davanti ad un post di uno squallore del genere", ha scritto un commentatore, Claudio. Per il momento, invece, non si sono registrate precisazione o repliche da parte di Lerner. Nelle ore precedenti, a criticare il giornalista dal fronte politico era stato anche l'esponente di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli. "Chi ha ucciso il Commissario Calabresi non è stato dalla parte giusta! E poi questi sinistri vorrebbero dare patenti di democrazia a noi…", aveva lamentato il deputato meloniano.
Per contro, in un paradossale sovvertimento delle norme del civile dibattito, nei giorni scorsi la stessa Rita Dalla Chiesa era stata presa di mira da sinistra con l'accusa di essersi schierata dalla parte ritenuta "sbagliata", ovvero a favore di Giorgia Meloni. L'ex conduttrice, sui social, aveva difeso la leader di Fratelli d'Italia dalle "cattiverie gratuite" e aveva attirato su di sé l'ira degli odiatori rossi da tastiera.
La caccia. Luca Fazzo il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
Cinquanta anni fa l'omicidio di Luigi Calabresi, arrivato dopo un quotidiano e pubblico linciaggio. Vittime con lui di una campagna d'odio furono i due magistrati che condussero l'inchiesta sul suicidio di Pinelli. Come dimostra una lettera che "Il Giornale" pubblica per la prima volta.
«Mostruosità civile». «Infamia morale». È un giorno di cinquantuno anni fa quando due giovani avvocati milanesi decidono che la misura è colma. Luglio 1971, la strage di piazza Fontana è una tragedia ancora fresca. Nella città convulsa della contestazione si consuma un altro dramma: il linciaggio pubblico, quotidiano, del commissario Luigi Calabresi, che l'ultrasinistra e i salotti progressisti indicano come l'assassino dell'anarchico Giuseppe Pinelli, morto in questura tre giorni dopo la strage. Assieme al linciaggio del poliziotto, che culminerà nel maggio 1972 con la sua uccisione, se ne consuma un altro: parallelo, brutale, corollario inevitabile delle accuse a Calabresi. Quello di Giovanni Caizzi e Antonio Amati, i due magistrati che hanno indagato sulla fine di Pinelli, e che hanno concluso che l'anarchico si è ucciso, buttandosi dalla finestra della stanza al quarto piano della Questura dove lo stavano interrogando. È una conclusione che la sinistra non può accettare. Su Caizzi e Amati piove di tutto. Insulti, minacce. Lodovico Isolabella e Massimo De Carolis sono avvocati, ma anche esponenti di spicco della Democrazia Cristiana milanese. E decidono di mettere nero su bianco la loro indignazione per la «infamia morale» in corso ai danni dei due giudici.
La lettera non sortisce alcun effetto, liquidata in poche righe nelle cronache locali. Nelle settimane scorse, quando il cinquantesimo anniversario dell'assassinio di Calabresi costringe a rivisitare quei giorni, Isolabella recupera in un cassetto la vecchia lettera. È un documento che racconta molto sul clima che accompagnò e rese possibile la persecuzione di Calabresi, il conformismo trasversale che dietro allo slogan «La strage è di Stato» portò a criminalizzare innocenti servitori dello Stato. Come i giudici Caizzi e Amati e la loro, si legge nella lettera, «severa, coraggiosa, non propagandata ma anzi reietta fatica di persone libere e oneste».
La colpa dei due: avere - Caizzi come pubblico ministero e Amati come giudice istruttore - concluso che Pinelli si era buttato. «Invano il rappresentante del pm aveva avuto modo di sfatare volta a volta e con puntuale precisione quelle false notizie diffuse nel pubblico per inquinare la verità (e destinate tuttavia, a poco a poco, a radicarsi e diventare assiomatiche)». Poco conta che il documento chiave, la perizia autoptica, sia stata sottoscritta anche dal medico legale indicato dalla famiglia di Pinelli, Franco Mangili, e concluda che «le lesioni si accordano con la modalità lesiva da precipitazione descritta in atti». Irrilevante la considerazione che spinge i due magistrati a escludere che Pinelli sia stato pestato e poi buttato, visto che «la stanza in questione si trova esposta alla possibile osservazione da parte di chi abita gli ultimi piani dello stabile che fronteggia la questura», e che «non era velata da tende o da persiane. Tutto questo non conta per il «gruppo di uomini di cultura» che, sull'Espresso del 13 giugno 1971 prende di mira Caizzi e Amati, parlando di «indegna copertura», invocando «una ricusazione di coscienza rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni» e chiedendo «l'allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini».
Il documento che chiede la cacciata di Caizzi e Amati raccoglie rapidamente adesioni illustri: Lelio Basso, Ferruccio Parri, alti dirigenti della Resistenza. Adesioni «captate», scrivono i due avvocati milanesi, a un documento che è «perno di una macchinazione aggressiva contro un ganglio vitale dello Stato e contro gli uomini che - non piegandosi al vento che tira ma seguendo l'imperativo della verità alla luce della loro coscienza - tentano ancora di mantenerne integre le funzioni». «È un perno la cui lega consiste in bassezza morale e inesattezza storica».
L'intervento di Isolabella e De Carolis cade nel vuoto. Gli attacchi contro i due giudici continuano. Anche dall'interno del palazzo di giustizia. Il sindacato degli avvocati e procuratori scrive che «l'archiviazione del procedimento ha dato adito a ogni sorta di perplessità e sospetti» tali addirittura da coinvolgere «la credibilità delle istituzioni democratiche». Magistratura Democratica, la corrente delle toghe di sinistra allora agli albori, parla di «violazioni di legge verificatesi nella fase istruttoria sulla morte di Pinelli» e attacca «una prassi giudiziaria caratterizzata da collusioni, complicità, prevalere della ragion di Stato sulle ragioni di giustizia».
Le toghe rosse di Md non sono le sole a sposare, in quei mesi, la tesi del «delitto di Stato». L'indagine sulla morte di Pinelli chiusa da Caizzi e Amati (pochi anni dopo una inchiesta bis, condotta dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio, confermerà anch'essa l'innocenza di Calabresi) viene di fatto soppiantata da un processo parallelo. È quello nato dalla denuncia che Calabresi, ormai logorato da accuse e insulti, ha avuto la cattiva idea di spiccare contro Lotta Continua, il foglio dell'ultrasinistra che ogni giorno gli dà dell'assassino. Il processo a Pio Baldelli, direttore del quotidiano, si trasforma in una inchiesta bis sulla morte di Pinelli: del quale viene anche ordinata l'esumazione. Quando il 15 ottobre 1970 il povero Calabresi deve andare in aula a deporre nel processo contro i suoi calunniatori si trova quasi trasformato in imputato, in un'aula stracolma di anarchici che lo insultano e lo sbeffeggiano nell'indifferenza del giudice Carlo Biotti. Invano il difensore del commissario, Michele Lener, chiede al giudice di intervenire. Ma Biotti risponde: «Indubbiamente è un oltraggio. Ma come si fa a arrestare sessanta, settanta persone?». Così l'udienza va avanti, mentre nei corridoi estremisti e polizia si picchiano, e dentro Calabresi cerca di dare la sua versione: «Sarà stata mezzanotte e mezza quando si sentirono rumori indistinti provenienti dalla mia stanza, poi un grido, un tonfo. E poi alcuni sottufficiali che correvano per il corridoio gridando si è buttato"». Nell'aula è il finimondo, «assassino, non è vero» «buffone». Ma Biotti lascia proseguire l'udienza con l'aula trasformata in piazza e la vittima in accusato.
Poco dopo salta fuori che il giudice la sua idea se l'è già fatta. Lener, l'avvocato di Calabresi, denuncia che Biotti - di cui è buon amico - un giorno lo ha chiamato, e gli ha detto piatto piatto che secondo lui Pinelli è stato ammazzato in questura con un colpo di karatè al bulbo spinale. Lener ricusa il giudice, Biotti finisce sotto inchiesta, Magistratura democratica insorge a sua difesa. Ma Biotti deve lasciare il processo che passa a un altro magistrato, Antonino Cusumano.
Il 23 ottobre 1976 il giudice Cusumano condanna Pio Baldelli a un anno e tre mesi di carcere per diffamazione aggravata nei confronti di Calabresi. Ma per Luigi Calabresi è una vittoria postuma. Quattro anni prima il militante di Lotta Continua Ovidio Bompressi gli ha sparato alla nuca mentre usciva di casa per andare a lavorare. In questura, come tutti i giorni, senza scorta, sapendo perfettamente quel che lo aspettava.
"Volevamo difendere dei galantuomini che erano rimasti soli". Luca Fazzo il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
Con Lodovico Isolabella è uno degli autori della lettera-testimonianza: "La borghesia moderata era sparita".
«Il clima era quello. Quando Calabresi venne ucciso, io che ero capogruppo democristiano in consiglio comunale, proposi che gli venisse attribuita la medaglia d'oro. Fu una discussione di dieci ore ma non ci fu niente da fare. Il sindaco, che era il socialista Aldo Aniasi, non ne volle sapere. Il Pci idem. Calabresi non poteva essere rispettato neanche da morto. Figuriamoci da vivo».
Sono passati cinquant'anni, e Massimo De Carolis la lettera che insieme al suo collega di partito Lodovico Isolabella scrisse in difesa dei magistrati che si occupavano del caso Pinelli, e che il Giornale pubblica oggi, se la ricorda bene. «Non ero particolarmente amico né di Caizzi né di Amati. Ma quella lettera si rese necessaria perché insieme al linciaggio pubblico contro Calabresi, additato come assassino di Pinelli, era partita una campagna violenta anche contro i magistrati colpevoli di avere concluso che Pinelli si era effettivamente suicidato. Caizzi e Amati, che erano due galantuomini, si erano ritrovati soli. E questo era una costante di quegli anni: la terrificante debolezza della borghesia moderata, una classe che aveva costruito la città e che sembrava fosse sparita. L'unica voce che si sentiva a Milano era quella della sinistra estremista e degli intellettuali che le andavano dietro. I milanesi moderati erano brave persone, ma la Camilla Cederna se li mangiava in un boccone. Il suo libro sulla morte di Pinelli, Una finestra sulla strage ebbe un peso decisivo nella criminalizzazione di Calabresi. Io avevo la scorta, e il mio agente era amico di quello che scortava la Cederna. E gli raccontò che il giorno in cui Calabresi venne ammazzato la Cederna pianse tutte le sue lacrime. Sapeva di averne una parte di colpa».
Lei conosceva Calabresi?
«Ero amico sia suo che del suo capo, Antonino Allegra, perché mi avevano salvato dal sequestro organizzato dalle nascenti Brigate Rosse, trovando in tempo il covo dove avrei dovuto essere tenuto prigioniero. Ho assistito in diretta al massacro mediatico quotidiano, martellante, cui vennero sottoposti. Le conclusioni dell'indagine di Caizzi e Amati, che li scagionava, era come se non ci fossero state, anzi erano la prova della complicità dello Stato. Sparare su Calabresi era come sparare sulla Croce Rossa, perché quelli che avrebbero dovuto difenderlo erano isolati e inermi di fronte a questa ondata».
Era una Milano plumbea.
«Ogni sabato i cortei spaccavano tutto e cercavano di assaltare la sede del Corriere. Il direttore Spadolini nel fine settimana si trasferiva a Roma per paura degli attacchi alla redazione. Andò a finire che lo licenziarono e lo sostituirono con Piero Ottone, che era un fuoriclasse e che ai contestatori sapeva fare l'occhiolino».
Secondo lei cosa successe in questura la notte in cui morì Pinelli?
«Io non c'ero, ma due cose le so per conoscenza quasi diretta. La prima è che la testimonianza di Cornelio Rolandi, il tassista comunista che aveva incastrato Valpreda per la bomba di piazza Fontana, era nata in modo genuino. Fu un mio collega di partito, il professor Paolucci, che per caso aveva preso il suo taxi, a raccogliere lo sfogo di Rolandi. Pensi che quello lì l'ho portato io alla banca, era agitato, mi ha fatto fare un giro dell'ostrega. Fu Paolucci a dire a Rolandi che non poteva tenersi quel peso addosso, che era suo dovere andare in questura e raccontare tutto».
E l'altra cosa qual è?
«Il vicequestore Allegra era un siciliano di poche parole. Il ministero degli Interni decise di toglierlo dall'Ufficio Politico di Milano e lo spedirono a dirigere un posto di polizia alla frontiera con la Svizzera. Era chiaramente una punizione. Lui venne da me e disse: io sono un povero poliziotto e lei è l'unico in questa città che mi ha difeso. Allora voglio dirle che una capacità so di averla: so riconoscere quando un alibi è falso. E l'alibi di Pinelli era falso».
Dagospia il 18 maggio 2022. Dalla bacheca facebook di Adriano Sofri
Nell’anniversario dell’omicidio di Luigi Calabresi, 50 anni oggi, ho raccolto e messo da parte (letto no, mai troppo zelo) le cose diverse pubblicate sui giornali o altrove. Con l’elementare funzione di google: Sofri-Calabresi, cerca. E’ così che ieri mi sono venuti fuori i link con il “Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri. Centro Nazionale di Selezione e Reclutamento”, il centro che presiede ai concorsi per il reclutamento nell’Arma e ai corsi interni per sottufficiali e ufficiali. La mia presenza là dentro, ripetuta nel corso degli anni, fa parte dei “Test per la preparazione alla prova preliminare”, suggeriti ai concorrenti: sono migliaia di quiz di vario argomento, con l’avvertimento che “Le risposte esatte sono quelle contraddistinte dalla lettera A”. Ecco il test che mi riguarda:
Adriano Sofri è stato condannato all'ergastolo:
A) per l'omicidio Calabresi
B) per l'omicidio del Generale Dalla Chiesa
C) per l'attentato a Giovanni Paolo II
D) per la strage di Bologna
(Che cosa sarà stato degli aspiranti carabinieri i quali per qualche singolare circostanza sapessero che non sono stato condannato all’ergastolo?)
Iuri Maria Prado per “Libero quotidiano” il 18 maggio 2022.
Nell'anniversario dell'assassinio di Luigi Calabresi, Adriano Sofri decide di intervenire in argomento e ieri, sul Foglio, si duole d'aver trovato scritto, perlustrando la rete internet, che lui sarebbe stato condannato all'ergastolo.
Si tratta senz' altro di un'inesattezza (perché Sofri non è stato condannato all'ergastolo ma a un paio di decenni di prigione), e ovviamente la vittima di una simile imprecisione ha tutto il diritto di dolersene. Tanto più se, come in questo caso, il condannato alla (diversa) pena ha sempre protestato la propria innocenza. Ma, come si dice, c'è un ma. D'accordo la puntualizzazione sull'entità della condanna. D'accordo il pieno di diritto di proclamarsi innocenti pur contro una sentenza che dice il contrario (solo gli imbecilli dicono che "le sentenze non si commentano", come se fossero il giudizio di dio). D'accordo parlare di te anziché di quello che, secondo la sentenza, hai fatto ammazzare. Ma santa pace, proprio in quel giorno?
Ammettiamo pure che tu sia innocente, ma proprio nel giorno in cui sono cinquant' anni da quando quel disgraziato è stato lasciato per terra, freddato da quel piombo assassino, tu prendi carta e penna e proprio ieri, proprio quando si ricorda quella vita spaccata, proprio quando, forse, sarebbe il caso di guardare altrove, tu te ne vieni fuori con "Io, io, io..."? Mah.
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 18 maggio 2022.
È incredibile, ma il giorno delle celebrazioni è anche vigilia di udienza. A Milano si commemora Luigi Calabresi a 50 anni dalla sua morte, a Parigi Giorgio Pietrostefani si prepara alla resa dei conti. Oggi ci sarà udienza e l'ex dirigente di Lotta Continua sulla carta potrebbe essere estradato in Italia.
È la coda di uno dei procedimenti giudiziari più accidentati e controversi della storia patria e a questo, come se non bastasse, si aggiunge la protezione sciaguratamente accordata ai fuoriusciti italiani dalle autorità francesi. La cosiddetta dottrina Mitterand che ha garantito per decenni una latitanza tranquilla e impenetrabile a decine di ex terroristi, autori di atroci delitti fra gli anni '70 e '80.
Pietrostefani ha approfittato di questo scudo e, fra un verdetto e l'altro, è scappato a Parigi dove nessuno l'ha disturbato per lungo tempo. Poi l'anno scorso il vento è cambiato: il 28 aprile 2021 è stato arrestato e quindi posto in libertà vigilata in attesa di una decisione che ora, dopo tredici mesi di attesa, potrebbe finalmente arrivare.
Comunque vada, siamo fuori tempo massimo. «Giorgio Pietrostefani - ha scritto ieri sul Corriere della sera Mario Calabresi, giornalista, ex direttore di Repubblica e figlio di Luigi - oggi ha 78 anni e da venti è latitante in Francia. Verrebbe da dire che siamo tutti, la nostra famiglia e la società italiana, prigionieri della cronaca».
Possibile che questo terribile omicidio, l'ouverture degli anni di piombo, galleggi ancora sui giornali e non trovi finalmente posto nei libri di storia? «Mia madre - prosegue Calabresi - ha insegnato a me e ai miei fratelli a non odiare, a non coltivare il rancore ma a guardare la vita con fiducia e serenità. Per questo, pur giudicando importante e preziosa anche se tardiva, la decisione francese di non garantire ospitalità a chi si macchió di reati di sangue negli anni '70, noi crediamo che il carcere di un uomo vecchio e malato oggi non abbia più alcun senso. Più importante sarebbe avere da lui e dai suoi compagni di lotte parole di verità».
Pietrostefani ha subito un trapianto di fegato e nel caso dovesse essere spostato in Italia è facile immaginare quel che potrebbe accadere: una successione di certificati medici, visite di specialisti, trasferimenti in clinica per scontare i 14 anni che ancora gli mancano su un totale di 22.
Le indiscrezioni che rimbalzano dalla capitale francese vanno tutte in questa direzione: l'ex dirigente delle Officine Reggiane è ricoverato in ospedale, sarebbe intrasportabile, insomma all'orizzonte si profila un nulla di fatto, forse un rinvio per rivalutare più avanti le sue condizioni di salute.
Si, ormai è tardi per i tempi della giustizia. Sarebbe invece l'ora di far sentire la voce della verità: nessuno, a parte il pentito Leonardo Marino, l'autista del commando assassino, ha mai raccontato dall'interno la vera storia di questo crimine.
Due fatti sono certi. L'idea di ammazzare Calabresi maturó nel perimetro di Lotta Continua, fra Adriano Sofri e Pietrostefani, con Ovidio Bompressi killer: il commissario era considerato dall'ultrasinistra il killer dell'anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano, in un cupo intrecciarsi di tragedie, nel corso dei drammatici interrogatori seguiti alla strage di Piazza Fontana.
Forse fu un malore, forse fu un incidente, forse fu spinto. Ma dalle testimonianze sappiamo che in quel momento, la sera del 15 dicembre 1969, Calabresi non era nella stanza con Pinelli. E invece da quel giorno il poliziotto comincia a morire, vittima di una violentissima campagna di linciaggio. Sappiamo anche che molti, oltre ai quattro condannati, sapevano e sanno cosa accadde quella mattina ormai lontana in via Cherubini, nel cuore di Milano.
Nessuno ha mai parlato, nessuno ha mai aperto uno spiraglio di luce su quel passato doloroso, tutti hanno sempre difeso con le unghie l'innocenza degli imputati e hanno provato a ridimensionare e svalutare il racconto coraggioso di Marino. Sarebbe ora, prima di voltare pagina, di consegnare quella pagina di sangue all'Italia.
Omicidio Calabresi, Pietrostefani assente all'udienza per l'estradizione. Daniele Dell'Orco il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'ex membro di Lotta Continua, fuggito da oltre vent'anni in Francia, non si è presentato in Tribunale. L'avvocato: "È malato, non riesce a stare in aula. La richiesta dell'Italia? Una caricatura".
Giorgio Pietrostefani non si è presentato oggi all'udienza per l'estradizione e la decisione è stata rinviata di nuovo al prossimo 29 giugno. Così ha stabilito la Corte d'Appello di Parigi.
Il fondatore di Lotta Continua, che fu tra gli organizzatori dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio del 1972, ha 78 anni ed è malato da tempo. Da qui il motivo della sua assenza (prevedibile) e della richiesta del suo avvocato, Ire'ne Terrel, di respingere la richiesta dell'accusa.
Più in generale, Terrel intende aggiungere alle precarie condizioni di salute del suo assistito, anche le tempistiche con cui si è arrivati al processo e alla documentazione presentata dallo Stato italiano, definita "una caricatura": "Basta così, sono passati 50 anni dall'omicidio. In più, tra il fatto e l'accusa sono passati 16 anni. Tra l'arrivo di Pietrostefani in Francia e la richiesta di estradizione, inoltre, sono trascorsi altri 20 anni. E Pietrostefani adesso è un uomo malato, che non riesce a stare in aula", ha spiegato Terrel ai giudici.
Ha inoltre ricordato che anche Mario Calabresi, figlio del commissario, ha ammesso che "ormai la condanna non ha quasi più senso". L'ex direttore di Repubblica, a margine della cerimonia organizzata in occasione del 50esimo anniversario dall'omicidio del padre, ha detto: "Ci siamo molto interrogati su questo [la richiesta di estradizione, NdR]. Oggi a noi che un uomo di 78 anni malato vada in carcere non restituisce più niente. È importante dal punto di vista simbolico ma per noi non ha quasi più senso. Io non ho fatto il lavoro che ha fatto mia madre che è un percorso di perdono, ho fatto un percorso di pacificazione e ho imparato a non coltivare la rabbia".
Al contrario, ieri il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, intervenendo durante la ricorrenza, aveva parlato di "udienza importante".
Pietrostefani, tra i mandanti del commando che freddò a colpi di pistola il commissario davanti casa sua, fu poi manager delle Officine Reggiane, e venne arrestato a Reggio Emilia nell’agosto 1988, 16 anni dopo l'omicidio. Venne condannato a 22 anni di carcere ma nel 2000 fuggì in Francia da latitante. Solo nel gennaio scorso, i francesi hanno deciso di estradarlo in Italia.
Omicio Calabresi il buio cala sul Paese. Il titolo: «La sfida criminale all’Italia». Annabella De Robertis il 18 Maggio 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
È il 18 maggio 1972. È iniziata l’ora più buia dell’Italia repubblicana: quasi tre anni dopo l’attentato alla Banca nazionale dell’Agricoltura di Milano, consumatosi il 12 dicembre 1969, è ancora il capoluogo lombardo a macchiarsi di sangue. Il commissario Luigi Calabresi è stato ucciso con due colpi di pistola inferti alle spalle, davanti alla sua abitazione. «Una sfida criminale all’Italia democratica» titola La Gazzetta del Mezzogiorno, che pubblica in prima pagina, come gran parte dei quotidiani nazionali, anche le foto della salma della vittima e dell’auto, una Fiat 125 blu, su cui è fuggito l’assassino.
Nato a Roma nel 1937, Calabresi vince il concorso da vice-commissario di Polizia e nel 1968 diventa commissario aggiunto a Milano: qui segue diverse indagini, tra cui quelle collegate alla morte di Giangiacomo Feltrinelli, e alcune inchieste sulle Brigate rosse. Il giorno della strage di Piazza Fontana è tra i primi a entrare nella Banca dopo l’esplosione della bomba. Inizialmente privilegia la matrice anarchica dell’attentato, ma questo comporta l’inizio di un lungo calvario. Giovanni Valentini ricostruisce sulla Gazzetta gli ultimi mesi di vita del giovane poliziotto: «”Calabresi sarai suicidato”. L’inquietante minaccia perseguitava il Commissario da più di due anni. Non c’era manifestazione di piazza in cui i movimenti extraparlamentari di estrema sinistra rinunciassero a ripetere l’ossessiva intimidazione. Anche l’infamante soprannome di “commissario finestra” aveva la stessa origine: la vicenda Pinelli, l’anarchico che pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana morì nel cortile della questura di Milano dopo essersi lanciato – secondo la versione ufficiale – dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, durante un interrogatorio. La polizia sostenne la versione del suicidio. Per i “gruppuscoli”, invece, si trattò di un altro episodio della strage di Stato. Calabresi fu, per così dire, l’imputato principale di quell’accusa. Il settimanale di estrema sinistra Lotta continua avviò contro di lui una furibonda campagna diffamatoria».
A soli trentacinque anni, Luigi Calabresi lascia una giovanissima moglie, due figli maschi e un altro in arrivo: «“Non mollate, non mollate!” ripeteva tra i singhiozzi la vedova ai funzionari di polizia in ospedale. “Mi hanno ammazzato l’uomo migliore” ha detto in lacrime il questore di Milano». Ancora troppi, all’indomani del feroce omicidio, gli interrogativi a cui urge dare risposta: «Chi è stato? Chi può aver interesse a “far fuori” Calabresi? Una rappresaglia per la morte di Feltrinelli? Un complotto internazionale?».
Carnefici senza scuse. Anzi, fanno le vittime. Alessandro Gnocchi il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. Il mondo intellettuale dovrebbe riconoscere la sua "ignoranza e arroganza". Invece "non c'è ombra di autocritica per il sostegno offerto ai terroristi giunti in Francia". Il mondo intellettuale dovrebbe riconoscere la sua «ignoranza e arroganza». Invece «non c'è ombra di autocritica per il sostegno offerto ai terroristi giunti in Francia». Gli intellettuali non hanno imparato niente dalla vicenda di Cesare Battisti. Lo hanno considerato un perseguitato dalla giustizia italiana. Dopo la resa, però, Battisti ha confessato quattro omicidi... Così Marcelle Padovani, giornalista, saggista, corrispondente de Le Nouvel Observateur ha commentato con l'agenzia Adnkronos la notizia dell'arresto dei sette terroristi italiani latitanti in Francia (altri tre sono in fuga). La retata fa cadere i teoremi, a dire il vero deboli, degli intellettuali di sinistra: gli «esuli» non sono terroristi ma militanti di una guerra civile, il metodo dei giudici era discutibile, ogni conflitto ha i suoi caduti, ci vorrebbe un'amnistia generale. La Francia di Macron ha cambiato idea: sono assassini. Scrittori, artisti e commedianti francesi dovrebbero ammettere di aver sbagliato. Dovrebbero ammetterlo anche scrittori, artisti e commedianti di casa nostra, da cinquant'anni dalla parte sbagliata. Non accadrà. I nostri «pensatori» sono sempre pronti a rispolverare il lessico da corteo anni Sessanta. Soprattutto i più abili nel barattare la rivoluzione con una posizione nella società. Gli integratissimi ribelli, quando si guardano allo specchio, vedono forse un volto segnato dal senso di colpa per aver tradito la causa e dal sospetto della propria mediocrità. Credono di rifarsi una verginità sostenendo tesi tanto radicali quanto insensate. L'intellettuale impugna un'arma nota a tutti: il manifesto accompagnato da firme eccellenti. Prendiamo proprio il caso di Cesare Battisti. Nel febbraio 2004, parte l'appello della rivista online Carmilla, fondata da Valerio Evangelisti con Giuseppe Genna e Wu Ming 1. L'arresto di Cesare Battisti è definito «uno scandalo giuridico e umano» e si chiede la liberazione. In una settimana firmano in 1500. Ricordiamo Pino Cacucci, Tiziano Scarpa, Massimo Carlotto, Nanni Balestrini, Giorgio Agamben, Antonio Moresco, Marco Mueller (pentito) e uno sconosciuto Roberto Saviano, che prima aderisce e, anni dopo, già famoso, ritira la firma. Poi Battisti confessa. Nessuno dei firmatari trova qualcosa di intelligente da dire. Riparte la litania della guerra civile nonostante Battisti sia più simile a uno spietato borseggiatore che a un eroico partigiano. Caso Calabresi. Il padre di tutti gli appelli. Questo è il peccato originale, quello che retrocede il mondo della cultura ufficiale e dei grandi media ad acefala appendice della peggiore politica, sconfinante nell'eversione. Lotta continua lancia una campagna contro il commissario Luigi Calabresi che ha condotto gli interrogatori dell'anarchico Pinelli, accusato di conoscere i fatti inerenti alla bomba di Piazza Fontana, a Milano. Pinelli vola dalla finestra della questura e muore tragicamente. Calabresi, in quel momento, è fuori dalla stanza ma è indicato quale colpevole da tutti gli estremisti d'Italia. Nel maggio 1972, un commando di Lotta continua uccide il commissario, sparandogli alle spalle. Calabresi si era trovato isolato dopo la lettera aperta dell'Espresso in cui era definito «torturatore». Chi aveva firmato? Norberto Bobbio, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Gae Aulenti, Alberto Moravia, Toni Negri, Margherita Hack, Dario Fo, Giorgio Bocca, Furio Colombo e può bastare, anche se le firme sarebbero 757. Eugenio Scalfari ha chiesto scusa nel 2007. Non aveva fretta. Poi c'è la storia, brutta, triste, delle Brigate rosse. Negli anni di piombo fu asserito dalle migliori (ehm) menti del Paese che i terroristi rossi fossero estranei alle logiche del Partito comunista, fino a quando non fu accertato l'esatto contrario. Come se non bastasse, saltò fuori anche che tra certa borghesia meneghina e radicalismo di sinistra non c'era soluzione di continuità. Gli intellettuali chiederanno scusa? No. Neppure capiranno. Nella loro logica allucinata, la richiesta di giustizia coincide con la vendetta dello Stato. Le vittime sono loro, i carnefici. Basta leggere la dichiarazione dello scrittore napoletano Erri De Luca, ex servizio d'ordine di Lotta continua: «L'unico mio commento è la strofa di una canzone di De André: Cos'altro vi serve da queste vite?». No, non si riferisce alle esistenze spezzate dei morti ma a quelle degli assassini costretti alla fuga in Francia. Adriano Sofri, mandante dell'omicidio Calabresi assieme a Giorgio Pietrostefani, imprigionato ieri, ribadisce con candore il concetto: «Che ve ne fate di questi ex terroristi?». E il terrorismo che cosa se ne sarà fatto delle vite strappate a innocenti durante una guerra immaginaria? Oreste Scalzone osa addirittura parlare di «assassinio dell'anima» dei poveri arrestati. A loro, l'assassinio dell'anima, dopo cinquant'anni di protezione. Alle loro vittime, l'assassinio e basta.
PiazzaPulita, Paolo Mieli sulla firma all'appello contro Calabresi: "Mi vergogno per quello che ho fatto". Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Il caso dei terroristi rossi arrestati in Francia tiene banco a PiazzaPulita, il programma di Corrado Formigli in onda su La7, la puntata è quella di giovedì 29 aprile. Ospite in studio ecco Paolo Mieli, che nel 1971 firmò l'appello su L'Espresso per la destituzione di Luigi Calabresi. Un appello che è una delle pagine più vergognose della recente storia italiana, appello che piovve due anni dopo la morte dell'anarchico Pinelli: Calabresi venne additato come maggiore responsabile per quella morte e finì con l'essere ammazzato da un commando rosso il 17 maggio 1972, sotto la sua casa. I firmatari di quell'appello erano più di 500, compresi Umberto Eco, Eugenio Scalfari, Norberto Bobbio. E Formigli chiede a Mieli: "Perché lo ha fatto? E cosa ha pensato anni dopo di questo". Encomiabile la risposta di Mieli: "So che fa strano dirlo, ma in quegli anni pensavamo davvero che ci fosse la mano della Stato ovunque, anche se i conti in certi casi non tornano neppure ora. Le stragi, pensavamo che Pinelli fu scaraventato giù dalla finestra, c'era un clima da vigilia di colpo di Stato", premette. Dunque, Mieli aggiunge: "Anni dopo ho fatto più di autocritica. Io mi vergogno, non provo a rivendicare quanto accaduto: facemmo un errore. Erano gli anni di Pasolini: io so chi è stato, non ne ho le prove ma lo so. Non voglio paragonarmi a Pasolini. Da quella volta, però, mi sono dato un comandamento: prima di dire io so ma non ho le prove, devi riflettere. Se sei un intellettuale o un giornalista serio, prima le cerchi quelle prove". Insomma, da parte di Paolo Mieli un'analisi senza distinguo, senza se, senza ma.
Giorgia Peretti per iltempo.it il 30 aprile 2021. Mi vergogno di quell’appello”. Questo il commento di Paolo Mieli ai microfoni di Piazzapulita sulla vicenda del commissario Luigi Calabresi ucciso per mano delle Brigate Rosse. La puntata di giovedì 29 aprile, del talk di Corrado Formigli, dedica ampio spazio alle ultime notizie che arrivano dalla Francia sull'arresto degli ex terroristi nell'operazione "Ombre rosse". Dopo una lunga intervista con Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi, dove ripercorre la tragica vicenda del padre è il momento dello storico giornalista. Paolo Mieli nel 1971, scrisse un appello assieme ad altri 500 firmatari de L’Espresso in cui si chiedeva la destituzione del commissario Calabresi, due anni dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Mieli, dopo anni, torna sulla vicenda dell’appello e sembra pentito della sua posizione sui fatti: “In quegli anni pensavamo che veramente ci fosse la mano dello stato dietro le stragi. Che Pinelli fosse stato scaraventato giù da una finestra e a quelle stragi se ne stavano accompagnando altri. C’era un clima di tensione, eravamo alla vigilia di un colpo di stato” racconta il giornalista. “Io anni dopo l’appello sono stato uno tra quelli che ha fatto pubblica critica. Io mi vergogno delle cose che sto dicendo, non provo a rivendicarle, facemmo un errore abbiamo dato una colpa a qualcuno con una scusa. Dicevamo: io so chi è stato non ho le prove. Ma so chi è stato” continua Mieli. Il conduttore gli sottolinea come ci sia stato un furore ideologico attorno al commissario Calabresi, come questo omicidio fosse nell’aria. E che Calabresi fosse una vittima predestinata. Mieli ribatte così: “Mi sono dato un comandamento ma non ho le prove, rifletti prima di dire una frase di questo tipo, oppure cercale le prove. A fare: ‘io so ma non ho le prove tanto poi pagano altri.’ Tanto poi a sparare sono altri e io poi vado avanti e ridirò la stessa cosa: ‘io so, ma non ho le prove’. Beh, io mi vergogno davvero di quella cosa. Non è una bella pagina della mia vita” conclude lo storico.
L'intervento del giornalista dopo i 7 arresti in Francia. Calabresi su Pietrostefani, arrestato per l’omicidio del padre: “Nessuna soddisfazione per un anziano malato in carcere”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 28 Aprile 2021. Nel giorno in cui la Francia di fatto cestina la dottrina Mitterand, la politica avviata dall’ex presidente francese che garantiva ospitalità e sicurezza a cittadini italiani responsabili di azioni violente, purché questi avessero lasciato la lotta armata e la violenza, c’è chi da “protagonista” delle vicende che hanno portato oggi all’arresto di sette ex terroristi rossi prende una posizione che nell’Italia del ‘pensiero unico’ è quantomeno scomoda. Mario Calabresi, giornalista ed ex direttore di Repubblica, ma soprattutto figlio di quel Luigi Calabresi ucciso da Lotta Continua nel 1972 perché ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, non riesce a provare “soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo”. Il riferimento è all’arresto a Parigi di Giorgio Pietrostefani, tra i fondatori di Lotta Continua, condannato a 22 anni di carcere come mandante dell’omicidio Calabresi, del quale si è sempre dichiarato innocente. Pietrostefani dopo aver scontato due anni di pena fuggì in Francia, protetto dalla dottrina Mitterrand. Fino ad oggi, quando la polizia francesi ha arrestato lui ed altri sei ex terroristi rossi, accusati in Italia di atti di terrorismo commessi negli anni ’70 e ’80: tra questi Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi, tutti delle Brigate Rosse, e Narciso Manenti, dei Nuclei Armati contro il Potere territoriale. Oggi è stato ristabilito un principio fondamentale: non devono esistere zone franche per chi ha ucciso. La giustizia è stata finalmente rispettata. Ma non riesco a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo. Dall’altra parte Calabresi sottolinea anche che con la ‘retata’ odierna “è stato ristabilito un principio fondamentale: non devono esistere zone franche per chi ha ucciso” e che “la giustizia è stata finalmente rispettata”.
L’OMICIDIO CALABRESI – Luigi Calabresi fu ucciso il 17 maggio 1972 a Milano. Era accusato dall’opinione pubblica di sinistra di essere il responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla finestra della Questura in una misteriosa circostanza. Secondo la sentenza definitiva Ovidio Bompressi e Leonardo Marino, entrambi militanti di Lotta Continua, uccisero il commissario durante un agguato, il primo materialmente sparò il colpo mortale, il secondo guidava l’auto per la fuga. I mandanti dell’omicidio furono invece Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. La condanna si basò sulle dichiarazioni di Marino, l’unico ad aver ammesso dopo essersi pentito le responsabilità nell’omicidio, raccontando la sua versione dei fatti. Marino fu inizialmente condannato a 11 anni di carcere per poi veder ridotta la sua pena dopo essersi pentito, fino a che questa non cadde in prescrizione perché le more dei ricorsi del processo fecero scattare la prescrizione. Pietrostefani ai tempi della condanna già risiedeva in Francia. Tornò in Italia il 1997 per prendere parte al processo e lì fu arrestato. Scarcerato nel 1999 per la revisione del processo e condannato ancora nel 2000, per sottrarsi all’esecuzione della condanna definitiva si rifugiò in Francia dove fino ad ora gli era stata accordata la protezione giuridica della dottrina Mitterrand.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Mario Calabresi per "Altre Storie" il 29 aprile 2021. “Passato o Futuro?”, è la domanda che faccio a chiunque si iscriva a questa newsletter e, fin dall’inizio, il passato è in leggero ma costante vantaggio sul futuro. Forse perché è più rassicurante, non contiene incognite e i ricordi spesso tengono compagnia. Ci voleva una donna che sta per compiere 92 anni, Natalia Aspesi, per darmi una risposta diversa: il presente. «Quello che conta è il presente. Il passato sarà stato anche meglio ma il presente non sbaglia mai». Sono tornato da Natalia, che avevo raccontato qui a novembre, perché volevo intervistarla ancora per avere la sua voce nel mio podcast (se cliccate qui potete ascoltarla). Per chiederle qual è il segreto per arrivare a 92 anni con lo spirito che ha lei. Mi ha risposto decisa: «La curiosità» e mi ha raccontato che continua a coltivare il futuro e che la cosa che la fa più arrabbiare è che «siamo sempre lamentosi». «Quello che mi impressiona è la mancanza di voglia di speranza. Cioè nessuno è più positivo, nessuno è più ottimista, tutti vedono il nero». Ecco alcuni passaggi dell’intervista, proprio sul tema che a me e a lei sta più a cuore.
Per te che cos’è il futuro?
«Beh, intanto cosa mangerò stasera che è già un problema, ci devo ancora pensare. Ma poi, sai, i sogni li faccio lo stesso. Io, in fondo, penso di averlo il futuro, sapendo che non ce l’ho, ma sono due cose che stanno insieme».
Quanto tempo occupano i ricordi e il passato nelle tue giornate?
«Io non ricordo niente, nulla: non solo ho dimenticato nel vero senso della parola, ma poi per me il passato è passato, non mi interessa».
Forse è questa la tua forza, che vivi nel presente e nel futuro.
«Chissà il futuro. Il presente di sicuro. Io non mi metto mai a dire: “Oh come era bello”».
Non li rimpiangi mai “i bei tempi perduti”?
«No, non li ho perduti, li ho avuti. Non li ricordo ma ci sono stati e fanno parte anche del mio presente, di quello che sono. Però non ho tempo per i ricordi».
Ma davvero c’erano, secondo te, i bei tempi?
«Sai io credo che ognuno li abbia, sono i tempi della giovinezza. Io, per esempio, sono felicissima di essere vecchia, perché ho vissuto la guerra che mi ha forgiato, mi ha insegnato a essere sicura di me perché mia madre mi abbandonava, in quanto doveva lavorare, e io andavo in giro da sola nella Milano bombardata. Poi la fine della guerra, l’inizio della ricostruzione, la gioia della libertà. Gli anni anche duri, che sono stati quelli del terrorismo. Però c’era lo stesso tantissima speranza e, soprattutto, è nato il femminismo».
A questo punto parliamo delle conquiste del femminismo e delle critiche ripetute che lei fa a quello che definisce il “femminismo vittimista” che perde di vista le cose importanti e qui torna a parlare dell’importanza del presente.
«È il presente che conta, non come lo vedo io, ma come lo vive la gente. Quando io faccio questi discorsi sulle donne, io so di sbagliare. Li faccio perché voglio mantenere il mio pensiero, ma io so che ha ragione chi fa altro, lo so, perché il presente è più forte e deve essere più forte del passato. Il passato sarà stato anche meglio ma il presente non sbaglia».
Nella lunga intervista per il podcast mi parla del suo amore per i libri, che invadono ogni angolo della sua casa, delle migliaia di lettere della “Posta del cuore” del Venerdì di Repubblica che ha conservato, e del colpo di fulmine per il cinema, scattato quando aveva cinque anni e la mamma, per lavorare, la lasciava insieme alla sorella al cinema ogni pomeriggio.
Infine, parliamo dei suoi sogni dopo il lockdown, dopo un anno passato in casa.
«Ho un sogno: andare alla Rinascente. Sto pensando di comprarmi uno di quei seggiolini che usano i vecchi signori che giocano al golf per andare alla Rinascente e potermi fermare davanti ai banchetti di lenzuola, di posate, di tutto ciò che riguarda la casa. Un’altra cosa che vorrei assolutamente fare è andare al Victoria and Albert Museum e poi, sempre a Londra, alla Tate Modern e visitarle per l’ennesima volta. Sì, quello è un mio desiderio e poi tornare giù nella mia casetta in Salento, a vedere i nuovi alberi che ho piantato».
Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021.
Mario Calabresi, cosa ha pensato quando è arrivata la notizia?
«Confesso di essere rimasto sorpreso. Se n' era parlato molto negli ultimi due anni, ma non pensavo che sarebbe mai accaduto».
È corretto dire che ci sperava?
«Più come italiano che come privato cittadino. Ho sempre pensato che il rispetto delle sentenze che condannavano queste persone sarebbe stato un gesto molto importante per tutti noi».
Per chiudere davvero con gli anni di piombo?
«Non solo. Ho sempre trovato odioso e grave che la Francia non rispettasse le sentenze italiane. La dottrina Mitterrand prevedeva di dare asilo a chi non aveva le mani sporche di sangue. Poi, negli anni, è accaduto qualcosa».
La famosa interpretazione estensiva?
«Era piuttosto un lassismo che fu applicato per compiacere un mondo intellettuale francese che si divertiva a dipingere l'Italia degli anni Settanta come il Cile di Pinochet. E questo ha di fatto sempre protetto e tutelato chi aveva ucciso altri esseri umani».
Ieri la dottrina Mitterrand è stata sconfessata per sempre?
«Tutt' altro. Per una volta è stata invece applicata alla lettera, ristabilendo così un principio fondamentale ignorato per quasi quarant' anni. Ieri tra Italia e Francia è stata scritta una pagina importantissima per il rispetto delle verità storica e giudiziaria del nostro Paese».
Invece qual è il suo sentimento privato e personale?
«Come mia madre e i miei fratelli, non riesco a provare alcuna soddisfazione. L' idea che un uomo anziano e molto malato vada in galera non è di alcun risarcimento per noi».
La fuga in Francia non è stata una scelta ben precisa?
«Come no. Durante il processo di revisione a Mestre, un giorno mio fratello Paolo si rivolse a mia madre. Guardalo bene, le disse, che secondo me non lo rivedi più. Sapevamo che sarebbe successo».
Perché due anni fa decise di incontrarlo?
«Era giunto il tempo di guardarlo in faccia. Di fare una cosa per me stesso. Fu la prima cosa che gli dissi quando ci vedemmo in un hotel a Parigi. Sono qui non come giornalista, non come scrittore, ma come figlio del commissario Calabresi».
Ha trovato le risposte che cercava?
«Il nostro colloquio di quel giorno rimarrà sempre una questione privata, tra me e lui. Per me è stato un momento di pacificazione definitiva, che mi è servito molto. Credo che a livello emotivo non sia stato facile neppure per lui».
Che impressione le fece?
«Un uomo stanco e malato. Molto diverso dalla persona spavalda vista durante i processi. Oggi non provo livore o rancore nei suoi confronti».
Proprio Pietrostefani ha detto una volta che la verità storica sull' omicidio del commissario Calabresi non esiste.
«Penso che tutte le persone munite di onestà intellettuale debbano riconoscere che sulla morte di mio padre verità storica e verità giudiziaria coincidono».
Firmerebbe una eventuale domanda di grazia?
«Non siamo nel Medioevo. Non sono le famiglie delle vittime a dover decidere, ma le istituzioni. Si tratta di un percorso e di decisioni da prendere nell' interesse generale. Al netto delle condizioni di salute di Pietrostefani, penso piuttosto a un provvedimento generale, che arrivi alla fine di un percorso collettivo. Qualcosa di simile alla Commissione per la verità e la riconciliazione presieduta da Desmond Tutu in Sudafrica. Clemenza, in cambio della verità su quegli anni».
O dell'ammissione delle proprie colpe?
«Non mi aspetto alcun autodafé. Ma credo che queste persone ci debbano qualcosa. Ci devono pezzi di verità. Sono uomini e donne che hanno partecipato a delitti che hanno segnato la storia di questo Paese. Ci mancano ancora dettagli, e soprattutto le loro voci per ricostruire quei fatti così tragici. Penso che dovrebbero assumersi le loro responsabilità».
E se lo facessero?
«Sarei il primo a chiedere un gesto di clemenza nei loro confronti. Credo che oggi raggiungere una verità definitiva abbia molto più valore che tenere quelle persone in galera per il resto della loro vita. All' improvviso abbiamo una occasione inattesa e irripetibile per fare un bilancio compiuto, con il contributo degli ultimi latitanti arrestati in Francia. Se si riuscisse a coglierla, sarebbe quasi doveroso un provvedimento che sancisca la fine di quella stagione».
La sua testimonianza ha contribuito a cambiare quel bilancio?
«Se fosse così, ne sarei fiero. Quando nel 2007 scrissi il libro che parlava di mio padre e della mia famiglia, per me era cambiare la narrazione su quegli anni, dove mancava del tutto il punto di vista delle vittime. Mai avrei immaginato di avere così tanto riscontro».
Quante volte le hanno chiesto se era convinto della colpevolezza delle persone condannate per l' omicidio di suo padre?
«Meno di quanto si possa credere. Al termine di un iter giudiziario lunghissimo, senza precedenti nella storia repubblicana in quanto a garanzie per gli imputati, non penso che qualcuno possa più avere dubbi».
A guardare indietro, c' è qualche dettaglio che più di altri le fa ancora male?
«Il giorno dopo l'omicidio di mio padre, sul Corriere della Sera apparve un solo necrologio firmato da un privato cittadino. Fatico a pensare alla solitudine che lo circondò anche da morto. Era tanto tempo fa, erano tempi feroci».
Passa spesso da via Cherubini?
«Ogni tanto ci vado. Mi fermo davanti alla lapide in pietra di montagna che ricorda mio padre. Ci sono sempre dei fiori e dei bigliettini portati dai milanesi. La gente capisce, e non dimentica. E questa per me è la cosa più importante».
Da “Altre/Storie” di Mario Calabresi il 30 aprile 2021. Negli anni, ogni volta che mia madre ha voluto parlarci di qualcosa di delicato o che le stava particolarmente a cuore, ci ha offerto un caffè al tavolo rotondo della sua cucina. Poteva capitare a uno solo di noi fratelli, i suoi figli, ma anche che ci convocasse tutti insieme. In quest’ultimo caso significava che il messaggio era davvero importante. Potrei chiamare quei caffè “gli insegnamenti della cucina”. Negli ultimi tempi ho pensato che avrei voluto fare una cosa strana: intervistarla. Non è cosa usuale un figlio che intervista sua madre, ma mi sono convinto che quei dialoghi della cucina meritassero di essere raccolti e condivisi. Perché non hanno valore soltanto privato, sono riflessioni sul senso della giustizia, sulla memoria, sul tempo che passa e ci chiede di essere capaci di lasciare andare, sull’importanza di avere uno sguardo positivo sulle cose. Così, non senza difficoltà, l’ho convinta a registrare un podcast, che pensavo potesse uscire intorno al 17 maggio, quarantanovesimo anniversario dell’omicidio di mio padre. Poi, mercoledì mattina, la notizia dell’arresto in Francia di quel gruppo di ex terroristi condannati per reati di sangue, che a Parigi avevano trovato da decenni accoglienza e coperture, mi ha spinto a concludere il nostro dialogo, che potete ascoltare qui, partendo proprio dall’attualità e ad anticiparne l’uscita pensando che le sue parole potessero essere una risposta – la sua risposta- ai tanti sentimenti che questo arresto ha smosso tra le persone. Abbiamo parlato del valore della giustizia, anche quando arriva in grande ritardo, della verità storica, ma soprattutto di come si fanno i conti con qualcosa che continua a visitare i sogni, anche dopo mezzo secolo. Per mia madre, Gemma Capra, la vita ha preso una nuova strada dopo la morte di mio padre, e una ancora diversa dopo la pubblicazione del suo necrologio. Ecco alcuni passaggi del nostro incontro, questa volta non davanti a un caffè, ma a due microfoni.
Mario: «Hai detto che la memoria cammina, ha le gambe. E partiamo da quel necrologio particolare che apparve sul Corriere della Sera. Che cosa diceva?».
Gemma: «Il necrologio erano le ultime parole di Gesù sulla croce e cioè “Padre, perdona loro” rivolgendosi ai suoi assassini “perché non sanno quello che fanno”. Ecco, io in quel momento non sarei riuscita a scegliere una frase del genere e quindi l’ha scelta per mia mamma, tua nonna, che era una donna di grande fede. Io però, quando lei me l’ha proposta, l’ho accettata molto volentieri, pensando che era giunto il momento di spezzare questa catena di odio, di rancore e di violenza, con una frase d’amore. E quindi ho accettato di scriverla».
Mario: «L’hai accettata ma poi tu come hai vissuto quei primi anni? Io ero così piccolo che mi ricordo solo i dettagli, tu che piangevi con la testa tra le mani alla scrivania, noi che andavamo per la strada e c’erano i fotografi che ci inseguivano».
Gemma: «È stato un periodo veramente difficile, molto difficile. Siamo andati ad abitare a casa dei nonni e avevamo comunque tanto affetto, l’affetto dei miei fratelli, le mie sorelle, l’affetto delle persone care e quindi riuscivamo comunque anche a ridere. Questo sì, io me lo ricordo. Ecco, si viveva. Se tu ti ricordi, io ho scelto da subito di farvi vivere non nel rancore e nell’odio. Poi io mi sono messa a insegnare religione alla scuola elementare e devo dire che, insegnando ai bambini, che sono una cosa meravigliosa, spontanei, avevo la sensazione quasi di tradirli. Perché quando io spiegavo il Vangelo o parlavamo dell’amicizia, del rispetto, del perdono, io poi avevo la sensazione a volte di tradirli. Io gli insegno il perdono ma io in realtà assolutamente non ho perdonato perché tu scopri che il perdono non lo dai con la testa, con l’intelligenza, lo dai solo col cuore e quindi non puoi prenderti in giro. O sei sicuro o niente da fare insomma».
Mario: «Pensi di essere arrivata dove volevi arrivare?».
Gemma: «Penso di sì. Ho dei momenti ancora magari difficili. Però io volevo arrivare a pregare per loro e io riesco a farlo. Ogni giorno nelle mie preghiere, io prego perché loro abbiano la pace nel cuore. Questa cosa mi dà pace, mi dà serenità, mi dà anche gioia e io ci tengo a dire che il perdono non è una debolezza. Voglio dirti che il perdono è una forza, ti fa volare alto».
Mario: «Tu hai avuto il coraggio, non senza alcune critiche, di risposarti, di darci un padre, che è stato un passo fondamentale, così è arrivato Tonino, Tonino Milite, che era un tuo collega di scuola, maestro di scuola elementare, pittore e poeta. Si può ben dire che ci hai fatto un gran regalo perché per quanto tu facessi, non è che fossimo bambini allegri».
Gemma: «No, le foto tue poi… Gli altri forse già di più, ma le foto tue erano proprio di un bambino triste».
Mario: «E invece Tonino ha colorato le nostre vite. Ci ha fatto ridere ci ha fatto fare la lotta, ci ha ridato anche quello che significa un padre, con tutto quello che ne consegue. Anche gli scontri. Io ricordo nella mia adolescenza scontri epici con Tonino. Però la storia di Gigi ha continuato a essere in te in un certo senso tutti i giorni. Come hai fatto a gestire le due cose? Come ha fatto Tonino?».
Gemma: «Tonino è stato veramente generoso perché lui ha abbracciato la nostra causa. Per cui ci ha seguito nei processi, ci ha aiutato quando dovevamo fare qualche intervista, ci è stato veramente vicino e quindi è stato importantissimo per noi. Ci siamo sentiti anche appoggiati e poi lui ha portato una ventata di giovinezza, anche se giovani eravamo, e ha tolto quel senso di cupo dalla nostra casa, vi ha fatto ridere, ha inventato un sacco di giochi, è stato importante. Io, ovviamente ho continuato a essere la signora Calabresi, anche quando ero con lui e dicevo Milite. Ricordo un giorno, quando mi presentarono come la signora Calabresi, e quando venne il suo turno lui disse: “Io sono il fantasma”».
Un passaggio fondamentale del suo racconto sono gli incontri con Licia, la vedova di Giuseppe Pinelli, avvenuti a Roma e a Milano, l’ultimo grazie al presidente Mattarella nel giorno del cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana.
Gemma: «Ci siamo salutate, ci siamo prima date la mano, ci siamo guardate e poi dopo ci siamo abbracciate e io l’ho fatto con tanto amore. Ho pensato che anche in quella casa, un giorno, il papà non è più rientrato e che quindi quel dolore lì ci accomunava. Ecco perché potevamo… Anche se due vite diverse, ecco perché potevamo abbracciarci, capirci. E la vedova Pinelli mi ha detto “Peccato non averlo fatto prima” una frase bellissima. Poi ho incontrato le figlie a volte nella Giornata della Memoria e ultimamente, proprio vicino a casa mia, in bicicletta, ho incontrato una delle figlie. Non potevamo abbracciarci, perché avevamo le mascherine, però ci siamo salutate con molto affetto».
Alla fine della registrazione del nostro podcast, mia madre si è accorta che nello studio c’era una batteria, allora ha cominciato a muovere le mani nell’aria come se stesse suonando, così ho scoperto che a 17 anni, con il suo primo stipendio, andò da Ricordi a Milano e comprò una batteria. La regalò a suo padre. La suonavano insieme la sera accompagnando i dischi, soprattutto quelli del suo gruppo preferito: i Beatles. Non ce lo aveva mai raccontato.
Estratto dell’articolo di Mario Calabresi per "la Repubblica" il 30 aprile 2021.
(…) Mario: Ti avevo chiesto di fare questa intervista per l'anniversario del 17 maggio, volevo ragionare con te su questo mezzo secolo, su tutto ciò che ci hai insegnato e sul percorso di pacificazione che ti sta a cuore. Adesso però la cronaca è tornata prepotentemente nelle nostre vite. A Parigi è stato arrestato Giorgio Pietrostefani, insieme ad altri condannati per terrorismo. E allora non posso che partire da lì e chiederti qual è la prima sensazione che hai avuto quando hai sentito la notizia?
Gemma: Un fulmine a ciel sereno, una cosa che non mi aspettavo più.
Mario: Ma che sentimento prevale in te in questo momento?
Gemma: Molteplici sono i sentimenti. Prima di tutto un chiaro e forte segno di giustizia e anche di democrazia. Certo, avrebbe avuto un altro senso per la nostra famiglia se fosse accaduto una ventina di anni fa. Tuttavia, penso che, da un punto di vista storico, quello che è successo sia veramente fondamentale.
Mario: Credo anche io che con questo gesto sia stata finalmente sanata una ferita tra l'Italia e la Francia, una ferita che era aperta da troppo tempo. Anche perché la dottrina Mitterrand non è stata sconfessata da Macron con questi arresti, ma finalmente interpretata correttamente. Perché il presidente francese aveva previsto l'accoglienza e l'asilo in Francia per chi lasciava l'Italia, ma non per chi si era macchiato le mani di sangue. E quindi oggi questo è stato ribadito.
Gemma: È per questo che dico che è un segno di democrazia, perché la Francia, che ha ospitato e tutelato degli assassini per troppi anni, oggi finalmente riconosce e accetta le sentenze dei tribunali italiani. Ricordo che durante il processo di revisione a Mestre tuo fratello Paolo mi disse: "Guarda bene Pietrostefani perché da domani non lo vedrai più". Era chiaro a tutti che sarebbe scappato in Francia.
Mario: Però hai detto che dentro di te ci sono molteplici sentimenti. Il primo è un senso di giustizia. Cos' altro senti, cos' altro provi?
Gemma: Oggi io sono diversa, ho fatto un mio cammino, ma credo che anche loro non siano più gli stessi. E tra l'altro sono anziani e malati.
Mario: Cosa significa per te questo?
Gemma: Che oggi non mi sento né di gioire né di inveire contro di loro, assolutamente.
Mario: Ti aspetti qualcosa adesso?
Gemma: Non voglio illudermi ma penso che sarebbe il momento giusto per restituire un po' di verità. Sarebbe importante che a questo punto delle loro vite trovassero finalmente un po' di coraggio per darci quei tasselli mancanti al puzzle. Io ho fatto il mio cammino e li ho perdonati e sono in pace. Adesso sarebbe il loro turno.
Mario: Come hai fatto a fare questo cammino?
Gemma: Io ho scelto da subito di farvi vivere non nel rancore e nell' odio, ma ho fatto il possibile per darvi la gioia di vivere e di credere ancora nell' umanità, nell' uomo e nelle persone, nonostante tutto.
Mario: Avevi 25 anni e vedevi l'uomo che amavi e che consideravi una persona per bene, che non c'entrava nulla con le accuse che gli venivano mosse, che subisce questa campagna di linciaggio, le minacce, le scritte sui muri, le lettere minatorie. Poi viene ammazzato sotto casa. Come facevi ad avere ancora fiducia negli esseri umani?
Gemma: Io non l'ho mai persa, devo dire la verità. Perché quelle persone lì non rappresentavano l'umanità, non rappresentavano l'Italia. Io ho ricevuto centinaia e centinaia di lettere di solidarietà, lettere di affetto, io non mi sentivo sola. Per me la minoranza erano quelli che avevano deciso di ucciderlo, erano quelli che per un'ideologia sbagliata hanno costruito a tavolino un mostro al quale non corrispondeva assolutamente Gigi.
Mario: Incredibile la solidarietà che ho visto. Quasi cinquant' anni dopo la gente ti ferma ancora al mercato.
Gemma: Sì, è bello. Mi ha aiutato a vivere questo. Io dico sempre "Non ce l'ho fatta, ce l'abbiamo fatta". Perché io ce l'ho fatta grazie a tutte le persone che mi vogliono bene, ancora oggi. (…)
Mario: Ma torniamo a te, quante volte ti viene in mente quel giorno di 49 anni fa?
Gemma: Ci sono dei periodi che mi viene in mente spessissimo. Ho dei sogni ricorrenti. Sogno che lui viene ucciso. Per esempio, l'ultimo: siamo al ristorante e si sente tipo un boato in lontananza e io dico "è una bomba, scappiamo" e lui dice "ma no, ma stai tranquilla, aspetta". Poi, a un certo punto, io so che sono fuori, all' aperto, come se fossi scappata e c' è un altro boato forte, una bomba che distrugge tutto e lui muore. Oppure noi scappiamo, siamo rincorsi, però già sappiamo che lui non ce la farà. Non so, c' è questa sensazione nel sogno. Ecco, questo non mi ha mai abbandonato, poi magari per dei mesi non lo sogno e poi ritorna.
Mario: E c' è lui? Te lo ricordi bene?
Gemma: Sì sì sì, c' è lui. Lo rivedo. Lui è giovane, è questo il guaio. Però nel sogno sono giovane anch' io.
Mario: cosa ti sta più a cuore oggi?
Gemma: Voglio lasciare a voi una testimonianza positiva della vita. Io vi dico una cosa: senz' altro è stata una vita pesante, ma sapete che non la cambierei? Perché è stata una vita intensa, ricca e piena di affetti, di amore, di gente che mi vuole bene. Eh, se io guardo gli altri, no, non mi cambierei. Qualche volta mi viene un po' di rabbia quando vedo le persone anziane ancora insieme per mano, allora lì ho un attimo di debolezza, ma è bene così, è bella così. La mia vita comunque è stata bella.
Tg1, il giornalista Angelo Figorilli sul caso Calabresi: "Una vendetta". Difende gli ex Br, un caso in Rai. Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. Guai in arrivo per Angelo Figorilli, giornalista del Tg1. L'amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini ha chiesto di avviare un'istruttoria sulle sue affermazioni. In un post pubblicato sul suo profilo Facebook, si legge in una nota di viale Mazzini, Figorilli avrebbe difeso Giorgio Pietrostefani, condannato come mandante dell'omicidio Calabresi e arrestato mercoledì scorso in Francia, parlando di "vendetta". Il caso era stato segnalato da Lega e Forza Italia. “Giorni fa – oveva osservato Maurizio Gasparri facendo riferimento alla bufera sul caso di Angelo Polimeno Bottai – si è fatto un grande clamore su un post di un giornalista del Tg1. Ora vorrei io rilevare la gravità di una uscita sui social di Angelo Figorilli giornalista del Tg1, che prende le pubbliche difese di Pietrostefani, uno dei condannati per l’omicidio del commissario Calabresi, definendo ‘vendetta’ anziché giustizia l’azione giudiziaria che l’ha colpito". Quindi Gasparri si era chiesto: "Il capo azienda della Rai, subito intervenuto nell’altro caso che dirà ora di un suo dipendente che considera una vendetta l’arresto di un omicida? Starà zitto perché chi ha ucciso Calabresi è intoccabile?”. Il caso in cui l’ad Rai Fabrizio Salini era prontamente intervenuto riguardava appunto un post di Angelo Polimeno Bottai, vicedirettore del Tg1 e nipote di Giuseppe Bottai. In occasione del 25 aprile aveva pubblicato la scheda elettorale del 1929 con il solo simbolo del fascio littorio e il commento: “C’era poco da scegliere”. Un post che semmai voleva sottolineare la dittatura e non certo difenderla. Allora la Rai aveva preso le distanze annunciando appunto un'istruttoria sul caso. E ora la Rai interviene anche sul caso di Figorilli.
Francesco Severini per secoloditalia.it l'1 maggio 2021. Gad Lerner difende la sua militanza giovanile in Lotta Continua. E respinge la tesi dei moltissimi che ormai riconoscono che attorno ai crimini del terrorismo rosso esisteva un clima compiacente di complicità per il quale nessuno ha pagato o si è scusato. Ecco, Lerner è uno che non si pente e che ritiene di non doversi scusare di nulla. Del clima di quegli anni, dove c’era chi istigava e copriva e che non ha mai pagato, neanche moralmente, per questo, ha parlato Umberto Croppi a proposito della fuga dell’assassino di Mikis Mantakas, Alvaro Lojacono. “Lojacono mai estradato? – dice Croppi – Viviamo in un’epoca diversa ora, lontana da quei fatti. Gli autori materiali di quei crimini non li giustifico e non li assolvo minimamente, ma hanno agito esponendosi in prima persona e, tutto sommato, pagando. Con la galera o venendo sradicati dalla loro vita. Mentre c’è un mondo che li ha spinti, sostenuti, giustificati e difesi che non è mai stato sfiorato da nessun tipo di giustizia, non dico solo quella penale, ma soprattutto morale. Non hanno mai provato riprovazione per quello che hanno fatto”.
Gad Lerner: Lotta Continua non è accostabile al terrorismo. “Repubblica – si lamenta Lerner oggi nel suo pezzo sul fatto quotidiano – insieme a quasi tutti gli altri media, ha inserito Lotta Continua tra le sigle del terrorismo, al pari delle Brigate Rosse. Pazienza se ciò stride con l’aver ospitato per un decennio fra i suoi editorialisti Adriano Sofri, il coimputato di Pietrostefani…”.
