Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2023
LA GIUSTIZIA
QUINTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una presa per il culo.
Gli altri Cucchi.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Un processo mediatico.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Senza Giustizia.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Qual è la Verità.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli incapaci.
Parliamo di Bibbiano.
Scomparsi.
Nelle more del divorzio.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Mai dire legalità. Uno Stato liberticida: La moltiplicazione dei reati.
Giustizia ingiusta.
L’Istituto dell’Insabbiamento.
L’UPP: l’Ufficio per il Processo.
Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.
Le indagini investigative difensive.
I Criminologi.
I Verbali riassuntivi.
Le False Confessioni estorte.
Il Patteggiamento.
La Prescrizione.
I Passacarte.
Figli di “Trojan”.
Le Mie Prigioni.
Il 41 bis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Diffamazione.
Riservatezza e fughe di notizie.
Il tribunale dei media.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Il Caso Eni-Nigeria spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Giulio Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Biondo spiegato bene.
Piccoli casi d’Ingiustizia.
Casi d’ingiustizia: Enzo Tortora.
Casi d’ingiustizia: Mario Oliverio.
Casi d’ingiustizia: Marco Carrai.
Casi d’ingiustizia: Paola Navone.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Comandano loro.
Toghe Politiche.
Magistratopoli.
Palamaragate.
Gli Impuniti.
INDICE SESTA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di Marta Russo.
Il mistero di Luigi Tenco.
Il Caso di Marco Bergamo, il mostro di Bolzano.
Il caso di Gianfranco Stevanin.
Il caso di Annamaria Franzoni
Il caso Bebawi.
Il delitto di Garlasco
Il Caso di Pietro Maso.
Il mistero di Melania Rea.
Il mistero Caprotti.
Il caso della strage di Novi Ligure.
Il caso di Donato «Denis» Bergamini.
Il caso Serena Mollicone.
Il Caso Unabomber.
Il caso Pantani.
Il Caso Emanuela Orlandi.
Il mistero di Simonetta Cesaroni.
Il caso della strage di Erba.
Il caso di Laura Ziliani.
Il caso Benno Neumair.
Il Caso di Denise Pipitone.
INDICE SETTIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il caso della saponificatrice di Correggio.
Il caso di Augusto De Megni.
Il mistero di Isabella Noventa.
Il caso di Pier Paolo Minguzzi.
Il Caso di Daniel Radosavljevic.
Il mistero di Maria Cristina Janssen.
Il Caso di Sana Cheema.
Il Mistero di Saman Abbas.
Il caso di Cristina Mazzotti.
Il caso di Antonella Falcidia.
Il caso di Alessandra Matteuzzi.
Il caso di Andrea Mirabile.
Il caso di Giulia e Alessia Pisanu.
Il mistero di Gabriel Luiz Dias Da Silva.
Il caso di Paolo Stasi.
Il mistero di Giulio Giaccio.
Il mistero di Maria Basso.
Il mistero di Polina Kochelenko.
Il mistero di Alice Neri.
Il mistero di Augusta e Carmela.
Il mistero di Elena e Luana.
Il mistero di Yana Malayko.
Il caso di Luigia Borrelli.
Il caso di Francesca Di Dio e Nino Calabrò.
Il caso di Christian Zoda e Sandra Quarta.
Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.
Il mistero di Davide Piampiano.
Il mistero di Volpe 132.
Il mistero di Giuseppina Arena.
Il Caso di Teodosio Losito.
Il mistero di Michelle Baldassarre.
Il mistero di Danilo Salvatore Lucente Pipitone.
Il Caso Gucci.
Il mistero di «Gigi Bici».
Il caso di Elena Ceste.
Il caso di Libero De Rienzo.
La storia di Livio Giordano.
Il Caso di Alice Schembri.
Il caso di Rosa Alfieri.
Il mistero di Marina Di Modica.
Il Caso di Maurizio Minghella.
Il caso di Luca Delfino.
Il caso di Donato Bilancia.
Il caso di Michele Profeta.
Il caso di Roberto Succo.
Il caso di Pamela Mastropietro.
Il caso di Luca Attanasio.
Il giallo di Ciccio e Tore.
Il giallo di Natale Naser Bathijari.
Il giallo di Francesco Vitale.
Il mistero di Antonio Calò e Caterina Martucci.
Il caso di Luca Varani.
Il caso Panzeri.
Il mistero di Stefano Gonella.
Il caso di Tiziana Cantone.
Il mistero di Gilda Ammendola.
Il caso di Enrico Zenatti.
Il mistero di Simona Pozzi.
Il caso di Paolo Calissano.
Il caso di Michele Coscia.
Il caso di Ponticelli.
Il caso di Alfonso De Martino, infermiere satanico.
Il caso di Sonya Caleffi, la serial killer di Lecco.
Il caso di Rosa Bronzo, la serial killer di Vallo della Lucania.
Il mistero di Marcello Vinci.
Il mistero di Ivan Ciullo.
Il mistero di Francesco D'Alessio.
Il caso di Davide Cesare «Dax».
Il caso di Tranquillo Allevi, detto Tino.
Il caso Shalabayeva.
Il Caso di Giuseppe Pedrazzini.
Il Caso di Massimo Bochicchio.
Il giallo di Grazia Prisco.
Il caso di Diletta Miatello.
Il Caso Percoco.
Il Caso di Ferdinando Carretta.
Il mistero del “collezionista di ossa” della Magliana.
Il Milena Quaglini.
Il giallo di Lorenzo Pucillo.
Il Giallo di Vincenzo Scupola.
Il caso di Vincenzo Mosa.
Il Caso di Alessandro Leon Asoli.
Il caso di Santa Scorese.
Il mistero di Greta Spreafico.
Il Caso di Stefano Dal Corso.
Il mistero di Rkia Hannaoui.
Il mistero di Stefania Rota.
Il Mistero di Andrea La Rosa.
Il Caso Valentina Tarallo.
Il caso di Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi.
Il caso di Terry Broome.
Il caso di Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro.
Il Mistero di Giada Calanchini.
Il Caso di Cinzia Santulli.
Il Mistero di Marzia Capezzuti.
Il Mistero di Davide Calvia.
Il caso di Manuel De Palo.
Il caso di Michele Bonetto.
Il mistero di Liliana Resinovich.
Il Mistero del Cinema Eros.
Il mistero di Sissy Trovato Mazza.
I delitti di Alleghe.
Il massacro del Circeo.
Il mistero del mostro di Bargagli.
Il mistero del Mostro di Firenze.
Il Caso di Alberica Filo della Torre.
Il mistero di Marco Sconforti.
Il mistero di Giulia Tramontano.
Il mistero di Alvise Nicolis Di Robilant.
Il mistero di Maria Donata e Antonio.
Il caso di Sibora Gagani.
Il mistero di Franca Demichela.
Il mistero di Stefano Masala.
Il mistero di Luca Orioli Marirosa Andreotta.
Il caso di Emanuele Scieri.
Il caso di Carol Maltesi.
INDICE OTTAVA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il mistero di Pierina Paganelli.
L’omicidio Donegani.
Il mistero di Mario Bozzoli.
Il mistero di Fabio Friggi.
Il giallo della morte di Patrizia Nettis.
La vicenda di Gianmarco “Gimmy” Pozzi.
La vicenda di Elisa Claps.
Il mistero delle Stragi.
Il Mistero di Ustica.
Il caso di Piazza della Loggia.
Il Mistero di piazza Fontana.
Il mistero Mattei.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
I nomi dimenticati.
LA GIUSTIZIA
QUINTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Comandano loro.
Giudicandi, ingiudicati.
L’Organizzazione.
Speculatori.
Concorsi truccati.
La Corte di Cassazione.
I PM.
Il CSM.
Giudici di Pace.
Giudici e Stampa amica.
La separazione delle carriere.
I Carrieristi.
La sinistra giudiziaria.
Il rimpianto delle toghe. La nostalgia del Pm Spataro per gli anni di piombo…L’epoca buia del terrorismo segnò l’avvento dello strapotere della magistratura, che dagli anni 70 entrò sempre più a gamba tesa (vedi Mani Pulite) sugli equilibri della nostra democrazia. Francesco Petrelli su L'Unità il 29 Novembre 2023
Ha ricordato con nostalgia, il dott. Spataro, i tempi del terrorismo allorquando magistratura e politica, assieme, scrivevano le leggi. Si trattava allora di una terribile emergenza, di una pagina buia della nostra democrazia che secondo molti commentatori ed analisti, lasciò una traccia indelebile negli equilibri politici ed istituzionali del Paese, alterati proprio nel fondamentale rapporto fra quei due diversi poteri.
Il sentir evocare quella drammatica stagione solo come un momento favorevole per la storia dei rapporti fra politica e magistratura lascia per questo piuttosto perplessi.
Sono molti, infatti, a rammentare come fu, proprio in quei terribili anni, che al di là degli esiti di quei rapporti di cui il dott. Spataro ha ricordato le virtù, ebbe a consumarsi quel sovvertimento negli equilibri fra i poteri che avrebbe segnato il definitivo debordare del potere giudiziario e – complici anche la lotta alla mafia e Mani pulite – l’inizio di quella che è stata non a caso definita, la Repubblica giudiziaria.
Una democrazia condizionata da una presenza costante della magistratura associata e delle Procure nelle politiche giudiziarie del Paese, resa succube da un potere di interdizione sulle riforme in materia e caratterizzata da un debordante assetto del Consiglio Superiore della Magistratura, autoassegnatosi competenze e virtù neppure immaginate nel disegno del costituente.
Ma se questo squilibrio è purtroppo serio, grave e reale, non è affatto serio il confronto che ne segue. Sono infatti oramai più di trenta anni che si assiste a una deriva insopportabile nella quale le parti in causa, politica e magistratura, vanno sviluppando in un tragico siparietto, a scapito del Paese, il loro irrisolto dialogo conflittuale privo di alcuna concreta prospettiva.
Un conflitto solo apparente che in realtà giova a entrambi i contendenti interessati solo a mantenere le loro posizioni e a conservare intatto il loro status quo. E appare ancor più triste, per questa ragione, assistere a queste improvvide grida di “al lupo al lupo” da parte di una politica che non è stata mai capace di colmare quel vuoto di competenza, di prestigio e di quel minimo di autostima necessari al riequilibrio delle forze.
Inutile denunciare complotti se non si ha neppure il coraggio di portare a termine una riforma semplice e coerente con la costituzione come la separazione delle carriere. Se non si ha neppure la forza di operare quella seria e minima riforma ordinamentale che metta fine al presidio dei magistrati all’interno del Ministero della Giustizia, dove si scrivono quelle stesse leggi che i giudici e i pubblici ministeri dovrebbero invece soltanto applicare.
Salvo che questo compito non venga assegnato a Commissioni ministeriali nelle quali la presenza dei magistrati è sempre quella di tre parti ad una. Perché è lì in questi gangli di potere che si annida il vero problema.
Si tratta di quella stessa politica che rimanda da trent’anni quelle piccole ma radicali riforme della giustizia e dell’ordinamento giurisdizionale che sole avrebbero potuto restituire un assetto maturo a questa nostra democrazia, in perpetuo altalenante fra l’attacco ai soli tutori della legalità e le rampanti prodezze del partito dei giudici, e restituire soprattutto ai cittadini un processo equo e giusto ed una giustizia degna di questo nome. Francesco Petrelli 29 Novembre 2023
I due giustizialismi. La politica italiana è sottomessa ai Pm, la riforma della giustizia è impossibile. La destra cavalca un giustizialismo che produce moltissimi voti. La sinistra vede nell’alleanza con la magistratura l’unica possibilità di resistere e di sferrare dei colpi. Occorrerebbero degli statisti: ne avete visto qualcuno in giro? Piero Sansonetti su L'Unità il 29 Novembre 2023
Il ministro Crosetto ha sollevato un problema serio. Quello dell’uso della giustizia a fini politici da parte di settori molto potenti della magistratura. Si è aperta una polemica, naturalmente, per la semplice ragione che la magistratura – e specialmente la magistratura associata – gode di un forte sostegno di settori importanti della stampa, e con facilità stronca qualunque attacco mediatico.
Mi pare che Crosetto sia stato messo all’angolo anche dai suoi, che si sono fatti impaurire dai giornali. Quasi nessuno, però, immagina che Crosetto abbia “inventato”. È molto, molto probabile che Crosetto abbia detto esattamente la verità. Qual è il problema?
La politica italiana è bloccata da due opposti giustizialismi, che si combattono tra loro, ma alla fine entrambi operano a difesa dalla magistratura e determinano in questo modo la sottomissione della politica all’Anm (cioè all’associazione dei magistrati) e il dominio della magistratura sulla società e sulle classi dirigenti. Torno tra qualche riga sull’Anm, prima vorrei spiegare cosa sono i due giustizialismi.
C’è quello cosiddetto di sinistra, che è vicino alle correnti di sinistra delle Procure – sostenuto dai tre giornali con un maggior grado di dipendenza dalle Procure: Il Fatto, Repubblica e Il Domani – e che di solito usa l’arma giudiziaria per indebolire lo schieramento politico di destra e le classi dirigenti dell’economia e della finanza.
Poi c’è il giustizialismo di destra, non meno esteso, che chiede manette e ferocia verso le classi più deboli, soprattutto verso il sottoproletariato e il popolo degli immigrati. Ma anche verso i giovani, soprattutto se politicamente impegnati.
Tra questi due giustizialismi c’è una differenza. Il giustizialismo di destra è sempre molto attivo nella difesa delle classi dirigenti. Cioè è attivo nel campo garantista quando la magistratura picchia in alto. E si esprime in forme giustizialiste solo quando picchia in basso.
Il giustizialismo di sinistra invece è molto attivo nel sostenere l’attacco della magistratura (delle Procure) verso la politica, soprattutto di destra, ma non si scalda a difesa dei più deboli. Cioè difetta molto nella fase garantista. Specie quando è al governo.
Per spiegarci basta fare due esempi: il comportamento repressivo dei governi di sinistra verso i migranti (nel gergo politico si chiama “minnitismo” e non è molto meno duro del “salvinismo“), e la sostanziale indifferenza verso altre operazioni giustizialiste dei governi di destra.
Non c’è stata una rivolta di sinistra, negli ultimi mesi, per le norme incostituzionali contro i migranti, o contro le Ong. E nemmeno, recentemente (escluse poche eccezioni tra le quali quella dell’ex parlamentare Paolo Siani), quando il governo ha approvato un decreto che obbliga i magistrati a mandare in cella i neonati, insieme alle loro madri, in caso di recidiva (cioè: di sospetto di recidiva).
C’è stata la rivolta invece – a difesa della magistratura – quando Crosetto ha accusato una corrente di sinistra della magistratura. La fotografia che ne esce è questa: spallucce per un neonato in carcere, scandalo per Crosetto.
La ragione per la quale la destra passa per garantista e la sinistra no, sta esattamente nelle cose che ho scritto. La destra ha un suo “angolo” garantista, e si infiamma quando viene colpita. La sinistra non si infiamma mai.
I due giustizialismi sembrano contrapposti e nemici. In realtà sono affiancati e oggettivamente alleati. La forza della magistratura associata sta tutta lì. La magistratura associata sa giocare benissimo con questi due giustizialismi, li sa far funzionare, rendere complementari e li sa mettere in sinergia.
In questo modo ha costruito un muro invalicabile che perpetua il suo potere e le sue capacità di interdizione che annulla qualunque tentativo vero di riforma della giustizia. Protagonista assoluto di questo continuo manovrare dei rappresentanti delle Procure, che assicurano l’immobilità dei governi – e l’immediata caduta dei ministri della Giustizia che provano ad avviare delle riforme – è l’Anm, l’associazione dei magistrati.
Organismo potentissimo, poco conosciuto nell’opinione pubblica (lavora benissimo nell’ombra, adoperando a suo favore l’esposizione mediatica solo di alcuni dei suoi membri) e probabilmente assolutamente illegale. La Costituzione sostiene che il giudice deve essere indipendente, autonomo e deve rispondere solo alla legge.
Non si sa se la Costituzione si riferisse solo al giudice o anche al ben più potente Pm. I magistrati però hanno sempre sostenuto che l’autonomia riguarda anche il Pm, e che è sacra. Può un giudice essere autonomo e rispondere solo alla legge, se fa parte di una corrente politica della magistratura, e di un’associazione, assolutamente politica, come è l’Anm? E così facendo, che garanzie offre ai cittadini, agli indiziati, agli imputati?
Naturalmente nessuna, anche perché è proprio il magistrato a tradire sistematicamente, in questo modo, lo spirito costituzionale. L’unica speranza per l’imputato è che il giudice non sia della stessa corrente del Pm. E quindi? Quindi non è possibile nessun ottimismo. La magistratura ha ancora largamente in mano il timone. Comanda. Decide.
Condiziona la politica ed esercita un potere spropositato di sopraffazione nei confronti dei media e dei singoli cittadini. Anche per noi giornalisti, mettersi contro la magistratura, anche solo criticare, è una cosa spericolata: ci espone a un rischio enorme. Anche perché, di solito, le nostre organizzazioni di categoria ci difendono sempre se siamo attaccati dai politici, mai e poi mai se siamo attaccati, con vere e proprie intimidazioni, da parte dei magistrati.
C’è la speranza che i due giustizialismi si sciolgano? No. Perché la destra cavalca un giustizialismo che produce moltissimi voti. Che le permette di impadronirsi della pancia del paese. La sinistra, che oggi è molto debole, vede nell’alleanza con la magistratura l’unica possibilità di resistere e di sferrare dei colpi. Occorrerebbero degli statisti per rompere questo circolo vizioso. Appunto: degli statisti. Ne avete visto qualcuno in giro? Piero Sansonetti 29 Novembre 2023
All'interno della maggioranza. Nordio contro Mantovano, scontro tra magistrati prestati alla politica. La miccia è stata accesa dal complotto giudiziario evocato da Crosetto e non ancora spenta nonostante qualche precisazione/correzione dello stesso ministro. Claudia Fusani su Il Riformista il 29 Novembre 2023
Lo “scontro” questa volta è tra magistrati. E all’interno della stessa maggioranza, tra l’ex pm e attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio e il giudice attualmente prestato alla politica, anzi a palazzo Chigi, Alfredo Mantovano, la toga cattolica e moderata che Giorgia Meloni ha chiamato accanto a sé a palazzo Chigi come anticorpo da eventuali tempeste giudiziarie che, a onore del vero, non sono mai mancate negli ultimi trent’anni e hanno segnato, a torto o a ragione, le varie leadership che si sono succedute a palazzo Chigi. Lo scontro quindi stavolta avrebbe uno schema ben diverso, e lontano da quello “tradizionale” tra politica e magistratura. Chi vuole portarlo qui, lo fa perché spera di nascondere il resto. Che è politicamente più complicato visto che ha a che fare con la stabilità stessa della maggioranza. E visto che è figlio dell’oramai famosa intervista rilasciata domenica mattina dal ministro della Difesa Guido Crosetto al Corriere della sera. “L’unica cosa che questo governo può temere è un’opposizione di tipo giudiziario che la possa destabilizzare” ha detto il ministro, tra i più seri e affidabili dalla squadra di governo, non uno che parla a caso e tra i fedelissimi della premier Meloni.
Il “complotto giudiziario” evocato da Crosetto è la miccia accesa, non ancora spenta nonostante qualche precisazione/correzione dello stesso ministro, che tiene tutto questo insieme. Crosetto dovrà spiegare, come chiedono le opposizioni, di cosa parlava e a chi parlava in quell’intervista. Dove, però, non è chiaro. Curiosamente, infatti, la Commissione antimafia ha detto no alla sua audizione chiarificatrice richiesta da tutte le opposizioni, da Italia viva al Pd, da Sinistra e Verdi ai 5 Stelle. Era stato Crosetto ad indicare l’Antimafia e il Copasir come sedi più idonee per spiegare il suo pensiero. Chiara Colosimo (FdI), e amica di Giorgia Meloni, ieri ha riunito l’ufficio di presidenza (dove siede l’ex procuratore Cafiero de Raho, M5s) e all’unanimità è stato valutato che non è il luogo adatto. “E’ al di fuori della legge istitutiva della Commissione” ha spiegato Colosimo, “non sarò certo io a creare il precedente”. Quindi, dove andrà il ministro della Difesa a spiegare il suo sospetto che ha un vago sapore eversivo? Al Copasir? “Beh, bisogna vedere se lo chiamano, se il presidente Guerini lo chiama, di certo Crosetto non si presenta da solo” ha precisato il capogruppo Foti (FdI). La sensazione è che si cerchi di far passare la cosa senza ulteriori e scomodi approfondimenti.
Allo stesso modo ieri la maggioranza ha cercato di sminuire quanto accaduto lunedì mattina nel pre consiglio preparatorio del Consiglio dei ministri che nel pomeriggio avrebbe avuto all’ordine del giorno alcuni decreti legislativi della riforma Cartabia. Tra questi le “pagelle” che ogni quattro anni il Csm dovrà preparare sull’operato di ciascun magistrato. Mentre Antonello Mura, il capo del legislativo del ministro Nordio, spiegava il provvedimento delle valutazioni, si è alzata la voce del sottosegretario Mantovano. “Si potrebbe immaginare – ha ragionato il sottosegretario – di inserire un comma, un meccanismo di verifica dei magistrati…”. Quei test psicoattitudinali che per primo evocò l’allora premier Berlusconi nel 2003 (ministro della Giustizia era il leghista Roberto Castelli) salvo essere stoppato subito dal Presidente della Repubblica che allora era Carlo Azeglio Ciampi. A dir la verità ci riprovò qualche anno dopo anche il ministro 5 Stelle Alfonso Bonafede. Poi la cosa si è persa nel nulla dei social.
Alla proposta inaspettata di Mantovano, tecnico moderato con profilo molto istituzionale, il dottor Mura ha reagito con sorpresa e fermezza: “Non se ne parla, non sono in agenda, non è mai stato affrontato questo tema né a livello di maggioranza, né con la magistratura e meno che mai con la Presidenza della Repubblica”. La cosa sarebbe finita lì. “Si, se n’è parlato ma non c’è stata alcuna tensione in proposito, giusto un’idea di cui si parlerà in seguito, quando sarà il momento” la versione ufficiosa di palazzo Chigi. Via Arenula, dove ha sede il ministero della Giustizia, ha fato subito pervenire un messaggio forte e chiaro: “Il ministero ha stoppato la proposta”. Se è stato quindi impossibile, ieri, smentire i fatti, si è provato però ad annacquarli. “Una tempesta in un bicchier d’acqua”, una “montatura”, “una cosa detta così per dire”.
Anche a volerci credere, il punto è che uno come Mantovano non dice nulla per caso, figurarsi per errore e sa certamente come stare alla larga dalle “tempeste in un bicchier d’acqua”. Un po’ come Crosetto, insomma. E allora, torna la stessa domanda: perché il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega all’intelligence, l’anello di congiunzione tra Giorgia Meloni e la magistratura associata, ha messo sul tavolo all’improvviso e inatteso un tema così delicato e sensibile?
“Lunedì – spiega una fonte vicina al dossier ma non del ministero della Giustizia – abbiamo lasciato perdere i test alle toghe perché sembrava quasi fosse la risposta del governo alla minaccia che una parte della magistratura, quella di sinistra, ha esplicitato nelle ultime riunioni di corrente”. Il complotto di cui parla Crosetto nell’intervista al Corriere. Perché i due fedelissimi della premier, a distanza di poche ore uno dall’altro, hanno dato segnali così coincidenti e concordanti rispetto all’azione di una magistratura pronta ad entrare in scena col tempismo elettorale per colpire la maggioranza? Il ministro della Difesa porterebbe a supporto della sua denuncia alcune registrazioni realizzate durante le ultime due riunioni della corrente Area, quella a sinistra, a Palermo e a Napoli. Non basta per sostenere “l’opposizione giudiziaria”. Ci deve essere dell’altro. Urge una comunicazione al Parlamento ampia ed esaustiva.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Estratto da affaritaliani.it martedì 28 novembre 2023.
Lo scontro tra la Destra e la magistratura ormai è iniziato e non si fermerà. Dopo le accuse di Crosetto su "manovre segrete delle toghe per far cadere Meloni", si è passati all'ipotesi di istituire nella magistratura dei test psico-attitudinali […]
[…] quest'ultima proposta viene da lontano e a proporla per primo era stato Silvio Berlusconi. Ma a sorpresa a concordare con l'ipotesi del Cavaliere era stato proprio uno dei più importanti magistrati: Nicola Gratteri. L'attuale capo della Procura di Napoli in un'intervista del 2019 al Riformista si era espresso così.
"Berlusconi una volta ha detto una cosa giusta: bisognerebbe fare i test psico-attitudinali ai magistrati. Ci possono essere dei giudici […] che fanno militanza attiva", "che ne fanno un modo di ragionare e può accadere che uno perda di lucidità […]. […]È un lavoro molto logorante quindi una volta ogni 5 anni in forma anonima dovrebbero sottoporci a test".
Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” martedì 28 novembre 2023.
I test psico-attitudinali per entrare in magistratura erano un pallino di Silvio Berlusconi, che nel 2003 si spinse a dipingere i giudici come «disturbati mentalmente», affidando la pratica al Guardasigilli Roberto Castelli, salvo ingranare la retromarcia, su pressione del Colle.
Ora è la destra di Giorgia Meloni a ritirare fuori l’idea dal cilindro. Effetto déjà vu, che allarma le toghe: «Era un’idea di Licio Gelli», ricorda il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro. La proposta, per ora solo discussa ieri nella riunione preparatoria del Cdm, è gettata lì come un tizzone nel braciere, proprio mentre si riaccende lo scontro fra governo e magistrati, innescato dalle parole del ministro della Difesa, Guido Crosetto, che ha insinuato esista «un’opposizione giudiziaria» all’esecutivo.
Per adesso i test non sono stati messi nero su bianco in un provvedimento. Ma il ragionamento c’è stato, anche se non partiva dal ministro Carlo Nordio che […] non sarebbe nemmeno stato messo a parte dell’uscita di Crosetto.
Il Consiglio dei ministri comunque ha sfornato due provvedimenti a tema giustizia. Il principale, in attuazione della riforma Cartabia, prevede per i magistrati pagelle come a scuola: con una valutazione positiva nel “fascicolo” il giudice avrà uno scatto di carriera (e in busta paga); col voto negativo, nuovo esame dopo un anno. Rispetto alle proposte iniziali […] il testo è stato ammorbidito: un singolo svarione, non brucerà la carriera della toga.
Il ritornello delle toghe: nessuno ci può giudicare. Il presidente dell'Anm Santalucia insorge contro il governo: "Macché pagelle, non siamo scolari". E il Pd scende in campo. Felice Manti il 29 Novembre 2023 su Il Giornale.
«Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu». Come un disco rotto, l'Associazione nazionale magistrati frigna contro il via libera del governo alle «pagelle dei magistrati», previsto dalla riforma di Marta Cartabia. «Noi non ci scontriamo con nessuno ma la parola pagella è un termine veramente infelice per definire il controllo di professionalità, come se noi fossimo scolari di una scuola. È un sistema macchinoso che depotenzierà la capacità delle valutazioni periodiche di intercettare le vere cadute di professionalità dei magistrati, tutto il resto sono notizie false e infondate», lamenta ai microfoni di SkyTg24 il presidente del sindacato delle toghe Giuseppe Santalucia, contrarissimo persino ai test psico-attitudinali per i magistrati di berlusconiana memoria («sarebbe stato un eccesso dai confini della delega»), stoppati dagli uffici di Via Arenula per tenere il punto sui decreti legislativi. A pensar male si fa peccato, ma quando Santalucia dice che «i magistrati non sono eversori né fanno complotti contro il governo» come le accuse «oggettivamente inquietanti» del ministro della Difesa Guido Crosetto dei giorni scorsi farebbero pensare, fa timidamente capolino il dubbio che la stessa magistratura che «ogni giorno onora il giuramento alla Costituzione» sia affetta dal disturbo della rimozione, meccanismo psichico inconscio di autodifesa contro «desideri, pensieri o esperienze angoscianti per ridurne l'impatto disturbante sulla coscienza», dicono i manuali. Chi ha letto i libri di Luca Palamara o soltanto le recenti dichiarazioni delle toghe più ideologiche, sa di cosa parliamo: sono trent'anni che una parte minoritaria della magistratura tenta di condizionare la vita politica. «La strada maestra è la riforma», sentenzia la Lega.
Eppure il soccorso rosso ai pm è già partito: «Mi pare il governo dei complotti immaginari, dei nemici a tutti i costi, perché deve sempre essere colpa di qualcun altro», è l'affondo della leader Pd Elly Schlein, che ricalca l'idea già strombazzata da uno dei suoi predecessori Pierluigi Bersani («Strana l'idea che i giudici si riuniscano la sera per dare l'ordine di partire...»), ieri alla conferenza stampa insieme alla Schlein. «Se Crosetto ha notizie di reato informi le Procure, dobbiamo difendere la Repubblica, non minarne la credibilità», insiste il dem Francesco Boccia, mentre arriva la notizia che la commissione Antimafia non audirà il ministro della Difesa. «Pagelle e test per i magistrati? Misurare la qualità del lavoro dei giudici è difficilissimo, lasciamo i giudici liberi», sottolinea invece l'ex premier Giuseppe Conte, secondo cui «il rischio eversione aleggia più sul governo che sulla magistratura». Eppure tra il 2017 e il 2021, come scrive ieri il Sole24Ore, sono stati valutati 7.394 magistrati: solo in 24 hanno ricevuto voti non eccellenti. «Serve introdurre un criterio più rigoroso per la valutazione», ricorda il vicepresidente della Camera e parlamentare di Forza Italia, Giorgio Mulè. Favorevole anche il renziano Davide Faraone: «Chi si accinge a fare un mestiere impegnativo come il magistrato, deve essere pronto a manifestare il proprio equilibrio. Non c'è nulla di scandaloso», dice il presidente del gruppo Iv all'Identità.
Anche la vicenda della giudice «svuota Cpr» Iolanda Apostolico rischia di rinfocolare le polemiche tra toghe e politica. «Rendere la giurisprudenza uniforme vuol dire renderla, almeno tendenzialmente, prevedibile», ricorda il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. «Ho chiesto al Guardasigilli Carlo Nordio con una interrogazione parlamentare se la condotta della giudice fosse conforme alle norme o se, con la partecipazione ad alcune manifestazioni, avesse assunto atteggiamenti di parte - dichiara all'Aria che tira su La7 il capogruppo di Forza Italia al Senato Maurizio Gasparri - l'altra sera Nordio cita l'obbligo di rigore e terzietà». Come dire che la vicenda non finirà qui.
Magistratura. I pm vogliono processare le opinioni sulla giustizia. Domenico Ferrara il 28 Novembre 2023 su Il Giornale.
L’Anm progetta di istituire una commissione per controllare il dibattito social sui temi che riguardano la magistratura
L’Anm vuole processare le opinioni. Eccola l’ultima pericolosa trovata del sindacato delle toghe che, per rispondere agli «attacchi alla giurisdizione» e alla «pesante denigrazione dei singoli magistrati che hanno adottato provvedimenti in materia di protezione internazionale» ha deciso di ricorrere alle commissioni di epurazione. Sì, avete capito bene. Bentornati nel 1944, con l’unica differenza che oggi non c’è un legame fascista da estirpare e punire ma nel mirino ci sono i cattivi narratori della malagiustizia. Ma badate bene: non parliamo della malagiustizia perpetrata dai giudici bensì quella ai loro danni. È tutta una questione di indipendenza e reputazione. Anche urgente, vista la celerità con la quale il Comitato direttivo centrale dell'Anm ha deliberato la convocazione dell’assemblea straordinaria, la quale ha redatto e approvato poi un documento unitario. Dal 21 al 26 ottobre, cinque giorni e una velocità che stupisce, specie se rapportata ai tempi della nostra giustizia. Ma quella è un’altra storia.
Che ha una roadmap ben precisa: va realizzato prima dell’estate. E qui la mente dei malpensanti potrebbe ipotizzare una sorta di risposta a orologeria in vista delle prossime elezioni europee.
Ma cosa ha stabilito l’Anm? Innanzitutto la volontà di proteggere a spada tratta i singoli magistrati perché si legge nel documento - «va respinto con forza il tentativo di spostare l’attenzione dal contenuto giuridico del provvedimento alla persona del giudice che lo ha emesso». Insomma, basta casi Apostolico per intenderci.
Ma qui arriva il bello. Quali saranno le azioni concrete? Intanto «un evento di rilievo» entro il mese di marzo da realizzarsi in contemporanea in tutti gli uffici giudiziari (dovranno seguire, sempre su base sezionale e sotto-sezionale entro l’estate, un ciclo di seminari di almeno tre incontri) con lo scopo di fare informazione «con taglio divulgativo sul ruolo costituzionale della magistratura».
E poi, dulcis in fundo, l’istituzione di una Commissione Centrale e di Commissioni Territoriali con il compito di monitorare il dibattito pubblico in materia di giustizia e di predisporre dei format a tema – da replicare negli uffici giudiziari del distretto –, individuando i possibili ospiti; e l’istituzione a livello centrale di una Commissione mista composta da magistrati ed esperti in social media che si occupi di seguire il dibattito pubblico in materia di giustizia e realizzi dei contenuti social volti a spiegare il ruolo costituzionale della magistratura e «a rendere comprensibili le questioni giuridiche concernenti temi che hanno suscitato particolare clamore».
Una sorta di Minculpop 2.0 molto social, un Grande Fratello che costantemente controlla che sui giornali, in tv, nelle piazze e nelle radio passino informazioni corrette sulla magistratura e sull’operato dei singoli magistrati. Se fossero già operative queste commissioni, quali sarebbero le sanzioni per quel ministro o quel giornalista che si permetta di divulgare un’informazione sul passato di una toga come nel caso di Iolanda Apostolico? Sarebbe una informazione a cui i cittadini avrebbero diritto di accedere o sarebbe un tentativo di delegittimare il lavoro, la coerenza e l’imparzialità della toga? Chiedere all’Anm per avere la risposta.
Giudici e giornalisti. Un esame per due. Nel 2019 Nicola Gratteri disse: "Ci possono essere dei magistrati che fanno militanza attiva, che hanno un modo loro di ragionare e può accadere che uno perda di lucidità". Alessandro Sallusti il 28 Novembre 2023 su Il Giornale.
Nel 2019 non un esponente politico del centrodestra, bensì il magistrato più famoso d'Italia, Nicola Gratteri, oggi osannato procuratore capo a Napoli, disse intervistato da Massimo Giannini a Radio Capital: «Ci possono essere dei magistrati che fanno militanza attiva, che hanno un modo loro di ragionare e può accadere che uno perda di lucidità. Detto che non condivido la maggior parte delle cose dette da Berlusconi, devo ammettere che una giusta la disse ed è quando sostenne che bisognerebbe fare i test psico-attitudinali ai magistrati perché il nostro è un lavoro molto logorante e quindi una volta ogni 5 anni in forma anonima dovrebbero sottoporci a test».
L'ipotesi del test psico-attitudinale, almeno per entrare in magistratura, ha fatto capolino per qualche ora ieri addirittura in una sede governativa, il preconsiglio dei ministri, e ovviamente ha fatto scattare il pandemonio. Eppure, come ha sostenuto Gratteri, non sarebbe né un insulto né una anomalia visto che da sempre l'equilibrio personale e professionale è periodicamente verificato per chi di lavoro maneggia le vite degli uomini come, per esempio, ufficiali e sottufficiali di tutte le forze dell'ordine (e altrettanto accade nel privato, tipo i piloti di aereo).
Ma si sa, i magistrati fanno storia a sé, intoccabili e immuni dalle debolezze umane per definizione, anche se poi accade che un innocente - il caso del pastore sardo Zuncheddu oggi alla ribalta - resti in carcere per trentadue anni. Ma fin qui parliamo di malagiustizia, di errori e appunto follie. Difficile però che un test scovi le toghe in malafede, quelle che, furbe come le volpi, si mimetizzano dietro codici e sacri principi per scopi politici. Che è poi il problema posto ieri l'altro dal ministro Crosetto sui «giudici che fanno opposizione». Io non so a che cosa si riferisse esattamente, ma so che il Sistema denunciato da Luca Palamara che ha inquinato la democrazia per oltre un decennio è ancora in piedi e operativo. E osservo che, mentre la magistratura ha fatto almeno finta di darsi una ripulita, i giornalisti che di quel sistema hanno fatto parte sono ancora tutti in prima pagina a difendere i loro eroi con una faccia di tolla incredibile, come se nulla fosse accaduto e non fossero stati beccati con le mani nella marmellata. Ecco, non so se prima o dopo che ai magistrati, ma un bel test psichiatrico sarebbe utile anche per equilibrare un po' la nostra categoria.
Come funzionano i test per i magistrati, in Germania. Mara Gergolet su Il Corriere della Sera mercoledì 29 novembre 2023.
In Germania ci sono test psico-attitudinali per i magistrati, ma il loro utilizzo è deciso dai diversi Land. Ecco come si svolgono le prove, e in che cosa consistono
In Germania ci sono i test psico-attitudinali per i magistrati?
È vero, in Germania ci sono o ci possono essere test attitudinali per i magistrati, come dicono esponenti della maggioranza di governo in Italia dopo che la proposta di introdurre simili test è stata posta sul tavolo del pre-consiglio dei ministri (ne parla anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio in questa intervista al Corriere ). Tuttavia, non sono nazionali, né obbligatori. Piuttosto, sono strumenti che i singoli Land e i singoli tribunali possono introdurre e usare per selezionare il proprio personale, oppure no.
Come funziona il meccanismo della giustizia in Germania?
Innanzitutto, bisogna sapere che la Giustizia in Germania funziona su base regionale. Ogni Land ha il suo sistema giudiziario indipendente, che comprende tribunali amministrativi, tribunali civili e penali, nonché le corti superiori. Ad esempio, ogni Land ha il suo Oberlandesgericht (Corte d’Appello Superiore: per restare alla cronaca, quello che ha deciso l’estradizione di Filippo Turetta) e il Landgericht (Tribunale di Distretto: quello che ne ha convalidato l’arresto). Esistono, ovviamente, anche istituzioni giudiziarie a livello federale, la più nota delle quali è la Corte Costituzionale Federale (Bundesverfassungsgericht), di cui si è molto parlato ultimamente perché ha definito incostituzionale il bilancio del governo tedesco.
Come funziona questo sistema dei test?
La Giustizia, in alcuni Land, ha mutuato un sistema che viene dal privato, gli Assessment center. Sono centri che hanno una tradizione in Germania, e che fin dagli anni Novanta sono usati — anche nell’università — per indirizzare gli studenti verso le carriere più idonee e promettenti. Superare, o anche solo partecipare alle prove di un Assessment center è - nel ricordo di molti partecipanti - un terribile stress. Anche perché comporta, se alla fine è prevista la creazione delle graduatorie, l’esclusione di molti partecipanti. Ci sono settori pubblici in cui gli Assessment center sono la prassi, per esempio nella polizia o nei servizi segreti.
In cosa consistono esattamente i test?
I test vengono annunciati pubblicamente sui siti dei ministeri della Giustizia regionali. Uno dei Land che li usa, per esempio, è il Nordreno Vestalia. Ecco come viene presentato: «Chi desidera lavorare nella giustizia non deve solo portare buoni voti, ma deve anche brillare con la propria personalità e le spesso citate “competenze soft”. Ciò include, ad esempio, una buona espressione e un’eccellente capacità di comunicazione, ma anche una gestione sicura delle situazioni stressanti. Fino a qualche tempo fa, nella selezione di giudici e pubblici ministeri, si guardava praticamente solo al voto di laurea. Tuttavia, sempre più tribunali desiderano ora conoscere meglio le loro candidate e i loro candidati e accertare se sono davvero adatti per il posto da occupare. Ecco dove entrano in gioco gli Assessment Center, e possono essere determinanti per far decollare la carriera nella giustizia o farla restare un sogno».
Come si svolgono le prove?
Sempre il sito del ministero della Giustizia del Nordreno Vestfalia: «Qui non conta il tuo rendimento accademico, ma il fatto che tu reagisca con sicurezza in situazioni sconosciute e dimostri sia la tua motivazione che le tue capacità in condizioni pratiche, e tutto sotto l’osservazione di una commissione di selezione composta da alti funzionari del rispettivo tribunale che ti osservano attentamente». In realtà, gli Assesment center sono stati introdotti soprattutto per le posizioni più elevate.
Quanto sono in realtà diffusi nella Giustizia?
Come si diceva, dipende dalle regioni, o per essere più precisi dai singoli tribunali regionali. Perché sono i tribunali che assumono il loro personale. Anche se non vengono creati dei veri Assessment center, alcune di queste prove - giochi di ruolo o brevi presentazioni - possono essere introdotte, in modo più informale, nei colloqui di lavoro. Per restare al Nordreno Vestfalia, bisogna affrontare un Assessment center per lavorare presso la Corte d’Appello di Hamm, la Corte d’Appello di Colonia o la Corte d’Appello di Düsseldorf.
Perché i test psico-attitudinali per i magistrati in Francia sono stati soppressi? Storia di Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera mercoledì 29 novembre 2023.
I I test psicologici per i futuri magistrati sono previsti in Francia? Non più. I «test di attitudine e personalità» erano stati introdotti nel 2009 ma sono stati soppressi nel 2017.
Come mai erano stati introdotti? I test psicologici nell’ambito del concorso per entrare alla Scuola nazionale di magistratura sono stati instaurati sull’onda dell’emozione per il caso di Outreau, un piccolo paese nel nord della Francia dove 12 bambini furono per anni vittime di violenze sessuali, e dove 13 adulti innocenti passarono anni in carcere dopo condanne sbrigative, ingiustamente accusati da una delle persone realmente colpevoli. L’errore giudiziario fu tale che si decise di sottoporre gli aspiranti magistrati a test psicologici per individuare tendenze narcisistiche e smanie di protagonismo.
Come mai sono stati soppressi? I sindacati della magistratura li hanno sempre considerati inutili, demagogici e arbitrari: consistevano in 240 domande alle quali rispondere in tre ore e in un colloquio di mezz’ora con un magistrato e uno psicologo, con domande come «Si sente superiore?» oppure «Lei è un maniaco dell’ordine?». Dopo un rapporto negativo presentato a fine 2016 dal gruppo di lavoro della Scuola nazionale della magistratura, il decreto che istitutiva i test psicologici è stato abrogato dal Ministero della Giustizia il 10 maggio 2017, pochi giorni l’elezione di Emmanuel Macron a presidente della Repubblica.
Antonio Giangrande: Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.
La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)
La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").
Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.
Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.
Antonio Giangrande: Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.
Da una parte, l’ideologia comunista si è adoperata con la corruzione culturale:
attraverso la televisione di Stato e similari;
con la propaganda ideologica continua dei giornalisti militanti di regime;
con insegnamenti ed indottrinamenti ideologici scolastici ed universitari frutto di una egemonia culturale.
Dall’altra parte, la depravazione culturale messa in opera dalle televisioni commerciali di Berlusconi, anticomuniste ed antimeridionaliste.
Infine con la perversione delle religioni, miranti ad avere il predominio delle masse per il proprio sostentamento.
Insomma. Lavaggio del cervello: dalla culla alla tomba.
Solo i comunisti potevano pensare una Costituzione, il cui principio portante fosse il Lavoro e non la Libertà. Libertà che la Carta pone solo come obbiettivo per poter esercitare alcuni diritti dalla stessa Costituzione elencati. Libertà come strumento e non come principio. Libertà meno importante addirittura dell’Uguaglianza. Questa ultima inserita, addirittura, come principio meno importante del Lavoro e della Solidarietà. Già. Per i comunisti “IL LAVORO RENDE LIBERI”. ARBEIT MACHT FREI (dal tedesco: “Il lavoro rende liberi”) era il motto posto all'ingresso di numerosi campi di concentramento. Una reminiscenza tratta da una ideologia totalitaria che proprio dal socialismo trae origine: il Nazismo.
Antonio Giangrande: Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
ANM, a corto di argomenti, decide di raccontare qualche efficace bugia. Giustizia: signori magistrati, basta bugie sulla separazione delle carriere. Se va in porto la riforma della separazione delle carriere, il Pm finisce sotto il controllo dell’esecutivo, dice ANM. Falso! La norma in questione recita esattamente l’opposto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 16 Settembre 2023
Quando si è a corto di argomenti, ed hai tutte le evidenze contro, non ti resta che raccontare qualche efficace bugia. Se va in porto la riforma della separazione delle carriere, dice infatti ANM, il Pm finisce sotto il controllo dell’esecutivo. Falso. Ecco come reciterebbe l’art. 104 della Costituzione, come previsto dalla legge di iniziativa popolare dei penalisti italiani, fatta propria da tutte le proposte di legge ora in Parlamento: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere”.
Come potrebbe mai una norma costituzionale, che blinda con tale inequivoca chiarezza l’indipendenza del Pm, trasformarsi nella sua stessa negazione, non dovete chiederlo a me, ma al Comitato Centrale di ANM ed agli struggenti appelli dei magistrati in pensione, guidati dagli indomabili ex Pm Caselli e Spataro.
D’altronde, cosa puoi aspettarti da chi continua a ripetere, con sprezzo del ridicolo, che il mondo intero invidia il modello italiano, e spasima per replicarlo? Il sistema a carriere separate, nelle sue varie possibili articolazioni, vige in Spagna, Germania, Svezia, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, India, Giappone, solo per citarne alcuni. Noi siamo in compagnia di Turchia, Bulgaria e Romania, con tutto il rispetto. Certo, c’è la Francia (con Pm alle dipendenze dell’esecutivo, però!), ma è l’eccezione che conferma la regola: è praticamente uno degli ultimi Paesi europei con sistema processuale inquisitorio, rispetto al quale l’ordinamento a carriera unica ha indubbiamente una sua precisa coerenza logica e sistematica.
In tutti i Paesi che ho nominato vige invece il sistema accusatorio, come il nostro (quindi, Ministro Nordio, cosa stiamo aspettando?). Dicono: in tutti quei Paesi il Pm è sottoposto al Ministro di Giustizia. Non in Portogallo, rispondo, e noi abbiamo scelto il modello portoghese, che funziona magnificamente: carriere separate, Pm indipendente. Cosa c’è che non piace del Portogallo, il baccalà? L’indipendenza esterna della magistratura sarebbe dunque garantita; è di quella interna che dobbiamo parlare. Ecco perché Giovanni Leone, noto estremista liberal radicale, si batté senza successo in Assemblea Costituente perché nel CSM ci fosse parità tra membri laici e togati (come ora proponiamo noi, nei due separati CSM, sollevando l’indignazione togata): “occorre eliminare il timore…che il CSM… possa trasformarsi in organo di casta, intorno al quale si coagulano interessi, intrighi, protezioni, preferenze, tali da costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli giudici…”.
Era la seduta pomeridiana del 14 novembre 1947: gli avessero dato retta, altro che Palamara-gate! Ma facciamo ancora in tempo, sempre che questa riforma la si voglia fare sul serio. Siamo pronti a discutere ed a confrontarci, ma basta con le bugie, signori magistrati. In servizio o in pensione che voi siate. Gian Domenico Caiazza
Ancora una riflessione sulla riforma. Giustizia, le imbarazzanti bugie raccontate dagli avversari della separazione delle carriere. Girano imbarazzanti bugie, raccontate dagli avversari della separazione delle carriere. Quella che il PM sarebbe dipendente dall’esecutivo è una grossolana mistificazione. Ora, però, va di moda l’opinione del Prof. Coppi. Vediamo qual è. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 21 Settembre 2023
Come abbiamo già avuto modo di spiegare la scorsa settimana, le imbarazzanti bugie raccontate dagli avversari della separazione delle carriere sono ormai sotto gli occhi di tutti. Le proposte di legge in discussione, tutte mutuate dalla legge di iniziativa popolare delle Camere Penali, hanno scelto e blindato nel nuovo art 104 della Costituzione il modello portoghese: carriere separate, PM indipendente dall’esecutivo.
Dunque l’argomento principe (“vogliono il PM alle dipendenze dell’esecutivo”) è una grossolana mistificazione, ormai davvero improponibile in un dibattito serio. Né più né meno di quella che raccontano circa il fatto che tutto il mondo guarderebbe con invidia al nostro modello ordinamentale a carriera unica: siamo infatti nella mesta compagnia di Turchia, Bulgaria e Romania, nonché della Francia, coerente però con il suo vetusto (ed ormai quasi unico in Europa) modello processuale inquisitorio. Ovunque vi sia un processo accusatorio, vi è separazione delle carriere: Portogallo, Spagna, Germania, Svezia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, India, e spero vi basti.
Quindi, il nuovo argomento ora in voga è l’opinione dissenziente del prof. Franco Coppi, avvocato insigne. Il quale non crede nella utilità di questa riforma, e ci mancherebbe pure che un avvocato non possa pensarla in questo modo. Ma non ci si avvede, ancora una volta, del clamoroso autogoal. Perché Franco Coppi, che è una persona seria e coerente, non nasconde un secondo suo pensiero, utile a comprendere con chiarezza il primo. Egli infatti non fa mistero di rimpiangere con nostalgia il processo inquisitorio, che invece noi (per fortuna, aggiungo io) ci siamo lasciati alle spalle grazie a Giuliano Vassalli dal 1988, e che la Costituzione ha definitivamente posto fuori dai propri confini nel 2000 grazie alla riforma dell’art. 111 sul giusto processo.
Quindi l’opinione del prof. Coppi conferma una ovvia evidenza: le carriere unificate sono coerenti con il processo inquisitorio, ma incompatibili con il sistema accusatorio. Che è esattamente ciò che sosteneva, su opposta sponda, Giovanni Falcone, secondo il quale in un sistema accusatorio il PM «non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non essere, come invece oggi è, una sorta di para-giudice. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazioni e carriere unificate, giudici e PM siano in realtà indistinguibili gli uni dagli altri. Chi come me richiede che siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nelle carriere, viene bollato come un nemico dell’indipendenza del magistrato». Parole e pensieri puntualmente censurati dai crociati anti-separazione.
Come vedete, tutto quadra: processo inquisitorio, carriere unite; processo accusatorio, carriere separate. Una equazione implacabile, perfettamente illustrata da due autorevolissimi personaggi quali Franco Coppi e Giovanni Falcone. Chiaro? Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane
Le "pagelle" ai magistrati sono solo un altro passo per controllare la Giustizia. La valutazione dei giudici, sulla base della tenuta delle decisioni nei gradi successivi, solleva la Cassazione dal peso dell’esame. Ma pone una questione di tenuta ed efficacia del sistema. Dario Raffone su L'Espresso il 13 settembre 2023
Sono poche le cose che, in Italia, mantengono una costante presenza. Una di queste è l’inesausta proliferazione di riforme in tema di giustizia. Le cronache estive ci informano che sarebbe stato licenziato dalla commissione di esperti ministeriali la bozza del decreto delegato in tema di riforma dell’ordinamento giudiziario voluta dall’ex guardasigilli Marta Cartabia e coltivata anche da quello attuale.