Gad Lerner: Lotta Continua si dissociò dal delitto Casalegno. E continua: “Ho militato in Lotta Continua dal 1973 fino al 1976. Poi, per altri tre anni, ho scritto sull’omonimo quotidiano. Ricordo bene la raccomandazione rivoltami da Claudio Rinaldi, uno dei più bravi direttori della mia generazione, anche lui passato dall’esperienza di Lc: “Se vuoi fare il giornalista devi dimostrare di aver posto fine a quel sodalizio e non esitare a raccontarne le pagine oscure”. Respinsi il consiglio di Claudio e ci guardammo in cagnesco per un bel po’, salvo vivere una riconciliazione durante la dolorosa malattia che se lo portò via troppo presto. Nel 1993, arrivato a La Stampa da vicedirettore, mi fu assegnata la stanza di Carlo Casalegno, assassinato dalle Br. A proposito di quel delitto nel 1977 avevamo scritto parole inequivocabili su Lotta Continua. Ci valsero minacce dall’ala militarista del movimento, che si prolungarono negli anni seguenti. Per certi versi, segnarono il nostro passaggio all’età adulta, il ripudio della violenza rivoluzionaria come strumento di emancipazione. Ma cosa volete che importi ciò a chi oggi identifica Lotta Continua con il terrorismo?”.
Mughini: l’errore di LC fu la mostruosa campagna contro Calabresi e poi l’agguato. Dunque, secondo Lerner, Lotta Continua evitò a molti giovani la deriva terroristica. Ma davvero la visione caramellosa di Lerner corrisponde alla realtà? Secondo Giampiero Mughini Lotta Continua “era una realtà complessa, viva, ricca, la più stimolante della mia generazione. Un conglomerato delle migliori forze: da Enrico Deaglio a Marco Boato a Guido Viale. Il loro errore fu quello di incaponirsi nella campagna contro Calabresi, accusato di una cosa mostruosa senza alcun elemento di prova. I più arcigni di loro organizzarono l’agguato che diede il là alla stagione del terrorismo rosso in Italia”.
Gad Lerner difende Lotta Continua: macché terrorismo, non mi pento della mia militanza. Francesco Severini sabato 1 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Gad Lerner difende la sua militanza giovanile in Lotta Continua. E respinge la tesi dei moltissimi che ormai riconoscono che attorno ai crimini del terrorismo rosso esisteva un clima compiacente di complicità per il quale nessuno ha pagato o si è scusato. Ecco, Lerner è uno che non si pente e che ritiene di non doversi scusare di nulla. Del clima di quegli anni, dove c’era chi istigava e copriva e che non ha mai pagato, neanche moralmente, per questo, ha parlato Umberto Croppi a proposito della fuga dell’assassino di Mikis Mantakas, Alvaro Lojacono. “Lojacono mai estradato? – dice Croppi – Viviamo in un’epoca diversa ora, lontana da quei fatti. Gli autori materiali di quei crimini non li giustifico e non li assolvo minimamente, ma hanno agito esponendosi in prima persona e, tutto sommato, pagando. Con la galera o venendo sradicati dalla loro vita. Mentre c’è un mondo che li ha spinti, sostenuti, giustificati e difesi che non è mai stato sfiorato da nessun tipo di giustizia, non dico solo quella penale, ma soprattutto morale. Non hanno mai provato riprovazione per quello che hanno fatto“. “Repubblica – si lamenta Lerner oggi nel suo pezzo sul fatto quotidiano – insieme a quasi tutti gli altri media, ha inserito Lotta Continua tra le sigle del terrorismo, al pari delle Brigate Rosse. Pazienza se ciò stride con l’aver ospitato per un decennio fra i suoi editorialisti Adriano Sofri, il coimputato di Pietrostefani…”. E continua: “Ho militato in Lotta Continua dal 1973 fino al 1976. Poi, per altri tre anni, ho scritto sull’omonimo quotidiano. Ricordo bene la raccomandazione rivoltami da Claudio Rinaldi, uno dei più bravi direttori della mia generazione, anche lui passato dall’esperienza di Lc: “Se vuoi fare il giornalista devi dimostrare di aver posto fine a quel sodalizio e non esitare a raccontarne le pagine oscure”. Respinsi il consiglio di Claudio e ci guardammo in cagnesco per un bel po’, salvo vivere una riconciliazione durante la dolorosa malattia che se lo portò via troppo presto. Nel 1993, arrivato a La Stampa da vicedirettore, mi fu assegnata la stanza di Carlo Casalegno, assassinato dalle Br. A proposito di quel delitto nel 1977 avevamo scritto parole inequivocabili su Lotta Continua. Ci valsero minacce dall’ala militarista del movimento, che si prolungarono negli anni seguenti. Per certi versi, segnarono il nostro passaggio all’età adulta, il ripudio della violenza rivoluzionaria come strumento di emancipazione. Ma cosa volete che importi ciò a chi oggi identifica Lotta Continua con il terrorismo?”. Dunque, secondo Lerner, Lotta Continua evitò a molti giovani la deriva terroristica. Ma davvero la visione caramellosa di Lerner corrisponde alla realtà? Secondo Giampiero Mughini Lotta Continua “era una realtà complessa, viva, ricca, la più stimolante della mia generazione. Un conglomerato delle migliori forze: da Enrico Deaglio a Marco Boato a Guido Viale. Il loro errore fu quello di incaponirsi nella campagna contro Calabresi, accusato di una cosa mostruosa senza alcun elemento di prova. I più arcigni di loro organizzarono l’agguato che diede il là alla stagione del terrorismo rosso in Italia”.
Giampiero Mughini per Dagospia il 29 aprile 2021. Caro Dago, te la faccio breve dato che chi ha comprato i quotidiani di oggi ha già letto sull’argomento i magnifici articoli di Francesco Merlo (“Repubblica”), Aldo Cazzullo (“Corsera”) e la straziante intervista di Mario Calabresi a quella donna meravigliosa che è sua madre Gemma, vedova del commissario trentatreenne Luigi Calabresi ucciso dal militante di Lotta continua Ovidio Bompressi con due colpi di revolver, uno alla schiena e uno alla nuca. Vent’anni fa, alla fine della presentazione di un mio libro a Cortina, me la trovai innanzi e la abbracciai furiosamente. Te la faccio breve, e comincio con una domanda. Dopo trent’anni che i nostri cugini francesi facevano lo gnorri, ossia fingevano di non capire che cosa fosse stato il terrorismo rosso in Italia, dopo decenni e decenni durante i quali in Francia non avevano voluto accogliere un Bettino Craxi il cui discorso in Parlamento (lo ricorda Filippo Facci nel suo libro) era stato giudicato da Marco Pannella un “discorso che aveva onorato il Parlamento” e avevano invece accolto e talvolta osannato delinquenti di strada quali Cesare Battisti, i sette arrestati di ieri a Parigi sono “feccia” o “ex feccia”? Che fossero la “feccia” della nostra generazione quando andarono ad ammazzare alle spalle magistrati e poliziotti non v’ha dubbio, che in più alcuni di loro l’hanno fatta franca perché si erano dati alla fuga non v’ha dubbio, che nei loro destini non ci sia un briciolo di giustificazione ideale che li nobiliti non v’ha dubbio. Epperò gli arrestati di ieri quanto coincidono con gli assassini che erano stati quarant’anni fa? Una giustizia che chiede di saldare il conto dopo quasi mezzo secolo non finisce purtroppo per somigliare a una vendetta? Tutto qui, e non è poco. E quanto alla necessità di un’ “amnistia” dei crimini politici degli anni di piombo - un’amnistia che Adriano Sofri rivendica con quella sua consueta smorfia impudente -, ricordo con quanta passione la richiedesse su mia sollecitazione l’Antonello Trombadori medaglia d’argento al valore militare della Resistenza in un’intervista che gli feci la bellezza di quarant’anni fa su “Pagina”, una gran bella rivista che conoscono in pochi. Sì, per quanto ributtanti siano ai miei occhi figure come quelle di Marina Petrella o come gli ex brigatisti che bussarono alla porta del generale Enrico Riziero Galvaligi (ex braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa) e lo uccisero come un cane, quella “amnistia” va decisa, va attuata. Persino le colpe le più efferate non durano quasi mezzo secolo, è impossibile che durino tanto. Ho trovato bellissime le parole di Mario Calabresi, il quale ha detto di avere incontrato a Parigi Giorgio Pietrostefani (il regista dell’agguato mortale a suo padre, uno dei sette arrestati di ieri) un paio d’anni fa, che si sono parlati e che per lui dopo quel colloquio è come se i conti fossero stati saldati. Il Pietrostefani di oggi è malato, credo non abbia neppure un’oncia del “Pietrostalin” raccontato con la consueta sapienza da Cazzullo. Sì, possono essere amnistiati. Indipendentemente da questo (non in cambio di questo) devono chiedere perdono in ginocchio, lo devono chiedere all’umanità, alle famiglie delle vittime ma anche alla mia generazione che hanno insozzato e non me ne dà pace. Feccia erano, nient’altro che feccia.
Federico Di Bisceglie per formiche.net l'1 maggio 2021. Erano anni di piombo e sangue. La spina dorsale del paese era prona alla barbarie del terrorismo. Perpetrato con la pulsione ideologica di militanti e millantatori di leadership, prima che con le pallottole. La Francia, che prima li ha accolti, ora li consegna. I sette terroristi che parevano destinati al cono d’ombra della storia, sono tornati ad essere di attualità, scompaginando un equilibrio radicato nella dottrina Mitterrand. Da Giovanni Alimonti, passando per Roberta Cappelli e Marina Petrella. Narciso Manenti, Maurizio Di Marzio. C’è un po’ di tutto: ex Brigate Rosse, Nuclei Armati per il contropotere territoriale. E, soprattutto, l’ex leader di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani. Su quest’ultimo pesa un ordine di esecuzione di pena emesso nel luglio 2008 dalla procura di Milano. Quattordici anni, due mesi e undici giorni, per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Sono nomi come tanti, questi sette, figli di ricordi in bianco e nero, sanpietrini e ideali tramontati. Chi all’epoca c’era e riesce a dare una lettura non scontata dell’operazione d’oltralpe è senz’altro Giampiero Mughini. Giornalista, conduttore, scrittore ed ex direttore del giornale del movimento Lotta Continua, che lanciò la campagna contro il commissario Calabresi. Quando nel 1987 scrisse Compagni, addio, e fu il primo a rompere davvero con la sinistra degli anni ’70, fu emarginato da quella che lui chiama “la lobby di Lotta Continua”.
Mughini, iniziamo a fare un po’ di chiarezza. Che cos’è, in realtà, la ‘dottrina Mitterrand’?
Penso che fosse un’operazione abile e astuta con cui il presidente francese si presentava bene al cospetto di una parte dell’elettorato di sinistra. Non solo. La dottrina Mitterrand consegnava l’immagine della Francia come uno Stato adatto a ospitare gli esuli politici. Una nazione, insomma, particolarmente attenta ai diritti civili degli imputati. In realtà, qualcuno di quei cosiddetti rifugiati politici non solo venne accolto, venne anche osannato.
Che cosa intende dire?
Basti pensare che una persona come Toni Negri – che terrorista non era, ma che flirtò a lungo con il terrorismo – è riconosciuta come una sorta di autorità morale, e questo la dice lunga. Cesare Battisti: né più né meno di un delinquente di strada, venne trattato come fosse un perseguitato secondo la narrazione dei fatti che lui stesso diede. In realtà, poi, si scoprì che era un pluriassassino.
Bompressi, Sofri, Pietrostefani. L’accostamento generalmente è questo, come una sorta di trinità inscalfibile e indivisibile. Che responsabilità hanno, secondo lei, i tre nell’omicidio Calabresi?
Innanzitutto va chiarito che sono tre persone completamente diverse e ognuno di loro ha avuto ruoli differenti nell’affaire Calabresi. Sofri, a mio giudizio, non ha organizzato l’agguato tanto più che quando accadde il fatto si trovava a Napoli, dove curava il giornale ‘Mò, il tempo si avvicina’ del quale se non ricordo male, ero io il direttore responsabile. Sebbene fosse un giornale pieno di fregnacce. Sofri è stato assolto dall’opinione pubblica di sinistra e, comunque, differentemente da altri si è fatto un bel po’ di anni di galera.
Giorgio Pietrostefani è il nome più altisonante della retata francese. L’ha conosciuto?
Non l’ho conosciuto negli anni più fulgidi della sua militanza milanese. Ho avuto modo di incontrarlo più tardi per motivi professionali. Meno che mai ho conosciuto Bompressi, sincero amico dei proletari a cui venne dato il triste incarico di premere il grilletto alle spalle del commissario.
Poi, in carcere, crollò.
Certo: non aveva l’armatura intellettuale che poteva vantare Adriano Sofri. Non era più il guerrigliero romantico del ’72, e il carcere logora. Ed è anche per questo che sono stato contento quando il presidente Napolitano gli concesse la grazia.
Il figlio del commissario Calabresi, Mario, ha scritto che non riesce a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo. Che cosa ne pensa?
Sono d’accordo, in pieno. La questione è bina. Da un lato c’è da considerare che, alcuni di quelli che hanno ucciso allora non hanno ancora pagato. D’altro canto, c’è da considerare che persone di oltre sessant’anni, pagherebbero colpe di trenta o quarant’anni fa. Ci vorrebbe in buona sostanza una forma di amnistia che attenui le situazioni processuali di queste persone. C’è da dire che nessuno dei retori che oggi pongono questioni sull’età dei terroristi intercettati in Francia, si è mai pronunciato, ad esempio, sul caso di Erich Priebke, che aveva quasi cento anni quando venne condannato per un processo in cui lui era solamente un ufficialetto del bestiale esercito occupante.
Secondo lei l’operazione Draghi-Macron scuoterà le coscienze?
Non penso. Anche perché, soprattutto per giovani generazioni, quei sono nomi non evocano nulla. Senza dire che c’è una vulgata di persone che continua a reputarli combattenti romantici figli di quell’epoca. Temo che si riproponga ancora una volta il refrain dei "compagni che sbagliano". Laddove molti di loro, non sono altro che feccia. La feccia della nostra generazione.
Che cos’era realmente Lotta Continua?
Era una realtà complessa, viva, ricca, la più stimolante della mia generazione. Un conglomerato delle migliori forze: da Enrico Deaglio a Marco Boato a Guido Viale. Il loro errore fu quello di incaponirsi nella campagna contro Calabresi, accusato di una cosa mostruosa senza alcun elemento di prova. I più arcigni di loro organizzarono l’agguato che diede il là alla stagione del terrorismo rosso in Italia.
Che cosa è rimasto di tutto questo?
La lobby di Lotta Continua c’è ancora ed è compatta. Purtroppo credo che continuerà a mancare all’appello una fetta di verità su quegli anni che per vigliaccheria e opportunismo non verrà mai a galla.
I comunisti che stavano con le Br hanno fatto carriera… Calabresi accusa i compagni omertosi. Vittoria Belmonte lunedì 16 Novembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Mario Calabresi accusa: gli anni di piombo sono lontani, ma molti, troppi, non si sono ancora assunti la responsabilità piena dell’odio seminato. Della violenza spalleggiata. Sono i compagni, gli ex, che hanno fatto carriera e hanno rimosso tutto. E che dovrebbero parlare e dire ciò che sanno. Per rimettere a posto le tessere di un mosaico che è ancora sfocato e impreciso.
Calabresi e il suo atto d’accusa. A parlare così è appunto Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi ucciso nel 1972 da Lotta Continua. Le sue riflessioni le riporta il Corriere, sottolineando che quello di Calabresi è un vero e proprio atto di accusa. «Qualcuno a sinistra si è offeso perché pensa che l’omertà sia legata solo alla mafia. Io vorrei che i ragazzi di quella generazione, che ora sono dei nonni, uscissero dal loro silenzio. Penso che non abbiano mai voluto raccontare la verità per un motivo: hanno voluto difendere le loro carriere».
I compagni hanno fatto carriera e preferiscono non parlare. E ancora: «Alcuni hanno fatto carriera in aziende e nel mondo della comunicazione: come potevano spiegare che stavano dalla parte dei brigatisti? Come lo giustificavano davanti ai figli e ai nipoti? Possiamo anche non rivangare il passato, ma c’è un passaggio fondamentale — dice Calabresi —: l’utilizzo della violenza e il rapporto tra politica e violenza. La violenza ha causato solo distruzione e nessun cambiamento sociale. Il terrorismo ha chiuso ogni possibilità di cambiamento, quella stagione ha liberato germi che vivono ancora oggi».
Calabresi: a tre di loro non ho stretto la mano. Poi Calabresi rivela un dettaglio inedito: “Per l’omicidio di mio padre sono stati condannati in quattro: il mandante morale, il capo del servizio d’ordine di Lotta continua — ancora latitante a Parigi —, chi ha sparato e chi ha guidato l’auto. Ma sappiamo anche chi ha acquistato le armi, chi le ha custodite, chi ha fatto i sopralluoghi, chi faceva il palo, chi ha seguito per giorni l’auto di mio padre. Questi non sono mai stati processati perché mancavano gli elementi. Ma non hanno nemmeno mai parlato. A tre di loro ho rifiutato la stretta di mano”.
L’ultimo libro di Calabresi: la vicenda di Carlo Saronio. L’occasione di questo j’accuse di Calabresi è la presentazione del suo ultimo libro, Quello che non ti dicono, che narra la tragica vicenda di Carlo Saronio. Saronio era un attivista di Potere Operaio e venne rapito e ucciso da un gruppo di estrema sinistra: il riscatto chiesto alla famiglia doveva servire per finanziare il Fronte Armato Rivoluzionario Operaio. Una vicenda che risale al 1975 e che offre a Calabresi lo spunto per denunciare un clima di complicità con l’estrema sinistra di molti ex che poi si sono integrati alla grande, senza mai chiedere scusa per il loro passato filo-brigatista.
Valentina Errante per “il Messaggero” il 30 aprile 2021. Nella notte in cui Cesare Battisti, condannato all'ergastolo per quattro omicidi, evaso dal carcere nell' 81 e rimasto latitante fino al 2019, fu estradato dal Brasile, Giuseppe Corasaniti, capo del Dipartimento Affari di giustizia, fece una telefonata. «Italo, è come se tu fossi qui con noi». Il suo interlocutore era Italo Ormanni, ex procuratore aggiunto di Roma che aveva guidato il dipartimento dal 2008 al 2010, quando ministro della Giustizia del governo Berlusconi era Angelino Alfano. E sul caso Battisti, Ormanni, aveva lavorato per mesi. Così come per riportare in Italia dalla Francia i dieci rifugiati Oltralpe per i quali è stato firmato un provvedimento di fermo due giorni fa. Allora Ormanni era arrivato a un passo, sembrava fatta. Ma entrambe le pratiche furono bloccate per precise scelte politiche.
Cosa era accaduto?
«Avevamo fatto un lavoro enorme. Nel 2009, sono stato tra Roma e Brasilia per seguire le udienze del supremo Tribunal federal, che doveva decidere sulla richiesta di estradizione che il governo aveva avviato nei confronti di Battisti, contemporaneamente sotto processo perché era entrato nel paese con documenti falsi. Tra l'altro lo stesso Battisti dichiarò di averli avuti da elementi dei servizi francesi, perché noi da tempo avevamo avviato le pratiche in Francia. Il Tribunale si pronunciò per l'estradizione, ma l'allora ministro della Giustizia Tarso Genro rifiutò di emanare il decreto. Il presidente, all' epoca, era Lula. La procura federale brasiliana impugnò il provvedimento davanti al Tribunale supremo federale, dopo una serie di udienze che si svolsero tra febbraio e settembre di quell' anno e alle quali ho partecipato accolse il ricorso, annullò il provvedimento del ministro e dichiarò l'estradizione di Battisti. La sentenza doveva essere eseguita con un decreto del presidente della Repubblica, Lula si era dimesso, ma Dilma Rouseff rifiutò di firmarlo. La storia è nota. La firma che ha fatto rientrare Battisti in Italia è di Bolsonaro».
E in Francia?
L' elenco dei dieci da estradare è al ministero da anni. Preesisteva addirittura al mio incarico. Ritengo che l'avesse stilato la Digos di Roma, all' epoca guidata da Franco Gabrielli, oggi sottosegretario, al dossier lavoravano due funzionari, Lamberto Giannini, che intanto è diventato capo della polizia, e Carmine Belfiore. A Parigi avevamo un ambasciatore molto combattivo ed energico. Sembrava fatta, l'attività diplomatica di Giovanni Caracciolo di Vietri era stata energica e l'allora presidente Nicolas Sarkozy avrebbe solo dovuto firmare. E invece all' improvviso si fermò tutto».
C' è chi sostiene che dopo tanto tempo gli arresti non abbiano più senso. Anche perché l'obiettivo dello Stato è quello di rieducare attraverso il carcere. Ma i dieci, in questi anni, non hanno commesso altri reati.
«Risponderei con Kant: la legge morale è valida a priori, per sè stessa, è un imperativo categorico. E va rispettata. Quell' osservazione sarebbe giusta se il trascorrere del tempo fosse addebitabile a lungaggini o altre pastoie burocratiche ascrivibili allo Stato. In questo caso, sono loro a essersi sottratti volontariamente alla pena irrogata dallo Stato. Allora il processo a Eichmann, arrestato dai servizi segreti israeliani e condannato negli anni Sessanta, non avrebbe avuto senso. Ma se io mi sottraggo a questa richiesta punitiva dello Stato e del privato, vittima del reato, non posso poi dire sono passati 40 anni. Queste persone hanno violato un equilibrio etico e sociale».
Nel dopoguerra, in nome di una pacificazione sociale si scelse l'amnistia. Qual è la differenza?
«Allora ci fu un intervento dello Stato, una scelta politica. Lo Stato può rispettare il minimo etico e allora stabilì di uscire da un conflitto politico per ricostruire il Paese, con un'amnistia, che è un istituto previsto dalla legge, come quello che dà allo Stato il potere punitivo».
Perché, secondo lei, dopo tanti anni, che l'Italia fa pressioni da tempo, solo adesso sono state avviate le procedure per l'estradizione?
«Direi fortunatamente adesso. Il perché non me lo chiedo. Dico solo Meno male».
«Le leggi speciali non erano ingiuste, ma la loro applicazione fu sommaria». Intervista ad Alessandro Gamberini, difensore di Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri: «La giustizia entra in campo per evitare la vendetta. Questi arresti sono la celebrazione di una vendetta tardiva». Simona Musco su Il Dubbio il 30 aprile 2021. «La giustizia entra in campo per evitare la vendetta. Ma con questa scelta ci troviamo davanti alla celebrazione di una vendetta tardiva». A parlare è Alessandro Gamberini, difensore di Giorgio Pietrostefani, uno dei sette ex terroristi arrestati mercoledì a Parigi. Convinto della sua innocenza per il delitto Calabresi, il legale contesta oggi l’applicazione di quelle leggi che portarono alla sua condanna. «I meccanismi applicativi – spiega al Dubbio – hanno valutato la responsabilità penale a volte in modo sommario».
Avvocato, cosa ne pensa di questi arresti?
Mi fa una cattiva impressione quando assisto a retate di settantenni. C’è un rapporto che lega la memoria alla giustizia e alla storia: quando sono passati tanti anni da avvenimenti che hanno portato a delle condanne l’intervento della giustizia non si rapporta più ad un fatto, ma ad una valutazione storica. E la storia richiede un altro approccio rispetto a quello dell’applicazione meccanica della pena. A distanza di 50 anni la condanna storica non vale nulla dal punto di vista del significato della giustizia. Mi appare come la celebrazione di una vendetta tardiva. Tanto più questa cosa mi meraviglia rispetto alla Francia.
Perché?
La Francia ha deciso decenni fa, non da poco, di dare asilo a queste persone. Sono decenni che queste persone vivono alla luce del sole, hanno un lavoro, hanno riformato una famiglia. La Francia poteva decidere, legittimamente, di non dare asilo. Ma una volta che è stato dato, revocarlo, trattando le persone come pacchi postali, viola l’articolo 8 della Cedu. Il tema non si pone solo rispetto alle condanne, ma anche rispetto al fatto che sono state radicate aspettative di vita che vanno tutelate. E lo dico perché la Corte europea lo ha affermato più volte rispetto alle espulsioni: non sono possibili se determinano una violenza assoluta nei confronti delle relazioni familiari. L’Italia ha perseguito a fasi alterne queste persone ed è normale che esprima soddisfazione, perché l’ordinamento italiano che ha espresso quelle condanne ha trovato conforto. Ma è un conforto che ha dei limiti: queste vicende non appartengono più alla giustizia.
Tornando a quegli anni, secondo lei si poteva combattere il terrorismo senza creare leggi speciali?
Ho vissuto quel periodo come avvocato e come docente di diritto penale. Dando un giudizio in chiave storica, con la freddezza che oggi ci consente di fare una valutazione, non penso che ci siano state norme palesemente incostituzionali che abbiano sospeso lo Stato di diritto in Italia. Quelle norme poi sono state aggravate da tutte quelle successive in maniera di terrorismo o di mafia, con una serie di enunciazioni che hanno coperto tutto il possibile scenario di queste vicende. In questi casi il problema è un’applicazione che è al limite dello Stato di diritto. I meccanismi applicativi – e succede anche ora nei processi per mafia – hanno valutato la responsabilità penale a volte in modo sommario. La valutazione della prova è stata non sempre individualizzata e spesso volta a fornire rassicurazioni all’opinione pubblica attraverso condanne, anche esemplari, e attraverso valutazioni sommarie. Credo che non sia stata la normazione, ma l’applicazione di quelle norme, in una situazione drammaticamente conflittuale, a portare la Francia alla dottrina Mitterrand. Una dottrina che emerse – con riferimento ai condannati non per delitti di sangue – sul presupposto che questo conflitto andasse riparato in sede politica e non in sede giudiziaria. Fu un tentativo anche di giocare a ridosso di un Paese amico, l’Italia, per aiutarlo a risolvere queste vicende. E in sede politica si sarebbe potuto risolvere con amnistia e indulto. Non per i delitti di sangue, ovviamente, ma buona parte di quelle persone poteva essere ricondotta nell’alveo della vita civile senza bisogno di passare sotto le forche caudine della galera, perché sotto il punto di vista della pericolosità, finito quel fenomeno, tutti sono tornati alla civiltà.
Il concorso morale è una categoria sostenibile?
Nel nostro ordinamento è una categoria conosciuta e applicata. Ovviamente è una questione delicatissima: quando non c’è la prova della partecipazione diretta non c’è alcun riscontro e quindi si è senza difesa. Questo strumento va usato con assoluta prudenza, tant’è che in materia di concorso esterno in associazione mafiosa le stesse sezioni Unite nella sentenza Mannino dissero che non poteva essere usata la categoria del concorso morale. In un contesto in cui tutto viene utilizzato in maniera forzata è ovvio che questa è la categoria che, più di altre, può rappresentare un passepartout per avere delle condanne ingiustificate.
Gemma Capra, moglie di Luigi Calabresi, ieri ha affermato che non si tratta più delle stesse persone e che non si sente di gioire.
Ho apprezzato anche la dichiarazione del figlio Mario, rispetto a Pietrostefani, di cui sono difensore, che ha affermato che a distanza di tanto tempo non avverte questa cosa come un successo. Apprezzo sempre quando persone che hanno subito un dolore tanto atroce riescono a dire cose del genere. Non ho capito, però, cosa intenda quando dice che sarebbe il momento giusto per restituire un po’ di verità. C’è stato un processo e la famiglia Calabresi ha sempre ritenuto che quella fosse la verità e che i mandanti fossero Pietrostefani e Sofri. A meno che la famiglia Calabresi non ritenga che la verità sia un’altra. Io che li ho difesi continuo a dire che sono innocenti, ma le sentenze dicono un’altra cosa. Se si ritiene giusta la sentenza questa è la verità che chiude il cerchio.
Oggi l’Italia chiude i conti con il passato?
Non ci riesce. Capisco che non sia semplice, ma 50 anni dopo, un capitolo chiuso sotto ogni punto di vista, nonostante le ferite, potrebbe diventare storia. La soluzione politica poteva essere invocata da tempo, ma farlo in questo Paese è complicato. Qualcuno ha evocato la soluzione adottata da Togliatti nel dopoguerra, aspramente criticata da molti perché consentì a molti repubblichini che si erano macchiati di delitti di cavarsela dal punto di vista giudiziario. Ma volle dire anche chiudere un capitolo e impedire che questo meccanismo di giustizia si infiltrasse in vicende storico-politiche chiuse. È ovvio che questa cosa possa provocare dolore per le vittime. Ma la giustizia entra in campo per evitare le vendette. L’aspetto fondante della scelta sarebbe stato quello di collocare nella storia e non rivangare la memoria di questioni ormai cristallizzate negli albi delle cronache.
Aldo Cazzullo per corriere.it il 28 aprile 2021. Quando, per gioco, i capi di Lotta Continua si divertivano a immaginare la composizione del governo dopo che fossero andati al potere, il ministero dell’Interno veniva invariabilmente assegnato a Giorgio Pietrostefani (arrestato oggi a Parigi). Un po’ perché era figlio di un prefetto. Un po’ perché lo chiamavano Pietrostalin, per la sua durezza. Un giorno disse a una futura leader del femminismo italiano, che era entrata nella stanza delle riunioni senza preavviso: «Adesso esci, bussi, chiedi permesso, ed entri». E a una scrittrice di successo intimò di non presentarsi più in collant, «che mi distrai gli operai». In carcere, al don Bosco di Pisa dove era rinchiuso con Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani indossava una tuta con un maglione verde, e gli accadeva di passare ore in parlatorio a raccontare la sua storia. All’Aquila era compagno di scuola di Bruno Vespa. Era arrivato a Pisa da studente a diciannove anni, nel 1962, quando il Sessantotto era di là da venire. «L’università fu occupata per la prima volta nel 1964. Io naturalmente votavo per proseguire l’occupazione; per riaprire l’ateneo furono mobilitati gli studenti dei collegi delle monache e gli iscritti al Pci. Così mi iscrissi al Pci pure io. Ero più a sinistra, ma pensavo che bisognasse stare “dentro e contro”. Entrai anche nell’Unione goliardica: il capo era Franco Piperno, c’era anche una ragazza che sarebbe diventata mia moglie, Fiorella Farinelli. I momenti più attesi erano quando arrivavano i tre santoni: Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Toni Negri. Non si faceva altro che parlare di classe operaia, avevamo la religione della classe operaia, l’operaio era Dio fatto uomo, ma non ne vedevamo uno; solo qualche ex, divenuto funzionario del partito o del sindacato». «Gli operai veri, anima e sangue, li incontrammo un paio di anni dopo, quando irruppe nella nostra vita Adriano Sofri, che allora insegnava nelle scuole. Ci propose di fare insieme un giornale, “Il Potere operaio”, da distribuire in tutte le fabbriche del litorale toscano. Adriano era stato espulso dal Pci; così ci facemmo cacciare tutti: “fuori e contro”, senza compromessi e mediazioni. A Pisa vivevamo in pratica a casa sua: c’erano due bambini, quindi tutto funzionava regolarmente, il frigorifero era sempre pieno, si mangiava tre volte al giorno; per noi, che a volte non sapevamo neppure dove andare a dormire, era un paradiso. In casa Sofri giravano anche i sottoproletari della stazione, che prima venivano regolarmente pestati dai paracadutisti: noi li prendemmo sotto la nostra protezione e finimmo per assorbirli».
Il mistero Mattei.
A Bascapè Spadolini mi chiese di non capire la morte di Mattei. GIORGIO MANNINO su Il Domani il 18 marzo 2023.
Giuseppe Carlo Marino aveva 22 anni il 27 ottobre 1962, quando il presidente dell’Eni Enrico Mattei morì a Bascapè. Adesso che ne ha 83 racconta come si trovò sul luogo dell’incidente poche ore dopo ed come ebbe subito l’impressione dell’attentato.
Ma fu minacciato da un misterioso uomo dall’impermeabile bianco. E il direttore del Resto del Carlino Giovanni Spadolini mise subito a tacere il giovane collaboratore: «Lascia perdere, il giornalista è un brutto mestiere e pericoloso».
«Sono sicuro che anche lui non credesse all’ipotesi dell’incidente, ma che esistesse qualcosa di misterioso ed impalpabile in Italia che sconsigliasse di sostenere questa tesi. Ebbi la netta sensazione che Spadolini negasse per non affermare ciò che non poteva dire»
Giuseppe Carlo Marino aveva 22 anni il 27 ottobre 1962, quando il presidente dell’Eni Enrico Mattei morì a Bascapè, pochi chilometri da Milano, nello schianto del suo executive Morane Saulnier 760. Adesso che di anni ne ha 83 racconta come si trovò sul luogo dell’incidente poche ore dopo, come ebbe subito l’impressione dell’attentato, come fu subito minacciato da un misterioso uomo dall’impermeabile bianco e come il direttore del Resto del Carlino Giovanni Spadolini mise subito a tacere il giovane collaboratore invitandolo a lasciare il giornalismo e dedicarsi alla professione di storico. Cosa che Marino ha fatto, coprendo per molti anni la cattedra di storia contemporanea a Palermo e scrivendo numerosi saggi sul fenomeno mafioso. Ma a 60 anni di distanza, mentre nell’intreccio di indagini e depistaggi non è ancora risolto definitivamente il mistero della morte di Mattei, la testimonianza di Marino restituisce soprattutto il ritratto di un’epoca, di un clima e di uno stile. E anche di Spadolini, ragazzo prodigio del giornalismo italiano, direttore del quotidiano bolognese a 29 anni prima di passare al Corriere della Sera e alla carriera politica che lo porterà fino a palazzo Chigi.
«Quando accennai all’ipotesi dell’attentato come spiegazione della morte di Enrico Mattei, Spadolini mi fermò: “Lascia perdere, il giornalista è un brutto mestiere e pericoloso. Tu diventerai un grande storico”. Sono sicuro, tuttavia, che anche lui non credesse all’ipotesi dell’incidente. Probabilmente era convinto si trattasse di un attentato ma che esistesse qualcosa di misterioso ed impalpabile in Italia che sconsigliasse di sostenere questa tesi. Ebbi la netta sensazione che Spadolini negasse per non affermare ciò che non poteva dire».
LA CORSA NELLA NOTTE
In quegli anni il giovane Marino frequentava la Scuola superiore di idrocarburi che aveva sede nel cuore pulsante dell’Eni, a Metanopoli, appena fuori Milano. Si trattava di un istituto di formazione di cultura economica e di un centro per lo sviluppo di relazioni internazionali dell’ente fondato da Mattei. «La sera della tragedia di Bascapè, di ritorno da una passeggiata pomeridiana a Metanopoli, mi fermai a mangiare nella sala ristorante dell’hotel Santa Barbara. Improvvisamente l’ingegnere Domini Della Meduna, dirigente dell’Eni, noto per la sua militanza nella Decima Mas, mi diede la notizia della morte di Mattei, dicendo subito che si era trattato di un attentato e non di un incidente».
A Metanopoli si scatena il panico. Marino è sconvolto. «Pensai a come aiutare Giovanni Spadolini, col quale ero in contatto perché ne ero stato allievo e aspiravo alla carriera giornalistica. Così lo chiamai per chiedergli se potessi dare un contributo al giornale, dato che mi trovavo a pochi chilometri dal luogo della tragedia. Spadolini acconsentì e mi chiese di raccogliere tutte le notizie che potevo dicendomi che avrebbe mandato, prima possibile, l’inviato del giornale».
Marino però ha un problema. Non ha la macchina. A dargli un passaggio è il cronista di nera della Stampa Remo Lugli. «Arrivammo sul posto alle cinque del mattino. Ricordo la nebbia che avvolgeva la campagna, l’aria pungente. Lo scenario era sconvolgente. A parte i resti dell’aereo di cui era disseminata l’area, non potrò mai dimenticare la carne umana che pendeva dagli alberi».
Un primo inquietante dettaglio che colpì molto Marino: «La distribuzione dei resti umani dava tutta l’impressione che l’aereo fosse esploso. Ero giovane ma avevo chiara la differenza tra gli effetti di un’esplosione e quelli di una caduta di un corpo a seguito di un incidente». Alla spicciolata stavano arrivando altri giornalisti e tutti erano attirati dalla presenza di Mario Ronchi, un contadino della zona, unico testimone oculare di quella notte. Ronchi abita nella cascina Albaredo e riferisce ai cronisti di aver sentito un rumore «come di tuono» e di aver visto «il cielo rosso che bruciava come un grande falò con fiammelle che scendevano attorno». Il contadino, il giorno dopo, ritratta le sue dichiarazioni e nega tutto. Niente scintille, niente palla di fuoco, niente falò.
Dopo aver parlato con Ronchi i giornalisti discutono. «Ci scambiammo le idee, ognuno di noi fu invitato, se avesse voluto, a dire la sua. Io sostenni la tesi dell’attentato, pensando a quanto mi era stato detto dall’ingegnere Domini Della Meduna, a quanto avevo appena visto sul posto e alla testimonianza del contadino che assicurava di avere visto esplodere l’aereo in aria». L’ipotesi di Marino venne accolta con freddezza dal consesso dei cronisti. «Fui l’unico a sostenere l’idea dell’attentato. Mi colpì il silenzio che suscitarono le mie affermazioni. In quel momento decifrai la cosa come un legittimo dubbio, in realtà che non fosse un dubbio ma piuttosto un vero e proprio rifiuto lo appresi immediatamente dopo la riunione perché mi accadde un episodio davvero singolare».
«STIA ATTENTO. L’HO AVVERTITA»
Tra gli alberi, gli orti e la boscaglia un uomo vestito con un impermeabile bianco che lo rendeva quasi invisibile nella nebbia, prende Marino per il bavero. «Con un eloquio accelerato e una perentorietà minacciosa mi disse: “Ho sentito le sciocchezze che ha detto, si guardi dallo scriverle o dal farle scrivere. Stia attento perché io leggo tutta la stampa italiana. L’ho avvertita”. Non ebbi il tempo di rispondere. L’uomo si dileguò e non lo vidi più». Marino si precipita a riferire il fatto a Spadolini che però non sembra turbato: «Non preoccuparti, i mitomani abbondano». Il giovane aspirante giornalista lì per lì si sente rincuorato. «Capii, tuttavia, che non era interessato all’ipotesi dell’attentato in quanto già schierato sulla tesi dominante e cioè quella dell’incidente. E poi mi disse di lasciar perdere, che il giornalista è un brutto mestiere e pericoloso. Sono sicuro, però, che lui non credesse all’ipotesi dell’incidente ma valutasse che ci fosse qualcosa di misterioso in Italia che sconsigliasse di indugiare sulla tesi dell’attentato».
MORTE INEVITABILE
La procura di Pavia nel 1995 è giunta alla certezza che il presidente dell’Eni morì a causa di un attentato, il procuratore Vincenzo Calia è arrivato alla conclusione che l’aereo sul quale viaggiava Mattei fosse precipitato a causa di un sabotaggio reso possibile da complicità di esponenti dell’Eni e dei servizi segreti italiani. Ma per la procura non è stato possibile raccogliere prove sufficienti e trovare i mandanti.
Marino è sicuro che la morte di Mattei fosse inevitabile: «Era pericoloso per la politica estera degli Stati Uniti. Rischiava di spostare l’asse della politica italiana verso un rapporto organico con l’Unione sovietica. Mattei era convinto che l’unico modo per assicurare futuro all’Eni e all’indipendenza energetica italiana fosse limitare l’egemonia americana. La sua politica avrebbe portato ad accordi con l’Unione sovietica che avrebbero turbato anche l’intero sistema degli interessi geopolitici tra est e ovest nel quadro di una guerra fredda in pieno svolgimento».
A sessant’anni da quella notte drammatica, lo storico palermitano siede sul divano nel suo appartamento a pochi passi da uno dei mercati storici della città e tiene tra le gambe il suo libro Storia della mafia, edito da Newton e Compton nel 1998, nel quale ha già raccontato sommariamente la sua esperienza a Bascapè e stringe tra le mani una targa gialla con lo stemma del cane a sei zampe dell’Eni realizzata nel 1963. «Frequentavo uno stage per gli allievi della scuola presso un’azienda dell’Eni, mi avevano mandato, insieme ad un gruppo ristretto di colleghi, a Talamona in provincia di Sondrio. Un operaio dell’azienda addetto alla verniciatura mi fece il regalo di costruire questa targa che venne poi firmata dai miei colleghi».
ENRICO MATTEI Estratto dell’articolo di Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 17 dicembre 2022.
Il capo della Cia a Roma non sembra avere dubbi: Enrico Mattei era un fascista, si era rifatto l'immagine comprando per cinque milioni di lire il titolo di partigiano dai democristiani, e forse per queste sue origini si oppone agli interessi americani in Italia.
Lo pensa e lo scrive, Lester Simpson, in un rapporto inviato l'11 agosto del 1955 alla "Company", intitolato "U.S. Embassy and Italian Petroleum Industry".
Un documento che forse aiuta a chiarire, se non riaprire, il caso della misteriosa morte del leader dell'Eni. Giovedì sera i National Archives di Washington hanno pubblicato 13.173 documenti finora segreti sull'omicidio del presidente Kennedy, perché lo aveva ordinato nel nome della trasparenza il John F. Kennedy Assassination Records Collection Act, approvato dal Congresso nel 1992.
[…] il rapporto segreto del 1955 su Mattei […] comincia così: «La grande maggioranza delle compagnie petrolifere italiane, che fino al IV World Petroleum Congress si opponevano all'Eni, ora presentano un fronte unito con Enrico Mattei, nella sua opposizione allo sfruttamento dei depositi italiani da parte degli interessi americani».
Quindi Simpson spiega: «Questa nuova situazione è il risultato di informazioni confidenziali e consigli forniti ai gruppi petroliferi italiani e a Mattei stesso da Remigio Danilo Grillo. Grillo, vicedirettore generale per gli Affari politici al ministero degli Esteri italiano, è un ex "squadrista" e cagnolino di Galeazzo Ciano, grazie alla cui influenza ha fatto carriera».
[…] A questo punto Simpson spiega le probabili origini dell'ostilità del capo dell'Eni: «Mattei stesso era un fascista fino al 1945. Aveva iniziato a lavorare nella Resistenza dopo l'8 settembre, facendo però attenzione allo stesso tempo di conservare i rapporti con i tedeschi. Come parte di questo processo, sua moglie era diventata l'amante di un capitano austriaco che era un ufficiale molto importante nella SD tedesca», ossia il servizio di intelligence delle SS Sicherheitsdienst.
«Quando era diventato chiaro che la vittoria degli Alleati era certa, Mattei aveva pagato cinque milioni di lire ad un leader partigiano della DC, per ottenere il titolo di capo partigiano della DC e il grado di generale della Resistenza nel CLN. La sua nomina era stata approvata dal generale Cadorna e dal colonnello Argenton, ora braccio destro di Mattei».
Sei anni dopo, il 13 giugno del 1961, la Cia torna ad occuparsi del capo dell'Eni nella National Intelligence Estimate, con 12 pagine intitolate "The Outlook for Italy". La bocciatura è netta: «L'Ente nazionale italiano degli idrocarburi, guidato da Enrico Mattei, è diventato uno Stato nello Stato». Quindi il rapporto aggiunge un giudizio definitivo: «Il monopolio che esercita nel settore petrolifero probabilmente continuerà a provocare frizioni fra Italia e Stati Uniti», a causa degli investimenti nel mondo arabo e i crescenti scambi con l'Unione Sovietica.
Poco più di un anno dopo, il 27 ottobre 1962, la torre di controllo dell'aeroporto di Linate perde i contatti con il piccolo bireattore "Morane Saulnier" di proprietà dell'Eni. A bordo ci sono Mattei, il giornalista inglese William McHale e il pilota Imerio Bertuzzi. L'aereo era decollato da Catania alle 16.57, dopo una breve visita del capo dell'Eni destinata ad essere seguita da un viaggio in Algeria, durante il quale era in programma la firma di un accordo per la produzione di greggio che sfidava gli interessi delle maggiori compagnie petrolifere occidentali. Alle 18.57 il "Morane Saulnier" non risponde più via radio. I resti vengono trovati in un campo della località di Bascapè, provincia di Pavia, a pochi minuti di volo in linea d'aria dallo scalo di Linate. Nessuno dei tre passeggeri sopravvive.
DAGOREPORT il 21 dicembre 2022.
Neanche “Il Male” di Vauro e Vincino, rivista satirica che conobbe un grande successo sul finire degli anni Settanta, avrebbe fatto meglio della “Repubblica” e del “Corriere della Sera” nel metter in pagina due titoli tarocchi dopo la pubblicazione di alcuni documenti segreti della Cia conservati a Washington.
Del tipo: “Tognazzi è il capo delle Br” o “Craxi è figlio di Mussolini”. Il primo scoop (bufala) è del quotidiano diretto da Maurizio Molinari che dopo aver consultato i file degli spioni Usa la spara grossa sul leggendario fondatore dell’Eni, Enrico Mattei: “Era fascista: pagò la Dc per fingersi partigiano”. Boom! Insomma, di “Male” in peggio.
I fedeli lettori della fu “Repubblica” di Eugenio Scalfari e di Mario Pirani, che lavorò a stretto contatto con Mattei, si saranno chiesti se in redazione non avessero uno straccio di Garzantina, un minimo di memoria storica, per controllare le notizie spedite dal corrispondente Paolo Mastrorilli, così da verificarne non solo la credibilità e, magari, sollevare qualche dubbio sulla loro veridicità.
La biografia su Mattei con la morte tragica a Bescapè ha sollevato molti aspetti controversi sulla sua figura di uomo d’azione, imprenditore spregiudicato nonché corruttore dei partiti usati come taxi: “Salgo, pago la corsa e scendo”.
Nel libro “Mattei, la pecora nera”, Italo Pietra non fa “sconti” al suo amico e compagno partigiano arrestato ben due volte nel 1944: “Sebbene sia chiamato generale - osserva -, è digiuno di esperienza militare (…) e nel movimento partigiano prevaleva la tendenza a muoversi sul piano dell’organizzazione”.
Di qui a comprarsi dalla Dc, (cioè dal suo partito!) la patente di partigiano, insomma, ce ne passa con buona pace della Cia e della “Repubblica” dei somari.
Forse bruciato dalla fake news del quotidiano rivale, il “Corriere della Sera” di Luciano Fontana ne sparava un’altra ancora più improbabile e incredibile: “Quando il giornale del Pci pensò di pubblicare il nudo dell’ambasciatrice Usa”. Il quotidiano è l’”Unita” di Palmiro Togliatti.
Ma forse all’autore della corrispondenza da New York, Massimo Gaggi, sembra sfuggire il suo rigore comunista e moralistico, accomunato nello stesso humus culturale della Dc, pensando soprattutto al grosso del suo elettorato cattolico.
Figuriamoci, allora, se sia mai passata per la testa del Pci e dei redattori dell’”Unità” anni Cinquanta di mettere in pagina un nudo, quello dell’ambasciatrice Luce, che ne avrebbe provocato anche il sequestro e l’arresto del suo direttore responsabile per le leggi bacchettone in vigore ai tempi del centrismo codino democristiano (Scalfaro & Tambroni).
Nuovi documenti storici della CIA svelano l’ossessione americana per Enrico Mattei. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 18 Dicembre 2022.
Secondo il capo della CIA a Roma, Lester Simpson, il fondatore di ENI, Enrico Mattei – scomparso in un incidente aereo non ancora del tutto chiarito nel 1962 – era un «fascista» che «pagò cinque milioni di lire a un comandante partigiano della Democrazia Cristiana per acquisire il rango di capo partigiano della Dc e generale della Resistenza nel CNL» e per questa ragione si opponeva agli interessi americani in Italia. È quanto contenuto tra i 13.173 documenti desegretati sull’omicidio del presidente Kennedy, pubblicati giovedì sera dai National Archives di Washington e disponibili all’indirizzo archives.gov. Tra i documenti in questione sono citati diversi casi inerenti l’Italia, tra cui il più rilevante è senza dubbio quello che riguarda il celebre imprenditore che sfidò le multinazionali petrolifere e che stava avendo successo nell’obiettivo di rendere l’Italia autonoma dal punto di vista energetico. Fatto che – probabilmente – gli costò la vita. La pubblicazione dei documenti era stata anticipata da un messaggio del presidente Joe Biden: «La profonda tragedia nazionale dell’assassinio del presidente Kennedy continua a risuonare nella storia americana e nella memoria dei molti americani che vissero quel giorno terribile. Pubblicare tutte le informazioni è un passaggio chiave per garantire il massimo della trasparenza del governo degli Stati Uniti», aveva asserito venerdì, anche in conformità col John F. Kennedy Assassination Records Collection Act, approvato dal Congresso nel 1992, che lo aveva ordinato nel nome della trasparenza.
Nel rapporto scritto da Simpson e inviato l’11 agosto del 1955 alla “Company” con il titolo «U.S. Embassy and Italian Petroleum Industry» emergono chiaramente le preoccupazioni degli ambienti di potere americani circa la politica indipendente che Mattei stava conducendo per affrancare l’Italia dal dominio energetico internazionale, e americano in particolare, e che avrebbe rilanciato il Paese come protagonista non solo delle dinamiche geopolitiche del Mediterraneo, ma anche internazionali. Come si era già spiegato in un approfondimento su L’indipendente dedicato al caso Mattei, infatti, la politica energetica del fondatore di ENI aveva il potenziale per rendere l’Italia una potenza sul piano globale permettendole così anche di essere meno subalterna all’egemonia d’oltreoceano. Non stupisce, dunque, che gli americani fossero profondamente infastiditi dall’intraprendente e spregiudicato imprenditore italiano. Non a caso, il rapporto segreto firmato da Simpson su Mattei comincia così: «La grande maggioranza delle compagnie petrolifere italiane, che fino al IV World Petroleum Congress si opponevano all’Eni, ora presentano un fronte unito con Enrico Mattei, nella sua opposizione allo sfruttamento dei depositi italiani da parte degli interessi americani».
Nel documento si fa riferimento, inoltre, ad un «cambiamento della tattica adottata dalle compagnie petrolifere italiane verso gli americani», in quanto le aziende USA «sono determinate ad assorbire tutta la produzione italiana e hanno già mandato rappresentanti per sondare le personalità del settore con proposte di acquisto». Il rapporto prosegue sostenendo che «l’attitudine dei circoli del settore petrolifero italiano, informati di queste presunte manovre degli USA, è ostile. […] La diffidenza è arrivata al punto che pochi giorni fa, quando l’agente di una compagnia petrolifera americana ha chiesto un appuntamento a Mattei, lui ha detto che era fuori città, partendo immediatamente per la Costiera amalfitana». Da qui ad accusare Mattei di fascismo il passo è stato breve: le cause della sua ostilità alla potenza a stelle e strisce – che in realtà non era altro che attenzione agli interessi nazionali – infatti, sarebbero state da ricondurre proprio alla sua presunta militanza fascista. «Mattei stesso era un fascista fino al 1945. Aveva iniziato a lavorare nella Resistenza dopo l’8 settembre […]. Quando era diventato chiaro che la vittoria degli Alleati era certa, Mattei aveva pagato cinque milioni di lire ad un leader partigiano della DC, per ottenere il titolo di capo partigiano della DC e il grado di generale della Resistenza nel CLN. La sua nomina era stata approvata dal generale Cadorna e dal colonnello Argenton, ora braccio destro di Mattei», si legge nel rapporto.
In realtà, la sua adesione alla Resistenza risale almeno al 1943, come si apprende dalla biografia riportata sul sito di ENI: «Il 25 luglio 1943, si unisce insieme a Marcello Boldrini, economista dell’Università Cattolica, ai gruppi partigiani attivi sulle montagne circostanti Matelica». Da notare come gli stessi americani lo avessero definito anche, nel 1957, un «pericoloso comunista», in quanto aveva preso le parti della resistenza algerina contro il colonialismo francese. Comunista o fascista, dunque, ogni etichetta è risultata valida per demonizzare colui che ha tentato di rendere l’Italia sovrana dal punto di vista energetico, rischiando di frantumare l’imperialismo americano. Per questo, nel 1961, la CIA torna ad occuparsi del capo dell’ENI in un rapporto intitolato “The Outlook for Italy”, in cui scriveva che «L’Ente nazionale italiano degli idrocarburi, guidato da Enrico Mattei, è diventato uno Stato nello Stato», aggiungendo che «il monopolio che esercita nel settore petrolifero probabilmente continuerà a provocare frizioni fra Italia e Stati Uniti», a causa degli investimenti nel mondo arabo e i crescenti scambi con l’Unione Sovietica.
Poco più di un anno dopo, il 27 ottobre 1962, Enrico Mattei sarebbe morto in un incidente aereo insieme al pilota e al giornalista inglese William McHale. I resti del velivolo furono trovati in un campo a Bascapè, in provincia di Pavia. Sulla vicenda ci furono due inchieste: la prima fu archiviata adducendo come motivazione un guasto o un errore del pilota; la seconda, grazie al pm Vincenzo Calia, giunse alla conclusione che a bordo vi era un ordigno esplosivo, ma non furono fatte ulteriori indagini, archiviando comunque la vicenda. Il magistrato che da solo cercò di fare chiarezza sulla morte di Mattei, sfidando i poteri internazionali, intervistato alcuni anni fa affermò che «Mattei si poneva come obiettivo l’autonomia energetica dell’Italia, la sua scomparsa azzerò quel progetto industriale e il nostro Paese tornò a dipendere dai grandi produttori internazionali». Giorgia Audiello
Gad Lerner per il Fatto Quotidiano il 19 dicembre 2022.
Va bene che Repubblica aspira ormai a presentarsi come l'house organ del Pentagono. Ma riportare in prima pagina, senza evidenziarne la palese inverosimiglianza, una bufala colossale come quella di Enrico Mattei fascista doppiogiochista che si compra per 5 milioni il titolo di partigiano francamente può far piacere a Giorgia Meloni, ma offende l'intelligenza dei suoi lettori.
Dunque, il titolo suona così: "La Cia contro Mattei: 'Era un fascista. Si è finto partigiano pagando la Dc". La fonte? Un rapporto di tale Lester Simpson datato 1955, dieci anni dopo la Liberazione, al tempo cioè in cui il fondatore dell'Eni era diventato la bestia nera delle compagnie petrolifere statunitensi perseguendo l'autonomia energetica del nostro paese, finanziando la componente di sinistra dello scudocrociato e apprestandosi a pubblicare Il Giorno, quotidiano progressista diretto dal partigiano Italo Petra con Giorgio Bocca tra le sue firme di punta.
Com' è noto a tutti, ma non a Repubblica, Enrico Mattei nel pieno della lotta partigiana fu incaricato di rappresentare la Democrazia Cristiana nel CLN Alta Italia al fianco di Ferruccio Parri e Luigi Longo. Vi svolse incarichi militari e politici di grande responsabilità. Un po' difficile sostenere, com' è scritto nel rapporto Usa, che ancora nel 1945 egli fosse fascista, che si fosse comprato l'incarico e che sua moglie fosse l'amante di un ufficiale nazista. Eppure questo riporta Repubblica, senza neanche il beneficio del dubbio.
Va bene l'ignoranza, ma un poco di malizia ci sia concessa.
Dacché Giorgia Meloni cerca di impossessarsi della figura dell'antifascista Mattei per farne un'icona del suo sovranismo, cosa c'è di meglio di una spolverata di revisionismo storico per completare l'opera? Un po' come quando condanna le leggi razziali trascurando di citare chi le ha promulgate. Per favore, giù le mani dal partigiano Enrico Mattei.
A.gr. per la Repubblica il 19 dicembre 2022.
Rosangela Mattei è la nipote del fondatore dell'Eni, e la presidente femminile dell'Associazione partigiani cristiani, da lui fondata nel 1947. Sta per pubblicare un'opera sul Mattei partigiano. Perché la Cia scrive che era un fascista? Che rapporti ebbe col fascismo?
«Da ragazzo come tutti alla sua età si era fatto una foto vestito da balilla, da qualcuno sfruttata per dire che fu fascista. Nessun elemento è stato mai trovato che lo ricolleghi al fascismo. Ma conservo migliaia di carte che attestano, invece, il suo ruolo nella Resistenza».
Come vi aderì?
«La sua amicizia con Boldrini e i gruppi del cattolicesimo milanese lo introdussero nel gruppo che fu costituito dopo l'armistizio. Prese il posto di un capo cattolico morto, dopo un accorato invito dello stesso Boldrini a mettersi in gioco, prima nelle Marche poi a Milano. Le sue qualità apprezzate da Cadorna lo fecero poi diventare uno dei capi della resistenza cattolica. Rischiò anche la vita diverse volte».
Comprò il titolo di partigiano per 5 milioni di lire?
«Storia assolutamente fantasiosa, di certo frutto della politica delegittimatoria dei servizi inglesi e americani. Ci vorrebbe un po' più di rispetto per chi ha sacrificato la propria vita per creare lavoro e sviluppo migliori per tanti popoli».
Qual era la finalità di queste politiche di informazione?
«È molto chiaro l'intento, sono tutti tentativi di offuscare l'immagine di un Mattei che era diventato un personaggio inattaccabile per le sue qualità».
Gli americani ebbero responsabilità per la morte di Mattei? E se non loro, chi?
«Essendo inattaccabile, l'unico modo per toglierlo di scena è stata l'eliminazione fisica. Come si può ben leggere nelle conclusioni del pm Vincenzo Calia, al delitto hanno partecipato servizi deviati italiani e stranieri e gruppi politici vicini anche a Mattei, nonché personaggi importanti all'interno dell'Eni».
Dal caso Mattei a Ustica, quella mano francese dietro i misteri d’Italia. Nuove indagini rivelano l’ombra dei servizi d’oltralpe dietro la morte del fondatore dell’Eni. Mentre nel 1980 il Dc9 sarebbe stato abbattuto dai caccia di Parigi. Che non ha mai chiarito niente. Gigi Riva su L’Espresso il 15 Novembre 2022.
Pronto Parigi? Davvero ancora oggi, trascorse decine di anni, non avete nulla da dirci? Perché vanno bene il trattato del Quirinale per migliorare le nostre relazioni, la simpatia tra i presidenti Sergio Mattarella e Emmanuel Macron, l’incontro informale tra lo stesso Macron e Giorgia Meloni, ma resta irrisolto il ruolo che avete svolto in almeno due tragici misteri italiani in cui al solito muro di gomma italiano si somma, incredibilmente ancora più ermetico, un muro di gomma francese.
La morte di Mattei geniale artefice del «miracolo italiano». La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Ottobre 2022.
Sessant’anni fa moriva Enrico Mattei. «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 30 ottobre 1962 si occupa del caso: tre giorni prima il fondatore e presidente dell’Eni, Ente nazionale idrocarburi, ha perso la vita in un misterioso incidente aereo. Il bimotore Morane Saulnier di Mattei - partito dall’aeroporto Fontanarossa di Catania e diretto a Milano Linate - è precipitato a Bascapè, in provincia di Pavia. La «Gazzetta» segue l’inchiesta e pubblica in prima pagina la foto dell’on. Aldo Moro mentre esprime le sue condoglianze alla vedova. Nato ad ad Acqualagna, nelle Marche, nel 1906, Enrico Mattei inizia giovanissimo a lavorare come operaio; a meno di trent’anni si mette in proprio fondando l’Industria Chimica Lombarda. Nel 1943 si unisce alla Resistenza e nel maggio 1945 sfila accanto a Ferruccio Parri e Luigi Longo nella Milano appena liberata. Nominato commissario liquidatore dell’Agip, riesce a salvare e rilanciare l’azienda, dando nuovo impulso alle perforazioni petrolifere. Si batte per la creazione dell’Eni, di cui nel 1953 viene eletto presidente: opponendosi strenuamente al cartello delle «sette sorelle», Mattei avvia la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano e gestisce con grandi risultati la politica energetica dell’Italia. Sull’incidente aereo si addensano subito molti dubbi. Si legge sulla «Gazzetta»: «Sono proseguiti oggi gli esami della commissione tecnica presieduta dal generale d’aviazione Savi per cercare di stabilire la vera causa della tragica morte di Enrico Mattei: per ora si è sempre costretti a mantenersi nel campo delle ipotesi». Scartata la possibilità che il pilota, considerata la sua esperienza, abbia commesso un errore, restano da seguire poche altre piste: un malore del comandante o forse un guasto a bordo. «Un atto di sabotaggio?» - si chiede ancora il cronista - «qualcuno dei testimoni dice d’aver sentito, prima del boato a terra, il fragore lontano d’una esplosione..». Prende piede, si legge sulla «Gazzetta», un’ultima ipotesi: il simultaneo blocco dei due reattori dell’aereo. «Occorre tenere presente a questo proposito che soltanto venerdì scorso a Parigi un apparecchio del tutto simile a quello dell’ing. Mattei è precipitato con tre alti ufficiali a bordo in seguito al blocco dei reattori». Solo nel 2003 si stabilirà con sicurezza che l’aereo era stato sabotato la sera precedente con una piccola carica di esplosivo. La dinamica è, quindi, ormai chiara, ma - a causa della sistematica attività di depistaggio e occultamento delle prove emersa nel corso delle indagini - resta ancora il mistero sui reali mandanti dell’attentato in cui ha perso la vita uno degli artefici del «miracolo economico» italiano del dopoguerra.
Enrico Mattei, perché all'Italia manca una figura come la sua. Giancarlo Mazzuca su Libero Quotidiano il 29 ottobre 2022
A sessant' anni dalla tragica scomparsa di Enrico Mattei, la figura del rifondatore dell'Eni è sempre più al centro dell'attenzione generale. In un comunicato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l'ha definito ieri un uomo delle istituzioni capace di dare grandi benefici all'Italia e, al tempo stesso, in grado di far crescere anche i Paesi produttori di petrolio e gas.
Il capo dello Stato ha aggiunto che l'azione di Mattei «ha contribuito a porre l'Italia al crocevia dei dialoghi di pace e di cooperazione per lo sviluppo». Non solo: secondo il Quirinale, Enrico appartiene a pieno titolo «alla schiera dei costruttori della Repubblica». È proprio il caso di dire che, con la gravissima crisi energetica che ci sta mettendo alle corde, l'esempio dell'imprenditore marchigiano (era nato nel 1906 ad Acqualagna, una delle capitali del tartufo) è al centro dell'attenzione generale.
Sempre ieri il premier Meloni ha, infatti, definito Mattei «un grande italiano che ha contribuito a fare dell'Italia una potenza economica». Ma già martedì scorso, nel suo intervento alla Camera, il presidente del Consiglio l'aveva considerato uno dei maggiori artefici della ricostruzione post-bellica dell'Italia. La neo-premier aveva anche reso nato un suo progetto: il governo dovrebbe farsi promotore di «un piano Mattei» per l'Africa in grado di frenare l'ondata migratoria verso il Belpaese.
Il padre del cane a sei zampe è stato ricordato molto spesso negli ultimi mesi e tanti, a causa dei prezzi del petrolio e del gas sempre più alti per via della guerra in Ucraina, si sono chiesti come lui avrebbe affrontato, se fosse stato ancora vivo, una simile emergenza. Lui si sarebbe certamente stupito nel constatare come l'Italia fosse caduta così in basso sul piano energetico ma poi avrebbe anche indicato la strada giusta per poterci risollevare. È il caso dei rapporti con l'Algeria che l'Eni aveva molto potenziato a cominciare proprio da quel gasdotto che, partendo dal Sahara, si chiama appunto «Enrico Mattei». Rapporti con Algeri molto stretti che, nel corso degli anni, non vennero poi mantenuti tanto che oggi stiamo bussando con il cappello in mano (vedi la recente visita in Africa dell'ex-premier Draghi) per cercare di ottenere un po' di quel greggio che ci manca. Se ci fosse stato ancora Enrico...
A sessant' anni di distanza, quel tragico schianto del bireattore francese Moraner-Saulnier a Bascapé nel Pavese (a bordo, oltre a Mattei, c'erano il pilota Alessio Bertuzzi ed il giornalista americano William McHale) è diventato un "giallo" sempre più intricato tenendo anche conto che alla «cloche» sedeva un pilota molto esperto. Ormai nessuno parla più di un semplice incidente e lo stesso Mattarella ha detto ieri che, sulla morte di Mattei, «grava l'ombra di un criminale attentato». Tra le ipotesi ancora in piedi, quella più accreditata coinvolge i servizi segreti francesi proprio in considerazione del fatto che l'Eni aveva deciso di investire molto sul petrolio algerino. Altri due possibili scenari tirano invece in ballo le "Sette sorelle", le grandi compagnie petrolifere internazionali, ed anche la mafia soprattutto dopo l'omicidio, nel 1970, del giornalista Mauro De Mauro che era stato incaricato di indagare su quel disastro aereo. Tante ipotesi che forse resteranno tali per sempre. A questo punto, una sola cosa è certa: oggi più che mai in Italia manca una figura come Mattei. Sul fronte petrolifero e non solo.