Apprendiamo così dell’introduzione di una sconvolgente novità: «Il fascicolo del magistrato», finalizzato alla valutazione e alla conferma nel ruolo dei singoli giudici. Valutazione basata sulla conferma o no, nei gradi superiori, dei provvedimenti emessi. Non è chiaro poi come dovrebbero essere valutati i magistrati della Cassazione. Che nella realtà delle migliaia di provvedimenti emessi ogni giorno dai magistrati ordinari nelle aule di giustizia ve ne possano essere alcuni frutto di inadeguatezze, superficialità, errori è cosa intuitivamente innegabile, se non altro per la legge dei grandi numeri. Allo stesso modo in cui ciò avviene per i provvedimenti di altri giudici, quali quelli amministrativi, unti dal crisma dell’intoccabilità a dispetto di ogni verifica, o anche, più in generale, per qualsiasi altra attività umana.
L’occasione consente, però, di svolgere qualche rapida riflessione. Il nostro sistema, a differenza di quelli anglosassoni, non si basa sulla cogenza del precedente giudiziario in termini, sul cosiddetto stare decisis. Ciò è conseguenza del fatto che il giudice italiano non è, a differenza di altri, dotato di capacità legislativa. Dal momento che la realtà della vita quotidiana, non si presta, nella sua poliedricità, a essere rigidamente incasellata nelle astratte previsioni di legge, è necessaria una attività adeguatrice che implica una continua osmosi tra le giurisprudenze di merito e quella della Cassazione. Infatti, una giurisprudenza fatta di decisioni tutte e sempre coerenti con gli orientamenti della Cassazione impedirebbe a quest’ultima di cogliere i cambiamenti sociali in atto, di adeguarvisi e di svolgere la sua dinamica funzione uniformatrice del diritto nazionale. È evidente il rischio di interventi normativi che, pur se paludati da asserita moderazione (solo in casi gravi, ripetuti, ecc.), finiscono per essere delle norme manifesto, degli spauracchi che inducono alla quieta remissività, alla torsione di un’attività alquanto delicata, quale è quella del giudicare, in una pratica amministrativa standardizzata, da smaltire nel più breve tempo possibile.
E, a proposito del tempo di definizione dei processi, è intuitivo che un conto è operare in grandi uffici dove i carichi sono sicuramente gestibili, come accade a esempio a Milano, e un conto è operare in ufficio di provincia, specialmente al Sud, come Napoli Nord, con bacino di utenza di un milione di abitanti e un carico di lavoro pari al triplo per ogni singolo giudice. E dove il rischio di ritardi sanzionabili è dietro l’angolo.
Sono temi che implicherebbero decisioni vere, sgradite a molti, elettoralmente poco remunerative. Meglio, quindi, adagiarsi su manifestini propagandistici inutili. Anche perché, grazie ad un sapiente e consolidato utilizzo terroristico dello strumento delle sanzioni disciplinari, specie nei confronti delle giovani leve di magistrati (la maggioranza), l’addomesticamento è già, in atto. Complice anche l’Anm e i suoi mandatari del Csm che, da molti anni, sostengono i dettami dell’efficienza e del merito e che si stracciano oggi le vesti per riforme che sono, in fondo, conformi a un clima culturale del quale anche loro sono in parte responsabili.
Dario Raffone è l'ex presidente del Tribunale delle imprese di Napoli
La scelta di Nordio di ‘infarcire’ la Commissione di magistrati non poteva non produrre tale risultato. Addio alla “pagella” dei Pm. Meglio essere amici delle toghe. L’annullamento (operato dalla Commissione voluta da Carlo Nordio) del fascicolo delle performance del magistrato introdotto con la riforma Cartabia è costato 141mila euro. La scoperta, nelle pieghe del bilancio, fatta dal parlamentare Enrico Costa. Ma dietro il sabotaggio ci sarebbe una strategia. Vediamo quale. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 12 Settembre 2023
La Commissione che ha ‘annichilito’ la riforma Cartabia che aveva introdotto il fascicolo delle performance del magistrato è costata 141mila euro. Lo ha scoperto ieri nelle pieghe del bilancio Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione, che era stato il firmatario dell’emendamento alla riforma voluta dall’ex presidente della Consulta che lo scorso anno aveva previsto tale istituto. Oltre il danno, dunque, la beffa.
Il fascicolo delle performance doveva servire, nelle intenzioni, a monitorare le attività dei singoli giudici o pm, i loro meriti, ma anche gli errori, con particolare attenzione alle inchieste poi finite in un buco nell’acqua, alle sentenze ribaltate e, soprattutto, agli arresti ingiusti. Essendo una fotografia molto precisa della carriera di ciascun magistrato, il fascicolo delle performance avrebbe poi consentito a chi è più bravo e a chi lavora silenziosamente senza essere organico alle correnti, di poter fare la carriera che merita. Purtroppo, trattandosi di una legge delega, era già previsto che il governo dovesse emanare i relativi decreti attuativi.
Ed ecco dunque scendere in campo la Commissione voluta da Carlo Nordio, lautamente pagata, composta da 28 membri, di cui 23 magistrati, 10 fuori ruolo, 5 professori universitari e solo 3 avvocati che ha annacquato la riforma proseguendo nello status quo caratterizzato dalla irresponsabilità togata. “La responsabilità civile è di fatto impossibile, un percorso che nessun si avvocato si azzarda a proporre al suo assistito”, ha affermato Costa, ricordando che dal 2010 ad oggi ci sono state solo otto condanne. “Stesso discorso – ha proseguito – per la responsabilità disciplinare: ogni anno della circa 1500 segnalazioni che pervengono, oltre il 90 percento sono archiviate de plano dal procuratore generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare, senza che nessuno possa fare alcuna verifica. Sono archiviazioni che non hanno alcun vaglio. L’unico che può chiedere le copie di tali provvedimenti è il ministro della Giustizia ma non lo fa mai”.
Rimaneva, quindi, la responsabilità professionale, legata proprio alla carriera dei magistrati le cui valutazioni sono positive nel 99 percento dei casi, senza un meccanismo che ne raccolga le “gravi anomalie”. “La grave anomalia, per il sottoscritto anche una sola inchiesta con arresti e sbandierata ai quattro venti e terminata con l’assoluzione di tutti gli imputati, nei decreti attuativi invece è diventata ‘marcata preponderanza’ e quindi il magistrato dovrà sbagliare centinaia di inchieste o processi, oltre la metà dei suoi provvedimenti, prima di incappare in una penalizzazione sotto il profilo professionale”, ha puntualizzato Costa. Il fascicolo delle performance era stato fin dall’inizio boicottato dall’Associazione nazionale magistrati che, lo scorso anno, fece anche uno sciopero. “Le correnti dimostrarono chiaramente con tale iniziativa come temessero di perdere il controllo che detengono grazie a quel 99 percento di valutazioni di professionalità ‘automaticamente’ positive. Con il fascicolo tutta l’attività del magistrato sarebbe stata sotto gli occhi di chi deve fare la valutazione, non come oggi che gli atti vengono scelti a campione: così è più semplice distinguere chi lavora bene e chi lavora meno bene, premiando chi lo merita, anche se non è organico alle correnti”, ha quindi concluso Costa.
La scelta di Nordio di ‘infarcire’ la Commissione di magistrati non poteva non produrre tale risultato. Ma è l’intera attività del Ministero della giustizia ad essere ormai gestita dalle toghe in regime di monopolio. Anche la Commissione per la riforma del codice di procedura penale, insediatasi la scorsa settimana, è un monocolore togato: su circa 40 componenti, due terzi sono magistrati. È chiaro che con simili rapporti di forza è alquanto difficile porre in essere riforme che vadano a riequilibrare i rapporti fra accusa e difesa nel processo.
Dietro il ‘sabotaggio’ del fascicolo delle performance alcuni commentatori, però, vedono una precisa strategia. Il sospetto è che il Guardasigilli voglia ‘rallentare’ sulla riforma della giustizia, forse condizionato dalla premier che non ha intenzione di andare allo scontro con le toghe e quindi di mettersi contro l’Anm, contrarissima a qualsiasi riforma sulla giustizia, ad iniziare da quella sulla riforma della separazione delle carriere.
Come ricordato nei giorni scorsi sul Riformista, il problema principale sarebbe il referendum costituzionale. Anche se la riforma della separazione delle carriere, la cui discussione è in corso alla Camera, fosse approvata dal Parlamento, difficilmente il voto raggiungerebbe i due terzi sia alla Camera che al Senato. Numeri che il governo Meloni non ha, dovendo così ricorrere al referendum costituzionale dove non è previsto il quorum.
Visto che anche riforma del premierato prevederà, per gli stessi motivi, un referendum costituzionale, dalle parti di Fratelli d’Italia sarebbe partito il messaggio al numero uno di via Arenula di non insistere sulla riforma della giustizia. Meglio essere amici che nemici delle toghe. Paolo Pandolfini
Giustizia in mano alle toghe. Riforma della giustizia in stallo e in mano ai magistrati…Sulla separazione delle carriere audita solo l’Anm, nulla di fatto sulla prescrizione. Folla di toghe nella commissione ministeriale sul processo penale. Angela Stella su L'Unità il 7 Settembre 2023
“Da parte dell’Anm c’è una netta contrarietà ai disegni di legge sulla separazione delle carriere”: ha esordito così il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ieri in Commissione Affari Costituzionali della Camera durante la sua audizione in merito alle quattro proposte di legge – una di Iv, una di Azione, una di Forza Italia e una della Lega proprio sul tema. “Stiamo discutendo di separazione delle carriere a separazione già di fatto – e di diritto – esistente nel nostro sistema” perché “con la riforma Cartabia è consentito un solo passaggio da una carriera all’altra nel corso dell’intera vita professionale dei magistrati”, ha aggiunto Santalucia.
Il Presidente poi ha fatto un duro passaggio sulla previsione di due Csm separati, uno per i giudicanti e uno per i pubblici ministeri: “Sotto il profilo degli organi di autogoverno non capisco il senso all’interno di un disegno di legge che mira alla separazione delle carriere, dell’aggressione, se così posso dire, virgolettando, all’attuale assetto costituzionale del Consiglio Superiore che in un caso o nell’altro sarà fortemente cambiato, sia per composizione numerica sia che per modalità”. E poi la solita preoccupazione che la figura del pm si avvicini troppo alla figura del poliziotto. Ma potrebbe essere una falsa preoccupazione perché il pubblico ministero può essere anche un poliziotto allo stato puro, tuttavia non potrebbe fare nulla se il giudice non fosse d’accordo nell’arrestare, nel sequestrare, nell’adottare misure di prevenzione patrimoniale, per fare alcuni esempi.
Dopo l’Anm avrebbe dovuto parlare anche l’avvocatura – Ucpi, Ocf e Cnf – ma sono state rinviate alla prossima settimana. Ma di separazione delle carriere si parlerà probabilmente nel prossimo Comitato Direttivo Centrale dell’Anm che si riunirà questo fine settimana, anche se il tema non è ufficialmente nell’ordine del giorno. Sicuramente lunedì ci sarà un interessante e acceso dibattito organizzato sempre dall’Anm tra Gian Domenico Caiazza, leader dei penalisti, e Armando Spataro, magistrato ordinario in pensione, tra i circa cinquecento suoi ex colleghi pensionati che hanno firmato un documento per opporsi alla riforma della separazione delle carriere, che ha come spinta propulsiva proprio la proposta di legge di iniziativa popolare dell’Unione Camere penali.
Intanto dopo giorni di silenzio, criticato anche dagli altri gruppi associativi, è uscita la posizione ufficiale della corrente Magistratura Indipendente, considerata troppo vicina al Governo: “MI esprime grande preoccupazione per i contenuti dei vari disegni di legge in discussione dinanzi al Parlamento, che riproducono la proposta elaborata dalle Camere Penali, e che, dietro l’ingannevole etichetta della separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, nascondono l’intenzione di assoggettare al potere politico tutti i magistrati, sia giudici che pubblici ministeri, eliminando le garanzie di indipendenza e di imparzialità previste dalle sagge menti che elaborarono la nostra Costituzione”.
Nessun passo avanti invece sulla prescrizione. Sempre ieri in commissione Giustizia alla Camera la Lega ha comunicato di aver depositato un proprio testo in materia di prescrizione. Quindi la Commissione giustizia di Montecitorio non ha adottato un testo base sul tema, che verrà presumibilmente definito nelle prossime settimane. Finora la commissione ha esaminato le proposte di legge presentate dal vicesegretario e deputato di Azione Enrico Costa, dal deputato di FI e vicepresidente della commissione Pietro Pittalis e dal presidente della II Commissione di Montecitorio e deputato di Fratelli d’Italia Ciro Maschio.
Sempre ieri il Ministero della Giustizia ha reso noto che oggi si insedia la “Commissione per la riforma del processo penale”, istituita da Carlo Nordio. “Entro un anno, il gruppo di lavoro dovrà sottoporre al Guardasigilli proposte di intervento normativo, per recuperare lo spirito originario del codice del professore Giuliano Vassalli e realizzare a pieno il modello di processo accusatorio”. In realtà la Commissione era stata istituita già a maggio e comprendeva 27 membri, di cui ben 19 magistrati, 5 avvocati e 3 professori.
Nel corso di questi mesi i membri sono stati portati a 41, di cui 29 magistrati e il resto penalisti e docenti. Insomma le riforme le continuano a fare i magistrati, come per la Commissione per i decreti attuativi per la riforma del Csm e dell’Ordinamento giudiziario, formata da 26 componenti: di questi solo tre sono avvocati, poi ci sono cinque professori universitari; il resto, quindi diciotto membri, sono tutti magistrati, di cui dieci fuori ruolo. DI Angela Stella 7 Settembre 2023
La riforma giustizia. Egemonia delle procure e subalternità della politica. Il politico e il legislatore ne sono fortemente persuasi: è il pm il detentore della verità, è che lui che sa estirpare il male e sanare le ingiustizie. Non c’è riforma senza la consapevolezza e denuncia di questa anomalia. Francesco Petrelli su L'Unità il 6 Settembre 2023
Il concetto di “egemonia” descrive bene la situazione venutasi a creare nel nostro Paese negli ultimi trenta anni, in quanto, al di fuori di ogni riforma ordinamentale e costituzionale, la figura del pubblico ministero ha assunto una posizione centrale, facendo sì che i titolari dell’azione penale assumessero un effettivo controllo della scena processuale, mediatica e politica.
Si deve in proposito parlare di egemonia e non di dominio, in quanto quel potere vasto ed incontrastato non è imposto con la forza nei confronti di coloro che le sono soggetti (i media, i giudici, la politica), e tanto meno avvertito come una qualche imposizione dall’intera società. Accade così che il parere espresso da un pubblico ministero non sia percepito come una opinione di parte, ma venga accolto come un’affermazione di inattaccabile verità destinata a prevalere su ogni altra voce.
Si tratta di una situazione tanto significativa ed estesa da essere colta anche da qualificate voci interne alla magistratura e che, proprio per tale ragione, appare suscettibile di produrre alterazioni tanto più gravi e profonde in quanto le stesse non si esauriscono nell’ambito delle dinamiche processuali, ma finiscono con incidere nel tessuto istituzionale e nella carne viva della nostra democrazia. Una egemonia, infatti, proprio in quanto tale, si risolve in una convinta condivisione valoriale ed è tanto più efficace e radicata in quanto non produce una pura e semplice soggezione, ma si risolve in quel riconoscimento spontaneo da parte di tutti gli altri soggetti coinvolti nelle dinamiche decisive per lo sviluppo del processo penale (dal legislatore al cronista giudiziario, al singolo elettore), di quella effettiva superiorità e capacità del pubblico ministero e della straordinaria efficacia della sua azione.
Non è infatti solo il pubblico ministero ad essere convinto di tale condizione di superiorità, ma ne è convinto lo stesso giudice e ne sono profondamente persuasi il politico ed il legislatore: è il pubblico ministero ad essere detentore della verità, è lui a saper distinguere il lecito dall’illecito, a saperne indicare i responsabili senza bisogno di alcun giudizio, è lui che sa distinguere le leggi buone da quelle cattive, è solo il pubblico ministero ad avere il potere e la capacità di estirpare il male. È infine il pubblico ministero, e non certo la politica, ad essere capace di sanare le ingiustizie della società.
Si tratta di una superiorità che si risolve di fatto in una disinvolta agibilità politica, in una presa immediata sull’opinione pubblica ed in una capacità di condizionamento degli iter legislativi: è sufficiente che alcuni pubblici ministeri o ex pubblici ministeri, all’esterno o all’interno del Parlamento, si dichiarino contrari ad un DDL per ottenere un ampio consenso da parte dei media e per determinarne così la neutralizzazione. Ed è allo stesso modo sufficiente che alcuni rappresentanti qualificati di quell’Ufficio esprimano i loro desiderata perché la politica se ne faccia immediatamente carico.
Si tratta di una condizione di privilegio che proprio in quanto non si risolve affatto in un atto di forza o nel puro “esercizio di un potere”, non può essere contrastata in alcun modo dagli altri poteri che restano inevitabilmente collocati in una perdurante posizione di subalternità. Occorre pertanto prendere atto con realismo della situazione di sbilanciamento culturale, istituzionale e politico che caratterizza la posizione della magistratura inquirente nel nostro Paese e del pericolo che essa costituisce per la complessiva tenuta della nostra democrazia. Perché la subalternità della politica è un pericolo per ogni democrazia.
È per questa ragione che ogni iniziativa riformatrice deve essere accompagnata da una più vasta campagna di denuncia di questa perseverante anomalia affinché raggiunga i più ampi settori della società, nella convinzione che solo una riforma radicale della giustizia potrà ricondurre il sistema penale ai suoi necessari equilibri all’interno ed all’esterno del processo. Una riforma che non solo è indispensabile per restituire la necessaria centralità alla figura del giudice, ma che costituisce altresì la premessa affinché finalmente la politica si sottragga a quella egemonia ed a quella insostenibile subalternità nella quale si è irresponsabilmente lasciata condurre. Se non si parte da qui, da questa presa di coscienza, per la giustizia, per la magistratura e per l’intero Paese non ci sarà alcuna speranza di rinnovamento.
Francesco Petrelli Direttore della Rivista UCPI “Diritto di Difesa” 6 Settembre 2023
Caiazza: «Il ministro ascolti i cittadini, non i veti dei pm in congedo». Separazione delle carriere, il leader dei penalisti: «Il governo rispetti le Camere. Siamo delusi da via Arenula». Valentina Stella su Il Dubbio il 23 agosto 2023
«Siamo magistrati in pensione, civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro l’annunciata riforma della separazione delle carriere»: questo l’incipit di una lettera-appello rivolta al ministro della Giustizia Carlo Nordio da parte di suoi ex colleghi in pensione – tra i quali Giovanni Salvi, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Armando Spataro – che a tre settimane dall’inizio delle audizioni sul tema a Montecitorio sono scesi in campo per “fare ostruzionismo” fuori dal Parlamento. A loro replica Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali.
Che ne pensa di questa iniziativa?
Con tutto il massimo rispetto per le circa 350 autorevoli firme che hanno sottoscritto l’appello, sono depositate in commissione Affari costituzionali alla Camera oltre 75mila mila sottoscrizioni di cittadini italiani favorevoli alla nostra proposta di riforma costituzionale della separazione delle carriere. Osservo poi che la maggior parte dei magistrati che si sono rivolti a Nordio sono ex pubblici ministeri.
Era quasi scontato.
E dovrebbe farci capire tutto: quello della separazione delle carriere è un tema che non la magistratura nella sua interezza ma quella requirente rifiuta. Occorrerebbe interrogarsi sulla ragione.
E qual è?
Il sistema a carriera unica consente un condizionamento da parte degli Uffici di Procura rispetto alla fase del giudizio straordinariamente più forte di come sarebbe se ci fossero carriere separate. Vorrei fare una terza considerazione.
Prego.
Questo appello al momento è quasi inutile perché il percorso di riforma è paralizzato. Era iniziato nel migliore dei modi con la scelta di alcuni gruppi di maggioranza e del Terzo polo di fare propria la nostra proposta, e di depositarla in commissione Affari costituzionali. Dopo di che c’è stato l’annuncio molto generico, da parte dell’Esecutivo, della volontà di inserire nel cronoprogramma sulla giustizia una iniziativa governativa in materia di separazione delle carriere. Che bisogno c’è di questo, se è già pronto il percorso parlamentare?
Che risposta si dà?
Dobbiamo immaginare che si abbia in testa un’idea di separazione delle carriere diversa dal testo sottoscritto da Forza Italia, Lega, Azione e Italia Viva.
A ciò si deve aggiungere che tra i parlamentari c’è malumore per il fatto che loro conducono istruttorie nelle commissioni su alcuni temi, ad esempio sulla prescrizione, e poi arriva l’iniziativa governativa sulla stessa materia. Il deputato Pittalis (FI) ci ha detto che occorre un miglior dialogo tra Esecutivo e Legislativo e maggior rispetto per i lavori delle commissioni parlamentari.
Più che mai se parliamo di una riforma costituzionale. Se è vero che a settembre ci saranno le audizioni sulla separazione delle carriere, non dobbiamo nascondere il fatto che quell’annuncio del governo ha paralizzato per mesi il percorso parlamentare. E non sappiamo cosa accadrà. Una cosa è discutere in commissione, altra è portare un testo in Aula. Stiamo assistendo a qualcosa di preoccupante: Nordio ha detto che adesso le priorità sono altre. Ma proprio perché la separazione delle carriere necessita di un lungo iter parlamentare si sarebbe dovuto iniziare da subito a discuterne nelle sedi competenti. Io ho un timore.
Che timore?
Che l’appello degli ex magistrati si coniughi con una scelta di fatto del governo o di rallentare il percorso o addirittura di scrivere una riforma diversa.
Una scelta coltivata a via Arenula?
Questo è un altro punto fondamentale. Nessuno sa chi starebbe lavorando a questo fantomatico testo governativo. Non ci risultano accademici coinvolti, né noi siamo stati interpellati. Rimangono i magistrati fuori ruolo del Legislativo e del Gabinetto del ministero. Possiamo mai accettare una eventualità del genere, ossia che siano loro a scrivere la riforma della separazione delle carriere?
A inizio anno Nordio ha posticipato l’entrata in vigore della riforma Cartabia per accogliere letteralmente “il grido di dolore delle Procure”. Poco tempo fa la magistratura antimafia si è lamentata di una sentenza della Cassazione sulla criminalità organizzata e il governo, con l’avallo del guardasigilli, ha varato un decreto d’urgenza per rimediarvi. In un quadro simile davvero si può pensare che Nordio abbia il coraggio di fare la separazione delle carriere?
La sua è una buona domanda, ma essendo retorica contiene già la risposta. Ed è la nostra grande preoccupazione. Al di là delle schermaglie irrilevanti, ad esempio sul concorso esterno, sugli atti di governo cruciali abbiamo visto un governo pronto appunrto ad accogliere, come ha detto il ministro, “il grido di dolore dei pm”. Mi auguro che adesso non siano pronti ad accogliere il grido di dolore anche delle Procure in pensione. Auspico invece che si accolga quello delle migliaia, anzi dei milioni di cittadini, che in questi trent'anni, anche attraverso i referendum, i favorevoli erano il 90 per cento benché non si sia raggiunto il quorum, hanno di fatto chiesto la separazione delle carriere. Noi sappiamo che questo tema è uno dei pochi di giustizia liberale davvero popolare. Ed è per questo motivo che è temuto.
Come replica a chi dice che, con la separazione e i due Csm, i pm avrebbero ancora più potere?
Bisogna smetterla di prendere in giro le persone. Questo non è un argomento serio. Chi ci garantisce dal pubblico ministero è il giudice. Il pm può essere anche un poliziotto allo stato puro, un appartenente ad uno squadrone della morte, cosa che comunque non avverrebbe, ma non potrebbe fare nulla perché se il giudice non è d’accordo non può arrestare, non può sequestrare, non può adottare misure di prevenzione patrimoniale.
L’Ucpi all’inizio ha investito molte speranze in Nordio. Adesso i vostri toni sono cambiati. Vi sta deludendo?
Non possiamo e non intendiamo nascondere tutta la nostra delusione. Noi abbiamo salutato l’elezione di Nordio con entusiasmo. Abbiamo addirittura ritenuto di orientare una nostra astensione in difesa del ministro perché abbiamo capito che le idee liberali sono minoritarie in questo governo. Adesso però stiamo raccogliendo uno schiaffo dietro l’altro: non c’è un solo provvedimento adottato di senso liberale. Siamo sempre pronti a ricrederci e ad essere di nuovo a fianco al guardasigilli, ma per concludere dico: un ministro liberale fa il ministro e accetta di farlo se ti fanno fare le riforme liberali. Può in nome della ragionevolezza scendere a qualche compromesso, ma se non realizza riforme liberali o le pretende o si dimette.
Molti i nomi noti che hanno firmato l’appello. Seperazione delle carriere, la carica dei 500 Pm contro la riforma Nordio: “Ma le firme si raccolgono nei condomini”. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 24 Agosto 2023
Cresce giorno dopo giorno il numero dei magistrati in pensione che ha deciso di sottoscrivere l’appello, indirizzato al ministro della Giustizia Carlo Nordio, contro la riforma della separazione delle carriere. Ieri erano circa 500, per la maggior parte pubblici ministeri. Tanti i nomi noti: Francesco Greco, Armando Spataro, Piercamillo Davigo, Giovanni Salvi, Marcello Maddalena, Nello Rossi.
Nell’appello, ripreso dal sito dell’Associazione nazionale magistrati, le ex toghe sostengono con toni a dir poco apocalittici che la separazione delle carriere “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale che prevede non solo l’appartenenza di giudici e Pm ad un unico ordine giudiziario, indipendente da ogni altro potere, ma anche un unico Csm”. Inoltre, “i giudici guardano alla rispondenza agli atti e alla logica degli argomenti delle parti, e non certo alla posizione di chi li propone: se fosse fondato questo sospetto, anche il giudice dell’impugnazione non dovrebbe far parte della stessa carriera del giudice del precedente grado di giudizio”.
L’appello, va detto, rischia di essere inutile in quanto la riforma della separazione delle carriere, sottoscritta da Forza Italia, Lega, Azione e Italia Viva, è incagliata da mesi presso la Commissione affari costituzionali di Montecitorio dal momento che il governo ha deciso di inserire nel cronoprogramma sulla giustizia una propria iniziativa al riguardo.
Ad oggi non è però chiaro chi dovrebbe elaborare il testo governativo. Il sospetto da parte di tutti è che siano i diretti interessati: i magistrati fuori ruolo dell’Ufficio legislativo di via Arenula. Una beffa.
Il prossimo 6 settembre, comunque, sono in programma le audizioni in Commissione affari costituzionali. I primi ad essere auditi saranno il presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia e il coordinatore dell’Ocf Mario Scialla.
Puntuale, ovviamente, la polemica politica.
Tommaso Calderone, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Montecitorio e firmatario della proposta sulla separazione delle carriere, considera l’appello un tentativo “per frenare la proposta di legge”. “Le firme – aggiunge – si raccolgono nei condomini, per fare togliere le biciclette dagli androni, non per fermare le primarie prerogative dei parlamentari. Per quanto mi riguarda il documento dei magistrati in pensione è tamquam non esset. Andremo avanti più spediti di prima”. “La separazione delle carriere è un punto fondamentale del programma di Forza Italia, una riforma fondamentale per avere, finalmente, una giustizia efficiente, giusta e trasparente. In quanto parlamentare devo rendere conto a decine di milioni di italiani che vogliono questa riforma”, ha aggiunto quindi Calderone.
Durissimo il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (FI): “Il dibattito politico istituzionale italiano resta sempre sbilanciato. Per qualche giorno avremo ancora pagine intere sul libro del generale Vannacci, testo che non passerà certamente alla storia come “I promessi sposi” o “Il Gattopardo”, mentre è passato quasi sotto silenzio un testo, quello sì pericoloso, un atto di grave intimidazione nei confronti del Parlamento, sottoscritto da alcune centinaia di magistrati in pensione, che punta, come al solito, ad impedire al Parlamento di esprimersi sulla riforma della giustizia”. “In particolare – aggiunge – questi ex magistrati ordinano di non procedere alla annunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri: questa ulteriore aggressione alla sovranità del Parlamento sarà respinta. Questa riforma “s’ha da fare”. E non saranno i fogli d’ordine dei “padroni della verità” a bloccare il libero Parlamento italiano. Noi rispettiamo la legalità repubblicana e la sovranità delle istituzioni democratiche. Questo manifesto-appello rappresenta un atto grave, ben più inquietante di un ufficiale in cerca di improbabile gloria. Eppure, se ne parla troppo poco. Noi ne parleremo. Anche in Senato”.
Critiche all’appello sono arrivate invece dal consigliere del Csm Andrea Mirenda, favorevole alla separazione delle carriere con un Pm però opportunamente garantito nella sua indipendenza.
“I Pm da sempre monopolizzano la vita associativa dei magistrati, avendo più tempo a disposizione dei giudici in quanto non devono scrivere le sentenze”, sottolinea Mirenda, già giudice a Verona.
“I capi dell’Anm, infatti, sono quasi sempre dei Pm, pur essendo sulla carta molti meno dei giudici. Non è perché siano più intelligenti ma, ripeto, perché hanno solo più tempo”, continua Mirenda, ricordando che “molti dei firmatari, quasi tutti ‘correntizzati’, hanno anche ricoperto incarichi politici di primo piano: mi stupisco che ora gridino al pericolo di un Pm sottoposto all’esecutivo”.
Paolo Pandolfini
Volano “stracci” sul capo di Cascini, toga impunita. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Agosto 2023
Nel pomeriggio di ieri è circolata all’interno della mailing list degli iscritti all’ ANM, l’ associazione nazionale dei magistrati un commento del chiacchierato e discusso Giuseppe Cascini che testualmente scrive: “Scusate, ma al netto di tutte le tante cose non condivisibili di questa intervista, come si permette costui di dire che i pubblici ministeri hanno più tempo libero ? Da dove ha ricavato questa informazione ? Giuseppe Cascini”.
A stretto giro è arrivata la risposta del consigliere Mirenda: ” Gentile dott. Cascini, fermo il mio convinto rispetto del principio “ libero fischio in libera piazza” di pertiniana memoria che La autorizza a dire e pensare di me ciò che vuole, vorrei solo chiarirLe che il mio pensiero in tema di separazione delle carriere è pubblicamente noto a tutti ( tranne a Lei) da almeno una decina di anni“
“Si rassereni, dunque, nessuno è stato turlupinato – continua Mirenda – men che meno chi mi ha eletto (con Sua buona pace), al netto dell’ irrilevanza del Mirenda-Pensiero sul punto, per elementari ragioni di diritto che, ne sono convinto, anche Lei potrà agevolmente comprendere“.
La replica del consigliere Mirenda è molto sottile, ricordando a Cascini la squallida vicenda dei biglietti gratis richiesti per suo figlio per accedere tribuna autorità allo Stadio Olimpico di Roma, scrivendo: “E a questo punto butto anch’io il pallone (perché Lei di stadi se ne intende eccome…) nel suo campo: chissà se i suoi antichi elettori La voterebbero ancor dopo aver avuto contezza dei nefasti associativi e consiliari di cui Ella, con altro ancor più celebre collega radiosamente radiato (il riferimento è all’ ex presidente dell’ ANM Luca Palamara, n.d.r.) , è stato oscuro protagonista? Lascio a loro la riflessione. Stia bene e un abbraccio”.
F.to “Costui”
P.S. Le sia chiaro una volta per tutte che anche per me i PM lavorano sodo eccome ( mia moglie è PM e ben vedo i sacrifici che affronta tutti i giorni); ciò vale anche per i ben noti influencer faccendieri, in mille faccende affaccendati?
Ma cosa aveva irritato così tanto Cascini ? Un’intervista rilasciata ad un quotidiano dal consigliere Andrea Mirenda, membro togato del Consiglio superiore della magistratura, in cui aveva commentato la posizione dei “magistrati in pensione firmatari dell’appello contro la separazione delle carriere esercitano un loro diritto legittimo, tuttavia l’intervento ha tanto il sapore di interferenza nel bel mezzo dell’attività parlamentare, da parte di chi ancora si sente ‘superstar’. Da magistrato non lo ritengo un gesto elegante, ma ognuno fa ciò che ritiene”. commentando la notizia della lettera destinata al ministro di Giustizia Carlo Nordio,, sottoscritta da circa trecento magistrati in pensione (fra i quali Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Marcello Maddalena ed Armando Spataro), contrari all’annunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.
Chi è il magistrato Andrea Mirenda
Il giudice Andrea Mirenda è stato candidato ed eletto alle ultime elezioni per la componente togata del Consiglio superiore della magistratura. Potrebbe sembrare uno scherzo del destino ma è accaduto. Mirenda, magistrato di sorveglianza a Verona e fautore da sempre del sorteggio per la scelta dei togati di Palazzo dei Marescialli, è stato a sua volta sorteggiato dall’Ufficio elettorale presso la Corte di Cassazione. La riforma Cartabia, aveva previsto infatti che se non si fosse raggiunto un numero di predeterminato di candidati in ogni singolo collegio, sarebbe stato necessario provvedere alla selezione dei magistrati mancanti tramite il sorteggio. La candidatura di Mirenda è stata certamente senza alcun dubbio la più “anti sistema” che ci possa essere. Vale quindi la pena ricordare la sua storia.
Dopo essere stato per anni un esponente di primo piano della “sinistra giudiziaria” di Magistratura democratica, Mirenda si è scontrato con la dirigenza della corrente non condividendone scelte e modi di agire, che sono stati poi raccontati nei libri da Luca Palamara ed Alessandro Sallusti. Quando ancora nessuno conosceva l’hotel Champagne, albergo romano dove nel maggio del 2019 Palamara e alcuni politici e magistrati si incontrano per discutere di incarichi, ad iniziare da quello di procuratore di Roma, Mirenda fece un gesto a dir poco rivoluzionario: rinunciare al suo incarico di presidente di sezione presso il tribunale di Verona per andare all’ufficio di sorveglianza. “È emerso ciò che molti sapevano ma che pochi avevano avuto il coraggio di denunciare pubblicamente negli ultimi trenta anni”, dichiarò Mirenda all’indomani dello scoppio del Palamaragate e della pubblicazione delle chat che i magistrati scambiavano con il ras indiscusso delle nomine al Csm, per pietire ed avere un posto. Quando esplose lo scandalo, Mirenda, che non aveva mai avuto il cellulare di Luca Palamara, si era anche offerto di difenderlo davanti alla sezione disciplinare del Csm. In quel momento Palamara non aveva trovato alcun collega disposto ad assisterlo venendo considerato come un reietto da una lunga corte di magistrati smemorati o ingrati, prima di affidarsi a Stefano Guizzi.
Dopo aver chiesto, insieme ad altri colleghi, lo scioglimento del Csm, Mirenda iniziò una battaglia di verità proprio sulle chat, utilizzate a corrente alternata al Csm: per alcuni era una clava, per altri un carezza al cuore. Nel mirino del giudice veronese era finito l’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, autore della criticatissima circolare che escludeva l’illecito per il magistrato che si fosse autoraccomandato con Palamara per un incarico. Praticamente quello che era successo proprio a Salvi che, secondo il racconto di Palamara, aveva organizzato un incontro su un roof garden di un prestigioso albergo romano per perorare la sua nomina a pg della Cassazione.
Salvi aveva smentito, mentre Palamara aveva confermato tutto, ricordando persino anche le pietanze di quel giorno. Durissimo, poi, sulla riforma Cartabia. Mutuando le parole del capo dello Stato Sergio Mattarella che parlò di “modestia etica” a proposito delle vicende dello Champagne, Mirenda definì l’elaborato voluto della Guardasigilli frutto della “modestia riformista”, essendo un testo che non incideva sul potere delle correnti, aumentato il potere del Csm per la scelta dei capi degli uffici.
Potere che sarebbe stato tolto se si fosse scelta la rotazione dei vertici. Critica la posizione di Mirenda, poi, contro la decisione dell’Anm di scioperare contro tale riforma. “Uno sciopero di facciata”, secondo il magistrato. E critico anche contro i conflitti d’interessi. Il primo rappresentato dal professor Massimo Luciani, difensore del Csm e nominato dalla ministra della Giustizia presidente della Commissione che doveva riformare l’organo di autogoverno delle toghe: “Siamo davvero certi della sua terzietà e indipendenza?”.
Il secondo rappresentato dall’attuale presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, ex capo ufficio legislativo del Ministero della giustizia: “È come se Sergio Marchionne fosse stato nominato capo del Film”. Mirenda è stato anche fra i firmatari di alcuni referendum sulla giustizia promossi dai Radicali e dalla Lega. Ad esempio quello sulla separazione delle carriere fra pm e giudici e sull’abolizione della legge Severino: “Adesso è sufficiente un buffetto di una Procura per destabilizzare il quadro politico. Penso ad Antonio Bassolino, 17 azioni giudiziarie finite nel nulla”, ricordò. Redazione CdG 1947
La lettera al Guardasigilli. Il partito dei Pm vuole sovvertire lo Stato di diritto e si scaglia contro la riforma della giustizia: “Non s’ha da fare!” Tra i trecentoventi magistrati che intervengono a gamba tesa ci sono i nomi più celebri dei Pm che negli ultimi anni hanno tenuto le prime pagine dei giornali e i primi piani in Tv. Piero Sansonetti su L'Unità il 20 Agosto 2023
Un gruppo di circa 320 magistrati in pensione ha scritto una lettera al ministro Nordio per chiedere che sia bloccata la riforma della giustizia. Gli ex magistrati pretendono che dalla riforma sia espunta la proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, cioè quel provvedimento, garantista, che renderebbe finalmente operante l’articolo 111 della Costituzione restituendo ai cittadini il pieno diritto alla difesa, che oggi è sospeso.
L’articolo 111 prevede che le sentenze siano decise da un giudice “terzo e imparziale”. Il terzo vuol dire distinto sia dalla difesa sia dall’accusa. Chiaro che se invece è un collega o della difesa o della accusa non è terzo. Può essere anche imparziale ma terzo non è. Tra i trecentoventi magistrati ci sono i nomi più celebri dei Pm che negli ultimi anni hanno tenuto le prime pagine dei giornali e i primi piani in Tv. I vecchi magistrati del Pool di Milano, Davigo e Colombo, l’ex Procuratore di Milano Greco, e poi Caselli, Petralia, Spataro e persino l’ex procuratore generale della cassazione Giovanni Salvi. Intervengono a gamba tesa sull’attività legislativa.
È loro diritto? In quanto ex magistrati, e dunque privati cittadini, è loro diritto. Però chiunque abbia una certa dimestichezza con la politica capisce che questa lettera è l’atto formale di fondazione di un partito vero e proprio che si pone l’obiettivo di imporre e guidare la politica della giustizia e la definizione dei limiti dello Stato di diritto. Questo partito esiste da tempo, e ha il suo centro propulsore nell’Anm (l’associazione nazionale dei magistrati, struttura sindacale, anticostituzionale ma sopportata dalle istituzioni, che da anni svolge un ruolo politico molto attivo) ma non si era mai dichiarato e presentato al pubblico in forma così solenne. I firmatari della lettera, almeno i più famosi, sono quasi tutti Pm, perché – questo è noto – sono i Pm, e non i giudici, la spina dorsale del partito dei magistrati.
Così come è noto che questo partito, che oggi esce allo scoperto, dispone di molti strumenti politici dal momento che controlla quasi tutta l’informazione giudiziaria e la direzione di molti giornali (a partire dal Fatto Quotidiano che ne è l’organo ufficioso) e una parte consistente del Parlamento, istituzione nella quale dispone anche di un vero e proprio gruppo parlamentare, cioè i 5 Stelle, e di pezzi consistenti di diversi altri gruppi. Il nuovo partito, guidato dai Pm in pensione, nella sua lettera, contesta l’ipotesi della separazione delle carriere tra Pm e giudici con questi quattro argomenti.
1) Si perderebbe la cultura comune della magistratura, e cioè l’amore per l’accertamento della verità.
2) L’Italia perderebbe una sua peculiarità assoluta.
3) la separazione delle carriere intaccherebbe l’autonomia dell’ordine giudiziario;
4) la separazione dei Csm provocherebbe danni, inasprendo il ruolo del Pm: perché oggi il Pm non è giudicato per il numero di condanne che ha ottenuto.
Vediamo bene questi quattro punti. Sull’amore per la verità c’è molto da discutere. Il 40 per cento delle persone messe sotto processo dai Pm, e trascinate per anni nel fango delle inchieste, risulta innocente. Così come risulta innocente circa un quarto delle persone messe in custodia cautelare, spesso per molti mesi (qualcuno anche per anni). Ci sarà pure amore per la verità, ma allora le cifre dicono che c’è poca professionalità.
Sulla peculiarità, non c’è molto da discutere. “Peculiarità italiana” vuol dire semplicemente che nel mondo occidentale e democratico solo da noi non c’è la separazione. Non è una bella peculiarità. Così come non è bella la peculiarità determinata dal fatto che siamo l’unico paese senza salario minimo. È la stessa cosa: semplicemente siamo i peggiori.
Terza questione. L’autonomia dell’ordine giudiziario non verrà in nessun modo messa in discussione. Giudici e Pm resterebbero autonomi. Anzi, più autonomi. Perché sarebbero indipendenti anche gli uni dagli altri. Ai Pm verrebbe a mancare quella consuetudine, o anche amicizia e complicità, soprattutto coi colleghi Gip, che conferisce loro un enorme potere nella fase delle indagini, e che spesso permette loro di incarcerare persone innocenti o di tenerle per anni a processo pur in assenza di prove. Non perderebbe autonomia nessuno, perderebbero il loro strapotere i Pm. (I quali peraltro perdono autonomia e indipendenza, violando così la Costituzione, quando si costituiscono in correnti e poi in associazione politica; penso all’Anm. L’associazione politica viola la norma costituzionale che impone ai Pm di rispondere solo alla legge).
Infine c’è l’obiezione dei Pm che non sono giudicati dal Csm sulla base delle condanne che hanno ottenuto. Vero. Spesso Pm che hanno ottenuto pochissime condanne in rapporto agli avvisi di garanzia, o agli arresti, o anche ai rinvii a giudizio dei quali sono stati promotori, ottengono ottime promozioni. Ma questo non è un bene. È un modo per spostare la giustizia fuori dal processo. Io ti afferro e ti rovino. Se poi tra dieci anni ti assolvono, poco male, io la pena te l’ho già inflitta.
Il partito dei Pm, con questa lettera, rende esplicita la sua idea politica. Quella di costruire una forma di democrazia che abbia un pilastro centrale nella magistratura e un potere, quello giudiziario, sovraordinato rispetto agli altri, scassando così il vecchio stato liberale e la struttura dello Stato di diritto. Per fare questo bisogna impedire che ai Pm sia tolto il potere politico, attraverso la separazione delle carriere. È legittima la loro opinione. Sarebbe interessante sapere se esiste ancora una componente trasversale della politica, saldamente democratica, in grado di opporsi e di far fallire questo disegno. Io non sono sicuro che esista.
Piero Sansonetti 20 Agosto 2023
Giustizia, l'appello di 300 magistrati in pensione a Nordio: «Separare le carriere di giudici e pm stravolge la Costituzione». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 20 agosto 2023
Tra i firmatari della lettera destinata al Guardasigilli anche Francesco Greco e Piercamillo Davigo, oltre alle toghe della stessa generazione del ministro. «Forse l'intento del governo è controllare l'azione del pubblico ministero»
Nei riquadri da sinistra: Greco, Davigo, Colombo, Salvi, Spataro
«Siamo magistrati in pensione civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro l’annunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri». Sono trecento (320 già solo in tre giorni di firme), non sono (più) giovani, e se saranno forti lo si vedrà a seconda di quanto impatto avrà l’appello che stanno lanciando dalla pensione. Sì, perché questa è la «Generazione Nordio» che scrive a Nordio, sono tutti (come il ministro della Giustizia) magistrati in pensione, toghe già da tempo a riposo, e che dunque ritengono disinteressato il proprio punto di vista nutrito da assai differenti orientamenti culturali, posizioni associative, pregressi incarichi, e a volte persino accesi passati confronti.
I promotori (tra i quali il giudice Luigi Caiazzo e il pm Gianluigi Fontana) raccolgono ad esempio l’adesione della prima donna presidente di sezione della Cassazione, Gabriella Luccioli; del civilista presidente aggiunto di Cassazione ed ex commissario Consob, Renato Rordorf, o sempre in Cassazione del procuratore generale Giovanni Salvi; di due capi del Dipartimento delle carceri, Giovanni Tamburino e Dino Petralia; dei magistrati che scoprirono la loggia P2, Gherardo Colombo e Giuliano Turone. Ex pm di Mani pulite, oggi ai ferri corti sul caso Amara, firmano invece all’unisono l’ex procuratore di Milano Francesco Greco e Piercamillo Davigo; i già procuratori di Torino agli opposti dal punto di vista associativo, Marcello Maddalena e Armando Spataro, ex componenti Csm come Vittorio Borraccetti; il giurista di Cassazione Aniello Nappi, e l’ex avvocato generale Nello Rossi; un leggendario presidente di Corti d’Assise come Camillo Passerini; la civilista Elena Riva Crugnola; il procuratore genovese del ponte Morandi, Francesco Cozzi, il pm antimafia milanese Alberto Nobili, o i presidente della Corti d’Appello di Milano e Napoli, Vincenzo Salafia e Giuseppe De Carolis.
Dopo aver ricordato che nella quotidianità delle aule «dalle riforme Castelli e Cartabia già sono stati praticamente eliminati i passaggi da una carriera all’altra», i firmatari additano che l’annunciata riforma, in Parlamento dal 6 settembre, «stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale che prevede non solo l’appartenenza di giudici e pm ad un unico ordine giudiziario, indipendente da ogni altro potere, ma anche un unico Csm».
A chi sostiene che ciò «darebbe un vantaggio al pm rispetto al difensore», ribattono che «i giudici guardano alla rispondenza agli atti e alla logica degli argomenti delle parti, e non certo alla posizione di chi li propone: se fosse fondato questo sospetto, anche il giudice dell’impugnazione non dovrebbe far parte della stessa carriera del giudice del precedente grado di giudizio. Per contro, è essenziale che il pm abbia in comune con il giudice la stessa formazione e cultura della giurisdizione, godendo anche della stessa indipendenza, perché la sua azione deve mirare all’accertamento della verità, e deve poter essere rivolta nei confronti di chiunque, senza alcun timore. Oggi il pm, proprio perché organo di giustizia, è obbligato a cercare anche le prove favorevoli all’indagato e non di rado chiede l’assoluzione: avverrebbe lo stesso con un pm formato nella logica dell’accusa e del tutto separato dalla cultura del giudice? Ci sorprende che i fautori delle carriere separate non vedano i pericoli». A meno che, teme la «Generazione Nordio», «il vero intento sia quello di consentire al governo di controllare l’azione del pubblico ministero».
La magistratura si considera padrona della giurisdizione nel silenzio della politica. Le toghe non mancano di individuare prassi e letture normative creative ritenendo di farsi interprete degli obiettivi di funzionalità del Sistema per l'accertamento dei reati. Giorgio Spangher su Il Dubbio il 17 agosto 2023
Anche in questi primi giorni di agosto non sono mancate le occasioni di riflessione e confronto in materia di giustizia penale. Tra queste, tre sembrano suscettibili di qualche riflessione di ampio respiro. La prima si ricollega al decreto- legge numero 105 con il quale il Governo ha esteso la disciplina speciale delle intercettazioni dei reati di criminalità organizzata ad ulteriori fattispecie di reato, nonché alle situazioni aggravate dal metodo mafioso e terroristico, la seconda alla sentenza della Corte Costituzionale ( 170/ 2023) relativa al conflitto di attribuzioni tra il Senato della Repubblica e la Procura fiorentina relativamente al sequestro di conversazioni disposte sullo smartphone di un imprenditore che aveva colloquiato con un componente del Senato.
Pur trattandosi di situazioni differenziate è possibile una riflessione comune. Invero l’intervento di urgenza che ha motivato il recente decreto ha origine dalla segnalazione da parte della Procura Nazionale Antimafia legata ad una interpretazione, peraltro consolidata, della giurisprudenza di Cassazione, assunta anche a Sezioni Unite. Il riferimento, più specificatamente, si indirizza alle possibili valutazioni sulla natura soggettiva o oggettiva dell’aggravante di cui all’art. 7 dl 152/ 1992, trasfusa nell’art 416 bis 1 cp, con il conseguente timore che una interpretazione rigorosa dell’attività posta in essere dal partecipe possa determinare l’invalidità delle relative decisioni maturate in sede di merito.
Al di là di altre situazioni nella dinamica di Governo ( Ministro della Giustizia, Presidenza del Consiglio), la politica ha immediatamente dato corso a queste richieste di intervento, a prescindere dal fatto che la modifica possa cogliere nel segno. Già in precedenza, a fronte di interpretazioni rigorose della Cassazione (vedasi le Sezioni Unite Cavallo) il legislatore era immediatamente intervenuto adeguando la disciplina dell’art. 270 cpp ( utilizzazione delle intercettazioni disposte in altri procedimenti) ma altri esempi, anche meno recenti, potrebbero essere fatti (vedi vicende Carnevale: timbro a secco e dei termini). Pur sottolineando che i riferimenti sono spesso legati direttamente o indirettamente – si pensi, ad esempio, alla ostilità sulla riforma dell’abuso di ufficio, considerato quale reato spia - al fenomeno della criminalità organizzata va sottolineato come la classe politica dia alle sollecitazioni delle procure una risposta immediata.
Di tutt’altro segno, anzi opposto, è quello legato alla sentenza della Corte Costituzionale con la quale i giudici della Consulta hanno affermato che le comunicazioni WhatsApp non sono documenti - come ritenuto costantemente dalla giurisprudenza - ma corrispondenza, con tutte le conseguenze che ciò determina sia per i membri del Parlamento ma anche per tutti gli imputati.
Ora, è sicuramente corretto affermare che ai sensi della Costituzione spetta alla magistratura l’interpretazione della legge. È altresì noto che la magistratura si consideri proprietaria della giurisdizione, sicché non manca di individuare prassi e letture normative, in modalità creativa, ritenendo di farsi interprete degli obiettivi di funzionalità del sistema per un più sicuro accertamento dei reati. Molto spesso le letture confliggono con quanto è corrispondente alla legge secondo la ricostruzione che ne fa la dottrina, anche in linea con le previsioni costituzionali e sovranazionali. Dinanzi a questa situazione, a più riprese evidenziata nei commenti alle decisioni del supremo collegio, la politica resta del tutto silente. Solo a seguito delle decisioni della Corte Costituzionale ( ultimo caso è quello riferito), della Corte di Giustizia ( come nel caso dei tabulati ancorché relative ad altri Stati) o della Cedu il legislatore è costretto ad intervenire correggendo in qualche modo la normativa, ovvero la giurisprudenza ( sempre, peraltro, con interpretazioni restrittive) deve adeguarsi. Il problema è costituito dal fatto che “medio tempore” ( quasi sempre decenni, nel caso dei tabulati un ventennio e mancano ancora le garanzie sulla geolocalizzazione) gli imputati sono privati di un altro standing di garanzia perché come è noto il nostro sistema mette nelle mani dei magistrati l’accesso a due di questi strumenti di garanzia e per il ricorso alla Cedu è necessario esaurire interamente il percorso giudiziario. La politica così attenta alle ragioni di accertamento dovrebbe dimostrare una maggiore sensibilità per il rispetto delle garanzie imposte dalla Costituzione e dalla disciplina internazionale sovraordinata.