Enrico Mattei, l’uomo che sfidò i giganti del petrolio: un mistero che dura da 60 anni. Massimiliano Jattoni Dall’Asèn su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.
E’ la sera del 27 ottobre 1962. Mancano tre minuti alle 19. Un bimotore Paris II, decollato alle 16:57 da Catania e diretto a Milano Linate, sta sorvolando le campagne del Pavese, non lontano da Melegnano. Dalla torre di controllo seguono la manovra a pochi minuti dall’atterraggio, quando il velivolo scompare dal radar. L’allarme è immediato, ma nei campi vicino al paesino di Bascapè, in provincia di Pavia, i soccorritori trovano solo i rottami dell’aereo. E i resti, sparsi un po’ ovunque, dei tre uomini che si trovavano a bordo: Enrico Mattei, presidente dell’Eni, il pilota Imerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale, della testata Time–Life, incaricato di scrivere un articolo su di lui. Nel giro di 24 ore la notizia fa il giro del mondo. Inizia così uno dei tanti misteri irrisolti d’Italia.
Le origini
A 60 anni esatti dalla morte, il «caso Mattei» è un cold case. Il velivolo precipitò a causa di un malore del pilota? O fu un attentato? Certo è che il biplano Paris II aveva già subito un sabotaggio in passato e Mattei era un uomo molto discusso, che aveva diviso con la sua spregiudicatezza l’opinione pubblica. Nato ad Acqualagna il 29 aprile 1906 in una famiglia di modesta estrazione, Enrico Mattei inizia a lavorare come operaio in una conceria a Roma, ma è cosa di breve durata: nel giro di breve ne diventa direttore. Quando si trasferisce a Milano si reinventa rappresentante di commercio per l’azienda di vernici Max Meyer, ma soli trent’anni avvia una sua attività, l’Industria chimica lombarda. Ma ad animare Mattei non sono solo ambizione e un incredibile fiuto: il figlio del brigadiere Antonio vuole meritarsi quello che ha e in quegli anni torna a studiare per diplomarsi come ragioniere («Mio padre diceva che è brutto essere poveri, perché non si può studiare e senza titolo di studio non si può fare strada», ricorderà molti anni dopo durante il discorso per il conferimento della laurea honoris causa all’Università di Camerino) . Ma i venti di guerra spirano sull’Italia e sui sogni del giovane Mattei. Il conflitto è una parentesi che lo vede comandante del Corpo volontari per la libertà come partigiano “bianco”, per la sua estrazione cattolica. Dopo la liberazione di Milano, sfila in testa al corteo del 6 maggio 1945 a fianco di Luigi Longo, Ferruccio Parri e Raffaele Cadorna. Tre giorni dopo viene nominato commissario liquidatore della Snam e dell’Agip, l’azienda statale per il petrolio fondata da Mussolini nel 1926.
Il petrolio
Invece di seguire le istruzioni del nuovo Governo repubblicano, intravedendo i possibili sviluppi, Mattei decide di non chiudere «il carrozzone statale» e riprende le trivellazioni abbandonate durante il conflitto. Ed è un successo: a Caviaga, in Val Padana, trova il metano, mentre nel 1949, con un vero e proprio colpo di scena, da un pozzo a Cortemaggiore zampilla improvvisamente l’oro nero. «L’Italia ha il petrolio. Ne ha tanto da bastare a se stessa — è l’annuncio entusiasta sul Corriere della Sera dell’epoca — e forse potrà entrare in concorrenza con le altre Potenze produttrici». Ma la gestione disinvolta delle risorse dello Stato da parte dell’imprenditore e neoeletto nelle fila della Democrazia Cristiana accende un forte dibattito in Parlamento. Nulla che comunque lo fermi. Mentre costruisce l’architettura della sua creatura, spaziando dalle pompe di benzina, ai gasdotti, ai moderni Motel Agip, Mattei non ha tempo di andare per il sottile. Nella costruzione del polo petrolchimico di Ravenna si vanterà lui stesso d’aver violato più di 8mila leggi e ordinanze. E così all’accusa di dare quattrini ai partiti in cambio di favori e di finanziare anche i fascisti del Movimento sociale italiano, Mattei risponde senza nascondersi: «Io uso i partiti come un taxi. Salgo, pago la corsa e scendo».
Gli appoggi (trasversali) della politica
Grazie alla Dc, ma anche a una maggioranza politica trasversale a tutto il Parlamento, Mattei si affaccia sul palcoscenico internazionale: acquista petrolio dall’Urss, stipula un accordo con lo scià di Persia offrendogli il 75% degli utili, cerca petrolio in Libia, Egitto, Giordania, pestando i piedi al cartello anglo-americano delle Sette Sorelle. Mentre in Tunisia, Marocco e Algeria, Mattei arriva a intromettersi negli affari interni attirandosi molte antipatie, e nell’agosto del 1961 gli arriva una lettera minatoria dall’O.A.S., l’associazione terroristica dell’estrema destra francese, contraria all’indipendenza algerina.
L’ostilità francese
Ma Mattei non cerca volutamente nemici. «In qualche momento della presidenza Mattei — racconta il suo successore all’Eni, Eugenio Cefis a Dario Di Vico, in un’intervista pubblicata sul Corriere il 6 dicembre 2002 — forse poteva anche prevalere la logica di “molti nemici, molto onore” e con il senno di poi si può sicuramente dire che c’era della mitologia». «Francamente non penso che qualcuno si potesse illudere che ammazzando Mattei si potesse distruggere l’Eni. Nessuno lo poteva pensare... Se devo ragionare in termini di fantapolitica, allora più che a un sabotaggio americano penserei a un attentato di ostilità francese. Avevano ancora il dente avvelenato per i nostri rapporti con l’Algeria».
La versione di Vincenzo Calia
Trascorrono i decenni e le ipotesi sulla morte di Enrico Mattei si accumulano. Le indagini sulla morte si scontrarono con gravi depistaggi. Sul banco degli imputati ci sono l’Oas, l’organizzazione di estrema destra francese, l’intelligence francese, la Cia, la mafia. Ssi pensa che anche il giornalista Mauro De Mauro sia stato ucciso dalla mafia mentre stava per divulgare quanto aveva scoperto sulla morte di Mattei, mentre per altri Pier Paolo Pasolini sarebbe stato assassinato perché aveva iniziato anche lui ad indagare sulla morte del presidente dell’Eni. Le prime inchieste dell’aeronautica militare e della magistratura chiudono però le indagini come disastro accidentale. Per rimettere tutto in discussione bisognerà attendere il 1994, quando un magistrato di Pavia, Vincenzo Calia, decide di riaprire le indagini colpito dalle rivelazioni del boss Tommaso Buscetta che aveva collegato l’incidente di Bascapè e la morte del giornalista Mauro De Mauro che indagava sull’incidente dell’imprenditore per conto del regista Francesco Rosi, alle prese con il film Il caso Mattei. «Il magistrato Calia — scrive Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 7 marzo 2003 — ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta ma ha vigorosamente argomentato come, a suo giudizio, Mattei sia stato vittima di un attentato i cui mandanti vanno cercati in Italia...».
Sessant'anni dal caso. Chi era Enrico Mattei: la storia del Presidente dell’ENI e del più grande mistero della storia d’Italia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Ottobre 2022
Enrico Mattei è stato imprenditore, partigiano, editore, dirigente pubblico, fautore di una politica estera alternativa, protagonista del boom economico e vittima di quello che è spesso definito il più grande giallo della storia della Repubblica italiana: il mistero del suo aereo che precipitò a Bascapè, in provincia di Pavia, il 27 ottobre del 1962, dopo l’esplosione di una bomba sul velivolo. A sessant’anni dalla morte il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato per come “mise a disposizione la sua esperienza di dirigente industriale dando impulso alla ricostruzione con una forza e una capacità di leadership che lo hanno reso una personalità simbolo della ripresa produttiva del Paese nel dopoguerra. La sua azione ha contribuito a porre l’Italia al crocevia dei dialoghi di pace e cooperazione per lo sviluppo. Con coraggio ha proseguito nella sua opera, pur conoscendo bene quali poteri e quali interessi gli erano avversi. Il suo esempio e la sua figura appartengono a pieno titolo alla schiera dei costruttori della Repubblica”.
Enrico Mattei era nato ad Acqualagna, oggi provincia di Pesaro e Urbino, il 29 aprile 1906. Primo di cinque fratelli, il padre era sott’ufficiale dei carabinieri, la madre casalinga. A 13 anni cominciò a lavorare come verniciatore, poi come garzone in una conceria a Matelica di cui sarebbe diventato direttore nel giro di poco, a soli vent’anni. Quando nel 1929 si trasferì a Milano fondò una propria azienda nel settore chimico. Era iscritto al partito fascista e nel 1936 sposò la ballerina austriaca Margherita Paulus.
Quando nel 1943 lasciò la guida dell’azienda a due suoi fratelli, si unì alla Resistenza ed entrò a far parte del comando militare del Comitato di Liberazione Nazionale, in rappresentanza della Democrazia Cristiana. Il 29 aprile 1945 sfilò a Milano alla testa delle formazioni partigiane, fu insignito della Medaglia d’oro della Resistenza e della Bronze Star dell’esercito americano. Subito dopo la guerra fu incaricato di liquidare l’Agip, l’Azienda Generale Italiana Petroli, nata durante il fascismo e soprannominata “Associazione gerarchi in pensione” per gli scarsi risultati ottenuti.
Lui decise di rilanciarla, convinto che un’impresa nazionale potesse rappresentare la strada principale per l’indipendenza energetica dell’Italia. Da un’ex dirigente allontanato dall’azienda venne a sapere di un giacimento di petrolio a Caviaga, nel lodigiano. C’era metano, non petrolio, che in compenso cominciò a essere estratto a Cortemaggiore, in provincia di Piacenza. Le attività di estrazione continuarono veloci e numerose in Pianura Padana, così come vennero realizzati gasdotti che collegarono tutto il Paese. A Ravenna venne fondato uno dei primi poli petrolchimici. Enrico Mattei fondò nel 1953 l’ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, che andò a incorporare la vecchia Agip. Per simbolo venne scelto l’iconico cane a sei zampe che sputa fuoco, “il miglior amico dell’italiano a quattro ruote”.
Le stazioni di servizio con i gabinetti, la pulitura dei vetri gratis, il controllo di olio e pneumatici furono altre trovate di Mattei che intanto finanziava partiti, correnti e giornali. Mattei nel 1956 contribuì alla nascita del quotidiano Il Giorno, che sosteneva le imprese dell’Eni e la linea della sinistra democristiana di Amintore Fanfani. Per sopperire alla penuria di risorse energetiche Mattei uscì dai canali ufficiali, controllati dagli Stati Uniti, per recuperare fonti cominciò a trattare direttamente con Paesi ricchi di petrolio come Libia, Marocco, Iran ed Egitto. Gli accordi con questi Paesi prevedevano la cessione agli stessi del 75% dei profitti, il coinvolgimento di questi nel processo produttivo e la qualificazione della forza lavoro locale. Si parlava all’epoca in Italia di “neoatlantismo”: una politica inserita nel Patto ma aperta a collaborazioni con i Paesi non allineati.
Il successo di Mattei entrò però in conflitto con le grandi compagnie petrolifere, per lo più statunitensi, che definiva ironicamente “le sette sorelle” (Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica British Petroleum) che ai Paesi del Medioriente offrivano al massimo i 50% dei profitti. “Gli obiettivi di Mattei in Italia ed all’estero dovrebbero destare preoccupazioni. Mattei rappresenta una minaccia per gli obiettivi della politica che gli Stati Uniti intendono perseguire in Italia”, si leggeva in un rapporto del Dipartimento di Stato americano del settembre 1957.
Questo successo suscitò preoccupazione e contrasti anche nella stessa Italia dove pure ambienti politici e industriali erano sostenuti dai finanziamenti di Washington. Mattei nel 1960 concluse anche un accordo con l’Unione Sovietica che prevedeva il rifornimento di petrolio in cambio di merci italiane. Una specie di linea rossa. Mattei si schierò inoltre per l’indipendenza dell’Algeria (ricca di petrolio) dalla Francia. Dopo questa iniziativa ricevette le minacce dell’Organisation de l’Armée Secrète, un’organizzazione di estrema destra francese. A Mattei è stato intitolato un giardino nel centro di Algeri che porta il suo nome così come il gasdotto che tramite la Tunisia collega l’Algeria in Italia.
Mattei aveva una guardia personale, composta da ex partigiani. Stava concludendo un accordo con l’Algeria quando morì. Erano le 18:40 del 27 ottobre del 1962 quando il bireattore Morane-Saulnier, su cui stava viaggiando da Catania a Milano, precipitò in discesa verso l’aeroporto di Linate. A Bascapè, in provincia di Pavia. A bordo con lui c’erano Irnerio Bertuzzi, ex pilota dell’aeronautica militare, e il giornalista di Life William McHale. La prima inchiesta sullo schianto si concluse nel 1966 con il “non doversi procedere in ordine ai reati rubricati a opera di ignoti perché i fatti relativi non sussistono”.
Si parlò di una manovra mal eseguita e perfino di suicidio da parte del pilota. Una commissione di inchiesta ipotizzò un’avaria. Alcuni testimoni, contadini di Bascapè, avevano però raccontato, nelle ore successive all’incidente, di aver visto l’aereo incendiarsi in volo. La tesi dell’attentato travisato da incidente venne avanzata dal celebre film del 1972 Il caso Mattei diretto dal regista Francesco Rosi e interpretato dall’attore Gian Maria Volontè.
Fanfani nel 1986 parlò del caso Mattei come del primo gesto terroristico in Italia. Il pentito di Mafia Tommaso Buscetta raccontò ai magistrati che “il primo delitto ‘eccellente’ di carattere politico ordinato dalla Commissione di Cosa Nostra, costituita subito dopo il 1957, fu quello del presidente dell’Eni Enrico Mattei. In effetti fu Cosa Nostra a deliberare la morte di Mattei, secondo quanto mi riferirono alcuni dei miei amici che componevano quella Commissione”. Una richiesta secondo il collaboratore di giustizia arrivata dalla mafia americana. L’inchiesta aperta nel 1996 a Pavia e chiusa sette anni dopo, con dodici perizie e 612 testimonianze, portarono alla conclusione: sull’aereo era esplosa una bomba.
I mandanti dell’attentato non furono mai individuati: le ipotesi più accreditate rimandano proprio a mafiosi italiani su mandato della mafia italoamericana. Al caso di Mattei è collegata la scomparsa del giornalista de L’Ora di Palermo Mauro De Mauro: il cronista era stato incaricato dal regista Rosi di raccogliere elementi per il suo film. De Mauro scomparve nel nulla, e non fu mai più ritrovato, il 16 settembre del 1970. Il processo per la sparizione si è concluso nel 2011. La Corte di Assise di Palermo confermò che la Mafia voleva coprire i mandanti dell’attentato di Bascapè. I giudici aggiunsero nella sentenza che la morte di Mattei fu un attentato eseguito “su input di una parte del mondo politico”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Matteo Sacchi per “il Giornale” il 26 ottobre 2022.
La parabola di Enrico Mattei (1906-1962) si è conclusa nei cieli sopra Bascapè quando il Morane-Saulnier MS.760, con cui stava tornando a Milano da Catania, precipitò nelle campagne pavesi, dopo essere esploso in volo, mentre era in fase di avvicinamento all'aeroporto di Linate. Si chiudeva così, con la morte del suo inventore, un tentativo di indipendenza energetica che nel mondo non aveva eguali e aveva fatto del cane a sei zampe un simbolo.
Quanto potesse essere pericoloso muoversi nell'ambito della guerra energetica che caratterizzava quegli anni può illustrarlo un altro episodio mai completamente risolto e, guarda caso, legato ad un incidente aereo. Nel 1961, l'anno precedente alla morte di Mattei, Dag Hammarskjöld, il secondo Segretario generale delle Nazioni Unite moriva a bordo di un Douglas DC-6 dell'Onu.
Si era in piena crisi del Congo, uno dei principali fornitori mondiali di uranio. Il clima mondiale era quello, una guerra fredda dell'energia e del petrolio e, forse, vedendo le attuali guerre dell'energia e del gas, non è cambiato, anzi.
Non stupisce quindi che il caso Mattei su cui si è giunti ad una tardiva verità giudiziaria, che però non porta verso colpevoli certi, abbia attirato l'attenzione sia di storici e giornalisti che di romanzieri. È di oggi l'uscita, per i tipi di Feltrinelli, di L'Italia nel Petrolio (pagg. 544, euro 25) a firma di Riccardo Antoniani (ricercatore alla Sorbone Nouvelle) e di Giuseppe Oddo (giornalista d'inchiesta).
Il volume prende in considerazione un gran numero di documenti e nella parte iniziale si dedica ad evidenziare un dato fattuale: la differenza di visione strategica tra Enrico Mattei e il suo numero due Eugenio Cefis (1921 - 2004). Negli ultimi mesi di vita, Mattei stava lavorando a un'intesa triangolare fra Italia, Francia e Algeria per la posa di un metanodotto transmediterraneo che avrebbe dovuto far affluire in Europa il gas estratto nel Sahara.
A differenza di Cefis, che operò per riequilibrare i rapporti fra l'Eni e le sette sorelle e per ricondurre la politica petrolifera italiana nel perimetro, angusto ma sicuro, degli interessi economici e militari dell'Alleanza atlantica, Mattei si impegnò fino alla fine per attuare il suo progetto di indipendenza energetica che avrebbe potuto accelerare il processo di unificazione dell'Europa e trasformare l'Italia in una potenza industriale avanzata.
Dopo la morte di Mattei le cose presero un'altra piega. Un percorso ricostruito anche da Paolo Morando in Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (Laterza 2021) che invece smonta molti dei pezzi della leggenda nera su Cefis. Soprattutto per quanto riguarda la sua ricchezza. In questa intricata vicenda non esistono pistole fumanti...
Forse anche per questo dal punto di vista letterario quello di Mattei in Italia è diventato il giallo dei gialli.
A partire dal citatissimo romanzo, mai ultimato, di Pasolini: Petrolio (la nuova edizione curata da Walter Siti è uscita nell'aprile del 2022). Nella primavera-estate del 1972, si fece strada in Pasolini l'idea di scrivere il romanzo: divenne poi il progetto più importante sulla scrivania fino all'assassinio del 2 novembre 1975.
In Petrolio, Pasolini voleva fare i nomi, o almeno provarci, del nuovo Potere, solo all'apparenza senza volto, che stava provocando un profondissimo cambiamento antropologico (noi ora lo chiameremmo globalizzazione e turbo capitalismo). Pasolini intuì che il potere si sarebbe fatto globale e sarebbe uscito dai parlamenti per entrare nei board di un nuovo tipo di Stato: l'azienda multinazionale. L'opera è un non finito, composto di capitoli mobili, che Pasolini chiamava «Appunti».
Al di là delle difficoltà enormi per i critici che si sono avventurati in questo infinito/non finito, dal materiale dai suoi lampi sull'Eni - veri, presunti, mancanti - escono fondamentalmente due ipotesi. La prima. Mattei sarebbe stato eliminato dalla mafia su commissione di americani e francesi, infastiditi, come dicevamo, dall'attivismo di Mattei in Africa e in Medio Oriente.
La seconda. Il colpevole sarebbe Eugenio Cefis, manager legato alla corrente democristiana di Amintore Fanfani e con precise idee politiche.
Il teorema pasoliniano ha influenzato giornalisti e scrittori. Giusto per citare l'ultimo romanzo, in ordine di tempo: Ho ucciso Enrico Mattei di Federico Mosso, pubblicato per i tipi di Gog nel 2021, mescola con abilità realtà e finzione.
Nelle pagine ci sono Mattei e Cefis ma anche spie senza nome, che muovono segretamente le ruote della Storia. E un agente è dunque il protagonista del libro, l'uomo che ha manomesso l'aereo sul quale viaggia Mattei. La morte del giornalista Mauro De Mauro e del poeta Pier Paolo Pasolini sono legate a quel primo omicidio, Mattei, del quale forse avevano scoperto troppo? Ho ucciso Enrico Mattei prova a immaginare una risposta.
L'ultima intervista a Francesco Forte: "Mattei? Attentato premeditato". Francesco Forte (Busto Arsizio, 11 febbraio 1929 - Torino, 1º gennaio 2022) è stato uno dei più importanti studiosi, accademici e politici italiani. La sua lunga vita, è scomparso all’età di 93 anni, incrocia i passaggi più delicati e difficili della Prima Repubblica. Federico Bini il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Esclusiva
Nel luglio del 2021 avevo iniziato a scrivere un libro sui tanti incontri che ho avuto con i grandi personaggi del '900 italiano. E dopo una bella collaborazione, con una preziosa introduzione al mio libro Un passo dietro Craxi (Edizioni We), chiesi al professore e senatore Francesco Forte di potergli fare alcune domande su un uomo che aveva conosciuto da vicino e che ancora oggi continua a lasciare non solo un grande mistero sulla sua morte ma anche una grande eredità economica e politica. Il riferimento è ovviamente a Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, citato anche nel discorso di insediamento dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Il professor Forte, con la gentilezza che lo contraddistingueva, non esitò a rispondere alle mie domande. Alla sua improvvisa scomparsa, avevo deciso di lasciare questa inedita intervista nel cassetto in attesa della futura pubblicazione. Ma il ritrovato interesse su una figura chiave della nostra nazione, mi ha convinto ad anticiparla, e a farla uscire oggi 27 ottobre 2022 a sessant’anni esatti dal tragico “incidente” aereo di Bascapè. Mi sia pertanto concesso di mandare un pensiero affettuoso a Francesco Forte, una mente lucida e brillante che manca all’Italia.
Professor Forte, come si diventa Enrico Mattei?
“Serve capacità imprenditoriale, che Mattei si è creato partendo da una piccola impresa marchigiana, e molta tenacia”.
È stato talmente spregiudicato nel suo modo di condurre gli affari tanto da portarlo non vicino ma direttamente alla morte?
“Mattei è stato vittima di un attentato premeditato, attuato dall’OAS, servizio segreto deviato franco-algerino, allo scopo di impedire all’Eni di operare in Algeria, con un accordo globale, riguardante il gas algerino”.
L’Italia del dopoguerra aveva intuito la sua lungimiranza?
“La lungimiranza di Mattei e la modernità dell’Eni - di cui io sono stato consulente economico dalla fondazione in poi, Gino Giugni era l’esperto per la formazione del personale - era ben nota e gli ha creato molti avversari politici e molte denigrazioni, mentre era stata capita dalle grandi multinazionali americane, che avevano deciso di allearsi con l’Eni. Sull’aereo in cui perì, vi era solo un giornalista americano, che lo intervistava in relazione agli accordi che Mattei avrebbe fatto con le sette sorelle del petrolio. Nessun dirigente dell’Eni era su quell’aereo, perché tutti sapevamo che partendo dalla Sicilia la mafia avrebbe potuto sabotarlo. Così tutti quelli che vi erano saliti all’andata, da San Donato Mianese, per l’inaugurazione della nuova e moderna raffineria Eni nel porto siculo, rimasero con un pretesto o l’altro in Sicilia e poi tornarono con aerei di linea”.
Quali erano i rapporti tra De Gasperi e Mattei? E come rimase legato politicamente alla Dc dopo la scomparsa dello statista trentino?
“Mattei aveva un rapporto particolare con Ezio Vanoni, che, a sua volta, De Gasperi aveva scelto come suo ministro per le Finanze e l’Economia, avendolo conosciuto nel 1943, quando fu fatto il Codice di Camaldoli. Io fui assunto come esperto economico, nonostante i miei 25 anni, sia perché avevo scritto saggi sulla tassazione della benzina, del gasolio, dei lubrificanti, del bollo auto come prezzo ombra per l’uso delle strade e sui pedaggi per l’uso delle autostrade, sia perché allievo e supplente di Vanoni alla sua cattedra di Scienza delle Finanze all’Università di Milano. Mattei era stato capo dei partigiani democristiani in Val d’Ossola ed era il rappresentante della Dc, nei cinque capi partigiani, che sfilarono a Milano il 25 aprile, con Pertini per i socialisti, Longo per i comunisti, il generale Cadorna per l’esercito del Regno di Italia, il cui governo provvisorio era allora a Bari”.
Montanelli lo definì come “colui che aveva legalizzato la tangente”.
“Il termine è esatto, ma con un gioco di parole, fa supporre che si tratti della illegalità diventata costume politico. Invece l’Eni faceva regolari contratti con i rappresentanti legali dei paesi petroliferi per l’uso dei loro pozzi e l’esplorazione del territorio. Solitamente costavano il 3% ed erano denunciati all’Ufficio Italiano Cambi per consentire l’esportazione legale dei capitali. Per il gas russo negli anni ‘70, l’Eni pagò una % maggiore, perché una quota andava al Pci e ci fu un condono che ne sanò l’irregolarità”.
Dalla liquidazione dell’Agip inventò l’Eni e si mise a fare concorrenza ai grandi del settore.
“L’Agip, quando Mattei la prese, aveva le piantine con i risultati delle esplorazioni petrolifere, che aveva fatto, in Libia (senza successo), in Croazia e dintorni con successo limitato, ma foriero di sviluppo, e nelle montagne di Edolo ove si era trovata la cosiddetta carbonella, che è catrame secco, indizio di petrolio, che faceva supporre che ci fosse petrolio nel Nord Italia. Gli esperti del petrolio ne erano a conoscenza e Mattei aveva chiesto di fare il capo dell’Agip perché lo sapeva, mentre gli altri pensavano che lo avesse fatto perché aveva la rete di distribuzione di benzina e gasolio. Le trivellazioni portarono alla luce poco petrolio, a Cortemaggiore e una enorme riserva di gas in Val Padana e petrolio nell’area di Novara, sotto le Alpi".
Tra le celebri battute di Mattei ce n’era una straordinaria: “Non mi entusiasma entrare in una bottega per tirare giù la saracinesca”.
“Che significava che lui era un manager innovatore, come i tanti che allora sorsero in Italia. Mattei si era iscritto all’Università Cattolica, Facoltà di Economia, con preside Marcello Boldrini, illustre statistico, nato come Mattei a Matelica, nelle Marche. E Mattei, che aveva il culto dei professori di materie economiche mise a capo dell’Agip il professor Boldrini”.
In che modo la grande finanza, dagli Agnelli, Falck a Pirelli guardavano Mattei?
“Gianni Agnelli, che io ho conosciuto personalmente lo ammirava e lo considerava un alleato per il made in Italy dell’auto. In genere invece i capi delle imprese elettriche e di quelle chimiche, che erano importanti nella finanza lo osteggiavano, come pericoloso rivale”.
L’ostilità della politica italiana, così come lo fu con tanti grandi del capitalismo lo portò a prendersi un “pezzo” di Dc e a fondare un giornale, Il Giorno, guidato da Baldacci.
“Poiché tutte le grandi imprese private avevano un giornale, Mattei fece altrettanto, per difendersi, e scelse Gaetano Baldacci, giornalista innovatore”.
Quale ritratto fa di Gaetano Baldacci? E in che modo Il Giorno dal 21 aprile 1956 rivoluzionò il giornalismo?
“Baldacci aveva un oscuro passato politico, ma poteva fare giornali di ogni indirizzo. Grazie a una équipe di eccezione, che era selezionata dall’amministratore delegato. Lanciò il primo giornale di stile americano, mettendo insieme un gruppo di giornalisti innovatori, a partire da Gianni Brera per lo Sport a Giancarlo Fusco per l’umorismo a Umberto Segre per gli Esteri. Il Giorno aveva anche la 'pagina economica' novità assoluta per l’Italia. Non trovarono nessun giornalista economico. Una settimana prima di uscire in edicola presero me, come supplente part-time, in quanto scrivevo sul settimanale Il Mercurio, articoli con la rubrica Alice nel paese dei bilanci. Segre che faceva la rubrica Esteri mi chiese di dare una mano provvisoriamente e anche l’ENI me lo chiese, riducendomi gli altri impegni. Il Giorno era di centro sinistra, io ero socialdemocratico già da studente universitario. Dopo tre mesi, non trovando un giornalista economico adeguato mi chiesero di restare. Nel frattempo Massimo Fabbri, giornalista professionista che faceva le rubriche di Borsa, aveva imparato a fare la pagina a economica e ne divenne direttore, io facevo solo il fondo. Baldacci pare facesse affari pubblicando articoli di gruppi di interesse, in cambio di soldi e fu sostituito da Italo Pietra, giornalista professionista che diede lui l’indirizzo alla parte economica”.
Come mai nei progetti industriali di Mattei molta resistenza più che all’estero la trovò in Sicilia? La politica locale e l’ombra di Cosa Nostra si misero di traverso ai suoi piani di espansione?
“A mio parere e negli ambienti dei vari settori Eni con cui avevo contatto, si aveva l’impressione che ci fosse un intreccio fra i politici locali, la mafia e interessi di ambienti francesi. Non necessariamente controllati dal governo francese, che condizionavano i nostri referenti in Sicilia nella politica e nei giornali locali e di cui si capiva solo che l’Eni era osteggiato da Cosa Nostra, ma con legami con interessi sconosciuti, non certo le multinazionali americane, con cui l’Eni aveva ormai un compromesso”.
L’intuizione di Mattei per il nucleare?
“Dopo la morte di Mattei, l’Eni si era reso conto che il nucleare non avrebbe sostituito il petrolio e la petrolchimica e che vi erano energie alternative. Per cui l’economicità del nucleare appariva sempre più dubbia mentre si ingigantiva il problema delle scorie radioattive e l’Eni divenne contrario al nucleare mentre l’Enel e gli altri lo sostenevano dicendo che esso era ostacolato dall’Eni, in cui io ormai studiavo tutte le energie alternative, compresi gli scisti bituminosi, da cui ora gli Usa ricavano gran parte del gas”.
Quali erano i legami tra l’Eni e i paesi del Medio Oriente?
“Con i paesi del Medio Oriente vi erano rapporti alterni, dipendenti dal gruppo che era al potere e dal fatto che Iran e Iraq erano rivali e che l’Eni aveva trovato petrolio in Egitto e in una zona contesa da Israele. In genere l’Eni aveva ottimi rapporti con i paesi petroliferi piccoli, come il Kuwait. La formula Eni fifty-fifty in cui la metà è di una società petrolifera Eni insieme a una società petrolifera locale in minoranza, agevolava la persistenza dei rapporti di collaborazione”.
In che modo la CIA guardava all’attivismo di Mattei?
“Per quel che ne so io, alla CIA Mattei era gradito in Africa e in Medio Oriente e in particolare in Libia e in Tunisia. Non era gradito in Russia dato che ciò creava una dipendenza dall’Urss e finanziava il Pci. Ma sulla Russia la CIA, dall’epoca del comunismo asiatico faceva il doppio gioco”.
Lei ha conosciuto privatamente e istituzionalmente figure del calibro di Craxi, Andreotti, Fanfani ecc… come definirebbe Mattei?
“Un imprenditore innovatore che amava l’Italia, ma anche i paesi poveri del terzo mondo, e concepiva l’impresa pubblica come un’impresa di mercato”.
Quel “Piano Mattei” per tornare grandi nel Mediterraneo. Emanuele Beluffi su CULTURAIDENTITA’ il 27 Ottobre 2022
Nel suo discorso programmatico per la fiducia al Governo alla Camera dei Deputati il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto citare Enrico Mattei, di cui ricorre oggi il sessantesimo anniversario della morte: lo ha fatto per confermare l’obiettivo di far tornare grande l’Italia nel Mediterraneo, per ragioni geografiche, economiche e politiche – anche di politica internazionale, essendo il nostro Paese il fronte sud della NATO.
Queste le parole con cui la premier ha menzionato il fondatore dell’Eni: ” […] Un grande italiano che fu tra gli artefici della ricostruzione post bellica, capace di stringere accordi di reciproca convenienza con nazioni di tutto il mondo […] Credo che l’Italia debba farsi promotrice di un piano Mattei per Africa, un modello virtuoso di collaborazione e crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub sahariana. Ci piacerebbe così recuperare il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo”.
Mattei infatti voleva sviluppare il potenziale africano invitando i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente a ribellarsi alla povertà e a quello che potremmo definire l’aiuto non richiesto per farsi spiegare come sfruttare il loro potenziale di crescita economica. Tu chiamalo sovranismo se vuoi: economico ma anche energetico. Sappiamo come è andata a finire: oggi 27 ottobre scorso sono passati 60 anni dalla sua misteriosissima morte.
Messi alle strette dalle sanzioni energetiche alla Russia siamo alla ricerca di canali di approvvigionamento alternativi a quelli che fino a ieri ci forniva l’Orso bianco. Adesso Eni diversifica le importazioni, in Algeria, Congo e Nigeria, trattando anche con Gerusalemme per il gas (soluzione ideale: il gasdotto Eastmed che da Israele arriva in Puglia passando per Cipro e Grecia).
Però, però: 73 anni fa veniva scoperto a Cortemaggiore in Emilia il primo giacimento di metano e petrolio in Europa. A Cortemaggiore, vicino a Piacenza, in una perforazione di quell’ENI allora presieduta da Enrico Mattei, si scoprì il primo giacimento profondo di metano contenente petrolio dell’Europa. Grazie all’abilità di quel manager, la scoperta ebbe un grande impatto mediatico e Cortemaggiore si ritrovò sotto l’attenzione di tutti i giornali, mentre il petrolio estratto venne utilizzato per produrre una benzina chiamata appunto Supercortemaggiore.
La scoperta del “petrolio made in Italy” (per sostenere la sua politica imprenditoriale finanziò l’apertura di un quotidiano allora assolutamente innovativo, Il Giorno) spinse Mattei a lavorare per un grande obiettivo politico ed economico, che oggi a distanza di settant’anni suona drammaticamente attualissimo: l’autonomia energetica dell’Italia.
Ma le “sette sorelle”, come Mattei chiamò quelle compagnie petrolifere mondiali (Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf, Shell e British petroleum) che avrebbero dominato per fatturato la produzione petrolifera mondiale almeno fino alla crisi del 1973, non presero affatto bene questo modo di autonomia energetica dell’Italia.
Ma una notte la storia ebbe fine, quando l’aereo privato di Mattei esplose nel cielo sopra Bescapé in provincia di Pavia. Il velivolo del manager era partito da Catania con Mattei, il pilota Imerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale per arrivare a Milano, ma prossimo a Linate precipitò: i testimoni parlarono di “una fiammata improvvisa”.
Parve fin da subito evidente che quell’incidente non fosse un incidente ma un attentato, che tra l’altro impedì a Mattei di chiudere un accordo di produzione con l’Algeria contrastante con gli interessi delle “sette sorelle”.
Qual è la verità del caso Mattei? Pasolini, forse, nella finzione narrativa del suo romanzo incompiuto “Petrolio”, ce ne lasciò una indicando… “casa nostra”, mentre oggi il collaboratore di giustizia Maurizio Avola avrebbe svelato che a mettere la bomba sull’aereo di Mattei sarebbe stata Cosa Nostra (americana).
Di certo, con la sua politica autonoma nell’ENI Enrico Mattei aveva dato fastidio alle suddette “sette sorelle” e pure all’OAS (Organisation de l’Armée Secrète) per il sostegno all’indipendenza algerina (e ora sappiamo perché). Leggete il romanzo di Frederick Forsyth “Il giorno dello sciacallo”, pubblicato nel 1971 e da cui due anni dopo Fred Zinnemann trasse un bellissimo film.
E a proposito di film, una possibile verità, fra le tante verità, ce la diede Francesco Rosi con “Il caso Mattei” del 1972. Mentre due anni fa Federico Mosso (GOG) ci diede un suo contributo con il libro “Ho ucciso Enrico Mattei”.
Sia come sia, il padre dell’ENI ci aveva giusto. Idem per il progetto di sviluppo del continente africano, quel “Piano Mattei” citato dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni con cui ha voluto auspicare un progetto di crescita per l’Africa con effetti economici anche per l’Italia (leggi: stabilizzazione dei flussi migratori ed energetici).
Un risultato che poteva essere raggiunto anche quando il Cav siglò col raìs Gheddafi sotto la tenda del Colonnello a Bengasi il trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione» tra Italia e Libia per ridurre il numero dei clandestini che giungevano sulle nostre coste e disporre anche di «maggiori quantità di gas e di petrolio libico, che è della migliore qualità». Poi sappiamo come andò a finire. Ma oggi il Cav ha ripreso un discorso interrotto 10 anni fa rivendicando gli accordi di Pratica di Mare con cui mise allo stesso tavolo USA e Russia, Bush e Putin. Anche questa sembra attualità.
Un'Italia del futuro fra libertà, giustizia e progresso grazie all'energia: il sogno di Enrico Mattei è tutt'altro che realtà. A sessant'anni dalla morte dell'imprenditore, il 27 ottobre del '62, il progetto di Eni e di rendere il nostro Paese indipendente sul fronte delle risorse è sempre più attuale. Francesco Giubilei il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Se Enrico Mattei fosse ancora in vita, non crederebbe ai propri occhi osservando la situazione energetica in cui si trova l'Italia tra caro bollette, rischio di razionamenti e assenza di una propria autonomia. Soprattutto il fondatore di Eni, scomparso il 27 ottobre 1962 a causa della caduta del suo aereo in seguito a un sabotaggio, rimarrebbe attonito per la mancanza di una prospettiva a medio lungo termine per il nostro Paese su un tema cruciale per l'interesse e la sicurezza nazionale come l'energia.
A distanza di sessant'anni dalla morte, colpiscono l'attualità della sua visione e la capacità di dar vita, in un momento storico molto complesso dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, a un colosso come l'Eni, determinante per rendere l'Italia una potenza industriale e portare la nostra nazione tra i grandi del pianeta. Secondo Alessandro Aresu, Mattei «non accettava l'idea che un popolo sconfitto dalla guerra fosse destinato a un ruolo subordinato, incapace di scelte politiche ed economiche autonome. Non sopportava che all'Italia fosse preclusa la grande organizzazione industriale che genera potere».
Non a caso lo stesso Mattei scriveva: «noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale. Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo domani».
Tutta la sua attività è stata portata avanti promuovendo l'interesse nazionale italiano come scrive Nico Perrone, autore della biografia Enrico Mattei edita da Il Mulino: «Aveva a cuore soprattutto gli interessi del suo Paese è il riconoscimento che venne al presidente dell'Ente nazionale idrocarburi da un suo avversario, William R. Stott, vicepresidente esecutivo della Standard Oil Company of New Jersey, la maggiore società petrolifera del mondo».
Per raggiungere l'obiettivo di un'Italia forte sul piano economico e industriale, comprese la necessità di realizzare un'autonomia energetica sin dal '45-'46 intuendo che per l'Italia il motore della ricostruzione sarebbe derivato dalla possibilità di avere energia in abbondanza e a costi competitivi. Occorreva perciò ottenere quanti più fornitori possibile e, pur mantenendo il posizionamento atlantico, riuscì a stringere accordi con paesi africani, mediorientali, con la Russia e la Cina. Proprio questa capacità di muoversi al di fuori delle alleanze occidentali e oltre la cortina di ferro, lo portò a numerosi attriti con gli Stati Uniti. Per mitigare gli effetti delle sue aperture terzomondiste e mantenere un legame con l'alleato americano, venne così coniata la nuova visione del neoatlantismo in cui l'Italia assunse il ruolo di «intermediario internazionale non richiesto».
Facendo sponda con la Democrazia cristiana, Mattei riuscì non solo a impedire la messa in liquidazione dell'Agip nel primo dopoguerra ma a realizzare una strategia per la produzione di petrolio italiano attraverso le perforazioni a cominciare dalla Val Padana. L'unico modo affinché l'Italia si affermasse come potenza industriale, poteva derivare a suo giudizio dalla realizzazione di una sovranità energetica. La scoperta di un giacimento di petrolio a Cortemaggiore in Emilia, il primo in Europa, ebbe un grande impatto anche da un punto di vista mediatico e contribuì a rendere più solido il ruolo dell'Eni nell'immaginario degli italiani, complice la celebre benzina Supercortemaggiore.
Un attivismo che non poteva essere giudicato positivamente dalle «Sette sorelle», le compagnie petrolifere americane, inglesi e anglo-olandesi unite in un cartello che controllava oltre il 90% delle riserve petrolifere al di fuori degli Stati Uniti da cui Mattei cercò di affrancarsi concependo l'Ente nazionale idrocarburi non come una semplice azienda ma come parte di un insieme più ampio sinergico al sistema paese.
Per lui l'Eni doveva essere un tassello fondamentale nella politica estera italiana: «noi crediamo nell'avvenire del nostro Paese; abbiamo fede nelle sue possibilità di miglioramento, nelle sue capacità di sviluppo e di progresso; sentiamo il dovere di lavorare, in tutta la misura delle nostre forze, per costruire giorno per giorno l'edificio della libertà e della giustizia in cui vogliamo vivere in pace e che soprattutto vogliamo preparare per le nuove generazioni».
Mattei immaginò l'Eni come una grande realtà energetica a sostegno dell'interesse nazionale italiano; per raggiungere questo obiettivo creò l'Agi, agenzia stampa di proprietà dell'azienda e fondò il quotidiano Il Giorno, due strumenti a servizio della rete internazionale che aveva saputo tessere. Tutta la sua attività è stata animata dalla volontà di superare quel «complesso di inferiorità nazionale» che troppo spesso ha rappresentato un tratto antropologico degli italiani precludendo al nostro Paese, specie in politica estera, spazi poi occupati da altri.
Secondo Francesco Cossiga «Mattei è l'ultimo italiano che tenta la sfida di rifare gli italiani», mentre Leonardo Giordano nel libro Enrico Mattei. Costruire la sovranità energetica: dal gattino impaurito al cane a sei zampe ricorda come Mattei si sia «inventato qualcosa che in Italia non abbiamo, la politica energetica». Una politica energetica che si è interrotta quel tragico 27 ottobre 1962 a Bascapè ma che oggi dobbiamo riscoprire e di cui non possiamo più fare a meno non solo ricordando ma attualizzando la lezione del padre dell'Eni. Al contrario, negli ultimi anni ci si è allontanati dai suoi insegnamenti illudendosi di poter dipendere solo dall'estero per la produzione di energia, dismettendo l'estrazione nazionale di gas e affidandoci eccessivamente a un unico fornitore, un errore che Mattei non avrebbe mai compiuto.
Oltre che un visionario, Mattei è stato un patriota e l'emblema di una storia italiana di successo; nato ad Acqualagna, un piccolo paese marchigiano, pur avendo raggiunto i vertici dello Stato, non ha mai dimenticato le sue origini come ebbe a dire poco prima della sua morte: «sono semplicemente un uomo che, di fronte alle necessità in cui si è venuta a trovare l'Italia, ha fatto tutto quello che era possibile per raggiungere gli attuali traguardi». La sua è stata prima di tutto una grande storia italiana.
Enrico Mattei, il sovranista energetico che sfidò il mondo e per questo morì. Gianluca Mazzini su Libero Quotidiano il 26 ottobre 2022
Nel 60° anniversario dell'attentato che pose fine alla vita e alla parabola imprenditoriale di Enrico Mattei, esce per le edizioni Byoblu il libro di Gianfranco Peroncini "Veni Vidi Eni" (volume 2) dedicato alla biografia dell'uomo e al suo sovranismo energetico. Il sottotitolo precisa l'oggetto dello studio: "L'attentato di Bascapè. Sette mandanti per sette sorelle: un delitto abissale...". Mattei morì insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano William McHale il 27 ottobre 1962 nei cieli di Linate, quando il suo aereo esplose in volo sopra il Comune di Bascapè. Spiega l'autore: «Già il fatto che un tenace magistrato (Vincenzo Calia) sia riuscito ad accertare a decenni di distanza, nell'arco di un'inchiesta durata dal 1994 al 2003, che la morte di Mattei è da attribuire ad un congegno esplosivo collocato sul suo aereo, dev' essere considerato un successo formidabile. Oltre queste colonne d'Ercole, ovvero individuare esecutori e mandanti non è possibile avventurarsi. Fondamentale, però, inquadrare l'attentato di Bescapè nella sua cornice storico-politica».
Lei scrive che nell'immediata vigilia dell'attentato, contro il fondatore dell'Eni si fossero addensate le condizioni di una "tempesta perfetta".
«Guerra Fredda, tensioni mediorientali, forniture di greggio sovietico, futuro europeo della formula pilota italiana del centrosinistra, pervicace inserimento dell'Italia in zone nevralgiche ed esplosive dello scacchiere internazionale. Non ultimo la sintonia con la nuova amministrazione Usa di J.F.
Kennedy. Un filo rosso che accomuna i due personaggi è l'ostilità della Cia, soprattutto dei suoi handler di massimo livello, ambienti che non possono vedere Mattei e che non amano, per così dire, il primo presidente cattolico degli Stati Uniti.
La guerra tra Mattei e le compagnie petrolifere americane ha il suo culmine alla fine degli anni '50 ma parte da lontano...
«Nel 1946 Mattei viene indicato come liquidatore di Agip, azienda di Stato fondata nel 1926 allo scopo di garantire le necessarie forniture di petrolio all'Italia. Anziché smobilitare, Mattei continua invece le ricerche finché, nel marzo 1946, trova il metano nello storico pozzo di Caviaga 2 nel Lodigiano. È l'oro bianco che sarà il motore del "miracolo economico" italiano.
Mattei si comportò in maniera diametralmente opposta a Romano Prodi, al quale decenni dopo fu affidato il compito di liquidare l'Iri, compito che gestirà con impegno alacre sino ad arrivare alla presidenza del Consiglio a Roma e a quella della Commissione europea a Bruxelles. Mattei, invece, fu l'uomo che osò sfidare il mondo in nome dello strategico sovranismo energetico nazionale. Ne avrebbe pagato il prezzo».
È questa la chiave dell'attentato di Bascapè?
«Mattei ripeteva sempre che non esiste indipendenza politica senza indipendenza economica, avendo compreso che un'ampia disponibilità di energia a prezzi accessibili era condizione necessaria perla ricostruzione del Paese distrutto dalla guerra. Tra il 1954 e il 1955 l'Eni comincia la sua crociata mediorientale fuori dal controllo dei grandi gruppi petroliferi. In Egitto, in Persia in Libia... A Teheran firma un accordo rivoluzionario (75% del ricavato al produttore e 25% all'estrattore contro la tradizionale formula angloamericana del fifty/fifty). Sino al capolavoro in odore di "eresia atlantica": dall'Unione Sovietica, in piena Guerra Fredda, ottiene forniture di greggio in cambio di merci prodotte in Italia, sgravando così la bilancia dei pagamenti nazionale. Poi punta sull'Algeria, appena indipendente, per replicare il modello persiano».
È paradossale che il "petroliere senza petrolio" muoia proprio mentre sembra sul punto di siglare una pace con Washington grazie all'amministrazione Kennedy.
«Mattei muore poco prima di firmare con l'Algeria e la Francia un accordo straordinario per il rifornimento di metano e petrolio e prima del viaggio negli Stati Uniti che avrebbe sancito il suo trionfo definitivo, benedetto dalla Casa Bianca. Sul suo assassinio non ci sono certezze ma con ogni evidenza, date le ripercussioni a cascata prodotte dalla sua scomparsa, non poteva che essere deciso molto in alto. Da "profondità abissali", per così dire, e con il concorso locale dei comprimari necessari. Con ogni probabilità gli stessi mandanti che avrebbero replicato lo stesso copione a Dallas, il 22 novembre 1963. Un anno dopo Bascapè».
Dall’omicidio Mattei a Eugenio Cefis: così l’Italia ha perso la corsa al gas e petrolio. L’attentato che ha ucciso il fondatore dell’Eni, l’ascesa del suo ex vice, la scalata alla Montedison. I fondi neri ai partiti. Il romanzo-choc di Pasolini rimasto incompiuto. Un libro-inchiesta documenta come e perché è finito il sogno tricolore dell’indipendenza energetica. Paolo Biondani su L'Espresso il 24 Ottobre 2022.
Un'Italia che conquista l'indipendenza energetica: si libera dal giogo delle multinazionali, esplora e sfrutta al meglio le proprie risorse, stringe accordi privilegiati con le nazioni emergenti che hanno bisogno di tecnici e strutture per produrre gas e petrolio, dall'Egitto all'Iran, dalla Libia al Marocco. Una strategia che stava cambiando l'economia e la politica internazionale del nostro Paese, ma è stata fermata con una bomba: l'attentato che 60 anni fa, la sera del 27 ottobre 1962, ha ucciso il fondatore dell'Eni, Enrico Mattei, con altre due vittime, sull'aereo aziendale partito nel pomeriggio dalla Sicilia, esploso in volo mentre il pilota iniziava la manovra per atterrare a Milano Linate.
Una strage rimasta impunita. Che mai come oggi, nei mesi della crisi del gas scatenata dalla guerra russa in Ucraina, rivela la sua portata storica di svolta violenta, di passaggio traumatico per la democrazia in Italia. Dopo l'omicidio di Mattei, che fu negato per decenni, facendolo passare per incidente aereo, al vertice dell'Eni è asceso il suo ex direttore generale, Eugenio Cefis. Che in pochi mesi ha rovesciato la politica energetica dell'azienda nazionale. Ha ridotto gli acquisti e limitato gli accordi societari con le nazioni emergenti. E ha ripristinato e aumentato la dipendenza italiana da multinazionali anglo-americane del calibro di Esso e Shell. Dopo aver normalizzato l'Eni, Cefis ha poi scalato segretamente la Montedison, con fondi dell'azienda statale, diventando negli anni Settanta il numero uno del primo gruppo chimico privato, che era stato il suo principale concorrente. E che già allora, come l'Eni, distribuiva fiumi di tangenti ai partiti di governo.
A quegli anni cruciali, che hanno inciso la matrice della struttura produttiva italiana, è dedicato un libro-inchiesta, «L’Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell’indipendenza energetica», frutto di anni di ricerche di Giuseppe Oddo, giornalista economico che scrive anche per L'Espresso, e Riccardo Antoniani, professore di letteratura italiana a Parigi. Il saggio viene pubblicato da Feltrinelli nei giorni dell'anniversario della morte di Mattei e nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, che fu ucciso nel novembre 1975 mentre stava lavorando a un romanzo clamoroso su Cefis, intitolato Petrolio, rimasto incompiuto.
La prima parte del volume, quella economica firmata da Oddo, è la cronistoria di una sorta di golpe applicato all'industria: si parte dall'Eni di Mattei e si arriva alla Montedison di Cefis. Grazie un imponente documentazione recuperata negli archivi storici e a molte carte e testimonianze inedite, il saggio dimostra che Mattei, come rivendicò egli stesso in discorsi pubblici, aveva rivoluzionato il mercato mondiale dell'energia, stipulando accordi alla pari con i Paesi emergenti.
Nelle ex colonie francesi e inglesi che conquistavano l'indipendenza, l'Eni entrava in società con le aziende petrolifere nazionali, che per la prima volta potevano sfruttare e rivendere il proprio gas e petrolio, insieme agli italiani. La rottura del monopolio delle multinazionali, unita ai primi accordi tra l'Eni e l'Unione sovietica per le importazioni di greggio, provocò reazioni allarmatissime nel blocco occidentale. Nel saggio c'è una lettera inedita di Raffaele Matteoli a Nelson Rockefeller: il banchiere italiano chiedeva al miliardario statunitense, già nel 1957, di favorire un incontro pacificatorio tra Mattei e i capi dei colossi petroliferi americani. Ma ci sono anche verbali della Nato, del Dipartimento di Stato e delle multinazionali più ostili a Mattei, che fu contrastato anche da politici e soprattutto da aziende francesi e inglesi. Il fondatore dell'Eni fu accusato di fare da emissario commerciale dei comunisti sovietici in Europa e di sostenere il processo di decolonizzazione in Paesi come l'Algeria, mettendo in discussione il vecchio ordine petrolifero mondiale, fondato su un accordo monopolistico di “cartello” tra le maggiori compagnie anglo-americane, le cosiddette “sette sorelle”.
Nei suoi ultimi mesi di vita, Mattei stava lavorando al maxi-progetto Eurafrigas: un accordo dell'Eni con Algeria e Francia, per estrarre gas nel Sahara e trasportarlo con un colossale metanodotto da Gibilterra alla Spagna fino in Italia e Belgio. Le carte documentano che, dopo la sua morte, Cefis fece fallire le trattative.
L'omicidio di Mattei viene ricostruito dal magistrato Vincenzo Calia: furono le sue indagini a dimostrare che l'aereo Morane-Saulnier 760 fu fatto esplodere in volo con una carica di esplosivo nascosta nel vano anteriore del velivolo e collegata al carrello di atterraggio. Una bomba ad effetto limitato, per simulare un incidente. L'ex procuratore di Pavia, nell'intervista, rivela un dato finora trascurato: l’avvocato Vito Guarrasi, eminenza grigia della Dc siciliana, ha testimoniato sotto giuramento al processo Andreotti, nel 1998, che aveva incontrato Cefis a Palermo il giorno prima della morte di Mattei. Finora si ignorava che nei due giorni in cui veniva preparato l'attentato contro il fondatore dell'Eni, il suo successore potesse essere in Sicilia. Che Mattei sia stato ucciso, ormai lo conferma anche la sentenza sul sequestro e omicidio del giornalista Mauro De Mauro, che stava ricostruendo per il regista Francesco Rosi il suo fatale viaggio in Sicilia. E prima di scomparire, nel settembre 1970, parlò di uno scoop, che non riuscì a pubblicare.
Tutta questa catena di delitti è rimasta senza colpevoli. Anche grazie a continui depistaggi. E alla sistematica distruzione di prove. Come i resti dell’aereo di Mattei, fatti fondere da Cefis dopo la prima archiviazione del caso come incidente. L'indagine dell'ex procuratore Calia, condotta molti anni dopo, non è riuscita a identificare gli autori dell'attentato. E lo stesso magistrato chiarisce che «non sono emersi indizi a carico di Cefis», che è morto nel 2004 in Svizzera, dopo aver rilasciato l'unica intervista della sua vita, proprio per negare qualsiasi responsabilità nella morte del fondatore dell'Eni.
Pasolini, nelle bozze di Petrolio, denuncia che Mattei fu assassinato. Lo scrittore si spinge ad accusare Aldo Troya, il personaggio ispirato a Cefis, di essere il mandante e il beneficiario dell'attentato. Il testo di Pasolini viene analizzato nella seconda parte del saggio, curata dal professor Antoniani, che ne identifica le fonti. Tra quelle scritte spiccano interi paragrafi di un pamphlet, «Questo è Cefis», che la Montedison fece sparire dal mercato: ne risulta autore, sotto pseudonimo, un giornalista lombardo con un passato all'Eni, Luigi Castoldi, reclutato dal politico Gaetano Verzotto, che fu tra gli organizzatori del viaggio di Mattei in Sicilia. Pasolini lavorava su Mattei e Cefis fin dal 1972. E per la sua inchiesta ha incontrato molte persone: manager come Mario Reali, ex Montedison passato all'Eni, e politici come Giulio Andreotti, che aveva sempre negato di aver visto lo scrittore, ma è smentito da un suo stesso appunto. Pasolini collega Cefis anche alla strategia della tensione, facendone una sorta di precursore dell'ancora sconosciuta loggia P2.
Cefis, riservatissimo, ha parlato di soldi ai politici solo nel 1993, al culmine di Mani Pulite, in un interrogatorio pubblicato integralmente da L'Espresso. Davanti ai magistrati, l'ex presidente ammette che l'Eni finanziava i partiti di governo, dalla Dc al Psi, e singoli politici. Ma minimizza il proprio ruolo: sostiene di aver ereditato «un sistema creato da Mattei»; e giura di non sapere i nomi dei beneficiari delle tangenti, dichiarando che era il banchiere Arcaini dell'Italcasse a gestire la distribuzione dei fondi neri. Sulla Montedison, non dice nulla. Anche se proprio quel colosso chimico, nell'era successiva Gardini-Ferruzzi, è stato al centro del processo Enimont, che fece emergere la cosiddetta «madre di tutte le tangenti».
Nel saggio c'è un paragrafo, intitolato con ironia «le nonne di tutte le tangenti», con un verbale del sindacato azionario che controllava la Montedison ai tempi di Cefis. È l'unico con la dicitura «riservatissimo» in caratteri rossi. Alla riunione partecipa il gotha del capitalismo italiano: Agnelli, Pirelli, Cuccia e altri, insieme a Cefis. Gli azionisti pubblici e privati votano per limitare le «erogazioni a fini sovventori»: fondi neri della Montedison, in precedenza distribuiti senza limiti dall’allora presidente Giorgio Valerio. Quindi basta soldi ai politici? Ma no: dall'anno successivo, si legge nel verbale, il capo della Montedison dovrà farsi autorizzare le «erogazioni» e rispettare «un budget massimo».
A Milano, nell'interrogatorio sulle tangenti anonime, Cefis si era descritto come un manager aziendalista che «disprezzava» la classe politica. Nel libro-inchiesta vengono però pubblicate carte che comprovano un rapporto strettissimo con diversi capicorrente della Dc. In particolare i diari di Ettore Bernabei, che fu consigliere politico di Amintore Fanfani oltre che direttore generale della Rai e presidente dell'Italstat del gruppo Iri, documentano che Cefis era alla costante ricerca di finanziamenti statali e coperture politiche. Pressioni e manovre culminate, dopo la sconfitta di Fanfani al referendum sul divorzio, nel tentativo fallito di ottenere l'appoggio dell'ex nemico Andreotti, che però aveva già altri gruppi chimici da favorire, come la Sir di Nino Rovelli.
Una parabola economica che si riassume in un dato finale: nel 1977, quando Cefis ha lasciato l'Italia e si è ritirato in Svizzera («per paura», secondo una laconica nota dei servizi segreti), la sua Montedison era ridotta «in stato prefallimentare», come documenta il saggio, con «un indebitamento finanziario pari a sedici volte il capitale netto».
Il libro è ricchissimo di documenti. Un carteggio riservato, ritrovato nell'archivio storico dell'Eni, offusca anche il mito di Indro Montanelli, il più importante giornalista italiano, che firmò due famose sequenze di articoli, la prima contro Mattei, la seconda a favore di Cefis. Nel 2001 Montanelli smentì di aver mai ottenuto finanziamenti da Cefis, quando lasciò il Corriere, nel 1974 (accusando l’allora direttore Piero Ottone di appoggiare la sinistra), per fondare il Giornale nuovo, poi acquistato dalla famiglia Berlusconi. «Non avevamo un finanziatore», ha scritto Montanelli, «né una banca, né un'azienda pubblicitaria, finché non ce ne venne in soccorso una svizzera, la Spi, che poi fu comprata dalla Montedison, la quale si affrettò a rescindere il contratto».
In realtà la Spi era fin dall'origine una controllata svizzera del gruppo di Cefis. E finanziò la nascita del Giornale anticipando due anni di «minimo garantito»: incassi futuri della pubblicità, coperti proprio dalla Montedison. Il libro ora rivela anche come nacque quel rapporto tra il giornalista e il manager petrolchimico. A documentarlo è una lettera dello stesso Montanelli, che chiede un incontro privato a Cefis per preparare una serie di articoli sull'Eni. Il giornalista ricorda i suoi precedenti attacchi a Mattei. E prende due «impegni» con Cefis: «primo: a non sollecitare altre fonti d’informazione se lei mi apre le sue»; «secondo: a sottoporre alla sua approvazione e revisione i miei articoli prima che siano pubblicati». I tre servizi per il Corriere escono nell'aprile 1965, firmati da Montanelli, che non dichiara la sua unica fonte e non attribuisce neppure un virgolettato a Cefis.
La nave scomparsa e il mistero dell’Heida all’ombra della morte di Mattei. Inside Over il 20 marzo 2022.
14 marzo 1962, Mediterraneo occidentale. La motonave Heida, un vecchio cargo di 2300 tonnellate battente bandiera liberiana, arranca nel mare in tempesta. A bordo venti marinai di cui 19 italiani — veneti, triestini, marchigiani, siciliani, pugliesi —e un gallese. Alle 10 di mattina, all’altezza dell’isola tunisina di La Galite, il comandante Federico Agostinelli contatta, a Venezia, l’agente marittimo Giuseppe Patella (verosimilmente il vero armatore della nave) per confermare rotta e tempi di navigazione. Tutto bene, stop. Poi il silenzio. Totale. La Heida scompare nel nulla. Per sei giorni nessuno sembra accorgersene e solo il 20 marzo — sei giorni dopo — iniziano le ricerche. Senza successo. Nessun superstite, nessun corpo, nessun rottame, nessuna chiazza di nafta. L’ennesima tragedia del mare. O forse no.
Andiamo con ordine. In quell’ultimo scorcio di quel lontano inverno si stava consumando l’ultimo atto della guerra d’Algeria. Un conflitto durissimo tra la Francia e gli indipendentisti arabi, uno scontro iniziato nell’autunno 1954 e protrattosi, tra massacri e attentati, per quasi otto anni. Poi, dopo lungo meditare il presidente Charles de Gaulle, sfidando l’opposizione di gran parte dell’esercito e del popolo dei coloni (i pieds noires), decise infine di “girare la pagina” e concedere gradualmente l’indipendenza. Gli accordi di Evian del 19 marzo 1962, un azzardo politico su cui ancor oggi la Francia si dilania e si incattivisce.
Di certo vi è un dato storico, fisso e inoppugnabile: sino all’indomani della proclamazione del cessate il fuoco l’intero dispositivo militare transalpino rimase pienamente operativo e in special modo la Marina, impegnata a vigilare sul traffico d’armi alimentato da vecchi cargo, navi scassate e spendibili (come l’Heida, appunto), e destinato ai combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale. Un grande affare.
A rifornire i ribelli erano in molti: mercanti d’armi d’ogni nazionalità, satelliti del blocco sovietico, Jugoslavia titoista, Egitto nasseriano ma anche l’Italia, o meglio l’Eni di Enrico Mattei, presidente dell’Eni e campione della stagione del “neo-atlantismo”, una delle fasi più vivaci e contradditorie della politica estera italiana cui s’intrecciavano disorganicamente più fattori: “nazionalismo mediterraneo”, cripto neutralismo, atmosfere risorgimentali ed echi mussoliniani. Convinti di poter recuperare all’Italia una centralità nel Mare Interno, Mattei e i principali protagonisti del tempo — il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, il segretario della Dc Amintore Fanfani, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira — decisero di giocare, in chiave anti britannica e anti francese, la carta del movimento anticolonialista arabo. Dall’Egitto all’Algeria. Da Suez al Sahara.
Una storia romanzesca. Casualmente, nel dicembre 1958, Mattei incontrò, tornando dalla Cina via Unione Sovietica, una delegazione del GPRA (Governo provvisorio repubblica algerina). L’aereo su cui viaggiavano ambedue le missioni fu costretto per le pessime condizioni atmosferiche ad una lunga sosta a Omsk in Siberia; in quei noiosi giorni di attesa forzata il presidente del “Cane a sei zampe”, fiutando l’odore del petrolio e del gas algerino, simpatizzò con gli indipendentisti e assicurò loro, con l’appoggio felpato del governo di Roma, una robusta solidarietà: fondi, appoggio mediatico, rifugi sicuri, addestramento militare e armi, tante armi. Una circostanza che irritò fortemente i francesi e i loro servizi segreti. Da qui l’inizio di una parallela, silenziosa ma letale guerra segreta tra Parigi, Roma e l’Eni. Un duello che si concluse soltanto con la ancora molto, molto misteriosa morte di Mattei nel cielo di Bascapè il 27 ottobre 1962.