La terza riflessione è suggerita dall’intervento di Edmondo Bruti Liberati su questo giornale, dove viene affrontato l’argomento dell’etica pubblica, dell’informazione giudiziaria e della giustizia penale. La questione del rapporto tra responsabilità penale e responsabilità politica è complessa e richiederebbe un'analisi molto articolata della realtà storica, sociale culturale, religiosa e politica di un Paese, anche perché tutto ciò condiziona fortemente i temi di cui si parla: coesione sociale e condivisione del sistema istituzionale. Del resto, gli stessi riferimenti ad altri Stati da parte di Bruti Liberati, in primis gli Stati Uniti, sembrano datati ( il fenomeno del trumpismo segnerà fortemente la storia di quel Paese) e non trasferibili alle situazioni italiane della stampa, che risente di impostazioni ideologiche se non addirittura partitiche ( non vedo premi Pulitzer tra i nostri giornalisti) - e della politica ( le modalità della convalida della elezione di George W. Bush contro Al Gore, del tutto improponibili nelle dinamiche italiane). Venendo non senza molte semplificazioni al nostro Paese, deve affermarsi che, considerata la sua struttura sociale e culturale, frutto della sua evoluzione storica e la sua conseguente articolazione politica, il tema della eticità è stato da tempo ritenuto marginale essendo stato sostituito dalla contrapposizione partitica destinata ad alterare gli equilibri politici tra le forze in campo, soprattutto tra quelle di maggioranza e di Governo (stante la collocazione internazionale del nostro Paese). Il riferimento va anche alle commissioni di indagine parlamentare ( Telekom Serbia, sistemi bancari…).
Sotto questo aspetto la questione si è sempre più spostata alle implicazioni delle vicende giudiziarie che hanno rappresentato il tema privilegiato del riferito scontro politico. Sono state poche in questi anni le dimissioni, i passi indietro di vari esponenti per ragioni etiche, morali e di opportunità. Quasi tutti gli episodi significativi che si possono ricordare ( dal caso Montesi Piccioni con la fine del doroteismo all’interno alla Dc, fino alla vicenda dello scandalo Lockheed con le dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone) sono stati contrassegnati da vicende giudiziarie. La stessa “questione morale” sollecitata da Berlinguer ha condotto al fenomeno di Mani pulite e al crollo della Prima repubblica; del resto, è significativa in tal senso l’eliminazione dalla Costituzione della autorizzazione a procedere e tutta la legislazione sull’incandidabilità condizionata da giudizi di responsabilità accertati in sede penale.
È conseguentemente evidente che l’iniziativa giudiziaria abbia un forte rilievo e che l’abbia per il suo solo avvio a prescindere da quelli che potranno essere gli esiti processuali, i quali, ancorché favorevoli a indagato e imputato, avranno determinato effetti irreversibili ( come tanti episodi hanno dimostrato). La riferita forte contrapposizione politica, alla quale la stampa e la magistratura non sono del tutto estranee, non consente di superare facilmente il problema che indubbiamente deve trovare nella classe politica un suo maggiore senso di responsabilità, nella magistratura un senso misurato di comportamenti di attività rispetto ai diritti, nella legislazione la predisposizione di strumenti di garanzia il cui significato va trasfuso all’opinione pubblica, così da chiarire meglio il senso delle iniziative giudiziarie alla luce del principio costituzionale di considerazione di innocenza.
Il continuo svilimento del ruolo degli avvocati indebolisce i diritti di tutti. La prospettiva è quella di renderci degli impiegatucci del sistema giudiziario. In ossequio alle esigenze di produttività si è oramai disponibili a mettere in discussione la tenuta dei principi fondamentali, primo fra tutti il diritto di difesa. Socrate Toselli, avvocato, su Il Dubbio il 16 agosto 2023
Quando si parla di crisi dell’avvocatura, si pensa generalmente all’aspetto reddituale, ma non è questo il profilo di cui intendo parlare. È normale che determinate professioni oggi rendano di meno, o di più, che in passato. Viviamo peraltro in un tempo in cui il mondo corre sempre più velocemente e saranno molte le occupazioni che nel giro di qualche anno addirittura non esisteranno più. Si tratta di processi per molti versi irreversibili.
Quello che però mi è intollerabile è la crisi della funzione dell’avvocato, costituzionalmente intesa, ed il suo ruolo sempre più residuale nell’ambito del processo. Io mi occupo di diritto civile e devo registrare che questa tendenza, di progressivo annichilimento del nostro ruolo, assume sembianze sempre più decise e chiaramente percepibili, quantomeno nei suoi effetti più immediati. Ma procediamo con ordine.
In occasione dell’emergenza dovuta alla diffusione del Covid 19, al deposito telematico degli atti si è aggiunta la trattazione telematica dell’udienza, ossia lo svolgimento della stessa, appunto, mediante l’inoltro telematico di note scritte. Tale sistema, istituzionalizzato per effetto della riforma Cartabia, ha sensibilmente ridotto, fino quasi ad eliminare del tutto, qualsiasi spazio di confronto diretto sia tra le parti che tra queste e il giudice.
Non solo. Il principio del contraddittorio, a cui viene pacificamente accordato rilievo costituzionale, è stato ritenuto recessivo proprio in ordine al momento più significativo del processo, ossia l’udienza. La trattazione cartolare, infatti, fa sì che normalmente ciascuna parte formuli le proprie istanze e deduzioni al buio, ossia non conoscendo il contenuto delle note avversarie, pertanto non potendo replicarvi, venendo a delinearsi un sistema che potremmo definire di contraddittorio semipieno.
Ciò rileva anche nel senso di ridurre le possibilità di definizione bonaria e depotenziare lo sforzo conciliativo del giudice, che ovviamente non può prescindere da un contatto diretto con le parti. Difficile che questa possano essere aiutate a mettersi d’accordo dal giudice quando oramai è ben possibile che la causa giunga al termine senza che il giudice le abbia mai incontrate. Per quel che interessa in questa sede, inoltre, è indubbio che la riduzione di spazi di confronto dialettico comporti uno svilimento del ruolo dell'avvocato.
È di questi giorni l’introduzione, in esecuzione della riforma Cartabia, dei limiti dimensionali degli atti giudiziari. Nulla di particolarmente nuovo sotto il sole, dato che ci invitano continuamente a scrivere il meno possibile, a limitare le nostre note di trattazione alle sole istanze e conclusioni. È paradossale, peraltro, che molto spesso tale invito ci viene rivolto attraverso provvedimenti di cinque o sei pagine. Cinque o sei pagine per dirci che dobbiamo scrivere tutto in una. Ora tale invito ci perviene direttamente dal legislatore.
Di più: l’art. 46 delle disposizioni attuative al cpc prevede inoltre che il ministro della Giustizia definisca con decreto “gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo”. Il che lascia intravedere un futuro non troppo lontano in cui compileremo dei moduli forniti dal ministero, stando attenti a fare entrare tutte le parole negli appositi spazi a tal fine concessi, il tutto nell’ambito di un processo attento sempre di più alla forma e sempre di meno alla sostanza.
Anche in relazione a tale ultimo profilo, non dico nulla di nuovo. È sotto gli occhi di tutti l’aumento di cause di inammissibilità o improcedibilità, molto spesso anche di creazione giurisprudenziale al fine di utilizzarle come scorciatoie per evitare la fatica di entrare nel merito delle questioni. Il giudice è sempre di meno giudice del fatto e sempre di più controllore del procedimento. Non è un caso che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la nota sentenza del 28.10.2021, abbia bacchettato l’eccessivo formalismo della Cassazione, i cui criteri attribuiscono un peso sproporzionato alla forma a scapito della sostanza. Appare, del resto, di immediata percezione il paradosso di un sistema in cui il ricorso per Cassazione deve essere autosufficiente (ossia contenere la chiara indicazione ed esaustiva esplicazione degli elementi necessari a deciderlo) ma, allo stesso tempo, rischi di essere dichiarato inammissibile perché troppo lungo e prolisso. Ma non c’è da stupirsi, se basta una mancata attestazione di conformità (quando tale conformità nessuno abbia disconosciuto) per vedere apposto al ricorso il timbro della improcedibilità.
Le questioni di diritto sono relegate in secondo piano. Quello che assume rilievo decisivo è come e dove notificare a mezzo pec, come attestare quel che si è notificato, come depositare quello che si è fatto ed attestato. In un sistema in cui sono oramai queste le cose da cui usualmente dipenda l’esito di un giudizio, non c'è da sorprendersi se lo spazio per il confronto dialettico, per il contraddittorio e, dunque, per il nostro ruolo di avvocati vada riducendosi. La prospettiva è quella di renderci degli impiegatucci del sistema giudiziario, forse un sostanziale prolungamento del c.d. ufficio del processo, in ossequio alle esigenze della produttività.
Il problema non è che in questo modo il lavoro degli avvocati divenga meno affascinante. Di questo, dobbiamo trovare la forza di farcene una ragione. Il problema è che la principale funzione degli avvocati è la tutela dei diritti individuali. E perciò che lo svilimento del ruolo degli avvocati non può che indebolire questa tutela; divenendo allora un problema che riguarda tutti, non solo gli avvocati.
La storia del liberalismo giuridico, ossia dall’idea per cui esistono diritti che appartengono all’uomo per natura e che pertanto nessuna autorità (quand’anche espressione delle più ampie maggioranze) può mettere in discussione, è anche storia di un’avvocatura forte e consapevole del proprio ruolo. Francois Furet ha definito la Rivoluzione francese come “rivoluzione degli avvocati”, che condurrà alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1789, quei diritti e quelle libertà che precedono il potere politico e che nessun potere politico, dunque, può legittimamente violare. Ancora oggi, non a caso, l’art. 1 del codice deontologico forense prevede che “l’avvocato, nell’esercizio del suo ministero, vigila sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione e dell’Ordinamento dell’Unione Europea e sul rispetto dei medesimi principi, nonché di quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a tutela e nell’interesse della parte assistita”.
La nostra è una professione liberale che risponde ad una importante funzione sociale, il cui svolgimento non sempre si sposa appieno con le esigenze di produttività del sistema giudiziario, in ossequio alle quali si è oramai disponibili a mettere in discussione la tenuta dei principi fondamentali, primo fra tutti il diritto di difesa. In nome del quale dovremmo trovare il modo di ostacolare questo tentativo di ridurre il processo a mera sequenza di passaggi procedimentali, magari con l’obiettivo finale di sostituirci con un algoritmo.
La produttività del sistema ne trarrà probabilmente giovamento. Avremo giudizi rapidi, anche se dagli esiti del tutto sconnessi dalla responsabilità umana. Giudizi che di fatto non saranno più tali e dove si potrà finalmente fare a meno di noi avvocati, che potremo resistere a questa deriva solo riscoprendo l’essenza della nostra irriducibile condizione, che in fondo è semplicemente quella di uomini che difendono altri uomini.
Solo la magistratura può fermare il quarto potere delle procure. Quando la Cassazione, in via definitiva, fa a pezzi una sentenza di merito e stabilisce che i fatti addirittura non sussistevano, gli uffici che hanno indagato saranno pure responsabili di colpa grave se non persino di dolo? Giuliano Cazzola su Il Dubbio il 6 agosto 2023
Per riformare la giustizia in Italia non ci sarebbe molto da fare, anche se fino ad ora (?) è risultata una missione impossibile: riportare nell’alveo della Costituzione, Il settore deviato della magistratura delle procure ovvero della magistratura inquirente perché quella giudicante è certamente più equilibrata - anche se arriva con troppo ritardo - come si vede osservando le sentenze che demoliscono i teoremi delle procure. Ma questa “terziarietà” deve essere garantita dalla separazione delle carriere. “Solo l’ordine giudiziario e solo a mezzo di un processo può dichiarare un accusato colpevole. Questo principio - ha scritto Sabino Cassese - è stato travolto in Italia dall’affermazione di quello che può chiamarsi un vero e proprio quarto potere, le procure”. Secondo il giurista, quindi, i pm non si limitano a costruire l’accusa, ma giudicano prima del processo. Vogliamo approfondire come avviene quest’ abuso di potere? Ce lo spiega Luciano Violante, una personalità al di sopra di ogni sospetto, in una intervista al Foglio sulla finzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che a suo avviso “offre ai magistrati la possibilità di concentrarsi su reati evanescenti per concentrarsi più sulle persone da indagare che sui reati da dimostrare”. “Si usa un’ipotesi di reato non ben limitata - ha proseguito l’ex presidente della Camera - si apre un’indagine sulla persona, si cerca tutto ciò che in una persona possa essere considerato rilevante dal punto di vista della morale oltre che del penale e si usa il circo mediatico per dare legittimità alla propria azione”. Non a caso le misure proposte da Carlo Nordio riguardano essenzialmente la condotta delle procure e tendono a colpire quegli abusi evidenti che esulano dall’esigenza di “fare giustizia”.
Nessun ufficio giudiziario ha mai indagato sul traffico di veline tra le procure e i cronisti giudiziari, perché è un passaggio fondamentale dello sputtanamento pre-giudiziale che è di per sé una condanna che dura per l’intero calvario dell’iter processuale. Basta leggere un ordine di custodia preventiva che di solito consiste nella descrizione di un teorema, di tanto in tanto corredata dalla citazione tra virgolette di una frase carpita da un’intercettazione telefonica, il cui contenuto diventa una prova di reato, a prescindere dal contesto in cui è stata detta.
C’è poi la vicenda del concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che non si potrebbe abolire per legge perché nessuna legge lo ha mai previsto e che come ha scritto Filippo Sgubbi “l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza - e quindi ex post - se la propria condotta rientra o meno in tale figura”, perché la giurisprudenza - che dovrebbe limitarsi a decidere sul caso concreto - è divenuta, impropriamente, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. Eppure, appena Carlo Nordio ha sfiorato incautamente questa perversione giuridica si è assistito ad un fuggi fuggi disordinato e trasversale, perché tutti i partiti temono il potere delle procure, maligne e vendicative. Perché non si prova a seguire un’altra strada?
Piercamillo Davigo era solito invitare la politica a fare pulizia in casa propria prima dell’intervento della magistratura perché - sosteneva a ragione - i comportamenti illeciti che avvengono nel proprio ambiente sono noti. La stessa cosa potrebbe dirsi anche nel caso della magistratura inquirente. I magistrati sono dove esistono dei problemi, dove i loro colleghi costruiscono di proposito indagini che non hanno fondamento, dove arrestano una persona poi vanno alla ricerca di un reato da poter applicare. Era così difficile rendersi conto del fatto che la ‘‘ trattativa Stato Mafia’’ era una bufala, fondata su di un pregiudizio ideologico, per affermare il quale non c’è mai bisogno di prove? Siamo sempre lì, a quanto scriveva Pier Paolo Pasolini: “Io so, ma non ho le prove”.
Che ci siano collusioni tra pezzi di Stato e la malavita, che ci siano infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici sono cose risapute, ma non possono essere date per certa in ogni caso. È stato Davigo a proclamare in tv la sua dottrina: “Un innocente è solo un colpevole che l’ha fatta franca”. E ancora: “Non è più semplice mandare un ufficiale di polizia giudiziaria sotto copertura a partecipare a una gara d’appalto e quando qualcuno la vincerà, dicendo “tu questa gara non la devi vincere” lo arresta così facciamo prima?”.
Se un sostituto procuratore perseguita un rivale in amore, commette un reato perseguibile d’ufficio. Che differenza c’è con una procura che usa i poteri illimitati di cui dispone per realizzare un disegno politico? Si dirà: come si può provare una siffatta linea di condotta? Ma quando la Suprema Corte di Cassazione, in via definitiva, fa a pezzi una sentenza di merito e stabilisce che i fatti addirittura non sussistevano, gli uffici che hanno indagato saranno pure responsabili di colpa grave se non persino di dolo?
Come in politica, anche nell’ordine giudiziario (divenuto illegittimamente un potere) le cose si sanno. La stessa magistratura potrebbe “fare pulizia’’ al proprio interno, se, in questi casi montati ad arte e sconfessati, la Cassazione trasmettesse gli atti alla Procura generale per l’avvio dell’azione disciplinare o per indagare su di un eventuale reato. Il caso ENI è un esempio di manipolazione delle prove su cui indaga la stessa magistratura. Ma è una eccezione che confermala regola dell’impunità.
Il caso degli uffici giudiziari senza dirigenti. Giustizia, uffici senza capo (né coda): il Csm ha accumulato un arretrato di nomine di dirigenti. Sono senza un capo uffici giudiziari di primo piano, come il tribunale di Milano e quello di Bologna. E lo stesso dicasi per le Procure di Napoli, Firenze e Torino. Napoli, per chi non lo sapesse, è la Procura più grande d’Europa con oltre cento sostituti. Una riflessione è d’obbligo. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 30 Giugno 2023
In Italia ci sono uffici giudiziari senza un capo da quasi cinque anni. Non perché non ci siano candidati, anzi, quelli non mancano, ma perché il Consiglio superiore della magistratura è riuscito, non è chiaro in che modo, ad accumulare un arretrato senza precedenti nelle procedure di nomina dei dirigenti.
Il tribunale di Lecce, ufficio giudiziario che ha attualmente in carico procedimenti penali molto delicati nei confronti di magistrati accusati di aver preso tangenti per aggiustare dei processi, ad esempio, è senza il presidente dal 4 febbraio del 2019. Praticamente, da prima ancora che esplodesse il Palamaragate. In questi anni, per essere chiari, Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, è stato rimosso dalla magistratura e ha chiuso il suo contenzioso con la Procura di Perugia, mentre il Csm non è riuscito a fare questa nomina. Nomina che non è stata neppure esaminata in Commissione per gli incarichi direttivi. Le vacanze, fra direttivi e semidirettivi, sarebbero tantissime. Una stima per difetto parla di 200 posti. Un numero enorme.
Sono senza un capo uffici giudiziari di primo piano, come il tribunale di Milano e quello di Bologna. E lo stesso dicasi per le Procure di Napoli, Firenze e Torino. Napoli, per chi non lo sapesse, è la Procura più grande d’Europa con oltre cento sostituti. Le Corti d’appello della Sicilia, tranne Palermo, sono tutte senza un capo, essendo vacanti i posti di procuratore generale di Messina, Catania e Caltanissetta. Essendo l’attuale consiliatura in carica da appena quattro mesi, nel mirino è finita la gestione di David Ermini (Pd) il quale, però, da quando ha terminato il mandato di vice presidente si è tenuto alla larga da fornire quanto meno una spiegazione sul punto. L’attuale Csm, che ha allora ereditato questo arretrato monstre, sta cercando di correre ai ripari. Un compito non semplice il Consiglio sta svolgendo lavorando a ritmo serrato, anche considerando che ogni settimana che passa, fisiologicamente vanno in pensione per raggiunti limiti di età dei procuratori e dei presidenti di tribunale e quindi si creano nuove scoperture che vanno a sommarsi a quelle già in essere.
Poi ci sono le centinaia di conferme quadriennali. Dopo quattro anni dall’assunzione dell’incarico direttivo o semi direttivo, il magistrato è soggetto a valutazione per la conferma. E sono altre pratiche da evadere. La prossima settimana, la presidente della Quinta commissione, quella che si occupa proprio delle nomine, la togata Maria Luisa Mazzola, ha convocato i lavori tutti i giorni, dal lunedì al giovedì compreso. Giovedì la convocazione è alle 8 del mattino, orario alquanto insolito per i ritmi della Capitale ma che è indicativo dell’impegno profuso.
Una riflessione è d’obbligo. Come potrà la Commissione bocciare dei magistrati che stanno reggendo da anni l’ufficio giudiziario a cui aspirano? Il tribunale di Milano è retto in sede vacante da un anno e mezzo, a detta di tutti in maniera egregia, da Fabio Roia, candidato a diventarne titolare. Come potrà giustificare il Csm una sua eventuale bocciatura dopo che lo ha tenuto tutto questo tempo in qualità di facente funzioni? Le pratiche degli incarichi direttivi sono ad alto rischio di contenzioso amministrativo. Non si tratta della semplice autorizzazione per tenere una lezione all’università. Vanno analizzati i curricula dei vari aspiranti, con pareri di centinaia di pagine dove sintetizzare l’attività svolta in decenni di carriera.
La scelta non è mai facile. Emblematico il caso della Procura di Torino, composta da sei procuratori aggiunti, due procuratori delegati europei, 56 sostituti e ben 62 vice procuratori onorari.
Per il posto di procuratore le domande inizialmente erano una decina e tutte di magistrati dalle eccellenti qualità professionali: oltre all’attuale facente funzione, Enrica Gabetta, hanno fatto domanda gli aggiunti Patrizia Caputo, Marco Gianoglio e Cesare Parodi. Poi ci sono gli esterni: il procuratore di Cuneo, Onelio Dodero, quello di Bologna, Giuseppe Amato, quello di Alessandria Enrico Cieri, quello di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri. Inoltre, Paolo Guido, procuratore aggiunto di Palermo, Luca Tescaroli, procuratore aggiunto di Firenze, Maurizio Romanelli e Alessandra Dolci, entrambi aggiunti a Milano. Un bel grattacapo per Pinelli che dovrà far ricorso alla sua proverbiale efficienza veneta. Paolo Pandolfini
Gerarchizzazione sempre più spinta. Il caso Zuccaro e la scelta del vicario: le Procure sempre più simili alle caserme, il dissenso del capo non è contemplato. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 29 Giugno 2023
Le Procure della Repubblica sono sempre più simili alle caserme: uno, il procuratore, comanda, e gli altri, i sostituti, obbediscono in silenzio. Nonostante la Costituzione preveda che i magistrati si dividano fra loro soltanto per funzioni, da un lato i giudici e dall’altro i pm, la realtà offerta dagli uffici giudiziari italiani è quella di una gerarchizzazione sempre più spinta. Un caso alquanto ‘originale’ è quello della Procura di Catania, retta da Carmelo Zuccaro, diventato famoso negli anni scorsi per aver chiesto l’archiviazione dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini dall’accusa di sequestro di persona per la vicenda della nave Gregoretti.
Zuccaro, magistrato molto stimato dall’ex pg della Cassazione Giovanni Salvi, all’inizio del mese ha diramato un interpello per l’incarico di vicario, “il collaboratore più diretto del procuratore nella gestione dell’apparato organizzativo della Procura e di sostituzione dello stesso nei casi di assenza o impedimento”. Sulla carta, salvo che il diretto interessato avesse rifiutato, la scelta sarebbe dovuta cadere obbligatoriamente sul pm più anziano.
Dopo aver esaminato le varie candidature che “annoverano esperienze professionali di elevato spessore e contrassegnati da risultati eccellenti sia nel campo dei reati di competenza distrettuale che in quello dei reati della Procura ordinaria”, Zuccaro è giunto alla conclusione che questo profilo non però è “dirimente per la designazione del vicario”. Ciò che va considerato, invece, è il contributo che “i candidati hanno offerto sinora per la predisposizione del progetto organizzativo e soprattutto per la sua concreta attuazione e la gestione della complessa macchina organizzativa dell’Ufficio”.
Sotto questo profilo, è stata la conclusione di Zuccaro, è “opportuno evidenziare che rispetto agli altri candidati le indicazioni fornite dalla dottoressa Agata Santonocito non solo sono state più frequenti e costanti, oltre che spontaneamente offerte, ma sono state anche improntate ad una più sentita condivisione delle strategie di fondo perseguite nelle scelte organizzative adottate dallo scrivente”. In pratica, “anche quando tali interventi erano intesi ad apportare delle modifiche alle soluzioni da me progettate (suggerimenti che non ho mai mancato di apprezzare e di prendere in considerazione) essi non si ponevano in contrasto con le finalità perseguite, mentre nel caso degli altri candidati che da maggior tempo rispetto alla dottoressa Santonocito hanno assunto le funzioni semidirettive presso questa Procura le soluzioni proposte si muovevano frequentemente in una direzione divergente rispetto a tali finalità”. Tradotto in altri termini, il dissenso del capo non è contemplato a Catania.
Il provvedimento di Zuccaro, in vigore da questa settimana, non può non far riflettere. In caso di contrasto sull’esercizio dell’azione penale, ad esempio, cosa succede a Catania? Il procuratore toglie l’indagine al pm e lo mette a fare le fotocopie? Zuccaro, ovviamente, questo non lo scrive, limitandosi a ribadire che “tali circostanze appaiono determinanti per la scelta del Vicario, il cui ruolo è quello di aiutare più da vicino il procuratore nella gestione organizzativa dell’Ufficio e, quando necessario, di sostituirlo e non quello di modificare nella sostanza le scelte adottate, essendo questa responsabilità demandata a chi viene incaricato dall’Organo istituzionalmente competente della titolarità dell’Ufficio”.
Lasciando per un momento la ‘procura-caserma’ di Catania, è di ieri la richiesta di patteggiamento a quattro mesi di prigione da parte dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, nell’ambito del procedimento di Perugia che lo vede accusato per avere messo a disposizione di due imprenditori “le sue funzioni e i suoi poteri” in cambio di alcune utilità, come soggiorni a Capri e a Roma. La richiesta di patteggiamento, formalizzata da parte degli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, è arrivata dopo la riqualificazione dell’accusa da corruzione a traffico di influenze illecite.
Una decisione che va in continuazione con quella che, il 30 maggio scorso, ha portato Palamara a patteggiare una condanna a un anno, pena sospesa, nel filone principale dell’inchiesta. Ha scelto di procedere con il rito ordinario, invece, la difesa dell’imprenditore Federico Aureli, che avrebbe dato a Palamara le utilità e per il quale la Procura guidata da Raffaele Cantone ha chiesto il rinvio a giudizio. La decisione del gup dovrebbe arrivare il 19 settembre prossimo. “Pur non riconoscendo nessuna responsabilità abbiamo deciso di chiudere anche questa parte di processi in coerenza con la conclusione definitiva di tutta la vicenda processuale“ hanno dichiarato i difensori di Palamara. “Abbiamo sempre sostenuto che il comportamento di Federico Aureli è stato improntato sulla correttezza e il rispetto della legge” hanno spiegato invece gli avvocati Romolo Reboa e Roberta Verginelli. Paolo Pandolfini
Così i giudici amministrativi hanno trovato il modo di garantirsi ricchi incarichi extra. Sergio Rizzo su L'Espresso il 3 Agosto 2023
Gli arbitrati erano stati aboliti. Dal 2020 sono tornati con un altro nome, ma sempre molto remunerativi per i magistrati di Tar e Consiglio di Stato. Gli unici per cui l’incompatibilità tra funzione pubblica e privata non vale. E in caso di conflitto d’interessi, decidono le parti
Dopo settimane di travaglio, riunioni infinite, bozze ed emendamenti, ecco trovata la soluzione. Saranno le parti in lite a decretare l’eventuale incompatibilità del giudice. E ora a Palazzo Spada tutti (o quasi) potranno tornare a sognare il mondo dorato che sembrava perduto. Per mesi il dubbio aveva tormentato il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, che sarebbe poi il Csm dei magistrati dei Tar e del Consiglio di Stato. Il dubbio, ora fugato, era quello di non poter garantire a tutte le toghe pari opportunità per ottenere gli incarichi profumati previsti dalla legge sugli appalti. Così profumati da superare talvolta di slancio lo stesso stipendio di magistrato amministrativo.
Il problema? Sempre quello che aleggia da anni su consiglieri di Stato e giudici dei Tar: l’incompatibilità fra funzione pubblica e incarichi privati. Perché ai magistrati amministrativi, come a quelli contabili, per ragioni difficilmente comprensibili è consentito ciò che a tutti i loro colleghi ordinari è severamente precluso. Dall’insegnamento agli incarichi nella giustizia sportiva, fino agli arbitrati. E questo è il punto.
Una volta si chiamavano proprio così: arbitrati. Era un sistema per aggirare, sulla carta, le lungaggini della giustizia ordinaria in materia di appalti. Quando l’impresa e il committente pubblico litigavano, non si andava in tribunale ma davanti a un collegio arbitrale presieduto di solito, per designazione comune delle due parti, da un consigliere di Stato o da un giudice del Tar. Il lavoro, ovviamente, non era gratis, ma gli arbitri incassavano laute prebende. Quasi sempre dai contribuenti, perché pur essendo un funzionario pubblico l’arbitro supremo, lo Stato soccombeva nel 95 per cento delle cause di questo tipo. Nelle tasche dei magistrati finivano milioni e la cosa aveva preso una piega tanto scandalosa che nella seconda metà degli anni Duemila la pratica venne mandata in pensione grazie a un sussulto di etica collettiva.
Ma troppi interessi erano stati mortificati. È bastato così aspettare che quel sussulto si affievolisse e gli arbitrati sono risorti dalle ceneri sotto diversa forma. Adesso si chiamano Collegi Consultivi Tecnici. In sigla, Cct: come i buoni del Tesoro di un tempo. E in effetti un poco gli assomigliano. Li inventa il secondo governo di Giuseppe Conte durante la pandemia, con la scusa che bisogna velocizzare gli appalti pubblici frenati anche dalle troppe liti fra imprese e stazioni appaltanti. Il Collegio Consultivo Tecnico agisce preventivamente: ha il compito di mettere tutti d’accordo prima che la lite scoppi. Una specie di arbitrato, però con qualche differenza non trascurabile.
Intanto il Collegio non è facoltativo, ma obbligatorio per ogni appalto sopra la soglia europea dei 5 milioni. Poi non si occupa come un collegio arbitrale di una specifica controversia, ma dura quanto l’appalto. Anni. E ogni anno si paga. I tariffari sono complicatissimi, ma c’è chi si è preso la briga di fare qualche stima. Per un lavoro da 50 milioni si può arrivare anche a 750 mila euro, mentre un appalto di importo dieci volte maggiore garantirebbe al Cct un introito prossimo ai 2 milioni e mezzo. E siccome il presidente ha diritto a un compenso maggiorato del 10 per cento e il presidente è per regola il magistrato amministrativo, a lui spetterebbe una somma non lontana da un milioncino di euro. Oltre allo stipendio, naturalmente. Scusate se è poco.
Qui passano in secondo piano alcuni ovvi principi, come quello che il funzionario pubblico non dovrebbe avere compensi da imprese private. Tanto più se fa il giudice. Ma non basta. Perché seguendo il percorso di questa curiosa invenzione che farà spendere un sacco di soldi alle imprese e ai contribuenti arricchendo privatamente giudici già pagati dal pubblico per giudicare, è impossibile non individuare un oggettivo conflitto d’interessi.
A capo dell’ufficio legislativo di Conte che nel 2020 partorisce la norma che consegnerà ai magistrati amministrativi la guida dei Cct c’è un magistrato amministrativo: Ermanno de Francisco, consigliere di Stato. La legge dice che i Cct sono per una fase d’emergenza e quindi dovrebbero durare solo fino all’anno seguente. Ma piacciono così tanto che vengono prorogati. E intanto la stesura del regolamento viene affidata sempre al Consiglio di Stato, nelle capaci mani di Carlo Deodato: attuale segretario generale della presidenza del Consiglio. Il gradimento dei Cct, tuttavia, sale ancora. E sale al punto che il nuovo codice degli appalti felicemente vidimato dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini li eleva a obbligo perenne per tutti gli appalti sopra la soglia Ue. Articolo 215. Autore della norma ancora il Consiglio di Stato, sotto la guida del magistrato Luigi Carbone.
Se la cantano e se la suonano. E ben presto cominciano a fioccare gli incarichi. Con la particolarità che chi li assegna è il Consiglio di Presidenza, composto da giudici che a loro volta se li vedranno assegnare. Prima del suo prematuro decesso il presidente del Consiglio di Stato Franco Frattini se ne becca tre. Subito dopo la sua morte uno di questi, l’appalto per il nuovo tunnel del Colle di Tenda affidato dall’Anas a Edilmaco, viene trasferito come fosse un lascito ereditario al successore Luigi Maruotti. Il quale ha già giudicato «troppo penalizzanti», pensate un po’, i paletti che nel frattempo erano stati piantati.
La resurrezione degli arbitrati non è andata giù a tutti, nel piccolo Csm di Palazzo Spada. Qualche membro laico ha storto il naso, e ci sono anche magistrati apertamente contrari, come Silvana Bini e l’ex segretario generale Oberdan Forlenza. Ma sono voci isolate.
C’è però, sull’altro versante, un problema ben più grosso. Per tacitare polemiche peggiori, si è deciso infatti di escludere dai Cct chi ha giudicato controversie riguardanti almeno una delle parti in causa. Molto al di sotto del minimo sindacale, anche se in questo modo sarebbero tagliati fuori molti dei magistrati delle sezioni competenti per gli appalti. E si poteva «penalizzarli», il termine è di Maruotti, per quel semplice fatto? Sarebbe un’ingiustizia. Si incarica quindi una commissione interna di trovare la via d’uscita.
E il 5 luglio la cosa è fatta. Ogni volta che sorgerà un dubbio d’incompatibilità la segreteria del Consiglio di Stato manderà una lettera all’impresa e alla stazione appaltante con l’elenco delle cause che il magistrato ha giudicato nei due anni precedenti e i relativi esiti. Se entro un mese nessuno solleverà obiezioni l’incarico di presidente del Cct si intenderà approvato. L’uovo di Colombo, per lorsignori; una mostruosità giuridica, per la logica, il diritto e il conflitto d’interessi. Immaginate uno dei due a ricusare un magistrato che magari loro stessi hanno scelto?
Ps: il ministro della Giustizia Carlo Nordio, ex magistrato che viene considerato tutto d’un pezzo, non ha proprio niente da dire su tutto ciò?
Al di sotto della legge. Mario Giordano su Panorama il 27 Marzo 2023.
Gli aspiranti magistrati che barano alla prova d’esame (complici, gli stessi esaminatori). O gli «orrori» scritti ai concorsi. Poi uno perde fiducia nella giustizia...
Al di sotto della legge. Panorama il 27 Marzo 2023
Al di sotto della legge (Di lunedì 27 marzo 2023) Gli aspiranti magistrati che barano alla prova d’esame (complici, gli stessi esaminatori). O gli «orrori» scritti ai concorsi. Poi uno perde fiducia nella giustizia... Li ha traditi un errore banale. Hanno mandato la mail a un indirizzo sbagliato. E così s’è scoperto che stavano cercando di truccare il concorso per diventare magistrati. Uno dei commissari, Francesco Astone, professore a Messina, è ora indagato con l’accusa di abuso d’ufficio. Secondo la Procura di Roma era pronto ad agevolare la promozione di un candidato. Lo avrebbe riconosciuto da un segno particolare sulla prova d’esame. Le mail che si stavano scambiando dovevano, per l’appunto, definire il segno. E il resto dell’accordo. Non è la prima volta che succede, purtroppo. Qualche tempo fa il sostituto procuratore di Napoli, Clotilde Renna, era molto preoccupata per una sua pupilla. In effetti quest’ultima aveva ...
Corte serrata. La caparbia volontà delle prime otto giudici italiane in un mondo di maschi. Eliana Di Caro su L’Inkiesta il 7 Marzo 2023
Graziana Calcagno, Emilia Capelli, Raffaella d’Antonio, Giulia De Marco, Letizia De Martino, Annunziata Izzo, Ada Lepore, Gabriella Luccioli sono le «temerarie» vincitrici del primo concorso che, nel 1963, aprì le porte della magistratura alle donne
Giulia De Marco nasce a Cosenza il 21 febbraio 1940 in una famiglia della buona borghesia calabrese: il papà è dirigente della Cassa di Risparmio di Calabria, la mamma è casalinga «ma per modo di dire, perché in realtà era molto interessata alla politica: diventò segretaria femminile della nostra sezione della Dc. Da bambina ho fatto con lei la campagna elettorale del ’48 cantando O biancofiore simbolo d’amore, l’inno dei democristiani di allora». Completano il quadro due fratelli e una sorella, lei è la più piccola. Dopo le elementari dalle suore canossiane, Giulia frequenta la scuola pubblica, incluso il liceo classico Bernardino Telesio, e poi sceglie la facoltà di Giurisprudenza, nonostante i professori insistano perché si iscriva a Matematica. «In famiglia mio fratello Nicola, di sedici anni più grande, era magistrato, due fratelli di mia madre erano avvocati… si respirava quest’aria.
Nel ’58 la facoltà di Legge mi offriva la possibilità di diventare avvocato, notaio, consulente d’azienda, eppure il mio sogno rimaneva quello di fare il magistrato per via di una sensazione che scaturiva dai rapporti con i miei amici: mi consideravano una persona in grado di mettere pace, di risolvere le cose, insomma mi vedevano come “un giudice”. Ma all’epoca non si pensava assolutamente che nel giro di quattro o cinque anni sarebbe successo quel che poi è accaduto», spiega, riferendosi alla legge del ’63.
Una volta laureata, Giulia De Marco non frequenta alcuna scuola di preparazione al concorso: «Ce n’erano una a Napoli e una a Roma. Mi sono preparata da sola, a Cosenza: al mattino insegnavo in un paesino vicino – un anno ad Acri, un anno a Bisignano – poi tornavo a casa e studiavo». I ricordi si riaffacciano: la grande aula a Roma in cui si svolgono le prove scritte e sono disposti da una parte gli uomini, dall’altra le donne; la sensazione spiacevole per l’approfondita perquisizione delle poliziotte; la tensione di giornate estremamente stancanti. «Conoscevo gli argomenti e non ho avuto difficoltà a scrivere quello che sapevo. Non avevo idea, però, se bastasse o meno. Ho saputo di essere stata ammessa agli orali perché mi è arrivata una copia di un giornale, credo “L’Osservatore giudiziario”, in cui si diceva “Questa copia è riservata agli ammessi del concorso”, dopodiché mi sono attivata e ho telefonato al ministero: può sembrare una boutade e invece è andata così, mi hanno detto: “Le arriverà la data in cui dovrà sostenere gli orali”… che poi andarono bene, in tutta tranquillità».
Sui comportamenti dei colleghi, e sul clima che si genera anche rispetto al suo essere donna, Giulia De Marco distingue tra i più anziani («ci trattavano un po’ come figlie ribelli, diciamo così») e i coetanei («erano preoccupati: loro sì che ci conoscevano bene, sapevano come eravamo determinate e studiose»). Per gli avvocati, aggiunge, «eravamo un’incognita. In quella fase i giornali avevano cominciato, apparentemente prendendo le distanze, a riportare brani dei discorsi dei Padri costituenti.
Non so se l’opinione pubblica, e quindi anche gli avvocati, potessero essere influenzati da esponenti come Giuseppe Codacci Pisanelli o Giovanni Leone. In quelle citazioni c’era chi faceva riferimento al ciclo mestruale, chi alle teorie di Charcot sull’isteria femminile, chi aveva dichiarato che manchiamo di forza, di equilibrio, che siamo soggette alle emozioni e quindi non avremmo potuto essere raziocinanti ed equilibrate. Gli avvocati si chiedevano “Chi sono, queste? Che faranno? Come lo faranno?”».
Qualche effetto le dichiarazioni dei Padri costituenti lo producono se Giulia De Marco viene esclusa da un collegio per un processo per stupro. O se, di fronte all’idea che sia lei a riassumere le deposizioni e a dettarle al cancelliere di udienza, un avvocato si rivolge al presidente chiedendogli di procedere in prima persona: «Mi sono sempre domandata se lo avesse fatto anche in altre occasioni con i miei colleghi giovani, o se il problema era che se ne occupasse una donna. Il presidente liquidò la cosa: “stia tranquillo, io controllo”. Ad ogni modo, ho sempre avuto l’abitudine di comprendere le ragioni dell’altro, noi donne eravamo una novità, io ero lì da un mese, capisco che potessero essere un po’ disorientati: l’avvocato in questione era anziano, lavorava da quarant’anni, noi avevamo 25 anni e l’aspetto di ragazzine. Alcuni atteggiamenti bisognava capirli senza viverli come una deminutio, questa è stata la mia regola. Parlare di discriminazione senza capire l’incultura che c’era stata fino a quel momento, è sbagliato: oggi si può parlare di discriminazione, allora non era insensibilità, era incultura».
L’occasione per dimostrare l’infondatezza del pensiero di alcuni Costituenti arriva presto, quando Giulia De Marco chiede al Csm, in vista del matrimonio, il trasferimento a Brindisi, una sede non facile, con un Tribunale senza presidente perché sospeso per un procedimento disciplinare.
La giovane magistrata, dopo pochi mesi, è in attesa del primo figlio e il giudice facente funzione di presidente preferisce ignorare la cosa non sapendo come gestirla. «Il periodo feriale [cioè quello della sospensione dei termini processuali, in cui gli uffici sono a ranghi ridotti, N.d.R.] andava dal 15 luglio al 15 settembre; i giudici più giovani per prassi lavoravano in quei mesi, i più faticosi. Avevo 27 anni e, pur essendo incinta, il presidente non ritenne di concedermi le ferie, in un’estate caldissima, viaggiando in treno tutti i giorni (vivevo a Bari) e contemporaneamente studiando per l’esame di aggiunto. Detti prova di resistenza e forza d’animo: tutto quello che alcuni dei nostri Padri costituenti pensavano non avessimo»
Da “Magistrate finalmente – Le prime giudici d’Italia”, di Eliana Di Caro, Il Mulino, 168 pagine, 15 euro
La piramide della giustizia: maggioranza femminile, ma poche arrivano al vertice. GIULIA MERLO su Il Domani l’08 marzo 2023
Il 61 per cento delle laureate in materie giuridiche è donna. Tuttavia, sia in magistratura che nell’avvocatura, le donne che hanno raggiunto ruoli gestionali o di comando sono ancora poche. E un reddito uguale a quello maschile è ancora lontano
Il mondo della giustizia è tra quelli che ancora stentano a colmare la distanza tra uomini e donne nei ruoli di vertice.
In Italia, è uno dei settori che ha accolto in ritardo la sua componente femminile. Oggi, la tendenza è opposta: secondo i dati del Miur del 2021, sul totale di 277.871 laureati in materie giuridiche, le donne sono 171.322, pari al 61,6 per cento. Nelle posizioni di vertice, però, i numeri continuano a rimanere bassi.
LA MAGISTRATURA
Le prime otto magistrate sono entrate in ruolo nel 1965, dopo l’apertura del concorso anche a loro nel 1963, diciassette anni dopo la conquista del diritto di voto.
Secondo i dati 2022 del Csm, su un totale di 9576 magistrati, le donne sono circa il 55 per cento, con una età media di 49 anni, più bassa rispetto ai 52 anni degli uomini. Il flusso di donne che sceglie questa professione è in aumento, con il 71 per cento dei tirocinanti di sesso femminile.
La proporzione si inverte specularmente, però, quando si analizzano i dati sugli incarichi direttivi e semidirettivi.
Dei 379 capi degli uffici giudiziari le donne sono meno di un terzo: 111 contro 268 uomini, che rappresentano il 71 per cento circa.
Tra i semidirettivi, invece, il rapporto inizia ad equivalersi, con le donne che arrivano al 46 per cento su 690 posti complessivi.
La piramide vale anche per gli uffici. Tra gli uffici giudicanti il numero di donne con incarichi direttivi è più alta rispetto alle procure. In Corte di Cassazione è di 13 su 31, pari al 29,5 per cento. Tra queste 13, oggi, c’è anche il primo presidente appena nominato, Margherita Cassano.
Gli incarichi direttivi a donne nelle procure generali e nelle procure della repubblica sono del 14 per cento e del 17 per cento. Una sola donna, invece, ha un incarico direttivo nella procura generale di Cassazione.
L’AVVOCATURA
Anche nell’avvocatura la piramide rimane ben salda. La crisi ha colpito soprattutto la componente femminile e, secondo il rapporto Censis 2022 sull’avvocatura, sono state 6000 le cancellazioni di avvocate dall’albo (il 69 per cento).
Su un totale di 241 mila iscritti a cassa forense, il 47,7 per cento è di donne. Il numero dei neo-iscritti è stato di 7.103, il 57,3 per cento dei quali donne.
Tra i valori che più evidentemente continuano a mostrare il divario di genere, però, c’è il reddito. Secondo i dati del 2020, il reddito medio di un uomo è di 50.933 euro, mentre una donna guadagna meno della metà, con una media di 23.576 euro.
Anche per quanto riguarda la rappresentanza istituzionale, le donne continuano ad essere una minoranza.
Attualmente guida il Consiglio nazionale forense - l’organo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura - l’avvocata Maria Masi e ha come vice un’altra donna, Patrizia Corona, e la segretaria Rosa Capria. Nella consiliatura uscente, le donne sono 9 su 32.
Anche a livello ordinistico, pur non esistendo dati aggiornati alle ultime elezioni, il numero delle presidenti donne rimane una minoranza e lo stesso vale anche per le associazioni più rappresentative.
CORTE COSTITUZIONALE
Un caso a parte è quello della Corte costituzionale. Istituita nel 1956, la Consulta è rimasta lungamente un organo a composizione esclusivamente maschile, sebbene non esistessero preclusioni formali. I titoli per accedervi – magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria e amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio – però hanno escluso per molto tempo le donne, visto il ritardo con cui le carriere femminili nella giustizia hanno intrapreso il loro corso.
La prima donna a mettervi piede è stata l’avvocata Fernanda Contri, per nomina presidenziale nel 1996. Dei 119 giudici che ne hanno fatto parte, nella storia della Consulta solo 7 sono state donne: Contri, Maria Rita Saulle, Marta Cartabia, Daria De Pretis, Silvana Sciarra, Emanuela Navarretta e Maria Rosaria San Giorgio.
Attualmente i membri donna sono quattro, con Silvana Sciarra presidente e Daria De Pretis vicepresidente. La prima presidente della Corte è stata Marta Cartabia, quarantaduesima presidente dopo un lungo elenco di uomini.
IL CSM
Anche il Consiglio superiore della magistratura è rimasto a lungo precluso alle donne. Insediatosi nel 1959, in attuazione della Costituzione, il Csm visto accedere le prime donne nel 1981 con Cecilia Assanti e Ombretta Fumagalli Carulli, entrambe laiche elette dal parlamento.
Per l’arrivo della prima consigliera togata donna, invece, bisognerà aspettare la consiliatura successiva, del 1986, con Elena Paciotti di Magistratura democratica.
Oggi al Csm siedono quattro consigliere laiche, tutte in quota centrodestra, e sei togate a cui si aggiunge Cassano, membro di diritto come primo presidente della Cassazione.
Ogni donna in più in cima alle gerarchie di avvocatura, magistratura e istituzioni è ancora una conquista e un segnale non scontato nel mondo della giustizia, che così tardi le ha accolte. Con il loro esempio, una nuova generazione di giovani giuriste, avvocate e magistrate avrà la certezza che nulla è più - esplicitamente o implicitamente - precluso.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Margherita Cassano è stata nominata presidente della Corte di Cassazione: è la prima donna in Italia ad avere. questo incarico. Il Post il 15 Febbraio 2023.
Margherita Cassano, attuale presidente aggiunta della Corte di Cassazione, è stata nominata presidente dello stesso tribunale: è la prima donna ad avere questo incarico in Italia e sostituirà l’attuale presidente Pietro Curzio. La sua nomina è stata votata martedì, all’unanimità, dalla Commissione per gli incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno della magistratura presieduto dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Dovrà essere confermata mercoledì 1° marzo con una seconda votazione in cui sarà presente lo stesso Mattarella e che è considerata una formalità.
La Corte di Cassazione, che ha sede a Roma, è l’organo supremo della giustizia italiana e rappresenta il terzo e ultimo grado di giudizio in un processo. È divisa in sezioni, e a differenza del Tribunale di primo grado e della Corte d’appello, che si occupano sia della ricostruzione che della valutazione del fatto, la Corte di Cassazione valuta che le norme siano state interpretate e applicate correttamente.
Cassano, che ha 67 anni ed è toscana, era stata anche la prima donna nella storia italiana ad assumere la carica di presidente aggiunto della Corte di Cassazione. È entrata in magistratura nel 1980: nel tempo è stata Sostituto procuratore della Procura di Firenze e nella stessa città prima componente della Direzione distrettuale antimafia e poi presidente della Corte d’appello. Alla Corte di Cassazione, prima di diventarne presidente aggiunta nel 2020, era stata magistrata di appello, consigliera, componente delle Sezioni unite penali e vicedirettrice del CED, il Centro elettronico di documentazione, struttura che si occupa della gestione informatica dei processi e degli archivi della Corte.
Estratto da ansa.it l’1 marzo 2023.
Per la prima volta il Csm ha nominato una donna presidente della Cassazione.
Si tratta di Margherita Cassano, in passato presidente della Corte d'appello di Firenze e attualmente "vice" del presidente uscente della Suprema Corte, Pietro Curzio, a cui subentra.
"Il ruolo del magistrato non è solo fatto di abilità tecnica ma di umanità, capacità di ascolto, di rispetto profondo degli altri e di comprendere le tragedie umane che si nascondono dietro i singoli casi portati alla nostra attenzione", ha detto Cassano, collegandosi, subito dopo la nomina del Csm, con il Palazzo di Giustizia di Firenze dove si tiene la cerimonia del premio intitolato a Tindari Baglione, già procuratore generale nel capoluogo toscano per molti anni.
Cassano ha così ricordato Tindari Baglione e fatto "gli auguri ai cinque studenti che hanno ricevuto il premio".
La nomina è stata decisa all'unanimità dal plenum del Csm, presieduto dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Fiorentina, ma di origine lucane, figlia di un alto magistrato, Cassano ha 67 anni ed è entrata nell'ordine giudiziario nel 1980, a 25 anni. E' stata anche consigliera del Csm dal 1998 al 2002. [...]
Margherita Cassano, la prima donna nella storia candidata a guidare la Corte di Cassazione. Redazione CdG 1947 e Alessia Di Bella su Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2023.
Oggi la quinta commissione (incarichi direttivi) del Csm ha votato all'unanimità la proposta della sua nomina a presidente della Suprema Corte al posto di Pietro Curzio, attuale presidente eletto due anni fa, che sta per andare in pensione
Nata a Firenze, famiglia di origine lucana, il padre di San Mauro Forte, la madre di Grassano due piccoli paesi in provincia di Matera. Suo padre Pietro Cassano, anche lui magistrato famoso a Firenze per aver presieduto tanti processi negli anni di piombo, tra cui la condanna a Renato Curcio il fondatore della Brigate Rosse , Margherita Cassano è entrata in magistratura nel 1980: dal 1981 al 1998 è stata pubblico ministero a Firenze, dove ha seguito per la Dda, inchieste su associazioni di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. Dal 1998 è stata togata di Magistratura Indipendente al Csm per quattro anni.
E’ stata componente delle Sezioni Unite della Cassazione, ma anche della prima sezione penale dove è stata relatrice della sentenza di condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa dell’ex senatore Marcello Dell’Utri (Forza Italia) . Dal gennaio 2016 fino al luglio 2020 ha presieduto la Corte d’appello di Firenze dove è rimasta , quando è stata nominata presidente aggiunto della Cassazione.
Presidente della Corte d’Appello di Firenze dal 2015 ed allieva del Procuratore Nazionale Antimafia Pier Luigi Vigna, la Cassano ha ricoperto anche il ruolo di presidenza della Prima sezione penale della Cassazione, che si occupa di omicidi e violenze gravi, ed è stata consigliere al Csm ed alla Direzione Distrettuale Antimafia.