Ma torniamo all’Heida e ai suoi marinai. Sfortunatamente, proprio a pochi giorni prima della tregua, la nave si ritrovò nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Il bastimento, come nel tempo hanno ricostruito Accursio Graffeo, caparbio nipote di uno degli scomparsi, e il giornalista Nicola papa —autori di un libro inchiesta Heida, ultimo messaggio 10.00 N807 — qualcosa andò storto. All’insaputa dell’equipaggio (sul comandante e l’armatore rimane un punto di domanda) la nave era uno dei trasporti utilizzati per il traffico d’armi dall’Italia al Nord Africa e molto probabilmente l’Heida e i suoi uomini furono fermati, sequestrati e fatti scomparire “dalle autorità francesi come messaggio occulto, ma inequivocabile, allo Stato Italiano perché si attivasse nel far desistere la sua compagnia petrolifera dal fornire armi agli insorti. A suffragare questa ipotesi è stata riportata la testimonianza di un triestino, padre di uno dei marinai scomparsi, il quale disse all’epoca di aver parlato con un suo conoscente giovane ufficiale della Marina Militare di nome Fulvio Martini il quale prestava allora servizio presso il S.I.O.S. Marina e che divenne in seguito capo del S.I.S.MI. Sempre secondo quanto detto dal signore triestino, l’ufficiale gli confidò che l’equipaggio era salvo, ma che per “gravi motivi di sicurezza” non poteva fare il nome del luogo in cui si trovava, confermando inoltre che il figlio del conoscente era salvo”.
Speranze, illusioni e poi ancora una volta il nulla. I naufraghi, nonostante qualche flebile indizio, furono evaporati, sparirono. Della nave (ancor oggi) non vi è nessun ritrovamento, nessuna traccia sui fondali. Di certo vi è solo il silenzio tombale dello Stato italiano. Nell’estate del ’63 il Presidente del Consiglio Amintore Fanfani, a margine di un incontro con i parenti dei marittimi scomparsi, rispose con una criptica frase: “Per venti persone non si può fare una guerra”. Segreti di Stato. Sipario. Dopo sessant’anni vi sono dei marinai italiani che chiedono ancora giustizia.
I nomi dimenticati.
I Partigiani.
La pista neofascista.
La pista massonica deviata.
I nomi dimenticati. I Testimoni.
I nomi dimenticati. I Morti.
Il doppiopesismo sulle sentenze. Si può riscrivere la verità su Ustica, ma non su Bologna. Quella di Bologna resta un mantra irrefutabile. Quella di Ustica, invece, si può ribaltare e riscrivere a piacimento. Gian Micalessin il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.
Quella di Bologna resta un mantra irrefutabile. Quella di Ustica, invece, si può ribaltare e riscrivere a piacimento. E all'operazione possono concorrere non solo giornalisti e opinionisti, ma anche ex-presidenti del Consiglio e della Consulta. È il paradosso della «verità giudiziaria» all'italiana. Un paradosso ben rappresentato dall'indifferenza con cui Giuliano Amaro calpesta dalle pagine di Repubblica le sentenze sul disastro di Ustica.
Un paradosso reso ancor più evidente dalla contiguità temporale con le dimissioni del portavoce della Regione Lazio Marcello De Angelis costretto all'abbandono non tanto per le canzonacce scritte trent'anni fa quanto per i dubbi espressi sulla sentenza che attribuisce la strage di Bologna al terrorismo neofascista. Dubbi ampiamente argomentati, peraltro, in un libro firmato dal giudice Rosario Priore. Giuliano Amato, invece, è pienamente titolato - nonostante gli strafalcioni storici e tecnici inanellati nell'intervista a Repubblica - a criticare la sentenza (ribadita in Corte d'Assise, Corte d'Appello e Corte di Cassazione) che attribuisce ad una bomba il disastro di Ustica. Quella verità giudiziaria - a differenza delle tesi di Amato - non si basa su semplici deduzioni, ma sulla perizia eseguita sul 90 per cento dei resti del DC 9 Itavia. Perizia firmata non da un cialtrone qualsiasi, ma da un collegio internazionale guidato dal professore Aurelio Misiti, massima autorità italiana del settore, affiancato da esperti internazionali provenienti da paesi non coinvolti nel disastro. Come se non bastasse le tesi contenute nell'istruttoria del giudice Rosario Priore (spesso spacciata in assoluta malafede per verità giudiziaria) sono state assolutamente confutate nelle 272 udienze del processo. Tanto che nelle motivazioni della sentenza la tesi del missile viene liquidata come «fantapolitica o romanzo frutto della stampa che si è sbizzarrita a trovare scenari di guerra, calda o fredda». Ma il vero problema - aldilà del paradosso sul mutevole valore delle «verità giudiziarie» - riguarda la ricerca dei colpevoli. In questi 40 anni le improbabili ricostruzioni rilanciate da Amato non hanno soltanto complicato i rapporti con Parigi, ma anche sbarrato la strada a qualsiasi ricerca della verità. Le fantasie di chi ricostruisce improbabili battaglie aeree e accusa i nostri generali sono state - e restano - il miglior pretesto per impedire qualsiasi vera indagine sui mandanti della bomba. Un'indagine che non era difficile capire da dove far partire. Anche perchè alle 10 del mattino del 27 giugno, solo 36 ore prima del disastro, Stefano Giovannone, il colonnello del Sismi demiurgo e garante da Beirut del cosiddetto lodo-Moro tra Italia e fazioni palestinesi, invia a Sirio, nome in codice di un suo superiore a Roma, un cablogramma urgente ed esplicito.
«Habet informatomi tarda serata due sei che Fplp avrebbe deciso riprendere totale libertà azione senza dar corso ulteriori contatti». L'Fplp, la fazione palestinese appoggiata da Gheddafi, era pronta, insomma, a infrangere il lodo-Moro e riprendere l'attività terroristica in Italia. Peccato che 40 anni dopo quella verità resti, nascosta dietro la cortina fumogena di improbabili battaglie aeree combattute nei nostri cieli. Con tanti saluti non solo alla riverita verità giudiziaria, ma anche ai mandanti della strage.
"O si decide che i verdetti sono sacri, oppure si possono discutere. Tutti". Il giornalista: "Una persona come Amato dovrebbe parlare coi fatti. Quando era a Palazzo Chigi ha fatto i passi formali con la Francia?" Domenico Di Sanzo il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.
Polemiche di fuoco sulle parole di Marcello De Angelis sulla strage di Bologna. Dubbi e dibattito dopo l'intervista di Giuliano Amato su Ustica. È giusto mettere in discussione le sentenze? «O si decide che le sentenze sono sacre e inviolabili oppure che si possono discutere, basta mettersi d'accordo. Io dico che tutte le sentenze si possono discutere», risponde al Giornale il giornalista e scrittore Pierluigi Battista.
Su X ha scritto che le sentenze si rispettano o si smentiscono «a seconda delle convenienze». E ancora: «Mambro e Fioravanti conviene? No, quindi no. Ustica conviene? Sì, dunque sì». Pensa che ci sia un doppiopesismo?
«Non è possibile che nei giorni pari si discutono le sentenze anche in modo veemente e nei giorni dispari si decide che non si possono discutere».
Si riferisce al caso De Angelis?
«Abbiamo assistito a una polemica su una frase di De Angelis in cui si obiettava sulla forza probatoria della sentenza che ha condannato Francesca Mambro e Valerio Fioravanti per la strage di Bologna, una posizione condivisa da importanti personalità di sinistra come Furio Colombo, Rossana Rossanda, Luigi Manconi, Marco Pannella. In quel caso era inammissibile e non si poteva discutere la sentenza, mentre adesso Giuliano Amato, che ha ricoperto ruoli istituzionali di grande rilievo, può definire menzogna una sentenza della magistratura sulla base di quelle che lui stesso definisce deduzioni».
Le sentenze si cavalcano?
«Spesso si va a seconda della convenienza. Su Berlusconi se ci sono sentenze di assoluzione vengono delegittimate, se sono di condanna vengono cavalcate. Ad esempio, ci sono state numerose sentenze che hanno dimostrato che la storia della trattativa stato-mafia è una fake news. Ma, nonostante questo, ci sono alcuni magistrati ed ex magistrati che dicono che quelle sentenze non valgono nulla ed esistono giornali che ancora fanno campagne sulla trattativa stato-mafia. Detto ciò, io credo che le sentenze si devono eseguire, ma si possono sempre discutere».
Dunque anche Amato ha il diritto di smontare un verdetto
«Sì, ma diciamo che una persona come Amato dovrebbe parlare per elementi fattuali, non per deduzioni».
Perché l'ex presidente del Consiglio ha parlato proprio ora?
«Guardi, il punto non è questo. Io mi chiedo perché non abbia detto queste cose prima. Quindi, io gli chiederei: quando è stato a Palazzo Chigi ha fatto dei passi formali con la Francia? E poi: quando Cossiga nel 2008 disse che erano stati i francesi ad abbattere l'aereo con un missile, Amato era ministro dell'Interno. Eppure non ricordo all'epoca suoi interventi indignati in difesa delle tesi di Cossiga, perché? Inoltre, come mai non risponde ai figli di Bettino Craxi, che dicono che il padre avvertì Gheddafi dei bombardamenti del 1986, non di un possibile attentato nei suoi confronti nel 1980, come invece afferma Amato. Come notava giustamente ieri Marco Gervasoni sul Giornale, Amato dice un'altra inesattezza facendo di un fascio Francia e Nato: cosa in quel momento non corretta, poiché Parigi era uscita da tempo dal comando integrato Nato. Quindi, come ha scritto Gervasoni, in linea teorica, la Francia poteva compiere operazioni senza informare gli altri Paesi dell'Alleanza atlantica». Domenico Di Sanzo
Quello che sappiamo sulla Strage di Bologna: la mano fu neofascista, la mente no. Stefano Baudino su L'Indipendente il 7 Agosto 2023
“So per certo che con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Non è un’opinione: io lo so con assoluta certezza. E in realtà lo sanno tutti: giornalisti, magistrati e ‘cariche istituzionali’. E se io dico la verità, loro – ahimè – mentono”. Sono queste le pesantissime parole, scritte venerdì scorso in un post di Facebook, con cui Marcello De Angelis – che non è un cittadino qualunque, bensì il responsabile della comunicazione della Regione Lazio – ha riacceso la polemica sulla narrazione politica, mediatica e giudiziaria sui responsabili della strage di Bologna. Oggi, De Angelis è tornato sui suoi passi, chiedendo “scusa” a tutti coloro a cui sente di aver “provocato disagi” e che ha “trascinato in una situazione che ha assunto dimensioni inimmaginabili”. Ad ogni modo, per fare ordine, è utile riaccendere i fari sulle verità di cui siamo in possesso sull’ideazione e l’esecuzione di quel devastante delitto. Che, a distanza di 43 anni da quel tragico 2 agosto 1980, fanno parte di un puzzle ancora in costruzione.
L’uscita di De Angelis, accolta con grande freddezza dalla premier Giorgia Meloni e dall’ala “governista” della destra di potere, va a contestare le risultanze ufficiali di processi ormai da tempo passati in giudicato, in cui sono condannati a pene ingenti tutti i personaggi da lui “assolti”. Le responsabilità del tremendo attentato – che fece 85 vittime e 200 feriti – secondo la Cassazione sono infatti da ricondurre ad alcuni ex membri dei Nuclei Armati Rivoluzionari, che per questo hanno pagato con la galera. Eppure, nuove inchieste e nuovi processi stanno progressivamente svelando il “secondo livello” criminale della strage, da cui non si può prescindere per comprendere le motivazioni che spinsero a metterla in atto.
Una particolare biografia
Quel che è certo è che De Angelis, un certo ambiente, pare averlo conosciuto molto bene. A raccontarcelo è la sua biografia: la sua militanza politica nel Fronte della Gioventù inizia negli anni del liceo, nel 1974. Tre anni dopo entra in Lotta Studentesca (dalla cui costola trarrà origine Terza Posizione), a braccetto con il fratello maggiore Nazareno, il quale morirà nel 1980, a 22 anni, all’interno del carcere di Rebibbia in circostanze ancora da chiarire. La loro sorella Germana, inoltre, ha sposato l’ex terrorista nero Luigi Ciavardini, anch’egli condannato per la strage di Bologna.
In seguito alla messa al bando di Terza Posizione, dopo sei mesi di detenzione a Londra, nel 1989 De Angelis si costituisce in Italia, dove viene condannato a 5 anni e sei mesi di reclusione per associazione sovversiva e banda armata. Successivamente, si riciclerà come politico (nel 2006 entrerà in Senato con Alleanza Nazionale, nel 2008 alla Camera con il Pdl) e come giornalista (diventa prima direttore del mensile “Area” della destra sociale, poi del quotidiano “Secolo d’Italia” e, infine, responsabile della comunicazione istituzionale della regione Lazio su chiamata del Presidente Francesco Rocca).
I primi processi
Il primo processo per la strage di Bologna, dove finirono imputate più di venti persone per strage, banda armata, associazione sovversiva e calunnia aggravata, iniziò nel 1987. Tra loro c’erano Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini (NAR), Stefano Delle Chiaie (Avanguardia Nazionale), Licio Gelli (capo della loggia massonica P2), Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte (membri dei servizi segreti militari, il SISMI) e Francesco Pazienza (collaboratore del SISMI). In seguito a una serie di colpi di scena – tra cui una sentenza di Appello che fece cadere l’accusa di strage, poi annullata dalla Cassazione -, dopo una nuova condanna per strage nel nuovo processo di secondo grado, la Suprema Corte mise la parola fine: condannati in via definitiva all’ergastolo come esecutori materiali dell’attentato Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (sempre dichiaratisi innocenti). Per calunnia aggravata con finalità di terrorismo furono invece condannati Licio Gelli e Francesco Pazienza: 10 anni a testa per aver depistato le indagini. Per l’esecuzione del depistaggio furono condannati Pietro Musumeci (8 anni e 5 mesi) e Giuseppe Belmonte (7 anni e 11 mesi).
Nel decennio compreso tra il 1997 e il 2007 si tenne poi un secondo processo, in cui ad essere condannato a 30 anni di carcere fu l’ex NAR Luigi Ciavardini, anch’egli come esecutore materiale dell’eccidio. Nel 2017 venne aperto un terzo processo, che questa volta vide imputato Gilberto Cavallini, un altro ex componente dei NAR. Condannato in primo grado alla massima pena dalla Corte d’Assise di Bologna per aver aiutato Fioravanti, Mambro e Ciavardini ospitandoli nella sua abitazione trevigiana prima dell’attentato e fornendo loro documenti falsi e un’automobile, attende ora l’Appello.
Il ruolo della P2 e dei servizi
Ma la vera e propria svolta, anche e soprattutto in relazione alla questione delle compartecipazioni esterne ai gruppi di terroristi neri nella strage, avrà luogo con il processo a Paolo Bellini, ex esponente di Avanguardia Nazionale. Un uomo che si mosse “tra più mondi” e che, negli anni caldi delle stragi di mafia, fu infiltrato in Cosa Nostra (era legato a Nino Gioè, personaggio di tramite tra mafia e servizi, che nel 1993 verrà trovato “suicidato” nella cella in cui era recluso e in cui si apprestava a collaborare). Anche Bellini ha subito una condanna all’ergastolo in primo grado per concorso nell’attentato. Le motivazioni della sentenza, però, hanno aperto un’ulteriore finestra sulla strage, inquadrandola come ultimo grande tassello strategia della tensione, in cui “menti raffinatissime” – per dirla alla Falcone – ebbero un ruolo di estremo rilievo.
Nella sentenza, infatti, i giudici hanno ritenuto “fondata” l’idea “che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel ‘Documento Bologna‘, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato (ex direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, iscritto alla P2, Ndr) la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo”. Il “Documento Bologna“, ritrovato tra le carte di Gelli nel 1982 e analizzato nel quadro del processo ai mandanti della strage di Bologna nel 2021, riporta movimenti finanziari e destinatari per un totale di 15 milioni di dollari, veicolati da Gelli su conti off-shore e poi distribuiti in contanti pochi giorni prima dell’attentato.
L’obiettivo politico
La Corte non ha dubbi: “la prossimità di Fioravanti” a soggetti quali “Paolo Signorelli e Fabio De Felice, i quali a loro volta erano strettamente legati ai servizi segreti e a Licio Gelli”, come anche “i suoi accertati rapporti diretti con Licio Gelli”, spingono a ritenere che “l’idea di colpire Bologna nacque in quello stesso contesto e fu coordinata da un livello superiore, avvalendosi anche dell’opera dei servizi deviati“. Altri esecutori materiali “furono scelti, probabilmente da figure di vertice dell’eversione nera o forse da esponenti dei servizi, tra personaggi che offrivano garanzie assolute di riserbo, per la loro appartenenza politica o per la loro condizione di latitanza”.
Sullo sfondo ci sarebbe stato un preciso obiettivo politico: in primis, la “necessità di impedire ogni prospettiva di accesso della sinistra al potere in Italia” e “l’attuazione del Piano di Rinascita democratica” di Licio Gelli. Per i giudici, fin dai tempi della strage di Portella della Ginestra (1942), venne tessuto “un filo nero, che giunge a Bologna, di azioni coordinate e connesse per interferire sui libero e autonomo sviluppo della politica nazionale da parte di forze esterne, generalmente legate agli esiti del secondo conflitto mondiale”. Per la Corte, “anche coloro che si resero verosimilmente mandanti e/o finanziatori della strage”, che non appartenevano “in modo diretto” a gruppi neofascisti, condividevano “obiettivi antidemocratici” e puntavano “all’instaurazione di uno Stato autoritario, nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse”.
Insomma, la netta presa di posizione di De Angelis (peraltro non supportata da alcun elemento utile a “riaprire” il dibattito sul punto), è inequivocabilmente inaccettabile, in quanto il ruolo degli estremisti neri nel delitto non è mai stato messo in discussione dalle sentenze. Ciò non toglie che le logiche di concepimento di quell’attentato – come peraltro attestato da importanti pronunce – siano da ricercare molto, molto più in alto della sola cerchia degli ex terroristi neri. [di Stefano Baudino]
Strage di Bologna, i giudici sono certi: coinvolti la P2 e i servizi segreti. Stefano Baudino su L'Indipendente l'8 aprile 2023
Alla terribile strage di Bologna del 2 agosto del 1980, in cui rimasero uccise 85 persone, contribuirono i servizi segreti di Federico Umberto D’Amato e la P2 di Licio Gelli. È questa la convinzione dei giudici della Corte d’Assise di Bologna, messa nero su bianco nelle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo a carico di Paolo Bellini, ex terrorista di Avanguardia Nazionale, ritenuto esecutore materiale del massacro assieme agli estremisti neri Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini.
La Corte parte dalla “constatazione della prova granitica della presenza di Bellini il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna”, il quale “fu ripreso in alcuni fotogrammi di un filmato amatoriale girato dal turista Harald Polzer, che si riferiscono ad un momento di pochi minuti successivo alla deflagrazione”. Tale conclusione è autorizzata dall'”avvenuto riconoscimento dell’imputato in termini di certezza da parte di Maurizia Bonini (ex moglie di Bellini, che ha identificato nell’ex coniuge l’uomo ripreso a camminare nell’area del binario 1 della stazione nel filmato registrato pochi minuti dopo lo scoppio della bomba, Ndr) all’udienza del 21 luglio 2021″.
Da Bellini, però, il discorso si sposta su piani superiori. “Possiamo ritenere fondata l’idea, e la figura di Bellini ne è al contempo conferma ed elemento costitutivo – dicono i giudici – che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel ‘Documento Bologna‘, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato (ex direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, iscritto alla P2, Ndr) la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo”. Il “Documento Bologna“, ritrovato tra le carte di Gelli nel 1982 e analizzato nel processo ai mandanti della strage di Bologna nel 2021, riporta movimenti finanziari e destinatari per un totale di 15 milioni di dollari, veicolati da Gelli su conti off-shore e poi distribuiti in contanti pochi giorni prima dell’attentato.
I giudici evidenziano che “anche un terrorista della nuova generazione come Fioravanti, nella sua smania di protagonismo, si avvicinò progressivamente ad elementi di spicco del neocostituito gruppo ‘Costruiamo l’Azione‘ come Paolo Signorelli e Fabio De Felice, i quali a loro volta erano strettamente legati ai servizi segreti e a Licio Gelli”. La Corte asserisce che “la prossimità di Fioravanti ai soggetti sopra menzionati, così come i suoi accertati rapporti diretti con Licio Gelli, inducono a ritenere che l’idea di colpire Bologna nacque in quello stesso contesto e fu coordinata da un livello superiore, avvalendosi anche dell’opera dei servizi deviati“. In quella fase, Fioravanti “era considerato sul piano operativo il soggetto più determinato ed incontenibile e, dunque, di fronte all’invito a partecipare ad un’impresa così eclatante, si poteva prevedere che non si sarebbe tirato indietro”. Altri esecutori materiali “furono scelti, probabilmente da figure di vertice dell’eversione nera o forse da esponenti dei servizi, tra personaggi che offrivano garanzie assolute di riserbo, per la loro appartenenza politica o per la loro condizione di latitanza”. A muoversi “dietro a tale macchinazione”, in base a “consistenti indizi”, c’era proprio “Licio Gelli”.
La Corte si sofferma sulle ragioni sottese all’organizzazione dell’attentato, che sono da ricondurre a un chiaro disegno politico. Riprendendo la tesi dell’Avvocatura dello Stato, che ha individuato nella strage di Bologna la realizzazione della strategia della tensione ufficialmente aperta con la strage di Portella della Ginestra, i giudici sostengono che tale analogia sia “importante perché consente di cogliere, come e ormai pacifico per quel lontano evento del 1947, un filo nero, che giunge a Bologna, di azioni coordinate e connesse per interferire sui libero e autonomo sviluppo della politica nazionale da parte di forze esterne, generalmente legate agli esiti del secondo conflitto mondiale”. La “causale plurima” della strage trova infatti le sue radici “nella situazione politico-internazionale del paese e nei rapporti tra estremisti neri e centrali operative della strategia della tensione sui finire degli anni Settanta”.
In questa cornice agirono, dunque, “Gelli, la P2, i servizi segreti e quel centro occulto di potere coagulatosi intorno all’ex capo dell’Ufficio affari riservati”. La strage di Bologna, secondo la Corte, ha infatti visto il ruolo di mandanti “nei confronti dei quali il quadro indiziario è talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica internazionale da quelle figure, quale contesto operativo della strage di Bologna”.
Per i giudici, “anche coloro che si resero verosimilmente mandanti e/o finanziatori della strage, pur senza appartenere in modo diretto a gruppi neofascisti, condividevano i predetti obiettivi antidemocratici di fondo ed ambivano all’instaurazione di uno Stato autoritario, nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse”. Tra gli obiettivi, vi erano infatti la “necessità di impedire ogni prospettiva di accesso della sinistra al potere in Italia” e “l’attuazione del Piano di Rinascita democratica” di Licio Gelli “attraverso l’impiego misurato della strategia delle bombe”, in un quadro “di guerra psicologica, di provocazione e di preparazione dell’opinione pubblica al taglio delle ali estreme del sistema politico”. [di Stefano Baudino]
Estratto dell’articolo di Maria Elena Gottarelli per “la Repubblica” l'11 maggio 2023.
Quattro giudici popolari “troppo anziani” potrebbero far annullare la sentenza sul 2 agosto. Quella che tre anni fa ha portato alla condanna all’ergastolo dell’ex Nar Gilberto Cavallini, accusato di concorso in strage per l’attentato 1980 alla stazione di Bologna.
Ieri mattina, in Corte d’Assise d’Appello, i difensori di Cavallini Gabriele Bordoni e Alessandro Pellegrini hanno parlato di «nullità insanabile», perché quattro giudici popolari della prima Corte d’Assise nel corso del procedimento hanno compiuto i 65 anni d’età, limite massimo stabilito dalla legge del 1951.
Un cortocircuito giuridico che ha precedenti in due recenti processi a Messina e Palermo, dove due sentenze sono state annullate proprio per questa ragione. Domani la Suprema Corte deciderà sull’annullamento della sentenza di Palermo ed è in vista di questo pronunciamento che il giudice ha preso tempo. […]
Regione Lazio, Marcello De Angelis si dimette: “Ho pagato colpe che non avevo, ma non potrò mai perdonarmi il testo di quella canzone”. L’ex responsabile della Comunicazione Istituzionale: “Sono stato messo alla gogna per un post su Facebook. Rivendico il diritto al dubbio e al dissenso anche se non posso negare di essermi espresso in modo inappropriato. La mostruosa macchina del fango può stritolare chiunque”. Redazione su Il Riformista il 29 Agosto 2023
Il responsabile della Comunicazione Istituzionale della Regione Lazio, Marcello De Angelis, ha rassegnato quest’oggi le dimissioni dal proprio incarico. La volontà espressa in una lettera al governatore Francesco Rocca in cui si legge: “Dopo attenta riflessione, mi trovo nelle condizioni di dover fare una scelta di cui mi assumo tutta la responsabilità. Sono stato messo alla gogna per un post su Facebook in cui ho espresso perplessità su una vicenda giudiziaria (relativa alla strage di Bologna, ndr) sulla quale molti altri prima e meglio di me e in modo più autorevole, si erano pronunciati in maniera analoga. Rivendico il diritto al dubbio e al dissenso anche se non posso negare di essermi espresso in modo inappropriato e per questo ho chiesto scusa. Ho scatenato dure pressioni politiche contro l’Istituzione che oggi rappresenti e, pur nella consapevolezza che i tuoi avversari non hanno argomenti o la forza per importi le decisioni che auspicherebbero, la mia stessa coscienza è più forte e più legittimata di loro a chiedermi di fare un passo indietro. La mostruosa macchina del fango può stritolare chiunque e mi ha preso di mira mettendomi alla gogna rovistando nella mia vita. Ho pagato tragicamente per metà della mia esistenza colpe che non avevo, ma non posso affrancarmi dall’unica cosa di cui mi sento vergognosamente responsabile: aver composto in passato un testo di una canzone che considero un messaggio di odio insensato nei confronti di esseri umani senza colpa, molti dei quali sono oggi miei amici e amiche, colleghi, vicini di casa, persone che apprezzo, ammiro, a cui voglio bene e persino miei familiari. Non so se potrò mai perdonarmi per questa cosa e non mi aspetto che lo facciano altri“.
I fatti
Diverse le accuse rivolte al responsabile della Comunicazione Istituzionale della Regione Lazio. In primis un testo antisemita, risalente alla sua giovinezza, riemerse di recente. Era il 1995 quando l’ex terrorista, all’epoca nel gruppo 270bis, scriveva: “Troppo ci pesava portare sulla schiena il dominio di una razza di mercanti”, con riferimento al popolo ebraico. “Gridano Shalom bruciandoci le case, cantano pace e ci violentano le donne”.
Lo scorso mese poi, un suo commento sulla strage di Bologna aveva lasciato tutti senza parole: “Fioravanti, Mambro e Ciavardini sono innocenti. Magistrati e cariche istituzionali mentono”, costringendolo alle scuse.
L’ultimo caso soltanto pochi giorni fa, il 24 agosto, quando l’ex deputato del Pd Emanuele Fiano, membro della Comunità ebraica e figlio di un uomo sopravvissuto alla Shoah, aveva alla luce un post di De Angelis denso d’antisemitismo, divulgandone il contenuto su Facebook: lo scorso 21 dicembre l’ex terrorista aveva postato l’immagine del candelabro Yule, offerto come omaggio dal criminale Heinrich Himmler ai camerati delle SS per il capodanno. “I nazisti dovevano accenderlo il 21 dicembre per il solstizio, seguendo la passione himmleriana. Dillo cosa sei, abbi il coraggio delle tue idee, ti piace ancora Himmler? Ti riconosci nel nazismo? Porti avanti quelle tradizioni? Cosa vuol dire che non sei più quello delle canzoni antisemite se poi fai gli auguri il 21/12 con il porta candela delle SS? Non avete neanche il coraggio”, aveva scritto Fiano.
Il commento di Rocca
“Prendo atto delle dimissioni di Marcello De Angelis dal ruolo di Capo della Comunicazione Istituzionale della Regione Lazio. Lo ringrazio per il prezioso lavoro svolto finora e per il senso di responsabilità dimostrato. Così come ha la mia gratitudine per aver messo al riparo l’Istituzione che presiedo dalle inaccettabili strumentalizzazioni di queste settimane, pagando il prezzo per una canzone scritta 45 anni fa e rispetto alla quale ha manifestato pubblicamente tutto il suo imbarazzo e orrore. Testo, peraltro, già noto quando in passato aveva ricoperto ruoli come quello di parlamentare e direttore di testate. Posso testimoniare in prima persona l’evoluzione della personalità di De Angelis. Un percorso di maturazione, di autoconsapevolezza e di trasformazione interiore. Sicuramente tutto questo non può cancellare il suo passato, ma ha forgiato e continuerà a formare il suo presente e il suo futuro” ha dichiarato Francesco Rocca.
(ANSA sabato 5 agosto 2023) - "Il 2 agosto è un giorno molto difficile per chiunque conosca la verità e ami la giustizia, che ogni anno vengono conculcate persino dalle massime autorità dello Stato (e mi assumo fieramente la responsabilità di quanto ho scritto e sono pronto ad affrontarne le conseguenze).
La differenza tra una persona d'onore e uno che non vale niente è il rifiuto di aderire a versioni di comodo quando invece si conosce la verità. E accettare la bugia perché così si può vivere più comodi. Intendo proclamare al mondo che Cristo non è morto di freddo e nessuno potrà mai costringermi a accettare il contrario. Così come so per certo che con la strage di Bologna non c'entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
Non è un'opinione: io lo so con assoluta certezza". Lo ha scritto su Facebook il responsabile della comunicazione Istituzionale della Regione Lazio, Marcello De Angelis. "E in realtà lo sanno tutti: giornalisti, magistrati e 'cariche istituzionali' - prosegue - E se io dico la verità, loro, ahimè, mentono. Ma come i martiri cristiani io non accetterò mai di rinnegare la verità per salvarmi dai leoni.
Posso dimostrare a chiunque abbia un'intelligenza media e un minimo di onestà intellettuale che Fioravanti, Mambro e Ciavardini non c'entrano nulla con la strage. Dire chi è responsabile non spetta a me, anche se ritengo di avere le idee chiarissime in merito nonché su chi, da più di 40 anni, sia responsabile dei depistaggi.
Mi limito a dire che chi, ogni anno e con toni da crociata, grida al sacrilegio se qualcuno chiede approfondimenti sulla questione ha sicuramente qualcosa da nascondere". De Angelis conclude invitando a rilanciare il suo pensiero. "A questo post non basta mettere un 'mi piace' - scrive - dovete rilanciarlo e condividerlo… altrimenti hanno vinto loro, gli apostoli della menzogna…"
(ANSA sabato 5 agosto 2023) - "Queste sono le certezze dei pallonari che non tengono conto dei risultati dei processi e delle indagini che sono state fatte in tutti questi anni. Credo proprio che sia un incorreggibile che pensa che la sua parola superi tutte le prove". Così Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari della vittima della Strage di Bologna commenta le parole del responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio, Marcello De Angelis "Però - aggiunge Bolognesi - non ha parlato di pista palestinese, si vede che sta passando di moda". (ANSA)
(ANSA il 5 Agosto 2023) - "Ho espresso il mio dissenso. E sono finito sul rogo. Da uomo libero". Lo scrive su Facebook, Marcello De Angelis, responsabile della comunicazione Istituzionale della Regione Lazio, dopo le polemiche nate per il post scritto sulla strage di Bologna.
"Come ogni libero cittadino di questa Nazione, ho esercitato il diritto di esprimere la mia opinione su un evento solstiziale della nostra storia, fondata su decenni di inchiesta svolta come giornalista e parlamentare - prosegue De Angelis in un altro post- . E certo, non lo nego, animato dalla passione di chi ha avuto un fratello morto, vittima di uno degli accertati depistaggi orditi per impedire l'accertamento della verità, con l'utilizzo della falsa testimonianza del massacratore del Circeo Angelo Izzo - ricorda De Angelis -.
E quindi con il diritto personale e familiare di chiedere di approfondire ogni analisi finché non sia dissipato qualunque dubbio". "Ho detto quello che penso senza timore delle conseguenze. Se dovrò pagare per questo e andare sul rogo come Giordano Bruno per aver violato il dogma, ne sono orgoglioso", conclude De Angelis.
(ANSA) - "Le dichiarazioni sulla strage di Bologna di De Angelis, responsabile della comunicazione istituzionale del presidente della Regione Lazio, confermano che bene avevamo fatto nel chiedere la revoca della nomina a chi è incompatibile con i valori della Repubblica democratica e antifascista della Costituzione: dichiarare l'innocenza dei fascisti riconosciuti autori del massacro della stazione di Bologna non è solo disconoscere la verità accertata in modo definitivo dalla magistratura, ma è una vergognosa e proterva menzogna che offende le vittime e la stessa istituzione rappresentata dal suo autore". Lo dice il presidente dell'Anpi e membro della segreteria nazionale Fabrizio De Sanctis chiedendo che De Angelis "si dimetta" o il presidente Rocca "revochi immediatamente la sua nomina
(Adnkronos mercoledì 23 agosto 2023) - "In qualunque Paese democratico l'autore di una canzone antisemita che non si è mai nemmeno scusato di aver definito il popolo ebraico 'una razza di mercanti' non potrebbe ricoprire alcun incarico politico e istituzionale. Non così nella regione Lazio di Francesco Rocca. La presidente Giorgia Meloni non può continuare a fare finta di non vedere. De Angelis dimettiti". Lo scrive su X (ex Twitter) il deputato dem Andrea Casu, della presidenza del gruppo Pd alla Camera.
Estratto da fanpage.it mercoledì 23 agosto 2023.
Il prossimo 1 settembre l'anno politico inizierà alla Pisana con un consiglio straordinario richiesto dalle opposizioni, con oggetto le dichiarazioni di Marcello De Angelis in relazione alla strage di Bologna che hanno alzato un putiferio. L'ex estremista di destra, poi senatore ed esponente di Alleanza Nazionale, oggi è il responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio. De Angelis ha seguito Francesco Rocca dalla Croce Rossa, e il governatore lo ha difeso evitandone le dimissioni nonostante i malumori e le proteste.
Come è noto De Angelis oltre che il giornalista (ha diretto a lungo il mensile di riferimento della destra sociale Area ed è stato anche direttore del Secolo d'Italia), è anche il frontman e l'autore dei testi del gruppo di "rock identitario" 270 bis. Meno noti sono i testi delle sue canzoni. In particolare ce ne è una dove una strofa ha un sapore decisamente antisemita. Il brano si intitola Settembre Nero, ed è una specie di santificazione del gruppo terrorista palestinese, noto soprattutto per il rapimento e l'assassinio di 11 atleti israeliani nel settembre 1972 al villaggio olimpico di Monaco. Solo il 7 agosto scorso, su Facebook tornando sulla polemica sulla strage di Bologna, De Angelis spiegava che a suo avviso "un terrorista è una persona schifosa e vile". Non vale per tutti i terroristi evidentemente, eppure il diretto interessato non fa che professare coerenza.
Parlando dell'occupazione dei territori palestinesi De Angelis canta: "Troppo ci pesava
portare sulla schiena/ il dominio di una razza di mercanti / se con l'oro hanno comprato / la mia casa e la mia terra". Sangue e terra contro oro, secondo il più classico dello stilema delle rappresentazioni dell'antisemitismo di destra. Perché qua non si parla del conflitto tra israeliani e palestinesi, della critica allo stato di Israele, ma di una "razza di mercanti", come De Angelis evidentemente definisce gli ebrei.
Il protagonista di questa storia non è uno che si vergogna né rinnega, legittimamente la sua storia. Altrettanto legittimamente all'uscita dal carcere ha ricominciato a far politica, scegliendo l'impegno in un partito e nelle istituzioni. Ma questa canzone, di cui siamo convinti che De Angelis si dovrebbe vergognare, appartiene alla seconda parte della sua vita, non agli anni della militanza giovanile.
Nel libro del 2017 "Cosa vuol dire essere oggi di destra?" (Luigi Pellegrini Editore), in cui ripercorre ampiamente il suo percorso politico, De Angelis spiega di non volersi nascondere dietro un dito:
(...)
IL TESTO DI “SETTEMBRE NERO”, DEI 270BIS, SCRITTO DA MARCELLO DE ANGELIS
Il mondo ci ha tacciato di briganti e di assassini,
di uccisori di donne e di bambini,
ma nessuno vuol vedere i corpi straziati
dei nostri figli sotto i carri armati,
i campi devastati dal fuoco americano,
i nostri corpi dai sovietici dell'OLP.
Ma tra le dune sorge il mitra di Settembre Nero.
Sulla Palestina ora rivive lo spirito guerriero.
Troppo ci pesava il bastone da pastore,
i nostri figli preferiscono il fucile .
L' odio che han sorbito con il latte delle madri
ora esplode negli aerei della El Al .
Troppo ci pesava portare sulla schiena
il dominio di una razza di mercanti .
Se con l' oro hanno comprato la mia casa e la mia terra
la mia libertà si paga con il sangue !
E tra le dune sorge il mitra di Settembre Nero.
Sulla Palestina ora rivive lo spirito guerriero.
Gridano "shalom" bruciandoci le case,
cantano pace e ci violentano le donne.
Aiuta chi è più ricco, baionette ai moribondi,
queste sono le leggi di Mosè .
Ma a noi indicò Maometto la strada da seguire,
il nostro Allah si onora col tritolo.
A chi predica la pace massacrando la tua gente,
dal Corano il nostro Dio risponde : guerra!
E tra le dune sorge il mitra di Settembre Nero.
Sulla Palestina ora rivive lo spirito guerriero.
E tra le dune sorge il mitra di Settembre Nero.
Sulla Palestina ora rivive lo spirito guerriero.
Strage di Bologna, Marcello De Angelis: «Fioravanti, Mambro e Ciavardini non c’entrano. Lo sanno tutti». Clarida Salvatori e Redazione Online su Il Corriere della Sera sabato 5 agosto 2023
Lex terrorista nero, oggi portavoce di Francesco Rocca, presidente della Regione Lazio: «Non riusciranno a farmi rinunciare a proclamare la verità. Costi quel che costi…»
È una presa di posizione dura, frasi che lasciano poco margine a qualsiasi dubbio. E destinate a riaprire la polemica già scoppiata il 2 agosto in occasione del 43simo anniversario della strage della stazione di Bologna in cui morirono 85 persone e ne rimasero ferite 200. Anche perché suonano in opposizione a quanto dichiarato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ad affidarle a un post sul suo profilo Facebook è l'ex terrorista nero Marcello De Angelis, cognato dell’ex Nar Luigi Ciavardini e oggi portavoce di Francesco Rocca, presidente della Regione Lazio. Suo fratello, Nanni, fu arrestato insieme a lui e a Ciavardini il 23 settembre 1980 per appartenenza ai Nar e morì in carcere il 5 ottobre dello stesso anno.
Il riferimento a Mattarella
Scrive De Angelis: «Il 2 agosto è un giorno molto difficile per chiunque conosca la verità e ami la giustizia, che ogni anno vengono conculcate persino dalle massime autorità dello Stato (e mi assumo fieramente la responsabilità di quanto ho scritto e sono pronto ad affrontarne le conseguenze). La differenza tra una persona d’onore e uno che non vale niente è il rifiuto di aderire a versioni di comodo quando invece si conosce la verità. E accettare la bugia perché così si può vivere più comodi».
«Fioravanti, Mambro e Ciavardini non c’entrano nulla»
«Con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini (condannati in via definitiva come esecutori materiali, ndr). Non è un’opinione: io lo so con assoluta certezza. E in realtà lo sanno tutti: giornalisti, magistrati e “cariche istituzionali” - prosegue De Angelis -.
E se io dico la verità, loro - ahimè - mentono. Ma come i martiri cristiani io non accetterò mai di rinnegare la verità per salvarmi dai leoni. Posso dimostrare a chiunque abbia un’intelligenza media e un minimo di onestà intellettuale che Fioravanti, Mambro e Ciavardini non c’entrano nulla con la strage».
Ipotesi depistaggi
Il portavoce della Regione Lazio prosegue nelle sue forti dichiarazioni: «Dire chi è responsabile non spetta a me, anche se ritengo di avere le idee chiarissime in merito nonché su chi, da più di 40 anni, sia responsabile dei depistaggi. Mi limito a dire che chi - conclude lanciando accuse -, ogni anno e con toni da crociata, grida al sacrilegio se qualcuno chiede approfondimenti sulla questione ha sicuramente qualcosa da nascondere. A me, con questo ignobile castello di menzogne, hanno tolto la serenità, gli affetti e una parte fondamentale della vita. Non riusciranno a farmi rinunciare a proclamare la verità. Costi quel che costi…».
Bonaccini: «Ignobile e bugiardo»
Il post ha scatenato numerose reazioni di protesta, fra le più dure, quella di Stefano Bonaccini: «Ignobile e bugiardo. Venga a dirle a Bologna queste cose. Guardando negli occhi i famigliari delle vittime della strage fascista del due agosto» ha scritto su Twitter il presidente della Regione Emilia-Romagna.
Il secondo post nella notte
Nella notte, dopo il clamore suscitato, De Angelis ha scritto un nuovo post per tornare sull'argomento: «Come ogni libero cittadino di questa Nazione, ho esercitato il diritto di esprimere la mia opinione su un evento solstiziale della nostra storia, fondata su decenni di inchiesta svolta come giornalista e parlamentare. E certo, non lo nego, animato dalla passione di chi ha avuto un fratello morto, vittima di uno degli accertati depistaggi orditi per impedire l'accertamento della verità, con l'utilizzo della falsa testimonianza del massacratore del Circeo Angelo Izzo. E quindi con il diritto personale e familiare di chiedere di approfondire ogni analisi finché non sia dissipato qualunque dubbio. Ho detto quello che penso senza timore delle conseguenze. Se dovrò pagare per questo e andare sul rogo come Giordano Bruno per aver violato il dogma, ne sono orgoglioso».
«Come ogni libero cittadino di questa Nazione, ho esercitato il diritto di esprimere la mia opinione su un evento solstiziale della nostra storia, fondata su decenni di inchiesta svolta come giornalista e parlamentare. E certo, non lo
nego, animato dalla passione di chi ha avuto un fratello morto, vittima di uno degli accertati depistaggi orditi per impedire l'accertamento della verità, con l'utilizzo della falsa testimonianza del massacratore del Circeo Angelo Izzo. E quindi con il diritto personale e familiare di chiedere di approfondire ogni analisi finché non sia dissipato qualunque dubbio». Lo scrive su Facebook Macello De Angelis, portavoce della Regione Lazio, dopo le polemiche seguite a un suo precedente post sulla strage di Bologna. «Ho detto quello che penso - si legge nel post pubblicato nella notte - senza timore delle conseguenze. Se dovrò pagare per questo e andare sul rogo come Giordano Bruno per aver violato il dogma, ne sono orgoglioso».
Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” domenica 6 agosto 2023.
In un vecchio documentario Rai di Giampiero Mughini sulla destra neofascista italiana, Nero è bello, compare intervistato a un certo punto un giovane romano un po’ capellone. È Marcello De Angelis, che a favore di telecamera spiegava a Mughini il significato del simbolo “guerriero” di Terza Posizione verniciato su un muro di Roma.
Era il 1980, lo stesso anno della strage alla stazione di Bologna. In Terza posizione militava pure Luigi Ciavardini, poi passato ai Nar di Mambro e Fioravanti, condannato per concorso nella strage e cognato di De Angelis, ne ha sposato la sorella. Perché questa è una storia di famiglia in tutti i sensi, famiglia naturale e famiglia politica, talvolta indistinguibili, matrimoni e scissioni, confluenze e fidanzamenti, elezioni e tragedie.
Un fratello di Marcello, Nazareno detto Nanni, anche lui in Tp, morì in carcere in circostanze poco chiare, ufficialmente per suicidio, un altro, Renato, autore tv, è stato fidanzato di Giorgia Meloni.
Ricercato nei primi Ottanta, latitante a Londra, costituitosi a fine decennio per scontare una condanna a 5 anni e 6 mesi («Ma sfido a trovare un atto di violenza nel mio curriculum», sostiene lui), De Angelis ha giocato sulle sue disgrazie giudiziarie fin dal nome della band di cui era voce, i 270 bis – nel codice penale è l’articolo sull’associazione sovversiva – un gruppo squisitamente e orgogliosamente fascio-rock.
De Angelis è la prova vivente che a destra c’erano meno barriere tra gruppi extraparlamentari e partito ufficiale. […] il Movimento sociale restava la casa madre, sapeva riaccogliere e perdonare, e De Angelis, che la politica aveva cominciato a farla in calzoni cortissimi nel Fronte della gioventù, l’organizzazione dei baby missini, è stato prodigo come pochi altri figlioli.
Sta in Alleanza Nazionale, la prima filiazione del Movimento sociale, già dalla fondazione nel 1995, è parlamentare per due legislature dal 2006 al 2013, nel partito prima è vicino alla destra sociale di Francesco Storace e Gianni Alemanno e dirige la rivista di corrente, Area, poi nel Pdl è consigliere del leader Gianfranco Fini, e dal 2011 diventa direttore del Secolo d’Italia, storico quotidiano ufficiale dei missini.
Nel primo numero da lui firmato pubblica in prima pagina la foto dei “martiri per l’italianità di Trieste” e commenta: «La nostalgia è un gran bel sentimento». Intervistato dal Corsera per il debutto spiega che il suo obiettivo è «dare al Secolo l’identità perduta dei tempi dell’Msi, quella di una comunità politica e umana che ha fatto un percorso e non l’ha mai abbandonato». Dopo anni poco affollati, è il governatore del Lazio Francesco Rocca a portarlo con sé in Regione, avevano lavorato insieme anche in Croce rossa.
Appassionato di rugby come tutta la famiglia, da senatore De Angelis propose l’introduzione del terzo tempo in Parlamento, sul modello dei rugbisti che si bevono una birra dopo essersi presi a sportellate in campo.
[…] De Angelis ha saputo prendere posizioni eterodosse, come quando pochi anni fa suggerì di togliere la fiamma dal simbolo di Fratelli d’Italia o come sul caso Cucchi: anche per la drammatica vicenda del fratello Nanni, fu uno dei pochi parlamentari di destra a chiedere con convinzione che fosse fatta luce sul caso. L’importante è che non si parli di stragi. Lì De Angelis, che di solito vede sempre nero, non vede mai nero.[…]
(ANSA domenica 6 agosto 2023) - "Al fine di evitare ogni polemica e strumentalizzazione di alcun genere, l'evento previsto per questa sera è annullato. Continuiamo a credere nel valore del pluralismo e rifiutiamo ogni accostamento ad ogni estremismo di qualsiasi estrazione o colore. Ribadiamo l'intento del PantaFestival che è quello di diffondere arte, cultura e socialità in un clima di serenità".
Così, in un post sulla pagina facebook ufficiale della manifestazione, gli organizzatori del "Panta Festival 2023", festival in corso a Montauro (Catanzaro), hanno annunciato l'annullamento di un evento previsto per questa sera con Marcello De Angelis, il portavoce del presidente della Regione Lazio, finito in mezzo alle polemiche dopo le sue dichiarazioni sulla strage di Bologna.
(DIRE domenica 6 agosto 2023) - "Lo abbiamo detto in piazza di fronte alla stazione solo qualche giorno fa, il 2 agosto, in occasione dell'anniversario della strage di Bologna: non accettiamo ulteriori depistaggi e tentativi di riscrivere la storia, negando le evidenze processuali per cui l'associazione dei familiari delle vittime si è tanto battuta e la Procura di Bologna e le forze dell'ordine hanno lavorato in questi anni.
Tantomeno se questi tentativi ignobili arrivano dal portavoce del Presidente della Regione Lazio: servono dimissioni immediate. Se non riescono a farlo i vertici della Regione Lazio sia la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni a prendere provvedimenti immediati". Lo ha affermato la segretaria del Pd, Elly Schlein.
"È grave- aggiunge- che Meloni il giorno della commemorazione non sia riuscita a dire che quella di Bologna sia stata una strage neofascista, sarebbe gravissimo se continuasse a permettere ai suoi sodali di stravolgere la verità processuale. Ponga fine, una volta per tutte, a questa scellerata aggressione alla storia del '900. Le evidenze processuali dimostrano che è stata una strage di matrice fascista commessa da organizzazioni neofasciste, con un disegno eversivo, facilitato da apparati deviati dello Stato. E se qualcuno fatica a riconoscerlo non è adatto a ricoprire incarichi istituzionali di nessun tipo".
(ANSA domenica 6 agosto 2023) - "Caro De Angelis, per fortuna lei vive in un paese democratico che ha sconfitto i fascisti (come lei). Dunque nessuno la manderà al rogo. Semplicemente continueremo a combattere le sue idee in nome della democrazia e della costituzione repubblicana che i suoi amici volevano sovvertire. Il martirio le è precluso, le dimissioni no. Spero che Rocca si dia una mossa in questo senso". Lo scrive su Twitter il leader di Azione, Carlo Calenda
(ANSA domenica 6 agosto 2023) - "Ignobile e bugiardo. Venga a dirle a Bologna queste cose. Guardando negli occhi i famigliari delle vittime della strage fascista del due agosto". Così, sul suo profilo Facebook, il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini commenta quanto dichiarato ieri dal portavoce della Regione Lazio, Marcello De Angelis, sull'attentato alla Stazione della città emiliana del 2 agosto 1980.
Un'altra verità sulla strage di Bologna e l'opposizione lincia De Angelis. Gianni Di Capua su Il tempo il 07 agosto 2023
Il nuovo obiettivo della polemica a sinistra è Marcello De Angelis, responsabile della comunicazione della Regione Lazio e «colpevole» di aver pubblicato un post sul suo profilo Face book nel quale scrive - tesi che sostiene da tempo -che Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, tutti e tre esponenti dei Nar, il gruppo di estrema destra, condannati in via definitiva, non c’entrano alcunchè con la strage di Bologna. Un post dopo il quale è stato letteralmente «assaltato» dalla sinistra.
«Come ogni libero cittadino di questa Nazione - ha replicato De Angelis - ho esercitato il diritto di esprimere la mia opinione su un evento solstiziale della nostra storia, fondata su decenni di inchiesta svolta come giornalista e parlamentare. E certo, non lo nego, animato dalla passione di chi ha avuto un fratello morto, vittima di uno degli accertati depistaggi orditi per impedire l’accertamento della verità, con l’utilizzo della falsa testimonianza del massacratore del Circeo Angelo Izzo. E quindi con il diritto personale e familiare di chiedere di approfondire ogni analisi finché non sia dissipato qualunque dubbio. Ho detto quello che penso senza timore delle conseguenze. Se dovrò pagare per questo e andare sul rogo come Giordano Bruno per aver violato il dogma, ne sono orgoglioso». Il fratello Nanni venne arrestato subito dopo l’attentato, grazie a una soffiata di uno degli assassini del Circeo, Angelo Izzo, e morì in carcere. Poi venne dimostrata la sua innocenza. Un caso che ha investito il presidente della Regione, Francesco Rocca. E mentre nel centro destra si fa notare che De Angelis non è iscritto a Fratelli d’Italia, né ad altri partiti di maggioranza e che ricopre un incarico di fiducia cui è arrivato dopo una collaborazione con Rocca negli anni in cui guidava la Croce rossa italiana, il governatore ha diffuso una nota in cui parla della strage di Bologna come di una pagina della storia «dolorosa e segnata da presenze e ombre inquietanti», una «ferita ancora aperta per il nostro Paese», rinnovando la sua «solidarietà» ai familiari delle vittime e precisando che De Angelis si è espresso «a titolo personale, mosso da una storia familiare che lo ha segnato profondamente e nella quale ha perso affetti importanti».
Il riferimento è al fratello, Nanni, militante di Terza generazione, morto in carcere. De Angelis, ha precisato poi Rocca, svolge «un ruolo tecnico» in Regione, per il quale è stato scelto «vista la sua pluriennale esperienza professionale e che non ha nulla a che fare con l’indirizzo politico dell’istituzione che mi onoro di rappresentare». Il governatore si è riservato, quindi, di «valutare con attenzione nei prossimi giorni il da farsi, solo dopo averlo incontrato». Ma le opposizioni non ci stanno a relegare le dichiarazioni di De Angelis a un caso che riguarda solo la giunta regionale del Lazio. Ed è Elly Schlein a scendere in campo per chiedere un intervento diretto di Giorgia Meloni. Le parole di De Angelis sulla strage di Bologna sono «ignobili», attaccala segretaria del Pd, «se non riescono a farlo i vertici della Regione sia la presidente del Consiglio a prendere provvedimenti immediati». Dello stesso avviso il Movimento 5 stelle, che con il capogruppo alla Camera, Francesco Silvestri, respinge le «parole vergognose e inaccettabili» con cui de Angelis «prova ad assolvere personaggi già condannati».
Bufera sulle parole di De Angelis: ecco cosa è successo. Il responsabile della comunicazione Istituzionale della Regione Lazio ha deciso di rispondere alle polemiche scaturite da un suo post su Facebook nel quale ha confermato la propria opinione riguardante le responsabilità penali di Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Immediate le reazioni politiche: "Si dimetta". Lorenzo Grossi il 6 Agosto 2023 su Il Giornale.
"Ho espresso il mio dissenso. E sono finito sul rogo. Da uomo libero". Marcello De Angelis, responsabile della comunicazione Istituzionale della Regione Lazio, replica alle critiche che gli sono piovuto addosso a seguito di un suo post su Facebook scritto sulla strage di Bologna. "Come ogni libero cittadino di questa Nazione, ho esercitato il diritto di esprimere la mia opinione su un evento solstiziale della nostra storia, fondata su decenni di inchiesta svolta come giornalista e parlamentare - prosegue De Angelis in un altro suo pensiero sui social -. E certo, non lo nego, animato dalla passione di chi ha avuto un fratello morto, vittima di uno degli accertati depistaggi orditi per impedire l'accertamento della verità, con l'utilizzo della falsa testimonianza del massacratore del Circeo Angelo Izzo - ricorda De Angelis -. E quindi con il diritto personale e familiare di chiedere di approfondire ogni analisi finché non sia dissipato qualunque dubbio".
"Ho detto quello che penso senza timore delle conseguenze. Se dovrò pagare per questo e andare sul rogo come Giordano Bruno per aver violato il dogma, ne sono orgoglioso", aveva concluso De Angelis. Proprio su questa frase era poi arrivata la replica rapida di Carlo Calenda: "Caro De Angelis, per fortuna lei vive in un paese democratico che ha sconfitto i fascisti (come lei). Dunque nessuno la manderà al rogo. Semplicemente continueremo a combattere le sue idee in nome della democrazia e della costituzione repubblicana che i suoi amici volevano sovvertire. Il martirio le è precluso, le dimissioni no. Spero che Rocca si dia una mossa in questo senso".
Il post di De Angelis
Marcello De Angelis, ex terrorista, cognato dell'ex Nar Luigi Ciavardini e oggi responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio governata da Francesco Rocca, aveva espresso questo suo parere a pochi giorni di distanza dall'anniversario 2 agosto: "So per certo che con la strage di Bologna non c'entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Non è un'opinione: io lo so con assoluta certezza". "Un giorno - aveva puntualizzato - molto difficile per chiunque conosca la verità e ami la giustizia, che ogni anno vengono conculcate persino dalle massime autorità dello Stato (e mi assumo fieramente la responsabilità di quanto ho scritto e sono pronto ad affrontarne le conseguenze)".
Soltanto quattro giorni fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel 43esimo anniversario dell'attentato del 2 agosto 1980 che conta 85 vittime e 200 feriti, aveva sottolineato nel messaggio alla città che "la matrice neofascista della strage è stata accertata nei processi e sono venute alla luce coperture e ignobili depistaggi". "Che non c'entrano Fioravanti, Mambro e Ciavardini - aveva proseguito de Angelis -. "Lo sanno tutti: giornalisti, magistrati e 'cariche istituzionali'; e se io dico la verità, loro, ahimè, mentono. Ma come i martiri cristiani io non accetterò mai di rinnegare la verità per salvarmi dai leoni. Posso dimostrare a chiunque abbia un'intelligenza media e un minimo di onestà intellettuale che Fioravanti, Mambro e Ciavardini non c'entrano nulla con la strage. Dire chi è responsabile non spetta a me, anche se ritengo di avere le idee chiarissime in merito nonché su chi, da più di 40 anni, sia responsabile dei depistaggi. Mi limito a dire che chi, ogni anno e con toni da crociata, grida al sacrilegio se qualcuno chiede approfondimenti sulla questione ha sicuramente qualcosa da nascondere". De Angelis concluse invitando a rilanciare il suo pensiero. "A questo post non basta mettere un 'mi piace' - scrive - dovete rilanciarlo e condividerlo… altrimenti hanno vinto loro, gli apostoli della menzogna…".
Le reazioni politiche al post di Marcello De Angelis
Immediate sono state le polemiche. Marta Bonafoni, consigliera regionale del Lazio e coordinatrice della segreteria nazionale del Pd, chiede al presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, "di prendere immediatamente le distanze da quelle parole". Per Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari della vittima della Strage di Bologna, "queste sono le certezze dei pallonari che non tengono conto dei risultati dei processi e delle indagini che sono state fatte in tutti questi anni. Credo proprio che sia un incorreggibile che pensa che la sua parola superi tutte le prove". Dura anche l'Anpi: "De Angelis - sostiene Fabrizio De Sanctis, presidente del Comitato provinciale di Roma - o si dimetta o si revochi immediatamente la sua nomina". Sul tema è intervenuto anche l'ex presidente della Camera Luciano Violante: "Se De Angelis conosce i responsabili della strage di Bologna e sa che non sono quelli condannati, avrebbe il dovere di chiarire".
Estratto dell’articolo di Paolo Guzzanti per “il Giornale” lunedì 7 agosto 2023.
Salta gli occhi l'incredibile accanimento politico e mediatico contro il capo della Comunicazione della Regione Lazio, Marcello De Angelis, che ha un suo background neofascista, per aver dichiarato di non credere alla colpevolezza delle primule nere dell'eversione di destra Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini, perché questa è la sua opinione. È lecito avere una opinione diversa da quella scritta su una sentenza? Sì, e vale per De Angelis come per chiunque.
Nel caso di De Angelis […] provi a fare un passo in più e documenti la sua convinzione.
Chi scrive, lo dico a mo' d'esempio, non crede alle sentenze su Ustica, sul caso Moro e sulle morti di Falcone e Borsellino. Quando Adriano Sofri, ex leader di Lotta Continua, fu arrestato e condannato per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi il 17 maggio del 1972 molti intellettuali di destra e di sinistra si schierarono contro quella sentenza ritenendola inadeguata a rappresentare il contesto storico dei fatti.
De Angelis è stato sempre un uomo di «parte nera» e ha avuto anche un fratello morto in circostanze non del tutto chiare nel 1980. […] ci aspettiamo da lui uno sforzo ulteriore. È certamente vero che Mambro, Fioravanti e Ciavardini avrebbero ricevuto cospicui premi giudiziari se avessero accettato di accollarsi la strage di Bologna, essendo già ergastolani per feroci delitti che avevano confessato con sfrontato orgoglio.
Sarebbe stato nel loro interesse e invece hanno detto: «Abbiamo sempre rivendicato la nostra responsabilità, ma con questo crimine non c'entriamo, neghiamo le accuse e rinunciamo ai vantaggi». Contro Marcello De Angelis è scattato un automatismo da vecchissima sinistra ottusamente persecutoria e che sa soltanto lanciare anatemi e invocare rappresaglie. Un comportamento […] indigeribile in un Paese che tuteli il diritto di dissentire specialmente quando il dissenso riguarda l'operato di alcuni magistrati. Il dissenso era considerato doveroso, più che legittimo durante il caso Sofri mentre nel caso De Angelis la libertà di dissentire viene criminalizzata. Proprio per questo chiediamo a De Angelis di aiutare la verità fornendo elementi di prova.
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” lunedì 7 agosto 2023.
Marcello De Angelis, ex militante del movimento neofascista Terza Posizione, condannato per associazione sovversiva, ex parlamentare An e PdL, ora capo-comunicazione della giunta regionale del Lazio, ha scritto: “So per certo che con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini”. E sai che novità: cos’altro ci si può aspettare dal cognato di Ciavardini, condannato per quella strage?
[…] Le sentenze non sono dogmi di Stato e ciascun privato cittadino può condividerle o contestarle (possibilmente con argomenti). Perciò chiedere le dimissioni di De Angelis è un atto illiberale: in democrazia tutti hanno diritto di esprimere le proprie idee, anche le più aberranti. Ma chi rappresenta le istituzioni ha un onere in più: non deve usarle per riscrivere sentenze, cioè per interferire in un altro potere dello Stato. Perciò il governo nazionale e regionale dovrebbero isolare De Angelis con dichiarazioni inequivocabili, pur senza torcergli un capello o levargli il lavoro.
Anche perché, se bastasse contestare una sentenza sacrosanta per andare a casa, si sarebbero dovute chiedere le dimissioni di fior di parlamentari che da anni sposano la linea revisionista-negazionista sui neri a Bologna: non solo di destra, ma anche radicali e di centrosinistra. Per non parlare di chi tuttoggi predica l’innocenza di Sofri, Bompressi, Pietrostefani (e persino del reo confesso Marino) sul delitto Calabresi, malgrado ben due sentenze della Cassazione. […]
(Nova lunedì 7 agosto 2023) - Dopo la polemica scoppiata per le sue parole in merito alla strage di Bologna, il responsabile della comunicazione Istituzionale della Regione Lazio, Marcello De Angelis, sempre tramite Facebook, si scusa "con quelli - e sono tanti, a partire dalle persone a me più vicine - a cui ho provocato disagi, trascinandoli in una situazione che ha assunto dimensioni per me inimmaginabili".
"Negli ultimi giorni ho espresso delle riflessioni personali sul mio profilo social, che sono invece diventate oggetto di una polemica che ha coinvolto tutti. Intendo scusarmi con quelli - e sono tanti, a partire dalle persone a me più vicine - a cui ho provocato disagi, trascinandoli in una situazione che ha assunto dimensioni per me inimmaginabili", sottolinea De Angelis.
Inoltre, il responsabile della comunicazione sente "il dovere di fare chiarezza su affermazioni che possono essere fraintese per l'enfasi di un testo non ponderato, ma scritto di getto sulla spinta di una sofferenza interiore che non passa ed è stata rinfocolata in questi mesi. I colleghi giornalisti - continua - che quotidianamente e pubblicamente mi definiscono un ex-terrorista - pur nella consapevolezza del fatto che non sono mai stato condannato per nessun atto criminale o gesto di violenza - infangano il mio onore e mi negano la dignità di una intera vita. Perchè un terrorista è una persona schifosa e vile".
De Angelis sottolinea di aver "servito e rappresentato le istituzioni democratiche per anni e ne ho il massimo rispetto, così come per tutte le cariche dello Stato, che da parlamentare ho contributo ad eleggere e che oggi sostengo come cittadino elettore - aggiunge -. Fra queste e prima di tutte, la Presidenza della nostra repubblica.
In merito alla più che quarantennale ricerca della verità sulla strage di Bologna, l'unica mia certezza e' il dubbio. Dubbio alimentato negli anni dagli interventi autorevoli di alte cariche dello Stato come Francesco Cossiga e magistrati come il giudice Priore e da decine di giornalisti, avvocati e personalità di tutto rispetto che hanno persino animato comitati come 'E se fossero innocenti'.
Purtroppo - osserva De Angelis - sono intervenuto su una vicenda che mi ha colpito personalmente, attraverso il tentativo, fallito, di indicare mio fratello, già morto, come esecutore della strage. Questo episodio mi ha certamente portato ad assumere un atteggiamento guardingo nei confronti del modo in cui sono state condotte le indagini.
Esprimo quindi dubbi, così come molti hanno espresso dubbi sulla sentenza definitiva contro Adriano Sofri senza per questo essere considerati dei depistatori o delle persone che volessero mancare di rispetto ai familiari del commissario Calabresi". Infine, per tutte le vittime "della folle stagione dei cosiddetti anni di piombo e dei loro familiari ho il massimo rispetto - sottolinea ancora De Angelis -, vieppiù per chi sia finito sacrificato innocentemente in eventi mostruosi come le stragi che hanno violentato il nostro popolo e insanguinato la nostra Patria massacrando indiscriminatamente".
Il giornalista e politico dal cuore nero. Negli anni di piombo perse il fratello Nanni. Una vita nella destra: direttore di Area e del Secolo d'Italia. Entrò in Senato nel 2006. Da ragazzo conobbe il carcere come Nazareno, morto in cella tra mille dubbi. Francesco Boezi il 7 Agosto 2023 su Il Giornale.