Margherita Cassano commentò con queste parole la sua elezione all’unanimità due anni fa come presidente aggiunta della Corte di Cassazione: “Verrà il giorno in cui una nomina come la mia non sarà più una notizia, e allora sì, per davvero, quello sarà un gran giorno per tutte le donne“. Ed oggi la quinta commissione (incarichi direttivi) del Csm ha votato all’unanimità la proposta del relatore, il togato indipendente Andrea Mirenda, della sua nomina a presidente della Suprema Corte al posto di Pietro Curzio, attuale presidente eletto due anni fa, che sta per andare in pensione. I due concorrenti per la guida della Cassazione erano solo due: oltre a Cassano, infatti, aveva presentato domanda Giorgio Fidelbo, presidente di sezione in Cassazione.
Il voto finale avverrà con la seduta del plenum del Csm del prossimo primo marzo, presieduta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Dopo l’elezione nel 2019 di Marta Cartabia prima donna a diventare Presidente della Corte Costituzionale, diventata in seguito ministro Guardasigilli , e di Giorgia Meloni, prima donna Presidente del Consiglio nel 2022, questa volta è il turno del cosiddetto “Palazzaccio” di piazza Cavour. Dal prossimo primo marzo sarà la Cassano diventerà il giudice più alto in grado d’Italia. entrando di diritto a far parte dell’organo di autogoverno delle toghe, il Csm. E tutto questo, conquistato senza le “quote rosa”. Tutto a pieno merito. Redazione CdG 1947
Prima donna in Cassazione ma difende la casta in toga. Margherita Cassano nuova presidente della Corte. Ha una certezza: le carriere non vanno separate. Anna Maria Greco il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.
Non è ancora venuto il momento in cui la nomina di una donna ai vertici non faccia notizia, come auspica la stessa Margherita Cassano e ora che lei ha infranto un tabù diventando Primo presidente della Cassazione, si ricorda che ne aveva collezionati altri di record, diventando nel 2020 la prima vicepresidente. «La Costituzione è il nostro faro - dice -. I valori che afferma, a partire dal rispetto di pari dignità delle persone, non dobbiamo darli per scontati». Si vede avanzare, in modo inarrestabile, l'onda rosa che vede ora Giorgia Meloni prima donna capo del governo, prima Maria Elisabetta Casellati che è stata seconda carica dello Stato come presidente del Senato e Marta Cartabia che è stata prima presidente della Corte costituzionale e poi Guardasigilli, fino a Elly Schlein che ha appena preso le redini del Pd. Quel «soffitto di cristallo» della parità di genere l'hanno sfondato tutte insieme. Lei, senza esaltazione ma con misura. «Continuo a fare il mio dovere, come ho cercato sempre di fare, con i piedi saldamente ancorati a terra, pensando che abbiamo di fronte dei cittadini a cui fornire risposte», diceva a chi le chiedeva come si preparava alla nomina. Ora la premier Meloni le fa le congratulazioni, con un tweet di «buon lavoro!». In serata anche il presidente Silvio Berlusconi si è congratulato, augurando alla Cassano buon lavoro. Il ministro per le Riforme Casellati spiega: «È un'altra tappa importantissima nel lungo e faticoso cammino dell'emancipazione femminile»
Il plenum del Csm sceglie all'unanimità la svolta femminile nella Suprema corte e il Capo dello Stato Sergio Mattarella, che lo presiede, sottolinea che solo per merito Cassano è arrivata fin lì, con un «eccellente profilo professionale», niente quote rosa: «Sappiamo tutti che è la prima donna chiamata a ricoprire questo ruolo così importante ma questo aspetto non ha influito sulla sua nomina». La sua formidabile carriera è il punto d'arrivo, aggiunge, di un percorso iniziato 60 anni fa con la legge che ha aperto le porte alle donne in magistratura. Oggi sono 4.952, il 55% del totale. Fiorentina di origini lucane, 67 anni, figlia di un magistrato che ha combattuto il terrorismo, della corrente moderata Magistratura indipendente, Cassano è stata giudice e anche pm e della separazione delle carriere non vuol sentir parlare. Lo dice senza peli sulla lingua a Repubblica, proprio mentre le arrivano gli auguri del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha presieduto il comitato per il referendum per le carriere separate e ora l'ha nel programma. «La sensibilità sulla formazione della prova è fondamentale per impostare indagini complete anche con la ricerca di elementi favorevoli alla persona accusata», dice lei serafica. A proposito del calo di fiducia nelle toghe, aggiunge che la magistratura «non vive di applausi, ma della corretta applicazione delle regole proprie di uno stato di diritto». La toga l'indossa a 25 anni e alla procura di Firenze si fa subito notare, poi spazia nelle indagini da droga a omicidi, sequestri di persona, infortuni sul lavoro, reati finanziari, contro la Pa e contro la libertà sessuale. Negli anni 90 è alla Direzione distrettuale antimafia di Firenze con Pier Luigi Vigna; nel 98 tra i togati del Csm e per 4 anni nella Sezione disciplinare; nel 2003 approda in Cassazione, Prima sezione penale, che presiederà; nel 2016 ritorna a Firenze come presidente della Corte d'appello e dà impulso ad informatizzazione, recupero dell'arretrato e riduzione dei tempi dei processi. Nel 2020 è presidente aggiunto della Cassazione e in 3 anni eccola al primo posto, con il ritorno al Csm. Il vicepresidente di Palazzo de' Marescialli Fabio Pinelli vede nella nomina unanime un effetto di quella «linea di coesione» nel Csm auspicata da Mattarella e il suo predecessore Pietro Curzio si dice «onorato di passare il testimone a Margherita».
La nomina storica. Margherita Cassano presidente della Cassazione: sarà la prima donna a guidare la Corte. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Febbraio 2023
Per la prima volta nella storia una donna arriva alla guida della Corte di Cassazione. È Margherita Cassano, al momento presidente aggiunto della Suprema Corte, indicata dal Consiglio Superiore della Magistratura appena insediato e guidato dal vicepresidente Fabio Pinelli. Superato l’altro concorrente Giorgio Fidelbo, presidente di sezione in Cassazione. Il voto previsto il prossimo mercoledì primo marzo, con il plenum presieduto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sarà in buona sostanza una formalità.
Dopo l’elezione nel 2019 della prima donna a Presidente della Corte Costituzionale, l’ex ministra Marta Cartabia, e nel 2022 della prima donna Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è il turno del cosiddetto “Palazzaccio”. Al momento inoltre a capo della Consulta c’è un’altra donna, Silvana Sciarra. A indicare Cassano come successore dell’attuale primo presidente Pietro Curzio, che andrà in pensione il prossimo 5 marzo, è stata la Commissione per gli incarichi direttivi, che ha votato all’unanimità la proposta del relatore, il togato indipendente Andrea Mirenda. A far pendere il piatto della bilancia, come riporta l’Ansa, al termine di un’approfondita audizione dei due candidati dalla parte di Cassano è stato il ruolo di “numero due” della Cassazione che ricopre dal 2020.
Cassano è fiorentina di origine lucana, 67 anni, in magistratura dal 1980, è esponente di Magistratura Indipendente. Poteva vantare già prima di oggi un altro primato: l’esser stata la prima donna ad accedere ai vertici della Suprema Corte. Ha iniziato alla procura della Repubblica di Firenze, dove si è occupata anche di questioni relative alle tossicodipendenze e al traffico di droga. A Firenze ha lavorato con assiduità con il procuratore Pier Luigi Vigna. Dal 1982 è stata componente del gruppo specializzato nelle indagini in materia di stupefacenti e di criminalità organizzata. Dal 1991 al 1998 è stata assegnata della Direzione distrettuale antimafia di Firenze.
Dal 2003 è approdata alla Corte di Cassazione, dove è stata anche presidente della prima sezione penale, ruolo in cui si è occupata di reati di omicidio e violenze. Dal 2016 ha presieduto la Corte d’appello di Firenze dove è rimasta circa quattro anni. Dal prossimo primo marzo sarà la giudice più alto in grado d’Italia. Entrerà di diritto a far parte dell’organo di autogoverno delle toghe, il Csm.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Eletta all'unanimità, subentra a Curzio, in pensione tra pochi giorni. Chi è Margherita Cassano, prima donna presidente della Corte di Cassazione: la carriera e lo scontro Csm-Consiglio di Stato. Redazione su Il Riformista l’1 Marzo 2023
E’ la prima donna a guidare la Corte di Cassazione. Margherita Cassano, come ampiamente previsto da diverse settimane, è stata eletta al vertice della giurisdizione ordinaria. La sua nomina è stata decisa all’unanimità dal plenum del Csm, presieduto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella. Già presidente aggiunto della Suprema Corte, Cassano ha avuto la meglio nelle scorse settimane sull’altro concorrente, Giorgio Fidelbo, presidente di sezione di Cassazione, e subentra al presidente uscente Pietro Curzio, che andrà in pensione il prossimo 5 marzo. Sia Cassano che Curzio vennero eletti oltre un anno fa al termine di uno scontro tra il Csm e il Consiglio di Stato.
Dopo l’elezione nel 2019 della prima donna a Presidente della Corte Costituzionale, l’ex ministra Marta Cartabia, e nel 2022 della prima donna Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è il turno della Corte di Cassazione.
Cassano. 67 anni, vive a Firenze ma è di origini lucane. Figlia d’arte, è entrata nell’ordine giudiziario nel 1980 all’età di 25 anni. “Passo il testimone ad una presidente come Margherita Cassano di cui sono testimone privilegiato delle sue qualità” ha fatto sapere il primo presidente uscente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio. Della stessa presidente Cassano “ho avuto cognizione piena della lealtà e della generosità sul piano umano, con un grandissimo senso dell’Istituzione e delle ricadute umane che il nostro lavoro comporta”, ha aggiunto il presidente Curzio. “Oggi è un giorno importante per la Corte di Cassazione, per la magistratura e per l’intero Paese: sono onorato di passare il testimone a Margherita”, ha concluso.
Congratulazioni, al termine della votazione, anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Sappiamo tutti che si tratta della prima donna chiamata a ricoprire questo ruolo, questo non ha influito, desidero, però sottolinearlo, ricordando che 5 giorni fa ricorrevano i 60 anni dalla legge che ha immesso le donne in magistratura”. Il Capo dello Stato auspica celerità nelle nomine dei dirigenti: “La tempestività oggi dimostrata dal Consiglio possa costantemente caratterizzare il mandato consiliare appena iniziato così da assicurare la dovuta celerità alle nomine dei dirigenti”.
Felicitazioni anche dal ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Congratulazioni a Margherita Cassano, prima donna ai vertici della Corte di Cassazione. La sua nomina a primo presidente della Suprema Corte è il traguardo di un percorso iniziato 60 anni fa, con l’ingresso delle prime donne in magistratura e rappresenta un ulteriore fondamentale passo in avanti verso l’effettiva parità di genere”. Cassano “sarà un punto di riferimento per le giovani che sempre più numerose superano il concorso, per prestare un essenziale servizio alla Repubblica” aggiunge il Guardasigilli.
CHI E’ LA NUOVA PRESIDENTE DELLA CASSAZIONE – Classe 1955, Margherita Cassano è entrata in magistratura nel 1980 e ha ricoperto le funzioni di sostituto procuratore presso la Procura di Firenze, componente della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, componente del Csm dal 1998 al 2002 eletta con Magistratura Indipendente, magistrato di appello destinato alla Corte di Cassazione, vice direttrice del CED – il Centro elettronico documentazione – della Corte di Cassazione, oltre che componente delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione. Dal 2016 ha presieduto la Corte d’appello di Firenze fino al 2020 e infine Presidente aggiunto della Suprema Corte negli ultimi anni . È autrice di numerose pubblicazioni (monografie, saggi, trattati, commentari, articoli, rassegne), in materia di diritto penale e procedura penale, settori in cui ha tenuto numerose relazioni a convegni e seminari.”Ha un eccellente profilo professionale – ha sottolineato il Presidente della Repubblica – Alle sue doti e attitudini di elevato livello unisce l’attività di studio e ricerca”. “Sono certo – ha aggiunto Mattarella complimentandosi con il Csm per la celerità della decisione – che il suo contributo sarà prezioso anche per il Csm, di cui conosce bene i meccanismi, avendo fatto parte di questo Consiglio tra il 1998 e il 2022”.
De Pasquale? Promosso, ira sugli avvocati «Ma nei consigli giudiziari comandano le toghe». Il pm è a processo per aver nascosto prove alle difese di Eni, ma il giudizio su di lui è eccellente. La Lumia: «A noi avvocati riservato solo il diritto di tribuna». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 5 maggio 2023
Il Consiglio superiore della magistratura e i Consigli giudiziari, le sue propaggini nei distretti di Corte d'appello, riescono ad essere “obiettivi” quando si tratta di effettuare le valutazioni di professionalità delle toghe? Non si placano a distanza di giorni le polemiche circa il giudizio positivo che è stato dato al procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, nonostante nel processo Eni Nigeria avesse omesso di depositare alcune prove a favore degli imputati, poi tutti assolti. Fatti per i quali il magistrato è ora a processo a Brescia. Alcuni giornali sono arrivati a tirare in ballo il presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano, “reo” di non essersi opposto. Sul punto l'avvocato Nino La Lumia è intervenuto questa settimana ricordando che il «ruolo degli avvocati all’interno del Consiglio giudiziario consiste esclusivamente in un diritto di tribuna, senza alcuna opportunità di partecipazione alle discussioni e alle decisioni». Si tratta di un sistema, ha aggiunto, «da modificare e per questo siamo fiduciosi che l’attuazione della legge delega riferita alla riforma dell’ordinamento giudiziario possa conferire la doverosa rilevanza agli interventi dell’avvocatura». In attesa che la riforma vada in porto, risulta però evidente come gli stessi presìdi che sono stati preordinati dalla Costituzione per garantire l’autonomia ed indipendenza della magistratura da ogni altro potere, in realtà costituiscono gli strumenti mediante i quali condotte abusive ed eticamente spregiudicate riescono ad imporsi, riuscendo ad influire indebitamente sul potere più critico dello Stato.
«È chiaro che un sistema basato sulla composizione del Csm (e anche dei Consigli giudiziari sul territorio) in forza di elezione della componente togata da parte di magistrati fra i magistrati (ma anche di laici eletti dal Parlamento e, cioè, dalla politica)», si presti a profili di criticità, ricorda l’avvocato Stefano Cavanna, ex componente del Csm nella scorsa consiliatura. «L’assunzione delle decisioni del Csm da parte del Plenum, una sorta di “parlamentino”, ingenera il rischio della cosiddetta degenerazione correntizia, nel caso in cui le associazioni dei magistrati, che hanno svolto e svolgono un’importante ruolo di discussione e confronto sulle tematiche della magistratura, assumano le caratteristiche di veri e propri partiti dei magistrati aventi quale scopo il mero perseguimento di interessi di gruppi di gestione di potere, spesso ricoprendo il ruolo di soggetto o oggetto di profferte da parte di altri poteri quale quello politico», aggiunge Cavanna. In altre parole, in assenza di correttivi non facili da individuare ed attuare, si rischia di assistere ad un fenomeno che si può definire semplicemente come il passaggio dell’autogoverno della magistratura dall’autonomia ed indipendenza di un potere dello Stato (investita peraltro della più alta funzione di custode della Legge nell’esercizio della giurisdizione), ad una autoreferenzialità ripiegata su interessi, nella migliore delle ipotesi, di categoria e, nella peggiore, estranei e privatistici ed politici. D’altro canto, questo fenomeno, non è esclusivamente italiano, posto che in molte democrazie liberali fondate sul principio montesquieiano della separazione dei poteri si assiste a situazioni analoghe vere o presunte che siano ma comunque dibattute nelle loro cause ed effetti.
Si pensi ai casi più clamorosi della Polonia, ove, in violazione della rule of law e della separazione dei poteri, una legge ha disposto l’elezione della totalità dei membri del Csm polacco da parte del Parlamento, adducendo quale “giustificazione” la necessità di porre rimedio al controllo dell’organo di autogoverno da parte delle correnti dei magistrati; altro caso riguarda lo scioglimento nel 2022, da parte del presidente della Repubblica della Tunisia, del locale Csm, “accusato” di essere controllato da correnti vicine al radicalismo islamico e di avere, quindi, influito concretamente sull’esercizio della giurisdizione in relazione a processi di terrorismo aventi ad oggetto attentati contro cittadini europei, da intendersi, quindi, lo scioglimento quale primo atto della riforma della giustizia.
In altri Paesi europei (Bulgaria e Romania per esempio) si assiste invece a discussioni sugli stessi temi, anche se non così estreme, pur avendo il Parlamento di Sofia recentemente emanato una legge in forza della quale viene vietato in radice l’associazionismo fra magistrati. Risulta del tutto evidente come il tema sia molto delicato, avendo a che fare con il fondamento dello Stato democratico liberale. Conseguentemente ogni soluzione astrattamente concepibile rischia di implicare effetti diretti o collaterali incidenti sugli assetti costituzionali. Come riportato ieri su questo giornale, è ora in discussione la proposta del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin di introdurre il sorteggio temperato fra i magistrati per la designazione dei membri togati del Csm. “Temperato” nel senso di prevedere elezioni solo per definire i candidati da sorteggiare, ovvero prevedere il sorteggio a monte dei candidati, per poi procedere alla designazione mediante elezione fra questi. Il tutto per tentare di eliminare o ridurre fortemente il potere delle correnti. Chissà se sarà la volta buona.
«I procuratori? Sono monarchi assoluti», al Csm ora è polemica. Il plenum “assolve” Pignatone per l’avocazione del fascicolo a Fava (che voleva arrestare Amara) ma si divide sui superpoteri assegnati ai capi degli uffici inquirenti. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 30 marzo 2023
«Il procuratore della Repubblica? Un monarca assoluto». Parola del giudice Andrea Mirenda, attuale consigliere del Consiglio superiore della magistratura, intervenuto ieri in Plenum durante il dibattito sulla delibera relativa alla “presa d’atto” della revoca del fascicolo sull'avvocato Piero Amara assegnato all'allora pm romano Stefano Rocco Fava. «Il tessuto normativo non lascia spazi», ha aggiunto Mirenda, domandandosi quanto resti di quel «feticcio dell'unità culturale della giurisdizione su cui si fonda l'orientamento di chi è contrario alla separazione alla carriere.
I magistrati giudicanti si distinguono solo per funzioni mentre i pm devono fare i conti con la “gerarchizzazione” delle procure», ha quindi ricordato il togato, facendo riferimento ai poteri, ad iniziare da quello di revoca del fascicolo in caso di dissenso, che le norme sull'ordinamento giudiziario del 2006, per nulla intaccate dalla recente riforma Cartabia, attribuiscono ai procuratori della Repubblica.
Una considerazione, proprio perché fatta da un magistrato, che vale più delle tante discussioni che da anni affrontano il tema della separazione delle carriere e del ruolo del pm. Con sei astensioni, l’indipendente Mirenda, i togati Mimma Miele (Magistratura democratica) e Bernadette Nicotra (Magistratura indipendente), i laici Rosanna Natoli e Felice Giuffrè, entrambi di FdI, e Claudia Eccher (Lega), la delibera è stata comunque approvata. Soddisfatta la relatrice della pratica, la togata Maria Vittoria Marchianò (Mi).
La “presa d’atto” riguardava il provvedimento con il quale Giuseppe Pignatone, ex procuratore della Repubblica di Roma, a marzo del 2019, aveva revocato l’assegnazione a Fava del procedimento che vedeva indagato, tra gli altri, il noto avvocato siciliano Piero Amara. Nei confronti di quest'ultimo Fava aveva predisposto una misura cautelare personale ed una richiesta di sequestro di 25milioni di euro che l’indagato aveva illecitamente sottratto all’Eni di cui era il legale esterno.
Nel dibattito, oltre a Mirenda, sono intervenuti alcuni consiglieri. Miele ha evidenziato che non si capisce in che termini l’iniziativa di Pignatone era compatibile con i provvedimenti organizzativi dell’ufficio, i colleghi Tullio Morello (Area) e Roberto Fontana (indipendente) hanno invece ribadito che la legge, pur non condivisibile, consente al procuratore di revocare il procedimento anche per questioni di merito. «La legge è questa e deve essere applicata perché non si può essere obiettori di coscienza», ha aggiunto Morello.
Un argomento ripreso anche dal laico Ernesto Carbone (Iv). Per chi in questi anni ha seguito tale vicenda, ciò che è ampiamente emerso dalla discussione, così come dalla stessa proposta di delibera, è la sicura e certa circostanza che il Csm non abbia sottoposto all’esame di “congruità”, come prescritto dalla circolare, il provvedimento di revoca.
Il Plenum non si è posto neppure nella condizione di farlo poiché non ha mai acquisito gli atti del procedimento e neppure le richieste cautelari che erano state approntate da Fava e a cui Pignatone si era rifiutato di apporre il visto. Per fare un esempio, è come se il giudice d’appello avesse deciso senza acquisire né gli atti né la sentenza emessa nel primo grado.
Sul punto la stessa Marchianò alla fine della discussione ha affermato che il dissenso cadeva su aspetti «marginali», mentre, al contrario, il dissenso cadeva sulla misura richiesta per ben dieci indagati e, tra questi, anche Amara. Per la cronaca i fatti contestati ad Amara da Fava erano stati successivamente oggetto di provvedimenti cautelari da parte di altre Procure. Inoltre né nella delibera della Commissione né nella discussione al Plenum si è fatto il minimo riferimento alla circostanza che il fratello di Pignatone fosse in rapporti economici e professionali proprio con l’avvocato Amara, come riportato da Fava nelle sue osservazioni.
La discussione, si è saputo solo ieri, è avvenuta ad anni di distanza perché la Procura di Roma aveva opposto il segreto sul fascicolo fino alla scorsa estate. «Il tema della revoca dell’assegnazione è ovviamente molto delicato», ha dichiarato al termine del dibattito Fontana.
Il Plenum, sempre ieri, ha poi deliberato l’avvio dell’iter della nuova circolare sui criteri organizzativi delle procure, prevedendo una serie d’incontri con i procuratori e con i sostituti per costruire la nuova circolare “Procure” con ampio confronto. «Uno dei punti specificamente individuati come oggetto di particolare approfondimento sarà quello sulla revoca delle assegnazioni», ha precisato Fontana.
Il Csm conferma: il potere è in mano solo ai procuratori. Il caso Pignatone-Fava, “risolto” dopo 4 anni, rivela la vera natura del ruolo di capo in procura. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 29 marzo 2023
Il Consiglio superiore della magistratura, con una delibera che verrà votata in Plenum questa mattina, torna nuovamente sui poteri del procuratore della Repubblica. L’occasione è offerta dalla revoca all’allora pm romano Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina, del fascicolo sull’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, noto alle cronache per aver rivelato l’esistenza della loggia Ungheria, accusato di autoriciclaggio.
Giuseppe Pignatone, il procuratore dell’epoca, non condividendo la scelta di Fava di richiedere per Amara la custodia cautelare, prima negò il visto e poi decise di revocargli il fascicolo per assegnarlo ad un altro magistrato. Per il Csm la scelta di Pignatone fu corretta e per motivarla esordisce ricordando che «il procuratore della Repubblica, quale titolare esclusivo dell’azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell’ufficio».
«L’assegnazione – prosegue può riguardare la trattazione di uno o più procedimenti ovvero il compimento di singoli atti di essi; con l’atto di assegnazione per la trattazione di un procedimento, il procuratore della Repubblica può stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività». Dopo questa premessa, il Csm passa in rassegna la norma che dispone la revoca del fascicolo, l'articolo 2 del decreto legislativo 106 del 2006, in particolare quando «il magistrato non si attiene ai principi e criteri definiti in via generale o con l’assegnazione, ovvero insorge tra il magistrato ed il procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio».
La disposizione prevede che prima di procedere alla revoca il procuratore della Repubblica sente il procuratore aggiunto, cura «la massima interlocuzione possibile con il magistrato assegnatario, ed esperisce ogni idonea azione volta ad individuare soluzioni condivise». Entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, infine, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della Repubblica, che nei successivi 5 giorni le trasmette, unitamente all’atto di revoca ed ad eventuali proprie controdeduzioni, al Csm per le verifiche. Tralasciando ogni commento sul fatto che il Csm ha impiegato quattro anni per rispondere alle osservazioni di Fava, mai ascoltato a Palazzo dei Marescialli nonostante lo avesse chiesto, ciò che stride in questa vicenda è l’assenza di una motivazione “congrua” alla base del provvedimento di revoca.
Il Csm a tal riguardo sottolinea che le osservazioni di Fava non colgono nel segno, evidenziando la (diversa) valutazione di merito fatta propria dal procuratore in ordine alla gravità indiziaria ed alle esigenze cautelari. In soccorso del ragionamento del Csm vi è una sentenza delle Sezioni unite della Cassazione del 2009 secondo la quale la legge sull'ordinamento giudiziario del 2006 si contraddistingue «per l'accentuazione del ruolo di “capo” del procuratore della Repubblica, sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti e dei rapporti con i sostituti, e, dall'altro, per la corrispondente, parziale, compressione dell'autonomia dei singoli magistrati dell'ufficio».
Il procuratore, in altri termini, determina «i criteri generali di organizzazione dell'ufficio e di assegnazione dei procedimenti», stabilisce di volta in volta «gli specifici criteri ai quali il magistrato assegnatario deve attenersi nell'esercizio delle attività conseguenti all'atto di assegnazione del procedimento», revoca l'assegnazione del fascicolo «in caso di inosservanza dei principi e dei criteri definiti in via generale o con l'assegnazione, e in caso di ' contrasto' circa le modalità di esercizio delle relative attività».
Quanto sopra «trova razionale giustificazione nella finalità del corretto perseguimento di linee uniformi di indirizzo e di condotta dell'ufficio di procura, rispetto a quella che ben può dirsi intrinsecamente la più rilevante delle attività affidate all'organo dell'investigazione e dell'accusa». In uno scenario del genere, considerata quindi l'ampia discrezionalità nella gestione degli affari, non sarebbe il caso che il procuratore fosse eletto dai cittadini come accade in altri Stati?
(ANSA il 23 marzo 2023) - Per il ruolo di procuratore di Siena la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm ha proposto all'unanimità la nomina di Andrea Boni, attualmente capo dei pm di Urbino. Se, come tutto lascia pensare, il plenum darà il suo via libera, per Boni si tratterà di un ritorno alla procura di Siena, dove da sostituto procuratore si è occupato di una delle inchieste sulla morte 10 anni fa di David Rossi, l'allora capo della comunicazione del Monte dei Paschi.
Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2023.
La legge è chiara, eppure a eluderla – continuando a rinviare le decisioni – è proprio il «Consiglio superiore della magistratura», che da lungo tempo, in molti casi persino da 3 anni, tiene in freezer le conferme o non conferme nei loro ruoli dirigenziali di oltre 40 capi e vicecapi di Procure, Tribunali, Corti d’Appello: cioè di pm e giudici che, per essere o congedati dopo i primi 4 anni di dirigenza o lasciati al timone per altri 4 anni, prima dovrebbero appunto vedere il Csm valutare il loro iniziale quadriennio sulla base dei pareri dei locali Consigli Giudiziari.
E invece, nel silente galleggiare di queste pratiche al Csm, e pur in presenza in molti casi di pareri negativi dei vari Consigli Giudiziari sui primi 4 anni di dirigenza (pareri noti anche ai colleghi o agli avvocati), per paradosso queste toghe continuano a fare i procuratori della Repubblica, i presidenti di Tribunali o di Corti d’Appello, i procuratori aggiunti e i presidenti di sezione sin quasi già a completare il secondo quadriennio.
Un (non dichiarato) «frigorifero» che, eludendo la procedura prevista dalla legge del 2006, finisce per svuotarla di qualunque efficacia e senso logico.
[…] in almeno venti casi l’ancora attesa conferma o meno riguarda dirigenti di Procure, di Tribunali e Corti d’Appello che hanno esaurito il loro iniziale quadriennio addirittura nel 2020 o prima, l’altra ventina nel 2021.
[…] Molti hanno procedimenti disciplinari o penali in corso, sicché si intuisce che in passato i continui rinvii siano stati il modo del Csm (nelle dinamiche tra correnti togate e membri laici nominati dal Parlamento) per allontanare da sé l’amaro calice del dover affrontare valutazioni autonome.
Ma il risultato è surreale: capi che fanno in tempo a finire l’intero mandato prima che il Csm magari dica, a babbo morto, che 4 anni prima avrebbero dovuto essere deposti dalla guida dei loro uffici.
E il Csm fa lavorare due magistrati condannati per minacce ai testimoni. I pm Ruggiero e Pesce, all’epoca alla Procura di Trani, giudicati colpevoli con sentenza confermata anche dalla Cassazione. Domenico Ferrara il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.
AAA cercasi Csm. Come è possibile che due magistrati condannati in via definitiva in Cassazione per tentata violenza privata ai danni di alcuni testimoni siano ancora in servizio e continuino a lavorare come se nulla fosse e senza all'orizzonte lo straccio di una sanzione? La domanda, per quanto possa sembrare assurda, è lecita e prende ancor più vigore dopo la notizia del rinvio a giudizio per corruzione in atti giudiziari di Carlo Maria Capristo, magistrato ora in pensione nonché ex procuratore di Taranto e di Trani. Già, perché Capristo per anni ha guidato quella che si può definire senza timore di smentita una delle procure più anomale e illegali della storia della Repubblica. Infatti, è lì che lavoravano i due pm in questione, Michele Ruggiero e Alessandro Donato Pesce, entrambi condannati rispettivamente a 6 mesi e 4 mesi di reclusione per aver minacciato e indotto alcune persone informate sui fatti nel secondo filone dell'inchiesta sul Sistema Trani a rilasciare false dichiarazioni, con frasi e metodi illeciti. «Stai attento a quello che dici», «io le cose le so già e tene andrai in carcere pure tu», «ti sto sottoponendo a questa specie di chiacchierata interrogatorio che verrà tutta fono registrata per darti la possibilità di salvarti», «tu mo ti puoi alzare, te ne vai e poi ci vedremo tra un mesetto però in una diversa posizione, tu dietro le sbarre e io da un'altra parte...». Queste alcune delle minacce che avrebbero convinto un testimone a firmare un verbale di sommarie informazioni poi posto alla base di una richiesta di arresto. E poi ancora ecco altre frasi pronunciate da Ruggiero e Pesce: «Tua moglie lo sa cosa hai fatto? Che tu fai così?»; «Dal carcere c'è una visuale sul mare stupenda e secondo me a lei col problema che c'ha le fa pure bene... è la fase della vita nella quale bisogna un attimo rilassarsi, cominciare un po' a pregare, a farsi un esame di coscienza... pensare ai nipotini»; «Possiamo impegnarci per farla stare con il caldo che fa al fresco...», «Anche la sola indagine a tuo carico ti creerebbe un casino di problemi per la laurea, per il tuo futuro». Altri due testimoni, stando alle indagini, sarebbero stati costretti «con modalità intimidatorie e violenze verbali» a dichiarare di essere a conoscenza di alcuni episodi di consegna di tangenti. A uno di loro il pm Ruggiero avrebbe contestato «un atteggiamento omertoso e mafioso», minacciando «che se avesse dichiarato il falso avrebbe rischiato fino a quattro anni di carcere». Un altro testimone, che sin dall'inizio aveva avvisato gli inquirenti di avere problemi cardiaci, ha poi accusato un attacco di cuore. Tra le altre cose, Ruggiero avrebbe minacciato un testimone di arrestarlo se non avesse rivelato i dettagli di una presunta tangentopoli al Comune di Trani, trattenendolo in Questura per sette ore e facendolo scortare in bagno da due agenti. A febbraio la Cassazione ha confermato la condanna della Corte di Appello di Lecce del 18 giugno '21 sia per Ruggiero sia per Pesce. A oggi, i due risultano essere sostituti procuratori della Repubblica ordinari a Bari dove svolgono le indagini relative ai procedimenti che gli vengono assegnati dal Procuratore e dove esercitano in piena autonomia l'azione penale. E c'è da sperare almeno che lo facciano senza intimidire e minacciare nessuno.
Il Csm “assolve” la magistrata anti green pass e anti-tamponi. Si chiude la pratica relativa alla richiesta della magistrata fiorentina Susanna Zanda, la giudice che ha condannato Matteo Renzi a pesanti risarcimenti. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 17 marzo 2023
Si dovrebbe essere chiusa senza alcun seguito la pratica relativa alla richiesta di chiarimenti sul green pass da parte della magistrata fiorentina Susanna Zanda.
La giudice, ultimamente nota alle cronache per aver respinto alcuni ricorsi presentati in sede di civile da Matteo Renzi per delle diffamazioni, condannandolo poi al pagamento di importanti risarcimenti nei confronti delle controparti, a marzo dello scorso anno aveva sottoposto il quesito al Consiglio superiore della magistratura.
Il motivo riguardava l’ipotesi di essere sanzionata disciplinarmente in caso fosse entrata nel palazzo di giustizia senza il green pass, reso obbligatorio dal governo Draghi a settembre del 2021. La magistrata, premesso che l'emergenza sanitaria scadeva il 31 marzo di quell’anno, mentre per gli over 50 il termine per il green pass era quello del 15 luglio successivo, riteneva che in “assenza di allarme virale” dovesse comunque essere esplicitato dal Csm se per accedere in tribunale bisognasse avere ancora il Qr code ministeriale.
“Il supergreen pass tende ad indurre gli over 50 all'inoculo di un trattamento genico sperimentale, che si era già acclarato avere un'efficacia immunizzane 'negativa', come confermato dagli ultimi dati Aifa”, ricordava la giudice, richiamandosi a plurime pronunce giudiziarie circa l'illegittima originaria della dichiarazione dello stato di emergenza. In altri termini, si potevano svolgere “i propri doveri istituzionali senza doversi sottoporre a trattamenti sanitari o parasanitari degradanti per la persona, invasivi e dannosi come i tamponi oro-faringei o i cd vaccini ad Mnra”.
“La degradazione della persona del lavoratore a merce di supermercato, potrebbe essere giudicato lesivo della dignità della persona, integrando un comportamento illecito della parte datoriale”, puntualizzava la magistrata fiorentina. Anzi, l'ostacolo all'accesso al luogo di lavoro avrebbe leso “il prestigio della magistratura”.
“Lo strumento del green pass - aveva quindi aggiunto - potrebbe essere giudicato come uno strumento eversivo, rispetto non solo alle norme positive della Costituzione (…) perciò verrebbe legittimato il diritto/dovere di disobbedienza civile”. L'inoperosità del lavoratore avrebbe poi potuto integrare una “massima forma di mobbing”, senza dimenticare “i danni collegati all'aspetto fisico, al senso di inutilità sociale che si prova stando parcheggiati in casa, alla sofferenza interiore”.
Il quesito della toga era anche “per tutti i magistrati che non si sono legittimamente vaccinati con sieri sperimentali e non intendono continuare a sottoporsi alla misura invasiva del tampone”, ritenuto una “tortura”.
Il plenum del Csm smentito dal Consiglio di Stato, annullata la nomina del presidente del tribunale di Palermo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Marzo 2023
Il consiglio di Stato ha confermato la sentenza con cui il Tar del Lazio aveva accolto il ricorso del candidato sconfitto, Piergiorgio Morosini, che sosteneva che la scelta fosse illegale. Adesso il nuovo consiglio del Csm dovrà procedere a una nuova nomina
Con la decisione n. 2527/23 pubblicata oggi, la Settima Sezione del Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del Tar per il Lazio 19 settembre 2022 n. 11915, annullando il provvedimento con cui il CSM aveva conferito al Dott. Antonio Balsamo l’incarico direttivo di presidente del Tribunale ordinario di Palermo, in accoglimento del ricorso proposto da altro magistrato aspirante all’incarico (Dott. Piergiorgio Morosini). Secondo Morosini, il Presidente poi nominato Antonio Balsamo non avrebbe avuto i requisiti richiesti per ottenere quella nomina direttiva e quindi non poteva essere nominato alla presidenza del Tribunale di Palermo. Nel suo ricorso Morosini aveva scritto di essere entrato in magistratura nel giugno 1993 e di avere prestato servizio dall’ottobre 1994 presso il Tribunale di Palermo con competenza in diritti reali, successioni e locazioni. Dal maggio 1995 era stato assegnato alla sesta sezione penale con funzione di giudice del dibattimento penale collegiale e monocratico, nonché di giudice del riesame. Successivamente dal marzo 2002 ha svolto le funzioni di gip sempre a Palermo e dal 2008 è andato al Massimario della Cassazione. Dal 2014 al 2018 è stato componente del Csm. E dal 2018 è tornato a svolgere la funzione di gip a Palermo.
Secondo il Tar del Lazio, Presidente Antonino Savo Amodio, estensore Francesca Petrucciani, il ricorso di Morosini contro Balsamo doveva “essere accolto, con annullamento dell’atto impugnato ed assorbimento dell’ultima doglianza relativa ai tempi della deliberazione, dovendo il Csm rideterminarsi ai fini dell’attribuzione dell’incarico direttivo per cui è causa“. A questo punto, il Presidente del Tribunale Antonio Balsamo aveva fatto ricorso al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar del Lazio.
Il Consiglio di Stato ha confermato oggi la sentenza con cui il Tar del Lazio, lo scorso 19 settembre, aveva accolto il ricorso del candidato sconfitto, Piergiorgio Morosini , che sosteneva che la scelta del Csm fosse illegale. Balsamo che era sostituto procuratore generale in Cassazione, non aveva maturato i cinque anni dal passaggio alle funzioni requirenti necessari per un nuovo passaggio alla funzione giudicante.
Sulla nomina il precedente plenum di palazzo dei Marescialli si era diviso – 12 consiglieri contro 12 – e la candidatura di Balsamo era prevalsa solo perchè più anziano. Sia il Tar che il Consiglio di Stato hanno ritenuto la tesi illegittima e ora il Csm dovrà procedere a una nuova nomina. Durante il plenum sono state esposte diverse posizioni in merito alla costituzione in giudizio dell’organo di autogoverno della magistratura.
In particolare il consigliere togato (oggi ex) Nino Di Matteo , favorevole alla costituzione in giudizio del Consiglio, aveva ricordato che “in quei cinque anni il dottore Balsamo ha fatto il giudice. Ha presieduto la corte d’Assise di Caltanissetta nei processi Capaci bis e Borsellino quater. Per cinque giorni la settimana, a volte per quattro giorni a settimana, ha fatto il presidente di corte d’Assise, dalle nove del mattino alle venti di sera, perché questi sono gli orari e questi sono gli impegni di un presidente di corte d’Assise a Caltanissetta in quel tipo di processo”.
La decisione dei giudici di Palazzo Spada ha invece chiarito oggi che il Dott. Balsamo non poteva concorrere al posto di presidente del tribunale di Palermo, perché, al momento della presentazione della propria candidatura, non aveva ancora maturato il periodo minimo di funzioni requirenti prescritto dalla normativa.
Redazione CdG 1947
Il discorso al Csm. Mattarella scarica Nordio e difende il partito dei Pm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Gennaio 2023
Il Presidente Mattarella ieri ha presieduto l’ultima riunione di un Csm che sicuramente è stato il peggiore Csm della storia repubblicana. Travolto dagli scandali, dalla faziosità, dalle satrapie, dalle correnti, dalla totale assenza di indipendenza e dal trionfo dell’omertà corporativa. Basta dire che su 16 magistrati che ne facevano parte, più di un terzo era stato costretto alle dimissioni perché travolto dagli scandali, e un altro terzo aveva evitato le dimissioni, con arroganza, pur travolto da analoghi scandali. E poi le nomine abusive, le raccomandazioni, i dossier nascosti, le autoassoluzioni. Una vera e propria vergogna per le istituzioni e per la democrazia.
Il Presidente Mattarella, nel discorso di commiato, ha preferito tacere su tutto ciò. E cioè sul fatto che questo Csm ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che la magistratura non è in grado di autogovernarsi, e che l’autogoverno produce solo sopraffazioni e rischio per i cittadini. Non solo il Presidente Mattarella ha preferito tacere su tutto ciò. Ma l’unico accenno che ha fatto ai problemi della magistratura italiana è stato quello sulla necessità di difendere l’autonomia della magistratura. Autonomia? Ma come è possibile parlare di autonomia quando addirittura negli ultimi mesi abbiamo assistito al passaggio diretto di alcuni altissimi magistrati dal proprio incarico a un seggio in Parlamento col partito dei 5 Stelle? Autonomia da cosa? Diciamolo: autonomia dal diritto.
Forse la cosa più grave è che questo discorso di Mattarella è stato tenuto nei giorni nei quali il partito dei Pm e i suoi giornali (in particolare Il Fatto e Repubblica) hanno scagliato attacchi feroci contro il ministro della Giustizia, colpevole di aver parlato di riforme e di avere manifestato l’intenzione di riportare in Italia lo Stato di diritto. In queste condizioni voi pensate che sia possibile riformare la giustizia?
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Eletto alla terza votazione. Fabio Pinelli nuovo vicepresidente del Csm: eletto il candidato di Salvini. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2023
“Cerchiamo di essere credibili, trasparenti, mai obliqui nell’interesse del Paese”, ha dichiarato Fabio Pinelli nella sua prima dichiarazione al plenum da vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm). L’avvocato penalista del foro di Padova è stato eletto alla terza votazione con 17 voti contro i 13 espressi per Roberto Romboli (quota Pd) e una scheda bianca. Pinelli era il candidato della Lega, era stato eletto membro laico del Csm la scorsa settimana.
A pochi minuti dall’elezione il messaggio di Sergio Mattarella, il Presidente della Repubblica che presiede l’organo di autogoverno della magistratura italiana. “Auguri al vicepresidente neo eletto, certo che saprà affrontare con senso istituzionale e con spirito collaborativo le funzioni rilevanti cui è chiamato. Sono certo che il Consiglio, con la sua conduzione, affronterà con obiettività e concretezza anche le questioni più complesse che di volta in volta gli saranno sottoposte”, ha detto il Capo dello Stato.
“Desidero ricordare anche qui – ha aggiunto il Capo dello Stato – il ruolo di questo Consiglio, organo di garanzia che la Costituzione colloca a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. A lei, signor vicepresidente, spetta il compito di favorire la coesione dell’attività del Consiglio. L’adozione di delibere condivise, ne rende più efficace ed autorevole il percorso”. E rivolto allo stesso Pinelli: “Con la sua elezione è divenuto il punto di riferimento e di raccordo di tutti i componenti del Consiglio, che devono sentirsi da lei rappresentanti, ascoltati e garantiti nell’esercizio delle loro funzioni”.
Pinelli si è detto “onorato dell’incarico e del ruolo che mi avete riconosciuto. Una grande emozione. Una gravosissima responsabilità” ha definito la sua nomina nella dichiarazione al plenum dopo l’elezione. “Orienterò ogni mio comportamento nell’interesse del Paese con la guida e il faro del presidente della Repubblica”.
Pinelli, laureato all’Università degli studi di Milano in Giurisprudenza e iscritto all’Albo degli Avvocati di Padova dal 1997 e a quello Speciale degli Avvocati ammessi al patrocinio dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione e alle altre Giurisdizioni Superiori dal 2010, ha portato avanti la sua attività specialmente nell’ambito del diritto penale dell’economia. Fino alla nomina al Csm è stato professore a contratto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e titolare dell’insegnamento di “Diritto penale dell’ambiente, del lavoro e della sicurezza informatica (Internet e privacy).
Le dichiarazioni del neo presidente. La denuncia di Pinelli: il Csm andava al disastro e pensavano a Palamara…Paolo Comi su Il Riformista il 9 Febbraio 2023
“È uno sfascio, sinceramente non trovo altre parole”. Lo afferma al Riformista Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia al Senato ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura, commentando le parole di Fabio Pinelli, neo presidente dell’Organo di autogoverno delle toghe, che ieri in apertura di Plenum ha “stigmatizzato” i ritardi accumulati dal Consiglio uscente.
“La mia consiliatura, presieduta da Giovanni Legnini, aveva terminato il mandato senza particolari ritardi. In quella di David Ermini, invece, ci sarebbero pratiche inevase risalenti addirittura al 2018: mi pare a dir poco sorprendente”, ha aggiunto Zanettin. Ed infatti i dati forniti da Pinelli fanno a cazzotti con la narrazione di questi anni secondo cui il Consiglio uscente aveva rappresentato una cesura con il “laido” sistema di Luca Palamara, come scrisse tempo addietro in un articolo l’ex pm Giancarlo Caselli. In pratica, ha puntualizzato Pinelli, “considerando i procedimenti ancora pendenti relativi a vacanze del 2018 o 2019 – rispetto alle quali sono intervenute vicende patologiche – sono da conferire, con un ritardo purtroppo divenuto fisiologico, numerosi incarichi vacanti dal 2021 – 35 direttivi e 56 semidirettivi – e la sostanziale totalità di quelli resisi vacanti nel 2022 – 81 direttivi e 91 semidirettivi”.
“Esaminiamo oggi, secondo il criterio cronologico ormai imposto dalla legge oltre che dalla circolare interna, le vacanze intervenute a settembre 2021. Non possiamo esserne soddisfatti e dobbiamo modificare questi ritmi”, ha aggiunto Pinelli, annunciando che nei prossimi mesi il Csm lavorerà senza sosta tutte le settimane per mettere una toppa. Nel mare magnum dell’arretrato ci sono anche le pratiche relative alle conferme degli incarichi direttivi o semidirettivi per i quali il primo quadriennio è scaduto dal 2015 al 2020; oltre 100 in cui il quadriennio è scaduto nel 2021; circa 240 in cui il quadriennio è finito nel 2022 e già 46 nel 2023, per un totale di 295 procedimenti da definire.
I ritardi investono anche l’approvazione dei progetti organizzativi degli uffici giudiziari. “Quelli relativi al triennio 2020/2022 non sono stati ancora valutati se non in parte: il Consiglio ha deliberato su 77 progetti organizzativi su un totale di 199; su 58 tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti, mentre ne rimangono da esaminare 167”, ha quindi concluso Pinelli. Davanti a questi numeri la domanda spontanea è cosa avrà allora fatto il Csm in questi anni. Sicuramente ha concentrato gli sforzi nel procedimento nei confronti di Palamara e di tutti coloro che erano nelle sue chat. Il Palamaragate, esploso nel 2019, ha rappresentato, ormai è evidente, un regolamento di conti fra le correnti della magistratura conclusosi proprio con la cacciata di Palamara e con dure condanne disciplinari nei confronti delle toghe che avevano avuto rapporti con lui.
La sezione disciplinare del Csm, ad ottobre del 2020, al termine di un “turbo processo” in piena pandemia, aveva emesso a carico di Palamara il provvedimento più severo e questo nonostante ci fosse nel collegio Piercamillo Davigo che in quel procedimento era giudice, testimone e persona offesa. L’ex pm di Mani pulite alla luce delle successive rivelazioni dell’indagine sulla Loggia Ungheria, aveva celebrato il processo essendo a conoscenza delle rivelazioni dell’avvocato Piero Amara, il principale teste d’accusa alla Procura di Perugia contro Palamara. Cacciato Palamara, per mesi, il Csm ha dunque provveduto a fare tabula rasa di quella stagione. Con le conseguenze del caso.
“Il presidente della Repubblica ha voluto aprire un nuovo capitolo, possiamo e vogliamo affermare che la fase dell’emergenza è chiusa. E vorremmo che fosse finito il tempo delle dispute polemiche, del dibattito pubblico e delle misure straordinarie d’urgenza”, ha proseguito allora Pinelli. “Vorremmo – ha aggiunto – che il Consiglio, che ci è stato consegnato indubbiamente ammaccato dalle vicissitudini intercorse, tornasse all’esercizio fisiologico delle proprie funzioni, con un rinnovato impegno di correttezza, trasparenza, fedeltà al proprio mandato costituzionale, per ricostituire quel tessuto di lealtà istituzionale e di legittimazione democratica che in alcuni momenti è sembrato lacerarsi”. Non resta che attendere le prossime settimane per vedere se ci sarà questo cambio di passo. Paolo Comi
Si autoassolve e se ne va il peggior Csm di sempre. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Gennaio 2023
“A lei, signor presidente, e gliela dico con vera emozione, una sola parola: grazie”. “Desidero ringraziare il vice presidente David Ermini per avere responsabilmente assolto il ruolo assegnatogli”. Con i ringraziamenti reciproci da parte del capo dello Stato e del suo numero due a Palazzo dei Marescialli, si è conclusa ieri mattina al Quirinale la consiliatura peggiore della “storia della Repubblica”, come non perde occasione di ricordare il leader di Italia Viva Matteo Renzi che, nel 2018, aveva caldeggiato proprio la nomina di Ermini.
Il passaggio di consegne fra i consiglieri uscenti e quelli entranti ha offerto comunque ad Ermini l’occasione per togliersi più di un sassolino dalle scarpe. Dopo aver sottolineato “amarezza personale per attacchi spesso gratuiti”, l’ormai ex vice presidente del Csm ha rivendicato con orgoglio di aver “salvaguardato la dignità di una istituzione, senza cedere alle pressioni di campagne mediatiche anche violente e pretestuose e alle ripetute richieste, non sempre disinteressate, di scioglimento anticipato, che in assenza di riforme si sarebbe rivelato inutile oltre che traumatico e funesto per la credibilità dell’organo e dell’intera magistratura”. Senza mai pronunciare lo scandalo Palamara, e dunque il suk delle nomine e degli incarichi, Ermini si è limitato ad affermare che sul Csm si è abbattuta “l’onda lunga di degenerazioni e miserie etiche, in realtà risalenti nel tempo”. “L’istituzione ha retto, ha riacquistato gradualmente quella serenità che ha permesso di svolgere fino alla fine i propri compiti”, ha quindi aggiunto Ermini.
La narrazione dell’ex responsabile giustizia dei Pd stride, però, con la cruda realtà dei fatti. La riforma tanto attesa del Csm by Marta Cartabia ha avuto l’effetto di rafforzare a dismisura il potere delle correnti che, invece, si voleva limitare. Su 20 componenti togati neo eletti, ben 19 sono espressione di gruppi dell’Associazione nazionale magistrati. Le decine di toghe indipendenti che si erano candidate sono rimaste tutte al palo. Sui “compiti” svolti, poi, è sufficiente segnale l’aumento esponenziale del contenzioso con situazioni incresciose. Vedasi la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma, più volte reiterata, e più volte bocciata dal giudice amministrativo in tutte le sedi.