Marcello De Angelis è finito a al centro di una bufera sollevata da sinistra per via di un post sulla strage di Bologna. Una riflessione, un pensiero, che ha sostenuto l'innocenza degli ex Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini rispetto ai fatti del 2 agosto del 1980.
Ma chi è l'ennesimo «uomo nero» contro cui si è scagliata l'intero arco giallorosso? De Angelis è stato uno storico esponente di quella che una volta veniva chiamata «destra sociale», una corrente interna di Alleanza Nazionale (ma anche del Pdl poi), capeggiata da Gianni Alemanno e con molte sfumature al suo interno. Già direttore di Area, ex mensile di riferimento di quella comunità politica, e del Secolo d'Italia, è stato, prima di diventare senatore di An e deputato del Pdl, il front-man dei 270bis, uno dei principali gruppi di musica alternativa. Giornalista quindi, oltre che politico, ha poi assunto l'incarico di portavoce dell'allora presidente della Croce Rossa, ossia Francesco Rocca. Lo stesso Rocca che sarebbe poi stato eletto governatore della Regione Lazio, ente per cui De Angelis avrebbe seguito la comunicazione istituzionale. Comunicatore, dunque, ma dopo aver intrapreso anche la carriera di grafico e di direttore artistico.
Ma la storia di De Angelis è soprattutto intrisa da gioventù militante. Del resto ha iniziato a fare politica agli inizi degli anni '70, senza mai cambiare collocazione ideale. Figlio di uno sceneggiatore della Rai e di un'insegnante, nato a Roma in una famiglia di origini abruzzesi, ha iniziato nel Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Msi, per poi aderire a Lotta Studentesca, formazione extramissina. Poi ha contribuito a fondare Terza Posizione. Tp è stata un'organizzazione extraparlamentare, che è stata considerata neofascista, centrata sull'identica ed effettiva opposizione al capitalismo americano e al bolscevismo dell'Urss. E sempre Tp è stata tirata in ballo dagli inquirenti nel periodo subito successivo alla strage di Bologna. Per una serie di vicissitudini, Marcello De Angelis è finito in carcere, prima a Londra e poi, per qualche anno, in Italia. Le fattispecie individuate furono banda armata e associazione sovversiva. Ma la famiglia De Angelis è balzata alle cronache negli Anni di Piombo soprattutto per via di due episodi riguardanti uno dei fratelli di Marcello, ossia Nanni De Angelis. «Piccolo Attila» - come veniva chiamato dall'ambiente - venne tirato in ballo proprio per la bomba di Bologna da Angelo Izzo, uno dei noti esecutori della strage del Circeo (e non solo). Elementari verifiche confermarono la presenza di Nanni De Angelis, il 2 agosto del 1980, in un campo di football americano: quello della finale del campionato italiano. Un elemento incontrovertibile, considerato che quella partita era andata in onda pure sulla Tv di Stato. Il luogo? In provincia di Terni, decisamente distante dalla città felsinea. Ma quando è stato accusato da Izzo, Nanni De Angelis era già morto, dopo un arresto, in seguito a circostanze che definire strane sarebbe eufemistico.
Dopo la prima notte in carcere, Nanni fu ritrovato impiccato. Per la giustizia, fu un suicidio. Ma lo stato delle cose su quel decesso non è mai stato chiarito del tutto. Una vicenda tragica - quella di «Piccolo Attila» - che ha forse contribuito a far sì che Marcello De Angelis insistesse molto, da parlamentare, sulla verità sul caso di Stefano Cucchi. Cognato di Luigi Ciavardini (che è sposato con Germana De Angelis), che da Terza Posizione sarebbe poi trasmigrato nei Nar, per poi essere condannato quale uno dei responsabili della strage di Bologna, Marcello De Angelis è, come un po' tutta la sua famiglia, un cultore del rugby quale disciplina dai connotati spirituali, oltre che sportivi.
Medaglia di bronzo della Croce Rossa, De Angelis è uno studioso di Africa ed Oriente. Esperto di islam, tratto caratterizzante pure alcune delle sue canzoni (almeno tanto quanto la cultura irlandese), ha scritto un romanzo per Idrovolante Edizioni dal titolo «C'è un cadavere nel mio champagne», oltre a due saggi sull'essere di destra oggi.
Licenziare De Angelis? Pura follia… Piero Sansonetti su L'Unità il 6 Agosto 2023
Questa storia di De Angelis è spaventosa, la riassumo brevemente. C’è un giornalista che si chiama Marcello De Angelis, di destra, che è un collaboratore del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, che scrive su Facebook l’altra di essere certo dell’innocenza in relazione alla strage di Bologna di Mambro, Fioravanti e Ciavardini.
Una dichiarazione discutibile se volete, io la condivido, altri no. Oltre a questo De Angelis dice che tutti sanno che sono innocenti, ma fanno finta di non saperlo. Io condivido anche abbastanza questa seconda parte della dichiarazione, ma non ha importanza: è una dichiarazione, una opinione, punto.
È successa l’ira di Dio perchè non è permesso esprimere dubbi su una sentenza, e se esprimi dubbi su una sentenza sei un mascalzone fascista che deve sparire dalla circolazione. È stato chiesto il licenziamento di questo giornalista per aver espresso la sua opinione, opinione espressa tante volte in passato da Marco Pannella, da Francesco Cossiga, credo anche da Furio Colombo, da moltissime persone: perché quella sentenza di condanna di Mambro e Fioravanti non si regge in piedi, non c’è alcuna prova ai loro danni tranne la dichiarazione di un presunto pentito che dice “Ho sentito Fioravanti dire: “Hai visto che botto, a Bologna siamo stati noi””.
Non sappiamo se è vero, non sappiamo se l’ha detto, non sappiamo cosa volesse dire: un ergastolo in queste condizioni è un po’ difficile da dare. Perciò sono legittimi tutti i dubbi, non ci sono prove, c’è anche una sentenza di assoluzione in Appello. C’è una Corte di Appello che pensa che siano innocenti, forse è legittimo pensare che siano innocente. Poi lasciamo stare, c’è una norma del codice penale che dice che si può condannare solo in assenza di ragionevoli dubbi: una sentenza di assoluzione di una Corte di Appello è un ragionevole dubbio.
Io non voglio neanche discutere della probabile innocenza di Fioravanti, Mambro e Ciavardini per l’attentato a Bologna del 1980: quello che mi indigna è che non si possa dire una cosa di questo genere. Sono state chieste immediatamente le dimissioni, è stato chiesto a Rocca di cacciare De Angelis: ma per che cosa? Ma perché uno si deve dimettere per aver detto la sua opinione? Ma parche uno deve essere cacciato per aver detto la sua opinione legittimissima?
Adesso fatemi dire un paradosso: questo è fascismo, proibire alla gente di esprimersi è quello che si fa nei regimi totalitari, si fa in Russia dove è stato fatto l’altro giorno con la condanna a Navalny. Se davvero Rocca licenzia De Angelis è una ferita mortale per la democrazia, spero che lo difenda a spada tratta.
De Angelis è fascista? Chi se ne frega, certo è meno fascista di chi li vuole cacciare. Non ho capito perché non possa esprimere la sua opinione. Ho visto che i capi dei partiti di opposizione hanno parlato di “ignominia”, ma cosa c’è di ignobile dire che una persona è innocente? È un atto coraggioso, non è un atto ignobile. È vero, l’opposizione in Italia è diretta da gruppi molto giovani e inesperti, da poco in politica e non conoscono bene la storia della nostra democrazia, della Repubblica, delle lotte che sono state fatte.
Però attenzione, e lo dico con dispiacere e angoscia: fare una richiesta di questo genere è l’atto più reazionario che si possa fare, non si sarebbe indignato anche Marco Pannella ma avrebbe indignato anche i capi del Pci, che pure era un partito con venature autoritarie. Ma una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta.
Non scherziamo col fuoco, chiedere il licenziamento di una persona che ha espresso una sua opinione, opinione coraggiosa, è un atto politicamente intollerabile.
Presidente Rocca, non ci provi a licenziare De Angelis, lei ha fatto una campagna elettorale complicata, ha espresso posizioni molto interessanti su molti temi come l’immigrazione, in dissenso netto col suo schieramento. Non faccia questo passo, si rovina la reputazione. E poi un appello ai capi dell’opposizione: ritirate quella richiesta di dimissioni, è una pazzia. Piero Sansonetti 6 Agosto 2023
Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” lunedì 7 agosto 2023.
Si arrampica sugli specchi. Si lancia in sottili distinzioni tra il ruolo di portavoce e quello di responsabile della comunicazione istituzionale. Resiste alle pressioni di un’ampia parte del centrodestra e pure di Fratelli d’Italia.
Esploso il caso, Francesco Rocca ieri pomeriggio ha difeso per l’ennesima volta il suo collaboratore Marcello De Angelis e ha preso tempo. Il presidente non vuole rompere con l’amico che […] ha voluto al suo fianco anche in Regione. Il motivo? « È una vecchia amicizia, nata quando entrambi erano giovanissimi militanti di destra » , assicura chi conosce bene entrambi.
Sono due storie che prendono presto strade diverse quelle del governatore del Lazio e dell’ex terrorista, ma che a più riprese si incrociano e infine si stringono. Quando De Angelis aveva appena 14 anni e frequentava il liceo entrò a far parte del Fronte della Gioventù, la formazione giovanile del Movimento sociale, la stessa a cui Rocca, cinque anni più giovane, aderì raggiunta la maggiore età. Il primo era di casa in centro e il secondo a Ostia. De Angelis passò quindi a Lotta Studentesca e poi a Terza Posizione.
Scelse la strada del terrorismo nero e Rocca invece, come altri giovani di destra, cadde nel tunnel della droga, diventando l’anello di congiunzione tra i narcotrafficanti nigeriani e gli spaccatori di eroina romani. Il tempo di conoscersi, a quanto pare, e mentre l’ex terrorista si dava alla latitanza in Gran Bretagna, l’attuale presidente della Regione Lazio doveva fare i conti con la pesante accusa di essere coinvolto nel narcotraffico. Entrambi sono finiti condannati, il primo per banda armata e il secondo per droga. Da quell’esperienza però i due, con un percorso sempre a destra, sono stati entrambi capaci di ripartire.
Saldato il conto con la giustizia De Angelis è riuscito per due volte anche a farsi eleggere in Parlamento e Rocca a diventare prima manager della sanità, ai tempi della legislatura di Francesco Storace, e poi presidente della Croce Rossa.
Siamo a metà degli anni duemila e sono lontani i periodi in cui il governatore era inseguito dai carabinieri e il suo collaboratore da una richiesta di estradizione per associazione sovversiva e banda armata. Si ritrovano entrambi nella destra sociale di Storace e Gianni Alemanno. Non a caso Rocca lavorerà anche in Campidoglio durante la consiliatura dell’ex esponente di An e a dare ieri solidarietà a De Angelis è stato proprio lo stesso ex primo cittadino.
Il rapporto ormai è ben saldo e, incurante dell’ingombrante passato e delle prese di posizione dell’amico, nel 2020 il governatore ha voluto l’ex esponente di Terza Posizione con sé nella Croce Rossa. Con buona pace del principio di neutralità della Cri, al vertice della comunicazione dell’organizzazione di volontariato Rocca ha portato De Angelis.
[…] vi rimasto fino a quando l’amico, eletto presidente della Regione Lazio, lo ha chiamato a rivestire il ruolo di capo della comunicazione istituzionale, con uno stipendio da 110mila euro l’anno e la garanzia che, se qualcosa dovesse andare storto, può tornare nella Cri da cui è in aspettativa. […]
Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” lunedì 7 agosto 2023.
[…] De Angelis non è […] l’unica scelta particolare fatta dal presidente della Regione Lazio. Forse è solo quella che ha fatto più rumore. Dopo aver a lungo temporeggiato sull’attivazione dell’Osservatorio per la sicurezza e la legalità della Regione Lazio, Rocca ha scelto come presidente del delicato organismo impegnato nel monitoraggio dei clan Serafino Liberati, generale di corpo d’armata dei Carabinieri in congedo e tessera numero 1729 della loggia massonica P2.
L’alto ufficiale era nell’elenco sequestrato al venerabile maestro Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, ma l’appartenenza alla loggia massonica non gli ha creato problemi nella carriera nell’Arma e neppure nel rivestire per ben quindici anni l’incarico di consigliere militare della Croce rossa italiana. Nulla dunque, come nel caso di De Angelis, che abbia creato qualche imbarazzo al governatore nel portare l’ex piduista con sé in Regione.
Durante la campagna elettorale il presidente non ha ritenuto inopportuno neppure prendere parte a eventi organizzati dall’ex dirigente dell’Msi, Domenico Gramazio, non indagato ma uscito malconcio dall’inchiesta sul « Mondo di Mezzo » che ha portato invece alla condanna di suo figlio Luca, all’epoca dei fatti consigliere regionale del Pdl. Gli investigatori hanno monitorato i contatti tra l’ex esponente del Movimento sociale e il pregiudicato ed ex terrorista Massimo Carminati. […] quegli atti non hanno impensierito Rocca, che ha goduto così degli assist fatti da «Er Pinguino». Ma c’è di più.
Assessore durante la legislatura di Francesco Storace, prima all’ambiente e poi alla sanità, Marco Verzaschi è stato uno dei potenti di Forza Italia. Era sparito dopo il suo arresto, con l’accusa di corruzione e concussione nell’ambito dell’inchiesta denominata « Lady Asl » , il grande scandalo nella sanità del Lazio.
L’ex uomo forte del centrodestra si è però tornato a far vedere durante la campagna elettorale a sostegno di Rocca e chi ha cercato un posto nella lista civica del governatore ha dovuto trattare con lui, notato anche quando c’era da andare a firmare le candidature dal notaio. […]
Strage di Bologna, per Rocca «De Angelis non si tocca, ha la mia fiducia». Il presidente della Regione Lazio: «Dopo una lunga riflessione ho deciso perciò di comprendere e non allontanare una persona sinceramente addolorata e che, indubbiamente, è una valida risorsa per la mia struttura». Il Dubbio l'8 agosto 2023
«Ho incontrato Marcello De Angelis ieri, in tarda serata, e dopo lunghe riflessioni e un attento e sincero confronto, ho deciso di non revocargli la fiducia. Pertanto, manterrà la direzione della Comunicazione Istituzionale in Regione». Così il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca.
«So bene che, quanto affermato da Marcello De Angelis nei giorni scorsi in relazione alla strage di Bologna, ha offeso e turbato molti, ma il suo è stato un errore dettato da un forte coinvolgimento personale e affettivo a tragiche vicende che, tutt’oggi, animano la coscienza e il dibattito politico nazionale. Il mio primo pensiero, in questi giorni, è andato ai familiari delle vittime di Bologna e a quanto una parola sbagliata possa riaprire ferite mai rimarginate», ha continuato Rocca sottolineando: «Un punto rilevante su cui ci siamo soffermati a lungo è quello, per me fondamentale, del rispetto delle sentenze. Nella mia vita ho sempre cercato di agire con il massimo rispetto per le opinioni altrui e per la libertà di espressione. Non ho mai censurato nessuno, ho fatto del dialogo il mio faro in qualunque tipo di attività intrapresa e cerco di ascoltare il dolore che si cela anche dietro a un passo falso».
«Dopo una lunga riflessione ho deciso perciò di comprendere e non allontanare una persona sinceramente addolorata e che, indubbiamente, è una valida risorsa per la mia struttura. Spero che le sue sentite scuse, già espresse sui social, arrivino a tutti quanti con la stessa forza e autenticità che ho percepito io».
Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” giovedì 10 agosto 2023.
«Non so nulla sui fatti di Ustica e di Bologna per mia scienza diretta». È venerdì 1 ottobre 1993. Marcello De Angelis, ex militante di Terza posizione, gruppo di estrema destra a Roma, in quel momento ha 33 anni. Da poco ha finito di scontare la sua pena, 5 anni e 6 mesi per associazione sovversiva. I giudici di Bologna, che indagano nell’inchiesta Italicus bis, lo hanno convocato in tribunale come testimone.
L’Italicus è il filone sui depistaggi per le due bombe: quella esplosa sul treno Roma-Monaco il 4 agosto 1974 (12 morti e nessun responsabile), e quella del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna (85 morti).
Ad attirare la loro attenzione è stato un articolo pubblicato sul numero di luglio de La Spina nel Fianco in cui si sostiene che la strage alla stazione di Bologna potrebbe essere stata compiuta per coprire Ustica. Scrive De Angelis: «L’aereo di Ustica sarebbe stato abbattuto dal fuoco alleato con la collaborazione e la copertura dei nostri Servizi. Un’altra strage nella stessa città da cui era partito il Dc9, Bologna, sarebbe servita a coprire il pasticcio di Ustica?». Titolo del pezzo: “Una strage per un massacro”.
Vi si afferma inoltre che «il Sismi poi fornì tutto un castello di false prove culminato con il ritrovamento di una valigia sul diretto Taranto- Milano contenente due tipi di esplosivo: quello rinvenuto sui resti dell’aereo e quello rinvenuto tra i resti della stazione. La strage di Bologna venne rivendicata da una telefonata dei Nar, la telefonata la fece un maresciallo dei carabinieri del Sismi».
Gli domandano com’è nato il pezzo, che esclude implicitamente la matrice neofascista. De Angelis risponde che l’ha scritto attingendo «alla memoria difensiva di Stefano Delle Chiaie, datami dall’avvocato Stefano Menicacci». Stefano Delle Chiaie, neofascista, fondatore di Avanguardia nazionale, in quel momento è indagato proprio nell’Italicus bis, da cui poi verrà prosciolto.
Dice De Angelis agli inquirenti: «Questa documentazione mi parve particolarmente interessante perché sembrava esprimere le illazioni che circolavano subito dopo gli attentati negli ambienti di destra. Non so nulla di Ustica e di Bologna per mia scienza diretta».
[…] Quando, il 3 agosto 1994, il giudice istruttore Leonardo Grassi deposita la sentenza di rinvio a giudizio dell’Italicus bis, scrive così di Marcello De Angelis: «Come si è visto, insomma, quella del De Angelis non era altro che un’illazione e le gravissime affermazioni contenute nell’articolo hanno rivelato la loro assoluta inconsistenza a seguito dell’attività istruttoria».
«So per certo che con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Non è un’opinione: io lo so con assoluta certezza». È sabato 5 agosto quando De Angelis, 63 anni, diventato nel frattempo il direttore della comunicazione istituzionale del governatore del Lazio, Francesco Rocca, scrive queste frasi su Facebook. […] Certo, va considerato che sono passati trent’anni, si può cambiare idea, ma nel frattempo sono anche arrivate le sentenze definitive contro i Nar. Resta quel «non so nulla» pronunciato davanti a un giudice.
Chiedere scusa a tutti non basta. Strage Bologna, De Angelis deve dimettersi: la destra in Europa alza nuove bandiere ma nel Lazio non riesce ad ammainare vecchi stendardi neri. Andrea Casu (Partito Democratico) su Il Riformista l'8 Agosto 2023
Nel Si&No del Riformista spazio al dibattito scatenato dalle parole di Marcello De Angelis, portavoce della regione Lazio, sulla strage di Bologna: dovrebbe dimettersi? Favorevole il deputato dem Andrea Casu secondo cui il passo indietro di De Angelis “è un atto di codardia della destra che rilancia falsità giudiziarie e storiche“. Contrario il giornalista e scrittore Paolo Guzzanti. “Il fascista De Angelis non deve dimettersi altrimenti si cadrebbe sotto la tirannia delle opinioni obbligatorie” il suo pensiero.
Qui il commento di Andrea Casu:
Chiedere scusa a tutti non basta. È sufficiente aver visto almeno una volta nella vita l’orologio fermo alle 10.25 dal 2 agosto 1980 per capire che la strage di Bologna rappresenta uno degli stretti tornanti della storia rispetto ai quali esiste un prima e un dopo, nella Stazione Centrale come nella vita di ciascuno di noi. Anche per chi, come me, è nato dopo quel giorno e lo ha conosciuto solo attraverso le lenti del racconto di chi lo ha vissuto. “Il ricordo di quelle vittime è scolpito nella coscienza del nostro popolo. Una ferita insanabile nutre la memoria dell’assassinio commesso”, per usare le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
E dentro questa ferita insanabile chi serve le Istituzioni non deve mai ficcare il dito senza rispetto, nemmeno con un post sulla propria pagina Facebook. Perché quell’esplosione ha portato nel cuore delle nostre città la ferocia e la barbarie della guerra guerreggiata che in un solo istante strappa alla vita 85 persone e colpisce oltre 200 feriti. E “Il coraggio di Marcello De Angelis” – come lo ha definito orgogliosamente Gianni Alemanno condividendo il suo delirante post di domenica – non è altro che l’ennesimo atto di codardia di chi da destra è capace solo di rimestare nel torbido, rilanciando falsità giudiziarie e storiche senza mai aggiungere alcun elemento utile. Uno schiaffo alle vittime, alle loro famiglie, all’associazione dei familiari della strage, prima di tutto ma anche al lavoro delle forze dell’ordine e della Procura di Bologna che attraverso un lungo percorso giudiziario ha accertato chiaramente la matrice neofascista e il disegno eversivo della strage.
Una polemica che ci riporta indietro e ci allontana dall’obiettivo nel cammino che ancora ci aspetta per andare avanti, arrivare fino al fondo della verità e scoprire anche tutto quello che ancora non sappiamo. Quel percorso che dovrebbe vederci uniti, non divisi.
È per tutte queste ragioni che De Angelis non deve solo scusarsi ma dimettersi immediatamente da responsabile comunicazione della Regione Lazio. E se proprio non riesce a farlo, se non riesce a chiudere i conti con il passato ed accettare la verità sulla strage di Bologna, se non vuole rinunciare al suo incarico fiduciario da 110 mila euro annui, dovrebbero intervenire il Presidente Rocca o la Presidente Meloni. Ma non sta succedendo. Ed è questo l’aspetto più preoccupante di tutta questa vicenda. Non possono dire di non essere stati avvertiti, visto che come PD nel Lazio avevamo cominciato già il 10 maggio a raccogliere le firme contro la sua nomina. Le cittadine e i cittadini della nostra Regione non meritano un nostalgico del fascismo in un ruolo così delicato e quello che sta avvenendo ne è l’ennesima dimostrazione.
Oggi dietro all’eclissarsi della Presidente del Consiglio nella polemica e alla cautela del Presidente della Regione nel gestirla emergono tutti i limiti strutturali di una destra che per provare a livello nazionale e internazionale a spiccare il grande salto sta scoprendo la capacità di issare rapidamente nuove bandiere, anche quelle europeiste degli avversari, ma fatica terribilmente, soprattutto nella Capitale, ad ammainare i vecchi stendardi con cui è nata e cresciuta. Giorno dopo giorno l’assoluta incapacità di prendere apertamente le distanze dalle pagine più nere della vita del fascismo negli anni della democrazia, ancor più che da quelle del ventennio, si sta rivelando il vero tallone d’Achille del Presidente del Consiglio più a destra della storia della Repubblica. Ed è nell’anima più nera della sua coalizione – ancor prima che nell’altro fronte – che si celano i novelli Paride che fanno partire i dardi più precisi nel rivelare questa debolezza, ormai sempre più evidente sia in Italia che in Europa.
E se proprio nonostante tutto De Angelis non riesce a dimettersi, se proprio nessuno riesce a convincerlo, almeno ci risparmi l’assurdo paragone con Giordano Bruno. L’incendio di queste ore non lo ha certo subito ma lo ha appiccato, intenzionalmente. E l’unica cosa che sta bruciando è la credibilità della Presidente Meloni. Incapace, ancora una volta, di spegnere la Fiamma che arde sotto di lei.
Andrea Casu (Partito Democratico)
Quando Marcello De Angelis disse ai giudici di Bologna: «Sì, eravamo una banda armata». L’interrogatorio integrale del portavoce della Regione Lazio nel processo a Luigi Ciavardini, condannato per la bomba del 2 agosto 1980. Oggi è il capo della comunicazione del governatore Rocca. E difende Fioravanti e tutti i neofascisti condannati. Ma allora giurava: «Dopo Mangiameli, i Nar volevano uccidere anche noi di Terza Posizione». Paolo Biondani su L'Espresso il 14 Agosto 2023
Pubblico Ministero: «Per quali tipi di reato è stato condannato?»
Coimputato De Angelis Marcello: «Costituzione e direzione di associazione sovversiva e banda armata».
Pubblico Ministero: «Lei ritiene, e riteneva allora, che Terza Posizione fosse effettivamente anche una banda armata? La articolo in questi termini: avevate anche un gruppo che aveva funzioni di attività militare, autofinanziamento ed autodifesa?»
Coimputato De Angelis Marcello: «Avevamo delle armi e avevamo, sì, un gruppo di autodifesa».
È uno dei passaggi cruciali del primo e unico interrogatorio di Marcello De Angelis davanti ai giudici della strage di Bologna, nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di un suo amico e camerata, Luigi Ciavardini, neofascista di Terza Posizione, come complice (allora minorenne) dei terroristi neri Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Dopo la sentenza per l'eccidio alla stazione dei treni del 2 agosto 1980. Ciavardini ha sposato la sorella di De Angelis, che oggi ha 63 anni ed è un personaggio che conta nella destra che governa l'Italia: è il portavoce ufficiale di Francesco Rocca, il presidente della Regione Lazio, che lo stipendia con soldi pubblici come direttore della comunicazione istituzionale.
Lo scorso sabato 5 agosto De Angelis ha creato un caso politico pubblicando su Internet un messaggio negazionista: «So per certo che con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Non è un’opinione: io lo so con assoluta certezza». La sua certezza interiore, che non ha voluto o potuto documentare e motivare, contrasta con tutte le sentenze, decise da decine di giudici diversi con giurie popolari allargate anche ai cittadini, che in questi 43 anni di indagini e processi hanno dichiarato colpevoli della strage alla stazione cinque terroristi di destra. L'intervento del portavoce politico laziale ha contraddetto anche la presa di posizione del Capo dallo Stato, Sergio Mattarella, che il 2 agosto, in un messaggio ai familiari delle 85 vittime e oltre 200 feriti, aveva appena riconfermato la «matrice neofascista» della bomba, riconosciuta anche dai presidenti del Senato, Ignazio La Russa (Fdi, Milano) e della Camera, Lorenzo Fontana (Lega, Verona), nel silenzio della premier Giorgia Meloni (Fdi, Roma), che invece ha condannato genericamente «il terrorismo», senza fare alcun riferimento alla destra eversiva.
De Angelis è stato interrogato il 9 novembre 1999, quattro anni dopo la sentenza definitiva di condanna di Fioravanti e Mambro, davanti ai giudici del tribunale per i minorenni, dove era in corso il successivo e separato processo a carico di Ciavardini, che aveva solo 17 anni quando fu reclutato dai killer dei Nar per la strage di Bologna e per altri omicidi politici. De Angelis è stato sentito come «coimputato in procedimento connesso», perché all'epoca dell'attentato terroristico era uno dei capi di Terza Posizione, la stessa organizzazione neofascista di cui faceva parte Ciavardini, con base a Roma. In quella veste, i giudici di Bologna gli garantivano il diritto al silenzio, cioè la facoltà di sottrarsi all'interrogatorio, per non rischiare di auto-incriminarsi per qualche reato. De Angelis però ha deciso di rispondere a tutte le domande (rifiutandosi solo una volta di fare il nome di un suo ex camerata, evidentemente mai identificato finora) con l'intenzione dichiarata di aiutare la difesa di Ciavardini: durante l'interrogatorio ha fatto diverse ammissioni, sforzandosi di apparire credibile, e ha ripetuto più volte che non solo lui, ma tutta Terza Posizione era estranea alla strage, che a suo dire, anzi, era «funzionale all'eliminazione del nostro gruppo». De Angelis ha messo a verbale parole durissime, invece, contro «Fioravanti e il suo gruppo armato». Gli stessi che oggi difende nonostante le condanne definitive per la strage e molti altri omicidi.
Prima di leggere il lungo verbale d'interrogatorio (62 pagine), di cui riportiamo integralmente i passaggi più importanti, va detto che Marcello De Angelis ha scontato interamente, in carcere, la condanna definitiva che gli era stata inflitta come fondatore e dirigente di Terza Posizione: cinque anni e sei mesi, due dei quali cancellati dall'indulto varato dal governo Andreotti con l'ultima amnistia del 1989.
Lo stesso De Angelis spiega ai giudici che, dopo essere sfuggito all'arresto, nell'agosto 1980, è rimasto latitante all'estero, in particolare a Londra, «fino all'ottobre del 1989», quando si è costituito alle autorità italiane: «Ho espiato tutta la pena e sono uscito dal carcere nell'aprile del 1992». De Angelis quindi è uno dei pochi ex neofascisti che hanno scontato davvero tutta la condanna in carcere.
La prima domanda, rivolta dal presidente del tribunale, riguarda un fatto decisivo per le indagini sulla strage di Bologna: l'omicidio di Francesco Mangiameli, il leader di Terza Posizione in Sicilia, che fu ucciso a Roma il 9 settembre 1980 dai suoi ex alleati dei Nar. Un omicidio poi confessato, dopo l'arresto, dagli stessi Fioravanti e Mambro, che nel luglio 1980, mentre preparavano la strage di Bologna, erano stati ospitati a casa sua per due settimane in Sicilia.
Quell'omicidio è strettamente collegato alla bomba nera del 2 agosto 1980: le sentenze definitive hanno accertato e comprovato che Mangiameli fu assassinato da Fioravanti e Mambro (e altri killer dei Nar) proprio perché si era opposto alla strage, che tentò anche di fermare con una trasferta in extremis a Roma, dove è poi ritornato in settembre, quando è stato ucciso. Il corpo di Mangiameli, gettato in fondo a un lago con pesi in piombo per non farlo ritrovare, è invece riemerso l'11 settembre 1980, facendo così scoprire dopo pochi giorni l'omicidio e l'occultamento del cadavere: un errore che ha spiazzato i terroristi neri.
De Angelis, davanti ai giudici di Bologna, dichiara di aver capito subito, già allora, che Mangiameli era stato ammazzato dai Nar di Fioravanti. Interrogato dal presidente, rivela: «Noi eravamo già tutti quanti latitanti dal 28 agosto 1980, per quanto fossimo ancora a Roma. Io venni a sapere della trasferta di Mangiameli a Roma tre o quattro giorni dopo l'omicidio, dalla moglie di Mangiameli stessa. Dopo il ritrovamento del cadavere, il giorno dopo, ebbi un incontro totalmente fortuito con la moglie di Francesco (Mangiameli) e con Alberto Volo».
Presidente: «Totalmente fortuito?»
De Angelis: «Totalmente fortuito».
Presidente: «Com'è possibile?»
De Angelis: «Per i casi della vita. Avevo un appuntamento con un'altra persona a via Nomentana, a Roma. La moglie di Francesco, dopo essere stata in attesa di notizie del marito per tre o quattro giorni e dopo aver letto che c'era stato questo ritrovamento di un corpo, si era messa in macchina da Palermo con Alberto Volo, che aveva accompagnato Francesco (Mangiameli) a Roma ed era poi ritornato (in Sicilia) senza di lui e senza notizie».
Presidente: «Quindi Volo aveva accompagnato Mangiameli a Roma? Per quale motivo erano venuti a Roma? Volo glielo disse?»
De Angelis: «Perché Francesco (Mangiameli) cercava un incontro con Valerio Fioravanti, per chiarire un contenzioso... Lui aveva saputo che Valerio aveva... diciamo un'acrimonia nei suoi confronti e di conseguenza voleva chiarire».
Presidente: «Questo a lei lo disse Volo?»
De Angelis Marcello: «Volo».
Presidente: «Quindi Volo era consapevole del fatto che Mangiameli andasse a Roma per incontrarsi con Valerio Fioravanti e chiarire un contenzioso proprio con lui?»
De Angelis: «Certo».
Presidente: «E il motivo di questa contesa?»
De Angelis: «Il motivo di questa contesa devo dire che tutt'ora, per quanto mi riguarda, non è un granché chiaro. Doveva risalire a discussioni avute da Francesco Mangiameli con Valerio Fioravanti durante una permanenza di Fioravanti a Palermo, ospitato da lui, quando dovevano teoricamente preparare l'evasione di Concutelli... I motivi della contesa, specifici, non li so. Comunque so che Fioravanti, in generale, aveva già da un certo tempo lanciato una campagna piuttosto violenta nei nostri confronti, contro noi di Terza Posizione».
Alberto Volo, morto nel 2020, era un neofascista di Palermo di alto livello, che collaborò anche all'istruttoria del giudice Giovanni Falcone sui possibili legami tra terroristi di destra e mafiosi di Cosa Nostra, in particolare per l'esecuzione dell'omicidio di Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), il fratello dell'attuale Presidente della Repubblica. L'ex neofascista, poco prima di morire, ha accettato di testimoniare con i magistrati della Procura generale di Bologna, che dal 2018 avevano riaperto le indagini sulla strage, e ha dichiarato di aver fatto parte di una struttura paramilitare di stampo eversivo più segreta di Gladio, che univa neofascisti, massoni, terroristi neri e ufficiali dei servizi deviati. In quei verbali, rimasti segreti fino alla sua morte, Volo ha parlato anche dei suoi viaggi a Roma nell'estate 1980 con Mangiameli, riconfermando che si era scontrato con Fioravanti e gli altri terroristi dei Nar proprio perché era contrario alla strage.
Al processo contro Ciavardini, è il pubblico ministero a chiedere maggiori chiarimenti sull'omicidio Mangiameli. La risposta di De Angelis è dettagliata, ma non convince del tutto i giudici: «Dunque, io avevo un appuntamento con Pasquale Belsito al bar del San Leone Magno, nel quartiere Trieste, all'angolo con via Nomentana. Mentre parlavo con lui, si è fermata una macchina e ne sono scesi la moglie di Francesco (Mangiameli), Sara, e Alberto Volo. Mi sono venuti incontro, a quel punto Belsito si è adombrato, mi ha preso da parte e mi ha detto: “Perché dai appuntamento ad altre persone se hai appuntamento con me?”. Gli dissi che non avevo dato appuntamento a nessuno e che era puramente casuale l'incontro. Belsito se ne andò. Quindi Sara mi fece vedere un pezzo di giornale in cui c'erano tre righe sul ritrovamento del corpo. Era convinta che quel corpo fosse di suo marito. Io le chiesi per quale ragione dovesse pensarlo. Lei mi spiegò che suo marito era sparito da quattro giorni e invitò Alberto Volo a raccontarmi, a spiegarmi del loro viaggio, del tentativo di Mangiameli di mettersi in contatto con Fioravanti».
Quindi De Angelis racconta cosa gli rivelò Volo: «Mi disse che lui (Mangiameli) era salito su una macchina con delle persone che lui non conosceva, che si era allontanato in macchina con loro e non era più tornato. Io gli chiesi che tipo di macchina fosse, lui me lo disse ma io non ero in grado di riconoscerla. In quel momento passò, si accostò una macchina analoga, lui me la indicò e mi disse: “Esattamente come quella”. Da questa macchina scese Giorgio Vale, il quale mi aveva visto, ma non aveva riconosciuto Volo e Sara, e mi venne incontro. Sara gli andò incontro inveendo, dicendogli: “Cosa avete fatto a mio marito?”, e cose di questo genere. Vale mi prese sotto braccio e mi portò in disparte, evidentemente scosso, proprio pallido, dicendomi: "Ma cosa dice questa matta, di cosa sta parlando?". Io però in quel momento intuii che molto probabilmente lui era coinvolto, cioè che c'era effettivamente un suo coinvolgimento».
Giorgio Vale era uno dei sette «super-killer» dei Nar e ha effettivamente partecipato all'omicidio di Mangiameli (come ad altri delitti) insieme a Fioravanti, Mambro e altri terroristi neri, secondo numerose sentenze definitive e le loro stesse confessioni. È morto nel 1982, dopo altri delitti sanguinari, ucciso dalla polizia in un covo a Roma dove era latitante.
A questo punto della deposizione, De Angelis parla di Roberto Fiore, il leader di Terza Posizione (che fa tuttora politica con un nuovo movimento di estrema destra), spiegando ai giudici che i Nar, dopo Mangiameli, volevano uccidere anche loro. Il burrascoso incontro con la moglie del siciliano assassinato, infatti, fu seguito da un altro invito che sembrava una nuova trappola: «Vale a quel punto mi disse che si doveva allontanare e mi chiese di metterlo in contatto al più presto possibile con Roberto Fiore. Io avevo un appuntamento con Fiore un paio d'ore dopo, ma a quel punto, fiutando che c'era qualcosa di strano, gli dissi che era fuori Roma e non sapevo come contattarlo: anch'io ero latitante... Lo rassicurai che comunque lo avrei messo in contatto appena ne avessi avuto modo. Invece, appena lui si allontanò, salii in macchina con Volo e Sara Mangiameli e andai all'appuntamento con Fiore, che nel frattempo aveva comprato l'edizione serale de Il Tempo, su cui c'era effettivamente la fotografia del corpo. Per cui noi dalla fotografia riuscimmo ad avere la prova definitiva che il corpo appartenesse a Francesco Mangiameli».
Pubblico Ministero: «Quando voi quattro avete il giornale con la foto del cadavere ritrovato, qualcuno di voi esprime ipotesi su chi possa essere l'autore dell'omicidio di Mangiameli?»
De Angelis: «A quel punto era evidente: se Mangiameli era andato a incontrare Fioravanti e chi l'aveva portato via in macchina era Giorgio Vale, che noi già sapevamo essere divenuto organico al gruppo di Fioravanti, era evidente che era stato Fioravanti».
De Angelis racconta ai giudici che la rottura fra Terza Posizione e Nar risaliva all'omicidio di un poliziotto molto bravo e coraggioso, Francesco Evangelista, 37 anni, detto «Serpico», che fu assassinato dal gruppo di fuoco di Fioravanti, il 28 maggio 1980, davanti al liceo Giulio Cesare, nel quartiere Trieste.
De Angelis: «All'indomani di quell'omicidio, noi ci ponemmo il problema di arginare questa campagna armata di Fioravanti, ma ci rendemmo conto che non avevamo la capacità militare di farlo».
Presidente: «Per Fioravanti intende solo lui o anche altri attorno a lui?»
De Angelis Marcello: «No, intendo il gruppo di Fioravanti».
Presidente: «E da chi era costituito?»
De Angelis: «Valerio Fioravanti, il fratello Cristiano, Francesca Mambro, Cavallini e Giorgio Vale, che noi fino all'attentato del Giulio Cesare pensavamo fosse dalla parte nostra e poi scoprimmo che faceva il doppio gioco con Fioravanti».
Presidente: «Il nome di Luigi Ciavardini le dice qualcosa?»
De Angelis: «Mi dice moltissimo. Luigi Ciavardini fu la persona grazie alla quale noi scoprimmo che c'era questa campagna nei nostri confronti. Io lo incontrai pochi giorni dopo i fatti del Giulio Cesare, lui durante lo scontro a fuoco era stato ferito da Valerio Fioravanti, pare accidentalmente, e abbandonato lungo la strada. Noi allora ritenemmo che, in realtà, anche questo potesse essere stato studiato, nell'eventualità che appunto Ciavardini, che era noto come appartenente a Terza Posizione, fosse arrestato e di conseguenza ricadesse su di noi la colpa dell'attentato...».
Presidente: «Perché lei dice che era noto che Ciavardini appartenesse a Terza Posizione?
De Angelis. «Lui era organico a Terza Posizione».
Presidente: «Quali erano i suoi referenti?»
De Angelis: «Ma anche io stesso, mio fratello Nanni e direttamente Giorgio Vale. Precedentemente Roberto Nistri e dopo il suo arresto Vale. E proprio tramite lui (Ciavardini) io scoprii che Vale stesso, a lui, aveva posto la questione del Giulio Cesare come se fosse una azione concordata tra noi e il gruppo di Fioravanti. (Ciavardini) cadde dalle nuvole quando gli feci presente che invece non ne sapevo nulla. Il che era quantomeno anomalo, soprattutto perché la zona del Giulio Cesare era di mio interesse, diciamo, di mio controllo... E comunque era un omicidio e noi non eravamo interessati a quel tipo di azione... Tre giorni dopo la conversazione con Ciavardini, cercai un contatto con Giorgio Vale, che innanzitutto mi chiese di non farne parola a Roberto Fiore. Il che era la conferma che effettivamente avesse agito alle nostre spalle, facendo appello ad una sorta di meccanismo omertoso».
Presidente: «Quindi lei dice che a fine primavera, inizio estate 1980, c'era già una sorta di contrapposizione tra Nar e Terza Posizione?
De Angelis Marcello: «Una guerra. La definisco una guerra perché alcuni di noi, io in primis, e lo rivendico senza problemi, ritenni che l'unica maniera per arginare questo pericolo fosse l'eliminazione di Fioravanti e di tutto il suo gruppo. Il problema è che noi non avevamo la capacità militare di affrontare una contrapposizione di questo genere».
De Angelis nell'interrogatorio definisce la banda di Fioravanti «uno dei gruppi Nar». E precisa: «Nar era una sigla che veniva utilizzata da svariati gruppi scollegati tra di loro e che poi Fioravanti aveva fatto propria. Comunque per noi era il gruppo Fioravanti... della galassia Nar».
De Angelis rivendica anche la diversità di Terza Posizione e la sua azione politica pubblica, non clandestina: «I Nar nascevano con l'intenzione di fare la lotta armata, lo dice il nome stesso: Nuclei Armati Rivoluzionari. Noi invece noi nascevamo con l'intento di fare una politica di piazza, militante, anche con azioni di forza, però strettamente collegata all'attività politica».
Di fronte alle obiezioni del pubblico ministero, però, De Angelis ammette che anche Terza Posizione «aveva le armi». E quando gli viene chiesto chi erano i capi del loro gruppo armato, e in particolare chi deteneva e controllava le armi di Terza Posizione, fa tre nomi: «Giuseppe Dimitri e Roberto Nistri, poi Giorgio Vale».
Dimitri, morto nel 2009, fu arrestato nel dicembre 1979 mentre prelevava un carico di armi e bombe a mano da un covo neofascista in via Alessandria 129 a Roma. Nelle sentenze di Bologna si legge che era un grosso arsenale, con numerose armi anche da guerra e diversi chili di esplosivo, custodito «in uno scantinato di pertinenza dell'agenzia assicurativa di Adriano Tilgher, una figura di spicco di Avanguardia nazionale, dove era ubicata anche la redazione, direzione e amministrazione di un periodico, Confidentiel, fra i cui redattori figurava lo stesso Tilgher». I giudici annotano che «il direttore del giornale era il padre, Mario Tilgher, risultato iscritto alla loggia massonica P2».
L'interrogatorio si chiude con altre domande sull'omicidio Mangiameli. Secondo De Angelis, lui e gli altri dirigenti di Terza Posizione lo interpretarono come «il primo atto di una campagna di eliminazione nei nostri confronti, che poi si palesò anche nei giorni seguenti. Io stesso sfuggii ad un tentativo di sequestro da parte del gruppo di Fioravanti». A tendergli la trappola fu il solito Vale, che gli chiese un incontro. Ma De Angelis non ci andò: «Ci mandai un'altra persona, che appunto si trovò fronteggiata da Vale, con una macchina con altre persone. Vale si innervosì moltissimo, lo aggredì verbalmente, gli chiese perché non ero andato io. Lui disse che ero stato trattenuto altrove, che però comunque non c'erano problemi». De Angelis non rivela il nome di quel camerata. Ma aggiunge: «Poi ebbi un ultimo incontro con Vale, che mi chiese in maniera piuttosto aggressiva se avessi paura di lui. Gli dissi di no... Dopodichè, molto tempo dopo, a Londra, venni a sapere che c'era questa intenzione di interrogarmi, diciamo, per farmi dire dove si trovassero Fiore e Adinolfi».
Davanti al tribunale De Angelis conferma anche di essere stato uno degli autori di un famoso volantino di Terza Posizione, che definiva Mangiameli come l'ultima «vittima della strage di Bologna», evidenziando così il legame tra il suo omicidio e l'attentato terroristico del 2 agosto.
Presidente: «Ha contribuito all'elaborazione di questo volantino?»
De Angelis: «Certo».
Presidente: «Per quale motivo avete definito Mangiameli una vittima della strage?»
De Angelis: «Perché ritenevamo che la strage di Bologna fosse stata compiuta da apparati dello Stato per dare una motivazione alla repressione totale di tutti quanti i gruppi esterni al Movimento Sociale Italiano, a destra, e ritenevamo che all'interno di questo disegno di eliminazione dell'antagonismo di destra rientrasse anche l'aggressione armata nei nostri confronti da parte di Valerio Fioravanti».
Il presidente del tribunale obietta che «ci sono due salti logici in quello che dice»: il volantino indica come vittima «la persona di Mangiameli, non tutta Terza Posizione». Mentre i rapporti tra i Nar e Terza Posizione sono proseguiti almeno fino al luglio 1980, alla vigilia della strage, quando Fioravanti e Mambro furono ospiti di Mangiameli in Sicilia: la rottura, osserva il presidente, avvenne solo in settembre, proprio quando Mangiameli fu ucciso. E quell'omicidio, secondo le sentenze definitive, fu deciso da Fioravanti solo dopo la scoperta il leader siciliano di Terza Posizione aveva parlato della strategia stragista dei Nar con un ufficiale dei servizi segreti.
Nonostante le obiezioni, De Angelis riconferma che «il volantino si riferiva a tutta Terza Posizione». Ma aggiunge che in effetti l'omicidio Mangiameli «per noi era un atto alla Fioravanti, era perfettamente nella logica di Fioravanti, che aveva intrapreso una via che per noi era banditesca e si comportava come un mafioso».
De Angelis inoltre conferma che, come emerge da altri atti, lui e gli altri latitanti di Terza Posizione, dopo la fuga a Londra, iniziarono a definire il gruppo di Fioravanti «i sette pazzi».
Per la strage di Bologna, Ciavardini si è sempre proclamato innocente, come Fioravanti, Mambro e Gilberto Cavallini, il killer, armiere e tesoriere dei Nar, condannato in primo grado nel 2020 e ora in attesa della sentenza d’appello.
Ciavardini ha invece confessato, dopo l’arresto, di aver partecipato all'omicidio del pubblico ministero romano Mario Amato. Il magistrato, che era senza scorta, fu ucciso per strada da Cavallini il 23 giugno 1980, cinque settimane prima della strage, con la complicità di Ciavardini, che guidava la moto. Amato era l'unico pm di Roma che indagava sul terrorismo neofascista e in quei mesi di solitudine aveva scoperto i legami dei Nar con la Banda della Magliana, i boss della mafia siciliana a Roma, i servizi segreti deviati e la loggia P2, all’epoca ancora segreta e potentissima.
Sarebbe una sventura. Strage Bologna, il fascista De Angelis non deve dimettersi altrimenti si cadrebbe sotto la tirannia delle opinioni obbligatorie. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Agosto 2023
Nel Si&No del Riformista spazio al dibattito scatenato dalle parole di Marcello De Angelis, portavoce della regione Lazio, sulla strage di Bologna: dovrebbe dimettersi? Favorevole il deputato dem Andrea Casu secondo cui il passo indietro di De Angelis “è un atto di codardia della destra che rilancia falsità giudiziarie e storiche“. Contrario il giornalista e scrittore Paolo Guzzanti. “Il fascista De Angelis non deve dimettersi altrimenti si cadrebbe sotto la tirannia delle opinioni obbligatorie” il suo pensiero.
Qui il commento di Paolo Guzzanti:
Sarebbe una sventura, sia democratica che antifascista, se il fascista Marcello De Angelis fosse costretto a dimettersi dal suo posto di portavoce della Regione Lazio per le opinioni da lui espresse sul ruolo degli attempati neofascisti Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini. De Angelis viene anche lui dal cuore nero fascistissimo, del vecchio Movimento Sociale Italiano. Ha espresso un giudizio che non è né vero né falso, né buono né cattivo ma un’opinione nata da un dubbio legittimo. È consentito esprimere dubbi anche controversi su sentenze che dichiarano la natura ideologica di un reato come la strage di Bologna definita “di chiara matrice fascista”? Noi pensiamo di sì perché altrimenti si cadrebbe sotto la tirannia delle opinioni obbligatorie come si faceva nei paesi fascisti e come si fa ora in quelli comunisti dalla Cina a Cuba. Ieri De Angelis ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma di rispettare le sentenze, rivendicando il diritto alle “opinioni influenzate dalla mia storia”: una richiesta che sa più di tifoseria (“sapete come la penso”) di diritto di espressione.
Per quanto riguarda la strage di Bologna, sarebbe un buon servizio che la giustizia renderebbe all’intera comunità verificando se le sue opinioni sulla non colpevolezza di Mambro, Fioravanti e Ciavardini, fossero o non fossero sensate. La magistratura ha ritenuto opportuno etichettare come di sicura origine fascista la strage del 2 ottobre 1980 il cui possibile movente fa acqua da tutte le parti. E dunque è piuttosto prepotente e illiberale mettere alla gogna o al rogo chiunque osi mettere in dubbio parti di quella sentenza. Da democratici e liberali desidereremmo vivere in un paese in cui chiunque possa pensare scrivere e parlare come gli pare. Nei soliti limiti di legge. Nel caso di De Angelis, invece, la tempesta si è scatenata sotto forma di anatema quando ha osservato che i tre terroristi neri condannati per Bologna avevano già accumulato due ergastoli per altri delitti rivendicati con orgoglio. Inoltre, se i tre ergastolani avessero preso parte alla strage di Bologna, dichiarandosi colpevoli, avrebbero tratto una serie di benefici giudiziari sulle precedenti condanne. Invece i tre si impuntarono dicendo di non avere alcuna intenzione di accollarsi delitti non loro. Il dubbio sulla loro partecipazione non ha nulla di irragionevole. E in più appare molto fragile la complicatissima la costruzione del movente e del mandante individuato nel vecchio e fantasmatico Licio Gelli.
Si diceva ieri che Giorgia Meloni fosse di pessimo umore con De Angelis perché, per un motivo o per l’altro, non passa settimana che non venga fuori, accompagnato dal rullo dei tamburi dell’opposizione, qualche evento, commento azzardato o frase infelice che catapulti di nuovo al centro dell’attenzione il cuore nero ovvero fascista del governo, cuore nero di cui tutti si vorrebbero silenziosamente liberare. In questa partita gioca un ruolo molto attivo l’opposizione che vive della caccia a tutti gli indizi utili per rievocare il clima di fuoco degli anni ’70. È passato più di mezzo secolo e che adesso De Angelis debba perdere il posto di capo della comunicazione della Regione Lazio, per un finto furor di popolo, a metà strada fra il maccartismo americano e la caccia alle streghe, è inaccettabile. La Repubblica nata dalla Resistenza tutela la libertà di opinione e specialmente delle opinioni controverse e persino scandalose.
Le sentenze si rispettano, ed è vero, purché si convenga che si tratti di lavori non esenti da errori e di possibili correzioni. Non devono essere i marchi ideologici a dettare le regole.
La verità emersa finora non sembra includere la risposta a tutte le domande né sciogliere tutte le contradizioni. Ma per il caso De Angelis è urgente prima di tutto dare una riposta liberale e repubblicana a chi chiede tagli di teste e purghe, e ci auguriamo che il buon senso liberale prevalga e che Marcello De Angelis resti al suo posto alla Regione Lazio.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Estratto dell’articolo di Francesco Boezi per “il Giornale” lunedì 7 agosto 2023.
Andrea Colombo, noto giornalista già al Manifesto e a Liberazione, […] Marcello De Angelis e le sue esternazioni sulla strage di Bologna. Colombo ha anche scritto più di un libro sugli Annidi Piombo, sui Nar, sugli eccidi di quegli anni […]
«[…] Marcello De Angelis ha esercitato un diritto costituzionale: quello di esprimere un suo pensiero. Ha detto le cose che ha detto Francesco Cossiga, che è stato presidente della Repubblica, anni fa. Le stesse che hanno sostenuto importanti magistrati come Rosario Priore. Pensa che la sentenza sia sbagliata. La presunzione che si possano chiedere le dimissioni per un pensiero corrisponde a un attentato alla libertà di espressione e di parola».
Secondo lei la verità giudiziaria su Bologna fotografa davvero ciò che è accaduto?
«Secondo me, è il mio parere, e conosco la vicenda, le sentenze e la verità in questo caso non hanno niente a che vedere. Tutte le sentenze di questa storia sono profondamente sbagliate, dato che non si basano su una prova. Quindi non è una parte di verità che va cercata. Ma tutta».
Sembra che si sia entrati in una fase di giustizialismo narrativo: o quella tesi o si è fuori dai giochi.
«Esatto: giustizialismo narrativo. Queste reazioni sono assurde e gravissime. Un fenomeno che sostiene che non si possa esprimere un pensiero diverso da quella che è la verità giudiziaria. […] si attaccano a un motivo: De Angelis è il portavoce del presidente della Regione Lazio, dunque è un rappresentante delle istituzioni. E quindi non può dire quello che pensa? Ma perché? […] penso che la sentenza sia sbagliata, e penso che ci siano stati dei depistaggi».
Da dove nasce il modus operandi di questo scontro?
«La verità su Bologna è stata battaglia di sinistra fino al 2008. […] E per sentirsi di sinistra non bisognava essere colpevolisti per forza, come oggi […] […] Il primo a dire che i Nar erano innocenti è stato Luigi Cipriani, un deputato di Democrazia proletaria nel 1995. Il comitato «E se fossero innocenti» era composto in gran parte da esponenti di sinistra, direi al 90%. […]».
La lezione del Manifesto: si può criticare una sentenza anche senza avere la soluzione alternativa. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 7 agosto 2023
Il 19 luglio 1990 Il Manifesto, quotidiano comunista diretto da Valentino Parlato, titolò “Lo scandalo di una sentenza giusta”. Nella stessa giornata L’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci e diretto da Massimo D’Alema, uscì con la prima pagina totalmente bianca, in segno di protesta. Così la sinistra italiana, quella garantista e quella amica dei pubblici ministeri, commentava da visioni opposte la sentenza con cui la corte d’assise d’appello di Bologna aveva mandato assolti Francesca Mambro e Giusva Fioravanti dall’accusa per la strage del 2 agosto 1980. Ancora una volta il gruppo di intellettuali, Rossanda, Pintor, Magri, Natoli, Caprara, Castellina, quelli radiati dal Pci che avevano osato scrivere “Praga è sola” contro i carri armati sovietici, risultava dissonante e isolato rispetto alla sinistra ufficiale. Quella della federazione bolognese che brigava con i pm perché anche le carte dell’inchiesta giudiziaria dessero alla bomba quella patente di “strage fascista”, come recitava la lapide prontamente apposta alla stazione, luogo dell’atroce delitto. Pure qualche crepa si aprì, soprattutto dopo che quel pugno di giudici, togati ma anche popolari, non dimentichiamolo, aveva osato il non osabile, nella rossa Bologna, dove i cittadini avevano scavato a mani nude sotto le macerie che nascondevano 85 morti, ma forse 86, e oltre 200 feriti. Perché le emozioni erano fortissime per tutti, in quei giorni, ed era difficile mettersi quel cubetto di ghiaccio nel cervello che consentisse di studiare le carte freddamente fino a decidere di giudicare colpevoli e innocenti “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Nella redazione del Manifesto si fece questo sforzo, anche se, e proprio perché, molti redattori di allora erano bolognesi, e si erano precipitati con tanti altri nella loro città ad aiutare, in ogni modo. Ragionare e, per quel che era possibile, verificare anche con avvocati e magistrati amici che aiutassero a sbrogliare le carte sul piano tecnico-giuridico. Questo si fece. Esisteva al tempo una componente di Magistratura democratica, considerata “estremista” perché composta di toghe esterne o addirittura estranee al Pci, fortemente garantista. Non era facile esserlo su due fascistelli terroristi come Mambro e Fioravanti. Ma il Manifesto lo era già stato, provocando qualche malumore, nei confronti di altri due ragazzini di destra che erano accusati di aver tirato una bottiglia incendiaria contro una sede della Fgci. Fu scelta la linea della difesa delle garanzie per loro, e questa prevalse sull’antifascismo. Sempre, a quei tempi.
Magistrati di sinistra, avvocati e altri intellettuali furono accanto a noi del Manifesto, consapevoli del fatto che coltivare il dubbio fosse più importante del rimarcare l’appartenenza alla sinistra. Si partì dalle riflessioni più elementari. Due ragazzini di vent’anni che si dichiaravano estranei a un fatto criminale mentre ne ammettevano altri pure gravissimi. I Nar, il loro gruppo di appartenenza, terrorismo di destra, aveva comportamenti e obiettivi speculari a quelli di Br e Prima Linea e in genere il terrorismo di sinistra. Colpirne uno per educarne cento. Non, colpirne cento, a casaccio, gettando la bomba nel mucchio. I loro obiettivi erano politici o magistrati o giornalisti, non passanti. E poi, elemento fondamentale, i pubblici ministeri di Bologna non hanno mai trovato la pistola fumante, la prova della loro colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Infatti furono in seguito costretti a cercare “mandanti”, arrabattandosi tra barbe finte e grembiulini, possibilmente ormai defunti, per far quadrare il cerchio delle responsabilità. E ancora non è finita, a Bologna, Penelope sta ancora tessendo la propria tela.
Quando, negli anni novanta, era nato il gruppo “E se fossero innocenti?”, era roba di sinistra, non di destra. Ed è quel mondo che oggi dovrebbe insorgere. Ma è complicato, perché c’è un governo di centrodestra e la premier si chiama Giorgia Meloni, una giovane donna che certamente non è mai stata terrorista, ma conosce il mondo romano dei suoi coetanei, alcuni dei quali portano addosso, come quelli speculari di sinistra, il ricordo del cruento “antifascismo militante”. La stessa premier, se potesse dirlo, manifesterebbe i dubbi sulle condanne di Mambro e Fioravanti. Ma è la sinistra che dovrebbe prendere coraggio. E soprattutto distaccarsi dai quei fratelli maggiori che quarant’anni fa a Bologna vivevano in simbiosi con i pm che indagavano sulla strage e che, certamente in buona fede, avevano in testa solo il fatto che una cosa così orrenda potevano averla fatta solo i fascisti. Oggi Luciano Violante chiede a Marcello De Angelis e agli altri appartenenti alla destra storica di “fare i nomi” dei veri colpevoli, prima di scagionare Mambro e Fioravanti. Ci risiamo, sempre con la toga addosso, anche sulle spalle di uno dei più intelligenti, come l’ex presidente della Camera ed ex magistrato. Non è così che si deve procedere, se vogliamo uscire dallo scontro da curva sud. In dubio pro reo, diceva il diritto romano. Da cui avremmo molto da imparare, prima di tutto per il sistema accusatorio del suo processo. È stata proprio la sinistra a insegnarci che si può criticare anche senza avere la soluzione alternativa. Ancora ieri in un’intervista uno dei pm dell’epoca, Libero Mancuso, si limita a dire che le prove sono talmente tante da non riuscire ad elencarle. Ma quali? Una specie di teste farlocco e mentalmente fragile e un’altra che ha visto vestiti tirolesi in piena estate? I giudici possono sbagliare, facciamocene una ragione. Credo che Massimo D’Alema oggi potrebbe essere d’accordo almeno su questo. Secondo la sua opinione del 1990 sbagliarono quelli dell’appello. Non potrebbero invece essere stati superficiali quelli che hanno condannato?
Dagospia lunedì 7 agosto 2023. Riceviamo e pubblichiamo:
Dago Lux,
De Angelis, a proposito della strage alla stazione centrale di Bologna, 2 agosto 1980, ha semplicemente ripetuto, sia pure con sintagmi diversi, il giudizio di Francesco Cossiga, il quale chiese scusa all' Msi per aver, a caldo, quand’era presidente del Consiglio, attribuito l’azione terroristica alla destra fascista.
Scusandosi, aggiunse che i responsabili andavano cercati all’estero, alludendo alla pista palestinese. Cossiga fece queste affermazioni nel 1991, cioè da Presidente della Repubblica, essendo probabilmente in possesso di informazioni attendibili.
De Angelis non crede alle sentenze bolognesi, così come Cossiga (“La targa alla stazione di Bologna che definisce fascista la strage del 1980 va tolta”, 15 marzo 1991). Tanto can-can e accuse di neofascismo non hanno giustificazione, visto che Cossiga non fu mai fascista e che la pista palestinese si è sempre cercato di insabbiare per non far sapere agli italiani tutti i criminali particolari con possibilità di varianti ricattatorie (collaborazione con la sinistra eversiva per il trasporto di armi, financo missili; sostegno politico e diplomatico alla causa palestinese, scarcerazione di terroristi, in cambio della salvaguardia da attentati e violenze ad italiani, con libertà, però, di colpire interessi e personalità Usa ed israeliani) del patto scellerato – il lodo Moro – tra lo Stato italiano l’Olp.
Nelle pieghe di siffatto patto scellerato si celò anche il rapporto organico tra brigate rosse, terrorismo palestinese, servizi segreti, in ispecie l'STB cecoslovacca. Insomma, la pista palestinese non si addiceva alla presentabilità dei comunisti emiliani (epicentro delle bierre fu Reggio Emilia), nonché al doppio petto equidistante della politica antisemita ed antisionista. De Angelis ha, dunque, espresso un’opinione peraltro condivisa da molti altri italiani sinceramente liberaldemocratici e per nulla fascisti.
Giancarlo Lehner
Giampiero Mughini scatenato: "Perché questa sinistra è ripugnante". Libero Quotidiano il 07 agosto 2023
"Noi tutti abbiamo il diritto di non essere convinti di quella sentenza. Su Bologna poi troppe questioni sono rimaste aperte": Giampiero Mughini lo ha detto in un'intervista al Tempo, riferendosi alla strage di Bologna e alle parole di Marcello De Angelis, capo della comunicazione della Regione Lazio, il quale ha contestato la sentenza sull'attentato del 2 agosto 1980, sostenendo che Mambro, Fioravanti e Ciavardini non siano i veri responsabili.
"È un pieno diritto di tutti noi, pensare e dire una propria opinione, anche su uno degli eventi più orribili della storia recente italiana", ha poi aggiunto il giornalista. Che, a proposito dell'attentato, ha sottolineato: "Io non sono uno 'specialista' di questa orribile vicenda, quindi non ne parlo e non ne scrivo, ma conosco molto bene i due - ha detto riferendosi a Mambro e Fioravanti - e mi risulta davvero difficile pensarli colpevoli. Una strage priva di connotazioni ideologiche, soprattutto un attentato troppo lontano dall’ideologia che loro portavano avanti".
Lo scrittore ha ricordato anche che ad avere qualche dubbio su quella sentenza sono state pure persone lontane dalla destra: "Siamo un pugno di persone, con storie e provenienze diverse, che non si sono mai convinte che quei 'farabuttelli', che hanno confessato e pagato per i loro crimini, siano i responsabili di quell’atroce attentato. Tra questi cito Andrea Colombo, storico giornalista de Il Manifesto, Gianni Minoli, Liliana Cavani e Furio Colombo". Sulle questioni rimaste aperte, poi, Mughini ha detto: "Ne cito una per tutte: i resti dell’ottantaseiesima vittima, rimasta ancora senza nome". Inammissibili, secondo lui, le dimissioni di De Angelis: "Questo è l’aspetto più ripugnante della lotta politica tra partiti. Trovo intollerabile che quando qualcuno dice una cosa non conforme alla massa, si chiedano le sue dimissioni".
Giampiero Mughini per Dagospia lunedì 7 agosto 2023.
Caro Dago, non vorrei approfittare delle nostra amicizia nel mormorare alcune righe a difesa dell'innocenza di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro quanto alla loro presunta corresponsabilità nell'avere acceso la bomba di Bologna che alla mattina del 2 agosto 1980 mandò in briciole la sala d'aspetto della stazione di Bologna dove la gran parte di noi nella sua vita ha sostato per ore.
Bada bene, non intendo pontificare sull'argomento dato che su quell'episodio ne so poco di prima mano.
Dei tanti libri pubblicati e delle migliaia e migliaia di pagine processuali conosco in tutto un paio di libri, innanzitutto quello di un eccellente giornalista del Manifesto, Andrea Colombo, uno straconvinto dell'innocenza di Giusva e Francesca.
Si sbaglia? E' possibile. Com'è possibile che mi sbagli io, che pure confido sull'esperienza umana di prima mano che ho dei due (che sono miei amici e che in agosto verranno a cena a casa mia), ai quali mi indirizzò il pittore e collezionista del futurismo e mio amico Pablo Echaurren.
Come pure è possibile che si sbagli il vertice del Partito radicale, il quale è a sua volta da tempo convinto di tale innocenza tanto che li ospita nella sua sede di via Torre Argentina e paga loro uno stipendio mensile a che lavorino a un progetto che ha per titolo "Nessuno tocchi Caino", un meritorio progetto contro la pena di morte.
Come pure è possibile che ci sbagliassimo quanti di noi diedero vita molti anni fa all'Associazione "E se fossero innocenti?", associazione di cui facevano parte tipini quali Rossanda Rossanda e Furio Colombo.
Possibile. Possibile dunque che si sbagli, e si sbagli pesantemente, l'ex "nero" Marcello De Angelis il quale sostiene non solo che i due sono innocenti ma che tutti lo sanno e fanno finta di niente. Mi pare comunque abbia ragione il mio vecchio amico Paolo Guzzanti nell'avere scritto che se De Angelis ha delle prove in proposito le tiri fuori.
Non approvo invece le maledizioni inviate contro De Angelis, l'invito a ritirare quello che ha detto e a seppellirsi sotto terra. Ha detto quello che pensa. E' nel suo pieno diritto. Chi di noi sarebbe felice se dei condannati espiassero una colpa che non hanno commesso?
Giusva e Francesca hanno ammesso tutte le porcherie da loro compiute e che erano perfettamente consone alla follia ideologica dei loro vent'anni. Ne hanno pagato ciascuno dei due più o meno vent'anni di cella. Hanno sempre negato un gesto che con quella loro follia aveva poco a che vedere.
Un argomento ai nostri occhi non da poco. Che c'entra con tutto questo "il revisionismo" denunciato a grandi caratteri sulla prima pagina della Repubblica?
Stiamo solo parlando di un'altra verità possibile rispetto a quelle acclarate dalle sentenze dei giudici di Bologna. E' successo tante volte nella storia degli uomini, e tanto più quando ci sono di mezzo le avversioni ideologiche contrapposte le più forsennate. Tante volte.
De Angelis, sinistra smemorata: quando D'Amato e Bonelli criticavano la sentenza su Bologna. Christian Campigli su Il Tempo il 09 agosto 2023
C'era una volta la sinistra. Che invocava verità sulle stragi a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Ottanta. Una verità storica, indipendente da quella accertata dai Tribunali della Repubblica. Una verità più complessa, più difficile da trovare e, forse, persino da accettare. Era il 22 dicembre del 1995 e in Consiglio Regionale del Lazio veniva presentata una mozione a firma di Andrea Augello, Marina Rossanda, Alessandro Foglietta, Marco Verzaschi, Vittoria Tola, Romolo Guasco, Roberta Ercoli, Armando Dionisi, Massimiliano Maselli e Angelo Bonelli. Quest’ultimo oggi è deputato e portavove di Avs, l’alleanza tra Verdi e Sinistra. Il testo aveva come oggetto la «condanna di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro per la strage di Bologna». Dopo le premesse e le considerazioni, il documento, come da prassi, avanzava tre richieste. «La Commissione Parlamentare di inchiesta sulle stragi dia luogo alle necessarie audizioni per acquisire le dichiarazioni dei testimoni a difesa di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, che non sono stati ammessi nel dibattito processuale».
Si chiedeva che la stessa Commissione «esamini con una ulteriore serie di audizioni tutti gli elementi di contraddizione dell’impianto accusatorio che ha portato alle condanne di Mambro e Fioravanti, partendo dalle motivate obiezioni proposte dal comitato E se fossero innocenti?». Ma non basta. Nella mozione si chiedeva anche che la Commissione riesaminasse «tutti gli elementi di collegamento che sussistono tra la strage di Ustica e quella di Bologna».
Durante la discussione in aula l’allora Presidente Piero Badaloni sottolineò la propria posizione. «Conosco personalmente Giusva Fioravanti, l’ho visto crescere e credo che le parole dette qui a proposito della strage di Bologna ed i dubbi espressi siano pienamente condivisibili». Quella mozione, che criticava in modo evidentela Cassazione, venne approvata all’unanimità. Con il voto favorevole, tra gli altri, anche di Alessio D’Amato, ex candidato alla regione Lazio, sconfitto da Francesco Rocca nello scorso febbraio. Il comitato «E se fossero innocenti?», creato dopo la sentenza di condanna definitiva di Mambro e Fioravanti, nacque interamente in seno alla sinistra. Piero Badaloni, all'epoca Presidente della Regione Lazio (e pochi mesi fa Presidente del comitato del candidato presidente del Pd Alessio D'Amato) presentò al Presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino una mozione con cuila regione Lazio all'unanimità chiedeva la revisione del processo.
Oggi, quella sinistra non c’è più. È stata sostituita da un universo progressista pronto a mandare al rogo Marcello De Angelis per aver osato, semplicemente, dire ciò che Badaloni, Augello, D’Amato e Bonelli sostennero pochi giorni prima del Natale del 1995. Ma l’aspetto più grottesco dell’intera vicenda, giunge proprio dalla parole di fuoco di due dei protagonisti di quella mozione del 1995. «Riteniamo che quanto scritto, e peraltro ribadito da Marcello De Angelis, sia estremamente serio e incompatibile con il suo ruolo di responsabile della comunicazione istituzionale della Regione. Non possiamo accettare che un tentativo di revisionismo storico, su sentenze passate in giudicato e sulla matrice neofascista della strage come scritto recentemente dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, provenga da una figura istituzionale. Le vittime della strage di Bologna e i loro familiari meritano rispetto». È questo il testo di una nota dei capigruppo di opposizione in Regione Lazio di ieri firmata, tra gli altri, anche da Alessio D'Amato. E che dire del leader dei Verdi, Angelo Bonelli. «Il partito di Giorgia Meloni è imbarazzante. È bastata una cena per assolvere De Angelis. Di questa situazione ha la responsabilità politica la premier Meloni, che difende con il silenzio gli indifendibili». Ah, la coerenza, questa sconosciuta.
Strage di Bologna, anche studiosi di sinistra credono a un'altra verità. Valerio Cutonillii, avvocato e autore con Rosario Priore del libro «I segreti di Bologna», su Il Tempo il 09 agosto 2023
L’ossequio per l’autorità giudiziaria è doveroso. La libertà d’opinione contempla anche il diritto di criticare una sentenza. Un tempo era scontato coniugare questi due principi. Oggi decisamente meno. Lo dimostrano le polemiche divampate in occasione della recente ricorrenza della strage di Bologna. Polemiche impensabili negli anni ’90, quando erano autorevoli esponenti della sinistra a esprimere pubblicamente dubbi sulla colpevolezza di Fioravanti e compagni. Ora cosa è cambiato? Sicuramente si sconta l’imbarbarimento del confronto politico scaturito dall’esito elettorale. Anche il dibattito sulla strage di Bologna è stato trasformato in una crociata ideologica, fuori dal tempo e dalla realtà.
Ma ad avvelenare il clima non c’è solo l’ennesimo tentativo di mettere in difficoltà l’esecutivo Meloni con argomenti da prima Repubblica. Oggi la posta in gioco è molto più alta perché rischia di emergere una verità di segno opposto sul 2 agosto 1980. Oggi molti innocentisti non si limitano a manifestare dubbi sulla ricostruzione giudiziaria. Ricercatori e storici, anche di sinistra, ritengono più convincente lo scenario iniziato a delinearsi ai tempi della commissione Mitrokhin. Le tre stragi del 1980 (Bologna, Monaco e Parigi) sarebbero opera delle frange estreme dell’Olp.
Attentati senza rivendicazione ufficiale che sanzionavano il supporto dei paesi europei agli accordi di Camp David. Tale ipotesi ha ottenuto di recente un importante riscontro. Lo scorso aprile in Francia è stato condannato in primo grado, per la strage di Rue Copernic del 3 ottobre 1980, un militante palestinese. La presunzione di non colpevolezza è doverosa ma il cerchio sul contesto delle stragi inizia a stringersi. Ciò anche grazie al processo di desecretazione in corso dei documenti dei servizi segreti non solo italiani.
Ma c’è dell’altro a rendere il clima più teso. Durante il recente processo a Gilberto Cavallini, compagno di Fioravanti, è stato identificato il DNA di una vittima di sesso femminile. I reperti che lo contenevano erano ricchi di tracce di esplosivo. A oggi il DNA della discordia non è stato ancora associato a una vittima censita. Gli avvocati della difesa sostengono che apparteneva alla trasportatrice dell’esplosivo, detonato per errore prima di giungere al suo reale obiettivo. La 86esima vittima è una ipotesi che spaventa e genera tensione. Ma forse sarà proprio la scienza a dire l’ultima parola sull’esplosione alla stazione di Bologna. Una ferita ancora aperta per l’intera comunità nazionale. Senza distinzioni politiche.
Per vent'anni anche la sinistra ha sostenuto che Mambro e Fioravanti erano innocenti. Dalla comunista Chiaromonte a Furio Colombo: ma ora non si può più. Annarita Digiorgio l' 8 Agosto 2023 su Il Giornale.
«Dopo averla conosciuta io sono convinta dell'innocenza di Francesca Mambro sulla strage di Bologna, e ho aderito a questo comitato con l'obiettivo politico di consentire alla società di nutrirne il dubbio, al di là di quello che ha detto una sentenza discutibile» erano parole che pronunciava nel 1996 Franca Chiaromonte, deputata comunista. Nessuno la chiamò fascista, né le chiese dimissioni.
Il comitato «e se fossero innocenti?», nato dopo la sentenza di condanna definitiva di Mambro e Fioravanti, nacque internamente alla sinistra. Piero Badaloni, all'epoca presidente della regione Lazio (e un mese fa presidente del comitato del candidato presidente del Pd Alessio D'Amato) presentò al presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino una mozione con cui la regione Lazio all'unanimità chiedeva la revisione del processo. Per tutti gli anni 90 e 2000 in molti a sinistra professavano l'innocenza di Mambro e Fioravanti. Da Furio Colombo a Francesco Cossiga. Il dibattito è stato portato avanti e alimentato per anni. Mentre Mambro e Fioravanti finivano di scontare la pena, presso l'associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. Finché nel 2007 fu il giornalista di sinistra Andrea Colombo a scrivere il libro «Storie nere», sulla loro innocenza. La presentazione fu organizzata dal Corriere della Sera, con un intervento dell'allora direttore Paolo Mieli: «Fra qualche decennio quando gli storici analizzeranno queste vicende si stupiranno della illogicità assoluta dell'impianto accusatorio... il modo di procedere giudiziario è stato totalmente capovolto... era chiesto agli imputati di discolparsi, portando elementi ridicoli di colpevolizzazione... un caso mostruoso... Io non lo so, Mambro e Fioravanti potrebbero essere anche colpevoli- diceva Mieli- ma sulla base di come sono stati giudicati questi processi sono figli di un condizionamento culturale dell'epoca in cui si sono svolti, e basta Ma la protervia con la quale coloro che sostengono la tesi della colpevolezza di Mambro e Fioravanti contro libri come questo non ha eguali. E anziché proporre argomenti accusano gli altri di essere dei poco di buono aldilà della biografia delle persone» sembrano parole riferite all'accanimento che si è scatenato contro Marcello De Angelis, e invece Mieli le usava vent'anni fa per difendere i «revisionisti» di sinistra: «Un giorno quando rianalizzeremo questi fatti al di là delle bizzarrie dell'inchiesta diremo che ci furono degli episodi di Civiltà. Per Sofri è un dubbio sacrosanto ma accettato, per le stragi nere è un dubbio non accettato, che è più prudente non esibire. E c'è sempre qualcosa di insinuante nel trattare persone che questi dubbi hanno manifestato. Ma se questo può giovare loro, io lo garantisco da storico, dopo la loro morte questi dubbi acquisiranno rilievo. E i dubbi saranno portati come esempio che non tutti nell'epoca in cui i fatti accaddero furono così stolti o intellettualmente disonesti o sciatti, da prendere per oro colato le verità rivelate e adeguarsi». Di decenni ne sono passati due, ma il dibattito è tornato indietro. E se prima era consentito esprimere dei dubbi, ora neppure quelli.
"Gli intellettuali di sinistra? Flirtarono a lungo con le Br". Matteo Sacchi il 9 Agosto 2023 su Il Giornale.
Lo storico racconta la zona grigia che ha fatto in modo che i terroristi rossi fossero solo "compagni che sbagliano"
Eugenio Di Rienzo ha insegnato Storia delle dottrine politiche e Storia moderna. Dal 2006 professore ordinario di Storia moderna presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università La Sapienza di Roma. È anche direttore di Nuova rivista storica e membro del comitato scientifico di Geopolitica. Gli abbiamo chiesto di riflettere con noi sulla storia del terrorismo e della violenza politica in Italia, a partire da come viene raccontata.
Professor Di Rienzo come si sono posti gli intellettuali italiani rispetto al terrorismo degli anni Settanta?
«Parliamo soprattutto degli intellettuali di sinistra perché di intellettuali di destra non ve n'erano più molti... Presero da subito una posizione diversa da quella istituzionale del Pci e della Cgil che in teoria erano i loro punti di riferimento politico. Il partito comunista cercava di bloccare le loro infiltrazioni. A partire da alcune posizioni come quella di Sciascia, che per altro fu frainteso, prese piede quello slogan né con lo Stato né con le Br che veniva fatto passare per equidistanza ma equidistanza non era. Ci fu persino chi negò l'esistenza del terrorismo di sinistra, sostenendo che ci fosse solo un terrorismo di destra. Quello di destra c'era ma c'era anche quello di sinistra ma i due fenomeni erano paralleli. Io mi sono laureato nel '77 le ho viste le P-38... Ci fu un'indulgenza, un chiudere gli occhi. Quella violenza non è discutibile».
Un'altra espressione a sinistra fu «compagni che sbagliano» e la cosa non rimase confinata agli intellettuali...
«Anche una fascia di opinione pubblica sposò queste tesi. C'erano moltissimi fiancheggiatori, molti più di quanti si possa pensare. In questo caso pesò una eredità sbagliata della Resistenza. La Resistenza da un pezzo di sinistra era stata vista come una occasione mancata. Per molti non si trattava di battere il nazifascismo ma di instaurare il comunismo in Italia. Questo retaggio era rimasto».
La giornalista Rossana Rossanda in un articolo sul Manifesto in pieno sequestro Moro scrisse: «chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l'album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria...». Scoppiò un putiferio.
«Una parte più estremista del Pci negli anni '50 usava questo linguaggio. Ma la dirigenza Togliattiana aveva scelto un'altra strada. La fase rivoluzionaria Togliatti l'aveva archiviata, certo il linguaggio di piazza era un'altra cosa. Dirigenza del Pci era più avanti su questo dei suoi intellettuali di riferimento».
Ma questo cortocircuito dentro la base non era così chiaro...
«Diciamo che negli anni '50 la base operaia fu sul punto di esplodere. Ma poi gli operai vennero disciplinati. Gli intellettuali meno. E questo modo di pensare è rimasto presente tra gli intellettuali molto a lungo, non credo nemmeno sia mai scomparso del tutto».
Lo scavallamento a sinistra del Pci da parte di questi componenti spiega scelte come il compromesso storico?
«Sì divenne una lotta interna alla sinistra. I terroristi erano diventati quelli che potevano erodere la base del Pci».
Quella sinistra da sempre ambigua con l'estremismo. Dagli ex terroristi ai picchiatori: sono molte le contiguità che oggi si fa finta di non ricordare. Matteo Sacchi l' 8 Agosto 2023 su Il Giornale.
Questo Paese ha una storia complessa e ha attraversato un periodo tremendo come gli anni di piombo. Anni in cui la violenza politica degli opposti estremismi ha dilagato. Su quell'epoca esiste una verità storica ed una verità giudiziaria, su cui non è il caso di discutere in queste pagine. Di certo di quell'epoca esiste una memoria che al momento sembra funzionare a rate... A colpi di improvvise amnesie. Amnesie che non riguardano solo i fatti dell'epoca ma anche il modo in cui sono stati gestiti dopo e il modo in cui è stato trattato chi li ha commessi. Ad esempio, una lunga articolessa di ieri di Stefano Cappellini su Repubblica raccontava con largo uso di esempi il presunto cuore di tenebra e le radici, mai troncate, che legherebbero l'attuale destra italiana agli estremisti di un tempo. Il tutto mentre la sinistra, a partire dal Pci, avrebbe fatto piazza pulita in un secondo delle proprie aderenze nel mondo del terrorismo e dell'estremismo.
Si potrebbe prendere la questione a partire dal lato intellettuale. I brigatisti, come moltissimi altri gruppi eversivi, reclamavano a gran voce le loro radici all'interno del partito comunista. Prima ancora lo aveva fatto la banda Cavallero che confondeva la brutale rapina e l'esproprio proletario tanto da cantare davanti ai giudici Figli dell'officina. Non è una confusione che coinvolse i vertici del Pci? Nemmeno i vertici del Msi erano confusi. Almirante diceva: «Pena doppia per i terroristi neri». Nella base e tra gli intellettuali andava in un altro modo. Basta pensare ad un terribile slogan che ha fatto tanta strada: «Né con lo Stato né con le Br». Qualcuno lo ha attribuito ad un grandissimo come Sciascia, non è esatto, il discorso di Sciascia era più articolato, ma le ambiguità c'erano. E dopo questo clima in cui le verità processuali andavano bene ma sino ad un certo punto, andavano bene ma con lo sconto ha fatto tanta strada a sinistra.
Le verità processuali andavano rispettate ma, ad esempio, nel caso di Silvia Baraldini la verità processuale statunitense su Silvia Baraldini è stata trattata con le molle a partire dalle visite in carcere del leader del Pci Francesco Cossutta dotato di rose rosse, sino alla collaborazione, a guida Walter Veltroni, con il comune di Roma nel 2003. Se ha senso nel 2023 interrogarsi su estremisti e picchiatori passati per l'Msi forse avrebbe avuto senso interrogarsi di più su Sergio D'Elia, ex esponente di Prima Linea, per la sua elezione con la Rosa nel Pugno (2006 -2008) in quota «radicale» e per la nomina a segretario d'aula a Montecitorio. D'Elia ha compiuto tutto un percorso di dissociazione, sia chiaro, come è chiaro che ha sposato la non violenza. Ma se vale a sinistra dovrebbe valere anche a destra.
Tanto più che i casi di esponenti dell'estremismo politico di sinistra che hanno continuato ad avere un ruolo è vasto. Basta scendere di un gradino per incontrare casi come quello di Susanna Ronconi. Fece parte del commando delle Brigate Rosse che assaltò la sede del Msi di Padova il 17 giugno 1974; il commando assassinò Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Ronconi ebbe funzione di palo e raccolse i documenti sottratti dalla sede. Fu il primo omicidio, sebbene non premeditato, commesso dalle Brigate Rosse. Durante il secondo governo Prodi, il ministro Livia Turco voleva inserirla con un ruolo di consulente ministeriale per la lotta alla droga. Rinunciò per via di alcune proteste. Il 5 dicembre 2006 il ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero (Prc), nominò Susanna Ronconi membro della Consulta Nazionale delle tossicodipendenze. Finì indagato per l'ipotesi che avesse dato il ruolo ad una persona interdetta dai pubblici uffici. Ronconi si dimise. Non ci sì è fatti tante domande nemmeno su incarichi pubblici di rilievo nella sanità ad Antonio Belpiede che ha sempre professato, nonostante la condanna, la sua estraneità all'omicidio di Sergio Ramelli. Però la realtà giudiziaria è un altra. Quando venne arrestato era capogruppo del Pci a Cerignola. Pur avendo il Pci, anche solo per il timore di essere scavalcato a sinistra, sempre cercato di tenere le distanze dalla violenza extraparlamentare. Una storia complicata, una storia dove deve esserci lo spazio per la redenzione, per il rispetto delle vittime e delle sentenze, per il buon senso. Ma non si può far finta che sia una storia solo di destra. Perché per la maggior parte non lo è.
Strage di Bologna, quando i progressisti potevano avere dubbi. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 05 agosto 2023
Le scuse che Francesco Cossiga, da Capo dello Stato, pose nel 1991 all’Msi per quella verità «non vera» frettolosamente confezionata sulla strage «fascista» di Bologna, per la sinistra di oggi rappresentano l’origine di tutti mali circa il dibattito sulla bomba alla stazione e sulla «negazione» della colpevolezza degli ex Nar Francesca Mambro, Giusva Fioravanti, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini. Un dibattito che, come dimostrano gli strali scagliati contro il premier Giorgia Meloni due giorni fa (nel suo post commemorativo aveva parlato di un colpo sferrato allo Stato dal «terrorismo» senza specificare la matrice neofascista), per loro non dovrebbe proprio esistere.
O meglio, non dovrebbe esistere più. Perché le parole di Cossiga all’epoca non sguinzagliarono certo chissà quali falchi della destra (gli “innocentisti” tali erano e tali sono rimasti), non inaugurarono una inesistente stagione di pericolo fascista, ma al contrario contribuirono ad arricchire un certo clima di confronto bipartis. Con una certa vena malinconica, Mattia Feltri sulla Stampa ricordava ieri i tempi in cui, a metà degli anni ’90, venivano pubblicati per editori di sinistra volumi come “Rebibbia Rhapsody”, scritto a quattro mani da Fioravanti nientemeno che con un artista di Lotta Continua: Pablo Echauren.
CLIMA CULTURALE
Erano in realtà operazioni culturali figlie dello stesso clima che portò alla nascita del noto comitato “E se fossero innocenti?”, composto nel 1994 da avvocati, filosofi, giornalisti, politici e membri di associazioni quasi esclusivamente di sinistra. Si pensi, tra i tanti, a Sandro Curzi, direttore di Liberazione, quotidiano di Rifondazione Comunista, o ad Andrea Colombo, penna prestigiosa del Manifesto. E ancora a Luigi Manconi, Franca Chiaromonte, Ersilia Salvato, ma pure al fotografo Oliviero Toscani e alla regista Liliana Cavani. Non mancò certo la partecipazione dei politici, specie comunisti e radicali. Luigi Cipriani, deputato di Democrazia Proletaria, già nel 1990 disse che dietro la strage ci fossero i servizi occidentali e le strutture segrete, e fermarsi a dire che gli autori furono i Nar era il vero depistaggio: «Su quella lapide va scritto “strage di stato!”».
Tra gli intellettuali, anche Rossanda Rossanda non perse mai occasione per ribadire le proprie convinzioni innocentiste e persino importanti ex direttori di quotidiani di massima diffusione come il Corriere della Sera o l’Unità, come Paolo Mieli e Furio Colombo, non fecero mancare osservazioni critiche in ordine alle sentenze di condanna di Fioravanti & Co. Ennio Remondino, figura storica della Rai, altro profilo notoriamente schierato a sinistra, condusse una famosa inchiesta relativa al falso tumore che nel 1981 garantì la scarcerazione del teste chiave Stefano Sparti, in merito alla sparizione della cartella clinica di quest’ultimo andata distrutta in un incendio divampato, proprio poco tempo prima, all’interno dell’Ospedale San Camillo di Roma. Un episodio di cui Remondino ha poi riferito addirittura davanti Sandro Provvisionato, giornalista di punta di Canale 5 proveniente ancora una volta da sinistra, definì «fragile» il movente della condanna e «evanescenti» le prove.
Insomma, il decennio tra la fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda era caratterizzato da una vena di dibattito che, logicamente entro certi limiti, ammetteva molti meno tabù di quanto si possa immaginare. Non certo perché si volesse provare a scagionare Fioravanti e Mambro, ergastolani a prescindere dalle bombe alla stazione, o sminuire la portata del fenomeno dell’eversione nera. Ma semplicemente perché erano tempi in cui, di fronte alla memoria di 85 persone innocenti, il tornaconto politico veniva messo da parte. Nel 2023, insomma, abbiamo scoperto di essere indietro di quarant’anni.
Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” mercoledì 9 agosto 2023.
Piero Badaloni, 76 anni, era l’inviato di punta del Tg1 sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980: «Avevo conosciuto Giusva Fioravanti a Roma quando lui era un lupetto di 11 anni e io ero il suo capo scout — ricorda il giornalista —. Perciò averlo ritrovato ventenne tra gli esecutori materiali di quella carneficina fu per me un grande choc».
Però, il 22 dicembre del 1995, eletto da pochi mesi presidente della Regione Lazio (col centrosinistra), firmò anche lei la mozione del consigliere di An Andrea Augello che chiedeva chiarimenti sul ruolo di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti alla Commissione stragi presieduta da Giovanni Pellegrino.
«Ho voluto chiamare in questi giorni Giovanni Pellegrino per rinverdire i ricordi di quella mozione».
E che le ha detto?
«Non ve lo dico. Io so solo una cosa. Attenzione alle date: la Cassazione a novembre del ‘95, un mese prima, condanna in via definitiva Mambro e Fioravanti per la strage. Ma già nel luglio ‘94 nasce a Roma il comitato “E se fossero innocenti?” formato da avvocati, intellettuali, giornalisti, politici anche di sinistra: da Mimmo Pinto a Liliana Cavani, da Carla Rocchi a Luigi Manconi. Perché Mambro e Fioravanti, che avevano sempre rivendicato gli atroci delitti dei Nar, sulla strage di Bologna invece continuavano a dirsi innocenti.
Il garantismo all’epoca era molto più trasversale. Ed ecco che Augello fu abile politicamente a portare anche in Regione il dibattito. Ma la matrice neofascista della strage e il ruolo centrale avuto dalla P2 e dai servizi segreti deviati, nessuno del comitato li mise mai in discussione e tantomeno io».
Il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca (di centrodestra) ha deciso di non cacciare l’ex estremista nero Marcello De Angelis, suo collaboratore, per il post su Facebook a favore di Mambro e Fioravanti. Lei al suo posto che avrebbe fatto?
«De Angelis ha sbagliato, perché ha mischiato il risentimento personale (per la morte in carcere nell’ottobre 1980 del fratello Nanni, arrestato ingiustamente per la strage di Bologna, ndr ) con il ruolo pubblico che riveste. La decisione di Rocca invece è una chiara scelta politica, di cui si assumerà tutte le responsabilità.
Oggi vanno seguite con interesse le dinamiche interne al mondo della destra: radici ingombranti che si fa fatica a ricordare, prese di distanza complicate: Gianni Alemanno che esprime solidarietà a De Angelis, mentre Ignazio La Russa si mostra in perfetta sintonia con le parole del presidente Mattarella […]».
E quel silenzio di Giorgia Meloni, invece, sulla «matrice neofascista» della strage?
«Non sono d’accordo. La Meloni ha parlato, invece. Ha fatto parlare La Russa al posto suo, secondo me. E sul caso De Angelis lei ha parlato ancora attraverso Rocca, quando il presidente della Regione ha detto che Meloni non era felice... Era la chiara richiesta di una marcia indietro, che puntualmente è arrivata». […]
Strage di Bologna? Criticare le sentenze è costituzionale: il passato lo dimostra. Pieremilio Sammarco, Professore Ordinario di Diritto Comparato, su Libero Quotidiano il 10 agosto 202310 agosto 2023
Le recenti dichiarazioni rese dal responsabile della comunicazione della Regione Lazio a proposito delle sue riserve sulla colpevolezza di Fioravanti, Mambro e Ciavardini quali autori della strage di Bologna, induce a riflettere sulla possibilità di criticare le sentenze ancorché definitive. È evidente che qualora vengano levate critiche in modo sistematico e senza alcun fondato motivo verso le decisioni emesse dall’autorità giudiziaria si crea una delegittimazione dell’istituzione che inficia l’intero sistema ordinamentale. Ma, al di là di queste condotte, quando le sentenze prendono in considerazione fatti storici controversi che hanno attraversato la storia del nostro paese e che hanno acceso per anni un dibattito pubblico, l’espressione della propria opinione circa la fondatezza dell’accertamento giudiziario, ivi incluso il procedimento rituale con il quale si è arrivati alla sentenza definitiva, costituisce una facoltà che rientra nell’ambito del costituzionalmente consentito.
Si pensi a vicende come l’assassinio di Aldo Moro, del commissario Calabresi, la strage di Ustica, di Erba, o l’omicidio di Chiara Poggi, di Meredith Kercher, o la morte di Davide Rossi, o la squalifica del corridore Alex Schwazer, o l’attentato a Papa Wojtyla: tutte le sentenze, sebbene definitive, hanno lati oscuri e incertezze e sono oggetto di continui approfondimenti, dibattiti, diretti a generare il dubbio sull’esito corretto o completo degli accertamenti giudiziari. Ciò rappresenta l’esercizio della libertà di espressione che peraltro costituisce anche un controllo sull’operato di un pubblico potere, soggetto, come tutti gli altri, a valutazioni critiche e giudizi, purché essi siano fondati su argomentazioni solide, logiche, documentabili ed espresse senza alcun intento denigratorio verso l’autorità giudiziaria. Se resa in questo modo, la critica contribuisce ad arricchire il dibattito pubblico e non può essere interpretata come un attacco alla magistratura ed alla sua indipendenza, o peggio ancora, percepita come lesa maestà.
Del resto, perfino la magistratura, attraverso le sue varie componenti associative, ha riconosciuto tali principi. Si pensi al recente caso della condanna giudiziaria dell’allora Sindaco di Riace amato dalla sinistra, Mimmo Lucano, che ha generato aspre critiche alla sentenza, perfino prima ancora che venissero depositate le motivazioni: la magistratura nelle sue componenti associative ha avallato le disapprovazioni da più parti mosse; ad esempio, un alto esponente di Magistratura Democratica pubblicava sul quotidiano il manifesto un articolo dal titolo «Criticare la sentenza non è lesa maestà» nel quale si legge: «la soggezione delle attività giudiziarie alla critica dell’opinione pubblica rappresenta una delle principali garanzie di controllo sul funzionamento della giustizia.
Ma vi è di più. A quanti, specie all’interno della magistratura, oppongono preconcette chiusure verso la critica pubblica ai provvedimenti giudiziari, occorrerebbe replicare ribaltando l’argomento dell’attacco alla indipendenza del giudiziario, evocato spesso in occasioni simili: ricordando, più in particolare, che il controllo dell’opinione pubblica sulle attività giudiziarie è un fattore essenziale non soltanto di responsabilizzazione democratica per i cittadini, ma anche di educazione dei giudici ad un costume di indipendenza». Magistratura Indipendente diffondeva un comunicato in cui si legge: «nello stato di diritto la magistratura rende conto all’opinione pubblica delle sue decisioni attraverso le motivazioni, che possono essere lette da tutti, criticate, e, ovviamente, impugnate, ma che devono essere il punto di partenza di ogni discussione». Pieremilio Sammarco
Il caso de Angelis. Ecco perché la giustizia non è uguale per tutti. Iuri Maria Prado su L'Unità l'8 Agosto 2023
“Quante condanne ho visto, più criminali del crimine” (Montaigne)
Ci sono molti punti di vista dai quali osservare l’evoluzione del discorso pubblico di questi giorni a proposito della strage di Bologna: un discorso che era cominciato stortignaccolo già prima delle polemiche che lo avrebbero rinvigorito – si fa per dire – sulla scorta delle dichiarazioni innocentiste di un amministratore di destra, quel Marcello de Angelis secondo cui Fioravanti, Mambro e Ciavardini, condannati per la strage, a suo giudizio “non c’entrano nulla” con l’attentato del 2 agosto del 1980.
E tra i tanti punti di vista (quello sociologico, quello storico, quello elettoral-rissaiolo, quello del corazziere quirinalizio, quello talmudico-giudiziario) sceglieremmo quelli desueti: il punto di vista da questa postazione un po’ strana che è lo Stato di diritto; e poi il punto di vista democratico.
Dal punto di vista dello Stato di diritto la legge è un fatto, ed è un fatto la sentenza che – bene o male, secondo il giudizio di ciascuno – la applica. La giustizia non è un fatto: è un valore. Un valore per definizione mutevole, appunto secondo il criterio di ciascuno. Per questo dietro alle spalle del giudice è scritto il fatto: “La legge è uguale per tutti”; e non il valore, cioè “La giustizia è uguale per tutti”. Perché non esiste una giustizia uguale per tutti, e se pretendesse di esistere non sarebbe giustizia ma arbitrio.
Ora, lo Stato di diritto obbliga al rispetto delle leggi e delle sentenze per il fatto che esse sono emesse: non per il fatto che esse sono giuste, perché ciò che è giusto per uno non è giusto per un altro. E quel rispetto non risiede nell’omaggio alla giustizia della legge o della sentenza, né tanto meno nell’obbligo di omaggiarle. Risiede nel dovere di riconoscere quel fatto (la legge, la sentenza) e di rispettarne il contenuto in questo solo senso: nel senso che non va travisato, non certo nel senso che va condiviso.
La sentenza che condannasse il delitto di omicidio commesso da un comunista non sarebbe – se non diventando un atto arbitrario – una sentenza anticomunista; e non sarebbe un sovversivo comunista chi denunciasse che non debbono esistere sentenze anticomuniste: sarebbe un ordinario osservatore dal punto di vista dello Stato di diritto, almeno sino a che l’ordinamento non preveda il delitto di omicidio comunista.
E semmai lo prevedesse (eccoci al secondo punto di vista, l’altrettanto desueto punto di vista democratico) quell’ordinamento cesserebbe di essere, giustappunto, democratico.
Uno può essere spinto al nocumento altrui, o comunque rendersene responsabile, in quanto fascista, comunista, ecologista, liberista, familista, sovranista, monarchico, gnostico, eretico, deista, ateista: ma lo Stato democratico lo condanna per il nocumento che arreca agli altri, non per i suoi convincimenti né per la sua condizione o predilezione politico-religiosa.
Né ancora in uno Stato democratico esiste un’autorità con il potere di richiamare chicchessia al dovere di “rispettare” una sentenza in quel senso democraticamente vietato: e cioè nel senso di ritenerla giusta e indiscutibile, perché “Spetta non soltanto ai giureconsulti ma agli uomini tutti affermare in coscienza se non ritengano che lo spirito della legge in quell’occasione sia stato alterato” (Voltaire). E pericolosamente, invece, molto pericolosamente, lo Stato democratico destituisce sé stesso quando qualcuno si lascia andare o è istigato ad assumere quell’autorità, trasformando il proprio ufficio istituzionale in un sacerdozio che non ha nulla a che fare con la legge uguale per tutti, questo “fatto” che obbliga tutti e che bisogna rispettare nella misura in cui (e solo in questa misura) obbliga tutti: e prende piuttosto a maneggiare, “anti” qualcosa o “pro” qualcos’altro, la giustizia, questo “valore” in nome del quale l’umanità si è macchiata dei delitti più atroci e le società umane si sono involute nei più terribili autoritarismi. Iuri Maria Prado 8 Agosto 2023
L'assurda polemica. Cosa ha detto De Angelis sulla strage di Bologna e perché si grida allo scandalo. Piero Sansonetti su L'Unità l'8 Agosto 2023
Si è accesa l’iradiddio per le dichiarazioni, ragionevolissime, di un collaboratore del Presidente della regione Lazio, che si chiama Marcello de Angelis e che fa il giornalista, il quale ha sostenuto di essere certo dell’innocenza, per la strage di Bologna del 1980, di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Credo che sia il segno del veloce e inesorabile degradarsi della politica. Che, priva di idee, va avanti a frasi fatte, a slogan che crede ereditati dal passato.
Nel passato, in realtà, uno scandalo del genere non sarebbe mai avvenuto. Nessuno, nei partiti della prima Repubblica, e neppure nei giornali, avrebbe osato mettere in discussione la libertà di pensiero di un giornalista. E moltissimi, soprattutto tra gli intellettuali di sinistra, negli anni ottanta e novanta e anche nei successivi, erano convinti – senza che ciò facesse scandalo – dell’innocenza di Mambro, Fioravanti e Ciavardini. Il luogo intellettuale più impegnato in questa battaglia garantista, figuratevi, fu il Manifesto di Rossanda, Pintor e Parlato. Ma non era isolato. Una parte molto consistente dell’intellettualità di sinistra sosteneva questa tesi.
Ieri, travolto da centinaia di dichiarazioni indignate, specie da sinistra, ma anche dal ministro Piantedosi e dal Presidente del Senato La Russa, Francesco Rocca, governatore del Lazio, ha dovuto prendere le distanze dal suo consulente. E lo stesso consulente, Marcello de Angelis, ha pubblicato su Facebook un post nel quale si scusa con le persone alle quali può avere prodotto disagio con le sue dichiarazioni o con chi si sia sentito offeso.
Non è un luogo salubre quello nel quale una persona che espone una sua idea – peraltro condivisa da molti e ad alto livello – sia costretto a chiedere scusa. Questi trent’anni di giustizialismo dilagante non hanno solo aumentato a dismisura il potere della magistratura ma hanno costretto il buonsenso a rincantucciarsi dietro qualche paravento, per evitare di essere messo alla gogna. Un disastro intellettuale e politico senza pari. Fino a ieri pensavo che solo in paesi fascisti o autoritari, come per esempio la Russia, l’Iran, la Cina, fosse proibito esprimere la proprio opinione. Mi devo ricredere. Roma è molto più vicina a Teheran di quanto si possa immaginare. Quanto tempo ci vorrà per riparare questo disastro?
Strage di Bologna. Contro Fioravanti, Mambro e Ciavardini nessuna prova: solo vaghe ipotesi. Iuri Maria Prado su L'Unità il 9 Agosto 2023
Sarebbe interessante sapere quanti, tra quelli che invocano l’irrevocabile “verità” sulla colpevolezza dei condannati per la strage di Bologna, hanno letto le sentenze che si sono occupate del caso e hanno preteso di chiuderlo, in particolare quella della Cassazione. Sarebbe interessante sapere se il giudizio colpevolista si fonda sul convincimento che quelle sentenze sono fondate e ben motivate, o se si accontenta del fatto che è intervenuta una decisione, non importa fondata su cosa, non importa come motivata, non importa quanto attrezzata a resistere all’eresia innocentista. Piacerebbe che ci si affidasse a una decisione giudiziaria perché è convincente, non perché condanna o assolve. E vogliamo vedere, allora, quali sono le ragioni in base alle quali quei tre – Fioravanti, Mambro, Ciavardini – sono stati condannati? Queste ragioni (ed è già uno spettacolo) dalla Suprema Corte di Cassazione sono definite “tematiche”. Vediamole.
La prima: un certo Sparti ha riferito di avere avuto un incontro con Fioravanti, qualche giorno dopo l’attentato, perché Fioravanti aveva bisogno di documenti falsi. E durante questo incontro Fioravanti gli avrebbe detto: “Hai visto che botto?”. In questo modo, secondo la Corte, Fioravanti avrebbe espresso “il suo compiacimento per il risultato di quella impresa terroristica”. Poi la prova definitiva, a tortiglione: siccome la Mambro si sarebbe imbiondita i capelli per girare inosservata a Bologna il 2 agosto, come una turista tedesca o altoatesina, e siccome dopo la strage la polizia cercava una donna con i capelli biondi, e siccome, dunque, la coincidenza del colore biondo dei capelli impensieriva gli imputati, e siccome Sparti dichiarò di aver avuto “percezione” di un cambio di colore dei capelli della Mambro, con riflessi che tiravano al rossiccio, ecco, cospirante con altre che ora vedremo, il sigillo della responsabilità dei due per la strage. Dopo di che la Corte, per pagine e pagine, spiega i motivi per cui il testimone, questo Sparti, doveva considerarsi affidabile, con il corollario di inevitabile pregnanza delle prove ritratte dalle sue dichiarazioni (e cioè “Hai visto che botto?” e la “percezione” del grado di fulvo dei capelli). Cioè io dico che gli asini volano, però siccome sono affidabile c’è caso che gli asini volino.
Strage di Bologna, polemiche per l’ex Terza Posizione De Angelis: “Fioravanti, Mambro e Ciavardini non c’entrano. Istituzioni mentono”
Poi? Poi c’è la seconda certificazione della responsabilità nella strage. Risiede, argomenta la Corte, nel fatto che Ciavardini, uno dei condannati, avrebbe fatto una telefonata per rinviare “il viaggio da Roma a Venezia che era stato programmato per il 1° agosto 1980 tra la sua fidanzata Elena Venditti e l’amica di costei, Cecilia Loreti ed il fidanzato, Marco Pizzarri”. Perché il differimento del viaggio? Perché, dice la Corte, Ciavardini sapeva che il 2 agosto ci sarebbe stato l’attentato: attentato al quale avrebbe dovuto partecipare (senza dunque poter essere, quel giorno, a Venezia), e attentato al quale non voleva che fossero esposti i suoi amici, che sarebbero passati per la stazione di Bologna sul treno in direzione di Venezia. Mica male, si ammetterà. La prova della responsabilità stragista di Mambro, Fioravanti, e di Ciavardini stesso, perché questi ha spostato la data di una gita.
E poi? Poi la terza “tematica”. E cioè l’omicidio di Francesco Mangiameli, avvenuto qualche settimana dopo l’attentato del 2 agosto. O meglio: non l’omicidio, ma il “movente” dell’omicidio. Quale? Semplice: Mambro e Fioravanti avrebbero deciso di ucciderlo perché quello conosceva la verità sulla strage di Bologna, e la conosceva perché sulla fine di luglio di quell’anno i due, Mambro e Fioravanti, erano stati a casa sua, in Sicilia. Chiaro il ragionamento? Sulla scorta del duplice e gravissimo indizio costituito da “Hai visto che botto?” e dal cangiare inopinato del colore di chioma della Mambro, la prova della responsabilità per la strage, già così ragionevolmente acquisita, si perfeziona nella circostanza dell’omicidio di un mese dopo: avvenuto col movente di chiudere la bocca alla persona, Mangiameli appunto, che qualche giorno prima dell’attentato aveva ospitato i terroristi. E chi lo dice? La Corte. E perché? Perché, spiega la Corte, è vero che non è provato che Mambro e Fioravanti avessero confidato a Mangiameli alcunché a proposito dell’imminente attentato, ma è vero anche che la permanenza dei due in Sicilia, in casa di Mangiameli, è stata “lunga e continua”, e proprio “nel periodo nel quale non poteva che essere stata predisposta tutta la complessa attività preparatoria che quella strage doveva aver necessariamente richiesto”. Cioè: una strage così mica la organizzi in quattro e quattr’otto: e siccome i due erano lì, vuol dire che l’hanno organizzata lì, e lì c’era Mangiameli, al quale magari quelli non hanno detto nulla ma chissà, avrà origliato. E quindi lo ammazzano per quel motivo, perché non rivelasse nulla della strage documentata dalla frase “Hai visto che botto?” e dalle mèches rivelatrici della Mambro.
Fine? No. Manca il quarto elementone indiziario, il più sontuoso: l’alibi che non regge. Gli imputati, infatti, avrebbero fornito versioni rispettivamente contrastanti circa la propria presenza e i propri movimenti nei giorni intorno alla data dell’attentato. Uno dice che era lì, l’altra dice che era là, poi una cambia idea per allinearsi alla verità dell’altro, e così via. E dunque? E dunque, siccome gli imputati non hanno provato che erano altrove a fare altro, vuol dire che erano a Bologna a fare la strage. Funziona così, insomma: 1) Io non ho la prova che eravate lì. 2) Voi però dite cose contraddittorie su dove eravate. 3) E allora è gioco forza che eravate lì. Questa è la sentenza che in nome del popolo italiano ha detto giustizia sulla strage di Bologna e sulla responsabilità di quei tre. Questa è la sentenza che “non si può commentare”, se non rendendosi colpevoli di oltraggio alle vittime e di vilipendio del verbo giudiziario. Stragisti, punto e basta. Perché la magistratura ha provato che hanno fatto la strage? No: perché loro non hanno provato di non averla fatta.
Iuri Maria Prado 9 Agosto 2023
Parla l'avvocato Steccanella. Ecco perché Fioravanti, Mambro e Ciavardini sono innocenti: “La sentenza è illogica, non sta in piedi”. Ugo Maria Tassinari su L'Unità l'8 Agosto 2023
“Marcello De Angelis ha parlato a titolo personale, mosso da una storia familiare che lo ha segnato profondamente e nella quale ha perso affetti importanti”. Il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca ha così motivato il no alla richiesta di dimissioni avanzata dal leader del Pd, Eddy Schlein. Il responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio – che l’altro giorno, in un post su Facebook, si era dichiarato certo dell’innocenza di Fioravani, Mambro e Ciavardini per la strage di Bologna 1980 – resta al suo posto: “essendo il dialogo il faro del mio operato, valuterò con attenzione nei prossimi giorni il da farsi, solo dopo averlo incontrato”.
Su questa essenziale questione di libertà – il diritto di criticare la verità storica di una sentenza senza rischiare il posto di lavoro – abbiamo sentito un avvocato, Davide Steccanella, difensore di terroristi (Cesare Battisti) e grandi banditi (Renato Vallanzasca) ma anche autore di importanti testi storici sulla lotta armata e i movimenti rivoluzionari.
“L’Italia è uno strano Paese – osserva Steccanella – dove può accadere che nei confronti delle sentenze passate in giudicato sui due fatti più significativi del decennio dei ’70 (Moro e strage di Bologna) vi sia diffuso scetticismo su quelle che ci hanno azzeccato (il primo fatto) e non su quelle (il secondo fatto) che invece non convincono per nulla. La sentenza “base” definitiva su Bologna è quella della Cassazione a Sezioni Unite del 23 novembre 1995 che ha condannato Mambro e Fioravanti. Sia in questo iter processuale sia nel successivo contro il minorenne Ciavardini c’è stata assoluzione in un grado di giudizio. Già questo iter altalenante di decisioni opposte da parte di diverse Corti di Assise, sulla cui “ragionevolezza” non è dato di dubitare, pare incrinare quel principio cardine di assenza di dubbio alcuno per pervenire a condanna che sorregge l’articolo 533 del codice di rito”.
In molti, anche a sinistra, sono convinti che la storia dei Nar, pur feroce e sanguinosa, sia incompatibile con lo stragismo.
Infatti. Il “problema” è che i militanti NAR erano certamente di provenienza romano-fascista, ma poi il loro spontaneismo armato con cui si muoverà la loro (limitata) organizzazione non aveva nulla a che vedere con trame nere o con lo stragismo di Stato e di poteri occulti che hanno insanguinato per anni, impuniti, il nostro paese. La loro condanna (palesemente sbagliata perché basata su motivazioni illogiche e prive di alcun serio supporto probatorio) che in tanti oggi difendono, Mattarella per primo, non rende affatto di “matrice fascista” la strage di Bologna. Basterebbe leggere la storia del NAR… Sia chiaro che non li difendo: di omicidi orrendi ne hanno commessi a iosa, però le “verità di comodo” mi hanno sempre infastidito, preferisco arrivarci (magari sbagliando) con la mia testa.
Può provare a spiegare in estrema sintesi perché le condanne non “funzionano”?
Cominciamo col dire che: 1) manca totalmente l’individuazione di un movente attribuibile ai due, 2) la bomba si pone in totale contrasto con l’intera storia militare (accertata) precedente dei NAR e con quella successiva. 3) si tratterebbe dell’unica azione dei NAR non nota neppure al principale pentito (tra i tanti) di quell’organizzazione (Cristiano Fioravanti), il quale, pur avendo raccontato ogni frammento della sua militanza nel gruppo armato del fratello, su questa vicenda ha sempre smentito vi sia stato alcun coinvolgimento. Venendo più nel dettaglio alla sentenza Marvulli, si legge testuale che la condanna poggia su 4 prove: 1) le dichiarazioni di Massimo Sparti; 2) il movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli; 3) l’annullamento di un appuntamento a Venezia il giorno prima da parte di Luigi Ciavardini; 4) la scarsa attendibilità dell’alibi offerto dagli imputati. Bene, ciascuno e tutti e quattro questi elementi sono inconsistenti, non collegati tra loro e contraddittori.
In conclusione…
Va ricordato che nessun elemento collega i due condannati all’ordigno, non si sa dove lo avrebbero preso e da chi e in nessuno dei tanti ritrovamenti di basi e armamentario NAR si sono trovate tracce analoghe a quell’arma micidiale che sarebbe quindi stata usata per la prima e unica volta e solo quel giorno, facendo sempre tutto da soli Mambro, Fioravanti e un minorenne.
Quindi è legittimo criticare quella sentenza?
Sono un avvocato per cui rispetto il valore delle sentenze ma ritengo legittimo diritto di ogni cittadino quello di commentare le motivazioni pubbliche di condanne per episodi di straordinaria gravità che hanno contrassegnato la storia del nostro paese senza per questo dovere essere messi alla gogna e tanto meno accusati di simpatie filo fasciste. Il nostro ordinamento democratico prevede appunto che il giudice dia conto in motivazione delle ragioni per le quali un imputato è stato ritenuto colpevole di un certo fatto e la lettura delle varie sentenze che si sono succedute per la strage di Bologna non mi ha mai convinto per vari motivi che ho cercato più volte di spiegare. Come ha ricordato di recente anche Sergio D’Elia ci sono state nella storia anche condanne ingiuste perché la giustizia è amministrata dagli uomini che sono per definizione fallibili.
Ugo Maria Tassinari 8 Agosto 2023
La memoria...“Mambro e Fioravanti, e se fossero innocenti?”, l’autogol di Bonelli e D’Amato sulla strage di Bologna e la solita ipocrisia della sinistra. Annarita Digiorgio su Il Riformista l'11 Agosto 2023
Chiariamo una cosa in premessa. Chi scrive non vuole mettere in dubbio la matrice neofascista della strage di Bologna. Tocca scriverlo perché questo è il livello del dibattito cui siamo costretti. Le sentenze definitive infatti, vanno applicate e rispettate, ma è possibile certamente discuterle, essendo scritte da giudici, uomini, fallibili per definizione. Il successo del podcast sul processo per l’omicidio di Marta Russo, seguitissimo a sinistra, ne è una prova. Ma allora se nessuno, non qui, vuole mettere in dubbio la matrice neofascista, perché andare oltre, alimentando il dubbio? Perché una sentenza è passata dalla carne viva, dall’animo, e dalla storia delle persone. Che in questo caso hanno già finito di scontare la pena, quindi qualunque dibattito non influenza la loro condizione giuridica. Forse solo quella umana.
È vero che ci sono esponenti di destra che non hanno mai cambiato idea sull’innocenza di Mambro e Fioravanti. Ma è vero pure che ci sono esponenti di sinistra che l’hanno cambiata eccome.
Ad esempio Alessio D’Amato, consigliere regionale oggi di Azione, che qualche mese fa è stato il candidato presidente del Lazio di tutto il centrosinistra (senza 5stelle) voluto dal Partito Democratico. Oggi Alessio D’amato tuona “Presidente Rocca, prenda le distanze dal suo portavoce De Angelis. Le sue parole sono un affronto ai familiari delle vittime della strage neofascista di Bologna e alla verità giudiziaria. Non trascini l’istituzione regione in questo affronto storico” e ancora “da Rocca un silenzio assordante, capisco l’antico e cameratesco sodalizio ma Rocca si ricordi di fare il Presidente e di non trascinare la Regione in questa vergognosa riscrittura della storia”. Eppure Alessio D’Amato, che era consigliere regionale già nel ’95, è tra i firmatari della famosa mozione, ricordata in questi giorni, approvata all’unanimità dal consiglio del Lazio durante la presidenza di centrosinistra di Pietro Badaloni, con cui si chiedeva la revisione del processo.
Il documento chiedeva che “La Commissione Parlamentare di inchiesta sulle stragi dia luogo alle necessarie audizioni per acquisire le dichiarazioni dei testimoni a difesa di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, che non sono stati ammessi nel dibattito processuale; che esamini con una ulteriore serie di audizioni tutti gli elementi di contraddizione dell’impianto accusatorio che ha portato alle condanne di Mambro e Fioravanti, partendo dalle motivate obiezioni proposte dal comitato. E se fossero innocenti?; e di riesaminare tutti gli elementi di collegamento che sussistono tra la strage di Ustica e quella di Bologna”.
La mozione fu firmata anche da Angelo Bonelli, anche lui in consiglio regionale nel ’95. Che oggi invece, leader dei Verdi, tuona “Quello che sta accadendo in Regione Lazio è veramente indecente, indecente per la storia del nostro Paese ed è anche un’assenza totale di rispetto per le nostre istituzioni, a partire dalla Presidenza della Repubblica. De Angelis si deve dimettere oppure il presidente della Regione usi lo strumento della revoca dell’incarico a questa persona che nega eventi storici e le sentenze dei tribunali della Repubblica italiana”. Ma lui all’epoca non metteva in dubbio la sentenza?
“Solo pochi giorni fa, alla Camera, è stata approvata una mozione della maggioranza in cui si chiede l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla strage per indagare su una pista palestinese, senza mai nominare la matrice neofascista. È inammissibile che, in Italia, chi riveste cariche istituzionali possa tentare di riscrivere la storia introducendo dubbi completamente infondati, come quelli sollevati da De Angelis. La verità – conclude Bonelli – è chiara e riconosciuta da tutti: sia il Presidente della Repubblica Mattarella che le sentenze dei nostri tribunali hanno stabilito inequivocabilmente una matrice neofascista e piduista dietro la Strage alla Stazione di Bologna”. Ma quindi Bonelli ha dimenticato cosa aveva firmato nel ’95?
E all’epoca a pensarla come Bonelli e D’Amato, sin dal principio, sono stati soprattutto esponenti di sinistra. Tra loro però certamente non c’è, a differenza di quanto qualcuno ha riportato in questi giorni, Massimo D’Alema. Il nostro non è mai stato garantista, se non pro domo sua. Bensì esponente di quella contiguità tra il Pci e la magistratura, tra i ds e md. D’Alema può essere accusato di intelligenza col nemico per patti d’affari (politici), mai per onestà intellettuale. E infatti all’indomani della sentenza del 19 luglio 1990, quando la Corte di assise di appello di Bologna assolse Mambro e Fioravanti, L’Unità che all’epoca era guidata proprio da D’Alema, pubblicò la sua prima pagina completamene bianca, in segno di protesta con i giudici. Mentre il Manifesto, che era diretto da Valentino Parlato, titolò: «Lo scandalo di una sentenza giusta».
L’Unità tornerà dubbiosa con Furio Colombo, che ancora oggi conferma quei dubbi. Come li conferma e mantiene Luigi Manconi. Che è stato citato da Andrea Orlando ma con un taglia e cuci. Delude infatti la posizione dell’ex guardasigilli che pure non appartiene alla corrente dalemianbersaniana della “ditta” ma a quella più nobile, migliorista, e certamente garantista, di Giorgio Napolitano e del compianto Emanuele Macaluso, ma che oggi sottolineando la mancata dissociazione della destra, evita di citare il dubbio della sinistra. Ma perché una tradizione politica che a lungo ha alimentato il dibattito sulle responsabilità della strage di Bologna, oggi mette al rogo chi osa riaprirlo?
Questo è forse l’errore che oggi consegniamo alla storia, e alla politica. Aver lasciato solo la destra a nutrire i dubbi (che per loro sono certezze) ha fatto sì che oggi chi li esprime diventi direttamente “fascista”, e chi ne aveva preferisce rimangiarseli piuttosto che contribuire alla verità. Cui solo la decretazione degli atti contribuirà.
Noi non vogliamo riscrivere le sentenze, noi non conosciamo la verità. Ma sappiamo che tanti politici di sinistra che in questi giorni hanno attaccato Rocca lo hanno fatto forse per ragioni diverse da quelle espresse pubblicamente. E Bonelli e D’Amato prima di attaccare gli avversari farebbero bene a rileggere ciò che loro stessi dicevano. Annarita Digiorgio
La coerenza non è un obbligo. Tutti indignati per le parole di De Angelis, ma 30 anni fa nessuno credeva alla colpevolezza di Mambro e Fioravanti. Piero Sansonetti su L'Unità l'11 Agosto 2023
Leggete questa nota Ansa, poi ne discutiamo. “Il consiglio regionale del Lazio ha approvato all’unanimità una mozione presentata da tutti i gruppi con cui chiede alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi di dar luogo alle necessarie audizioni per acquisire le dichiarazioni dei testimoni a difesa di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, che non sono stati ammessi nel dibattito processuale a Bologna”. Il consiglio ha dato incarico al presidente della giunta (…) di farsi interprete della mozione presso la commissione parlamentare. Sempre all’unanimità è stata approvata un’altra mozione, firmata da esponenti di tutti i gruppi, dal titolo: “E se fossero innocenti?”. Il consigliere regionale dei Verdi Paolo Cento ha detto che “con questo voto il consiglio regionale del Lazio ha voluto positivamente riaprire, al di là degli atti processuali, una pagina che troppo frettolosamente qualcuno si ostina a chiudere sbattendo dei mostri in prima pagina”. Cento ha anche annunciato, con i consiglieri Bonelli (Verdi) e D’Amato (Rifondazione comunista) una mozione che “impegna la Regione Lazio a sostenere l’ipotesi di una soluzione politica (amnistia-indulto) per i protagonisti della lotta armata negli anni ’70-’80”.
Interessante, no? Ho messo i puntini sospensivi al posto del nome del Presidente della regione per lasciare un po’ di suspence. Il Presidente non era Rocca, ex Msi, ma Piero Badaloni, candidato del Pds che sconfisse il candidato di Forza Italia Alberto Michelini. Dunque questa nota è abbastanza antica. È del 1995 quando lo spirito pubblico in Italia era ancora abbastanza liberale, e per fare politica non era stato ancora dichiarato obbligatorio un inchino alla magistratura. Tra i protagonisti di quella iniziativa politica, molto impegnata, c’erano però anche dirigenti politici che sono ancora molto attivi. Per esempio Angelo Bonelli, capo assoluto dei Verdi da diversi anni, e Alessio D’Amato, che è stato l’avversario di Rocca alle ultime elezioni di qualche mese fa.
Tutti insieme i partiti, e i consiglieri regionali, guidati dai loro leader dell’epoca, mettevano in discussione la serietà del processo che portò alla condanna di Fioravanti e Mambro (infatti polemicamente chiedevano che fossero ascoltati i testimoni a discarico che il tribunale rifiutò di ascoltare) e avanzavano il dubbio sulla colpevolezza dei condannati. Paolo Cento, leader storico dei Verdi di sinistra, parlava esplicitamente di una pagina che qualcuno voleva frettolosamente chiudere sbattendo il mostro in prima pagina. Mi pare che a voler chiudere la pagina e a sbattere i mostri in prima ora siano in parecchi.
Non risulta che allora lo schieramento democratico si sollevò contro l’iniziativa eversiva della Regione Lazio. E non risulta che nessuno abbia chiesto le dimissioni di Badaloni e l’espulsione dai loro partiti dei leader di sinistra. Quello che mi stupisce di più sono le dichiarazioni torchemadiste rilasciate oggi da alcuni dei protagonisti di allora. Per esempio da Angelo Bonelli: “De Angelis si deve dimettere – ha detto – oppure, se non si dimette, il Presidente della Regione ha lo strumento per revocare l’incarico a questa persona”. E poi ha parlato di dichiarazioni indecenti del collaboratore di Rocca e di disprezzo per le istituzioni, e se l’è presa anche con Giorgia Meloni, che tace e che vuole rovesciare la storia. Uno dice, vabbè, ma la coerenza mica è un obbligo per i politici. Vero. Ma una cosa è cambiare idea sull’età pensionabile, o sul prezzo degli aerei, o persino sulla sanità. Un’altra cosa è pensare che il processo fosse “bacato” a danno degli imputati e poi dire che è una vergogna immaginare che quel processo sia giunto a una soluzione sbagliata.
E poi l’altra cosa che colpisce è l’unanimità. Allora tutti unanimi sulle posizioni di De Angelis. Ora tutti unanimi nel chiedere la sua fucilazione. Diciamo la verità: è una pagina politica brutta brutta.
Piero Sansonetti 11 Agosto 2023
La "glasnost" italiana. Se c'è un baco che corrode la coscienza collettiva di un popolo è il sospetto che la sua Storia sia inquinata. Augusto Minzolini il 3 Agosto 2023 su Il Giornale.
Se c'è un baco che corrode la coscienza collettiva di un popolo è il sospetto che la sua Storia sia inquinata. Ed ancora, è difficile se non impossibile parlare di spirito nazionale senza una memoria condivisa: se esistono due Storie, esistono due popoli. Specie se poi il passato viene utilizzato indirettamente da una parte politica al presente come arma contundente contro gli avversari. È il caso della strage di Bologna: come si può immaginare che ci sia qualcuno che punti oggi nell'arco parlamentare a nascondere, a coprire le responsabilità dei fatti di ieri? Né il passato può diventare un recipiente di veleni del '900, di accuse, di sospetti per alimentare narrazioni e ipotizzare collegamenti fantasiosi tra avvenimenti diversi (la relazione tra le bombe alla stazione del capoluogo emiliano e le bombe di mafia francamente sfugge se non si vuol confondere la Storia con la sceneggiatura di una serie televisiva).
Ecco perché le polemiche che hanno accompagnato l'anniversario della tragedia di Bologna fanno male. Motivo per cui è arrivato il momento di tirar fuori tutto, di promuovere una «glasnost» sugli anni della Prima Repubblica e sui suoi segreti per evitare che quelle ombre si allunghino fino ad oggi. Esiste una verità processuale che individua una matrice «neofascista» della strage. È un fatto. Ma per trasformarsi in verità storica, incontestabile, per corroborarla e far venire meno i dubbi che sono legittimi se si ricerca una verità fattuale e non ideologica, bisogna aprire tutti gli archivi a cominciare da quelli della nostra «intelligence». Bisogna portare alla luce tutti i documenti riguardanti quella vicenda e non solo. Ha iniziato Mario Draghi e ha fatto bene Giorgia Meloni a mostrare gli stessi propositi. Negli Stati Uniti dopo quarant'anni anche la Cia desecreta i suoi documenti, vale la pena farlo anche da noi. Fino in fondo. Senza timori ma anche senza pregiudizi e letture precostituite dei fatti.
Fatti che appartengono ad un tempo della Repubblica ormai lontano. Ad una fase costruita su riferimenti che ormai non esistono più. Aprire le finestre e fare luce per liberare l'atmosfera del nostro Paese dalla polvere tossica dei mondi che appartenevano allo scenario e alle logiche del muro di Berlino, non è un'opzione è un obbligo per arrivare a una democrazia compiuta liberata dai sospetti e dai ricatti. Poi ci saranno altri segreti, quelli arrivati dopo, ma se non ci liberiamo di quelli del passato remoto il fardello potrebbe diventare troppo pesante per qualsiasi Paese che non sia retto da un regime. Solo che questa operazione deve essere fatta tutti insieme, non condizionata da una polemica strisciante di una parte armata contro l'altra, perché altrimenti non si arriverà ad una verità condivisa. E, ripeto, se esistono due Storie, esistono due popoli e due nazioni.
Strage 2 Agosto Bologna, ergastolo a Gilberto Cavallini in appello. Andreina Baccaro su Il Corriere della Sera il 27 settembre 2023
Cavallini era stato condannato in primo grado nel gennaio del 2020 al carcere a vita, pena che la Procura generale aveva chiesto di confermare
L’ex Nar Gilberto Cavallini è colpevole per la strage di Bologna anche per la Corte d’Assise d’Appello che ha confermato la sua condanna all’ergastolo. Dopo sette ore di camera di consiglio, il presidente Orazio Pescatore ha pronunciato la sentenza nell’aula Bachelet, quella stessa aula che vide i Nar sfilare nella gabbia di legno durante i primi processi degli anni ‘80, sotto gli sguardi di dolore di centinaia di familiari e superstiti a cui la bomba aveva portato via familiari e anni di vita. Cavallini non era in aula.
La Strage di Bologna e le 85 vittime: nuova condanna per Cavallini
Oggi 70enne, si trova in semilibertà nel carcere di Terni. Era stato condannato in primo grado nel 2020, a distanza di 40 anni dai fatti, per concorso nella strage di Bologna insieme a Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini, condannati anche loro ma ormai liberi dall’inizio degli anni 2000. A pesare sulla condanna di Cavallini, all’epoca il più grande dei neofascisti ragazzini, il fatto che proprio a casa sua a Villorba di Treviso avessero alloggiato nei giorni prima e dopo la strage gli altri Nar, la mancanza di un alibi, o meglio di un alibi ritenuto falso, e poi nuovi indizi portati alla luce dagli inquirenti, come un numero di telefono riconducibile a un ufficio riservato della Nato a Milano in cui gravitavano personaggi dei servizi segreti deviati.