Per conoscere il successore di Ermini bisognerà attendere questa mattina. Dopo la verifica dei titoli è previsto il voto del Plenum a piazza Indipendenza. In pole il professore ‘emerito’ Roberto Romboli eletto in quota Pd. Grande movimento da parte di Matteo Salvini per far eleggere l’avvocato padovano Fabio Pinelli. Quest’ultimo, difensore fra l’altro della regione Veneto e dell’ex spin doctor della Lega Luca Morisi, può contare anche su un ’sponsor’ importante: l’ex magistrato ed ex presidente della Camera dei Ds Luciano Violante. Poche possibilità, salvo colpi di scena dell’ultimo minuto, per i quattro laici eletti in quota Fratelli d’Italia. Le previsioni dell’ultima ora dicono che, come nella volta scorsa, saranno determinanti i voti dei capi di Corte, il presidente della Cassazione Pietro Curzio ed il procuratore generale Luigi Salvato. Paolo Comi
Mattarella licenzia il Csm di scandali e omertà e benedice quello nuovo. Massimiliano Scafi il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Il capo dello Stato allude a Palamara: "Si chiude una consiliatura segnata da gravi episodi". E invoca "trasparenza" per garantire "autonomia"
Ma insomma, dice sconsolato a un certo punto Sergio Mattarella, non avete proprio dato un bello spettacolo. Lo strapotere delle correnti, le contaminazioni con la politica, le strane manovre, il caso Palamara: in questi anni l'istituzione ha barcollato assai. «Si chiude una consiliatura complessa, segnata da gravi episodi che l'hanno colpita». E comunque, in qualche maniera, adesso è andata. «Il Consiglio superiore ha cercato di superare le profonde tensioni prodotte da quelle vicende, per assicurare il corretto funzionamento degli uffici giudiziari». Giudizio sospeso quindi: il capo dello Stato apprezza il tentativo, perché Palazzo dei Marescialli «ha cercato» di ricomporre i frantumi, tuttavia si astiene dal valutare i risultati. E per il futuro avverte: attenzione, soltanto «attraverso l'esercizio trasparente» si può «garantire l'indipendenza e l'autonomia».
Oggi il presidente guiderà la prima riunione del nuovo Csm. Intanto accoglie al Quirinale il parlamentino uscente e lo congeda con toni più agri che dolci. «La magistratura - spiega - ha nei valori costituzionali, nel suo ambito e nella sua storia le risorse per affrontare le difficoltà e per assicurare con autorevolezza e credibilità il rispetto della legalità indispensabile per la vita è la crescita civile della società». Ha dunque tutte le carte a disposizione per lavorare per i cittadini e non per se stessa o per qualche altro potere. Peccato che non sempre ci si muova, appunto, con l'autorevolezza e con la credibilità richieste.
La separazione delle carriere? La distinzione dei ruoli tra giudici e pubblici ministeri? Le intercettazioni? Mattarella, che è presidente pure del Csm, non entra nel merito delle riforme in cantiere e si tiene ben alla larga dalle polemiche politiche connesse. In passato ha attaccato «i protagonismi» dei singoli e censurato le inchieste spericolate, stavolta il capo dello Stato pronuncia un discorso più felpato e unitario. Però, citando la Carta, rammenta quali siano la lettera e lo spirito del mandato. «I compiti che la Costituzione e la legge affidano al Consiglio superiore sono volti ad assicurare l'indipendenza della magistratura, pilastro della nostra democrazia». Impossibile perciò pensare di smontare l'architrave dell'autonomia. La Repubblica prevede la separazione dei poteri.
Però, aggiunge, il Csm deve fare il Csm, e cioè sorvegliare. «Attraverso l'esercizio trasparente ed efficiente dell'autogoverno deve garantire nel modo migliore l'autonomia e l'indipendenza della giurisdizione; e deve assicurare agli uffici il miglior livello di professionalità dei magistrati». I quali peraltro «svolgono con impegno e dedizione la loro attività anche in condizioni ambientali complesse e talvolta insidiose».
Tanti ringraziamenti al vicepresidente uscente, Davide Ermini, che «ha dimostrato capacità e senso delle istituzioni nel condurre i lavori del Consiglio superiore durante il suo percorso, anche nei momenti più difficili». Particolarmente «proficua l'azione durante la pandemia e la diffusione organizzativa su tutto il territorio nazionale». Ora tocca ad altri e, visto il momento, le aspettative del Colle sono alte. «Sono certo che il nuovo Csm saprà svolgere le sue funzioni nel quadro di corretti rapporti istituzionali, nel supremo interesse della Repubblica». Nel passato recente non sempre è successo.
La triste fine del Consiglio dei veleni. "È stata una consiliatura complessa", dice il capo dello Stato Sergio Mattarella, usando un bizantinismo linguistico scovato nel dizionario della Prima Repubblica. Felice Manti il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.
«È stata una consiliatura complessa», dice il capo dello Stato Sergio Mattarella, usando un bizantinismo linguistico scovato nel dizionario della Prima Repubblica. La verità è che al commiato del peggior Csm degli ultimi anni il più felice era lui: un po' come quando un ospite indesiderato se ne va, sempre troppo tardi. Di questo organo di autogoverno della magistratura se ne parlerà a lungo, sui libri di storia e nelle aule giudiziarie. Non solo per i cinque mesi di prorogatio forzata, né per il silenzioso braccio di ferro con il Quirinale sull'applicazione della riforma Cartabia, quanto per l'uso spregiudicato di alcune inchieste. È stato il Csm degli «imbarazzanti silenzi» e delle «inescusabili omissioni», per usare le durissime le parole del gup di Roma Nicolò Marino, che ha chiesto alla Procura della Capitale di indagare sugli ormai ex consiglieri Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra, come si legge nelle motivazioni della sentenza con cui il 15 dicembre scorso è stata prosciolta la segretaria di Piercamillo Davigo, Marcella Contrafatto per i verbali milanesi del caso Eni-Amara incautamente passati di mano, in modo carbonaro, in spregio a qualsiasi garanzia. Per tacere dei veleni tra gli ex amici Davigo e Sebastiano Ardita o dell'uso strumentale di intercettazioni, considerate illegittime e inutilizzabili penalmente ma tornate improvvisamente buone per mettere alla porta magistrati scomodi e spiarne persino i legali.
«Sono convinto che oggi sia stata scritta la pagina finale del festival della ipocrisia e che i procedimenti giudiziari in corso e quelli che verranno intentati nei confronti di alcuni consiglieri uscenti meglio riusciranno a disvelare lo spaccato di questo quadriennio. Il tempo è galantuomo», si lascia sfuggire l'ex leader Anm Luca Palamara.
Chissà se il vicepresidente uscente David Ermini, nel suo discorso di commiato, avrà ripensato alle cene che hanno preceduto la sua elezione, oppure ai voltafaccia riservati a quei consiglieri che con lui avevano iniziato il percorso consiliare e che poi sono stati costretti a dimettersi per vanificare la nomina alla Procura di Roma di Marcello Viola (oggi fortunatamente a Milano). E chissà se l'ex renziano avrà ripensato a quei verbali della Loggia Ungheria finiti nel cestino, o a quei cellulari spariti prima della famigerata congiura di Palazzo raccontata magnificamente da un giudice in una sentenza della Repubblica italiana. In passato i veleni di Palazzo de' Marescialli furono fatali a Giovanni Falcone, vittima della sinistra giudiziaria prima ancora che della mafia, vedi il pizzino via Unità del togato rosso Alessandro Pizzorusso. Oggi gli emuli di quella scuola forcaiola tornano a popolare le aule del Csm, ma di Falcone (per fortuna o purtroppo) ci sono rimaste solo pallide imitazioni.
Dopo l'ultimo Plenum. Mattarella sfratta il Csm: fate gli scatoloni e smammate. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Gennaio 2023
“Non tornate più, è meglio”. È quanto avrebbero, informalmente, fatto sapere dal Quirinale questa settimana agli attuali componenti del Consiglio superiore della magistratura. Terminato il Plenum di mercoledì, dove si è consumato l’ennesimo strappo sulla nomina del procuratore aggiunto di Roma Stefano Pesci, dal Quirinale sarebbe arrivato il messaggio di svuotare gli uffici quanto prima e non mettere più piede a Roma. Un ‘suggerimento’ che ha spiazzato un po’ tutti. I consiglieri, infatti, erano impegnati a scrivere i discorsi per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Il giorno dopo la solenne cerimonia in Cassazione, prevista per il 26 gennaio, i componenti del Csm in rappresentanza dell’Organo di autogoverno della magistratura si sarebbero infatti dovuti recare presso le varie Corti d’appello. Dal Quirinale devono aver pensato che, dopo tutto quello che era successo in questi anni, far tenere loro le prolusioni sarebbe stato veramente troppo.
Meglio dunque accelerare con il rinnovo del Consiglio e mandare via i componenti del Csm “più screditato della storia della Repubblica”, come ricorda sempre l’ex premier Matteo Renzi. A parte il Palamaragate, che questo Csm si fosse caratterizzato per decisioni quanto mai ‘singolari’, disattendendo regole e disposizioni normative di ogni genere, lo si era capito fin da subito. Dopo poche settimane dall’insediamento, molti mesi prima che esplodesse lo scandalo delle nomine, il Csm aveva dato il meglio di sé con la pratica del giudice di Parma Luca Agostini. Il magistrato aveva fatto domanda per essere trasferito, con il medesimo incarico, al tribunale di Milano e il Csm, il 20 giugno 2018, aveva deliberato il trasferimento. La toga doveva prendere servizio nella nuova sede il 30 gennaio dell’anno successivo, così da permettergli di terminare i processi.
Il 20 novembre del 2018, però, Agostini aveva chiesto di revocare il trasferimento per ragioni “personali” e di “servizio”. “Mi ero determinato a chiedere il trasferimento a Milano perché a quell’epoca la mia compagna da pochi mesi aveva superato l’abilitazione professionale di avvocato e aveva instaurato un rapporto di collaborazione lavorativa con uno studio di quella città”, aveva esordito Agostini. “Il mio trasferimento a Milano – aveva aggiunto – era funzionale all’instaurazione nella metropoli lombarda della convivenza con la mia compagna, a quell’epoca non ancora iniziata. Sennonché, l’occupazione lavorativa della mia compagna è venuta meno nelle more della procedura di trasferimento e da qualche settimana ha iniziato una collaborazione presso uno studio legale di Reggio Emilia”. Il trasferimento, in altre parole, sarebbe stato foriero di “conseguenze assolutamente deleterie” per la vita personale. Agostini aveva poi ricordato che si era occupato e si stava occupando di processi importanti, che aveva maturato esperienza, e che vi sarebbero stati problemi per sostituirlo. Il consigliere togato Michele Ciambellini, giudice di grande esperienza, circolare alla mano aveva fatto presente che la revoca è un istituto solo per “gravi e imprevedibili circostante sopravvenute relative al lavoro del convivente”.
Convivenza che Agostini non aveva in “alcun modo documentato”. Il togato faceva presente che la distanza intercorrente tra Milano e Parma non giustificava il ricorso ad un istituto eccezionale come la revoca (le due città sono collegate con treni ad alta velocità che impiegano circa 45 minuti, ndr). Ciambellini, poi, aveva precisato che il Tribunale di Parma era sostanzialmente a pieno organico, mentre a Milano la scopertura era all’epoca del 10 percento e in caso di scorrimento della graduatoria, al posto di Agostini, sarebbe stato destinato un magistrato che prestava servizio a Brescia dove la scopertura era quasi del 20 percento.
“Sarebbe paradossale, in presenza di un ripensamento del magistrato, far valere una situazione per nulla eccezionale al fine di assecondare ragioni personali che di per sé non giustificano la revoca”, aveva puntualizzato il togato del Csm, rispedendo al mittente la giustificazione di Agostini di essere a conoscenza dei processi: chi lo avrebbe sostituito era il giudice a latere e, come tale, pienamente a consapevole del contenuto degli atti. Il Csm, comunque, era pronto a farlo rimanere a Parma per il tempo necessario per la conclusione anche l’ultimo processo che aveva iniziato. Come se non bastasse, infine, il posto di Agostini era stato già assegnato dalla stesso Csm. In caso di revoca bisognava mandare via il magistrato appena destinato a Parma, determinando ’tensioni’ fra i giudici dell’ufficio. Il Csm ‘screditato’, davanti ad una quadro del genere, cosa avrà mai deciso? La revoca del trasferimento di Agostini, of course. Paolo Comi
Il giallo dei titoli per gli eletti al Csm. Tre in bilico e il professor Romboli non ha i requisiti per palazzo dei Marescialli. Felice Manti il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.
«La commissione verifica titoli del Csm avrà una serie di gatte da pelare mica da ridere, alla luce di una interpretazione sulla sussistenza dei requisiti che si annuncia laboriosa», sorride al telefono il parlamentare di Forza Italia Pietro Pittalis. Come conferma uno dei legali che aveva presentato domanda al Parlamento per essere scelto come membro laico, e che al Csm è di casa, dopo le indiscrezioni di stampa circolate in questi giorni la posizione di almeno tre membri laici appena eletti dal Parlamento rischia di mettere in imbarazzo Fdi e Pd. Con sfumature diverse. Perché se è vero quello che scrive La Stampa sui curricula di Daniela Bianchini e Rosanna Natoli, alla loro iscrizione all'albo da almeno quindici anni come prevede la legge non corrisponderebbe un altrettanto duraturo «esercizio effettivo» della professione forense. «Devi dimostrarlo con un'autocertificazione che la riforma Cartabia ha richiesto», spiega un esperto della legge istitutiva del Csm (la 195 del 1958). Perfino l'ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, a causa del suo mandato da Guardasigilli, è stato costretto a rinunciare alla nomina al Csm perché di anni «effettivi» non ne aveva abbastanza.
Ma quello dei curricula «autocertificati» sembra un problema veniale rispetto al vero vulnus, quello che riguarda il candidato espressione del Pd Roberto Romboli. Perché stando a una interpretazione letterale delle regole, l'allievo della toga rossa Alessandro Pizzorusso non è più «ordinario» ma è un «docente esterno» (così si legge sul sito dell'Università di Pisa) e dunque non ha i requisiti, visto che non è neanche iscritto all'albo degli avvocati come le sue due colleghe a Palazzo de' Marescialli.
«Sarà dirimente capire chi farà parte della commissione (per legge due togati e un laico, ndr.) per vedere come andrà a finire», ci dice un ex membro togato del Csm. Come a malignare che se a decidere fosse chiamato una toga di Area o di Md sarebbe più tenera con Romboli perché... d'area. Perché chi scrive che per Romboli vale il precedente di Annibale Marini sbaglia, perché è vero che fu eletto al Csm anche se era in pensione dall'Università, ma dimentica che rimase ordinario in virtù di apposita delibera del Consiglio di Facoltà e soprattutto era anche un avvocato. Cosa che Romboli non è. E questo complica - e di molto - i piani di entrambi gli schieramenti sulla scelta del prossimo vicepresidente.FMan
Queste le cose che succedono tutti i giorni. Il nuovo ruolo del Giudice di Pace con la riforma Cartabia e il caso delle due donne costrette a pagare le spese condominiali senza vivere l’edificio. Andrea Viola su Il Riformista il 6 Agosto 2023
Nel ringraziarvi per le tante email ricevute e le tante segnalazioni arrivate è il momento di affrontare alcune tematiche poco conosciute. La Giustizia Civile o spesso in-civile, come abbiamo detto in alcuni articoli precedenti, ha il suo sbocco non solo nei vari Tribunali ma anche presso i cosiddetti Giudici di Pace.
Il Giudice di pace è un magistrato onorario, ossia non togato (che non ha fatto il concorso pubblico per magistrato). L’art. 106 della Costituzione Italiana che disciplina le condizioni per l’accesso alla funzione giurisdizionale dello Stato, prevede che i magistrati siano nominati per concorso, ma al comma 2 consente alla legge sull’ordinamento giudiziario di istituire magistrati onorari, cui sono attribuite le funzioni di giudici singoli.
La legge 21 novembre 1991 n. 374 ha istituito fra i magistrati onorari, l’ufficio del giudice di pace, per l’esercizio della giurisdizione in materia civile e penale, secondo le previsioni dettate dalla stessa legge. La funzione attribuita al giudice di pace è dunque solo quella giudicante, e non quella requirente. I giudici onorari di pace non sono più nominati con decreto del Presidente della Repubblica, ma con decreto del Ministero della Giustizia.
Il Csm delibera ad anni alterni entro il 31 marzo il numero di posti vacanti da assegnare e disciplina le modalità di formulazione del bando e il termine per la presentazione delle domande.
Al fine di ridurre il contenzioso davanti al Tribunale, la riforma Cartabia ha modificato l’art. 7 c.p.c. incrementando i limiti della competenza per valore del giudice di pace.
Pertanto, dal 1 marzo 2023, la competenza del giudice di pace passa da 5.000 a 10.000 euro per le liti relative a beni mobili e da 20.000 a 25.000 euro per le controversie in materia di risarcimento dei danni da circolazione di veicoli e natanti.
Si tratta tuttavia di un incremento che subirà una ulteriore modifica a partire dal 31 ottobre 2025 con il disegno di riforma della magistratura onoraria (art. 27-28 dlgs n. 116/2017) che ha previsto la cognizione del Giudice di Pace per le liti su beni mobili fino al valore di 30.000 euro e per i danni da circolazione fino a 50.000 euro.
Inoltre verranno attribuite ex novo al Giudice di Pace: la competenza su una vasta area di liti riguardanti diritti reali e comunione, nonché sulle controversie condominiali; l’obbligo di decidere secondo equità le liti di valore non eccedente i 2500 euro (anziché i millecento previsti dalla normativa vigente); le competenze e funzioni di Giudice dell’esecuzione nel procedimento di espropriazione di beni mobili; competenze specifiche in materia tavolare e in taluni riti camerali (quali, ad es. quelli relativi all’apposizione di sigilli).
La riforma Cartabia oltre a modificare la competenza ha anche previsto delle modifiche procedurali, modellate sulla base del procedimento semplificato di cui agli art. 281 decies ss. Cpc. In particolare:
1. L’atto introduttivo non è più un atto di citazione ma un ricorso che deve contenere l’indicazione del giudice, delle parti e il suo oggetto. Può essere formulato oralmente davanti al Giudice di Pace il quale dovrà curarne la verbalizzazione.
2. Il giudice designato per la trattazione entro 5 giorni dovrà emettere decreto di fissazione di udienza ed indicare i termini di costituzione del convenuto (che dovrà intervenire non oltre 10 giorni prima dell’udienza).
3. Il ricorrente dovrà notificare al convenuto il ricorso e il decreto di fissazione di udienza con almeno 40 (o 60 se all’estero) giorni liberi di anticipo rispetto la data di udienza e depositare il ricorso e il decreto notificati ai fini della costituzione in giudizio.
4. La costituzione del convenuto avverrà tramite deposito della comparsa di costituzione e risposta entro il termine di 10 giorni prima dell’udienza.
5. La trattazione ed istruzione della causa, che potrà essere effettuata solo a seguito di tentativo di conciliazione non riuscito, segue il procedimento di cui all’art. 281 duodecies commi 2,3 e 4 cpc. (non è però ammesso il passaggio da rito semplificato a rito ordinario).
6. La fase decisoria segue quanto previsto dall’art. 281 sexies c.p.c. il giudice, quindi, fatte precisare le conclusioni, inviterà le parti a discutere oralmente la causa nella stessa udienza e potrà pronunciare immediatamente sentenza dando lettura del dispositivo e delle concise ragioni in fatto e diritto a sostegno della decisione, oppure potrà riservarsi di depositarla entro il termine di 15 giorni.
La maggiore novità tuttavia riguarda l’apertura del procedimento davanti al giudice di pace alle forme del processo telematico che entrerà in vigore per i procedimenti instaurati dopo il 30 giugno 2023.
Questo ovviamente solo per il settore civile. Il Giudice di Pace ha anche competenze nel Settore penale per determinati reati ma a noi in questo contesto non interessa.
Bene, come abbiamo visto il Giudice di Pace, spesso un avvocato che svolge la propria professione in altro Foro, ha tante competenze e molto vicine alle esigenze quotidiane del cittadino.
Le modalità di trattazione delle cause sono un pochino più snelle ma vanno incontro a problemi di altra natura, spesso di potenziali conflitti d’interesse soprattutto in realtà territoriali molto piccole.
Un caso recente ha visto due signore proporre opposizione a un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo per questioni di spese condominiali.
Bene le due signore (mamma e figlia) opponevano due cose basilari, una non era mai stata condomina e l’altra aveva venduto da tempo.
Su questo presupposto oggettivo si chiedeva la revoca dell’esecutività del decreto ingiuntivo. Ossia che venisse messo subito all’incasso nelle forme dell’esecuzione coatta.
Il Giudice di Pace non provvedeva mai lasciando al Ricorrente la possibilità di poterlo azionare. Il tutto nonostante per legge avesse dovuto provvedere alla prima udienza. Nulla.
Per farla breve, nonostante l’evidenza dei fatti il Giudice alla signora non Condomina riconosceva l’estraneità dalla causa ma compensava le spese di lite. Motivazione? Realmente inesistente. Insomma, oltre al danno la beffa. Si potrebbe fare appello.
Ma secondo Voi può sobbarcarsi altre spese una signora che ha già avuto difficoltà a fare il primo grado? Queste le cose che succedono tutti i giorni.
Andrea Viola. Andrea Viola, Avvocato, Consigliere Comunale Golfo Aranci, Coordinatore Regionale Sardegna Italia Viva; Conduttore Rubrica Vivacemente Italia su Radio Leopolda
Estratto dell’articolo di Ugo Magri per “la Stampa” il 16 giugno 2023.
Il caso ha voluto che Sergio Mattarella intervenisse sulla giustizia proprio mentre il governo si apprestava a metterci mano […] Per cui s'è avuta quasi la sensazione che il presidente volesse rammentare i confini entro cui la riforma targata Carlo Nordio dovrà contenersi, se vorrà ottenere un via libera dal Quirinale.
Ma […] non è andata così: l'incontro con i giovani magistrati tirocinanti era fissato da tempo, così com'era scritto in anticipo il discorso presidenziale rivolto alle future toghe che contiene una sfilza di raccomandazioni tra cui quella (più volte ripetuta) a comportarsi in modo irreprensibile e riservato, per esempio senza esagerare coi social.
Quanto al perimetro tracciato dal presidente, sarebbe una forzatura considerarlo un altolà indirizzato al Parlamento o al governo, alla maggioranza o all'opposizione. L'unico monito, se tale possiamo considerarlo, riguarda il rispetto della Carta costituzionale, a cominciare dall'articolo 104 che riconosce autonomia e indipendenza all'ordine giudiziario. I magistrati sono soggetti, rammenta Mattarella, «soltanto alla legge».
Il che comporta due conseguenze […] La prima: giudici e pubblici ministeri non debbono sentire sul collo il fiato della politica. Il loro compito è applicare le norme per quel che c'è scritto, senza piegarsi ai potenti di turno e tantomeno agli umori delle piazze. L'altra conseguenza, citata dal presidente, è che nessuno deve sentirsi al di sopra della legge, tantomeno un magistrato. Forte e chiaro è il no di Mattarella alla cosiddetta «giustizia creativa», secondo cui in assenza di norme chiare tocca al giudice supplire dando sfogo a «impropri desideri di originalità».
Altrettanto fermo è il richiamo […] al senso di responsabilità cui ogni operatore di giustizia dovrebbe attenersi rifuggendo sempre dalle «tesi precostituite», vale a dire dai classici teoremi giudiziari, e ancor di più dall'«accanimento» contro gli imputati per tigna o per partito preso. L'accusa deve poter reggere nei vari gradi di giudizio. […] Nella sintesi che […] raccomanda, il magistrato non sarà mai un giustiziere solitario, ma nemmeno un braccio armato al servizio di qualcuno.
Le origini dello strapotere delle toghe rivelate in “La repubblica giudiziaria” di Ermes Antonucci. Molti credono che nasca col terremoto di Mani pulite, ma non è così. Frank Cimini su L'Unità il 6 Giugno 2023
Vale davvero la pena di leggere La Repubblica Giudiziaria. Una storia della magistratura italiana (Marsilio) frutto del lavoro di Ermes Antonucci soprattutto per un motivo spiegato nella controcopertina: “Molti credono che la preminenza della magistratura sulla politica sia stata innescata dal terremoto provocato da Mani pulite, ma solo un ingenuo può pensare che questa rottura sia avvenuta all’improvviso”.
“Lo strapotere della magistratura è il risultato del sommarsi di tensioni tra diverse faglie istituzionali” si spiega. Chi scrive queste poche righe per invogliare a leggere il libro di Antonucci aggiunge che tutto comincia con la madre di tutte le emergenze, quella rubricata con l’etichetta di terrorismo ma che fu in realtà un tentativo di rivoluzione fallito. Decine di migliaia di persone passate per le carceri rappresentarono un problema politico che la politica non volle affrontare direttamente delegando la questione della sovversione interna alla magistratura che ne approfittò per aumentare il proprio potere e per andare a riscuotere il credito acquisito nel 1992.
Le leggi premiali utilizzate per risolvere il problema furono pretese e ottenute dalla magistratura sempre storicamente interessata alle scorciatoie come poi andrà in epoca successiva con l’utilizzo smodato delle intercettazioni fino al trojan che continua a fare danni irreparabili ai diritti dei cittadini. Con le leggi premiali non vale più quello che un imputato ha fatto ma ciò che pensa delle sue azioni e soprattutto se fa l’autocritica agli altri.
La catena di Sant’Antonio delle chiamate di correo finirà per fare danni agli stessi politici in occasione della falsa rivoluzione di Mani pulite. Quando la politica si suicida abolendo l’immunità parlamentare sotto la forma dell’autorizzazione a procedere. E con quella scelta la politica non ha mai voluto fare i conti fino in fondo, salvo lamentarsi che la magistratura ha un potere eccessivo che esercita tuttora.
Con la differenza che in passato lo faceva soprattutto svolgendo indagini e ora, quando le conviene, lo fa evitando di compiere gli accertamenti che sarebbero doverosi secondo il codice. Basta ricordare il caso di Expo quando l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi ringraziò la procura di Milano per avere dimostrato responsabilità istituzionale.
E a questo proposito basta riportare il passaggio in cui nel libro si ricorda “il lungo percorso culturale, politico e ideologico di una istituzione divisa fra la fedeltà a valori comuni e visioni della giustizia contrastanti. In una accurata ricostruzione storica che svela luci e ombre di un ‘ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere’, la parabola di un sistema controverso, tra interessi personali e rappresentanza delle istanze collettive”. Frank Cimini 6 Giugno 2023
Ma la Repubblica giudiziaria nasce prima di tangentopoli. Nel suo libro, Antonucci spiega che il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto che esercita funzioni requirenti, ha origini assai lontane. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 15 giugno 2023
La Repubblica giudiziaria. Una storia della magistratura italiana (Marsilio, 288 pp. 19 euro) scritto dal giornalista del Foglio Ermes Antonucci è il primo libro sulla storia della magistratura nel periodo repubblicano. «Uno strumento utile per capire le varie tappe che hanno portato allo strapotere delle toghe», ricorda l'autore che si è cimentato in questa inedita ricerca storica». «La maggior parte delle persone pensa che la magistratura abbia sostituto la politica dopo Tangentopoli. Ma non è così. Il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto chi esercita funzioni requirenti, ha origini lontane», prosegue Antonucci che ha suddiviso il suo libro in capitoli, uno per ogni decennio, dall'entrata in vigore della Costituzione, agli anni del terrorismo, alla P2, a Tangentopoli, alle picconate di Cossiga, al berlusconismo. Grande spazio nel libro hanno, ovviamente, le correnti delle toghe. Nate come centri di elaborazione culturale, le correnti, sulla carta delle associazioni di carattere privato, condizionano (vedasi il Palamaragate) in maniera profonda il Consiglio superiore della magistratura.
Va ricordato che in nessun altro Paese occidentale esistono, come in Italia, le correnti dei magistrati. «Il primo gruppo all'interno dell'Anm fu, nel 1957, Terzo potere ( Tp) che sostenne le domande di cambiamento dei magistrati più giovani contro la struttura gerarchica dell’ordinamento giudiziario e il sistema di carriera», sottolinea Antonucci. Per contrastare il progressismo di Tp, nel 1962 nacque Magistratura indipendente (Mi), la corrente conservatrice, poi in contrapposizione con Magistratura democratica (Md), nata nel 1964. Md fin da subito influenzerà il dibattito sulla giustizia dentro e fuori la magistratura. Di Md si ricorda la giurisprudenza alternativa, fondata su una visione marxista della giustizia come lotta di classe contro lo Stato borghese. I magistrati di Md ritenevano che il «diritto avesse natura discrezionale e che la decisione giudiziaria era un atto politico». L’interpretazione della norma doveva essere a favore della classe deboli Nel convegno 1971, Giovanni Palombarini, uno dei padri fondatori di Md, propose il diritto “diseguale' finalizzato proprio ad interpretare le norme per le classi subalterne.
Era necessario partecipare insieme ai lavoratori al processo di formazione della coscienza di classe, con l'obiettivo finale di rovesciare la struttura capitalistica «attraverso l'affermazione dell'egemonia proletaria nella società, la crisi dell'ideologia dominante e degli apparati repressivi». Negli anni successivi i collegamenti con i partiti della sinistra parlamentare ed extraparlamentare si fecero sempre più intensi, favoriti anche da un diverso atteggiamento del Pci nei confronti della magistratura a seguito di un ricambio generazionale. Il collegamento magistratura- politica era fondamentale nel quadro di una strategia unitaria «per sconfiggere il disegno reazionario e di ristrutturazione neocapitalista”. Una immagine rende bene il clima di quegli anni. Ed è quella durante i funerali di Ottorino Pesce, pm romano, toga di Md, morto d'infarto a gennaio del 1970. Al termine della cerimonia, militanti comunisti e magistrati di Md, fra lo sventolio delle bandiere rosse, decisero di salutare il feretro con il pugno chiuso.
Nel 1972 il segretario generale di Md Generoso Petrella venne eletto in Parlamento nel liste del Pci. Qualche anno più tardi toccò ad un altro esponente di punta di Md, Luciano Violante, essere eletto, aprendo così la strada delle toghe che dalle aule di giustizia andavano in Parlamento con il Pci- Ds- Pds- Pd.
I tentativi di cambiare la giustizia...L’urlo del deputato Cafiero de Raho: l’ex procuratore si è accorto che la politica conta meno delle toghe…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Aprile 2023
Tutta la vita in lotta contro le cosche, da procuratore capo di Reggio Calabria e poi al vertice nazionale dell’Antimafia, Federico Cafiero de Raho, entrato in Parlamento con il Movimento cinque stelle, si rende conto di quanto poco potere gestisca la politica rispetto alle toghe. Tenta la sua zampata negli stessi giorni in cui tra il ministro Nordio e gli organismi dell’avvocatura nonché della magistratura si aprono e chiudono tavoli a velocità vertiginosa sulle riforme.
Vertici da cui l’ex procuratore antimafia è escluso, e gli pare quasi un affronto. Si fa intervistare dal quotidiano di famiglia, lancia una sorta di urlo disperato contro la riforma del codice degli appalti, uno dei provvedimenti più sensati del governo Meloni, che lui, come ampiamente prevedibile, boccia come “aiuto alla mafia”. Senza neppure farsi sfiorare dal dubbio che siano le troppe leggi e le troppe burocrazie a produrre corruzione e camarille. Come dicevano gli antichi? “Corruptissima re pubblica plurimae leges”. Ma non è per questo provvedimento del governo che il deputato Cafiero de Raho si spinge fino a dichiarare che “stiamo scivolando verso una dittatura” e che “vogliono a piccoli passi trasformare ogni illegalità nella regola”.
Quel che indigna l’ex magistrato sono proprio quei “piccoli passi” verso le riforme del diritto e della procedura penale che sono in discussione in questi giorni, dopo la proclamazione da parte dell’Unione delle Camere penali di uno sciopero di tre giorni e di una grande manifestazione nazionale a Roma il 21 aprile. Gli avvocati sono pronti a scendere in piazza contro una sorta di immobilismo sulle riforme da parte di Governo e Parlamento, che si sono già sbilanciati al contrario proprio su “controriforme”, come il decreto sui rave party e sull’ergastolo ostativo. Il deputato Cafiero, pur lamentando la delusione per quel senso di inutilità che spesso si avverte in Parlamento quando non si riesce a fare arrivare in porto una proposta di legge o ad avere ascolto con interpellanze e interrogazioni, il che purtroppo è abbastanza usuale, rappresenta però perfettamente la filosofia delle toghe, che detestano ogni forma di cambiamento riformatore.
Prendiamo per esempio il problema della lunghezza dei processi, che in Italia sono eterni in maniera finora non superabile. Se pare irricevibile alle toghe il criterio dell’improcedibilità della legge Cartabia, non va bene neanche il ritorno alla prescrizione per come era nel processo tradizionale, cioè prima dell’intervento del ministro Bonafede. Il quale, in sintonia con Cafiero, ne aveva disposto l’eternità per legge. Sul punto addirittura viene introdotto un argomento di populismo giudiziario con l’uso di un termine veramente poco elegante sulla bocca di un uomo di legge: il “cavillo”. Cioè, non il ricorso alla legge, ma a un trucco, quello strumento spregevole cui ricorrerebbero gli avvocati, quelli astuti e imbroglioni, sempre al servizio “dell’imputato ricco e potente”, per sfuggire alla giustizia. Ah, che smemorato, l’ex magistrato “antimafia”, che proprio non ricorda come il 75 per cento delle prescrizioni cadano durante la fase delle indagini preliminari, quella in cui il dominus assoluto è il pubblico ministero.
Naturalmente non va bene neppure mettere mano alle fattispecie dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze. Il primo perché nei fatti non esiste già più (e bisognerebbe raccontarlo ai sindaci di tutti i partiti che sono andati in processione dal ministro Nordio supplicandolo di riformare la norma), il secondo perché ce lo chiede l’Europa. Anche in questo caso senza considerare la differenza tra ordinamenti su quei principi fondamentali come la separazione delle carriere o la discrezionalità dell’azione penale, da cui poi discendono le diverse modalità di applicazione di ogni norma del diritto penale o processuale. L’urgenza di queste e altre riforme sul processo penale è evidente a tutti, e del resto lo stesso Carlo Nordio e la maggioranza che lo rappresenta avevano presentato in campagna elettorale un programma di riforme di matrice liberale. A partire dalla separazione delle carriere, unico provvedimento in grado di stabilire l’effettiva parità processuale tra accusa e difesa. Nonostante nei giorni scorsi qualche spiffero di Palazzo, di quelli che in genere qualche fondamento lo hanno, avesse fatto temere un rinvio senza data di quella riforma, nella prima commissione della Camera, quella degli affari costituzionali, tre proposte sono già incardinate e sono iniziate le audizioni.
Sono progetti che ricalcano nei contenuti quella di iniziativa popolare presentata dall’Unione Camere Penali, e sono state presentate da parlamentari di maggioranza come Forza Italia e la Lega e di opposizione come Italia Viva e Azione, ma non di Fratelli d’Italia. Cioè del partito della premier Giorgia Meloni ma anche di Carlo Nordio. Se la separazione delle carriere, insieme a un temperamento dell’obbligatorietà dell’azione penale, siano ancora all’ordine del giorno nel programma di governo, o se invece sia vero che la stessa premier abbia imposto un freno al proprio guardasigilli, lo si vedrà già nella giornata di oggi 4 aprile. Perché al tavolo con i rappresentanti del governo siederanno gli organismi degli avvocati ma anche l’Associazione nazionale magistrati.
E lì si capirà se nel cronoprogramma di riforme che il guardasigilli ha già annunciato per il mese di giugno –abuso d’ufficio e traffico di influenze, prescrizione, misure cautelari, impugnazioni delle assoluzioni, intercettazioni e giustizia minorile– saranno o meno inserite le modifiche costituzionali della separazione carriere e obbligatorietà dell’azione penale. A quel tavolo non siederà in nessuna veste, né di magistrato né di deputato, Federico Cafiero de Raho. Ma saranno agguerriti i rappresentanti delle toghe con la loro ossessione del pm sottoposto all’esecutivo, ipotesi di cui nessuno ha mai parlato. Ma anche gli avvocati, che non hanno ancora disdetto i tre giorni di sciopero né la manifestazione nazionale del 21 aprile. Hic Rodus, hic salta, ministro Nordio.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Divisione dei poteri. La polemica sulle intercettazioni e i limiti dell’indipendenza della magistratura. Giuliano Cazzola su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023
Fin dove può spingersi l’azione penale di alcune procure che costruiscono impianti accusatori e teoremi spericolati troppe volte smentiti dalle Corti per mancanza di prove?
Sergio Mattarella, nel suo ruolo di Capo dello Stato e di presidente del Consiglio superiore della magistratura, ha presenziato al cambio della guardia dell’organo di autogoverno dei giudici, ribadendo con forza e nettezza un principio sancito dalla Costituzione e riconosciuto da tutti gli ordinamenti liberali nell’ambito della divisione dei poteri di uno Stato di diritto. «L’indipendenza della magistratura – ha affermato il Capo dello Stato – è un pilastro della democrazia».
In un Paese normale sarebbe sembrata una frase di rito, tanto scontata da passare inosservata. Da noi le parole di Mattarella sono finite nel contesto del dibattito politico in corso e utilizzate (non osiamo dire strumentalizzate) da quanti vedono nelle intenzioni del governo e nelle dichiarazioni del ministro Carlo Nordio sulle intercettazioni (e dintorni) un attacco all’indipendenza della magistratura.
Del resto, i «professionisti del bene» (copyright Alessandro Barbano) non si fanno scrupoli a portare l’acqua al proprio mulino.
Quando il procuratore di Palermo Maurizio Di Lucia – dopo la cattura di Matteo Messina Denaro – ha voluto sottolineare il ruolo determinante delle intercettazioni telefoniche per individuare e arrestare il boss superlatitante (a domicilio), la sua considerazione è stata presa e usata in chiave polemica contro le dichiarazioni del ministro Nordio in merito all’intenzione del governo di regolare diversamente la relativa disciplina, in modo da evitare gli abusi perpetrati attraverso il circuito mediatico-giudiziario nella diffusione «selezionata e pilotata» delle intercettazioni, diventate – sono parole del ministro – «strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica».
Così, come spesso succede nel nostro Paese, è scoppiata una polemica tra sordi, ognuno dei quali ha continuato a svolgere il proprio discorso senza curarsi di quanto dice l’altro.
Il Circo Barnum degli avversari del governo e in particolare di Nordio hanno accusato il ministro di voler disarmare i «professionisti del bene»nella lotta alla mafia, nonostante il titolare di via Arenula, dopo qualche parola di troppo, abbia riconfermato la necessità dell’uso di quella sofisticata tecnologia nella lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo, insistendo però sugli abusi e sulle malversazioni ai danni di persone che nulla avevano da spartire con le inchieste, ma che erano divenute vittime della gogna mediatico-giudiziaria, manovrata dalle procure al fine di demolire presso l’opinione pubblica l’indagato o la personalità presa di mira.
Ma se l’abuso delle intercettazioni fosse solo un corollario, uno strumento, una manifestazione delle anomalie di alcuni settori della giustizia annidati nelle procure? Ha senso accanirsi sul coltello con cui vengono squartate le vittime, anziché dare la caccia a Jack lo Squartatore?
Mattarella è anche presidente del Consiglio supremo di difesa. Le Forze Armate sono al servizio della Repubblica. Questa è la formula utilizzata dalla legge per esprimere, nella forma più alta e profonda, il legame indissolubile che esiste fra le Forze Armate e l’Italia, le sue Istituzioni, il suo popolo, in base a quanto sancisce l’articolo 52 della Costituzione: «L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica».
Ma se si scoprisse che alcuni comandi dell’Esercito (o magari dei Carabinieri), preoccupati di un certo andamento della politica, dell’economia e delle tensioni sociali, convinti della incapacità della classe politica a governare il Paese, cospirassero per sovvertire le istituzioni (magari senza arrivare a provarci), come reagirebbe il Capo dello Stato? Mutatis mutandis, fino dove può spingersi «l’indipendenza della magistratura»?
In Italia è stato consentito alle procure di smontare e rimontare il sistema politico della Prima Repubblica e di condizionare quello sorto, inatteso, dalle macerie. Quando Nordio invita il Parlamento a non farsi intimorire dalle procure mette il dito nella piaga della Seconda Repubblica, che ha tenuto sotto tiro le forze politiche, una parte delle quali è affetta da una grave sindrome di Stoccolma nei confronti della magistratura inquirente.
In breve come è possibile definire l’esercizio dell’azione penale quando essa si sviluppa all’interno di un teorema precostituito in base al quale le istituzioni dello Stato sono colluse con la criminalità organizzata? Le indagini e la raccolta delle prove, in questa visione, servono solo per confermare le tesi del teorema, che rappresenta la verità storica immanente anche quando non si è in grado dimostrarla nei processi.
Troppe volte abbiamo sentito attribuire condanne sul piano storico, ritenute inequivocabili e sempre meritevoli di ulteriori approfondimenti (si pensi alla trattativa tra Stato e mafia o al ruolo di Berlusconi nelle bombe del 1993) anche quando le Corti smentivano con sentenze passate in giudicato gli impianti accusatori.
Alla fine, come ha scritto Sabino Cassese, le procure «oggi sono diventate il quarto potere dello Stato». E si avvalgono di un armamento molto più incisivo di quello di cui disponevano i marinai dell’Aurora quando presero d’assalto il Palazzo d’Inverno. Le procure possono disporre della libertà delle persone che è più importante della loro stessa vita. E da questa trappola non si esce né con la separazione delle carriere né con la revisione delle intercettazioni (tutte misure utili, comunque).
Questi settori della magistratura inquirente sono consapevoli del potere d’interdizione di una corporazione, rinchiusa nell’usbergo di un’indipendenza che «è un pilastro della democrazia».
First strike. La crociata preventiva contro Nordio serve solo a sancire l’intoccabilità della corporazione giornalistico-giudiziaria. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 25 Gennaio 2023.
Da dieci giorni, giornalisti, magistrati ed ex magistrati denunciano le affermazioni gravissime e intollerabili e inaccettabili del ministro, tirando per i capelli dichiarazioni che più anodine e garbate non si potrebbero pronunciare. E lo fanno per un solo motivo: riaffermare un principio di assoluta insindacabilità del loro operato
Su Carlo Nordio, come ministro della Giustizia, come giurista, come magistrato e come politico, si possono avere naturalmente le opinioni più varie. Personalmente, io non lo definirei nemmeno un garantista. Sul caso Diciotti, ad esempio, dichiarò che come pm lui non avrebbe nemmeno indagato Matteo Salvini, perché le sue decisioni rientravano nella «discrezionalità politica». Dichiarazione che a me pare una definizione abbastanza precisa di cosa sia l’esatto contrario del garantismo: stabilire cioè che i diritti inalienabili di questa o quella categoria di persone – nel caso specifico, dei migranti soccorsi dall’incrociatore italiano dopo un naufragio – possano essere compressi, ignorati o cancellati a discrezione del potere politico.
È dunque più che legittimo nutrire più di un dubbio circa le intenzioni del ministro riguardo alla riforma della giustizia e delle intercettazioni. Tanto più considerando l’estrema vaghezza e le non poche contraddizioni con cui la maggioranza – e lo stesso ministro – ha finora presentato le sue proposte. Del resto, non è un modo di procedere che il governo abbia seguito soltanto sulla giustizia.
Tutto questo, e cioè l’ennesimo tentativo di avviare una riforma della giustizia che verosimilmente finirà nel nulla, o in un compromesso talmente lasco da non produrre alcun effetto pratico, perdonatemi, ma è cosa che proprio non riesce ad appassionarmi. Saranno più di quindici anni che io e pochi altri – pochi nel senso che siamo in pochi a farlo sempre, e non a seconda di chi sia la vittima di turno – denunciamo gli abusi nella diffusione delle intercettazioni e delle carte giudiziarie in generale da parte di magistrati e giornalisti. Questa volta, pertanto, avevo deciso di passare la mano, evitando di occuparmene. Infatti non è del merito della questione che vorrei parlare. La presunta riforma, le ragioni di Nordio e quelle dei suoi critici: quello è il dito.
La luna è il fuoco di sbarramento che si è levato da procure, redazioni e studi televisivi. La novità – si fa per dire – è la veemenza e la virulenza con cui da tutti i giornali e le tv del paese si ripete, nell’ordine, che non è mai esistito in Italia alcun problema di violazione della privacy e abuso nella diffusione di intercettazioni; che non sono mai state diffuse intercettazioni penalmente irrilevanti; che quando sono state diffuse intercettazioni penalmente irrilevanti avevano comunque un rilevantissimo interesse pubblico (avete capito bene: non è mai accaduto ed è accaduto per un valido motivo, nello stesso discorso, nello stesso articolo, a volte anche nella stessa frase) e che il vero motivo per cui il ministro e la politica in generale se ne vogliono occupare è il desiderio di fare un favore alla mafia.
Da dieci giorni giornalisti, magistrati ed ex magistrati denunciano le affermazioni gravissime e intollerabili e inaccettabili del ministro Nordio, tirando per i capelli dichiarazioni che più anodine e garbate non si potrebbero pronunciare. E lo fanno per segnare un confine, per tracciare un solco, per riaffermare un principio di assoluta insindacabilità del loro operato. E tutto questo, per giunta, nel momento in cui fanno a gara nel dare praticamente del mafioso al ministro della Giustizia, salvo poi indignarsi a reti unificate perché quello si permette di rispondere e di difendersi, peraltro con parole assai più misurate dei suoi accusatori.
Non ho nessuna simpatia per Nordio, penso che lo scontro sulla giustizia finirà con l’ennesima retromarcia del governo e non mi strapperò i capelli per questo. Ma la prova di forza offerta dalla corporazione giornalistico-giudiziaria (e dai soliti movimenti, partiti e politici di complemento) dimostra come dagli anni di Tangentopoli a oggi non sia cambiato nulla. Ed è al tempo stesso una delle ragioni principali per cui non è cambiato nulla, non solo nel campo della giustizia.
Contro Nordio la vera opposizione. Quella fatta con il solito mix di giudici e stampa amica. Federico Novella su Panorama il 19 Gennaio 2023.
La polemica di parte della magistratura contro lo stop agli abusi voluti dal Guardasigilli è l'ennesima riprova della stortura costituzionale esistente in Italia dove tutto è modificabile, tranne la giustizia
Si dice che una vera opposizione a questo governo non ci sia affatto, perché il Partito Democratico è troppo occupato a chiedersi che ne sarà di lui. In realtà la vera opposizione, che supplisce a quella parlamentare, cresce fuori dalle istituzioni, passa per certi comparti dell’informazione e della magistratura uniti come un sol uomo. E agisce nel campo di gioco cruciale della giustizia.
A dimostrazione che la vera opposizione porta questi vessilli, basta studiarsi la reazione scomposta alle parole del Ministro Nordio sulle intercettazioni. In senato a relazionare sullo stato della giustizia, il Ministro Nordio ha semplicemente detto che sulla riforma delle intercettazioni “andremo avanti sino in fondo, non vacilleremo e non esiteremo. La rivoluzione copernicana sull'abuso delle intercettazioni è un punto fermo del nostro programma”. E’ una posizione già espressa da Nordio, quella che punta ad intervenire sugli eccessi selvaggi di uno strumento utile, ma di cui troppo spesso si abusa, con la complicità di giornali compiacenti e politicamente orientati. Ma nella traduzione che se n’è fatta, sembra quasi che Nordio voglia radere al suolo le intercettazioni. Tanto è bastato a “La Repubblica” per titolare a caratteri cubitali, e con una certa disinvoltura: “Nordio, schiaffo all’Antimafia”. Sottotitolo: “Il Guardasigilli sfida i magistrati che lottano contro le cosche”: il modo più veloce per strumentalizzare la cattura di Messina Denaro in chiave antigovernativa. Il “Fatto Quotidiano” , fedele alla sua linea manettara, titola: “Riforma di impunità: la Costituzione è sotto attacco”. E giù a ricalcare lo stesso concetto, quello di un ministro della giustizia che vorrebbe mettere a piede libero corrotti e corruttori. Come abbiamo visto, Nordio si è limitato a ribadire una linea di pensiero di fondo, così riassumibile: nelle indagini di mafia e terrorismo le intercettazioni sono indispensabili, ma “altra cosa sono quelle giudiziarie che coinvolgono persone che non sono né imputate né indagate e che attraverso un meccanismo perverso e pilotato finiscono sui giornali e offendono cittadini che non sono minimamente coinvolti nelle indagini”. Insomma, ancora una volta Nordio precisa che la necessità di condurre indagini spedite non può travolgere, nella foga giustizialista, cittadini innocenti. Parole quasi scontate, che però nella miseria dell’oggi sono diventate scomode. E fu così che l’ex pm trevigiano oggi Guardasigilli divenne il ministro più coraggioso del governo, per aver saputo dire e ripetere concetti che negli altri paesi sarebbero delle banalità. E per aver saputo sfidare la vera opposizione. Un muro di gomma che sulla giustizia rema in una sola direzione: la conservazione dello status quo, con tutte le storture che ne derivano
“L’avviso a Meloni arriva da destra: giudici contro la riforma”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 24 Gennaio 2023
Luca Palamara, nato a Roma il 22 aprile 1969, ex magistrato, ex membro del Csm, è stato il più giovane presidente dell’Anm. Si presenterà alle elezioni politiche del 25 settembre con il suo partito “Oltre il sistema” di chiara impronta garantista. “Troppi distinguo sulla riforma della giustizia. Parte della maggioranza non vuole inimicarsi qualche corrente della magistratura”. A dirlo l’ex togato e autore del best seller “Lobby & Logge” Luca Palamara.
Il caso di Matteo Messina Denaro riapre il dibattito sulle intercettazioni. Quale la sua idea?
C’è una polemica strumentale. Non mi pare che Nordio, o altri che siano intervenuti sul tema, abbiano messo in discussione le intercettazioni che servono al processo come, d’altronde, avvenuto in occasione della cattura di Matteo Messina Denaro. Lo Stato, i magistrati e le forze dell’ordine, in questo caso, hanno dimostrato il massimo livello di professionalità. Guai a toccare queste situazioni, su cui infatti non c’è stato alcun dibattito. Ci sono, invece, intercettazioni che non c’entrano niente con i processi e la cui pubblicazione serve ad altro come, ad esempio, sputtanare il nemico di turno sui giornali amici. Su tale aspetto penso sia giusto intervenire per riscrivere le regole della democrazia e garantire un vivere civile. Non c’è bisogno di ricorrere all’insulto o peggio dare dell’incompetente a un ministro come fatto da Carofiglio, ieri, in un’intervista su Repubblica.
Palamara, intanto, continua a far discutere. Travaglio, ad esempio, ricorda una sua dichiarazione su Nordio?
Mi spiace aver urtato la suscettibilità di Travaglio, richiamando un suo editoriale rispetto al quale aveva dimostrato grande onestà intellettuale sul tema delle intercettazioni. L’ho fatto da uomo libero. Mi auguro che altrettanto possa fare lui, senza ricorrere alle offese personali. Oggi prendo atto che ha cambiato idea chiamandomi “Ciccio”, rievocando una mia chat servita recentemente ad una esponente della sinistra giudiziaria del Csm per giustiziare il Procuratore di Terni solo perché ritenuto mio amico. Il tempo è galantuomo. Saprà rimettere a posto le cose. Quanto a magistrati coinvolti in vicende giudiziarie devo pensare che nemmeno il direttore de “Il Fatto Quotidiano” legga attentamente il suo giornale.
Il Trojan, a suo parere, in quali casi dovrebbe essere utilizzato?