La precedente condanna a Paolo Bellini
Tra le due sentenze, c’è stata poi la condanna in primo grado di Paolo Bellini, ex di Avanguardia nazionale ritenuto il quinto uomo del commando che portò a compimento la strage, finanziato dai soldi della P2 di Licio Gelli. I due hanno sempre detto di non conoscersi dichiarandosi innocenti, ma nell’agenda di Cavallini è stato ritrovato un appunto su un «Giorgio Bellini», camerata da sostenere perché in carcere, con gli estremi di un procedimento penale proprio di Paolo Bellini.
La nuova sentenza per «strage con finalità eversive»
In parziale riforma della sentenza di primo grado, che per un difetto nel capo di imputazione aveva condannato l’ex Nar per strage comune, la Corte d’Assise d’Appello lo ha invece ritenuto colpevole di strage con finalità eversive, accogliendo le richieste della Procura generale.
TERRORISMO E SEGRETI DI STATO. L’accusa dei giudici: una Gladio nera dietro la strage di Bologna. Paolo Bellini pedina di una centrale eversiva occulta. L’ultima sentenza svela il «livello superiore»: i terroristi di destra venivano «usati e coperti da ufficiali dei servizi manovrati dalla P2». Il neofascista condannato in primo grado per l’eccidio del 2 agosto 1980, è stato «protetto per tutta la sua carriera criminale», da killer nero a sicario della ‘ndrangheta. E i depistaggi continuano ancora. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 agosto 2023
Paolo Bellini, con il fotogramma del filmato che secondo l’accusa lo ritrae alla stazione di Bologna all’ora della strage, all’ultima udienza prima della sentenza, il 6 aprile 2022.
Perché una parte della destra non può dire la verità sulla strage di Bologna? Per quali motivi la premier Giorgia Meloni e altri esponenti di Fratelli d’Italia non hanno voluto riconoscere neppure dopo 43 anni, nel giorno della commemorazione delle 85 vittime, che l’eccidio del 2 agosto 1980 fu commesso da terroristi neofascisti? Come mai Marcello De Angelis, già vicecapo del gruppo armato Terza Posizione, oggi portavoce del presidente della Regione Lazio, continua a difendere non solo il cognato, Luigi Ciavardini, ma anche Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i killer dei Nar, condannati in tutti i gradi di giudizio, che confessarono di aver ucciso perfino loro camerati?
Una risposta logica, non definitiva ma molto documentata, si può trovare nell’ultima sentenza sulla strage di Bologna. È il verdetto di 1.704 pagine che ha condannato all’ergastolo, in primo grado, Paolo Bellini, un criminale con una storia impressionante: negli anni del terrorismo era un killer neofascista, latitante in Italia con una falsa identità brasiliana, e nel ventennio successivo è diventato un sicario della ’ndrangheta, reo confesso di almeno undici omicidi, e un infiltrato dello Stato in Cosa Nostra.
Nelle motivazioni depositate tre mesi fa, i giudici concludono che Bellini fu «certamente» uno degli esecutori della strage, ma era «una pedina» che obbediva a «un livello superiore»: «una rete eversiva e occulta», più segreta di Gladio, composta da «militari ed esponenti dei servizi segreti deviati, che seguivano le direttive dei vertici della loggia P2». La ricostruzione giudiziaria fa luce per la prima volta anche sulle coperture politiche della latitanza di Bellini, prima e dopo la strage, che secondo la sentenza furono garantite da almeno tre parlamentari del Movimento sociale italiano (Msi): lo storico partito da cui sono nati An e poi FdI, che ne conserva il simbolo della fiamma tricolore. Per dirla in breve, la sentenza più completa sulla bomba alla stazione, dove si concentrano i risultati di 43 anni di indagini e processi, sembra un vaso di Pandora, che può spargere veleni anche nel pantheon della destra di oggi.
I giudici di Bologna documentano con dovizia di prove che il quinto neofascista condannato per la strage è stato protetto da apparati deviati dei servizi fin dal primo omicidio. Nel giugno 1975 a Reggio Emilia viene assassinato uno studente di sinistra, Alceste Campanile. Il depistaggio è immediato: già la mattina dopo, un fonogramma anonimo del Sid indirizza le indagini verso una falsa «pista rossa», interna a Lotta Continua. La velina dei servizi diffama la vittima, insinuando legami inesistenti con le Brigate rosse, e viene pure mostrata al padre, che per anni perseguita gli amici innocenti di suo figlio. L’omicidio viene confessato da Paolo Bellini, come killer neofascista di Avanguardia nazionale, più di trent’anni dopo, quando non è più punibile grazie alla prescrizione.
Bellini commette altri reati violenti, tra il 1974 e il 1976, per questioni personali e familiari: un tentato omicidio e due attentati esplosivi contro studi professionali, che lui stesso ricollega alla figura autoritaria del padre. Aldo Bellini, ex paracadutista, aveva «rapporti assidui con politici missini e ufficiali dei servizi», scrivono i giudici nella sentenza. Anche il figlio Paolo conferma che era legato a «militari di estrema destra» e a un loro referente politico, il senatore Franco Mariani, che lo mandarono anche all’estero, in nazioni controllate da dittature, a incontrare ufficiali dei servizi stranieri: missioni riservate che, a loro dire, venivano richieste dal leader storico del Msi, Giorgio Almirante. Bellini aggiunge che già in quel periodo il padre gli chiese più volte di entrare nei servizi, ma lui giura di aver rifiutato.
Ricercato dal 1976, Bellini riesce a scappare in Brasile, allora governato da un regime militare, dove viene registrato all'anagrafe di Rio De Janeiro con il falso nome di Roberto Da Silva, con una procedura assurda: una semplice autocertificazione, controfirmata da un altro neofascista italiano, anche lui in fuga con generalità fasulle. Quindi Bellini ottiene un vero passaporto brasiliano, intestato a Da Silva, e rientra in Italia, dove vive indisturbato per quattro anni, anche se è latitante. Nel 1977 viene ammesso all’aeroclub di Foligno e ottiene il brevetto di pilota. A presentarlo è il solito senatore Mariani, che fa intervenire un onorevole missino di Foligno, Stefano Menicacci: lo storico avvocato di Stefano Delle Chiaie, il leader di Avanguardia nazionale.
A raccomandare quel «brasiliano con l’accento reggiano» è un altro senatore del Msi, Antonio Cremisini. Dal 24 maggio 1978 Bellini inizia a trasportare in aereo anche un magistrato di alto rango, Ugo Sisti: il procuratore capo di Bologna.
A Foligno il finto Da Silva ottiene con procedure «anomale» una lunga serie di visti, permessi e addirittura il porto d’armi. L’avvocato Menicacci, sentito nell’ultimo processo, ha giurato di non aver mai sospettato che quel brasiliano fosse in realtà un latitante neofascista italiano, ma si è visto accusare di falsa testimonianza. A fine luglio Menicacci è finito pure agli arresti domiciliari, a 91 anni, con l’accusa di aver orchestrato altre false testimonianze a favore di Delle Chiaie, questa volta per ostacolare le nuove indagini siciliane sulle stragi mafiose del 1992-1993.
Per ricostruire «il livello superiore», i giudici trascrivono molti verbali e sentenze sui terroristi neri protetti dai servizi segreti, ma anche l’interrogatorio di un vecchio amico e socio di Bellini, l’antiquario Agostino Vallorani: «Paolo mi raccontò della sua appartenenza a uno strano e per me altamente pericoloso mondo dell’estrema destra. Mi disse che aveva fatto parte di gruppi incaricati, in caso di colpo di Stato, di prelevare dalle loro abitazioni i comunisti di Reggio Emilia per segregarli in uno stadio».
Il 2 agosto 1980 Bellini, ancora sotto falso nome, è in stazione a Bologna quando esplode la bomba: lui lo nega, ma è stato ripreso in un filmato, identificato dalle perizie e riconosciuto anche dall’ex moglie, che ha fatto crollare il suo alibi. All'alba del 4 agosto, due giorni dopo la strage, la polizia perquisisce l’albergo del padre Aldo, dove spunta il procuratore Sisti, che ha dormito lì, anche se l’hotel è chiuso. Con loro c’è l’avvocato di famiglia, che è nipote del senatore Mariani.
Ugo Sisti viene poi indagato per favoreggiamento, ma è prosciolto. Il magistrato si difende sostenendo che il suo amico Aldo gli nascose di avere un figlio latitante. E giura di non aver mai sospettato che fosse il suo pilota brasiliano. Oggi a smentirlo è lo stesso Paolo Bellini, che ai giudici racconta: «Una settimana dopo la strage, nell'agosto 1980, incontrai Sisti e mio padre, che mi chiesero di entrare nei servizi. Ma io non ve volli sapere».
Il procuratore aveva rapporti strettissimi con i vertici piduisti dei servizi segreti militari (Sismi). E ha organizzato almeno tre manovre per screditare le indagini sui neofascisti e accreditare «false piste internazionali», pochi giorni dopo un’identica richiesta rivolta personalmente dal capo della P2, Licio Gelli, a un ufficiale piduista dei servizi, che gli ha obbedito. Il 26 settembre 1980 Ugo Sisti viene nominato direttore del Dap, cioè capo delle carceri, dal dimissionario governo Cossiga. E in questa veste, nel maggio 1982, toglie al Sisde e assegna al Sismi l’autorizzazione a trattare in carcere con il boss della camorra, Raffaele Cutolo, per far liberare l’assessore democristiano Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate rosse e poi rilasciato dopo il pagamento di un riscatto. Il generale che fu autorizzato da Sisti a trattare con il camorrista è il suo amico Pietro Musumeci, affiliato alla P2, poi condannato insieme con Gelli per i depistaggi di stampo terroristico del gennaio 1981.
Bellini viene arrestato il 15 febbraio 1981 a Pontassieve, con un complice, su un furgone carico di opere d'arte e mobili antichi, che risultano rubati in Toscana, ma resta in carcere sotto falso nome. Il 31 dicembre una fonte del Sisde rivela che il finto brasiliano è in realtà Bellini, ma la notizia viene dichiarata «segreto di Stato» e tenuta nascosta. Il neofascista viene smascherato solo nel marzo 1983, dopo l’ennesima copertura. Per accertarne l'identità, i carabinieri chiedono al distretto di Modena, dove Bellini ha fatto il militare, le sue impronte digitali, che però sono sparite dal fascicolo. Vengono ritrovate, nascoste in un cassetto, nell'ufficio di un colonnello dell'esercito. Che però non conosce Bellini, come evidenziano i giudici, per cui è logico pensare che abbia «obbedito a ordini superiori».
Scarcerato nel dicembre 1986, Bellini torna in cella nel gennaio 1988, con l'accusa di aver assassinato Giuseppe Fabbri, il fiorentino che era stato arrestato con lui a Pontassieve. L'antiquario Vallorani (che lo aveva conosciuto proprio tramite Fabbri) testimonia di aver misurato l'efficacia delle sue protezioni nel 1990, quando Bellini riuscì a farsi assolvere per quel delitto e per altri reati legati ai traffici di opere d'arte. Solo nel 1999, dopo l'arresto come sicario della 'ndrangheta, Bellini si accredita come pentito di mafia e a quel punto confessa anche l'omicidio di Fabbri, che resta comunque impunito, perché ormai era stato assolto in via definitiva.
Dall’aprile 1991 all’autunno 1992 Bellini si infiltra anche in Cosa Nostra, per conto di un maresciallo dei carabinieri (presentatogli da Vallorani) che cerca di recuperare opere d’arte rubate. In Sicilia incontra Antonino Gioè, un boss poi condannato per la strage di Capaci, che era stato in carcere a Sciacca insieme al falso «pilota brasiliano». Ed è Bellini proprio a suggerire a Cosa Nostra la strategia di attacco ai beni culturali, poi realizzata dalla mafia nel 1993, con gli attentati più misteriosi. Gioè muore in carcere il giorno dopo la strage di via Palestro, in un apparente suicidio molto anomalo, lasciando una lettera che definisce Bellini «un infiltrato dei servizi».
In quei mesi, mentre sembra lavorare per lo Stato, l’ex neofascista è già diventato un killer della ’ndrangheta. Scoperto e arrestato sette anni dopo, si accredita come pentito e confessa di aver commesso, dal 1990 al 1999, otto delitti, due tentati omicidi e un attentato esplosivo con decine di feriti in un bar di Reggio Emilia.
Oltre a Bellini, nella stazione di Bologna, alle 10.25 del 2 agosto 1980, c’era un altro latitante legato all'estrema destra, Sergio Picciafuoco, allora ricercato per furti e truffe. Ferito dalla bomba, si è fatto curare in ospedale sotto falso nome. Viene inquisito quando le indagini mostrano che ha mentito sulle ragioni della sua presenza in stazione (e sul mezzo usato per arrivarci) e che ha nascosto i suoi rapporti con Terza Posizione. Condannato in primo grado come possibile esecutore, viene poi assolto per insufficienza di prove, in via definitiva. Ora, nella nuova sentenza di Bologna, i giudici scrivono che quell'assoluzione fu un errore. Si fondava sulla presunta assenza di rapporti tra Picciafuoco, gli stragisti neofascisti e i servizi deviati che li proteggevano. Le nuove indagini hanno però documentato che quel latitante usava, anche a Bologna, un falso documento creato dai servizi segreti. Una carta d'identità con un nome particolare (Eraclio Vailati), che era stata fabbricata da un falsario di fiducia di due ufficiali piduisti (che per la sua bravura lo chiamavano in codice «Raffaello»).
Con quella e altre false identità, tutte legate ai servizi, Picciafuoco riuscì a farsi rilasciare in poche ore, per due volte, perfino dopo essere stato fermato a un posto di blocco in Alto Adige su un'auto rubata, mentre era latitante. I giudici di Bologna fanno notare che la carta d'identità di copertura usata da Picciafuoco faceva parte di un lotto di falsi documenti dei servizi, che furono distribuiti anche ad altri neofascisti di Terza Posizione, la stessa organizzazione del condannato Ciavardini.
Picciafuoco oggi risulta legato anche a una sigla nera (“Mia”) che organizzava attentati dinamitardi in Alto Adige. E ha avuto rapporti pericolosi e inconfessabili anche con Bellini. Il 12 ottobre 1990, da poco assolto, è andato a Reggio Emilia a chiedergli un pacco di soldi in contanti e una pistola, dicendogli: «Tu puoi farmela avere, perché sei uno dei servizi». Bellini ammette l’incontro, ma giura di averci litigato, urlandogli: «Sei tu il provocatore, sei tu che eri nel Mia».
I giudici concludono che entrambi erano legati ai servizi. Ed evidenziano, tra i tanti riscontri, un doppio indizio che li accomuna. Il 22 luglio 1980, dieci giorni prima della strage, Bellini fu bloccato in Svizzera con un apparato ricetrasmittente del tipo allora in uso a forze militari o servizi segreti, che per i civili era illegale, per cui gli sequestrato dalla polizia elvetica. Nel maggio precedente, anche Picciafuoco era stato fermato, in Alto Adige, con un apparecchio analogo, della stessa marca.
Sergio Picciafuoco è morto nel marzo 2022. Al processo ha negato tutto, perfino i suoi verbali passati. Ha ammesso però di essere diventato amico, in carcere, di Carlo Maria Maggi: il capo di Ordine Nuovo nel Triveneto, condannato come organizzatore della strage di Brescia insieme a uno degli esecutori, un neofascista che veniva pagato dai servizi come fonte.
Nel 1996, mentre era ai domiciliari, Maggi ha rivelato ai familiari cosa ha saputo sulla strage di Bologna: «Sono stati loro, Fioravanti e Mambro». E ha aggiunto che la bomba fu portata da un «aviere», figlio di «uno dei nostri». Per i giudici è un chiaro riferimento al «pilota» Bellini. Quando l’intercettazione viene trascritta a Bologna, però, la parola «aviere» scompare: diventa «corriere». Giudici e giurati, a quel punto, la riascoltano più volte: Maggi dice chiaramente «aviere». Quindi i tre periti ammettono di aver usato «un filtro» per «eliminare i rumori di fondo», che ha distorto «per errore» la parola cruciale. Ora la sentenza li accusa di falsa perizia.
(ANSA mercoledì 2 agosto 2023) - "Giungere alla verità sulle stragi che hanno segnato l'Italia nel Dopoguerra passa anche dal mettere a disposizione della ricerca storica il più ampio patrimonio documentale e informativo.
Questo governo, fin dal suo insediamento, ha accelerato e velocizzato il versamento degli atti declassificati all'Archivio centrale dello Stato e li ha resi più facilmente consultabili, completando quella desecretazione che era stata avviata dai governi precedenti". Lo dichiara la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ricordando la strage di Bologna.
"Il 2 agosto 1980 il terrorismo ha sferrato all'Italia e al suo popolo uno dei suoi colpi più feroci. Sono trascorsi 43 anni ma, nel cuore e nella coscienza della Nazione, risuona ancora con tutta la sua forza la violenza di quella terribile esplosione, che disintegrò la stazione di Bologna e uccise 85 persone e ne ferì oltre duecento.
Nel giorno dell'anniversario rivolgo ai famigliari il mio primo pensiero. A loro va vicinanza, affetto, ma anche il più sentito ringraziamento per la tenacia e la determinazione che hanno messo al servizio della ricerca della verità, anche attraverso le associazioni che li rappresentano, in costante contatto con la Presidenza del Consiglio". Così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ricordando la strage di Bologna.
(ANSA mercoledì 2 agosto 2023) - Fischi sono partiti dalla piazza della stazione di Bologna quando il presidente dell'associazione delle vittime della Strage del 2 agosto ha citato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. "Un ministro della Repubblica, per proteggere degli efferati terroristi, mente spudoratamente al Parlamento", aggiunge. "Una vera vergogna! Che squalifica anche il ruolo del Parlamento stesso", ha detto Bolognese, raccogliendo gli applausi.
(ANSA mercoledì 2 agosto 2023) - "La ricerca della verità completa è un dovere che non si estingue, a prescindere dal tempo trascorso. E' in gioco la credibilità delle istituzioni democratiche. La città di Bologna, sin dai primi minuti dopo l'attentato, ha mostrato i valori di civiltà che la animano.
E con Bologna e l'Emilia-Romagna, l'intera Repubblica avverte la responsabilità di difendere sempre e rafforzare i principi costituzionali di libertà e democrazia che hanno fatto dell'Italia un grande Paese". Lo scrive il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell'anniversario della strage di Bologna.
Nordio, Strage di Bologna fu neofascista, ferita aperta. Estratto dell’articolo di Tommaso Romanin per l’ANSA mercoledì 2 agosto 2023.
Passa il tempo e se la verità giudiziaria, seppur a distanza di anni e non ancora in via completamente definitiva, ha accelerato nell'indicare le responsabilità di esecutori e mandanti, la Strage del 2 agosto 1980, 85 morti e 200 feriti, continua ad accendere le tensioni. Complice anche il fatto che al governo ora c'è il centrodestra, considerato "più avversario" di altri dai familiari delle vittime.
Alla vigilia del 43/o anniversario e dopo l'attacco del presidente dell'associazione dei parenti, Paolo Bolognesi, il ministro della Giustizia Carlo Nordio sembra così voler gettare acqua sul fuoco: "La strage alla stazione di Bologna è una ferita aperta per tutto il Paese e solo una verità senza zone d'ombra può portare ad un'autentica giustizia", dice, aggiungendo poi parole ancora più chiare: "In sede giudiziaria è stata accertata la matrice neofascista della strage […]".
A Nordio Bolognesi rimproverava un suo intervento, dei mesi scorsi, sul tema dei giudici popolari over 65, un cavillo che ha minacciato il processo di appello a Gilberto Cavallini. Oggi il ministro torna sull'argomento: "E' stato chiarito che il requisito dei 65 anni, come età massima dei giudici popolari delle Corti d'Assise, deve sussistere soltanto al momento della nomina. Le preoccupazioni di Bologna devono essere fugate in via definitiva". […]
Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” mercoledì 2 agosto 2023.
«Dicono che sono un negazionista perché da anni invoco una commissione d’inchiesta sulle stragi, Bologna compresa. Conosco Francesca Mambro e Giusva Fioravanti certo, ma non sono mai stato neofascista e neppure un nostalgico...».
Federico Mollicone, FdI, presidente della Commissione cultura della Camera, ha fatto infuriare puntualmente anche quest’anno l’associazione dei parenti delle vittime del 2 agosto. Già quando era all’opposizione — come fondatore dell’ intergruppo parlamentare «La verità oltre il segreto» — in barba a tutte le sentenze definitive di condanna dei camerati dei Nar come esecutori materiali della strage e alle inchieste che hanno fatto luce su mandanti e finanziatori (Gelli, Ortolani, D’Amato), Mollicone chiedeva invece di scandagliare la pista internazionale («Il 2 agosto a Bologna erano presenti terroristi stranieri e italiani legati al gruppo di Carlos lo Sciacallo, esperti in trasferimenti di esplosivi, spesso per il Fronte per la Liberazione della Palestina...»).
Adesso, però, Mollicone non è più all’opposizione e con la sua «mozione ufficiale di maggioranza» torna alla carica, sebbene proprio ieri il Guardasigilli Carlo Nordio si sia espresso con chiarezza: «Nordio dice che è stata accertata la matrice neofascista?
Vabbè — chiosa il deputato di FdI — lui è il ministro della Giustizia, normale che si occupi della filiera processuale. Credo però, allo stesso modo, che al ministro stia a cuore il giusto processo. Perciò vada pure avanti la Procura di Bologna, ma nel rispetto di certe garanzie».
[…] «a me non interessa discutere una sentenza, giusta o sbagliata, ma affermare il diritto del Parlamento a ricercare una storia finalmente condivisa di quella che fu la Guerra fredda. Dal Lodo Moro alle stragi. Per questo mi appello alla sinistra...». […] Il 2 agosto del 1980 Mollicone aveva 9 anni: «Ero davanti alla tv con mio padre, quello fu un anno orribile, il 23 novembre poi ci fu il terremoto dell’Irpinia, me lo ricordo meglio perché era il giorno del mio compleanno...».
Strage di Bologna, le condanne definitive per i terroristi neri e le dispute politiche sulle tessere mancanti. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera mercoledì 2 agosto 2023.
Da entrambi i fronti la richiesta di desecretare gli atti
Tre condanne definitive (e interamente scontate; oggi gli ergastolani dichiarati colpevoli sono liberi) e due ancora in attesa del giudizio d’appello, hanno certificato la matrice neofascista della strage di Bologna. Eppure su quell’aggettivo si continua a discutere, e ci si continua a dividere. Tanto più nel primo anniversario celebrato con il partito erede del Movimento sociale italiano alla guida del governo, visto che proprio le sezioni del Msi avevano inizialmente frequentato, negli anni Settanta, i condannati. Entusiasti di sfoderare i saluti romani ai raduni con Giorgio Almirante sul palco.
Sensibilità e dubbi
Ad alimentare le polemiche ha contribuito il fatto che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nata nel 1977, ha evitato di ricordare il marchio nero di quella bomba. A differenza del presidente del Senato Ignazio La Russa, classe 1947 e dunque militante missino di quella stagione e pienamente consapevole del clima dei Settanta in cui sono cresciuti anche i responsabili accertati dalle sentenze; il suo silenzio avrebbe fatto ancor più rumore.
Ma al di là delle differenti sensibilità, e dei pronunciamenti della magistratura, resta il fatto che intorno a quei verdetti non s’è mai diradato l’alone del dubbio. Non solo a destra, giacché ai tempi del comitato «E se fossero innocenti?», negli anni Novanta, c’erano molti nomi e personalità della sinistra ad esprimere perplessità sulla colpevolezza dei condannati. Perché anche senza contare che non ammettevano quel crimine a differenza di tutti gli altri (e avevano ottimi motivi per farlo, in ogni caso), non tornavano i conti sui ragazzini poco più che ventenni (Valerio Fioravanti e Francesca Mambro; Luigi Ciavardini era addirittura minorenne nell’agosto ’80) divenuti improvvisamente stragisti, e per di più senza mandanti.
Il processo a loro carico infatti, partito con una filiera di intermediari legati al neofascismo della generazione precedente e alle trame piduiste, di grado in grado aveva perso quasi tutti i pezzi, lasciando solo a quei tre la colpa di 85 morti e oltre duecento feriti; altri due «camerati» che avrebbero dovuto fornire l’esplosivo e assistenza sul posto (Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco, presente alla stazione quel 2 agosto) erano stati prima condannati e poi assolti. E il depistaggio organizzato da Licio Gelli con Francesco Pazienza e due ufficiali del servizio segreto militare, pareva piuttosto un impistaggio, poiché dietro la falsa «Operazione terrore sui treni» che indicava una pista internazionale si poteva risalire anche a Fioravanti e ai suoi amici.
Il contesto
Perfino sul supertestimone dell’accusa contro i Nuclei armati rivoluzionari, il falsario romano Massimo Sparti, si sono addensati sospetti mai del tutto fugati di una ricostruzione studiata a tavolino e premiata con una scarcerazione per una malattia terminale che invece l’ha lasciato in vita per molti anni. Dopodiché ai tre «ragazzini» s’è aggiunto un altro ex-Nar più anziano, Gilberto Cavallini, e infine l’ambiguo Paolo Bellini, più vecchio ancora e legato ad Avanguardia nazionale, cioè al neofascismo stragista della generazione precedente. Condannato in un processo dove sono indicati pure i mandanti; Licio Gelli e il banchiere piduista Umberto Ortolani, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato e l’ex senatore missino Mario Tedeschi. Tutti morti.
Così è stata aggiunta qualche tessera al mosaico incompleto, al termine di un giudizio dove sono stati ascoltati storici, giornalisti e studiosi vari della materia, per ricostruire un contesto che vede le diverse sigle del terrorismo nero di due differenti stagioni, riunite in un unico disegno stragista che lega la strategia del 1969, avviata con gli attentati prima della bomba di piazza Fontana, a quella di undici anni dopo. Ma non si è riusciti a dimostrare, ad esempio, che Bellini e Fioravanti si conoscessero; e non è stata trovata prova certa del finanziamento di Gelli ai Nar.
Gli atti desecretati
Pure sulla condanna non definitiva che chiude il cerchio, quindi, c’è chi avanza dubbi. Chiedendo — in questo caso a destra — di accertare la verità anche attraverso i documenti degli archivi segreti non ancora pubblici. Sebbene non sia ben chiaro quali siano, poiché quelli sulla cosiddetta «pista medio-orientale» sono stati svelati e non hanno confermato l’ipotesi alternativa a quella neofascista. Anzi, secondo alcune letture l’hanno esclusa, dal momento che dalle carte emerge come la crisi tra Italia e Fronte popolare per la liberazione della Palestina, fosse stata risolta fin da luglio, dunque prima della strage.
Anche chi non ha dubbi sulla matrice neofascista e sulla colpevolezza dei condannati (e non è detto che le due cose debbano coincidere) auspica ulteriori desecretazioni e nuovi passi verso la verità. Ma per completare quella già disegnata dai verdetti giudiziari, non per sostituirla con un’altra. Non è una differenza da poco, che spiega le divisioni al di là delle richieste all’unisono.
Strage di Bologna: nella mozione del centrodestra scompare la matrice neofascista. Il testo ha come primo firmatario Federico Mollicone (Fdi) per la quale l’origine dell’attentato andrebbe inquadrata nelle dinamiche politiche generate dal cosiddetto "lodo Moro". E Meloni e Piantedosi parlano di “atto terroristico”. Simone Alliva su L'Espresso il 2 Agosto 2023
La strage di Bologna fu una strage neofascista. Ma non per il centrodestra. A metterlo nero su bianco il deputato di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone firmatario della mozione del centrodestra sulla quale non compare alcun riferimento esplicito alla matrice neofascista dell'attentato che il 2 agosto del 1980 uccise 85 persone ferendone oltre 200.
Il testo, visionato per primo dall'Adnkronos, vede il presidente meloniano della commissione Cultura della Camera come primo firmatario. Racconta di un iter processuale che pur avendo "già registrato condanne definitive" non è "ancora concluso".
Si fa riferimento alla cosiddetta "tesi palestinese" o "teutonico-palestinese", da sempre un cavallo della destra per spostare l'asse delle indagini sull'attentato dinamitardo.
Evidenzia così il lavoro delle Commissioni parlamentari, con il quale è emerso "come il cosiddetto 'lodo Moro', ossia l'accordo extra legem tra la cosiddetta diplomazia parallela italiana (affidata a settori dei servizi di informazione e sicurezza) e la dirigenza palestinese, maturato in ambito politico-istituzionale agli inizi degli anni Settanta (in seguito alla strage palestinese alle Olimpiadi di Monaco del 1972) per tutelare gli interessi italiani dalla minaccia di attentati, sia il cuore di molte vicende storico-giudiziarie". Per i firmatari della mozione "occorre, pertanto, che ne siano finalmente chiariti sia le esatte finalità sia i modi di applicazione e le conseguenze che questo patto extra legem determinò sul piano nazionale e nei rapporti internazionali con l'Alleanza atlantica".
Così mentre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricorda al Paese che è stata accertata nei processi la natura neofascista col favore «di ignobili depistaggi e di «agenti infedeli» dello Stato. La mozione della maggioranza di Governo segue l’eco delle parole della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni che fa riferimento ad un «atto terroristico» senza alcun riferimento sulla natura neofascista. Così come il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
«Bene commemorare la strage di Bologna, male i tentativi di riscrivere la storia» ha commentato Marco Furfaro, componente della segreteria nazionale del Partito democratico. «E male pure le parole non dette. La Presidente Meloni ha fatto una dichiarazione in alcuni passaggi molto ipocrita. Non pronuncia mai la parola "neofascista", cioè la matrice accertata della strage. Perché? Che problemi ha con la storia del nostro Paese? Perché non ha il coraggio di pronunciare parole di verità? Mentre i suoi vogliono fare la commissione di inchiesta. Continueremo dire no ai tentativi di revisionismo e di riscrittura della storia, per rispetto delle vittime innanzitutto. E chiederemo anche alla destra di farlo, a partire dalla premier Giorgia Meloni, nonostante silenzi e strafalcioni». Attacchi anche da parte del presidente dell’Associazione nazionale partigiani Gianfranco Pagliarulo: «Negli anni scorsi Giorgia Meloni ha più volte messo in discussione le verità accertate dalla magistratura. Oggi è presidente del Consiglio. La sua ambiguità non è più tollerabile».
Resta, agli atti, una mozione fuori tempo come già raccontato da Paolo Biondani su L’Espresso: «dopo 43 anni di indagini e processi difficilissimi, ostacolati da continui depistaggi di eccezionale gravità, la strage di Bologna non va più classificata tra i tanti dolorosi misteri d'Italia.Il più grave attentato terroristico nella storia della democrazia italiana (85 morti, oltre 200 feriti) è stato eseguito da una banda armata di terroristi neofascisti, con la copertura dei vertici piduisti dei servizi segreti militari e del loro criminale burattinaio Licio Gelli».
La notte nera. Il 2 agosto della stampa democratica e i pasoliniani che ci possiamo permettere. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 3 Agosto 2023
A ogni anniversario della strage alla stazione di Bologna del 1980 c’è qualcuno che chiede un nuovo processo, alludendo a una verità nascosta da presunti complottismi manovrati dagli americani. Una semplificazione giornalistica che per molti aspiranti pensatori è diventata una liturgia
C’è da dire che la spettacolare “contro-Fiuggi” quotidianamente inscenata sul piano ideologico e perfino iconografico dalla fratellanza meloniana – tenendo giusto Giorgia Meloni, Guido Crosetto e un mazzetto di ministri e sottosegretari al riparo da questo permanente sabato dell’orgoglio post-fascista, celebrato a reti e ministeri unificati – rende fin troppo facile il gioco di quella pubblicistica democratica («democratica così!», alla Mario Brega), che si industria da decenni per dimostrare che c’è un unico filo nero a legare tutti i disastri, i delitti e le deviazioni della storia repubblicana.
La tesi è che un grumo di poteri occulti fascisti, mafiosi e amerikani, un po’ con le buone (con i soldi del piano Marshall, con rimbambimento consumistico e con la corruzione economica) e un po’ con le cattive (con le stragi, i depistaggi e la minacciosa incombenza degli apparati dello Stato deviati) avrebbero orientato il corso della politica italiana dallo sbarco degli americani in Sicilia nel 1943 fino allo sbarco dei nipotini del Ventennio prima al Governo, con Gianfranco Fini, poi direttamente a Palazzo Chigi, con Meloni.
E tutto questo sarebbe accaduto proprio per impedire che a vincere fosse l’Italia seria, coraggiosa e progressista – cioè il Partito Comunista italiano e solo il PCI, parlandone da vivo e solo quelli che… «il PCI era comunque una cosa diversa», parlandone da morto e imbalsamato – risoluta a liberare l’Italia da questa cupola politico-criminale e dai suoi soprintendenti fascistico-mafiosi.
Con una onestà che è poi mancata ai suoi epigoni, Pasolini aveva detto chiaramente che questo processo al Palazzo non aveva bisogno di prove, che la «verità politica» della vita nazionale era dimostrata dalla sua stessa congruenza con il presupposto ideologico della diversità comunista e dall’essere il PCI «un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico».
Pasolini scriveva di sapere la verità sui golpe, sulle stragi, e sul «gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista». Non aveva le prove «e nemmeno gli indizi», ammetteva, ma non pensava di averne alcun bisogno, perché per sapere tutto ciò era sufficiente il suo essere un intellettuale «che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».
Ogni 2 agosto, anniversario della strage di Bologna, questo pasolinismo trova una liturgica rinnovazione, più che nella forma del fanatismo profetico in quella di una burocratica bigotteria. Il mettere in dubbio che dalla tortuosa e controversa (a dir poco) storia processuale su questa strage possa uscire una verità inconcussa o un articolo di fede democratica equivale, per i pasolinani che ci possiamo permettere, a una pura e semplice confessione di colpa o di complicità.
Ritenere che il modo in cui Francesca Mambro e Giusva Fioravanti sono stati condannati come esecutori materiali di quella orrenda carneficina tutto possa suscitare, fuorché fiducia nella giustizia e devozione nei suoi responsi, è diventato, parola di modissima, spregevole negazionismo (e lasciamo perdere che pure i nostri pasoliniani di seconda e terza mano su processi di tal fatta abbiano avuto da eccepire, quando non riguardavano i fascisti).
Rimane il fatto che la verità processuale sulla strage di Bologna, anche per chi non ha né nostalgia per i fascisti di ieri né simpatia per i post-fascisti di oggi, può suggerire conclusioni, che chiamano in causa il modo di fare giustizia e informazione, ben diverse da quelle di un sempiterno doppio-fondo o doppio-Stato della politica nazionale.
La notte nera della Repubblica, in cui tutti i cattivi sono neri, Yankee o con la coppola, è un prodotto di consumo giornalistico, non un comandamento civile.
2 agosto, una strage fascista e piduista: la verità su Bologna che la destra rifiuta. Cinque terroristi di destra condannati per l’eccidio del 1980, depistato dai servizi deviati di Licio Gelli, ora indicato come mandante. Ma i camerati rilanciano le «piste estere» risultate false. I familiari delle vittime: «Vogliono coprire le complicità politiche». Paolo Biondani su L'Espresso l'1 Agosto 2023
Una strage fascista con il marchio di potere della P2. A differenza di troppe altre bombe nere, lo spaventoso eccidio del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna non è rimasto impunito. Dopo 43 anni di indagini e processi difficilissimi, ostacolati da continui depistaggi di eccezionale gravità, la strage di Bologna non va più classificata tra i tanti dolorosi misteri d'Italia. Grazie all'intelligenza e alla tenacia di alcuni magistrati, ufficiali di polizia giudiziaria, avvocati di parte civile e familiari delle vittime, ora si conoscono i nomi di molti colpevoli.
Il più grave attentato terroristico nella storia della democrazia italiana (85 morti, oltre 200 feriti) è stato eseguito da una banda armata di terroristi neofascisti, con la copertura dei vertici piduisti dei servizi segreti militari e del loro criminale burattinaio Licio Gelli. Una verità accertata, documentata e comprovata da tutte le sentenze di questi anni, decise da decine di giudici diversi con giurie popolari allargate ai cittadini, che purtroppo vengono rifiutate e screditate ancora oggi da rumorose schiere di negazionisti, con appoggi anche nella destra istituzionale.
«I condannati per aver organizzato ed eseguito la strage sono tutti fascisti italiani», osserva il presidente dell'associazione dei familiari delle vittime, Paolo Bolognesi: «Rilanciare oggi le false piste estere, smentite in tutte le sedi giudiziarie, serve a creare confusione, per nascondere ai cittadini quanto è emerso con prove chiare dagli ultimi processi: il ruolo del capo della P2 come mente organizzativa e finanziaria della strage, il pesante coinvolgimento di personaggi del Msi che hanno aiutato i terroristi di destra, la complicità degli ufficiali dei servizi segreti italiani che sapevano da prima dell'attentato, quando era ancora in preparazione, ma hanno continuato a proteggere i neofascisti, invece di fermarli».
Come esecutori della strage di Bologna sono stati condannati da tempo, con diverse sentenze definitive, tre terroristi neofascisti: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Per primi sono stati identificati e arrestati (dopo mesi di latitanza e altri omicidi) i due capi e killer dei Nar, la coppia che guidava quella sanguinaria banda armata con base a Roma: Fioravanti e Mambro sono stati proclamati colpevoli già nel 1995 dalle Sezioni Unite della Cassazione, il massimo livello di autorevolezza della giustizia italiana.
Poi, in un processo separato, è stato condannato anche Ciavardini, giovanissimo terrorista di Terza Posizione, reclutato nei Nar a soli 17 anni per la strage alla stazione e per altri omicidi politici. Anche i giudici per i minorenni, con la condanna definitiva di Ciavardini come complice, hanno riconfermato la colpevolezza di Fioravanti e Mambro.
Nonostante queste incontestabili verità giudiziarie, i tre stragisti sono stati protetti e difesi per decenni con insistenti e ripetute campagne innocentiste, fondate su illazioni smentite dai processi e dossier rivelatisi falsi, che hanno disorientato l'opinione pubblica, diffamato i giudici migliori, umiliato e indignato i familiari delle vittime. Nell'inerzia di una parte della stessa magistratura, la Procura generale di Bologna negli ultimi anni ha riaperto le indagini sulla P2 e su altri terroristi neofascisti legati ai servizi deviati.
Nel gennaio 2020 è stato stato condannato all'ergastolo, in primo grado, un quarto terrorista di destra, Gilberto Cavallini, un killer nero che era anche l'armiere e tesoriere dei Nar. Cavallini ora attende la sentenza d'appello, prevista per il prossimo autunno. L'ultimo processo si è chiuso nell'aprile 2022 con la condanna in primo grado di Paolo Bellini, già camerata di Avanguardia nazionale e reo confesso dell'assassinio nel 1975 di uno studente di sinistra, poi diventato sicario della 'ndragheta e infiltrato in Cosa Nostra, in contatto con i boss delle stragi di mafia.
Tutti e cinque i condannati si proclamano innocenti. Ma di certo non possono dirsi perseguitati dalla giustizia italiana. A conti fatti, i quattro terroristi dei Nar hanno scontato in carcere molto meno della pena minima (24 anni di reclusione) che in teoria sarebbe imposta dal codice penale per un solo omicidio premeditato, in particolare l'ultimo che avevano commesso prima della strage di Bologna e che dopo l'arresto hanno finito per confessare tutti: l'assassinio del magistrato romano Mario Amato, che indagava sul terrorismo neofascista e in quei mesi di solitudine aveva scoperto i legami dei Nar con la criminalità organizzata, i servizi segreti e la P2.
Amato fu ucciso per strada da Cavallini il 25 giugno 1980, cinque settimane prima della strage, con la complicità di Ciavardini, che guidava la moto. Fioravanti e Mambro, dopo l'arresto, hanno confessato almeno otto omicidi, dichiarandosi innocenti solo per la strage di Bologna. In teoria avrebbero dovuto scontare un cumulo di ergastoli per un totale di almeno 93 delitti. Ma da tempo sono tornati tutti in libertà, approfittando dei benefici di giustizia garantiti (non solo agli imputati, ma anche anche ai condannati) dalle leggi della democrazia italiana dopo il crollo del fascismo.
L'unico in carcere oggi è Bellini: è stato riarrestato a fine giugno, perché secondo l'accusa progettava di uccidere l'ex moglie, che in corte d'assise ha deposto contro di lui, facendo crollare il suo alibi per la mattina della strage, e ora deve vivere sotto scorta. Intercettato a casa sua, dove era agli arresti domiciliari in attesa del processo d'appello, lui stesso diceva di aver già versato 50 mila euro per farla ammazzare. E aggiungeva di voler punire anche il figlio del giudice che ha scritto le motivazioni della sua condanna, di cui aveva spiato la residenza e il lavoro all'estero.
Le ultime indagini della Procura generale, sollecitate da nuove denunce e documenti scoperti dagli avvocati di parte civile, hanno fatto luce, per la prima volta, anche sui possibili mandanti e finanziatori della strage. Licio Gelli, il capo della Loggia P2, morto in libertà nel 2015 nella sua villa ad Arezzo, era già stato condannato in tutti i gradi di giudizio per i depistaggi successivi alla bomba del 2 agosto 1980. Con la stessa sentenza definitiva che ha inchiodato Fioravanti e Mambro, la Corte Suprema di Cassazione spiegava già allora che Gelli è stato l'organizzatore di una lunga serie di manovre per inquinare le inchieste contro la destra eversiva, accreditare false piste estere e coprire i terroristi neofascisti.
Trame gestite da Gelli anche personalmente, a partire dal settembre 1980, e culminate in un depistaggio di stampo terroristico, gestito dai capi del servizio segreto militare, tutti affiliati alla P2: nel gennaio 1981 una cordata di dirigenti del Sismi, guidata dal generale Giuseppe Santovito e dal colonnello Piero Musumeci, fece ritrovare sul treno Taranto-Bologna un carico di armi e di esplosivi identici alla bomba del 2 agosto, accanto a falsi documenti di due fantomatici terroristi stranieri. Un arsenale collocato dagli stessi servizi deviati, come ha riconfermato la Cassazione, proprio per screditare le indagini sui neofascisti italiani e rilanciare le false «piste estere».
Nonostante le condanne definitive di Gelli e degli ufficiali piduisti dei servizi, diversi opinionisti, giornalisti e politici di destra hanno continuato in tutti questi anni a diffondere ipotesi alternative su «piste internazionali» di ogni tipo: palestinese, tedesca, francese, libanese, libica... Le nuove indagini della procura generale, invece, hanno dimostrato, tra l'altro, che la più celebrata pista estera, contro il terrorista rosso Carlos, fu in realtà «pre-confezionata» dai piduisti del Sismi ancora prima della strage di Bologna e fu poi rilanciata da politici e giornalisti di destra che venivano «pagati segretamente dai servizi deviati e dallo stesso Gelli». Eppure, ancora oggi, dal fronte politico negazionista c'è chi invoca addirittura una commissione parlamentare d'inchiesta sulle piste estere: le stesse ormai bollate come falsi storici in tutte le aule di giustizia.
Mentre la classe politica parla d'altro, con rare eccezioni, le nuove indagini sulla P2 hanno superato il primo esame giudiziario: l'ultima sentenza della corte d'assise, quella che ha condannato in primo grado Paolo Bellini, conferma anche la solidità e fondatezza delle prove raccolte dalla Procura generale per dimostrare che Gelli fu anche il mandante e finanziatore della strage. In sintesi, il capo della P2 si è esposto personalmente nei depistaggi perché era stato proprio lui, secondo l'accusa, a pagare i terroristi neofascisti.
Queste indagini recenti riguardano una parte della montagna di soldi sporchi accumulati da Licio Gelli con il crack del Banco Ambrosiano (che gli costò la prima condanna definitiva per bancarotta fraudolenta): almeno cinque milioni di dollari rubati alla banca di Roberto Calvi, che risultano distribuiti in contanti in Italia nei giorni cruciali della strage di Bologna.
La nuova istruttoria ha fatto emergere anche i conti esteri (mai dichiarati) della super-spia Federico Umberto D’Amato, storico capo dell'Ufficio affari riservati, eminente affiliato alla P2, morto nel 1996: anche lui veniva pagato da Gelli in Svizzera e il suo nome in codice è rimasto annotato nel suo documento-chiave, intitolato «Bologna». Le indagini degli ultimi anni, convalidate dalla prima sentenza, hanno svelato anche le manovre per far sparire gli atti giudiziari a carico del capo della P2, in particolare un suo manoscritto con il resoconto dei bonifici bancari che ora permettono di collegarlo alla strage del 2 agosto 1980. Le carte recuperate confermano anche i ricatti di Gelli alle istituzioni, attestati da una lettera «riservatissima» intestata al capo della polizia (ribattezzata «Documento Artigli»), che fu tenuta nascosta in un deposito clandestino del Viminale, insieme a pezzi di ordigni esplosivi sottratti alle indagini sulle prime bombe nere del 1969, l'anno d'inizio del terrorismo politico in Italia.
I risultati delle nuove indagini, con tutte le prove raccolte contro i vertici della P2, sono state raccontate da L'Espresso in tre inchieste pubblicate tra luglio e agosto 2020, quarant'anni dopo la strage, con il titolo: «Chi è stato?».
Negli ultimi processi, come sottolineano i giudici nelle sentenze, sono emerse nuove prove molto pesanti che riconfermano anche la colpevolezza di Fioravanti e Mambro. A questo punto, cosa resta da scoprire? Quali pezzi di verità rimangono ancora nascosti? «Mancano le responsabilità politiche», risponde Paolo Bolognesi: «La loggia P2 era una potenza di fuoco nella politica, nei servizi segreti, nell'economia. È impensabile che un personaggio come Gelli abbia organizzato o quantomeno favorito la strategia stragista senza avere precisi referenti politici».
In questi giorni Bologna ricorda le vittime della strage con numerose iniziative. Il primo agosto, a Villa Torchi di Corticella, vengono commemorati i sette bambini uccisi dalla bomba. La sera della vigilia, in piazza Maggiore, viene proiettato un film in memoria delle 85 vittime, dove si immagina che fossero rimaste vive e avessero potuto terminare il viaggio.
Il 2 agosto alle 10, davanti alla stazione, si apre la commemorazione ufficiale, con un discorso di Paolo Bolognesi e un intervento del sindaco di Bologna. Alle 10.25, l'ora della strage, la città si ferma per un minuto di silenzio. Poi, tra molte altre iniziative, sono previsti due omaggi alle vittime della strage dell'Italicus, rimasta impunita: una visita alla lapide del ferroviere morto nell'attentato e la partenza di un treno speciale da Bologna per San Benedetto, dove nel 1976 esplose la bomba sul treno. La stessa galleria ferroviaria è stata poi bersaglio del terrorismo mafioso di Cosa Nostra, con la strage del rapido 904, il «treno di Natale» (23 dicembre 1984, 16 morti): tra i condannati spiccano il boss mafioso Pippo Calò e, come fornitore dell'esplosivo, un parlamentare del Msi, Massimo Abbatangelo.
Gli ultimi processi sulla strage di Bologna hanno alimentato anche nuove indagini giudiziarie, molto delicate, che sono tuttora in corso: tra Caltanissetta e Firenze diversi magistrati ipotizzano collegamenti tra neofascisti, terroristi neri e boss mafiosi condannati per le stragi del 1992-1993. Al centro di queste nuove accuse, che attendono ancora le prime conferme processuali, c'è anche Paolo Bellini, che è stato sicuramente un criminale al servizio di molti padroni, con fortissime protezioni in apparati statali. Da neofascista di Avanguardia nazionale, nel 1975 ha ammazzato uno studente di sinistra, Alceste Campanile, a Reggio Emilia. Poi è passato alla criminalità, con altri tentati omicidi e furti di mobili antichi e opere d’arte tra Emilia e Toscana. Negli anni ’90 è diventato un killer della ’ndrangheta emiliana, come lui stesso ha confessato dopo l’ultimo arresto, nel 1999, per un totale di undici omicidi.
Tra il 1991 e il 1992 si è infiltrato anche in Cosa Nostra, ufficialmente per aiutare un maresciallo dei carabinieri a recuperare opere d'arte rubate: in quella prima trattativa con la mafia, l'unica ammessa da tutti, fu proprio Bellini a suggerire ai boss la strategia terroristica di attacco ai monumenti, poi eseguita dai mafiosi siciliani e calabresi con le stragi del 1993, le più misteriose. Dopo aver confessato i suoi delitti con la 'ndragheta, Bellini aveva ottenuto lo status di collaboratore di giustizia. Ora revocato dopo la condanna in primo grado per la strage di Bologna.
All’epoca della bomba alla stazione, il neofascista Bellini era uno strano latitante: faceva il pilota d’aereo, a Foligno, spacciandosi per cittadino brasiliano, con il falso nome di Roberto da Silva, accreditato da un vero passaporto di copertura del regime militare. Ad aiutarlo e ospitarlo furono politici e militanti di destra, in particolare due parlamentari del Movimento sociale italiano (Msi).
Inquisito già allora per la strage, in base alle testimonianze di due detenuti (che raccolsero le sue confidenze in carcere) e all’identikit di un «uomo visto allontanarsi precipitosamente dalla sala d’aspetto della stazione poco prima dell’esplosione», il neofascista fu prosciolto grazie a un alibi sostenuto dalla famiglia, che lo collocava a Rimini. La nuova indagine ha però recuperato un video girato da un turista svizzero-tedesco: poco prima dell’eccidio, in stazione c’è davvero un uomo identico a Bellini. Al processo, la stessa ex moglie ha riconosciuto «con certezza» che era proprio lui, facendo crollare il vecchio alibi.
Bellini ha sempre negato, anche nell'ultimo processo, di avere mai avuto rapporti, incassato soldi o ricevuto appoggi e coperture dai servizi segreti. Ma i giudici, nella sentenza di Bologna, evidenziano una lunga serie di indizi contrari e gli contestano di aver nascosto legami innegabili con apparati statali. Nelle intercettazioni che lo hanno riportato in carcere per il progetto di eliminare l'ex moglie, lo stesso Bellini si lascia scappare uno sfogo inquietante, raccontando ai suoi familiari più stretti di essere vincolato al silenzio da «un giuramento» che risale a «quarant'anni fa».
I pezzi di verità che ancora mancano, sulla strage di Bologna, potrebbero dunque aiutare a chiarire anche i misteri della strategia di «terrorismo mafioso», fatta propria da Cosa Nostra con la catena di attentati del 1992-1993, mentre gli scandali di Tangentopoli facevano crollare il vecchio sistema di potere della cosiddetta Prima Repubblica.
Strage di Bologna: ricordo e veleni: il povero Nordio trattato da “fiancheggiatore dei Nar”. Nel quarantatreesimo anniversario della strage del 2 agosto, giornali e associazioni dei familiari delle vittime attaccano il guardasigilli e la premier. Valentina Stella su Il Dubbio l'1 agosto 2023
Come ogni anno, all’avvicinarsi alla commemorazione della Strage di Bologna, non mancano le polemiche. Quella più forte arriva probabilmente da Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione familiari delle vittime, che, in un'intervista a La Stampa, ha attaccato pesantemente il Ministro della Giustizia Nordio il quale avrebbe dato addirittura «un assist ai terroristi». Come è noto la Corte d’assise di Bologna ha condannato alla pena dell’ergastolo Gilberto Cavallini riconoscendolo colpevole di concorso nel reato di strage. Racconta Bolognesi: «Gli avvocati del terrorista neofascista Cavallini hanno chiesto l’annullamento della condanna di primo grado sostenendo che quattro giudici popolari avevano superato il limite dei 65 anni, previsto dalla legge. E si basavano su due precedenti in Sicilia. Noi abbiamo ribattuto che la legge prevede il limite di età al momento della nomina, non alla fine del processo».
E Nordio che c’entra, chiede il giornalista? «Rispondendo ad un question time in Parlamento ha detto che esiste una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione favorevole alla tesi di Cavallini, è questo è falso. Ma nessuno ha protestato. Nemmeno quando la Cassazione ha confermato la nostra tesi». Le cose stanno realmente così? Partiamo dall’inizio, ossia da una interrogazione presentata dalla senatrice Musolino (Gruppo per le Autonomie) a gennaio: «due diverse Corti d’assise d’appello (Palermo e Messina) hanno “annullato” la condanna di imputati accusati di reati gravissimi sul presupposto che due giudici popolari avevano superato i 65 anni di età al momento della pronuncia della sentenza. Alcuna disposizione nella legge prevede che al raggiungimento di questo limite operi una decadenza dell'incarico […] Si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo non ritenga necessario disporre una verifica sulla vicenda descritta e se non ritenga di intervenire con urgenza per scongiurare, anche mediante un provvedimento di interpretazione autentica, che un caso simile possa verificarsi ancora».
Il Ministro ammise la serietà e la complessità di un problema con il quale la Cassazione si sarebbe già confrontata, esprimendo un orientamento costante, nel ritenere che la piena assimilazione della figura del giudice popolare con quella del giudice togato riguardi anche l’età. «L'orientamento consolidato della Cassazione impedisce qualsiasi attività ispettiva, perché le corti si sono adeguate a tale orientamento consolidato e, quindi, a una sorta di interpretazione autentica che danno le sezioni unite della Corte di cassazione» risposte il Guardasigilli. Si riferiva ad esempio alla sentenza 957/2003 della V sezione della Cassazione: «Essendo il requisito dell’età una delle condizioni di capacità dei giudici popolari (art. 9 della legge n. 287/1951), è evidente che tale elemento non può essere inteso come riferito esclusivamente al momento della iscrizione negli albi comunali o, al massimo, sino al successivo momento dell'estrazione per la formazione del collegio. Il venir meno del suddetto requisito anagrafico opera illico et immediate e impedisce automaticamente l’ulteriore espletamento delle funzioni giudiziarie da parte del soggetto che ne sia privo, essendo inammissibile una sorta di prorogatio, oltre i termini fissati dalla legge, delle condizioni di capacità del giudice popolare, che vengono meno con il raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, esattamente come avviene per i giudici togati al raggiungimento dell’età massima di 70 anni». Inoltre capiamo bene: Nordio non disse che esiste una decisione della SU ma che l’orientamento era talmente consolidato da far ritenere l’esistenza di una interpretazione autentica delle SU. Il Ministro comunque annunciò di «rimodulare completamente la legge, in modo da allineare l'età dei giudici popolari con quella dei giudici togati». È vero che la questione rimaneva comunque aperta, visto che a maggio la Cassazione ha annullato con rinvio la decisione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo perché a suo dire il superamento del tetto dei 65 anni dei giudici popolari, presenti nel collegio giudicante, non fa scattare la nullità della sentenza. Nordio, come promesso, ha inserito nel suo ddl, incardinato proprio ieri nella Commissione Giustizia del Senato, la seguente previsione: «Si introduce una norma di interpretazione autentica per chiarire che il requisito di età massima fissato per i giudici popolari delle Corti d’Assise in 65 anni deve sussistere soltanto al momento della nomina. Si evita così il rischio che – in procedimenti per gravissimi reati anche per mafia e terrorismo – siano ritenute nulle le sentenze pronunciate da Corti d’Assise nelle quali un giudice popolare abbia superato i 65 anni durante il processo», si legge in una nota di sintesi di Via Arenula. Lo ha ribadito ieri lo stesso responsabile di Via Arenula in un comunicato: «43 anni dopo quel vile attacco, rinnoviamo la vicinanza ai familiari delle 85 vittime e dei 200 feriti e all’intera comunità di Bologna, che negli anni ha saputo trasformare il dolore in impegno civico e in sostegno all’attività dei magistrati. In sede giudiziaria, è stata accertata la matrice neofascista della strage e ulteriori passi sono stati compiuti per “ottemperare – come ebbe a ricordare il capo dello Stato - alla inderogabile ricerca di quella verità completa che la Repubblica riconosce come proprio dovere”. In nome di quest’essenziale obiettivo, il Ministero della Giustizia si sforza di assicurare ogni supporto possibile agli uffici giudiziari impegnati nelle indagini sul terrorismo, come contro la mafia: così già nel primo pacchetto di riforme approvate dal Consiglio dei Ministri a giugno è stata inserita una norma, per evitare che potessero essere annullate sentenze per gravissimi reati. È stato chiarito che il requisito dei 65 anni, come età massima dei giudici popolari delle Corti d’Assise, deve sussistere soltanto al momento della nomina. Le preoccupazioni di Bologna devono essere fugate in via definitiva». Quindi sostenere che Nordio abbia fornito un assist ai terroristi appare una considerazione spropositata e svincolata se si guarda al complesso contesto giuridico e alla novità normativa. L’altra polemica che sta tenendo banco è la richiesta da parte della destra di istituire, appellandosi a nuovi documenti dei servizi, una Commissione parlamentare di inchiesta «sulle connessioni del terrorismo interno ed internazionale con gli attentati, le stragi e i tentativi di destabilizzazione delle istituzioni democratiche avvenuti in Italia dal 1953 al 1992».
La proposta non piace al Partito Democratico: «Le sentenze sulla strage oggi ci sono. Diciamo quindi no - ha detto il presidente della Regione Emilia-Romagna, il dem Stefano Bonaccini - a chi, anche in Parlamento, pensa di poter attenuare le responsabilità fin qui accertate, o avviare operazioni di revisionismo o di riscrittura di quanto accaduto e sancito dai Tribunali, risultati preziosi raggiunti con così tanta fatica». Da ultimo c’è molta polemica sull’assenza oggi a Bologna della premier Giorgia Meloni che manda Piantedosi. Due anni fa andò Cartabia, senza Draghi. E comunque la premier mantiene la sua coerenza forse con questa assenza considerato che proprio l’anno scorso dichiarò: « La strage alla stazione di Bologna di 42 anni fa rappresenta una ferita aperta per tutta la Nazione. Gli 85 morti e gli oltre 200 feriti meritano giustizia, per questo continueremo a chiederla insieme alla verità. Lo dobbiamo alle famiglie delle vittime e a tutto il popolo italiano».
Quell’intercettazione fantasma sulla strage. Simone Di Meo su Panorama il 21 Luglio 2023
Un’affermazione clamorosa del presunto terrorista Paolo Bellini su una pista alternativa nell’attentato di Bologna del 1980 è passata sotto sostanziale silenzio nei grandi media. Invece, si è preferito dare spazio alle vicende personali del condannato che l’hanno portato in prigione. Con una preoccupante scambio nell’importanza dell’informazione.
Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” l'1 agosto 2023.
«D’accordo per quarant’anni poi adesso non mi copre più… perché io non la copro più». A parlare è Paolo Bellini, l’uomo nero condannato in primo grado all’ergastolo per la strage alla stazione di Bologna, in un’intercettazione ambientale inedita e recentissima, poche ore prima di essere arrestato.
Un’intercettazione definita dalla Procura generale «tanto sintetica quanto altamente significativa», perché parlando dell’ex moglie Maurizia Bonini conferma quanto Procura e Corte d’assise hanno sempre sostenuto (ed egli negato ripetutamente in udienza): cioè che lei gli abbia fornito per quarant’anni un falso alibi per la mattina del 2 agosto 1980, salvo accusarlo nell’ultimo processo, concluso un anno fa.
L’intercettazione è finita all’attenzione del tribunale del riesame di Bologna che ha confermato l’arresto di Bellini, chiesto dai procuratori bolognesi Musti e Proto e disposto dal gip.
Le date sono importanti. Il gip firma l’ordinanza di arresto il 21 giugno. Bellini viene fisicamente arrestato il 29 giugno. Ma il 26 giugno, tre giorni prima di essere portato in carcere, una microspia piazzata nella sua auto dalla Procura di Firenze, che indaga sulle stragi mafiose del 1993, registra la conversazione in cui Bellini si sfoga contro l’ex moglie, che meditava di uccidere per far fuori il principale testimone a suo carico. […]
Ora la Procura generale bolognese, che ha ricostruito i livelli politico-finanziari della strage alla stazione, valorizza questa intercettazione «sotto il profilo della piena consapevolezza in capo a Bellini della gravità della situazione processuale che lo investe. Al di là della valenza sotto il profilo della responsabilità, trattandosi evidentemente di una confessione indiretta, la frase assume specifico rilievo anche sotto l’aspetto del pericolo di fuga».
[…]
Aviere, esponente neofascista di Avanguardia Nazionale, killer della ‘ndrangheta, Bellini è personaggio misterioso e multiforme. «Sapevo che era dei servizi segreti», ha detto l’ex pentito di mafia Santino Di Matteo. All’inizio degli Anni 90, Bellini (con l’alias di Aquila Selvaggia) agganciò esponenti mafiosi in Sicilia, nell’ambito di una singolare trattativa come emissario dei carabinieri (compreso il Ros del generale Mori) per consentire il recupero di opere d’arte rubate alla Pinacoteca di Modena.
L’interlocutore mafioso della trattativa era Nino Gioè, boss di Altofonte, uno degli attentatori di Capaci, considerato vicino a servizi e massoneria. I due si erano conosciuti in carcere dieci anni prima, quando Bellini era latitante con il falso nome brasiliano Roberto Da Silva. Gioè morirà suicida nel 1993 in carcere a Rebibbia in circostanze misteriose, proprio nel pieno della campagna stragista di cosa nostra contro il patrimonio artistico nelle città del continente.
Secondo il boss mafioso pentito Giovanni Brusca fu proprio Bellini a «suggerire» la strategia degli attentati contro il patrimonio artistico: «Se ammazzi un magistrato ne arriva un altro, disse a Gioè. Se butti giù la Torre di Pisa distruggi l'economia di una città e lo Stato deve intervenire».
Strage di Bologna, l’intercettazione di Paolo Bellini: “Ho sopportato quarant’anni di fango e infamità perché c’era di mezzo un giuramento”. Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella su Il Fatto Quotidiano su Panorama il 29 giugno 2023
Che tipo di giuramento ha fatto Paolo Bellini? Quale promessa solenne ha impedito all’ex primula nera di difendersi da quelle che lui definisce “infamità“, che poi sarebbero le molteplici accuse per cui è stato condannato? E a causa di questo giuramento che Bellini non ha mai raccontato i segreti di cui è probabilmente custode? Sono domande che è impossibile non porsi dopo aver letto le intercettazioni dell’ex estremista nero, arrestato oggi su richiesta della procura generale di Bologna. Dopo una vita vissuta pericolosamente, nell’aprile del 2022 l’ex esponente di Avanguardia Nazionale è stato condannato all’ergastolo in primo grado per la strage del 2 agosto 1980: 85 morti e oltre 200 feriti. Una condanna che arriva a quarant’anni dai fatti, per i quali l’ex primula nera era già stato prosciolto. A farlo finire nei guai è un filmato amatoriale girato da un turista svizzero, negli attimi precedenti all’esplosione: si vede un giovane coi baffi e i capelli ricci muoversi alla stazione del capoluogo emiliano. Secondo Maurizia Bonini, la sua ex moglie, quell’uomo è proprio Bellini, che all’epoca dei fatti portava un paio di baffi identici, lo stesso taglio di capelli e aveva la medesima fossetta sul viso. Un riconoscimento fondamentale quello dalle sua ex moglie, che porterà alla condanna di Bellini al carcere a vita.
Le cimici del Ros e della Dia – L’ex estremista nero non la prende bene. Minaccia l’ex moglie, ma pure Francesco Maria Caruso, il presidente della corte d’Assise che lo ha condannato: promette di vendicarsi, uccidendo uno dei Bonini e colpendo il figlio del magistrato Caruso, che fa il diplomatico in Brasile, lo stesso Paese dove lui è stato latitante per anni. Sono quelle minacce che oggi hanno fatto riaprire a Bellini le porte del carcere. Le parole dell’ex estremista nero, infatti, vengono registrate dalle microspie ambientali piazzate dalla Dia e dal Ros. Dall’ordinanza di custodia cautelare della corte d’Assise d’Appello di Bologna si scopre che Bellini è attenzionato anche dalla procura di Firenze e da quella di Caltanissetta, gli uffici inquirenti competenti per le stragi del 1992 e 1993. Grazie al coordinamento della procura nazionale Antimafia, le note della Dia con le intercettazioni arrivano ai magistrati di Bologna. Che hanno chiesto e ottenuto l’arresto di Bellini. In quelle carte, però, non ci sono solo le minacce dell’imputato contro l’ex moglie e il giudice che lo ha condannato. No, Bellini dice anche altro.