Il trojan è un prezioso strumento nei reati di mafia e terrorismo e indubbiamente può esserlo per tutti i reati spia, corruzione inclusa. Come tutti gli strumenti innovativi, però, deve essere maneggiato con cura, soprattutto quando incide su diritti costituzionalmente tutelati. Quando ciò non avviene nascono quelle porcherie che il ministro Nordio si propone di eliminare. Il problema, quindi, non è lo strumento in sé, ma al contrario l’illecito utilizzo che di questo strumento può essere fatto, come recenti vicende chiaramente e plasticamente insegnano.
Nordio ha la possibilità di riformare davvero la giustizia?
Al momento mi sembrano esserci troppi distinguo sulla riforma della giustizia ed il timore di una parte della maggioranza di non inimicarsi qualche corrente della magistratura. Così diventa più difficile. Detto ciò, da quello che posso intuire non mi sembra intenzione di Nordio quella di fermarsi.
C’è qualcuno che lo sta ostacolando all’interno della maggioranza?
Più che ostacoli i soliti spauracchi. Sullo sfondo molti sherpa, che millantando conoscenze all’interno della magistratura, mettono in guardia il governo su possibili ed imminenti iniziative giudiziarie. Da qui la parola d’ordine: lasciamo stare, non facciamo riforme che possono agitare la parte più rumorosa della magistratura. Temo, comunque, che questa volta l’operazione non riesca perché non solo gli addetti ai lavori, ma anche molti cittadini, iniziano a capire e ad avvertite disagio verso tante storture che quotidianamente emergono.
Qualcuno dice che vuole proporre una Cartabia 2.0. È davvero così?
Come dice qualcuno, lo scopriremo solo vivendo.
Quali devono essere le priorità su cui intervenire, soprattutto per quanto concerne la magistratura?
È indubbio che la priorità debba riguardare il tema dei tempi certi nella definizione dei processi, della uniformità dei giudizi e ovviamente anche della necessità di creare strutture che possano rendere più funzionale il lavoro dei magistrati. Allo stesso tempo dopo 75 anni dall’entrata in vigore della nostra Costituzione, penso sia giusto affrontare tematiche di livello ordinamentale, tra cui la separazione delle carriere, la composizione del Csm e rivedere la correntocrazia esistente all’interno della magistratura. Si tratta di tematiche sulle quali è giusto svolgere una riflessione a tutto tondo, uscendo fuori dalla logica di contrapposizione tra politica e magistratura.
L’ultimo presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra, in una recente intervista pubblicata su queste colonne, ha fatto intendere un collegamento tra massoneria, magistratura e criminalità organizzata soprattutto nella terra di Cosa Nostra. Ha qualcosa ha a che vedere con le logge descritte nel suo libro?
Direi che il racconto di Morra si innesta alla perfezione sul mondo invisibile che tenta di penetrare il mondo delle istituzioni e che è ben raffigurato anche da una vicenda che dopo averla appresa mi ha molto turbato e sulla quale mi auguro possano accendersi i riflettori.
Quale?
Parlo della sparizione dei files su Matteo Messina Denaro contenuti nei dispositivi nella disponibilità di un finanziere Carlo Pulici, allontanato dalla Procura di Palermo nel 2015 e dei quali ancora oggi non si ha nessuna traccia.
Non tardano ad arrivare le reazioni. Giustizia, Anm: “Separazione carriere è un pericolo per la democrazia, attenzione alle comparazioni con altri Paesi”. Redazione su Il Riformista il 14 Luglio 2023
“Fare dell’azione penale un’azione discrezionale, e poi certamente prima o poi sotto il controllo politico, la vediamo una cosa pericolosa per la democrazia”. Così a ‘Radio Anch’io’ il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, secondo il quale “la separazione delle carriere è una riforma che apre ad altre, perché dalla separazione dovrebbe poi seguire la discrezionalità dell’azione penale.
Un pm separato dalla giurisdizione e quindi fuori da quei meccanismi di compensazione e di controllo che prevede la Costituzione, lo lasceremo da solo o ci sarà qualcun altro che ambirà al controllo sull’azione penale? E quello non potrà che essere il controllo politico”.
“Non si può – ha aggiunto Santalucia – fare comparazione con altri Paesi trasportando modelli istituzionali da un Paese all’altro, perciò bisogna stare molto attenti. In Italia bisogna tenere conto di una tradizione e di un modo di in cui sono impostate le relazioni politico istituzionali”.
Costa (Az-Iv): parole Santalucia pericolo democrazia – “Pericolo per la democrazia un giudice terzo e imparziale distinto da chi rappresenta l’accusa? Ho presentato una proposta sulla separazione delle carriere ed è offensivo la si definisca così. Il capo del sindacato magistrati che dice queste cose è un pericolo per la democrazia”. Così, in un tweet Enrico Costa
La riforma giustizia. “Seperazione carriere? È la madre di tutti i mali”: parla l’Accademico dei Lincei Tullio Padovani. «È irrinunciabile, porterebbe alla discrezionalità dell’azione penale e al controllo dell’operato dei pm. Nordio sbaglia su Delmastro e l’abolizione dell’abuso d’ufficio è una follia, ma l’Anm si muove come un partito». Angela Stella su L'Unità il 15 Luglio 2023
Questione giustizia: il professore avvocato Tullio Padovani, Accademico dei Lincei, dice la sua sulle ultime vicende.
C’è uno scontro tra politica e magistratura?
Questo scontro dura da più trent’anni, lo scontro inizia molto prima di Mani Pulite. Si prepara agli inizi degli anni ‘70. Durante questi decenni ci sono stati momenti anche di stasi ma se non si rimuovano le cause è destinato a durare.
Quali sono le cause?
Derivano dal fatto che la funzione del pm, e in generale della magistratura, ha nel corso del tempo assunto un ruolo e una funzione ipertrofica rispetto alla concezione di uno Stato di Diritto equilibrato. Hanno cioè un ruolo dominante. Già anni fa dicevo provocatoriamente: L’articolo 1 della Costituzione (‘L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione’) va riletto così: L’Italia è una Repubblica giudiziaria, fondata sull’esercizio dell’azione penale. La sovranità appartiene ai pubblici ministeri, che la esercitano in modo discrezionale. Questo non vuol dire che i giudici governino in tutto e per tutto, ma in certe situazioni si atteggiano a decisori di ultima istanza.
Secondo Lei Nordio, con le sue esternazioni pubbliche più da editorialista che da Ministro, è un problema per Giorgia Meloni?
Non saprei. Meloni lo ha scelto, lo ha voluto, lui non sorprende nessuno con quello che dice. Nordio fa bene a riaffermare la linea politica della giustizia che ha fin dall’inizio espresso. Certo, talvolta può essere impolitico dire determinate cose in certi momenti. In tutto questo Nordio mi sembra un po’ isolato.
Come giudica le parole usate dalla premier sul caso Santanché (neanche un avviso di garanzia determina automaticamente le dimissioni)?
Sono cose vecchie. Ce lo diciamo da decenni. I discorsi sono sempre gli stessi. Invece di lamentarvi, avete il potere, risolvete il problema! L’avviso di garanzia non è stato proclamato sul Monte Sinai, quindi si può disciplinare in modo più corretto, così come la disciplina sulla pubblicazione degli atti. Non giudico la vicenda in particolare, ma sul tavolo ci sono le solite questioni.
Dal punto di vista dell’opportunità politica dovrebbe dimettersi se ricevesse l’avviso di garanzia?
Ma neanche per sogno in linea di principio. Tutto ruota intorno all’esercizio dell’azione penale in Italia che è sottratto ad un vaglio preliminare di legalità. Come inizia l’azione penale? Basta che ci sia una denuncia su cui occorre svolgere le indagini. Il moto giudiziario all’inizio può essere sollecitato anche da elementi labili e poi alla fine, dopo molto tempo, quando il danno ormai è fatto, si vede che non c’era nulla di penalmente rilevante. Non puoi essere condannato se ti arriva un avviso di garanzia. Inoltre è sbagliato e assurdo che l’informazione di garanzia possa essere pubblicata. Si tratta di un problema che mi sono trovato a trattare in una commissione, nominata dal Ministro Martelli, già agli inizi degli anni ’90. Vi facevano parte, tra gli altri, anche Glauco Giostra e Giorgio Lattanzi e discutevamo di questo, ossia della segretezza degli atti di indagine. Esattamente 30 anni fa elaborammo un progetto di riforma – avevamo rilevato che il meccanismo del codice prevede la tutela delle indagini ma non dell’indagato – contro il quale si scatenarono campagne giornalistiche durissime che hanno indotto il ministro a disconoscere l’elaborato. Siamo fermi, siamo in un universo immobile, siamo fuori della storia.
E sul caso Delmastro e l’imputazione coatta?
Mi permetto di dissentire da Nordio. Questo sistema certamente è in antitesi col sistema accusatorio ma il fatto è che noi abbiamo un sistema costituzionale che non è ispirato all’accusatorio. In particolare noi abbiamo un sistema costituzionale che prescrive con l’articolo 112 l’obbligatorietà dell’azione penale. E allora quando il pm chiede di archiviare il controllo di legalità chi lo dovrebbe fare? Il controllo del gip è un istituto costituzionalmente necessario. Il problema sta nel 112: lo dobbiamo mantenere così? È il velame in realtà dietro al quale si cela l’arbitrarietà. Se il pm va avanti e tiene una persona sulla graticola per anni con indagini che portano a perquisizioni e sequestri e poi finiscono in un non nulla, lui non risponde di nulla perché sostiene di essere obbligato ad esercitare l’azione penale. Possibili che non si vedano le cose più ovvie? Discutiamo veramente della responsabilità dei magistrati che devono render conto di ciò che fanno, anche in relazione alla progressione di carriera.
Secondo lei l’Anm ha il diritto di intervenire nella discussione pubblica o la giudica una interferenza?
Io la giudico una pesantissima e inqualificabile interferenza. L’Anm ha un compito assimilabile mutatis mutandis a quello di un “organismo sindacale”, per lavorare, ad esempio, per la tutela degli stipendi, per i problemi intra-categoriali. Quando si pretende di scendere in campo con quella forza associativa, si diventa un partito politico di maggioranza in termini qualitativi, di potere.
Come giudica il primo pacchetto di riforme targato Nordio?
L’abolizione dell’abuso di ufficio è una scelta assurda, improponibile. Si verrà a creare un buco nel quale si insinua un potere sottratto ad ogni controllo di legalità. In altri termini: quando c’è discrezionalità amministrativa non c’è sindacato del giudice penale. Ma se questo comportamento non si esprime nelle forme dell’atto viziato da una illegittimità censurabile non lo sarà neanche rispetto al Tar. Quindi in sostanza il pubblico ufficiale è il titolare esclusivo di una potestà di cui non deve rendere conto a nessuno. Saremmo quindi in uno Stato premoderno, molto più vicino al sistema feudale che non a quello dello Stato di Diritto. Per quanto concerne il collegiale per le misure cautelari rappresenta senza dubbi maggiori garanzie ma non lo si può prevedere per tutti i reati.
Ora si parla di rivedere il concorso esterno. Giusto aprire un dibattito?
Che il concorso eventuale nel reato associativo sia concepibile è il sistema che ce lo dice, solo che giustamente ha di per sé connotati di indeterminatezza. Da qui tutte quelle incertezze giurisprudenziali che lo rendono evanescente. Il problema comunque andrebbe innanzitutto affrontato sul piano del concorso in generale ma anche su questo sono decenni che ne discutiamo.
Secondo lei il Governo e il Parlamento avranno la forza e i numeri per portare a casa la separazione delle carriere?
È la battaglia finale, è irrinunciabile. Se il pm viene separato dall’ordine giudiziario non è più la stessa cosa: la separazione di conseguenza porterebbe alla discrezionalità dell’azione penale, al controllo dell’operato del pm. I tre punti che costituiscono la riforma della giustizia: discrezionalità, responsabilità, separazione. Sulla possibilità che questa riforma venga approvata mi chiedo: la forza casomai ce l’hanno ma come la eserciteranno? Nessuno mi garantisce che la soluzione sia razionale.
Si sa che d’estate le carceri sono forni bollenti. E continuano i suicidi. Non crede che ci sia un disinteresse generale nei confronti delle carceri?
Non interessa niente a nessuno. Si ammazzino pure, sarà uno di meno. E seppure la gente lo viene a sapere fa spallucce. Se l’obiettivo fosse quello di far emergere il problema, sollevare l’opinione pubblica questi eventi sarebbero denunciati dalle stesse autorità per dire ai cittadini ‘vedete in che situazione siamo?’. Il Governo dovrebbe essere il primo a rendere trasparente la situazione, invece bisogna accendere Radio Radicale o leggere quei pochi giornali che ne parlano. Quando entri in una grande azienda, trovi un grande cartello nel quale sono indicati gli infortuni sul lavoro in un determinato periodo per far vedere qual è l’andamento. E ogni morte diviene motivo di allarme per tutti. Quindi è un cartello monitorio. La stessa cosa dovrebbe esserci all’ingresso di Via Arenula per i suicidi perché sono indici di una grave crisi da denunciare sulla pubblica piazza e che deve sollecitare interventi drastici. Non possiamo avere la morte per pena, perché abbiamo abolito la pena di morte.
Qualcuno non vuole Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, come membro del Collegio del Garante dei diritti dei detenuti.
Sicuramente qualcuno non la vuole perché Rita avrebbe una linea che non farebbe piacere quasi a nessuno. Rita quel frammento di potere lo ha speso a servizio delle carceri. Per questo è unica ed è una eccezione in questo Paese. Ma la regola non ama le eccezioni e quindi meglio che lei resti fuori con mille pretesti.
Angela Stella 15 Luglio 2023
Separazione delle carriere: è davvero giunto il momento? Il tanto atteso riassetto delle carriere dei magistrati verrà discusso in una riunione di governo prima della pausa estiva, ma sul tema c’è già l’alzata di scudi del “partito delle toghe”. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 15 Luglio 2023
Forse è la volta buona. La tanto attesa separazione delle carriere dei magistrati verrà «discussa in una riunione di governo prima della pausa estiva». Lo ha affermato ieri il ministro della Giustizia Carlo Nordio. «Spero che si inizi nel più breve tempo possibile. Sarebbe molto bello poter procedere con le riforme abbreviate della legge ordinaria, ma dal mio punto di vista per la separazione delle carriere occorre una revisione costituzionale», ha però puntualizzato Nordio, raffreddando inevitabilmente gli animi di coloro che si aspettavano un provvedimento approvato in tempi celeri dopo anni di interminabili discussioni.
La riforma della Costituzione prevede, infatti, procedure quanto mai lunghe e complesse. Ogni modifica della Carta deve essere votata da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e deve essere poi approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.
Il tema, dunque, è quanto mai delicato. Secondo diversi giuristi già adesso si potrebbero separare le carriere dei magistrati senza dover andare così ad incidere sulla Costituzione. A supporto di tale orientamento vi è il comma 2 dell’articolo 101: «I giudici (e non i pm) sono soggetti solo alla legge».
Una norma a garanzia dei cittadini inserita dal Costituente per evitare che i giudici nella loro attività potessero subire condizionamenti da soggetti esterni. Problemi, però, potrebbero venire dal comma 3 dell’articolo 107: «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni». Sposando una interpretazione ‘estensiva’, si potrebbe comunque intendere tale precetto come una disposizione di tipo amministrativo, finalizzata a dare pari dignità fra tutti i magistrati, in particolar modo per quanto concerne lo stipendio (a parità di anzianità di servizio, non cambia l’emolumento del procuratore e del sostituto).
Ma che non si siano preclusioni nella Carta ad una separazione delle carriere magistrati emerge chiaramente, fanno notare, dal comma 2 dell’articolo 111: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale». Lo ‘scrupolo’ di Nordio, in altre parole, sarebbe eccessivo. Per stroncare ogni tentativo di riforma, l’Associazione nazionale magistrati, da sempre contraria alla separazione delle carriere, è già pronta a giocare la carta dell’unicità della giurisdizione.
I fautori della carriera unica ripetono che il pm, essendo un magistrato, svolge accertamenti anche a favore dell’imputato. Per dimostrare ciò, citano l’articolo 358 del codice di procedura penale: «Il pm svolge accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini». L’esperienza insegna il contrario dal momento che tale disposizione è puntualmente disapplicata nella prassi, anche perché non prevede alcuna sanzione nei confronti del pm inadempiente, quello che indaga a «senso unico».
Oltre all’asserita incostituzionalità, l’Anm spinge sullo spauracchio del condizionamento politico. Se ci fosse la separazione delle carriere, il pm finirebbe sotto il controllo dell’esecutivo, con conseguenti abusi di ogni tipo, dando così per scontato che, inserito in un diverso assetto ordinamentale, egli commetterebbe illeciti di ogni genere.
L’Italia, è bene ricordarlo, è l’unico Paese nel mondo occidentale dove pur con un processo penale di tipo accusatorio il pm e giudice fanno la stessa carriera. «Sapete qual è la vera separazione delle carriere che voglio? Quella tra magistrati bravi che devono andare avanti e che meritano rispettano e magistrati ideologici che non possono fare danni al nostro Paese», ha dichiarato Matteo Renzi. «Io lotto perché ci sia il merito dentro la magistratura. E se devo pagare un prezzo personale, lo pago a testa alta. Ma non chiedetemi di diventare un codardo o un ipocrita. Non lo sono mai stato fino ad oggi, non inizierò adesso», ha quindi aggiunto Renzi, spiazzando un po’ tutti.
Paolo Pandolfini
Battaglie riformiste: la riforma della giustizia. Il prezzo della libertà che paga chi prova a riformare sul serio il mondo della giustizia. L’editoriale di Matteo Renzi. La riforma della giustizia è necessaria. La vera separazione delle carriere che serve non è tra Pm e giudici ma tra giudici bravi e giudici incapaci. Questo serve e per questo noi del Riformista lottiamo: garantire un giudice imparziale ai cittadini e non premiare chi sbaglia per incapacità o per ideologia, Matteo Renzi su Il Riformista il 15 Luglio 2023
Quando ci avviciniamo a riformare in modo serio il mondo della giustizia accade qualcosa che manda tutto all’aria. Che sia un caso oppure no, non sappiamo. E forse neanche importa ai fini del nostro ragionamento.
Ma sta succedendo anche adesso. E proprio quando sembrava che questo Governo avesse le carte in regola per provarci – a cominciare da un galantuomo come Ministro – improvvisamente tutto sembra bloccato.
Prima dei casi Santanchè, La Russa, Del Mastro la partita sembrava avviata nella direzione giusta.
Ma tra quando il Governo ha approvato la riforma in Consiglio dei Ministri e quando la trasmetterà al Parlamento l’esecutivo si è frantumato. Mantovano contro Nordio sul concorso esterno in uno scontro tra i magistrati che siedono al tavolo più importante di Palazzo Chigi. La Lega contro Fratelli d’Italia: Salvini fiuta l’occasione di recuperare la china nei sondaggi e vede in difficoltà l’alleato senior. Per questo gli ex padani attaccano gli ex missini sapendo che entrambi hanno un passato non propriamente garantista. Ma se la partita Lega contro Fratelli d’Italia ci sta, la vera sorpresa è Forza Italia contro… Forza Italia. Eh già perché la timidezza di Tajani sui temi della giustizia non nasce solo dal suo carattere accomodante: nasce soprattutto dalla paura di disturbare il manovratore, cioè la Premier, paura che dalle parti di Forza Italia è diventata ormai la bussola per qualsiasi decisione politica.
Vado controcorrente: per me la riforma serve oggi più che mai. Non mi interessa discutere di singoli temi, pur importanti. L’abuso d’ufficio, la carcerazione preventiva, le intercettazioni, il traffico di influenza, la tipizzazione del concorso esterno. Tutte scelte rilevanti, per carità, ma secondarie rispetto al vero problema. Che è uno soltanto: garantire un giudice imparziale ai cittadini e non premiare chi sbaglia per incapacità o per ideologia.
La vera separazione delle carriere che serve non è tra Pm e giudici ma tra giudici bravi e giudici incapaci.
Questo serve e per questo noi del Riformista lottiamo.
Lo facciamo anche a costo di sacrifici personali. Ieri ho ricevuto l’ennesima condanna alle spese da parte della solita giudice NoVax e No WiFi: la dottoressa Zanda, casualmente di Firenze. Diffamato sui media e insultato in tribunale da una dottoressa che parla di sieri, campi elettromagnetici, complotti internazionali con la credibilità di chi per prima non rispetta le leggi decidendo di considerare il greenpass eversivo e il tampone “una tortura”.
Condannato da una giudice che non rispetta le leggi. Non è magnifico?
Se pensano di fermarmi così significa che non mi conoscono.
Chi non ha paura sa che questo è il prezzo della libertà.
E alla libertà io non rinuncerò mai.
Matteo Renzi
Altro che carriere, separiamo i carrieristi dalle toghe perbene. Alberto Cisterna su Il Riformista il 27 Dicembre 2022
L’anno che sta per chiudersi vede nubi addensarsi all’orizzonte. Un cielo cupo, segnato dall’attesa delle vere prime mosse del governo Meloni sul versante giustizia. Sinora si è praticamente scherzato. Tolto di mezzo un decreto rave di dubbia fattura e di ancor più dubbia efficacia e una semplificazione delle procedure di intercettazione di competenza dell’intelligence, ci sono solo dichiarazioni e annunci. Questa volta la pattuglia ministeriale di via Arenula vanta elementi di primo piano.
Carlo Nordio, malgrado il fuoco preventivo che lo ha investito, sta riempendo, una ad una, le caselle-chiave del dicastero (dal Legislativo al Dipartimento penitenziario) con gente di qualità e il pacchetto delle riforme non è prevedibile sortisca la fine di altre iniziative di precedenti governi finite sotto le randellate della Consulta. L’ultima bocciatura, di rilievo tra gli addetti ai lavori e poco nota ai più, è stata quella che dichiarava incostituzionale la norma del governo Renzi che centralizzava la comunicazione delle notizie di reato presso gli organi di vertice delle forze di polizia.
Gli avversari saggiano le reazioni altrui, cercano vie di dialogo più o meno visibili, intrecciano relazioni in vista del primo, importante appuntamento ossia l’elezione dei 10 componenti laici del Csm. Sembra passata un’era dallo scandalo Palamara; pandemia e guerra hanno segnato un solco nella vita collettiva. A tre anni quasi dall’inizio dell’emergenza pandemica, dopo svariati interventi del governo Draghi dalla prescrizione all’ordinamento giudiziario, dal processo civile alle indagini penali e su molte altre cose ancora, il nuovo governo è atteso a una prova complicata: innanzitutto deve portare a casa i risultati del Pnrr sul versante giustizia il che esige la massima collaborazione e un grande sacrificio delle toghe per smaltire gli arretrati e poi vuole mettere mano a una profonda riforma dell’assetto della giurisdizione che rischia di trovare barricate sulla propria strada da parte di settori non marginali della magistratura italiana. Il ministro Nordio lo ha ben capito che la via è stretta e non ha mancato di tenere la barra dritta su entrambi i fronti.
In verità perché sia possibile ipotizzare l’esito di questi progetti sarebbe necessaria una precisa rappresentazione dello stato, come dire, emotivo e psicologico della gran parte delle toghe italiane in questo difficile passaggio della società italiana. Rappresentazione che manca per colpa di una polarizzazione della pubblica opinione sul tema giustizia tanto fallace, quanto a dire il vero strumentale in favore di interessi poco commendevoli. La stragrande maggioranza dei magistrati italiani è totalmente estranea, nella quotidianità della propria opera (anzi del proprio servizio), alle preoccupazioni che agitano in questi giorni i fronti contrapposti. E’ chiaro da tempo – e l’affaire Palamara lo ha reso solo evidente ai più – che una ristretta cerchia di toghe ha tutto l’interesse a una contrapposizione al calor bianco con la politica, talvolta addirittura con le Istituzioni.
E’ in gioco non l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma più prosaicamente un sistema di relazioni di potere che ha collocato un pugno di toghe al centro delle interlocuzioni con la politica, l’economia, le imprese, la stampa. Basterebbe scorrere in modo ravvicinato, laico e non elegiaco, carriere e successivi pensionamenti, nomine e cooptazioni elettorali, assunzioni familiari e collaborazioni giornalistiche, per cogliere almeno la superficie di quel Deep State in cui si è incistata una parte della magistratura italiana, ordinaria, contabile e amministrativa sia chiaro. Una élite, esigua ma potente, dell’intero pianeta giudiziario italiano è esondata dalla funzione costituzionalmente prevista per ergersi a soggetto quanto meno cooperante nell’esercizio del potere. Se questa realtà non viene percepita ancora, è chiaro che questo accade per l’interesse che v’è a coinvolgere l’intero corpo giurisdizionale nell’agone che si profila. Sia chiaro, questo non significa che tutti i progetti di riforma di cui si discute abbiano l’aura della legittimità costituzionale o siano ispirati tutti da nobili intenti.
Il tema vero è tentare di raggiungere una ragionevole mediazione tra le impellenti urgenze di una corporazione che, anche in ragione del Pnrr, si sente ancor più investita di responsabilità e vuole dare una risposta positiva alle legittime attese del paese e una politica che intende ricollocare la giurisdizione in un ambito meglio confacente all’originaria struttura costituzionale. Perché sia chiaro quella del cosiddetto “controllo di legalità” è una post verità che nulla ha a che vedere con la Costituzione repubblicana. I padri costituenti, massacrati e perseguitati dal fascismo e dalle sue fedeli toghe, avevano scarsa fiducia dei magistrati e li volevano certo autonomi, ma sicuramente separati da ogni altro potere e incapaci di ingerirsi nei gangli della società.
La presenza dei laici nel Csm, e la scelta tra essi del vicepresidente, doveva essere soprattutto lo strumento con cui il Parlamento vigilava per impedire abusi e deviazioni delle toghe e ha ragione il presidente Santalucia quando denuncia che questa missione non è stata sempre portata a termine tra le mura di Palazzo dei marescialli in questi decenni. L’unica vera separazione di cui la magistratura ha bisogno non è quella delle carriere, ma quella dei carrieristi dalle tantissime persone perbene e qui la cosa si complica di molto. Alberto Cisterna
Giustizia e politica: quei leader alla sbarra da Craxi a Trump passando per il Cav...
Silvio Berlusconi, Bettino Craxi e Donald Trump
Con un po' di approssimazione si può dire che l'epicentri del terremoto che ha destabilizzato il rapporto tra politica e magistratura è rintracciabile nel nostro paese con l'inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via i partiti della Prima Repubblica. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 19 giugno 2023
È da oltre trent’anni che il romanzo della politica si intreccia senza soluzione di continuità con quello della giustizia, un conflitto quasi “ontologico” che ha visto decine di leader, capi di Stato e di governo finire alla sbarra a ogni latitudine. L’azione dei giudici non sempre si è rivelata immune da faziosità e pregiudizio, a volte ha ribaltato gli esiti elettorali e favorito improvvisi cambi di regime, in altri casi è stata chiaramente persecutoria guidata dall’idea che la magistratura possa in qualche modo sostituirsi alla stessa politica, sospinta dal giustizialismo dell’opinione pubblica e dalla grancassa dei processi mediatici.
L’ultimo a finire nel mirino è stato l’ex presidente Usa Donald Trump, incriminato nei giorni scorsi dalla procura di Miami con l’accusa di aver trafugato documenti top secret dagli uffici della Casa Bianca, messo in stato di arresto per diverse ore dal procuratore Jack Smith che pare seriamente intenzionato a sbatterlo in prigione. «È un sicario mandato da Joe Biden, è un complotto», ha tuonato il tycoon come al solito esagerando e passando la misura. Ma che il suo accusatore sia un simpatizzante dem (la moglie regista è un’amica di Michelle Obama e donatrice del partito) è un fatto accertato e a suo modo destabilizzante visto che Trump è anche il capo dell’opposizione repubblicana e rischia di non poter partecipare alle presidenziali del prossimo anno.
Ma al di là delle storie personali, degli accanimenti o degli interessi di parte, la rotta di collisione continua tra toghe ed eletti sembra di natura sistemica, il frutto di una “rivoluzione culturale” avvenuta negli ultimi decenni che ha allargato in modo significativo il perimetro di azione della magistratura.
Oggi un intero governo può tranquillamente finire sotto inchiesta per “strage colposa” come è accaduto all’ex premier Giuseppe Conte e all’ex ministro Speranza accusati dalla procura di Bergamo addirittura per le vittime della pandemia di Covid. Va da sé che l’inchiesta è stata archiviata ma il solo fatto di pensare a un’incriminazione del genere mostra l’idea estensiva che le procure hanno oggi del proprio potere.
Con un po’ di approssimazione si può dire che l’epicentro di quel terremoto e cambio di paradigma fu proprio la nostra piccola Italia con l’inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via la prima repubblica, proiettando procuratori e sostituti sulla ribalta mediatica e mettendo all’angolo l’intera classe politica, sepolta sotto le macerie dei partiti. L’onda d’urto di quella stagione ha dato luogo a una vera e propria saga giudiziaria con lo scontro senza esclusione di colpi tra Silvio Berlusconi e i pm, una guerra che si è disputata lungo 36 processi penali, con una sola condanna ai danni Cavaliere, recentemente scomparso.
Che i vecchi equilibri si siano spezzati in parallelo con la dissoluzione del socialismo reale e del mondo diviso in blocchi non è stata certo una coincidenza: la fine dell’Unione sovietica ha “stappato” energie dormienti, innescando nuovi rapporti di potere, mentre l’azione dei giudici si smarcava progressivamente dalla ragion di Stato e dalle logiche deterrenti della Guerra Fredda. Italia, Francia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Perù, Israele, Corea del sud, Pakistan, Sudafrica, sono solo alcune delle nazioni che hanno visto incriminare e spesso condannare ex presidenti e capi di governo nell’ultimo trentennio.
Prendiamo un paese simile al nostro per tradizioni e cultura, la Francia. E iniziamo con un evento traumatico: il suicidio dell’ex primo ministro socialista Pierre Beregoy, finito al centro dall’affaire Pechiney-Triangle (uno scandalo finanziario di insider trading), che si toglie la vita il primo maggio del 1993 sparandosi alla testa con una pistola che aveva sottratto a un agente della sua scorta.
Beregoy si era sempre dichiarato innocente, entrò in depressione denunciando l’accanimento nei suoi confronti, in particolare del giudice Thierry Jean-Pierre che qualche anno dopo si farà eleggere all’europarlamento per il centrodestra. È invece dichiaratamente di gauche, al punto da essersi candidata alle presidenziali per i Verdi nel 2012, l’ex magistrata Eva Joli, titolare dell’inchiesta che ha raggiunto l’ex presidente Jacques Chirac accusato e poi condannato per abuso d’ufficio, reati che avrebbe commesso nel periodo in cui è stato sindaco di Parigi, distribuendo posti chiave agli amici di partito. Dopo il maresciallo Pétain, processato per collaborazionismo, Chirac è stato il primo ex Capo di Stato francese a subire un verdetto di condanna.
Un filone che si è allungato nelle inchieste su un altro ex inquilino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, condannato in primo grado nel 2012 a tre anni di prigione per corruzione e traffico di influenze per aver promesso una nomina a un magistrato in cambio di informazioni su un altro filone di indagine che lo riguarda; l’inchiesta condotta dalla Procura nazionale per i reati finanziari con metodi «da spioni» per citare il ministro della giustizia Dupond-Moretti ha visto le accese proteste della difesa che ha denunciato le intercettazioni illegali delle conversazioni telefoniche tra Sarkozy e il suo avvocato e le perquisizioni selvagge all’interno degli studi.
Il paese democratico che in assoluto ha visto più ex presidenti subire una condanna è la corea del sud, almeno cinque dall’inizio degli anni 90, mentre un sesto, Roh Moo- hyun, si è tolto la vita lanciandosi nel vuoto prima che iniziasse il processo. Tutti con pene oltre i 20 anni come ad esempio Park Geun- hye, prima presidente donna del Paese finita alla sbarra per corruzione e abuso di potere, e poi generalmente graziati dal presidente successivo.
Un altro caso emblematico in cui il conflitto sta investendo la natura stessa delle istituzioni, è quello che riguarda il premier israeliano Benjamin Netanyahu, accusato dai giudici di Tel Aviv di corruzione, frode e abuso di fiducia, processi ancora in corso. Ritornato al potere lo scorso anno Netanyahu sta provando a imporre a colpi di maggioranza una riforma della giustizia che di fatto terrebbe al guinzaglio l’odiata Corte suprema a cui vuole togliere il diritto di veto sulle leggi e l’autonomia delle nomine. L’operazione è talmente flagrante che ha scatenato la protesta di milioni di israeliani scesi in piazza per difendere l’indipendenza dell’alta Corte dall’esecutivo. E che dire del Brasile, autentica fucina di guerre politico- giudiziarie, in cui l’attuale presidente Inacio Lula da Silva ha trascorso un anno e mezzo dietro le sbarre di una prigione federale per delle accuse che si sono rivelate false?
Le quattro sentenze di condanna a carico di Lula emesse nel 2017 dal Tribunale di Curitiba sono state annullate nel 2021 dal Supremo Tribunale Federale. Il giudice che lo aveva incastrato è quel Sergio Moro che venne poi nominato ministro di giustizia dal successore di Lula e suo peggior nemico, Jair Bolsonaro. Lo stesso che aveva ammesso di essersi ispirato al pool milanese di Mani Pulite, in particolare al suo grande amico Pier Camillo Davigo.
Prima di Lula la scure si era abbattuta sulla presidente Dilma Rousseff che nel 2015 ha subito un procedimento di impeachment in seguito all’accusa di aver di aver truccato i dati sul deficit di bilancio annuale dello Stato, accusa che due anni dopo, quando si era già dimessa e la sua carriera politica era finita, si è rivelata infondata Ora invece tocca a Bolsonaro difendersi dalle toghe: appena rientrato in patria dopo un “esilio” americano di due mesi dovrà affrontare le accuse di aver aizzato gli assalti ai palazzi del governo compiuti dai suoi seguaci a Brasilia lo scorso 10 gennaio. Avanti il prossimo
"La sinistra giudiziaria usa i brogliacci per far fuori i nemici". Felice Manti il 21 Dicembre 2022 su Il Giornale.
L'ex pm Palamara evocato dal Guardasigilli: "La civiltà giuridica è calpestata, da lui parole di speranza"
«Avete visto a Bruxelles? Il caso insegna, non esce nessuna notizia estranea all'inchiesta. Non come da noi...». Luca Palamara è in macchina, la telefonata con Il Giornale dura poco, giusto il tempo di riaprire i cassetti della memoria e l'ex pm tirato in ballo dal Guardasigilli Carlo Nordio snocciola il suo punto di vista sulla vicenda delle intercettazioni che lo riguardano: «La pubblicazione indebita di una serie di intercettazioni coperte dal segreto che non riguardavano l'indagine penale è servita soltanto a cecchinare chi la pensava diversamente, facendo saltare una nomina e dando alla sinistra giudiziaria un ruolo nel Csm».
Nomi Palamara non ne fa, e non ce n'è bisogno. La vicenda è quella dell'ex procuratore della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio. La pubblicazione di alcune conversazioni tra lui e Palamara valsero per entrambi l'accusa di rivelazione di segreto d'ufficio - ipotesi di reato contestata dalla Procura di Perugia, competente sulla Capitale - dalla quale Fuzio e Palamara sono stati entrambi prosciolti lo scorso 6 dicembre perché quello che si erano detti il 3 aprile 2019 Csm non era coperto da segreto d'ufficio, in quanto ancora non secretato dal Csm.
Intanto Fuzio si è dimesso, al suo posto è arrivato Giovanni Salvi che l'altro giorno ha criticato il ministero della Giustizia e il governo per la vicenda delle intercettazioni degli 007 in mano a Palazzo Chigi. Coincidenze? «Con i miei legali e grazie al prezioso supporto dei consulenti tecnici informatici - dice Palamara al Giornale e poi alle agenzie di stampa - da tempo stiamo raccogliendo tutta la documentazione per dimostrare tutto ciò che è realmente accaduto dal 7 al 22 maggio 2019 in concomitanza con la nomina del procuratore di Roma. Quella indebita rivelazione ebbe la conseguenza di rinforzare la componente della sinistra giudiziaria a scapito delle altre. Il tempo è galantuomo la battaglia per la verità continua».
Che la vicenda Palamara sia servita a dimostrare il marcio nel sistema delle correnti è evidente, come dimostra anche il successo dei libri Il Sistema e Lobby&Logge scritti con Alessandro Sallusti, che oggi una parte della magistratura si ribelli a qualsiasi riforma delle intercettazioni dimostra come le dinamiche non siano cambiate poi molto. «La mia vicenda fu la dimostrazione plastica di come le intercettazioni furono usate come regolamento di conti interno alle correnti, qualcuno si dimise e il posto tornò alla sinistra giudiziaria come due anni prima. Oggi il clamore sulle intercettazioni e gli strepiti di una parte della stampa e della magistratura sul fatto che non si possano utilizzare per mafia e corruzione è strumentale - dice ancora Palamara - perché nessuno ha mai detto di voler indebolire l'attività di indagine ma semplicemente di mettere un argine all'utilizzo indebito. Mi riferisco tanto per fare un esempio a quello che sulla base delle esperienze da me vissute accade quando in virtù di rapporti privilegiati i soliti giornalisti ricevono dai soliti pubblici ufficiali materiale riservato non per informare ma per sfregiare questo o quel nemico politico così strumentalizzando il processo e trasformandolo in una clava. Non è un problema personale ma di civiltà giuridica - conclude - per questo le parole di Nordio sono un messaggio di speranza per tutti quelli che vogliono battersi per una giustizia giusta».
"Porcherie anche nel caso Palamara". Nordio tranchant sulle intercettazioni. L’analisi tagliente del ministro della Giustizia in commissione al Senato: “Le intercettazioni del trojan sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva”. Massimo Balsamo il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Le riforme annunciate sono state bocciate dall’Anm, ma Carlo Nordio tira dritto. Il ministro della Giustizia ha le idee chiare sul percorso liberale da seguire e, intervenuto in commissione al Senato, non ha lesinato stoccate. Riflettori accesi sulla disciplina delle intercettazioni, sin qui utilizzate come metodo di delegittimazione personale e politica. Il Guardasigilli non ha utilizzato troppi giri di parole: le intercettazioni devono essere solo uno strumento per la ricerca della prova, non la prova in sé.
L’analisi di Nordio
"Questa porcheria è continuata anche dopo la legge Orlando basta vedere il sistema Palamara, cosa è uscito che non aveva niente a che fare con l'indagine e cosa non è uscito", l’opinione del titolare della Giustizia nel suo intervento a Palazzo Madama. Nordio ha poi posto un quesito provocatorio: “Credete che tutte le intercettazioni del trojan di Palamara siano state trascritte nella forma della perizia?”. Lui non ha titubanze: “Sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva, e non sono ancora tutte state rese pubbliche”.
Nordio si è poi soffermato sull’emendamento del governo inserito nella manovra che riguarda le intercettazioni preventive legate alle attività di intelligence: “È un equivoco che l'emendamento nella legge di bilancio sulle intercettazioni preventive sia rivoluzionario, è esattamente la stessa cosa, ha solo aumentato le garanzie, e trasferito un piccolo capitolo di spesa". Il ministero ne era a conoscenza, ha ribadito, e ha dato parere favorevole.
Abuso d’ufficio e codice degli appalti
Uno dei dossier più roventi riguarda l’abuso d’ufficio, Nordio ha ribadito ancora una volta la posizione del governo sul tema. Il ministro ha sottolineato di aver ascoltato attentamente le richieste dell’Anci:“È intenzione mia e del governo rivedere completamente i reati contro la pubblica amministrazione che ispirano la cosiddetta paura della firma. Le opzioni riguardano essenzialmente l'abuso d'ufficio e il traffico di influenze, si può andare dall'abrogazione di uno o di entrambi i reati fino a una rimodulazione integrale degli stessi. Questo sarà oggetto di confronto e di dibattito in Parlamento”. La strada è tracciata.
L’ex magistrato ha ribadito la sua posizione sulla separazione delle carriere – “non faccio un passo indietro” – ma ha anche spiegato che si tratta di un problema divisivo che richiede una revisione costituzionale, un cammino piuttosto lungo. “Oggi non è la priorità”, ha chiosato. Poi, ancora, il codice degli appalti, a stretto giro di posta oggetto di discussione:“Una semplificazione normativa, se fatta bene, non significa né un regalo alle mafie né alcuna forma di impunità per la corruzione. Significa semplificare le procedure e individuare le competenze”, il monito di Nordio.
Nordio non conosce nemmeno le leggi che vuole smantellare. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 22 dicembre 2022
Nordio due giorni fa, in una bizzarra audizione alla commissione al Senato, ha protestato di nuovo contro l’uso osceno che viene fatto delle captazioni in Italia.
Nordio, come un novello Orsini, non sembra conoscere bene la materia di cui discetta: come spiega il decreto legge del 30 aprile 2020 e il codice penale, l’entrata in vigore della legge Orlando si applica «ai procedimenti penali iscritti successivamente successive al 31 agosto 2020».
Peccato che le investigazioni su Palamara siano del lontano maggio 2019, e che la gestione delle intercettazioni sia stata dunque regolata dalla normativa precedente.
Emiliano Fittipaldi per “Domani” il 23 dicembre 2022.
Qualche giorno fa il giornalista Antonio Talia ha inchiodato Alessandro Orsini alla sua ennesima gaffe, evidenziando come l’ospite preferito di Bianca Berlinguer avesse citato un inesistente giornalista del New York Times, tal William J. Ampio, in un video in cui discettava della guerra tra Russia e Ucraina. Il commentatore aveva infatti usato il traduttore automatico, che ha modificato il cognome originale del reporter (Broad) nell’italianissimo “Ampio”. «Se Orsini non ha gli strumenti cognitivi per capire l’errore nella traduzione automatica di un articolo» s’interrogava Talia «come potrà riuscire a decifrare e poi spiegare il contenuto dell’articolo stesso?».
Ora, identico dubbio si pone per il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio, noto soprattutto per la ferrea volontà di mettere mano alla riforma delle intercettazioni. L’ex magistrato 75enne, voluto sulla poltrona di Via Arenula da Giorgia Meloni in persona, prima ha scritto il demenziale decreto legge sui rave. Poi due giorni fa, in una bizzarra audizione alla commissione al Senato, ha protestato di nuovo contro l’uso osceno che viene fatto delle captazioni in Italia.
Attaccando la normativa vigente e facendo, finalmente, un esempio concreto: «La porcheria è continuata anche dopo la legge Orlando. Basta vedere l’inchiesta sul sistema Palamara. Cosa è uscito su cose che non avevano a che fare sulle indagini e, aggiungo, cosa non è uscito. Sono state selezionate, pilotate, diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva».
Nordio, come un novello Orsini, non sembra conoscere bene la materia di cui discetta: come spiega il decreto legge del 30 aprile 2020 e il codice penale, l’entrata in vigore della legge Orlando si applica «ai procedimenti penali iscritti successivamente successive al 31 agosto 2020». Peccato che le investigazioni su Palamara siano del lontano maggio 2019, e che la gestione delle intercettazioni sia stata dunque regolata dalla normativa precedente. Ormai superata.
Se abusi ci sono stati, dunque, non riguardano mancanze o vulnus del decreto Orlando. Che sembra invece aver funzionato abbastanza bene: tutto è perfettibile, ma è un fatto che negli ultimi due anni le violazioni della privacy si sono fortunatamente ridotte ai minimi.
L’intemerata di Nordio ha ricevuto subito gli applausi di Palamara, of course, e di Forza Italia, da sempre fautore dell’impunità massima per corrotti e corruttori. L’anno prossimo il ministro dovrebbe proporre l’ennesima riforma-bavaglio. Si spera che prima di presentarla studi meglio le norme esistenti, evitando scivoloni che sembrano suggerire, piuttosto che un impeto riformista mosso da un sincero garantismo, un furore ideologico e pericoloso per la già disastrata giustizia italiana.
Per attaccare Nordio Fittipaldi confonde Viminale e via Arenula. Il vicedirettore del “Domani” ha preso una cantonata: le divulgazioni pilotate di cui parla il ministro della Giustizia trovano la propria disciplina direttamente nell’articolo 326 del codice penale, “rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”, e non nel decreto Orlando. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 23 dicembre 2022
Emiliano Fittipaldi, vicedirettore del Domani, quotidiano che annovera molti giornalisti d'inchiesta, in un articolo apparso ieri dal titolo “il Ministro della Giustizia non conosce la giustizia” sostiene che i riferimenti fatti da Carlo Nordio alle indebite divulgazioni delle intercettazioni captate nell’inchiesta di Perugia sull’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara sarebbero erronei. Ciò in quanto il decreto Orlando «si applica ai procedimenti penali iscritti successivamente al 31 agosto 2020» laddove l’indagine perugina nei confronti di Palamara è del maggio 2019.
Secondo Fittipaldi, poi, Nordio avrebbe anche «scritto il demenziale decreto legge sul rave». Ci permettiamo di far osservare a Fittipaldi che il decreto sul rave è uscito dalle stanze del Viminale e non da quelle di via Arenula e che, per quanto riguarda il presunto errore sul decreto Orlando, le intercettazioni dell’inchiesta di Perugia sono state pubblicate dal Corriere, da Repubblica e dal Messaggero, a partire dal 29 maggio 2019 e a ritmo quotidiano, laddove non erano state depositate ai difensori e risultano pervenute al Consiglio superiore della magistratura soltanto il 3 giugno successivo.
Dovrebbe essere quindi facile comprendere che le divulgazioni pilotate di cui parla Nordio trovano la propria disciplina direttamente nell’articolo 326 del codice penale, “rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”, e non nel decreto Orlando che prevede un complesso meccanismo di segretezza per le intercettazioni lecitamente depositate ritenute non rilevanti.
La differenza, che non pare sia stata colta dal vicedirettore del quotidiano di Carlo De Benedetti, non è solo nella rilevanza penale della condotta di coloro che hanno, il 28 maggio 2019 o prima, consegnato a ben tre organi di informazioni trascrizioni di intercettazioni quando queste erano ancora in corso presso l’autorità giudiziaria di Perugia, ma anche nella “finalità” da costoro perseguita. "Finalità” che non era certo quella di accertare i reati per i quali si procedeva, vale a dire la presunta e fumosa corruzione di Palamara, bensì quella di impedire che venisse nominato Marcello Viola procuratore della Repubblica di Roma.
Ci auguriamo che queste ovvie considerazioni costituiscano per il futuro una più solida premessa per comprendere la gravità di ciò che è successo, giustamente evidenziata da Nordio.
ALESSANDRO SALLUSTI per Libero Quotidiano il 19 dicembre 2022.
Siccome la mamma dei bugiardi, come quella dei cretini, è sempre incinta, in queste ore l'associazione più screditata e impunita d'Italia, quella dei magistrati, vuole farci credere che, se passasse la riforma della giustizia che ha in testa il ministro Carlo Nordio, in Italia non si potrebbe fare un'inchiesta come quella che ha scorperchiato lo scandalo del Qatargate.
Un'inchiesta che, a quanto si sa, ha fatto largo uso di intercettazioni telefoniche. Ma chi l'ha detto che il Guardasigilli vuol ridurre l'uso delle intercettazioni? Semmai, Nordio vuole limitare l'utilizzo delle intercettazioni, che è cosa diversa e allineerebbe la giustizia italiana a quella belga.
Fateci caso: da giorni i quotidiani pubblicano paginate sul più grande scandalo che abbia mai coinvolto i vertici dell'Unione Europea ma ancora non abbiamo letto una sola delle migliaia di intercettazioni eseguite.
Questo per due motivi. Il primo è che, come sostiene Nordio, le intercettazioni non sono una prova ma uno strumento di indagine; nel senso che, se io al telefono dico di aver ucciso Tizio, bisogna che Tizio sia trovato morto e si provi la mia colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Il secondo motivo attiene all'etica, e purtroppo quella della magistratura italiana è ridotta ai minimi termini.
Nessun magistrato belga si permetterebbe mai di diffondere ai giornali, e neppure di allegare agli atti giudiziari, intercettazioni il cui contenuto ha a che fare con la vita privata degli imputati ma non con i capi di accusa. Nei corridoi dei palazzi di Bruxelles si dice che, se ciò avvenisse- la divulgazione di fatti privati -, ci sarebbe da divertirsi perché, come in tutte le storie di potere, sesso e intrighi familiari giocano un ruolo fondamentale. Ma in quel Paese i magistrati non vogliono divertirsi bensì applicare la giustizia e dare alla caccia ai cattivi.
Per cui chi prova a fermare Nordio lo fa solo per mantenere un vantaggio illegale, ma soprattutto immorale, nel raggiungere obiettivi politici tramite l'uso improprio delle intercettazioni, che in Italia sono diventate la droga della giustizia che spesso maschera l'incapacità investigativa di una generazione di magistrati cresciuta pensando che origliare sia l'unico modo per applicare la legge. Cosa di cui, per capirci, sono convinti pure Putin e gli ayatollah iraniani.
I magistrati sono diventati potere autonomo: un’anomalia che Nordio può riequilibrare. Il ministro ha l’esperienza per valutare questa deviazione della quale si discute da troppi anni. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il
17 dicembre, 2022
L’intervento del ministro Nordio alla Commissione Giustizia del Senato contiene un programma completo di riforma della giustizia: lo aspettavamo da anni, e non avremmo mai potuto immaginare che fosse un ex pm di un governo di destra a pronunciarlo!
Si tratta di un programma coordinato che si riferisce al complessivo campo della giustizia, alla organizzazione degli uffici giudiziari a quello delle carceri, e dunque meraviglia che tanti magistrati e tanti commentatori faziosi o schierati si siano soffermati solo su aspetti che suscitano facilmente polemiche perché riguardano il rapporto tra la politica e la giustizia e soprattutto il potere che i magistrati hanno acquisito e non sono disposti a rinunziare. La Costituzione ha disciplinato la magistratura come “ordine autonomo” e i magistrati sono diventati “potere autonomo”.
Si tratta di una constatazione che altera il rapporto tra i poteri dello Stato e che deve essere la premessa per qualunque riforma della giustizia.
In una democrazia così articolata come quella che abbiamo costruito in questi anni, un equilibrio dei poteri non può essere garantito con una magistratura autonoma, “separatista” svincolata dai sistemi di controllo che la Costituzione prevede per ogni istituzione, ma da una magistratura capace di esaltare la sua indipendenza insieme ad una responsabilità istituzionale. Questo il vero problema e questa la grande sfida.
Il ministro ha la consapevolezza e l’esperienza personale per valutare questa deviazione della quale si discute da oltre trent’anni, e propone profonde modifiche per ridare la giusta e equilibrata indipendenza all’ordine giudiziario, necessaria per l’ordine democratico del paese. È un tentativo ardito e difficile, ma ha garantito il suo impegno e la sua permanenza al Ministero.
Naturalmente questo programma, che mi auguro sia di tutto il governo e non solo del Ministro, va discusso e verificato nel Parlamento con il contributo di chi è interessato al bene della magistratura e all’efficacia di una giustizia che rispetti il cittadino e la società civile. Assistiamo invece a polemiche smodate, a insulti al Ministro, all’ironia sulla sua consolidata professionalità!
L’Associazione dei magistrati in prima linea mostra avversione e rifiuta con tutte le sue componenti l’impianto riformatore, confermando che le correnti, che prima erano vivaci e valide per discutere e approfondire le problematiche complesse della giustizia ora sono, come è opinione diffusa, organizzate solo per dividere potere e incarichi.
Il vasto programma di riforma enunciato da Nordio è utile dunque per organizzare una magistratura credibile e accettata dai cittadini e per determinare una giustizia unitaria e efficiente, ma è osteggiato dalle oligarchie interne alla magistratura e dalla politica che vuol essere di supporto.
Veniamo da una legislatura che ha fatto strage dell’ordinamento soprattutto penale deturpandolo. utilizzare il rancore sociale per inventare reati e inasprire le pene in maniera non proporzionale, come pure è stato fatto all’inizio della legislatura, è stata la preoccupazione costante del movimento cinque stelle con la complicità del PD e della lega, dei tradizionali giustizialisti che hanno avvelenato il clima di questo paese e la convivenza civile.
Dobbiamo quindi constatare che da Tangentopoli in poi per la prima volta ci troviamo di fronte ad un Ministro che fa un’analisi realista della situazione e indica rimedi.
È doveroso dare la massima fiducia al Ministro e sperare che il programma venga davvero realizzato.
Il programma, come ho detto, spazia dalla giustizia civile già riformata dal precedente governo, all’integrazione dei processi di innovazione e di trasformazione digitale, con la consapevolezza che il progresso degli strumenti tecnologici di analisi è necessario per garantire i servizi giudiziari ai cittadini; allo sviluppo della funzione statistica che consente un continuo monitoraggio del sistema; alla previsione di una particolare riforma delle carceri per garantire dignità ai detenuti.
È forte la consapevolezza di ottenere queste riforme entro il prossimo anno anche per assecondare l’attuazione del Pnrr. Il Ministero della giustizia ha un rapporto del tutto particolare con la magistratura che è indipendente, ma ha pur sempre il dovere di regolare l’“organizzazione giudiziaria” e intervenire legislativamente sulle patologie che si determinano e che si sono determinate negli ultimi anni in misura ragguardevole.
Di conseguenza tutto questo non può essere fatto contro “l’Associazione” e contro il CSM, ma l’Associazione e il CSM non possono mettere in campo pregiudiziali e rifiutare il confronto.
Da sempre, anche per una mia diretta esperienza, i magistrati non accettano nessuna riforma, come se sul campo della giustizia andasse tutto bene, con il presupposto ripetuto come un mantra che ogni riforma “attenta all’autonomia e alla indipendenza”. Ma ora che la situazione è diventata grave, per convincimento di tutti, come non rendersi conto che vi sono patologie e distorsioni che non possono non essere “curate”. Le principali sono quelle di sempre che il Ministro ha elencato, e siccome sono state trascurate sono diventate vistose.
Per brevità di spazio elenchiamo le più importanti. La Costituzione stabilisce che il processo deve avvenire con un contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, con un giudice terzo, al di sopra delle parti; l’imputato non deve essere considerato colpevole fino alla decisione del giudice; l’obbligatorietà dell’azione penale deve servire per l’uguaglianza del cittadino e quindi non presuppone una discrezionalità del pm che ormai è legata alla iniziativa personale del singolo magistrato; l’azione penale non può essere appesantita da un uso smodato delle intercettazioni che dovrebbero essere un mezzo per la ricerca della prova e non diventare di per sé prova; la deformazione dell’informazione di garanzia determina un processo mediatico che intacca le libertà del cittadino soprattutto se fatte su persone non indagate delegittimandole; l’azione penale iniziata con assoluta discrezionalità senza alcun controllo che è un’assoluta eccezione rispetto agli ordinamenti giudiziari dei paesi a democrazie avanzata; la distinzione dei “mestieri”, tenuto conto che il pm ha un compito distinto e diverso dal giudice e fa un mestiere diverso, come ci ha detto ripetutamente un magistrato di grande livello come Falcone.
Questi criteri fondamentali sono disattesi e quindi è in crisi il rapporto tra i poteri dello Stato tant’è che il Presidente della Repubblica Mattarella ha detto al Parlamento di fare leggi in modo da “garantire l’equilibrio delle decisioni” e ai magistrati, di “conoscere i limiti della propria funzione“ che non è quella etica per fare vincere il bene sul male ma è quella di reprimere l’illegalità; di “rifiutare il consenso“ nell’attività giudiziaria, di recuperare il “principio di imparzialità, “ di rifiutare il protagonismo, di garantire la riservatezza nei riguardi dei processi per non “apparire di parte“ forzando i dati della realtà!
Questo il monito del Capo dello Stato, e il programma di Nordio risponde a quelle domande, per cui è auspicio di tutti che vi sia da parte dei magistrati illuminati, che pur vi sono, la volontà di un confronto non pregiudiziale né di rifiuto, ma di aiuto a trovare soluzioni adeguate nell’interesse della giustizia e per la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini.
Toghe Politiche.
Influenze democratiche.
Toghe Rosse.
Toghe e sabotaggi.
Antonio Giangrande: la Magistratura? Ordine al servizio dello Stato, non Potere dello Stato.
La separazione tra i poteri dello Stato (esecutivo, legislativo, giudiziario)? Solo nella Francia di Montesquieu (esecutivo, legislativo, giudiziario) e nella mente dei comunisti, da usare come clava contro I Governi avversi.
Cosa dice la Costituzione.
Art. 1. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Cos'è la sovranità popolare e come si esercita?
Al Popolo è riservata l'effettiva capacità, votando, di decidere in prima persona o tramite rappresentanti eletti sulle questioni politiche di fondo: secondo la formula (sviluppata dal francese Burdeau) della democrazia governante, è il popolo stesso ad assumersi così la responsabilità del proprio destino.
Che cosa vuol dire che la sovranità appartiene al popolo?
Con esso, conformemente all'etimologia del termine democrazia (dal greco antico δῆμος, dêmos, "popolo" e -κρατία, -kratía, "potere"), si intende che la sovranità, cioè il potere di comandare e di compiere le scelte politiche che riguardano la comunità, appartiene al popolo.
Come i cittadini esercitano la sovranità?
Non ci sono alternative; infatti la sovranità si esercita attraverso la delega (Parlamento e di conseguenza Governo), oppure attraverso lo strumento diretto del referendum o con una serie di strumenti giuridici (es. l'iniziativa di legge) che sfociano pur sempre nella delega, perché se una legge non viene discussa da un Parlamento, non entra in vigore.
Art. 104. La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.
In ambito concettuale-letterale prevale il termine Ordine o Potere?
E’ chiaro il senso letterale dell’articolo. Si stabilisce che la Magistratura è un Ordine, autonomo ed indipendente dagli altri Poteri, ma non elevato al pari di essi.
Magistratura come Potere?
Roberta D’Onofrio, giudice Tribunale di Campobasso, l’1/07/2020 su unicost.eu
SOMMARIO: 1. La magistratura nel dibattito dell’Assemblea Costituente. – 2. La magistratura come “potere”?. – 3. La magistratura come “servizio”.
1- La magistratura nel dibattito dell’Assemblea Costituente
La terminologia costituzionale per definire la magistratura varia secondo i punti di vista adottati di volta in volta.
La magistratura è disciplinata nel Titolo V della Costituzione. Nel primo comma dell’art. 101 la funzione è definita come giustizia; nel secondo comma dell’art. 101 -nella sua stesura iniziale- si faceva riferimento ai magistrati e non alla magistratura, perché andava tutelata l’indipendenza dei singoli. Per l’art. 102 sono i magistrati ordinari, “istituiti e regolati dalla norme sull’ordinamento giudiziario”, ad esercitare la funzione giurisdizionale. Nell’art. 104 la magistratura, composta dai magistrati ordinari, costituisce un “ordine”. Per l’art.107, primo comma, i magistrati (quelli ordinari) sono inamovibili, mentre per l’ultimo comma il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite dall’ordinamento giudiziario. Si prevede, poi che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della forza pubblica ai sensi dell’art. 109.
Ebbene, il Costituente ha utilizzato una terminologia ed un lessico tanto vari che sostenere il superamento della qualifica della magistratura come “ordine”, stabilito nel primo comma dell’art. 104, avrebbe bisogno di qualche ulteriore elemento di sostegno.
Nella sua relazione l’on. Ruini, che presiedeva la sottocommissione della Costituente che si occupò della stesura del Titolo IV, non ebbe dubbi: “la magistratura è autonoma e indipendente. Non è soltanto un ordine; è sostanzialmente un potere dello Stato, anche se non si adopera questo termine, neppure per gli altri poteri, ad evitare gli equivoci e gli inconvenienti cui può dare luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente”.
A proposito dell’art. 107 si era discusso, in seno all’Assemblea Costituente, se alla magistratura requirente andasse estesa la disciplina di quella giudicante.
C’era stato chi (l’on. Bettiol) avesse rilevato che il pubblico ministero “in tutti i regimi liberali … è considerato come organo del potere esecutivo”. Sulla stessa scia si era posto l’on. Leone, il quale aveva proposto di modificare l’ultimo comma nel senso di stabilire che “Il pubblico ministero è organo del potere esecutivo. Un particolare corpo di polizia giudiziaria è posto alla sua esclusiva dipendenza”; ma successivamente l’on. Leone rinunciò alla proposta, aderendo all’idea di lasciare alla legge ordinaria la disciplina relativa al pubblico ministero.
Mentre nel concetto di “ordine” rientrano tutti i magistrati ordinari, al pubblico ministero non sono applicabili le norme sui giudici. Ancora l’on. Leone rilevò che “Tale formula (l’emendamento che si stava discutendo) esprime questa nostra opinione: che, essendosi creato l’ordine giudiziario, nel seno di questo ordine occorre una gerarchia di funzioni. Così la Corte di cassazione è la competenza più alta rispetto agli organi inferiori di merito; ma in questa gerarchia non devono giocare i gradi come per gli impiegati dello Stato … Occorre soprattutto esprimere questo desiderio e questa aspirazione: che in seno alla magistratura non si discuta di gerarchia di gradi …, ma che vi sia diversità di funzioni, cioè di attribuzioni di organi, che possono essere maggiori o minori, ma esprimono maggiore o minore ampiezza di giurisdizione, non di grado”.
Che questo principio inserito nel terzo comma dell’art. 107, secondo l’on. Leone, non andasse esteso al pubblico ministero, è confermato dalla sua proposta di rimettersi alla disciplina della legge ordinaria, come poi previsto nel quarto comma dell’art. 107.
Si è così arrivati oggi al d.lgs. 20 febbraio 2006 n. 106.
2. La magistratura come “potere” ?
L’articolo 101 della Costituzione sembra escludere che si possa considerare la magistratura come un “potere” secondo lo versione ormai tradizionale: infatti, intesa come corpo che esercita la giurisdizione, rimane soggetta soltanto alla legge come è confermato dal secondo comma dell’art. 101 della Costituzione.
E, allora, come la magistratura possa ritenersi indipendente dal “potere” legislativo?
Siffatta imprecisione, pertanto, dovrebbe orientare a non enfatizzare il tenore letterale del primo comma dell’art. 104 della Costituzione, laddove la magistratura è definita come “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”, così da indurre i commentatori a ritenere che anche la magistratura sia concepita dal Costituente come “potere” dello Stato.
La nozione di potere ha da sempre richiamato l’interesse dei cultori di diverse discipline, filosofi compresi. Andrebbe seguita, almeno in questa sede, la nozione positiva desumibile dalla struttura dello Stato che si ricava dalla Costituzione: la nozione di “potere” legittima a compiere scelte di fondo, ad individuare i fini da perseguire e i mezzi da utilizzare. Il popolo, anche se sovrano, per la sua struttura diffusa non è in grado di predisporre ed attuare direttamente programmi operativi, sicché ne delega il compito ai suoi rappresentanti.
Pertanto il potere primigenio -facente capo al popolo- non viene esercitato direttamente, ma passa al rappresentante scelto attraverso elezioni periodiche: in via diretta al Parlamento che provvede attraverso le leggi; in via indiretta al Governo che compie le scelte entro i limiti fissati dalle leggi.
Mentre il Parlamento deriva il suo potere direttamente dal popolo, al Governo perviene attraverso la volontà parlamentare.
La giurisdizione può essere definita “potere”?
Al giudice non è richiesta né consentita una scelta di opportunità tra diverse soluzioni, ma l’applicazione delle norme nei casi che gli sono sottoposti attraverso l’interpretazione della legge.
Interpretazione che è caratterizzata dalla c.d. “discrezionalità tecnica” e, cioè, è condizionata dalla scelta tecnico-giuridica influenzata dalla preparazione e dallo spessore culturale del singolo magistrato, nonché inevitabilmente dal suo profilo umano, dal suo modo di vedere la realtà e le cose, dalla sua sensibilità.
Per questo la qualifica di magistrato non deriva da una investitura, diretta o indiretta, da parte del titolare della sovranità, ma dal superamento di prove tecniche.
E Salvatore Satta, in spregio ai positivisti cultori dell’assoluta certezza del diritto, lanciava lo slogan: la forza del diritto è quella di essere un’opinione.
Opinione, aggiungo, che si forma sulla base del bagaglio tecnico e culturale in possesso del singolo magistrato.
3- La magistratura come “servizio”
La valutazione dell’ “in se” della funzione giurisdizionale porta a propendere per la definizione più appropriata della stessa come finalizzata a svolgere un “servizio”.
Per servizio, accompagnato dall’aggettivo pubblico, si intende in genere l’attività di natura imprenditoriale che, per gli interessi generali che soddisfa, è regolata dal diritto pubblico e svolta da soggetti pubblici o da privati, ma sempre in base ad un rapporto di diritto pubblico.
Non è detto, però, che solo questi possano essere definiti servizi; infatti vi possono rientrare senza dubbio anche quelle attività, che ugualmente non richiedono valutazioni di opportunità e -anche quando sono discrezionali- lo sono solo nella scelta delle soluzioni tecniche.
Il giudice svolge un servizio predisposto nell’interesse delle parti tra le quali è insorta una contestazione, decidendo caso per caso -senza effetti per chi non vi ha partecipato- dopo avere individuato la legge applicabile attraverso un’indagine di natura tecnica.
Come per certi servizi pubblici è consentito che siano svolti da privati, così il giudice, a certe condizioni, può essere sostituito da arbitri la cui decisione si inserisce nel sistema complessivo della giustizia. Se si fosse di fronte ad un vero potere, questa sostituzione sarebbe difficilmente giustificabile.
Quella del giudice di merito nella valutazione dei fatti, che sono provati, si può chiamare discrezionalità, purché sia chiaro che non possa essere esercitata secondo criteri di opportunità: il giudice deve ricostruirli nella configurazione coerente con gli elementi emersi nel processo e ne deve dare contezza attraverso la motivazione.
Quanto all’attività interpretativa, poi, una volta che la Corte di Cassazione abbia enunciato il principio di diritto, non ci dovrebbero essere questioni ulteriori, perché il principio enunciato in riferimento al caso concreto deve essere declinato dal giudice sempre allo stesso modo, nel pieno rispetto del principio di uguaglianza.
Succede, invece, che della stessa norma la Corte di Cassazione dia interpretazioni diverse.
Alcuni costituzionalisti, chiamati a discuterne, pur concordando sul mancato rispetto del principio di uguaglianza, hanno concluso che -per come è strutturato il procedimento- non sia possibile portare la questione davanti alla Corte Costituzionale.
Inoltre, secondo alcuni commentatori, lo sconfinamento della giurisdizione si spiegherebbe, e si giustificherebbe anche, con l’insufficienza della politica attuale che spesso non in grado di assolvere ai propri compiti; in questa evenienza la magistratura sarebbe costretta ad intervenire per risolvere problemi che altrimenti rimarrebbero insoluti. Sarebbe l’applicazione di una specie di legge di vasi giuridici intercomunicanti: quando viene meno la pressione di uno (la politica), interviene automaticamente la compensazione dall’altra (la giurisdizione).
A ben vedere, però, siffatta evenienza rappresenta una forte anomalia, atteso che la stessa ragione fondante la giurisdizione è costituita dalla soggezione del giudice unicamente alla legge e dall’obbligo di fornire interpretazioni sempre costituzionalmente orientate, laddove non sia proprio strettamente indispensabile investire la Corte Costituzionale.
Ebbene, per segnare il confine fra attività interpretativa legittima e corretta gestione del “servizio” giustizia, la soluzione non può essere -nell’attuale contesto storico- che quella di individuare nel Valori e nei Principi fondamentali disegnati nella Carta costituzionale gli sbarramenti invalicabili dell’esercizio della discrezionalità tecnica spettante al magistrato, ovunque egli stia svolgendo le sue funzioni ed esercitando le sue prerogative: ciò sia nell’esercizio della giurisdizione quale giudice di merito o di legittimità, sia nello svolgimento di attività amministrative come fuori ruolo che nelle prerogative di componente del C.S.M..
La concezione della magistratura come “servizio” pubblico va fondata sul rispetto dei valori della Costituzione (solidarietà, uguaglianza formale e sostanziale, libertà e centralità della persona, buona amministrazione, rispetto delle minoranze e delle peculiarità territoriali), riconoscendo in questi valori i propri limiti e confini invalicabili.
In questo modo si può restituire dignità alla delicata funzione riconosciuta dall’ordinamento agli interpreti e garanti dell’inviolabilità dei diritti.
La magistratura in Italia: ordine o potere? Considerazioni giuridico-costituzionali di un giovane avvocato
Quanto della famosa separazione tra i poteri dello Stato (esecutivo, legislativo, giudiziario) operata da Montesquieu – e alla base delle moderne democrazie – è stata accolta nella nostra Costituzione ? E, soprattutto, cosa accade quando si è in presenza di una “cronica” debolezza del potere esecutivo e legislativo ? A cura di Redazione Diritto su fanpage.it il 15 febbraio 2013
Questo articolo è a cura dell’Avvocato Giuseppe Palma del Foro di Brindisi. Appassionato di storia e di diritto, ha sinora pubblicato numerose opere di saggistica a carattere storico – giuridico..
La magistratura in Italia: ordine o potere?
Considerazioni giuridico – costituzionali di un giovane avvocato.
Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura.
Se il pensiero del filosofo francese poteva andar bene in un periodo in cui tutti e tre i poteri erano concentrati – nell’ottica del dispotismo assoluto – nelle mani del re, nel corso dei due secoli successivi la situazione ha avuto uno sviluppo differente.
A mio modesto parere, la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere – in senso stretto – dello Stato, infatti per poter parlare tecnicamente di potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio.
Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo).
Per rendere maggiormente masticabile questo meccanismo, è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale.
A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli scudieri – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di potere. Se si legge il Titolo Quarto della Carta costituzionale è scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost. : <<La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…>>. Fatti chiaramente salvi i principi di autonomia e indipendenza contro i quali nessuno mai si sognerebbe di scrivere neppure un rigo, osservi il lettore che la Costituzione parla – addirittura in maniera esplicita– solo di Ordine, guardandosi bene dall’usare il termine potere.
Se fino alla fine degli anni Ottanta questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo. E mi riferisco, ad esempio, a quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista e giacobina racchiusa nelle parole <<resistere, resistere, resistere…>>! Alla “faccia” della Costituzione e del principio della separazione dei poteri!
Non me ne voglia nessuno, ma quando si ha intenzione di difendere la Costituzione bisogna sempre farlo in buona fede e con imparzialità, e non solo quando risulta utile al fine di tutelare gli interessi corporativi di una categoria.
Mai la Magistratura deve sentirsi legittimata a sostituirsi alla politica; anche di fronte a periodi di debolezza di quest’ultima, la Magistratura non deve mai indossare una veste che non sia quella che le ha ricamato su misura la Costituzione e, allo stesso tempo, mai la politica deve utilizzare la giustizia per i propri scopi. Atteggiamenti differenti hanno prodotto e continueranno a produrre gravissimi danni allo Stato di Diritto ed ai principi di libertà e democrazia.
A tal proposito, se non ricordo male nel 2010, vidi sulla prima pagina dei giornali alcuni magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. Ne rimasi basito! Se si vuole difendere la Costituzione, e lo si vuole fare per davvero, la si deve prima rispettare… anche a costo di perdere determinate posizioni privilegiate. Riprendendo per un attimo quanto ho scritto pocanzi su quel gruppetto di magistrati che circa vent’anni fa andò in televisione per contrastare alcune legittime e sovrane decisioni del potere legislativo e di quello esecutivo, non ricordo di aver visto all’epoca giudici togati talmente affezionati alla Costituzione – come invece lo sono adesso – a tal punto da tenerne una copia tra le braccia con l’intento di difenderla…
E che dire, per esempio, di alcune sentenze della Corte di Cassazione?! Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse. Tutte queste deformazioni, se vogliamo continuare a vivere in uno Stato di Diritto, devono al più presto cessare!
Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma allora perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura si sono formate delle vere e proprie correnti? Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? Per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie? Perché assistiamo a tutto questo? Preferisco che sia il lettore, nella meravigliosa solitudine del proprio libero pensiero, a darsi una risposta.
Al momento mi è sufficiente trovare consolazione nel sapere che esiste una maggioranza di magistrati – e vi posso garantire che sono tantissimi – che svolgono onestamente il loro lavoro con professionalità, preparazione e serietà, senza alcuna mira o ambizione che non sia quella nobile e disinteressata di essere al fianco di tutti gli operatori del diritto – seppur ciascuno nel rispetto del proprio ruolo – per garantire ai cittadini l’unica cosa che conta per davvero: la Giustizia! Avv. Giuseppe Palma
Meloni da Dubai: «Nessuno scontro con le toghe, ma una parte di esse ci contrasta». La risposta di Magistratura democratica: «L'aggressione politico-mediatica che ci ha investito non ha alcuna giustificazione ma vorrebbe costringerci a rendere conto di una libertà, quella di associarsi e di riunirsi, prevista dalla Costituzione». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 2 dicembre 2023
«Una piccola parte della magistratura va fuori dalle righe e contrasta le misure del governo». L’ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, da Dubai a margine della Cop28 sul clima, che lascerà domani per dirigersi in Serbia e incontrare il presidente Alexander Vucic prima di far ritorno a Roma.
La presidente del Consiglio poi glissa sul rinvio a giudizio per il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove. «Alcuni magistrati ritengono che debba essere rinviato a giudizio, il pm che il caso dovesse essere archiviato, a questo punto è il caso di aspettare una sentenza passata in giudicato prima di dichiararlo colpevole», dice Meloni prima di entrare nel vivo delle polemiche seguite alle dichiarazioni del ministro della Difesa, Guido Crosetto, che ha parlato di una «opposizione giudiziaria».
L’inquilina di palazzo Chigi rivendica che «il governo ha lavorato per rafforzare la magistratura» e dice che non c’è «nessuno scontro tra politica e toghe». «Per chi viene da destra lo Stato è sempre un punto di riferimento, questo non vuol dire che non si debbano regolare delle cose che in alcuni ambiti abbiano dei problemi», conclude.
Alle parole di Meloni risponde, con una nota, Magistratura democratica, il sindacato contro cui ha puntato il dito Crosetto. «Negli ultimi giorni Magistratura democratica è stata oggetto di gravi attacchi da parte di esponenti di primo piano del governo e dei media – si legge nella nota delle toghe - è stata accusata di avere coltivato 'scopi cospirativi' e di voler svolgere un ruolo di 'opposizione giudiziaria'. Md respinge con fermezza tali accuse». E ancora: «L'aggressione politico-mediatica che ci ha investito non ha dunque alcuna giustificazione ma vorrebbe costringerci a rendere conto di una libertà, quella di associarsi e di riunirsi, prevista dalla Costituzione».
Guido Crosetto, "in Aula ho visto qualcosa di strano". Libero Quotidiano il 2 dicembre 2023
In aula alla Camera per "processare" Guido Crosetto "c'era poca gente. Ringrazio Schlein e Conte per la loro presenza. Hanno dimostrato che era vera la loro attenzione, mi è dispiaciuto che tanti di quelli che in questi giorni avevano detto che era grave non ci fossero questa mattina", le parole del ministro della Difesa una volta uscito da Montecitorio. L'atteggiamento delle opposizioni in Aula, sottolinea, è stato "strano, dovevano essere contenti. Sono venuto oggi, ho detto che volevo andare in commissione e non mi hanno voluto, ho detto che tornerò anche in Aula. Più di così? Posso passare il pranzo di Natale a casa di tutti...".
E' piuttosto amara l'ironia di Crosetto, protagonista dell'interpellanza chiesta da +Europa dopo l'intervista al Corriere della Sera in cui domenica scorsa aveva evocato possibili "manovre giudiziarie" contro il governo di Giorgia Meloni. "Ho sessant'anni e non sono mai stato sfiorato da nulla, non ho paura di nulla", rivendica davanti ai deputati il fondatore di Fratelli d'Italia. Orgoglioso della sua "libertà" di esprimere giudizi sul dibattito politico che coinvolge i magistrati e sulle posizioni espresse da alcuni di essi. "Forse ho sbagliato a non farlo di più, a non riprendere un ruolo politico, ne parleremo molto più diffusamente nella riunione che faremo prossimamente", ha affermato ancora, garantendo la sua disponibilità a una informativa come quella richiesta dalle opposizioni: "Se volete che venga verrò mille volte in Parlamento".
Crosetto denuncia di essere vittima di attacchi concentrici: "In questi giorni - afferma nel suo intervento a Montecitorio - è stato messo su un plotone di esecuzione ad personam: trasmissioni, insulti, interpretazioni malevole delle mie parole. Stia tranquillo l'onorevole Della Vedova, quando ho elementi per denunciare vado a denunciare, in questo caso era una cosa molto più semplice: una riflessione da fare in questo luogo. Poi parleremo anche di altri numeri che non sono quelli dello scontro fra politica e magistratura: di 30.778 innocenti finiti in manette negli ultimi vent'anni, tutti sconosciuti; parleremo delle scarse dotazioni che hanno i magistrati per fare il loro lavoro".
Sulle sue dichiarazioni è in atto un "tentativo di mistificazione", sostiene il ministro. "Rileggo in italiano: 'A me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura'. Ho mai detto incontri segreti? Cospirazioni?". Per Crosetto a muoverlo è solo la preoccupazione "da cittadino" per parole che giudica "gravissime. Io - spiega - ho trovato alcuni magistrati - ho sentito esponenti di Area (una delle correnti della magistratura associata, ndr) - che vedono nel governo un attacco alla magistratura, quasi che non voglia farla lavorare. C'è chi ha detto che il ruolo della magistratura deve essere quello di riequilibrare la volontà popolare. Ma chi ha responsabilità deve essere terzo: pensate se questa frase la avesse pronunciata un generale o un prefetto".
L'esponente di Fratelli d'Italia rivendica di non aver "mai attaccato la magistratura" nel suo complesso ma aggiunge: "Prima o poi questo scontro tra politica e magistratura dovrà finire". Poi rassicura: "Non penso che possa esistere una riforma della giustizia che vada contro la magistratura. Non penso e l'ho sentito anche in molti interventi di Area dire che si possa pensare 'a un conflitto permanente tra la magistratura e la politica'".
Toghe senza freni: manette a 30.778 innocenti. Il titolare della Difesa riferisce sulle frasi relative alle manovre dei giudici: "Mistificate". Camera semivuota. Fabrizio De Feo il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.
«Non pensavo che qualcuno potesse contestare un ministro che viene a rispondere a una interpellanza». Guido Crosetto, febbricitante, parla nell'Aula semivuota di Montecitorio. Nel mirino delle opposizioni c'è l'allarme lanciato dal ministro della Difesa sulle possibili inchieste ai danni del governo. «Mi hanno chiesto di essere presente in Antimafia? Certo. Me lo ha chiesto il Copasir e io certo. Ho dato la disponibilità a venire alla Camera? Certo. Sono venuto a rispondere con 39 di febbre. Però mi è stata chiesta una cosa (era stato il Pd a richiederla ndr) a cui ho detto no. Di sostituire l'informativa sul Medio Oriente di mercoledì che è fondamentale e importante».
L'aula non è certo gremita. Sono una trentina i deputati presenti a Montecitorio: tra questi i leader di M5S e Pd, Giuseppe Conte ed Elly Schlein, mentre c'è l'assenza pressoché totale di Alleanza Verdi Sinistra che pure aveva tuonato nei giorni precedenti. «In questi giorni è stato messo su un plotone di esecuzione ad personam: trasmissioni, insulti, interpretazioni malevole delle mie parole. Onorevole Della Vedova, sono profondamente colpito dal tentativo di mistificazione delle mie parole. Che anche lei, che conosco da decenni, sta cercando di mettere in piedi». Un botta e risposta al vetriolo che poi si stempererà più tardi con un caffè condiviso dai due alla buvette.
Crosetto mette il dito nella piaga: «Parliamo di numeri. Ad esempio, dei 30.778 innocenti in manette negli ultimi 20 anni, disconosciuti, non importanti...Possiamo parlare di tutto se volete». Il vero caso è questo.
«Non ho nessun problema a confrontarmi su frasi che io non trovo gravi. Non ho attaccato e non attaccherò mai le toghe - spiega - Non ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni. Do lettura di alcuni interventi pubblici che reputo gravissimi in cui qualcuno ha parlato di una magistratura che deve avere una fisiologica funzione antimaggioritaria a tutela dei diritti». Crosetto, insomma, non nasconde la convinzione che in Italia sia pressoché impossibile aprire un dibattito sereno sul rapporto tra politica e magistratura. «C'è chi ha detto che il ruolo della magistratura deve essere quello di riequilibrare la volontà popolare. Ma chi ha responsabilità deve essere terzo: pensate se questa frase la avesse pronunciata un generale o un prefetto. Ho ricevuto messaggi che mi dicono sei un pazzo, che coraggio, farai la fine di Craxi, sarai un obiettivo. Ma non mi sono posto il tema della mia tranquillità personale, ho posto il tema di riflettere su un argomento», «forse ho sbagliato in questo ultimo anno a non riprendere una parte di quel ruolo politico che il ruolo di ministro della Difesa mi ha impedito di fare per senso delle istituzioni».
In serata il ministro non nasconde una certa amarezza per alcune reazioni della magistratura. «In Parlamento ho auspicato una riflessione serena. Per tutta risposta, alcuni magistrati mi attaccano, dimostrando di non avere nemmeno colto il senso del mio discorso» spiega. «Ve lo confesso: sono molto turbato da questa aggressione gratuita e ingiustificata al ministro della Difesa, in un momento così delicato. Ad esempio la replica tanto arrogante e offensiva quanto gratuita del segretario di Md, che fa finta di non capire e stravolge il mio pensiero, non può essere liquidata in modo così sbrigativo».
Nessun passo indietro. Opposizione giudiziaria, Crosetto non fa dietrofront: “Toghe politicizzate”. IL MINISTRO IN AULA riferisce fatti noti e contrattacca, la giustizia super partes è nell’interesse di tutti. Davide Faraone (Iv) rilancia: avanti con riforme di Nordio. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Dicembre 2023
GUIDO CROSETTO – MINISTRO DELLA DIFESA
«Il governo può essere messo a rischio da una forma di opposizione giudiziaria»: sulle parole del Ministro della Difesa, Guido Crosetto, sulle quali si è ricamato a lungo, il titolare del dicastero di via XX Settembre ha riferito in aula ieri. E se è stato Benedetto Della Vedova di PiùEuropa, un garantista che viene dalle fila del partito radicale, ad aver richiesto l’audizione urgente del Ministro, c’è da immaginare che volesse andare a vederne le carte più per consonanza che per scetticismo. Perché il tema della magistratura associata che opera per correnti politicizzate è notorio. E l’opposizione giudiziaria un fatto storicamente accertato e difficilmente contestabile: c’è anche un manuale che illustra le istruzioni per l’uso politico della giustizia.
Lo ha scritto il capo della magistratura associata, Luca Palamara, nel momento in cui l’ha lasciata. Nel suo bestseller “Il Sistema” ha dettagliato come funziona il bilancino del contropotere giudiziario: con quali accordi interni, per quali vie sotterranee, attraverso quali canali la magistratura associata decida chi mettere nel proprio mirino. Il come, il perché viene dopo. Con l’installazione di decine di trappole, di telecamere, di captatori sui telefonini del politico-target: alla fine qualcosa deve venire fuori, l’obiettivo deve essere raggiunto. Colpito e possibilmente, affondato. Basta l’apertura di un’indagine, e non la sua conclusione, a segnare il cammino di una maggioranza di governo, a silurare l’esperienza di un politico. Ecco che le avvertenze di Crosetto, più che destare preoccupazione, suonano sin troppo scontate all’orecchio dei garantisti. E chi sperava di far risuonare nell’Aula di Montecitorio le circostanze precise di una qualche trama, è rimasto deluso.
«C’è un tentativo di mistificazione delle mie parole: le rileggo in italiano come lo saprebbe interpretare un qualunque bambino delle elementari: ‘a me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni’ Ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni? No». E Crosetto è andato avanti per diradare ogni polverone: «Io non attaccherò mai la magistratura e quando c’è stata la necessità di rivolgermi a un magistrato per denunciare dei fatti gravi l’ho fatto e se vi ricordate quest’estate anche lì da solo. Se vi ricordate questa estate abbiamo discusso del caso dossier, che è ancora in corso e che mi auguro arriverà alla fine, che parte da una mia denuncia coraggiosa, ai magistrati. C’erano cose di cui sono stato informato da denunciare? Mi sono affidato alla magistratura, perché io ho totale fiducia nella magistratura». D’altronde, è ancora il pensiero del ministro Crosetto, «Non penso che possa esistere una riforma della giustizia che vada contro la magistratura».
E difatti: «Non si può pensare a un conflitto permanente tra la magistratura e la politica», ha ribadito. Tuttavia, se richiesto, Crosetto si è detto pronto a «portare in aula decine di frasi che mi preoccupano». E poi ha incalzato: «Ho sollevato un problema perché non ho paura di nulla, sono pronto a venire altre mille volte in Parlamento. Qualcuno ha detto che ho detto queste cose perché temo le inchieste. No, in 60 anni non sono mai stato sfiorato da nulla». Racconta di aver ricevuto numerosi attestati di solidarietà: «In questi giorni ho ricevuto dei messaggi: ‘sei un pazzo’, ‘che coraggio’, ‘farai la fine di Craxi‘, ‘ti sei reso un obiettivo’… Sono illazioni, non sarò un obiettivo per nessuno”. Poi entra nel cuore della questione: “Io mi chiedo: il ruolo della magistratura è quello di riequilibrare la volontà popolare? E’ possibile che in questo Paese non si possa fare una riforma della giustizia? Sarà un caso che dal ’92 – De Mita ’92, D’Alema nel ’97 – ci sia stato un sommovimento che ha bloccato ogni tipo di riforma? Io non penso che si possa fare una riforma della giustizia contro la magistratura. Io penso che chi ha responsabilità deve essere terzo».
Crosetto si concede anche una battuta: «Voi mi avete tirato per i capelli che non ho a parlare di questo in un giorno in cui non sto bene, ma non mi sottraggo… Non mi sottraggo, perché ritengo un tema fondamentale non quello della magistratura contro il governo, ma quello di ridefinire gli ambiti in cui costituzionalmente ogni organo dello Stato deve esercitare il suo ruolo e potere…». Nessun passo indietro, dunque, ma anche una fotografia che inquadra lo stallo in cui versa la riforma della giustizia. E su questo punto i garantisti hanno fatto sentire la loro voce. «Le parole del ministro Crosetto sono da sottoscrivere punto per punto», ha detto Davide Faraone, capogruppo di Italia Viva alla Camera. «La domanda però resta la stessa: perché Giorgia Meloni non fa partire le riforme, anche per dare sostanza alle proposte di Crosetto e del guardasigilli Nordio? Il tema degli innocenti stritolati nella macchina della giustizia è sempre più pressante: il governo ha intenzione di muoversi concretamente? Accogliamo con soddisfazione la disponibilità reiterata anche oggi dal titolare della Difesa, di tornare presto in Aula per consentire un dibattito ampio aperto a tutti i gruppi. Servono proposte di legge da votare in fretta, non tesi da convegno», conclude.
Della Vedova non è soddisfatto, alla fine replica: «Non ha risposto nel merito». Crosetto e Della Vedova si rivedono fuori dall’Aula, alla buvette. Hanno tutti e due la gola secca e davanti a loro, in fila, c’è Elly Schlein. Il deputato di PiùEuropa torna a stuzzicare il ministro, chiedendogli conto anche delle presunte interferenze sulla magistratura del sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, denunciate dal quotidiano ‘Il Domani’. «Hai chiamato in causa me ma in realtà volevi Mantovano», scherza Crosetto, congedandosi. Il clima torna disteso. Ma la questione dell’opposizione giudiziaria rimane, ed è drammaticamente grave, quali che siano gli obiettivi del momento a Palazzo Chigi.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
«La magistratura? A me fecero una porcata. E Nordio è troppo timido». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 2 dicembre 2023
Clemente Mastella, che della guerra tra politica e magistratura fu vittima, parla oggi di una politica «troppo timida» e di un ministro Nordio «poco deciso». «Manca coraggio - dice - io subii una veraporcata».
Mastella, la guerra dei trent’anni tra magistratura e politica non è ancora finita?
Diciamo che ci sono ancora dei filamenti di quel periodo. Ma attenzione, non è corretto parlare di guerra tra magistrati e politica, ma tra alcuni magistrati e alcune parti della politica. Una guerra che di certo continua ancora oggi, perché non appena si affaccia all’orizzonte un tentativo parlamentare o governativo che sembra toccare l’autonomia dei magistrati scattano elementi che creano tensioni, difficoltà, incutono paura. Tentativi, chiariamo bene, che non toccherebbero minimamente l’autonomia della magistratura perché nessuno vuole mettere il potere giudiziario in subordine rispetto al potere esecutivo. Sarebbe incostituzionale e nessuno ci pensa.
Eppure alcuni tentativi in passato ci sono stati, e non appena qualcuno attacca una parte della magistratura, vedi il ministro Crosetto, si scatena il finimondo…
È come una partita di calcio. C’è una squadra che attacca, cioè la politica, e una squadra che difende, cioè la magistratura. Se il difensore comincia a tirare calci al centravanti quello si prende paura e smette di attaccare, per paura di prendere un calcio più forte, magari nelle parti basse. Il dato sconfortante è che la politica è fatta di partiti che hanno sempre tifato per la magistratura così da ottenere lo scalpo del partito avversario, non capendo che prima o poi viene preso lo scalpo di tutti. Da questo punto di vista è importante che non si faccia una battaglia singola. I curiazi soccombono sempre.
Lei ha combattuto per anni una battaglia da solo contro tutti: cosa ricorda di quel periodo?
La mia vicenda è quella di uno che era espressione del governo di centrosinistra e sono stato fottuto ugualmente. Quello che mi hanno fatto è stato di una brutalità incredibile. Mio figlio è stato per due anni sotto gogna mediatica perché un finto pentito diceva di avergli regalato una macchina quando ero ministro, e lui chiedeva di essere ascoltato e non lo ascoltavano. Ho subito umiliazioni incredibili. Alcune di quei magistrati hanno fatto pure carriera.
D’altronde anche i magistrati del caso Tortora hanno fatto carriera: ci sono altri episodi dei quali ancora non si dà una ragione?
Sono finito sotto processo a Napoli per concussione a Bassolino per una serie di nomine. Ebbene, Bassolino non è stato mai chiamato, non gli hanno mai chiesto se Mastella l’aveva concusso e per cosa. È come se a una donna stuprata non le viene chiesto chi l’ha stuprata. L’ho dovuto chiamare io a testimoniare anni dopo. Un pm dell’epoca disse che se avessero chiamato Bassolino e lui avesse detto di non essere stato concusso sarebbe finito il processo a Mastella. É stata una barbarie indicibile. Per fortuna c’è stato un giudice a Berlino, ma dopo 11 anni. Facevo il ministro, non l’usciere. Chi mi ridà la mia dignità? Andreotti mi disse «a me perlomeno hanno salvato la famiglia, a te neppure quella». Ero arrivato a 100 anni di galera. A mia moglie hanno dato una misura che non si dà nemmeno ai mafiosi. Non poteva muoversi, andare da sua madre, nulla. E questa gente ha fatto carriera.
Oggi però si parla di riforme, da quella sulle intercettazioni alla separazione delle carriere: andranno a buon fine?
Penso che il ministro Nordio si debba decidere. Sta facendo solo annunci da un anno, ad esempio sull’abuso d’ufficio. Ha una maggioranza granitica, io con la mia maggioranza sterile ho fatto l’indulto. Si dovrebbe abolire l’abuso d’ufficio, mettere mano alla legge Severino, poi concentrarsi su altro. La separazione delle carriere è più complicata, ma se si annuncia e poi non si realizza si finisce per perdere credibilità. L’abolizione dell’abuso d’ufficio è una richiesta bipartisan che arriva da tutti i sindaci.
Eppure sulla separazione delle carriere Forza Italia si è impuntata, paragonandola a premierato e Autonomia: c’è il rischio di uno strappo in maggioranza?
Se la devono vedere tra di loro. Le riforme si fanno tra maggioranza e opposizione o con spicchi di maggioranza in cui uno va avanti e l’altro retrocede. Ma la separazione delle carriere è ancora più importante del premierato, perché la giustizia tocca direttamente la vita dei cittadini.
Pensa che Nordio si senta un po’ tirato per la giacchetta dai partiti?
Nordio si trova in questa situazione imbarazzante per cui alcuni politici non si fidano di lui in quanto ex magistrato e alcuni magistrati non si fidano di lui perché passato alla politica. Ma come si dice dalle mie parti “scurdammoce ‘ o passato”. In base ai numeri della sua maggioranza deve portare avanti certe cose. Forza Italia si indigna, ma per cosa? Si vedono forse i risultati di questa indignazione? È il cittadino che deve indignarsi per una giustizia che funziona male, nonostante una marea di magistrati seri e preparati.
Crede che le correnti indeboliscano o rafforzino la magistratura?
Le correnti nella magistratura sono come le correnti della DC. Cioè si dividono nella discussione quotidiana ma poi, di fronte agli attacchi della politica, si uniscono. Ma chiariamo che io sono favorevole al dialogo tra politica e magistratura. Nonostante le botte che ho subito e le recriminazioni sul piano umano e di politica giudiziaria, visto che mi hanno fatto una porcata e spero che il Padreterno li giudicherà.
Cosa manca al ministro Nordio e alla politica per non farsi mettere i piedi in testa dalla magistratura?
Manca coraggio. C’è sempre timidezza. Mentre la magistratura, appena la si tocca, attacca sparata contro la politica, quest’ultima è timida. Immaginate se i protagonisti della vicenda Palamara fossero stati tutti dei politici: sarebbero stati arrestati tutti. Invece quanti sono stati arrestati per quei fatti? A qualcuno forse è stato contestato il traffico d’influenze?
C’è molto dibattito sulla questione intercettazioni: che ne pensa?
Penso che la discussione sia fuorviante. Tranne qualche imbecille, nessuno pensa che bisogna diminuire le intercettazioni contro la mafia. Ma bisogna avere il coraggio di dire che ci sono intercettazioni fatte oltre l’ordine costituzionale. A me hanno intercettato i figli, la scorta, di tutto, e non avete idee di cosa hanno combinato. A un certo punto scambiarono lo stipendio che prendevo da parlamentare europeo come un tesoretto all’estero, solo perché lo mettevo in una banca olandese.
Cosa direbbe oggi ai magistrati di allora?
Li ringrazio, perché mi hanno fatto finire nei libri di storia.
Procuratore Antimafia chiama, governo esegue. La finta guerra tra politica e magistratura: grave squilibrio democratico. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 2 Dicembre 2023
È sorprendente come la politica italiana si ostini ad immaginare ciclicamente implausibili complotti orditi dalla magistratura, e si rifiuti di cogliere e risolvere, invece, la vera patologia che da un trentennio affligge il nostro Paese. Immaginare riunioni carbonare di magistrati, o di correnti della magistratura, impegnate a pianificare assalti al governo inviso, serve solo a ridurre a caricatura un problema invece serissimo.
Il potere giudiziario ha consolidato un peso anomalo, che condiziona il libero e pieno esercizio di quelli legislativo ed esecutivo. Naturalmente, questo è accaduto per lo stratificarsi di complesse ragioni storiche, sociali e -certamente- anche politiche, che non è questo il luogo per ripercorrere. Siamo però tutti in grado di individuare almeno due anomalie che hanno reso possibile questo grave squilibrio democratico, e dunque siamo -o meglio, saremmo- in grado di intervenire seriamente, se solo lo volessimo, invece di cianciare di complotti.
La prima è quella della totale irresponsabilità del potere giudiziario. Mentre il potere legislativo risponde agli elettori e l’esecutivo al Parlamento, il potere giudiziario non risponde mai dei propri atti a nessuno. Nessuna responsabilità civile (legge storicamente e statisticamente disapplicata), nessuna responsabilità professionale (99,7% di promozioni). E appena ti azzardi ad immaginare qualche rimedio, come il fascicolo personale ed il vaglio delle performance, si scatena l’inferno. E subito il potere politico, mentre finge di ringhiare favoleggiando ridicoli complotti, si precipita, mansueto, a sterilizzare la riforma (il controllo, diversamente da quanto previsto dalla Cartabia, sarà ora “a campione”!).
La seconda anomalia, di dimensioni planetarie (siamo l’unico Paese al mondo a farlo), è l’esercito di magistrati fuori ruolo presso l’esecutivo, con un buon centinaio al Ministero di Giustizia, tutti nei posti chiave dove si fa la politica giudiziaria, o nella più moderata delle ipotesi si impedisce che venga fatta, quando sgradita alla casta. Dunque il potere giudiziario invade diffusamente l’esecutivo, condizionandolo in nome della “competenza tecnica”, mentre se ti azzardi ad ipotizzare una riforma del Csm che preveda una percentuale solo paritaria di membri laici (se ne parlò a lungo nella Costituente), ti saltano alla giugulare in nome della indipendenza violata della magistratura.
Ed ancora una volta, il mansueto governo si premura di sterilizzare quei pochi ma efficaci interventi previsti dalla riforma Cartabia, affidando la riscrittura delle norme sui fuori ruolo ad una commissione composta per i due terzi… da fuori ruolo! Morale della (triste) favola: non è in corso nessuno scontro tra politica e magistratura. Sono scenette per i gonzi, in favore di telecamera. La politica giudiziaria è saldamente nelle mani del potere giudiziario, per espressa e giuliva volontà politica (anche) di questo governo. E, quando non basta, il Procuratore nazionale Antimafia chiama, ed il governo esegue.
Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane
Magistratura contro governo, è tutto scritto nei documenti ufficiali. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 28 novembre 2023
A suo modo la diagnosi di Magistratura Democratica, la corrente di sinistra dei magistrati, è semplice: l’Italia ha un problema chiamato «maggioritarismo», che in sostanza è la pretesa della maggioranza di legiferare e governare autonomamente, forte della legittimazione elettorale. Ed è un problema perché i valori di chi ha vinto le elezioni deviano dalla Costituzione o sono addirittura «parafascisti», come ha spiegato il giurista ed ex giudice Luigi Ferrajoli al congresso di Md. La terapia sono loro, i magistrati. O meglio: «la magistratura e la sua fisiologica costituzionale funzione anti-maggioritaria a tutela dei diritti fondamentali», come ha detto due mesi fa Stefano Musolino, segretario di Md, al congresso di Area, la lista cui appartiene la sua corrente. Congresso dedicato proprio al «ruolo della giurisdizione all’epoca del maggioritarismo». È una vecchia convinzione, quella per cui la magistratura ordinaria, anziché applicare le leggi o sollevare questione di costituzionalità se le ritiene in contraddizione con la Carta, debba opporsi ad esse e a chi le ha varate. Già nella mozione con cui nacque Md, nel 1964, si legge che «il Costituente ha contrapposto il potere legislativo e il potere esecutivo da un lato e il potere giudiziario dall’altro, attribuendo quindi a quest’ultimo una posizione di formale e sostanziale autonomia». L’idea che il magistrato sia autonomo solo se si «contrappone» è rimasta, e la vittoria del destra-centro alle elezioni l’ha rafforzata.
LE RADICI NEGLI ANNI ’70
A Napoli, nel congresso di Md che si è svolto dal 9 all’11 novembre, Ferrajoli ha denunciato «la stretta alleanza tra le destre liberiste e le destre sovraniste e parafasciste», che in Italia è caratterizzata dalla «disumanità nei confronti dei ceti più deboli». Il «ruolo di Md», ha spiegato, deve essere allora «la critica e la garanzia dei diritti di fronte alle politiche illiberali e antisociali e, insieme, alle manomissioni della Costituzione promosse dalla destra». Del resto Ferrajoli, che oggi è professore emerito di Filosofia del diritto, fu uno degli autori del “libretto giallo» scritto in occasione del congresso di Md del 1971, nel quale si proponeva, «attraverso il collegamento organico con il movimento di classe, una cultura giuridico-politica alternativa all’ideologia tradizionale del diritto e della giustizia borghese».
Magistratura democratica ha una rivista, Questione Giustizia. Nell’ultimo numero l’editoriale di Rita Sanlorenzo, magistrato di Cassazione ed ex segretaria di Md, si conclude con un appello a fare muro dinanzi a governo e maggioranza: «Le più recenti prese di posizione della giurisdizione contro gli aspetti della legislazione che più macroscopicamente risultano in rotta di collisione con la nostra Costituzione e con la normativa eurounitaria lasciano ben intendere che, lungi dal seguire i venti della propaganda e dall’arrendersi al sentire della maggioranza, i giuristi ben sanno che cosa si richiede loro, tanto più in questi tempi così difficili». Chiaro il riferimento a Iolanda Apostolico e a suoi colleghi di Catania, che si sono rifiutati di applicare il “decreto Cutro”.
Il modello di magistrato che applica le leggi o le rinvia alla Consulta è ritenuto inaccettabile. La «funzione di garanzia» delle toghe, ha spiegato a marzo su Questione Giustizia l’ex giudice Nello Rossi, direttore della rivista, «non può essere assunta da un magistrato burocrate e richiede che l’interprete attinga nel compiere le sue scelte a valori indicati nella carta costituzionale e nelle carte dei diritti che si sono venute affermando». Il «burocrate» in toga è chi applica le leggi, «l’interprete» è colui che le osserva con la lente delle proprie convinzioni, arrivando a scelte come quelle della giudice Apostolico. Il «ruolo di garanzia dei diritti e della dignità delle persone e delle molte minoranze» spetta infatti ai magistrati. Ad esempio, spiega Rossi, per «l’affermazione di diritti dolorosi come quelli relativi al fine vita», ma anche per l’eguaglianza di genere, per la protezione dei diritti dei migranti e così via. Un programma di resistenza e supplenza a governo e parlamento. E il fatto che sia tutelato dalla libertà d’espressione non toglie che Guido Crosetto e i suoi colleghi abbiamo ottimi motivi per vedere dietro a questo profluvio di proclami il dispiegarsi di un’opposizione non parlamentare.