“Sono dentro a cinquant’anni di storia d’Italia” – È il 5 dicembre del 2022 e l’ex estremista nero sta pranzando a casa sua con la moglie e il cognato. È un fiume in piena: parla del processo subito e manifesta la sua rabbia nei confronti del giudice Caruso, che chiama “il cambogiano“, perché fa i processi come “il cambogiano Pol Pot“. Poi dice anche altro: “Io ho sopportato quarant’anni a stare zitto, tutto il fango che mi hanno buttato addosso per quarant’anni, quel gruppo specializzato. Infamità nei miei confronti e nei confronti di una classe politica particolare, va bene?”, si sfoga. Quindi spiega ai suoi familiari: “Non potevo contrastarli perché c’era di mezzo un giuramento, va bene? Ecco, adesso basta, hanno superato tutti i limiti”. Di che giuramento parla Bellini? Con chi è stato siglato? E cosa prevedeva? Secondo la Corte d’Assise d’Appello questo fantomatico “giuramento” ripropone la questione dei rapporti di Bellini con “alcune istituzioni“, che presenta tutt’ora “punti oscuri“. In questo senso i giudici evidenziano come si tratta di uno sfogo ” inquietante, dato il contesto nel quale l’imputato si è sempre mosso”. Un contesto che Bellini sembra rivendicare nel suo lungo sfogo: “Allora è tutto un sistema nei miei confronti che dura dal 1970…Cinquant’anni, sono cinquant’anni di storie d’Italia dentro alle quali io sono stato dentro un pò di qua, un pò là, un pò di su, un pò giù, hanno usato delle cose, degli atti di processi dove sono stato archiviato e li hanno riesumati e li han fatti diventare come se fossero veri, non parlando e non dicendo che quelli erano atti già archiviati”. Quando dice di avere avuto un ruolo in cinquant’anni di storia italiana Bellini ha ragione. Nato a Reggio Emilia nel 1953, ha vissuto una vita da film. Esordisce come militante dell’estrema destra in Avanguardia nazionale, poi diventa pilota di aerei e trafficante di opere d’arte con la falsa identità di Roberto da Silva, quindi si trasforma in killer della ‘ndrangheta ma pure in un collaboratore di giustizia quando si autoaccusa dell’omicidio di Alceste Campanile, un militante di estrema sinistra assassinato nel 1975: il delitto rimarrà insoluto fino al 1999 quando Bellini confessa. Nel suo curriculum anche l’esperienza di testimone al processo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra: viene chiamato a raccontare i suoi rapporti con Nino Gioè, boss poi morto suicida in carcere in circostanze misteriose. Ma racconta pure l’esperienza da infiltrato dei carabinieri nelle cosche con l’obiettivo di recuperare opere d’arte rubate. Episodi opachi e mai chiariti che oggi hanno fatto finire Bellini sotto inchiesta anche per le stragi di Capaci, di Firenze, Roma e Milano.
Le intercettazioni sui servizi – Nelle intercettazioni ambientali più volte Bellini appare furente per la condanna subita a Bologna. Se la prende col giudice che l’ha condannato, con l’ex moglie che l’ha riconosciuto, con l’avvocato di parte civile. Ma pure con soggetti imprecisati. Lo fa, per esempio, la mattina del 27 dicembre. La Dia annota che Bellini sembra parlare da solo, rivolgendosi a un fantomatico interlocutore: “Questi stanno a spigne (spingere, ndr). Adesso non dico niente io e se mettermi latitante un’altra volta … mah, a me non interessa ma dove eravate prima ? Quando la Procura Generale si muoveva, faceva … Oh si, s’é mossa bene ! Come no, si son comportati bene perbacco! Allora come si fa a mandarlo e come si fa a mandarlo”. L’ex primula nera si riferisce evidentemente al momento in cui la procura generale di Bologna ha avocato l’inchiesta sui mandanti della strage: ma a chi si rivolge quando dice “dove eravate prima“? Chi è che doveva intervenire? Un altro passaggio oscuro viene captato quando Bellini legge le motivazioni della sua condanna, depositate il 5 aprile del 2023. Si sta soffermando sul passaggio relativo ai suoi rapporti con l’intelligence: “Sono emersi nel processo elementi di prova diretta o anche soltanto indiziaria capaci di evidenziare l’esistenza di una relazione stretta ed anche reiterata nel tempo di Paolo Bellini con servizi segreti“. Le microspie registrano l’imputato mentre commenta: “Io coi servizi non c’ho mai avuto a che fare… e non ci voglio avere a che fare“. Gli inquirenti sottolineano che Bellini usa il presente: “Non ci voglio (adesso) avere a che fare”. A mettere in fila i legami tra l’imputato e l’intelligence sono proprio le motivazioni di quella sentenza. I giudici della corte d’Assise di Bologna ricordano “le coperture del Sid“, il vecchio servizio informazioni della Difesa, che aveva “protetto Bellini dopo l’omicidio di Alceste Campanile“. Ma i giudici ricordano anche che l’imputato fu protetto durante la latitanza, nel 1976, quando viveva con “una falsa identità – quella del fantomatico pilota brasiliano Roberto Da Silva – ma riusciva a ottenere permessi e licenze amministrative in modo rapido e senza reali controlli”. D’altra parte, c’è scritto sempre nella sentenza, il padre di Bellini, Aldo, aveva rapporti strettissimi col senatore del Msi Franco Mariani e con Ugo Sisti, procuratore di Bologna: “Soggetti entrambi aventi relazioni privilegiate con i servizi di sicurezza”, annotano i giudici. La corte ricorda anche i contatti tra i carabinieri e Bellini, che “con apparente disinvoltura esemplicità, a presentarsi come mediatore tra le istituzioni e la mafia siciliana, recandosi nel covo di Nino Gioè e di Giovanni Brusca ed arrivando persino a dare loro dei suggerimenti, tra e i quello di minacciare di colpire il patrimonio artistico”. A sentire Brusca, il boia di Capaci che poi diventerà pentito, a suggerire le stragi del 1993 sarebbe stato proprio Bellini. Il diretto interessato, però, ha sempre negato. Ora, per quelle bombe, è indagato.
Da open.online il 30 giugno 2023.
Paolo Bellini è stato arrestato perché voleva vendicarsi dell’ex moglie. Maurizia Bonini era stata testimone contro di lui nel processo sulla strage di Bologna. Ma voleva colpire anche il figlio del giudice Francesco Caruso, che gli aveva rifilato l’ergastolo.
Ma le intercettazioni che le Dda di Firenze e Caltanissetta hanno trasmesso ai magistrati bolognesi hanno consentito di appurare che Bellini è sotto indagine anche per la strage di Capaci del 1992. E per quelle di Firenze, Milano e Roma del 1993. Il Fatto Quotidiano scrive che Bellini è indagato come “concorrente morale” nella morte di Giovanni Falcone. Perché avrebbe in qualche modo “suggerito” a Cosa Nostra la strategia delle stragi. Avrebbe parlato con il boss Antonino Gioè. E, successivamente, con Giovanni Brusca, Totò Riina e Leoluca Bagarella.
(...) La Barbera ha raccontato poi che fu Bellini a indicare gli obiettivi degli attentati. Di certo l’ex Avanguardia Nazionale era all’hotel Sicilia di Enna nel dicembre 1991.
Proprio in quell’albergo l’anno dopo si tennero alcune delle riunioni della Commissione Regionale di Cosa Nostra. In Sicilia, tra il 1991 e il 1992, c’era anche Stefano Delle Chiaie. Non ci sono prove della partecipazione di Bellini a queste riunioni.
Ma nel novembre 1992 venne fermato insieme a Rosario Casarotti, imparentato con boss, vicino alla contrada in cui abita Pietro Rampulla. Definitivamente condannato per le stragi di Capaci, in gioventù aveva aderito a Ordine Nuovo. Anche la moglie di Bellini dice che il coniuge si trova in Sicilia nei giorni dell’attentato. Ritorna a casa il 25 maggio. Due giorni dopo l’attentatuni.
Andrea Palladino per “la Stampa” il 30 giugno 2023.
Un giuramento, che dura da più di quarant'anni. Un patto del silenzio, inviolabile, su quello che è avvenuto nella stazione di Bologna il 2 agosto 1980, quando nella sala di aspetto di seconda classe esplose una bomba micidiale, con 85 morti e 200 feriti.
Lasciano pochi spazi ai dubbi le parole di Paolo Bellini, il «personaggio poliedrico, la cui figura è riemersa per oltre trent'anni nell'ambito delle vicende più opache della storia italiana», come lo hanno definito i magistrati, condannato, in primo grado, per la strage più crudele della storia repubblicana. I suoi furiosi discorsi sono stati registrati dalla Dda di Caltanissetta mesi dopo la fine del processo, mentre il presidente della Corte d'Assise stava scrivendo le motivazioni.
Le frasi intercettate erano dirette minacce alla testimone chiave, l'ex moglie Maurizia Bonini, che lo ha riconosciuto in un filmato girato nella stazione di Bologna pochi minuti dopo l'esplosione della bomba:
«Ho appena finito di pagare 50 mila euro per far fuori uno di voi Bonini, eh non si sa quale!», gridava mentre girava nel salone della sua abitazione. Non solo. Bellini programmava la vendetta nei confronti dello stesso presidente della Corte d'Assise, il magistrato Francesco Maria Caruso, affermando di voler colpire il figlio, console italiano a Porto Alegre, in Brasile.
Non si limitava alle minacce, Bellini, durante i suoi furiosi sfoghi contro magistrati e testimoni: «Io ho sopportato quarant'anni a stare zitto – si legge in una delle intercettazioni – tutto il fango che mi hanno buttato addosso per quarant'anni, quel gruppo specializzato (parole incomprensibili) infamità nei miei confronti e nei confronti di una classe politica particolare, va bene?».
(…) Poi, all'inizio degli Anni '90, poco prima delle stragi di mafia, si avvicina a Cosa nostra, ufficialmente come infiltrato da parte dei carabinieri. Trasferito nel penitenziario di Sciacca, conosce Antonino Gioè, coautore della strage di Capaci. In quegli stessi anni già operava come killer della ‘ndrangheta, legandosi alla ‘ndrina di Vasapollo-Dragone. Aspetti che ancora oggi devono essere fino in fondo chiariti: «I legami tra Cosa nostra ed i gruppi eversivi di destra – scrive ancora il presidente Caruso nelle motivazioni della sentenza di condanna – sono emersi in diverse circostanze, anche in questo processo». Una pista che «lo stesso Giovanni Falcone aveva intuito».
L’arresto di Paolo Bellini, il quinto accusato della strage di Bologna, riapre le indagini su mafia e servizi deviati. Ex killer neofascista, poi sicario della ‘ndrangheta, condannato in primo grado per la bomba in stazione del 2 agosto 1980: secondo l’accusa progettava di uccidere l’ex moglie. È stato intercettato nella nuova inchiesta sugli attentati del 1992-93. Paolo Biondani su L'Espresso il 29 Giugno 2023
Paolo Bellini, l'ex killer nero condannato in primo grado per la strage di Bologna, è stato riarrestato per un nuovo piano omicida: secondo l'accusa, progettava di uccidere l'ex moglie, Maurizia Bonini, che ha testimoniato nell'ultimo processo in corte d'assise facendo crollare il suo alibi.
L'ex neofascista, poi diventato killer della 'ndrangheta e infiltrato in Cosa Nostra, era libero in attesa del processo d'appello, ma è stato intercettato dalle Procure di Firenze e Caltanissetta, che indagano sulle stragi di «terrorismo mafioso» del 1992 e 1993. L'ordinanza d'arresto è stata emessa dai giudici della Corte d'assise d'appello di Bologna. Ora Bellini è in carcere a Spoleto.
L'ex killer nero ha confessato di aver commesso una lunga serie di omicidi politici e poi mafia, dal 1975 al 2000, ma ha sempre negato qualsiasi complicità nella strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, il più grave attentato della storia d'Italia, che ha causato 85 vittime e oltre 200 feriti gravi. Già indagato nella prima istruttoria, dove emerse la sua straordinaria somiglianza con un sospettato che fu visto uscire in fretta dalla stazione poco prima della bomba, era stato salvato da un alibi, che all'ora della strage lo collocava a Rimini con la famiglia. Nella nuova indagine, gli avvocati dei familiari delle vittime hanno recuperato un filmino amatoriale, girato da un turista tedesco su un treno in arrivo, che ha documentato la presenza sul luogo della strage di un uomo identico a Bellini, secondo le perizie. Nel nuovo processo, chiuso nel maggio 2022 con la condanna all'ergastolo, la stessa ex moglie lo ha riconosciuto con certezza in quel video, spiegando che all'epoca aveva mentito: «Avevo solo 25 anni e pensavo fosse innocente, che non fosse capace di commettere omicidi come poi lui stesso ha confessato».
Dalle intercettazioni dell'antimafia, secondo le prime indiscrezioni, emerge anche un'inquietante attività di Bellini per trovare notizie sul luogo di lavoro e residenza del figlio del presidente della corte d'assise che ha guidato l'ultimo processo e scritto le motivazioni della condanna. Oltre all'alibi crollato, la sentenza evidenzia una lunga serie di prove a suo carico, dalle testimonianze di due ex detenuti (che furono in carcere insieme a lui e a suo fratello), alle intercettazioni dello stragista neofascista Carlo Maria Maggi (colpevole della strage di Brescia), ai rapporti con altri terroristi di destra coinvolti nella strage di Bologna, che l'imputato aveva sempre negato.
Bellini è il quinto neofascista condannato per la strage di Bologna. Per Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, all'epoca terroristi dei Nar e già dichiarati colpevoli di molti altri omicidi, la sentenza è definitiva da anni. Nel 2020 è stato condannato in primo grado anche Gilberto Cavallini, armiere e tesoriere oltre che killer della stessa banda armata, che era collegata alla P2 e ai servizi segreti deviati. Tutti si sono sempre proclamati innocenti, come lo stesso Bellini.
L'arresto di oggi apre un nuovo capitolo nell'allucinante storia nera del criminale emiliano. Bellini stesso ha confessato di aver commesso il suo primo omicidio nel 1976, quando era un neofascista di Avanguardia Nazionale: ha ucciso a colpi di pistola uno studente emiliano di sinistra, pacifista e disarmato, alla vigilia delle elezioni. Il delitto è rimasto impunito e Bellini è passato alla criminalità, tra rapine, furti di opere d'arte e nuove accuse di tentato omicidio, ma è sfuggito all'arresto scappando all'estero. Prima del 1980 è tornato in Italia con un passaporto brasiliano di copertura e, da latitante sotto falsa identità, è diventato pilota d'aereo a Foligno, dove era ospitato da due parlamentari del Msi e portava in volo gratis anche l'allora procuratore di Bologna, Ugo Sisti, poi risultato collegato ai vertici piduisti dei servizi segreti e quindi promosso capo delle carceri.
Prima delle stragi mafiose del 1992-93, Bellini si è inserito anche in Cosa Nostra, in Sicilia, per conto di un carabiniere del Ros che voleva recuperare capolavori dell'arte rubati dalla mafia, e ha incontrato in particolare il boss stragista Antonino Gioè, che si è poi ucciso in carcere in circostanze oscure, accusandolo in uno scritto di essere un infiltrato dei servizi. Tra una missione e l'altra, come ha poi confessato lui stesso, Bellini è diventato un killer della 'ndrangheta emiliana e ha commesso omicidi anche in Calabria. Arrestato alla fine degli anni '90, si è dichiarato pentito ed è stato scarcerato con lo status di collaboratore di giustizia.
I magistrati di Bologna e gli avvocati di parte civile spiegano in numerosi atti che Bellini è stato sicuramente protetto e coperto per molti anni da apparati di sicurezza e servizi segreti deviati. Se dopo l'arresto di oggi dovesse pentirsi veramente, una sua confessione piena e totale potrebbe chiarire e forse riscrivere tutta la storia delle stragi, dalle bombe neofasciste degli anni Settanta agli attentati della mafia siciliana e calabrese mentre crollava la prima Repubblica.
"Gliela chiudo io la carriera al giudice". In carcere il terrorista nero Bellini. L'estremista intercettato dai pm mentre minaccia l'ex moglie e i magistrati che l'hanno condannato per la strage di Bologna. Luca Fazzo il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.
«Vuole fare una cosa apocalittica per chiudere la sua carriera. Mo' gliela chiudo io la carriera, gliela chiudo». Paolo Bellini ha settant'anni, ha attraversato cento misteri e mille traffici, adesso sulla testa ha una condanna all'ergastolo per avere piazzato insieme ad altri fascisti, quando aveva ventisette anni, la bomba alla stazione di Bologna: 2 agosto '80, la strage più sanguinosa di tutte. Fino a ieri Bellini aspettava a piede libero il processo d'appello. Ma mette su un piatto d'argento ai magistrati gli elementi utili a mandarlo a attendere l'appello in carcere. Perchè si fa intercettare mentre ne dice di tutti i colori: contro l'ex moglie, che lo ha incastrato per la strage testimoniando; e per il giudice che lo ha condannato, quello di cui si propone di «chiudere» la carriera: in che modo non si sa, ma un accenno («il figlio fa il diplomatico in Brasile») evoca una vendetta trasversale.
Le intercettazioni arrivano a Bologna dalle procure di Caltanissetta e Firenze, che tengono sotto controllo Bellini nelle indagini sulle stragi di mafia. Sarebbero rimaste segrete se non ci fosse stata l'esigenza di mettere l'estremista nero sotto chiave, prima che mettesse in pratica i suoi propositi. Ieri Bellini viene arrestato su richiesta della Procura generale di Bologna e portato nel carcere di Spoleto, le sue intercettazioni - riportate nell'ordinanza di custodia - diventano di dominio pubblico. E ripuntano i riflettori su uno dei personaggi più oscuri delle cronache giudiziarie, passato dalle file neofasciste ai clan mafiosi, confidente dei servizi segreti, poi collaboratore di giustizia. Un percorso che nelle sue chiacchierate Bellini quasi rivendica: «cinquant'anni, sono cinquant'anni di storie d'Italia dentro alle quali io sono stato dentro un po' di qua, un po' là, un po' di su, un po' giù».
Della strage anche nelle intercettazioni continua a proclamarsi innocente, a proclamarsi vittima di un complotto, «Io ho sopportato quarant'anni a stare zitto, tutto il fango che mi hanno buttato addosso per quarant'anni, quel gruppo specializzato. Infamità nei miei confronti e nei confronti di una classe politica particolare, va bene?». Ma anche qui, come se sapesse di essere ascoltato, butta lì la storia di un misterioso giuramento, fatto non si sa a chi: «non potevo contrastarli perché c'era di mezzo un giuramento, va bene? Ecco, adesso basta, hanno superato tutti i limiti». Frasi che sembrano fatte apposta per rafforzare le convinzioni su mandanti di un livello superiore, una zona grigia a ridosso delle istituzioni di cui sono da sempre convinti i parenti delle vittime, e che i giudici che hanno condannato Bellini sintetizzano dicendo che «all'attuazione della strage contribuirono in modi non definiti Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto».
Contro Bellini, che in passato per la stessa accusa era già stato inquisito e prosciolto, l'unico elemento concreto («granitico», lo definiscono i giudici) viene dalla ex moglie Maurizia Bonini, che l'ha riconosciuto in un filmato girato in stazione da una turista. «É lui, lo riconosco da una fossetta sul mento», ha detto. E nelle intercettazioni che lo spediscono in carcere, Bellini le giura vendetta così: «Bonini pensi che finisce qui? Ho appena finito di pagare 50mila euro per fare fuori uno di voi Bonini eh, non si sa quale! Che Dio vi stramaledica tutti. Poi vedremo la fossetta e vedremo le fosse, fosse e fossette, ci sono anche le fosse». Luca Fazzo
Strage di Bologna, i giudici sono certi: coinvolti la P2 e i servizi segreti. Stefano Baudino su L'Indipendente l’8 aprile 2023.
Alla terribile strage di Bologna del 2 agosto del 1980, in cui rimasero uccise 85 persone, contribuirono i servizi segreti di Federico Umberto D’Amato e la P2 di Licio Gelli. È questa la convinzione dei giudici della Corte d’Assise di Bologna, messa nero su bianco nelle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo a carico di Paolo Bellini, ex terrorista di Avanguardia Nazionale, ritenuto esecutore materiale del massacro assieme agli estremisti neri Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini.
La Corte parte dalla “constatazione della prova granitica della presenza di Bellini il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna”, il quale “fu ripreso in alcuni fotogrammi di un filmato amatoriale girato dal turista Harald Polzer, che si riferiscono ad un momento di pochi minuti successivo alla deflagrazione”. Tale conclusione è autorizzata dall'”avvenuto riconoscimento dell’imputato in termini di certezza da parte di Maurizia Bonini (ex moglie di Bellini, che ha identificato nell’ex coniuge l’uomo ripreso a camminare nell’area del binario 1 della stazione nel filmato registrato pochi minuti dopo lo scoppio della bomba, Ndr) all’udienza del 21 luglio 2021″.
Da Bellini, però, il discorso si sposta su piani superiori. “Possiamo ritenere fondata l’idea, e la figura di Bellini ne è al contempo conferma ed elemento costitutivo – dicono i giudici – che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel ‘Documento Bologna‘, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato (ex direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, iscritto alla P2, Ndr) la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo”. Il “Documento Bologna“, ritrovato tra le carte di Gelli nel 1982 e analizzato nel processo ai mandanti della strage di Bologna nel 2021, riporta movimenti finanziari e destinatari per un totale di 15 milioni di dollari, veicolati da Gelli su conti off-shore e poi distribuiti in contanti pochi giorni prima dell’attentato.
I giudici evidenziano che “anche un terrorista della nuova generazione come Fioravanti, nella sua smania di protagonismo, si avvicinò progressivamente ad elementi di spicco del neocostituito gruppo ‘Costruiamo l’Azione‘ come Paolo Signorelli e Fabio De Felice, i quali a loro volta erano strettamente legati ai servizi segreti e a Licio Gelli”. La Corte asserisce che “la prossimità di Fioravanti ai soggetti sopra menzionati, così come i suoi accertati rapporti diretti con Licio Gelli, inducono a ritenere che l’idea di colpire Bologna nacque in quello stesso contesto e fu coordinata da un livello superiore, avvalendosi anche dell’opera dei servizi deviati“. In quella fase, Fioravanti “era considerato sul piano operativo il soggetto più determinato ed incontenibile e, dunque, di fronte all’invito a partecipare ad un’impresa così eclatante, si poteva prevedere che non si sarebbe tirato indietro”. Altri esecutori materiali “furono scelti, probabilmente da figure di vertice dell’eversione nera o forse da esponenti dei servizi, tra personaggi che offrivano garanzie assolute di riserbo, per la loro appartenenza politica o per la loro condizione di latitanza”. A muoversi “dietro a tale macchinazione”, in base a “consistenti indizi”, c’era proprio “Licio Gelli”.
La Corte si sofferma sulle ragioni sottese all’organizzazione dell’attentato, che sono da ricondurre a un chiaro disegno politico. Riprendendo la tesi dell’Avvocatura dello Stato, che ha individuato nella strage di Bologna la realizzazione della strategia della tensione ufficialmente aperta con la strage di Portella della Ginestra, i giudici sostengono che tale analogia sia “importante perché consente di cogliere, come e ormai pacifico per quel lontano evento del 1947, un filo nero, che giunge a Bologna, di azioni coordinate e connesse per interferire sui libero e autonomo sviluppo della politica nazionale da parte di forze esterne, generalmente legate agli esiti del secondo conflitto mondiale”. La “causale plurima” della strage trova infatti le sue radici “nella situazione politico-internazionale del paese e nei rapporti tra estremisti neri e centrali operative della strategia della tensione sui finire degli anni Settanta”.
In questa cornice agirono, dunque, “Gelli, la P2, i servizi segreti e quel centro occulto di potere coagulatosi intorno all’ex capo dell’Ufficio affari riservati”. La strage di Bologna, secondo la Corte, ha infatti visto il ruolo di mandanti “nei confronti dei quali il quadro indiziario è talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica internazionale da quelle figure, quale contesto operativo della strage di Bologna”.
Per i giudici, “anche coloro che si resero verosimilmente mandanti e/o finanziatori della strage, pur senza appartenere in modo diretto a gruppi neofascisti, condividevano i predetti obiettivi antidemocratici di fondo ed ambivano all’instaurazione di uno Stato autoritario, nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse”. Tra gli obiettivi, vi erano infatti la “necessità di impedire ogni prospettiva di accesso della sinistra al potere in Italia” e “l’attuazione del Piano di Rinascita democratica” di Licio Gelli “attraverso l’impiego misurato della strategia delle bombe”, in un quadro “di guerra psicologica, di provocazione e di preparazione dell’opinione pubblica al taglio delle ali estreme del sistema politico”. [di Stefano Baudino]
Strage alla stazione di Bologna, i giudici: "Prove eclatanti del contributo di Licio Gelli". Ilaria Venturi su La Repubblica il 5 aprile 2023.
Licio Gelli, capo della Loggia P2, morto il 15 dicembre del 2015
Le motivazioni della sentenza di condanna all'ergastolo per Paolo Bellini per la strage del 2 agosto 1980
Il coinvolgimento "eclatante" di Licio Gelli, capo della Loggia P2, nella strage alla stazione di Bologna dove morirono, il 2 agosto 1980, 85 persone e oltre 200 furono i feriti. La prova "granitica" della presenza quel giorno e sui quei binari di Paolo Bellini, ex terrorista di Avanguardia Nazionale. Con un solo obiettivo, esecutori e mandanti: "Ambire a uno Stato autoritario".
Estratto dell'articolo di Maria Elena Gottarelli per “la Repubblica” il 6 aprile 2023.
La «prova eclatante» del contributo di Licio Gelli nell’attuazione della strage di Bologna.
Quella «granitica» della presenza di Bellini in stazione il 2 agosto del 1980. E poi un filo che lega la bomba del 2 agosto a molte altre pagine nere della storia italiana, dall’Italicus a Piazza Fontana, intessendo una trama che ora sembra un po’ meno oscura e un po’ più intelligibile.
Sono tra i punti salienti delle 1.742 pagine con cui la Corte d’Assise di Bologna presieduta da Francesco Caruso motiva la sentenza del processo all’ex terrorista di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini, condannato all’ergastolo in primo grado perché identificato come il quinto uomo: colui che insieme a Cavallini, Fioravanti, Mambro e Ciavardini fu esecutore materiale della strage che costò la vita a 85 persone, ferendone 216.
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Innanzitutto si accerta la responsabilità di Licio Gelli […] Poi si definisce il suo ruolo: «Possiamo ritenere fondata l’idea, e la figura di Bellini ne è al contempo conferma ed elemento costitutivo, che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel documento Bologna, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato Ia figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo ».
Ad emergere è poi l’obiettivo di Gelli e dei servizi segreti deviati dietro al 2 agosto: «L’instaurazione di uno Stato autoritario — si legge — nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse».
Ampio spazio viene poi dato a Bellini. Inchiodato «al binario 1 della stazione subito dopo l’esplosione». A dimostrarlo per la Corte sono un filmato amatoriale girato dal turista Harald Polzer e le dichiarazioni della ex moglie di Bellini, che lo riconosce in quei fotogrammi e afferma che l’ex marito a Rimini non arrivò affatto alle 9 di mattina, come sostenuto, ma verso ora di pranzo. […]
Strage di Bologna, ecco perché Licio Gelli finanziò l’eccidio neofascista. Le carte segrete svelate da L’Espresso
Le motivazioni della condanna del killer nero Paolo Bellini poi reclutato dalla ‘ndrangheta. I giudici confermano i pagamenti del capo della P2: cinque milioni di dollari per la bomba in stazione del 2 agosto 1980. Nuove prove anche sui Nar Giusva Fioravanti e Francesca Mambo e le coperture dei servizi. Paolo Biondani su L’Espresso il 6 Aprile 2023
Licio Gelli organizzò i depistaggi delle indagini sulla strage di Bologna (85 morti, 202 feriti) perché ne era stato il «mandante e finanziatore»: un'accusa che oggi va considerata «un punto fermo». Lo scrivono i giudici della Corte d'Assise nelle oltre 1700 pagine di motivazioni della sentenza che ha condannato in primo grado il quinto presunto esecutore materiale dell'eccidio del 2 agosto 1980, il neofascista Paolo Bellini, poi diventato killer della 'ndrangheta.
Il capo della loggia massonica P2, morto nel 2015, era stato condannato in via definitiva, già nei primi processi, come organizzatore della lunga catena di false operazioni, orchestrate dai vertici piduisti del servizio segreto militare (Sismi) per ostacolare le indagini sui terroristi di destra accreditando fantomatiche piste estere. Depistaggi culminati, nel gennaio 1981, nel clamoroso sequestro di armi ed esplosivi su un treno per Bologna, in realtà collocati dagli stessi ufficiali del Sismi, poi condannati insieme a Gelli. A partire dal 2018 la nuova inchiesta della Procura generale ha ricostruito una serie di finanziamenti collegati alla strage, per almeno cinque milioni di dollari: soldi sottratti al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (il banchiere ucciso nel 1982 a Londra) e distribuiti segretamente da Gelli nei giorni cruciali dell'attentato.
Il capo stesso della P2 aveva trascritto il conteggio di quei versamenti in un prospetto contabile, che portava con sé quando fu arrestato nel 1983 in una banca svizzera come principale beneficiario della bancarotta miliardaria dell'Ambrosiano: il cosiddetto «documento Bologna», che i giudici ora definiscono una «precisa ed eclatante prova» che Licio Gelli era «il vertice di una sorta di servizio segreto occulto», che organizzò l'attentato e i successivi depistaggi.
Secondo l'accusa ne faceva parte anche la super-spia Federico Umberto D'Amato, per anni numero uno dell'Ufficio affari riservati, che risulta aver ricevuto almeno 850 mila dollari da Gelli su un conto segreto in Svizzera. Anche D'Amato è morto prima che si scoprissero quei bonifici, tenuti nascosti per quarant'anni, come il documento Bologna.
La condanna all'ergastolo di Paolo Bellini si fonda in particolare sulla «prova granitica della sua presenza alla stazione di Bologna», che l'ex killer neofascista ha sempre negato. A documentarla è un filmato, girato da un turista tedesco, che ritrae un uomo identico a Bellini «mentre cammina sul binario 1, subito dopo l'esplosione». Identificato dalle perizie della polizia scientifica, l'imputato è stato anche «riconosciuto in termini di certezza» dall'ex moglie, che al processo ha testimoniato di aver mentito ai magistrati dell'epoca, affermando falsamente che al momento della strage Bellini fosse con lei a Rimini: ora lei stessa ha «demolito quell'alibi», come osserva la corte.
Bellini è un ex pentito, già condannato per una serie di omicidi di 'ndrangheta, che ha confessato anche di aver ucciso, negli anni Settanta, uno studente emiliano di sinistra. Ha avuto anche rapporti diretti con boss stragisti di Cosa Nostra. Per la bomba alla stazione di Bologna si è sempre proclamato innocente.
La sentenza della corte d'assise di Bologna riconferma anche la colpevolezza dei terroristi dei Nar, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già condannati in via definitiva come esecutori della strage. I giudici evidenziano come le indagini degli ultimi anni hanno fatto emergere nuove prove a loro carico, anche sui rapporti con il capo della P2, che riguardano anche Gilberto Cavallini, armiere, tesoriere e killer della stessa organizzazione neofascista, condannato in primo grado e ora in attesa del processo d'appello.
La sentenza depositata ieri solleva invece gravi dubbi sull'assoluzione di Sergio Picciafuoco, che fu ferito dalla bomba in stazione e si curò sotto falso nome. Alla luce delle nuove prove, spiegano i giudici, quel verdetto «merita di essere rivisto», anche se solo sul piano della verità storica. Picciafuoco infatti è morto nel 2022, dopo un’ultima serie di tempestose deposizioni, e comunque non avrebbe potuto essere processato una seconda volta per la stessa accusa da cui era ormai stato assolto in via definitiva.
Il nuovo verdetto sulla strage di Bologna riconferma anche la genesi ignobile della falsa pista palestinese-tedesca, propagandata anche in questi anni da legioni di disinformatori: all'origine c'è una serie di tangenti pagate da Gelli, dal 1979 al 1980, a un ex senatore del Msi, Mario Tedeschi, anche lui piduista, direttore di una rivista di destra che dopo ogni bonifico pubblicava notizie false su ipotetici attentatori stranieri. Tedeschi non è mai stato indagato: anche lui è morto molto prima che si scoprisse il «documento Bologna» con il suo nome.
Tra i condannati, per reati minori come la falsa testimonianza, c'è anche Domenico Catracchia, l'immobiliarista che secondo l'accusa gestiva una serie di residenze a Roma per il servizio segreto civile (Sisde). Le nuove indagini della procura generale hanno fatto emergere un incredibile intreccio tra apparati statali e terroristi, sia di destra che di sinistra: ora la sentenza conferma che un appartamento in via Gradoli 96, preso in affitto sotto falso nome dal capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti (e usato da altri brigatisti perfino durante il sequestro di Aldo Moro), fu poi diviso in due locali, uno dei quali, dopo la strage di Bologna, diventò il covo dei terroristi dei Nar, ormai ricercati, che lo usarono tra l’altro per preparare l'omicidio di due poliziotti che indagavano sui neofascisti.
Con la bomba alla stazione di Bologna Licio Gelli voleva dominare la nazione. PAOLO MORANDO su Il Domani il 06 aprile 2023 Nella sentenza depositata martedì 5 aprile ci sono nuovi dettagli sulla strage di Bologna: «Si deve essere portati a ritenere plausibile che Fioravanti e gli altri soggetti che parteciparono alla strage siano stati finanziati e coordinati da un livello strategico superiore, nel quale operavano esponenti della loggia massonica P2 e soggetti appartenenti ai servizi segreti».
A giudizio della corte, la chiave della partecipazione dei Nar alla strage sta nei soldi. Provenienti da una oscura movimentazione di milioni di dollari su propri conti correnti da parte di Licio Gelli nelle settimane immediatamente precedenti la strage.
Le prime 400 pagine delle motivazioni, che tracciano un ampio quadro della “strategia della tensione” avviata con la strage di piazza Fontana e in cui va inscritta anche la bomba alla stazione, non va letta come una molla scatenante di un ipotetico colpo di stato.
Stragi di Ustica e Bologna: nelle carte segrete del Sismi spunta il nome del terrorista Carlos. Gian Paolo Pelizzaro e Gabriele Paradisi e Andrea Soglio su Panorama il 29 Marzo 2023
Esiste un nuovo, possibile collegamento tra il terrorista Carlos e le due misteriose stragi di Ustica e di Bologna. Il legame emerge da un vecchio documento dei servizi segreti militari italiani, fin qui classificato «segretissimo». Si tratta di un appunto, datato lunedì 14 aprile 1980, nel quale il Sismi riferì al presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, e ai ministri della Difesa e della Giustizia, rispettivamente Lelio Lagorio e Tommaso Morlino, nonché al segretario generale del Cesis, il prefetto Walter Pelosi, l’allarmante notizia secondo cui elementi estremisti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), l’organizzazione terroristica guidata da George Habbash, avevano preso contatti con il terrorista venezuelano Carlos, nome di battaglia di Ilich Ramírez Sánchez, conosciuto internazionalmente anche come «lo Sciacallo».
Il Sismi, cioè il nostro servizio segreto militare di allora, segnalava la presenza di Carlos a Beirut. E riteneva possibile «un’iniziativa contro l’Italia», cioè un attentato come ritorsione per il mancato rispetto degli accordi del cosiddetto Lodo Moro. L’iniziativa avrebbe potuto essere «affidata ad elementi autonomi o non palestinesi e probabilmente europei, allo scopo di non creare difficoltà all’azione politico diplomatica di Arafat per il riconoscimento dell’Olp (cioè l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndr)». L’allarme del Sismi su Carlos a Beirut e sui suoi allarmanti rapporti con i palestinesi arriva a Roma esattamente 74 giorni prima del disastro del Dc9 Itavia, che intorno alle 21 del 27 giugno 1980 sarebbe precipitato con 81 persone a bordo nel Tirreno meridionale, tra le isole di Ponza e di Ustica. E arriva 110 giorni prima dell’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna, il 2 agosto 1980, che avrebbe provocato la morte di almeno 85 persone. L’appunto inedito del Sismi, datato 14 aprile 1980 e da allora classificato «segretissimo», fu indirizzato al governo italiano dal capo del Centro Sismi a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone. Il messaggio era l’ultimo risultato di un lungo negoziato con un alto esponente del Politburo del Fplp, Taysir Qubaa, che Giovannone aveva avviato all’indomani dell’arresto a Bologna (il 14 novembre 1979) di un giordano di origini palestinesi, Abu Anzeh Saleh, responsabile della rete clandestina del Fplp in Italia. Saleh, che come copertura era studente universitario a Bologna, era stato coinvolto nel traffico di due lanciamissili di fabbricazione sovietica SAM 7 Strela, che i carabinieri avevano sequestrato la notte tra il 7 e l’8 novembre di quell’anno a Ortona. Le trattative tra Giovannone e Qubaa, che agiva come diretto superiore di Saleh e rispondeva al Fplp di George Habbash per le attività del suo «uomo in Italia», si erano intensificate dopo la condanna a 7 anni di reclusione che il 25 gennaio 1980 era stata inflitta dal Tribunale di Chieti a Saleh e ai suoi complici, i tre esponenti romani di Autonomia operaia Giorgio Baumgartner, Luciano Nieri e Daniele Pifano: i tre erano stati arrestati nei pressi del porto di Ortona (Chieti) la notte del 7 novembre 1979 mentre in un furgone trasportavano i due lanciamissili, acquistati dal Fplp al prezzo di 60mila dollari. Dopo quell’arresto, e soprattutto negli ultimi mesi, Giovannone e Qubaa avevano giocato una rischiosa partita a scacchi che li aveva impegnati anche e soprattutto a titolo personale. Per tutti e due era una sorta di patto col diavolo. Il primo, infatti, era un po’ il «fideiussore» del controverso Lodo Moro, cioè l’accordo segreto (il cui nome era collegato a quello dell’ex presidente del Consiglio che aveva spinto per la sua stipula) che impegnava il nostro governo a tollerare il passaggio sul suolo italiano di elementi del terrorismo palestinese, ottenendone in cambio la garanzia che non si sarebbero verificati attentati contro obiettivi del nostro Paese. Giovannone era anche il «garante» delle attività di Abu Anzeh Saleh in Italia. E lo era sin dal 27 ottobre 1974, come dimostra un salvacondotto predisposto in favore di Saleh e controfirmato dal direttore dei servizi segreti militari di allora, l’ammiraglio Mario Casardi, il quale riconosceva e sottoscriveva le rassicurazioni fornite all’epoca proprio da Qubaa. Quest’ultimo, sul versante opposto, era il burattinaio dello stesso Saleh, con cui aveva forse un legame di parentela, e rispondeva delle sue attività al Politburo del Fplp. Se Qubaa, a causa di un suo uomo (in questo caso Saleh), creava un problema che rischiava di coinvolgere l’organizzazione, toccava a lui trovare al più presto una soluzione. A parti invertite, lo stesso meccanismo valeva per Giovannone, ma nei confronti del servizio segreto militare e dello Stato.
Giovannone e Qubaa, insomma, erano coinvolti in un doppio intreccio ad alto rischio, personale e professionale, che risaliva all’autunno del 1974 e che si era aggrovigliato proprio intorno alla figura e al ruolo di Saleh. Un personaggio che per il Fplp faceva da ufficiale di collegamento in Italia con il gruppo Carlos, l’organizzazione terroristica «Separat», così denominata dalla Stasi, i servizi segreti della Germania orientale. Non va dimenticato, infatti, che nell’agenda personale di Saleh, sequestrata dai carabinieri nel suo appartamento bolognese il 14 novembre 1979, cioè il giorno stesso del suo arresto, alla pagina corrispondente al 22 luglio di quell’anno era annotato il numero della casella postale noleggiata da Saleh alle Poste centrali di Bologna: il 904. Lo stesso numero di casella postale era stata annotata da Carlos nella sua agendina, ritrovata dal servizio di sicurezza ungherese nella base dello Sciacallo a Budapest. Nell’appunto del Sismi del 14 aprile 1980 c’è la conferma di quanto avrebbe dichiarato a verbale – l’8 ottobre 1986, davanti al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, nell’ambito dell’inchiesta sul traffico di armi tra l’Olp e le Brigate Rosse – il colonnello Silvio Di Napoli, all’epoca dei fatti vicedirettore della seconda Divisione del Sismi (ricerca all’estero), sui contatti presi a Beirut tra il Fplp e il super terrorista internazionale Carlos. Il colonnello Di Napoli rivelò (e il passaggio venne trascritto a mano dal giudice istruttore in calce al verbale dopo la sua riapertura, trattandosi di una integrazione di particolare rilevanza) che «dopo la prima condanna inflitta agli autonomi e al giordano pervenne da Giovannone l’informativa secondo cui il Fplp aveva preso contatti con il terrorista Carlos. Ciò avallò la minaccia prospettata da Habbash». Oggi, 37 anni dopo, trovano quindi una straordinaria conferma le dichiarazioni rese alla magistratura dal colonnello Di Napoli sui contatti tra Carlos e Fplp nella primavera del 1980, così come le sue rivelazioni sulle «minacce contro gli interessi italiani» da parte palestinese, nel quadro della crisi scoppiata all’indomani del sequestro dei lanciamissili a Ortona, con l’arresto e la condanna in primo grado dei tre autonomi romani e di Saleh. Tecnicamente, dal punto di vista formale, essendo il documento del Sismi, alla data dell’interrogatorio del colonnello Di Napoli, coperto da segreto di Stato da oltre due anni, l’ufficiale della nostra intelligence militare, rivelando quelle informazioni avrebbe commesso un reato. Fortunatamente per lui, nessuno se ne accorse. Tornando al documento del 14 aprile 1980, il Sismi attirava l’attenzione del governo di Roma sulle allarmanti notizie relative ai contatti presi in quei giorni dal Fplp con Carlos. Informazioni che avvaloravano le gravissime minacce palestinesi rivolte alle autorità italiane dopo la condanna di Saleh. Su questo punto esiste un ulteriore, straordinario riscontro. Il 28 marzo 1980 – appena un paio di settimane prima dell’appunto segretissimo inviato dal Sismi al governo Cossiga – Taysir Qubaa si era incontrato clandestinamente a Berlino Est con Carlos e con il suo braccio destro, il tedesco Johannes Weinrich, in una suite dell’Interhotel Stadt Berlin. Il loro incontro venne puntualmente registrato dalla polizia segreta della Ddr, come dimostra il rapporto informativo del 25 aprile 1980, predisposto dalla XXII divisione della Stasi. L’esponente palestinese, per dissimulare la sua identità, si era presentato alla riunione utilizzando il falso nome di Gerald Rideknight. C’è il fondato sospetto che Qubaa fosse un Giano Bifronte: da una parte cospirava con il gruppo Carlos contro il nostro Paese, dall’altra negoziava con il colonnello Giovannone, mostrandosi interlocutore «responsabile e moderato». Alla luce di quanto si scopre oggi, Qubaa appare come un campione del doppio gioco. E non è escluso che lo stesso Giovannone ne sia caduto vittima. L’appunto del Sismi del 14 aprile 1980 fu coperto dal segreto di Stato dal presidente del Consiglio Bettino Craxi il 28 agosto 1984, dopo che lo stesso Giovannone, indagato nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Roma sulla sparizione a Beirut (il 2 settembre 1980) dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni, chiese alla presidenza del Consiglio l’opposizione del segreto di Stato sui suoi rapporti con i palestinesi. L’appunto è stato declassificato il 26 marzo 2021, insieme ad altri, dall’Aise (l’Agenzia che ha preso il posto del Sismi). La decisione, due anni fa, è arrivata al termine di un lungo dialogo tra il governo presieduto da Mario Draghi e il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) presieduto da Adolfo Urso. Il 16 aprile 2021 il Dis (il Dipartimento alle dipendenze del governo che coordina l’attività dei due rami dei servizi segreti) ha preso atto del provvedimento di declassifica da segretissimo a segreto. Questo passaggio formale ha permesso al governo Draghi di svincolare dal «divieto assoluto di ostensibilità» numerosi atti del vecchio Sismi, relativi ai rapporti tra Giovannone e la dirigenza del Fplp, e di trasmetterne una parte all’autorità giudiziaria, che ne aveva fatto richiesta. L’appunto del 14 aprile 1980 fa parte di questa partita. Altri 32 documenti sono stati invece consegnati all’Archivio centrale dello Stato di Roma, e restano comunque non divulgabili con «vincolo di riservatezza».
Da open.online il 28 gennaio 2023.
Stefano Sparti era il figlio di Massimo, ex Banda della Magliana e grande accusatore di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti per la strage di Bologna. È morto dopo una caduta dal settimo piano da un palazzo di Largo Ferruccio Mengaroni a Tor Bella Monaca. Il 53enne era malato da tempo.
Il pubblico ministero Francesco Cascini ha aperto un’indagine per istigazione al suicidio. Si farà un’autopsia del corpo. Il Messaggero ha parlato con i suoi vicini. Che lo descrivono come un uomo schivo e solitario, a volte ubriaco. Ma si chiedono anche come abbia fatto a scavalcare la finestra per buttarsi di sotto visto che non deambulava. E ricordano che la criminalità in zona ha un racket di case popolari occupate. «Qui quando rimani da solo scattano gli agguati per occuparti la casa», sostengono.
Il pentito della strage alla stazione di Bologna
Stefano, separato, era malato da tempo. Anche suo figlio era malato dalla nascita. «Aveva bisogno di cure, era in forte stato di abbandono e depresso. Questa morte si poteva evitare», aggiungono i vicini. «Diceva che sarebbe morto assieme al figlio», sostiene una di loro. Mentre la signora che abita al decimo piano racconta che quando è avvenuta la tragedia, stava scendendo con i cani ma è rimasta bloccata nell’ascensore «perché non si chiudevano le porte, quando finalmente sono scesa ho visto l’uomo a terra appena caduto, potevo essere lì pochi minuti prima».
Massimo Sparti è stato uno dei testimoni più importanti del processo sulla strage del 2 agosto alla stazione di Bologna. Affermò di aver preparato due passaporti per Fioravanti e Mambro due giorni dopo la bomba. E il capo dei Nar gli avrebbe detto «Hai visto che botto?». Nel 2007 Stefano aveva smentito il padre. Sostenendo che fosse un bugiardo e un violento oltre ad essere un assuntore di cocaina.
(…)
Strage di Bologna, Stefano Sparti caduto dalla finestra nella sua casa di Tor Bella Monaca. Smentì le accuse del padre a Francesca Mambro e Fioravanti. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.
L'allarme dato da alcuni residenti di largo Ferruccio Mengaroni che hanno trovato il corpo in cortile. Il 53enne, sotto processo per calunnia, aveva le chiavi di casa in tasca. «Mio padre mi disse: "Non potevo fare altrimenti"»
Nessuno si è accorto che era caduto nel cortile interno di una delle torri di Tor Bella Monaca, a largo Ferruccio Mengaroni. A dare l'allarme ieri mattina, poco dopo le 11, alcuni residenti che hanno trovato il corpo. Per Stefano Sparti, 53 anni, figlio di Massimo, il principale accusatore di Valerio Giusva Fioravanti e Francesca Mambro per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, non c'era niente da fare. In tasca aveva le chiavi di casa, dell'appartamento dove abitava nello stesso palazzo e che gli agenti hanno trovato in disordine, anche se non ci sarebbero elementi per pensare che sia stato messo a soqquadro
Sarà ora l'autopsia a stabilire le cause del decesso di Sparti che sembra vivesse da solo nell'abitazione a Tor Bella Monaca. Fino a ieri sera nessuno si era presentato al Policlinico di Tor Vergata dove saranno effettuati gli esami autoptici. Fra le ipotesi seguite da chi indaga quella di una caduta dall'alto, bisognerà verificare se accidentale o se si sia trattato di un gesto volontario, oppure se ci siano ancora altre motivazioni.
Sparti era sotto processo a Bologna dall'ottobre scorso con l'accusa di aver deposto il falso nella testimonianza del 12 dicembre 2018 durante il processo per la strage all'ex Nar Gilberto Cavallini. In particolare a essere messo in dubbio è il contenuto dell'ultimo incontro in ospedale con suo padre Massimo che, in punto di morte, alla domanda del figlio sul perché avesse indicato secondo lui falsamene proprio Fioravanti e Mambro, gli aveva risposto: «Non potevo fare altrimenti e l'ho fatto per voi». Fra le questioni che si sarebbero dovute affrontare al dibattimento anche quella sul certificato medico per tumore al pancreas che consentì a Massimo Sparti, pentito della Banda della Magliana, di uscire dal carcere. Per il figlio era falso anche quello, e la difesa ha sempre sostenuto che il documento fu il «premio» per aver accusato i Nar della strage.
Già nel maggio 2007 Sparti, che all'epoca dei fatti di Bologna aveva 12 anni, rilasciò un'intervista a «La Storia siamo noi» di Giovanni Minoli, sottolineando proprio che il padre, nazista dichiarato, che lo aveva chiamato Stefano proprio in modo che le iniziali del figlio fossero S.S., e dell'altro figlio Alessandro, S.A., «aveva mentito». Anche perché il 4 agosto 1980, quando due giorni dopo la strage Sparti raccontò che Fioravanti gli aveva chiesto a Roma documenti d'identità falsi per lui e Mambro, in realtà - disse il figlio - «stavamo tutti a casa a Cura di Vetralla (Viterbo) pronti a partire per andare in montagna». Versione data anche dalla madre, dalla nonna e dalla tata di Stefano Sparti.
Strage Bologna, il suicidio di Sparti e i tormenti sulla “bugie” del padre. David Romoli su Il Riformista il 29 Gennaio 2023
Il corpo di Stefano Sparti lo hanno trovato i vicini di casa nel cortile delle torri di Tor Bella Monaca. Tutto lascia pensare che si sia ucciso buttandosi dalla finestra della casa in cui abitava, al quattordicesimo piano, anche se prima dell’autopsia è impossibile avere certezze e alcuni elementi lasciano margini di dubbio. Aveva 53 anni ed era sotto processo a Bologna per falsa testimonianza in uno degli ultimi processi sulla strage del 2 agosto 1980 quello contro Luigi Ciavardini. La prossima udienza era fissata alla fine di febbraio.
Sparti era figlio di Massimo la cui testimonianza, per stessa ammissione della corte in un altro dei recenti processi per Bologna, è il solo elemento su cui si basano le condanne contro Valerio Fioravanti e Francesca Mambro e, di conseguenza, contro tutti gli altri imputati. Nel 2007, intervistato da Giovanni Minoli, dichiarò che il padre, in punto di morte, aveva ammesso di aver mentito giustificandosi con una frase ripetuta al processo Cavallini: “Non avevo alternative. Lo ho fatto per voi”. Nell’udienza del 18 dicembre 2018 il figlio del superteste confermò quelle affermazioni e giurò che il 4 agosto 1980, data nella quale Fioravanti lo avrebbe incontrato a Roma per chiedergli di procurare due documenti falsi, suo padre era invece a Cura di Vetralla.
Non era il primo a smentire la presenza nella Capitale di Sparti in quel giorno: lo avevano già fatto la moglie e la madre del teste, nonché la colf. Diverse corti hanno scelto di ignorare quelle testimonianze che smantellavano l’unico elemento fondativo della condanna. La stessa cosa ha fatto quella del processo Cavallini, aggiungendo una denuncia per falsa testimonianza e depistaggio trasformatasi in rinvio a giudizio nell’aprile scorso. L’interrogatorio di Sparti, facilmente reperibile su Radio Radicale, è un esempio raggelante di cosa siano stati i processi per la strage di Bologna, con domande come: “Se suo padre era così violento perché non lo ha denunciato anche se aveva solo 11 anni?”. “Com’è possibile che lei ricordi quel che è successo nei primi di agosto 1980 se non sa neppure la data precisa del divorzio tra i suoi genitori?”.
La denuncia è scattata perché, secondo la Corte, Sparti si era confuso sul giorno in cui Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio e allora appena scarcerato, era andato a trovare la famiglia Sparti a Vetralla. L’allora undicenne ricordava il 2 agosto mentre una nota della questura riportava le 19.45 come ora della scarcerazione, rendendo così impossibile l’arrivo a Vetralla al mattino, come sostenuto invece, 38 anni più tardi, da Stefano. Il non essere creduto era per Stefano Sparti un cruccio profondissimo. Non capiva come si potesse dar credito a quello che lui stesso definiva “un bugiardo cronico” e non a tutte le testimonianze che lo contraddicevano. Nella speranza di trovare conferma alle sue parole, Stefano aveva cercato di incontrare De Vecchi, colui che aveva materialmente realizzato i documenti falsi.
Aveva rintracciato l’indirizzo, si era presentato a casa sua, si era più volte appostato cercando di parlarci, a volte da solo, altre volte con giornalisti interessati al caso. Non è mai riuscito a vederlo. Stefano Sparti ha avuto una vita tragica, con un figlio adorato affetto da malattia degenerativa incurabile a cui il padre, a sua volta malato, aveva dedicato l’intera vita. Se, come è probabile, il suo è stato un suicidio, diverse motivazioni lo hanno spinto a quel salto. Ma il rinvio a giudizio di Bologna è stato il colpo di grazia. David Romoli
La storia dei morti per la strage di Bologna. PAOLO MORANDO su Il Domani il 15 gennaio 2023
C'erano italiani, tedeschi, britannici, spagnoli, svizzeri, francesi e giapponesi.
Erano quasi le 10.30 del 2 agosto del 1980, quando una bomba esplose nella sala d’attesa della seconda classe della stazione.
È la storia dell'attentato più sanguinoso nell'Italia repubblicana, la cui sentenza più recente della corte d’assise di Bologna ha ripercorso nel dettaglio i fatti.
Per sintetizzare quanto avvenne la mattina di sabato 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna si farà qui particolare riferimento alla sentenza che più di recente ha ripercorso nel dettaglio i fatti: quella della Corte d’assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo (anche nel suo caso il nono) per concorso nella strage l’ex terrorista neofascista dei Nar Gilberto Cavallini.
La sentenza è stata pronunciata il 9 gennaio 2020, le motivazioni sono state depositate praticamente un anno dopo, il 7 gennaio 2021. E iniziano ricordando come fino all’11 marzo 2004, quando a Madrid avvenne l’attacco di matrice islamista a più treni locali provocando 192 morti, si sia trattato dell’attentato più sanguinoso verificatosi in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.
E comunque è a tutt’oggi il più grave registrato in Italia, con un bilancio ben superiore a quelli di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 (17 vittime) e, nel 1974, il 28 maggio in Piazza della Loggia a Brescia (8) e la notte fra il 3 e il 4 agosto sul treno Italicus (12), nella grande galleria dell’Appennino a San Benedetto Val di Sambro. A Bologna i morti furono invece 85 e addirittura 216 i feriti, molti dei quali mutilati.
LA BOMBA
Il 2 agosto 1980 la bomba esplose in stazione alle 10.25. Era contenuta in una valigia forse lasciata su un tavolino appoggiato al muro portante della sala d’attesa della seconda classe, che era affollatissima trattandosi del primo sabato di agosto: giorno di grandi spostamenti per le vacanze, nel nodo ferroviario più trafficato d’Italia.
E infatti le vittime furono di diverse nazionalità: 76 italiani, tre tedeschi (madre e due figli), due britannici (una coppia di fidanzati ventiduenni), uno spagnolo, una svizzera, una francese e addirittura un giovane giapponese. Si chiamava Iwao Sekiguchi, aveva 20 anni, viveva nei pressi di Tokyo con i genitori, una sorella e un fratello. Era stato ammesso a una delle università più esclusive del suo paese, la Waseda, dove studiava letteratura giapponese.
Ma la sua passione erano l’arte, la lingua e le tradizioni italiane. Aveva quindi ottenuto una borsa di studio dal Centro culturale italiano a Tokyo e il 23 luglio 1980 era arrivato a Roma, dove era rimasto una settimana, trascorsa la quale era partito per Firenze. Aveva poi deciso di lasciare il capoluogo toscano per raggiungere Bologna. Iwao teneva un diario del suo viaggio in Italia: «2 agosto: sono alla stazione di Bologna. Telefono a Teresa ma non c’è. Decido quindi di andare a Venezia. Prendo il treno che parte alle 11.11. Ho preso un cestino da viaggio che ho pagato cinquemila lire. Dentro c’è carne, uova, patate, pane e vino. Mentre scrivo sto mangiando». Fu l’ultima pagina che scrisse.
L’AUTO DISTRUTTA
Morirono anche sei donne che lavoravano per la ditta Cigar, che si occupava della ristorazione all’interno della stazione e che aveva i suoi uffici proprio sopra alle sale d’aspetto. E tra le vittime vi furono diversi bambini, una mezza dozzina. Tra loro Manuela Gallon, 11 anni, di Bologna: aveva superato gli esami di quinta elementare e si preparava ad affrontare le scuole medie.
I genitori l’avevano accompagnata in stazione e stavano attendendo il treno che l’avrebbe portata alla colonia estiva di Dobbiaco, in Alto Adige, dove avrebbe dovuto trascorrere due settimane di vacanza. I tre si trovavano vicino alla sala d’attesa e il padre si allontanò per comprare le sigarette. Proprio in quell’istante scoppiò la bomba: Manuela rimase gravemente ferita, fu ritrovata e portata in coma all’ospedale dove morì cinque giorni dopo.
Morì anche la madre Natalia Agostini, proprio mentre si stavano svolgendo i funerali della figlia, mentre il padre rimase ferito. La bomba sterminò invece per intero la famiglia Mauri di Como: Carlo, perito meccanico di 32 anni, la moglie Anna Maria Bosio di 28 e il figlio Luca, 6 anni, che dopo l’estate avrebbe frequentato la prima elementare.
Venerdì 1 agosto erano partiti verso Marina di Mandria, in provincia di Taranto, per trascorrervi le vacanze. Nei pressi di Bologna ebbero però un incidente automobilistico: rimasero illesi, ma l’auto si guastò e venne lasciata da un meccanico a Casalecchio di Reno. La famiglia Mauri avrebbe raggiunto la Puglia in treno: arrivarono in stazione poco prima dello scoppio.
SOTTO LE MACERIE
Tremendo anche il destino della famiglia di Vito Diomede Fresa, 62 anni, direttore dell’Istituto di patologia generale alla facoltà di Medicina di Bari. Con la moglie Errica Frigerio, di 57, e il figlio Francesco Cesare, di 14, erano partiti il giorno prima dal capoluogo pugliese in treno, per evitare il traffico autostradale. Sopravvisse solo la figlia maggiore, che non era partita assieme ai genitori e al fratello.
La vittima più giovane della strage, Angela Fresu, aveva invece appena 3 anni. Abitava a Gricciano di Montespertoli, in provincia di Firenze, la sua famiglia di origine sarda era composta dalla mamma Maria, dai nonni e dai sette fratelli della mamma. Era in stazione con la mamma e due sue amiche perché stavano andando in vacanza sul lago di Garda.
L’esplosione colpì Maria, Angela e Verdiana Bivona, una delle amiche della mamma, mentre si trovavano in sala d’aspetto. Il corpo di Maria Fresu non è mai stato ricomposto. Leo Luca Marino, 24 anni, originario di Altofonte in provincia di Palermo, morì invece assieme a due sorelle, Angela e Domenica di 23 e 26 anni, e alla fidanzata Antonella Ceci, diciannovenne di Ravenna. Il giovane proveniva da una famiglia formata dai genitori e da otto figli. Dal 1975 viveva appunto a Ravenna, dove lavorava come muratore e dove aveva conosciuto Antonella.
Il 2 agosto i due ragazzi erano in stazione per attendere Angela e Domenica, le sorelle di Leo Luca con le quali sarebbero tornati a Ravenna per un breve periodo di vacanza. Il treno su cui dovevano salire era stato posticipato alle 11: vennero ritrovati tutti e quattro senza vita sotto le macerie.
REPERTI DALLA GUERRA
Lo scoppio della bomba provocò il crollo dell’ala ovest della stazione, distrusse 30 metri di pensilina del primo binario, dove stazionava il convoglio Ancona-Chiasso, e investì anche il parcheggio dei taxi appena fuori la stazione. La natura dell’ordigno venne così indicata nella perizia disposta ai tempi del primo processo sulla strage, cioè tra il 1987 e l’88: 23 chilogrammi di esplosivo, composto da una miscela di 5 chilogrammi di tritolo e T4, definita Compound B2, potenziata da 18 chilogrammi di gelatinato, nella fattispecie nitroglicerina a uso civile.
Le conoscenze e le strumentazioni scientifiche alla base delle tecniche peritali di allora sono però state negli anni ampiamente superate. E così, nel corso del processo Cavallini, una nuova perizia esplosivistica ha permesso di fissare, si legge in sentenza, «un punto fermo e non più controverso: l’esplosivo era di tipo militare e proveniva da reliquati della Seconda guerra mondiale». Per inciso: proprio recuperando dai fondali del lago di Garda bombe inesplose, la destra eversiva (da Ordine nuovo in giù) ha avuto per anni a disposizione materiale di quel tipo.
Si trattava in particolare di una quindicina di chilogrammi di Compound B (principalmente tritolo e T4, con tracce di Hmx), ma forse anche qualcosa meno, una quantità comunque tale da stare anche in una valigetta modello ventiquattrore, che quindi – recita la sentenza Cavallini – «poteva essere tranquillamente trasportata da una sola persona».
LA PERIZIA
La perizia, svolta da Danilo Coppe (perito esplosivista e geominerario di accreditata competenza) e dal tenente colonnello dei carabinieri Adolfo Gregori (comandante della sezione chimica - esplosivi e infiammabili del Ris di Roma) su incarico della stessa Corte d’assise, ha inoltre stabilito che l’esplosivo richiedeva “INEVITABILMENTE” (scritto proprio maiuscolo) un detonatore, con sistema di innesco regolato da un timer (un orologio o una sveglia, con quadrante in plastica), e che è pressoché da escludere che l’esplosione sia stata accidentale: anzi, ad avviso della Corte, è «da escludere completamente».
La perizia Coppe a un certo punto dettaglia anche una comparazione tra l’esplosivo usato a Bologna e quelli di tutte le altre stragi, in una sintetica tabella dove a proposito dell’autobomba di Peteano del 31 maggio 1972 (l’attentato degli ordinovisti friulani Vincenzo Vinciguerra, Carlo Cicuttini e Ivano Boccaccio, in cui morirono tre carabinieri) si parla di Semtex: cioè l’esplosivo riconducibile a terrorismo di sinistra individuato negli anni Ottanta da una perizia notoriamente falsissima, firmata da quel Marco Morin legato a Ordine nuovo che non a caso, proprio per quella perizia, è stato condannato a 3 anni e 4 mesi per reati che oggi definiremmo di depistaggio (allora il Codice non lo prevedeva e la condanna fu per favoreggiamento e peculato). Si tratta certamente di una svista: con le perizie occorre sempre andare con i piedi di piombo. Specie con quelle che riguardano la strage di Bologna.
Questo articolo è un estratto dal libro La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito (Feltrinelli, 336 pagine, 20 euro), in libreria da martedì 17 gennaio 2023
PAOLO MORANDO. Giornalista, ha lavorato in quotidiani di Trento, Bolzano e Verona. Ora scrive per Domani, Huffington Post, Internazionale, L'Essenziale e sul blog minima&moralia. Per Editori Laterza è autore di Dancing Days. 1978-1979: i due anni che hanno cambiato l’Italia (2009, ristampato nel 2020), ’80. L’inizio della barbarie (2016, finalista al Premio Estense), Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019, vincitore del Premio Fiuggi Storia, sezione Anniversari), Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (2021, finalista al premio Acqui Storia) e L'ergastolano. La strage di Peteano e l'enigma Vinciguerra (2022)