I magistrati fanno politica invece dell'unica cosa che serve davvero: una giustizia che funzioni. Andrea Soglio su Panorama lunedì 27 novembre 2023
I magistrati fanno politica invece dell'unica cosa che serve davvero: una giustizia che funzioni Le ennesime polemiche tra politica e magistratura hanno stufato i cittadini che chiedono e meritano una cosa ben diversa Dopo che da ieri siamo nel pieno dell’ennesimo braccio di ferro tra politica e magistratura stamane ho fatto una ricerca nell’archivio storico di Panorama. Il primo pezzo che tratta la questione è del 1987 e a leggerlo si scopre (a parte cambiare i nomi dei protagonisti di allora su entrambi gli schieramenti) quanto sia attuale. Quindi il messaggio che arriva dal profondo del cuore è semplice: basta, smettetela. Lo sappiamo, gli italiani lo sanno benissimo che c’è una parte della magistratura che fa politica stando fuori dal palazzo. Sono decenni che la cosa è evidente; da Tangentopoli ad oggi ce n’è per tutti i gusti: inchieste cosa è evidente; da Tangentopoli ad oggi ce nè per tutti i gusti: inchieste contro presidenti del Consiglio, ministri, familiari al momento giusto, iscrizioni nel registro degli indagati arrivate casualmente a certe redazioni prima che all’indagato stesso, così, giusto per fare un po’ di rumore. Quindi la cosa non ci stupisce, ci stanca soltanto. La Costituzione stabilisce che il nostro Paese sia basato sull’equilibrio tra tre poteri: esecutivo (Governo), legislativo (Parlamento) e giudiziario (magistratura). Un equilibrio dove ognuno ha il 33,3% delle azioni di una società ma dove, è nella natura delle cose, c’è sempre chi vuole anche fosse solo un briciolo di più, il 34% o 35%. Quello che però non va bene è che Parlamento e Governo sono di fatto rappresentazione della volontà democratica e popolare attraverso il voto mentre la magistratura è una corporazione a se, senza legami diretti con i cittadini e che, unica, si giudica da sola. Questa è l’anomalia, la stranezza. Ma, davvero, non se ne può più di queste polemiche inutili. Inutili poi per due motivi. Il primo è che la soluzione è a portata di mano: si faccia una seria riforma della giustizia che metta fine a questo equivoco e malessere interno al nostro ordinamento. Sarebbe quindi il caso che, oltre a denunciare i tentativi di «golpe» delle toghe, chi è al governo ed in Parlamento si applichi sul tema. C’è poi un’altra cosa che stride in tutto questo. La gente non ne può più di vedere che la magistratura si occupi di mali «esterni» al proprio settore di impiego mentre la giustizia italiana ha problemi strutturali enormi. Ad oggi, ad esempio, in alcuni tribunali si stanno discutendo ricorsi presentati 6 o 7 anni fa. È giustizia quella che tiene in attesa persone e vite per così tanto tempo? È degno di un paese civile tutto questo? Gli italiani, noi, meritiamo di più, per primo dai magistrati. È l’unica cosa che interessa davvero.
Stasera Italia, Facci smaschera la magistratura: “Lotta per il proprio potere contro la politica”. Il tempo il 27 novembre 2023
L’intervista del ministro Guido Crosetto al Corriere della Sera e il tema della giustizia sono al centro della puntata del 27 novembre di Stasera Italia, talk show di Rete4 che vede Nicola Porro alla conduzione. Per commentare le parole del titolare della Difesa viene interpellato Filippo Facci, giornalista di Libero: “Il Ministro Crosetto ha detto che teme un'azione della Magistratura, non ha detto che ci sarà, temere un’azione della magistratura nei confronti di un governo in Italia è un pensiero legittimo, quanto più di ovvio ci sia, questo alla luce della storia del nostro Paese. Ogni amministrazione, ogni governo, anche di sinistra, dovrebbe avere quasi come ragione sociale l’incrociare le dita e temere che non ci sia un’azione di un singolo magistrato, non dell’intera magistratura. Un singolo indipendente anche dall’azione dell’Anm, che ricordiamolo non è un partito politico, ma è come se lo fosse, perché un sindacato, unico, che esprime una posizione ovviamente politica praticamente su qualsiasi cosa, dalla guerra in Ucraina alle questioni che la riguardano".
“Non è – specifica ancora Facci - particolarmente un’azione della magistratura contro il governo Meloni, è un’azione della magistratura, ritenuta un potere e non un ordine, contro il potere politico, che dovrebbe avere il primato, ma in Italia non è così. C’è un condizionamento scritto nella Costituzione per il quale è la politica rispetto alla magistratura a venire in secondo piano, quindi questo condizionamento è possibile. Nel 2000 la magistratura fece anche ricorsi alla Corte Costituzionale quando c’era il governo D’Alema, che diede il colpo più forte mai tirato alla magistratura, sull’ex articolo 11 della Costituzione”. “E’ un potere non elettivo che davanti a qualsiasi governo, magari alcuni in particolare, vuole ergersi a status in qualsiasi condizione politica, è più sensibile ad alcuni colori politici che ad altri, ma in linea di massima la magistratura lotta per il proprio potere, che non ha eguali per come è configurato strutturalmente. Non è così in nessun Paese del mondo, vuole rimanere tale”, le parole con cui il giornalista vuole smascherare le toghe.
Il decreto approvato dal Cdm. Pagelle magistrati, come funziona la valutazione di professionalità e le gravi anomalie. Redazione su Il Riformista il 27 Novembre 2023
Due i decreti legislativi sulla giustizia approvati dal Consiglio dei Ministri. Dopo aver escluso l’ipotesi test psico-attitudinali, l’Esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha dato il via libera a due provvedimenti: il primo riguardante le ‘disposizioni sul riordino della disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili’. Il secondo relativo alle ‘disposizioni in materia di riforma ordinamentale della magistratura’ e in particolare sulle valutazioni di professionalità, le cosiddette pagelle per giudicare il lavoro dei magistrati.
Fino ad ora – si sottolinea nel decreto legislativo – si raccoglieva ogni quattro anni la documentazione utile per la valutazione del magistrato; ora il fascicolo viene alimentato costantemente e si specifica cosa deve necessariamente essere contenuto, ampliando le fonti di conoscenza ad ogni elemento suscettibile di interesse per la valutazione. In tema di valutazioni di professionalità si prevede che il periodo trascorso fuori ruolo o in aspettativa per lo svolgimento di incarichi elettivi o di Governo (anche presso gli enti locali) non è utile alla maturazione del quadriennio, e quindi il magistrato che assuma tali incarichi vedrà di fatto sospesa la propria progressione in carriera ed economica.
Viene inoltre dato maggiore rilievo, rispetto al passato, alla sussistenza di gravi anomalie concernenti l’esito degli affari nelle successive fasi e gradi del procedimento e del giudizio, e dunque al rigetto delle richieste formulate dal magistrato requirente o alla riforma dei provvedimenti del magistrato giudicante che siano dovuti a motivi particolarmente gravi o che siano particolarmente numerosi. (Si stabiliscono quali sono le gravi anomalie: devono essere particolarmente gravi o particolarmente numerose).
Snellito inoltre il procedimento per la valutazione prevedendo la predisposizione, da parte del Csm, di moduli standard estremamente semplificati e l’acquisizione del parere del consiglio dell’ordine degli avvocati. Si è introdotta, in caso di valutazione positiva, l’espressione di un giudizio solo sulla capacità organizzativa del magistrato (le voci di valutazione di un magistrato sono tante: indipendenza, imparzialità, produttività, laboriosità, ecc. Solo sulla capacità di “organizzare il lavoro” – voce che viene esminata al momento di concorrere per incarichi direttivi e semi-direttivi – la valutazione viene espressa secondo una scala di giudizio, da discreto a ottimo. Il giudizio non riguarda gli aspetti più strettamente correlati allo svolgimento del lavoro). In caso di valutazione non positiva o negativa, sono state ridotte le ipotesi di dispensa dal servizio, prevedendo comunque penalizzazioni economiche e di carriera per il magistrato. (Attualmente dopo una valutazione negativa, per non essere escluso dalla magistratura occorreva per il magistrato avere obbligatoriamente una valutazione positiva. Con la riforma, ora può esserci anche una valutazione non-positiva (che è diversa da negativa): in questo caso il magistrato rimane in magistratura, è rivalutato dopo un anno e perde aumento di stipendio e progressione di carriera. Ma c’è più tempo per recuperare, sul presupposto che da negativo il magistrato è già passato a non-positivo).
Magistrati fuori ruolo: le nuove disposizioni
L’altro decreto legislativo riguarda le disposizioni per il riordino della disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili. Sono precisati alcuni requisiti di anzianità per il collocamento fuori ruolo e per un nuovo collocamento fuori ruolo: nel dettaglio non si può essere collocati fuori ruolo prima del decorso di dieci anni di effettivo esercizio della giurisdizione e, fatti salvi incarichi presso istituzioni di particolare rilievo, sono necessari tre anni di esercizio della funzione giurisdizionale prima di un nuovo collocamento fuori ruolo se il primo incarico fuori ruolo ha avuto una durata superiore a cinque anni.
Viene codificato il principio della necessaria sussistenza di un interesse dell’amministrazione di appartenenza per consentire l’incarico fuori ruolo. Viene ridotto il numero massimo di magistrati collocati fuori ruolo: 180 per la magistratura ordinaria, comprendo in tale numero anche quelli che secondo la normativa previgente non erano considerati nel numero massimo dei magistrati fuori ruolo. Viene posto il principio che il numero di magistrati fuori ruolo presso organi diversi dal Ministero della Giustizia, degli esteri, Csm e organi costituzionali non può essere superiore a 40. Viene precisato che la disciplina non si applica agli incarichi elettivi e di governo, il cui periodo non si considera ai fini del computo del termine massimo di permanenza fuori ruolo. Il decreto legislativo si compone di 17 articoli. Nel Consiglio dei ministri di oggi non si è parlato dell’ipotesi – emersa questa mattina nel pre-Consiglio – di inserire test psico-attitudinali per le toghe.
Crosetto: «Gruppi di magistrati contro il governo». Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2023
Il ministro della Difesa: temo attacchi da qui alle Europee. Le polemiche della Lega? Ogni partito cerca visibilità. Sul conflitto israelo-palestinese l’Italia media dall’inizio, senza ambiguità
È appena tornato da una visita a Gerusalemme dove ha incontrato il suo omologo israeliano Yoav Gallant e segue da vicino e con preoccupazione l’evoluzione della fragile tregua che di ora in ora sembra o funzionare o bloccarsi. Ma ci spera Guido Crosetto, ministro della Difesa: «La pausa umanitaria e la liberazione degli ostaggi sarebbero la vittoria di un ampio fronte di Nazioni, fra le quali l’Italia, che vi ha avuto un ruolo di spicco. La scelta di discernere tra Hamas e popolo palestinese, l’impegno che abbiamo immediatamente preso per offrire aiuti umanitari — e siamo stati i primi, dopo essere stati gli unici, fra gli Stati occidentali, a farlo già per la Siria — ci permette di godere del riconoscimento internazionale di essere un Paese capace di saper discernere ed essere terzo, quando è giusto esserlo. Ci dà credibilità, possibilità di operare e anche maggiore sicurezza interna. Un grande risultato: non per il governo, ma per il Paese».
L’Anm: «Ministro fuorviante, la magistratura non fa opposizione ai partiti»
Crosetto parla a tutto campo. Sul caso Lollobrigida (che difende), sulla preoccupazione per la realizzazione delle opere del Pnrr, fino a lanciare una sorta di clamoroso allarme: «Questo governo può essere messo a rischio solo da una fazione antagonista che ha sempre affossato i governi di centrodestra: l’opposizione giudiziaria. Non mi sorprenderebbe, da qui alle Europee, che si apra una stagione di attacchi su tale fronte».
Partiamo da Israele: cosa sta facendo l’Italia?
«Abbiamo inviato moltissimi aiuti, sia in medicinali che strutturali, a partire da una nave ospedale, lo stato maggiore sta già preparando un ospedale da campo anche su terra, da installare al sud di Gaza, in territorio palestinese. Questo significa avere un rapporto equilibrato con entrambe le parti in causa. E va avanti fin dall’inizio un’incessante operazione di mediazione, anche grazie ai rapporti che intratteniamo con Israele e con i Paesi arabi. Come con il Qatar che ha avuto un ruolo importante in questa trattativa sugli ostaggi».
Che le ha detto il ministro della Difesa di Israele?
«Lo choc del 7 ottobre è per loro una ferita apertissima: non c’è più nessuno, in quel Paese, che si senta al sicuro, perché pensano che, ai loro confini, c’è chi voglia solo distruggerli. Quindi vogliono risolvere il problema di Hamas una volta per sempre».
In Italia l’opinione pubblica ha molti dubbi sulla risposta israeliana e c’è forte solidarietà ai civili palestinesi. Come tenere assieme sostegno ad Israele con questo?
«Il governo interpreta un sentimento diffuso quando dice che siamo per due popoli, due Stati. In modo chiaro e non ambiguo. Sappiamo bene che Hamas utilizza i civili come scudi umani per proteggere — sotto asili, scuole, ospedali, case — basi da cui si muovono armi e missili. Ma ad Israele diciamo che le Nazioni democratiche che si riconoscono nel diritto, Nazioni come la loro, non possono agire con i metodi che da quel diritto sono fuori, hanno un compito di protezione dei civili che sempre ci si deve porre, anche se purtroppo il nemico non lo fa».
Conte vi ha accusato di codardia. È deluso?
«Il male della politica italiana è l’attacco a prescindere, per interesse di parte. Ho 60 anni e conosco questa debolezza così come conosco l’attitudine di Conte a cambiare idea a seconda del ruolo che ricopre. Non mi stupisce».
Si divide anche la maggioranza: la Lega ha giudicato inopportuno il comportamento del ministro Lollobrigida. Lei?
«Lo scendere da un treno che portava due ore di ritardo, fermo, come lui stesso ha spiegato, e assieme ad altre persone, non mi sembra un privilegio. Trovo surreali queste polemiche».
E perché la Lega le fa?
«Perché ci sono le Europee, e tutti i partiti hanno necessità di mantenere spazi di visibilità. Il partito di maggioranza è sempre quello che subisce di più: quando era FI, con Berlusconi, ne ha dovuti inghiottire tanti di bocconi amari... Ora tocca a noi».
Sul Pnrr invece l’Italia ha ottenuto una promozione: d’ora in poi si aspetta la strada tutta in discesa?
«Le dico cosa ho scritto a Fitto in un messaggio subito dopo l’approvazione: sei stato molto bravo, non ne avevo dubbi, ma adesso la mia preoccupazione è se il tessuto burocratico, industriale, privato sarà davvero in grado di tradurre in opere i piani. Più quello privato, mi preoccupa, in verità».
Si riferisce alle aziende che hanno vinto gli appalti?
«Io dico che, per le opere pubbliche e industriali, mi auguro che le aziende, soprattutto la più grande del settore, che ha vinto moltissime gare sia in grado, cioè abbia la capacità tecniche, organizzative e finanziarie di realizzarle davvero, nei tempi previsti».
È questo il più grande pericolo per la continuità di questo governo?
«L’unico grande pericolo è quello di chi si sente fazione antagonista da sempre e che ha sempre affossato i governi di centrodestra: l’opposizione giudiziaria».
Ma cosa intende?
«A me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”. Siccome ne abbiamo visto fare di tutti i colori in passato, se conosco bene questo Paese, mi aspetto che si apra presto questa stagione, prima delle Europee...».
Complotto dei magistrati contro il governo: Crosetto ascoltato dall’Antimafia. Dopo le dichiarazioni che hanno scatenato forti polemiche, il Ministro della Difesa sarà ascoltato dalla Commissione. Crosetto ha anche dato disponibilità per confrontarsi con l'Associazione Nazionale Magistrati. Redazione Web su L'Unità il 27 Novembre 2023
Lo scontro tra la politica e la magistratura torna a scaldarsi. Il complotto dei magistrati contro il governo, evocato dal Ministro della Difesa Guido Crosetto, è finito all’Antimafia. Secondo quanto riportato da La Repubblica, il Partito Democratico ha chiesto alla presidente della Commissione Chiara Colosimo di fissare un’audizione con il Ministro. La data sarà scelta domani. Lo stesso Crosetto ha sempre dato la propria disponibilità anche per riferire in Parlamento e dinanzi al Copasir.
Complotto dei magistrati contro il governo: Crosetto ascoltato dall’Antimafia
A proposito, secondo quanto riportato dall’Ansa, al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica non è arrivata nessuna comunicazione e nessuna richiesta di audizione. Il caso è esploso dopo un’intervista rilasciata da Crosetto a Il Corriere della Sera. Nel rispondere a una domanda, il Ministro ha parlato di alcune riunioni svolte da una delle correnti della magistratura, nelle quali si sarebbe deciso di, “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni“.
Intanto Crosetto ha dato la sua disponibilità per confrontarsi con l’Associazione Nazionale Magistrati (Anm): “Se interessati, incontrerei molto volentieri il Presidente dell’associazione Magistrati Santalucia ed il suo direttivo per chiarire loro le mie parole e le motivazioni. Così capiranno che alla base c’è solo un enorme rispetto per le istituzioni. Tutte. Magistratura in primis”. Parole giunte dopo le forti critiche rivolte al Ministro dallo stesso Santalucia che aveva dichiarato:
Guido Crosetto e il complotto della magistratura contro il governo: l’Anm
“Non è più l’Anm a essere accusata di interferenza, ma la magistratura nell’esercizio delle sue funzioni. Dopo l’indagine sulla ministra Santanchè e dopo la notizia che un gip ha esercitato una prerogativa del codice è stata una nota di Palazzo Chigi di non meglio precisate fonti governative che ha accusato una parte della magistratura di schierarsi faziosamente nello scontro politico. Un’accusa pesantissima che colpisce al cuore la magistratura. Un attacco ancora più insidioso perché lasciato a fonti anonime di Chigi. Quello con la politica è uno scontro che stiamo subendo e che si è innalzato senza che noi si sia fatto nulla“.
La nota di Crosetto
“Mi stupisco dello stupore suscitato dalla mia intervista. Leggo commenti indignati di alcuni magistrati, come il presidente dell’Anm Santalucia, che dice che loro ‘non fanno opposizione politica’, o dell’opposizione che sostiene che ‘minaccio’ i giudici. Curioso e surreale. Intanto perché tutto ho fatto, tranne che minacciare o delegittimare qualcuno. Ma poi, davvero, dopo i casi Tortora, Mannino, Mori e la storia di centinaia di persone dal 94 ad oggi, si può nascondere come si è comportata, nella storia italiana, una parte (non certo tutta, ripeto) della magistratura? Penso proprio di no. Veramente dopo quanto ha raccontato (non e mai smentito) Palamara, qualcuno si stupisce di un mio passaggio, peraltro incidentale, in una lunga intervista che verteva su altro?
Crosetto e la magistratura: audizione in Parlamento e al Copasir
Ho fatto quel passaggio non superficialmente, non a cuor leggero, con l’amarezza di chi crede nelle istituzioni ed ha fiducia nella stragrande maggioranza della magistratura e che quindi si sente indignato qualora fosse vero quanto gli è stato riferito. Tra l’altro, mi sono premurato anche di comunicare anche ad altri le notizie che mi erano state riferite (da persone credibili) e che ritenevo gravi, ove e se confermate. Ho visto che alcuni parlamentari, come Della Vedova, mi invitano anche a riferire in Parlamento. Lo farò con estremo piacere, se sarà possibile farlo in commissione Antimafia o Copasir, per la necessità di riservatezza e di verifica delle notizie che ho ricevuto Redazione Web 27 Novembre 2023
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” – Estratti lunedì 27 novembre 2023
I politici di questo tempo scordarello, anche quelli che si ritengono di scarpe grosse e cervello fino, adorano lanciare allarmi generici quasi quanto abbandonarsi a grossolane semplificazioni. In realtà la storia delle contorte vicende italiane non parte da Atreju e il ministro Crosetto, che pure non risulta appassionato di fantasy, dovrebbe sapere che il grave e annoso conflitto fra politica e magistratura è questione un tantino più complicata di come l’ha messa giù lui – «ne abbiamo viste di tutti i colori» – parlando di «opposizione giudiziaria» a partire da un convegno cui era presente il suo collega Nordio.
Perché a nessuno piace apparire superbi e ancora meno saputelli, ma già dai primi anni ’80 il presidente del Consiglio Bettino Craxi, disturbato da scandali e indagini a ripetizione, ebbe i suoi guai con i giudici, tanto da indire un referendum, perso; e poi li ebbero i governi a guida Dc, sul caso Cirillo, la camorra e dintorni; e quindi il presidente della Repubblica Cossiga, in fase picconatoria, che se la prese con i «giudici ragazzini », uno dei quali era Rosario Livatino, assassinato dalla Stidda a 38 anni, la cui camicia intrisa di sangue è stata esposta all’inizio dell’anno in varie sedi istituzionali anche per l’impegno benemerito dell’altro suo collega, il sottosegretario ed ex magistrato Alfredo Mantovano.
(...)
E insomma (...) scontato l’indubbio protagonismo delle Procure, qualcosina avrà pure a che fare con la crisi di rappresentanza e il deficit di credibilità del ceto politico.
E qui di nuovo dispiace che suoni saccente, ma attribuire all’ordine giudiziario la caduta dei governi di centrodestra è approfittarsene troppo della mancanza di memoria, che è già una disgrazia per conto suo.
Per cui il primo Berlusconi ebbe sì una bella botta da Di Pietro (cui peraltro qualche mese prima aveva offerto il Viminale!), ma intervennero ulteriori fattori a mandarlo a picco.
Il secondo si dimise a causa di elezioni perse e impicci fra alleati, il terzo per la fine della legislatura, il quarto perché in Europa ci ridevano dietro e stavano per saltare i conti dello Stato.
Il Cavaliere, che certo non era un santo, dovette battagliare assai, ma aveva più fantasia e anche più coraggio. In vent’anni disse il peggio dei giudici, toghe rosse, giustizia a orologeria, colpo di stato, infiltrati, giacobini, brigatisti, dittatura, eversione, persecuzione; una volta sostenne che per scegliere quel lavoro dovevano essere «mentalmente disturbati », avere delle «turbe psichiche»; ma visto che ci siamo, è pur vero che incontrando gli alti gradi della Suprema Corte prima dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2010 non seppe resistere: «Ma come siete belli con quegli ermellini addosso!».
Ciò detto, se si deve pensare a un governo affossato dalla magistratura, il pensiero corre al Prodi bis e alle esplicite dimissioni, in questo senso, del Guardasigilli Mastella dopo l’arresto ai domiciliari della moglie. Così, sommariamente e con inevitabili lacune, si sarebbe provato a sintetizzare le vicende della «fazione antagonista», asettico preziosismo crosettiano. Altra faccenda è se c’è qualche scandalo ad alto impatto che già bolle nel pentolone delle indagini. Qualche altro ministro evasore, qualche ulteriore figliolo sconsiderato, qualche affaraccio, qualche storiaccia. Di solito il potere non fa diventare più buoni.
Quei magistrati “engagé” ormai sembrano un partito. La mozione di Area Dg è un programma politico: le toghe “progressiste” si dicono pronte a uscire dalle aule dei tribunali. Davide Varì su Il Dubbio il 3 ottobre 2023
«Dobbiamo uscire dalle aule dei tribunali e partecipare al dibattito pubblico per spiegare ai cittadini che il drastico ridimensionamento del controllo giudiziario prima di ogni altra cosa colpisce l'effettività dei loro diritti». E poi: «Dobbiamo farlo, possiamo farlo e sappiamo farlo, perché siamo in possesso delle chiavi di lettura necessarie per capire la direzione che si sta prendendo e le conseguenze negative che ne verranno, mettendo in campo le nostre migliori risorse». E, dulcis in fundo: «Toccherà a noi tenere accesa la luce quando il buio si farà più fitto».
Qualcuno, leggendo queste frasi, potrebbe pensare che si tratti di parole rubate al programma di un nuovo partito, di un nuovo movimento, insomma, di un soggetto in cerca di consensi su quella che un tempo si sarebbe chiamata una “piattaforma politica”.
Niente di tutto questo: quelli che avete appena letto sono alcuni estratti - in effetti c’è molto altro - della “mozione conclusiva” dell'ultimo congresso di Area Dg, la corrente progressista dei magistrati italiani che si è riunita qualche giorno fa a Palermo alla presenza, pensate un po’, di Elly Schlein e Giuseppe Conte, ovvero i due maggiori leader dell’opposizione che sono andati a rendere il “doveroso omaggio” alla corrente di “sinistra” delle toghe.
Intendiamoci, il dibattito offerto da Area Dg, soprattutto in tempi di aridità e pochezza politica, è stato di assoluto livello. È chiaro che Area è uno dei pochi “soggetti” che ha ancora una lettura complessa, articolata e (in una parola) politica della realtà. È questa la sua forza ma forse è anche il suo limite.
E però ci chiediamo: davvero il compito dei magistrati è quello di uscire dalle aule dei tribunali per partecipare al dibattito pubblico? E ancora: è legittimo che un’associazione di magistrati cerchi il consenso dei cittadini su battaglie politiche così definite e così critiche nei confronti di una maggioranza eletta dal popolo sovrano?
Intendiamoci, qui non si tratta di discutere la qualità e il valore delle loro battaglie, qui si discute della legittimità delle toghe di condurre queste battaglie senza che questo rappresenti un graffio nel nostro fragile equilibrio tra poteri, un sfilacciamento e uno strappo nel tessuto della magistratura italiana, vista non più (o non solo) come garante della giurisdizione ma come “istituzione engagé”.
Se è infatti vero che la costituzione garantisce libertà di espressione per ogni persona, è altrettanto vero, però, che difficilmente un magistrato così “politicizzato” che un giorno si ritroverà a giudicare un cittadino (e magari un cittadino impegnato in politica), oppure a “istruire” un processo, potrà apparire davvero imparziale e libero da preconcetti.
E qui torniamo alla questione della giudice di Catania che non ha convalidato il fermo dei 3 migranti tunisini. Il Giornale ha scovato un paio di sbandate anti-salviniane postate “ingenuamente” su Facebook. Un precedente che oggi pesa come un macigno sulla legittima decisione di quella magistrata.
Insomma, è evidente che “uscire dalle aule dei tribunali" - anche virtualmente - come invoca il documento di Area non è mai una buona idea. Anche perché in quello slogan sembra di risentire l’eco dei versi di Majakovskij, ricordate? “Non rinchiuderti, Partito, nelle tue stanze”. Ma era il 1924 e quel partito era il Pcus…
I problemi della giustizia in Italia. La magistratura è politicizzata, ha ragione Sabino Cassese. Alberto Cisterna su Il Riformista l’8 Febbraio 2023
L’articolo di Sabino Cassese di pochi giorni or sono (“Qualche numero”, Il Corriere della sera, 27 gennaio) contiene un’analisi in larga misura condivisibile dello stato della giustizia nel nostro Paese. Tra cifre snocciolate e proposte mirate per porre rimedio alla crisi profonda del servizio giustizia, l’illustre studioso non manca di elevare il livello del confronto su un piano che, a oggi, è rimasto latente, quasi nascosto nell’antagonismo pur aspro delle tifoserie. Resta, infatti, sempre in ombra quali siano i veri connotati, per così dire, l’identità, il nome e cognome degli epigoni dei due fronti che si danno battaglia.
Cassese ne offre una descrizione a spanne, ma che certo contiene una buona dose di verità: «Rispetto all’immagine tradizionale del magistrato appartato, silenzioso, che parla con le sentenze, rispettato nella società, l’attuale immagine pubblica del magistrato (quale si evince dal comportamento di quelli più chiassosi) è molto diversa: loquace, battagliero, onnipresente, sindacalizzato, circondato da crescente sfiducia». Non ci sono i nomi, ma insomma tutti hanno presente all’incirca di chi si stia parlando; sono le vittime collaterali della riforma di legge posta a tutela della presunzione d’innocenza che ha praticamente ammutolito i procuratori e costretto i più riottosi a prendere a sportellate leggi, ministri, ex ministri, dispensando pagelle e opinioni a ruota libera, per continuare ad avere un qualche strapuntino mediatico. La legge tutela la presunzione d’innocenza dei cittadini, ma non sanziona le sgrammaticature mediatiche a largo raggio.
Sin qui, in verità, si potrebbe dire nulla di nuovo. Il problema è noto e di non facile soluzione poiché occorre mediare tra il riserbo e la continenza pretesi dalla funzione giudiziaria – in applicazione del precetto costituzionale che impone a qualunque pubblico dipendente “disciplina e onore” (articolo 54 Costituzione) – e la libertà di manifestazione del pensiero che compete ai magistrati come a qualunque altro cittadino. Persino prefigurare norme disciplinari è complesso in questa materia in cui la partecipazione al dibattito civile su temi generali costituisce anche esercizio del dovere di ciascun lavoratore di concorrere «al progresso materiale o spirituale della società».
Questo non vuole dire che la toga di turno possa prendere a randellate qualunque malcapitato reo, ai suoi occhi, di attentare all’autonomia o all’indipendenza della magistratura sol perché pretende la separazione delle carriere o vuole limitate le intercettazioni o critica l’ergastolo ostativo. Insomma, ci vuole un punto di equilibrio che, al momento, la corporazione non sa imporsi e la politica non sa neppure dove cercare. Avrà ecceduto il ministro Nordio nell’affermare che alcuni procuratori condizionano l’agenda parlamentare, ma non si può stare a braccia conserte nel sentire dispensati quarti di nobiltà antimafia o patenti di incompetenza, se non peggio, da questo o quel magistrato, in servizio o in quiescenza.
Cassese ha presente il problema e ha ben diritto di inserirlo tra i “numeri” che minano l’efficienza e la credibilità del sistema giudiziario di cui ha detto il vicepresidente del Csm nel suo discorso di insediamento ricordando il martire Rosario Livatino. Eppure, nell’analisi di Cassese, c’è un punto di evidente novità, messo in chiusura delle proprie considerazioni, quasi fosse banalmente cascato tra le righe di una riflessione che sembrava complessivamente scivolare su altri versanti: «L’affermarsi di magistrati combattenti, organizzati in associazioni che ritengono l’ordine giudiziario un corpo separato dotato di autogoverno, salvo partecipare all’attività legislativa e amministrativa, e quindi scavalcare la separazione dei poteri, ha finito per creare una politicizzazione endogena del corpo».
Il tema della «politicizzazione endogena» è scottante, urticante, provocatorio. Un calcio negli stinchi. Ma è anche un invito ad affondare il bisturi in una postura ideologica della magistratura italiana che appare ormai acquisita, consustanziale, divenuta congenita in settori non marginali delle toghe. Lenin, Bakunin, Marcuse, come noto, si sono impegnati a lungo nel cogliere limiti e prospettive della cosiddetta “aristocrazia operaia” ossia di quel gruppo di lavoratori che, per un motivo o per l’altro, si trovano ai vertici del proletariato, godendo così di una situazione di superiorità e di privilegio rispetto agli altri. La categoria politica potrebbe servire a gettare una luce, almeno in parte, sulla condizione politica, istituzionale, persino psicologica della magistratura italiana.
Concepita dai padri della Costituzione come un insieme di operai, come una classe di funzionari senza gerarchia e senza subordinazione, addetti paritariamente alla giurisdizione (articolo 107:«I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»), la magistratura ha finito per ricevere e farsi dare un assetto ordinamentale che troppe volte collide con il progetto di una “isocrazia” di eguali, ciascuno dei quali esercita la funzione in piena autonomia e indipendenza e senza controlli esterni. Il problema, soprattutto dalla riforma del 2006 in poi, è particolarmente avvertito negli uffici di Procura che, come noto, censiscono al proprio interno molti tra i «più chiassosi» di cui parla Cassese e ove i condizionamenti sono innegabili e vanno dalle indagini che attingono al potere economico e politico alle prescrizioni d’impiego della polizia giudiziaria, dalla destinazione dei fascicoli più delicati alla costituzione, dopo il 1993, delle oligarchie che si occupano di mafia e terrorismo nei più importanti uffici del paese.
Una realtà complessa, competitiva, a volte opaca, malmostosa come dimostrano anche vicende recenti e non solo. E’ evidente che la materiale separazione delle carriere che già connota la magistratura italiana dal 2006 a oggi, in cui i passaggi di funzioni da requirente a giudicante e viceversa sono pochissimi, abbia portato al formarsi di una “aristocrazia operaia” che ha una propria ideologia e che ha generato la propensione politica endogena di cui parla Cassese. L’esercizio dell’azione penale – a stento e in minima parte circoscritto dalla riforma Cartabia – è uno strumento politico per sua definizione, tant’è che in molte democrazie liberali il pubblico ministero ricade comunque nel perimetro della responsabilità dell’esecutivo o è addirittura elettivo.
Decenni di sostanziale discrezionalità nell’individuazione delle indagini da svolgere e dei soggetti da sottoporre a investigazioni ha impresso nel codice genetico del potere inquirente stimmate di «politicizzazione» che è difficile rimuovere. A questa discrezionalità di fatto si è associata l’elaborazione, inevitabile e conseguenziale, di politiche criminali che rendono ancora più autorevole e sofisticato l’intervento della «aristocrazia operaia» su questi temi con una capacità di annichilire la gran parte degli oppositori adoperando argomentazioni non certo banali o marginali. Il lungo scontro, ad esempio, tra il Ros dei Carabinieri e alcune Procure in anni passati ha radici profonde in questa disparità di sensibilità e di vedute, in questa insofferenza delle toghe verso progetti investigativi elaborati nelle strutture di élite delle forze di polizia e non negoziati con i procuratori che intravedevano, nell’affermarsi di queste inedite progettualità inquirenti, il rischio di essere retrocessi a meri «avvocati della polizia».
Una stratificazione e una costruzione sapienziale quella dei magistrati inquirenti, edificata su una cultura politica e tecnica di livello, che ha generato una “egemonia” difficile da contendere, soprattutto da parte di una politica in gran parte inadeguata e sprovvista di una visione così complessiva e globale del sistema repressivo e giudiziale. Ecco, perché, “in cauda venenum” le parole conclusive di Cassese dischiudono le praterie di una dibattito che, a oggi, manca di una compiuta riflessione e che, certo, non può esaurirsi in poche righe. Tuttavia è necessario comprendere che malamente si accusa questa parte di magistratura militante e combattente di essere prevenuta, accanita, inaffidabile istituzionalmente.
Certo ci sarà e, soprattutto, ci sarà pure stato un manipolo di farabutti, ma la questione appare molto più radicale e affonda nel tessuto connettivo più profondo che caratterizza la magistratura inquirente italiana. Lasciata per anni, anzi voluta dalla politica, alla guida delle politiche criminali non poteva che adoperare l’azione penale nel senso più congruente rispetto ai risultati che doveva conseguire trasformandosi in tal modo – naturalmente e senza nessun preordinata scalata golpista – in un’aristocrazia ideologica e di potere capace di resistere a ogni rivoluzione e vocazionalmente refrattaria a ogni mutamento. Alberto Cisterna
Magistrati indipendenti dal Parlamento? Permettetemi di dubitare. Le toghe devono seguire la legge come il prete il vangelo, ma spesso l’Anm decide di dare “consigli” alle Camere. Giuseppe Benedetto, presidente Fondazione Einaudi, su Il Dubbio il 31 gennaio 2023.
Siamo tutti contenti e soddisfatti quando ripetiamo il mantra “la magistratura deve essere indipendente”. Ma poi è forse il caso di chiedersi: indipendente da chi e da cosa? Indipendente dall’esecutivo (cioè da governo)? Benissimo, siamo tutti d’accordo. Per carità. Tuteliamo le vestali del diritto, anche se ci permettiamo sommessamente di osservare che in tanti Stati democratici, vedi la Francia per tutti, la pubblica accusa è alle dirette dipendenze del governo. Ma in Italia questo nessuno lo vuole!
La questione si complica un po' quando la magistratura militante interpreta l’indipendenza come indipendenza dal Parlamento. E lì non solo chi si richiama alle liberal-democrazie dei Paesi occidentali non può essere d’accordo, ma occorre denunciare la pericolosa deriva eversiva che ne conseguirebbe rispetto ai principi costituzionali.
Il Parlamento è il luogo sacro (direbbe Einaudi) dove in una democrazia si estrinseca il volere del cittadino-elettore. Se vi fosse un corpo dello Stato che potesse agire al di fuori della volontà popolare, quello sarebbe fuorilegge. Volontà popolare che si esprime attraverso gli atti del Parlamento, cioè le leggi. Dunque, ogni corpo dello Stato, compresa la magistratura, deve osservare le leggi del Parlamento. In caso contrario, verrebbe meno lo Stato di diritto.
L’art. 101 della Costituzione dispone che “i giudici sono soggetti soltanto alle legge” e l’art. 112 sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Ne deriva, ovviamente, che il Ministro della Giustizia non possa impartire direttive. Allo stesso tempo, però, ne consegue che il giudice e il pubblico ministero debbano osservare la legge come il prete segue gli insegnamenti del vangelo. Dovrebbero essere ispirati da una fedeltà assoluta verso la legge, sacra verrebbe da dire. Non è altro che un corollario del principio di divisione dei poteri: il legislativo produce le norme e il giudiziario le applica. È agevole dedurre che più il giudice si allontana dalla lettera della legge e maggiori sono i pericoli di sentenze discrezionali, ispirate più dai sentimenti e dalle opinioni personali piuttosto che dai sacri principi del diritto.
Qui giungiamo alle principali contraddizioni dei nostri tempi. La “discrezionalità giudiziaria” regna imperante, come sanno tutti coloro che entrano nelle aule dei tribunali. La Corte di Cassazione riscrive le leggi con poteri creativi e i pubblici ministeri scelgono autonomamente quali reati perseguire in via prioritaria. In tutto ciò, a fronte di una politica corresponsabile, trionfano le norme penali indeterminate, come il traffico illecito di influenze. Un reato talmente generico che ogni procura d’Italia lo riempie del significato che più le aggrada.
Dunque, a differenza di quel che pensavano i nostri Costituenti, taluni magistrati italiani non si sentono affatto soggetti alla legge. Chi parla di “lettera della legge” oggigiorno è qualificato come un temibile nostalgico del passato. Invece, come ricordato da Andrea Davola nella postfazione al mio libro “Non diamoci del tu”, la tradizione italiana del diritto pianta le sue radici nel positivismo giuridico, che trova il suo principio ispiratore proprio nell’interpretazione letterale.
Conosciamo bene il sistema anglosassone fondato sul giusnaturalismo, dove le sentenze non sono una rigida applicazione delle norme, ma sono frutto delle sensibilità politico-culturale del singolo magistrato. Ma i nostri esimi pm fanno finta di ignorare che ivi il rappresentante della pubblica accusa non solo è sotto lo stretto controllo dell’esecutivo, ma addirittura nel caso degli USA spesso viene direttamente eletto dai cittadini. Di fronte ad una prospettiva del genere alcuni pubblici ministeri minaccerebbero di darsi fuoco nella pubblica piazza, accompagnati dal coro delle prefiche del giustizialismo militante.
Ma non è finita qui, purtroppo. Alla luce di una discrezionalità giudiziaria senza alcun indirizzo del Parlamento, la ANM ha pensato bene di poter iniziare a commentare e contestare le leggi sotto il profilo strettamente politico.
Se il Parlamento intende introdurre dei criteri seri di valutazione del magistrato, la ANM pensa bene di scioperare. Se la maggioranza parlamentare ritiene che vi sia un problema di indiscriminata pubblicazione delle intercettazioni, taluni pm non esitano a mostrare la loro contrarietà. Ma a che titolo lo fanno? Sono soggetti alla legge, o adesso vorrebbero anche scriverle? Chissà cosa penserebbe Montesquieu...
Antonio Giangrande: Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.
Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che non si osa dire”.
Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”. Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.
Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico.
Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è.
Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense.
Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie.
Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”.
Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.
E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire.
Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti.
Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.
Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.
Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.
Uccise il figlio, condanna ridotta a 18 anni di reclusione per un 66enne barcellonese, scrive il 22 febbraio 2017 “24live.it”. Condanna ridotta a 18 anni per il 66enne muratore barcellonese Cosimo Crisafulli che nel maggio del 2015 uccise con un colpo di fucile il figlio Roberto, al termine di una lite verificatisi nella loro abitazione di via Statale Oreto. Nel giugno 2016 per l’uomo, nel giudizio del rito abbreviato davanti al Gup del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, Salvatore Pugliese, era arrivata la condanna a 30 anni di reclusione. La Corte d’Assise d’Appello di Messina, che si è pronunciata ieri, presieduta dal giudice Maria Pina Lazzara, ha invece ridotto di 12 anni la condanna, sebbene il sostituto procuratore generale, Salvatore Scaramuzza, avesse richiesto la conferma della condanna emessa in primo grado. Decisiva per il 66enne la concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti, richieste già in primo grado dall’avvocato Fabio Catania, legale del 66enne Cosimo Crisafulli.
Cosa c’è di strano direte voi.
E già. Se prima si è parlato di incompatibilità tra magistrati e parenti avvocati, cosa si potrebbe dire di fronte ad un paradosso?
Leggo dal post pubblicato il 2 febbraio 2018 sul profilo facebook di Filippo Pansera, gestore di Messina Magazine, Tele time, Tv Spazio e Magazine Sicilia. “Nel 2016, la dottoressa Maria Pina Lazzara presidente della Corte d'Assise d'Appello di Messina, nonchè al vertice della locale Sezione di secondo grado minorile emetteva questa Sentenza riformando il giudizio di primo grado statuito dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto. L'accusa era rappresentata in seconde cure, dall'ex sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza (oggi in pensione). La dottoressa Lazzara ed il dottor Scaramuzza... sono marito e moglie dunque per la presidente della Corte vi era una incompatibilità ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario. Invece come al solito, estese ugualmente il provvedimento giudiziario... che è dunque da intendersi nullo. Inoltre, malgrado il dottor Salvatore Scaramuzza sia andato in pensione, la dottoressa Lazzara è comunque incompatibile anche al giorno d'oggi nel 2018. Salvatore Scaramuzza e Maria Pina Lazzara infatti, hanno una figlia... Viviana... anch'essa magistrato che opera presso Barcellona Pozzo di Gotto in tabella 4 dal 2017. Sempre ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario, madre e figlia non possono esercitare nello stesso Distretto Giudiziario... come invece succede ora ed in costanza di violazione di Legge. A Voi..., il giudizio.”
Si rettifica un errore di persona. Maria Pina Lazzara non è moglie del dr Scaramuzza e Viviana Scaramuzza non è sua figlia. Nel saggio si è riportato un post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta la verifica delle fonti.
Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.
Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede).
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.
La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.
I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.
I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.
I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?
A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).
Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in magistratura.
Roma, bigliettini negli slip al concorso magistrati. Bufera sulle perquisizioni intime. Nel mirino della polizia oltre 40 persone sospettate di aver occultato le tracce: cinque candidate espulse, scrive Roberto Damiani il 2 febbraio 2018 su “Quotidiano.net. Il concorso in magistratura iniziato il 20 gennaio a Roma per 320 posti (sono state presentate 13.968 domande) rischia di diventare una questione da intimissimi. Nel senso di slip. Perché attraverso le mutandine sono state espulse diverse candidate. Stando a ciò che trapela, i commissari d’esame hanno mandato a casa cinque candidate e c’era incertezza su una sesta. Tutte hanno avuto una perquisizione totale, cioè la polizia penitenziaria femminile ha fatto spogliare completamente le candidate perché sospettate di nascondere qualcosa. E su circa 40 controlli corporali totali, cinque o forse sei ragazze avevano foglietti con dei temi (non gli stessi poi usciti per la prova) negli slip. E per queste candidate, non c’è stata giustificazione che potesse tenere: sono state espulse immediatamente. La polemica delle perquisizioni fino a doversi abbassare le mutande è divampata per un post della candidata Cristiana Sani che denunciava l’offesa di doversi denudare: «Ero in fila per il bagno delle donne – ha scritto su Facebook la candidata – arrivano due poliziotte, le quali si avvicinano alla nostra fila e iniziano a perquisire una ad una le ragazze in fila. Me compresa. Io lì per lì non ho capito quello che stesse succedendo, non me lo aspettavo, visto che durante le due giornate precedenti non avevo avuto esperienze simili». «Capisco – continua Cristiana – che c’è un problema nel momento in cui una ragazza esce dal bagno piangendo. Tocca a me e loro mi dicono di mettermi nell’angolo (non del bagno, ma del corridoio, con loro due davanti che mi fanno da paravento) per la perquisizione. Non mi mettono le mani addosso, sono sincera. Mi fanno tirare su maglia e canotta, davanti e dietro. Mi fanno slacciare il reggiseno. Poi giù i pantaloni. Ma la cosa scioccante è stata quando mi hanno chiesto di tirare giù le mutande. Io mi stavo vergognando come la peggiore delle criminali e le ho tirate giù di mezzo millimetro. A quel punto mi hanno detto: ‘Dottoressa, avanti! Si cali le mutande. Ancora più giù, faccia quasi per togliersele e si giri. Cos’è? Ha il ciclo, che non se le vuole tirare giù?!’. Mi sono rifiutata, rivestita e tornata al mio posto ma ero allibita. Questa si chiama violenza». Nel forum del concorso, i candidati si scambiano opinioni, tutte abbastanza negative sull’esperienza in atto e contestano le perquisizioni ritenendole illegali. Ma nessuno sembra aver letto il regio decreto del 15/10/1925, n. 1860, all’art. 7 che regola i concorsi pubblici e tuttora in vigore: «... i concorrenti devono essere collocati ciascuno a un tavolo separato (...) È vietato ai concorrenti di portare seco appunti manoscritti o libri. Essi possono essere sottoposti a perquisizione personale prima del loro ingresso nella sala degli esami e durante gli esami». Sembra che le perquisizioni siano scattate solo nei confronti di chi frequentava troppo il bagno. Eppure quegli aspiranti magistrati espulsi avrebbero dovuto conoscere la regola d’oro: l’«assassino» torna sempre due volte sul luogo del delitto.
Ma non è lercio solo quel che appare. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare. Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Ma come ci si può difendere da decisioni scellerate?
Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena. Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore giudiziario". Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.
Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note.
29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa». A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.
12 ottobre 2011. Il rigetto dell’istanza di rimessione. La prima sezione penale della Cassazione ha infatti respinto la richiesta di rimessione del processo per incompatibilità ambientale, con conseguente trasferimento di sede a Potenza, avanzata il 29 agosto 2011 dai difensori di Sabrina Misseri, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia.
Eppure la stessa Corte ha reso illegittime tutte le ordinanze cautelari in carcere emesse dal Tribunale di Taranto.
Per quanto riguarda la Rimessione, la Cassazione penale, sez. I, 10 marzo 1997, n. 1952 (in Cass. pen., 1998, p. 2421), caso Pomicino: "l'istituto della rimessione del processo, come disciplinato dall'art. 45 c.p.p., può trovare applicazione soltanto quando si sia effettivamente determinata in un certo luogo una situazione obiettiva di tale rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale - inteso come complesso di persone e mezzi apprestato dallo Stato per l'esercizio della giurisdizione -, sicché tale situazione, non potendo essere eliminata con il ricorso agli altri strumenti previsti dalla legge per i casi di alterazione del corso normale del processo - quali l'astensione o la ricusazione del giudice -, richiede necessariamente il trasferimento del processo ad altra sede giudiziaria … Consegue che non hanno rilevanza ai fini dell'applicazione dell'istituto vicende riguardanti singoli magistrati che hanno svolto funzioni giurisdizionali nel procedimento, non coinvolgenti l'organo giudiziario nel suo complesso".
Per quanto riguarda la Ricusazione: «Evidenziato che non può costituire motivo di ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono “fatto” riferibile solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. (Cass. pen. Sez. V 10/01/2007, n. 8429).
In questo modo la pronuncia della Corte di Cassazione discrimina l’iniziativa della parte, degradandola rispetto alla presa di posizione del magistrato: la denuncia del cittadino non vale per la ricusazione, nonostante possa conseguire calunnia; la denuncia del magistrato vale astensione. Per la Cassazione per avere la ricusazione del singolo magistrato non astenuto si ha bisogno della denuncia del medesimo magistrato e non della parte. Analogicamente, la Cassazione afferma in modo implicito che per ottenere la rimessione dei processi per legittimo sospetto è indispensabile che ci sia una denuncia presentata da tutti i magistrati del Foro contro una sola parte. In questo caso, però, non si parlerebbe più di rimessione, ma di ricusazione generale. Seguendo questa logica nessuna istanza di rimessione sarà mai accolta.
Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.
Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".
Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.
«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»
I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato l'anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa. "Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso". "La Banca Mondiale mette l'Italia alla casella numero 108 nella classifica sull'efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell'economia". "Se per far fallire un'azienda che non paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese". "Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo congruo". "È imbarazzante che restino impuniti per il loro male operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per l'economia nazionale". "Non se ne può più di assistere allo spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che l'indagine ha procurato loro". "La giustizia viene ancora strumentalizzata a fini politici". "In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato". "L'economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi accolti senza ragione". "Le vittime delle truffe bancarie non hanno avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente perseguiti". "A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è stato condannato".
Una pioggia di denunce contro i magistrati Ma sono sempre assolti. Più di mille esposti l'anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su 10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su "Il Giornale". Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma anche «errori» nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi «deteriorato». Uno strappo che è all'origine, secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, «dell'aumento degli esposti» contro i magistrati soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d'allarme: «Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia». Nell'ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare dell'azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità nell'attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l'anno precedente (1.363) e con l'ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all'anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve, scatta quasi sempre l'archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è successo per l'89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle campagne denigratorie, dell'eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l'effetto delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un magistrato, dall'utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel 99,5% dei casi.
Il sondaggio di Pagnoncelli, magistratura: italiani divisi, ma oltre il 50% vede fini politici. Storia di Nando Pagnoncelli su Il Corriere della Sera venerdì 1 dicembre 2023.
I l rapporto con la magistratura è tema complesso e centrale nella vita politica italiana almeno da trent’anni, da quando, con Tangentopoli, il sistema politico italiano fu sottoposto a una crisi drammatica e a una profonda trasformazione in cui i giudici ebbero un ruolo centrale, positivo (quando non palingenetico) per alcuni, negativo (quando non eversivo) per altri. Il conflitto politica/magistratura oggi torna al centro delle cronache, di nuovo con drammaticità, dopo l’intervista concessa su queste pagine dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Il quale ha ventilato possibili rischi per il governo che verrebbero appunto da una fazione della magistratura decisa ad affossare l’attuale esecutivo.
La fiducia nella magistratura ha subito un pesante calo negli ultimi anni. Dalle punte più elevate del 2011 (forse l’anno più drammatico della nostra storia recente, con i cittadini che cercavano rassicurazioni da realtà esterne alla politica, che fossero il governo tecnico di Mario Monti o appunto la magistratura) quando l’indice di fiducia nel terzo potere dello Stato arriva al 67, fino al punto più basso nel 2021, ancora segnato dalla vicenda Palamara e dai coinvolgimenti di parte del Csm nello scandalo delle nomine pilotate, quando l’indice cala al 38. Più recentemente invece la fiducia cresce, sia pur di poco, salendo nel 2022 al 41 (probabilmente anche sull’onda del tema della restrizione alle intercettazioni, invisa a buona parte dei cittadini) fino al 45 di oggi (crescita forse proprio collegata alle polemiche di cui stiamo parlando).
Entrando nel merito delle affermazioni espresse dal ministro Crosetto, poco più di un quinto degli italiani (il 22%) condivide l’idea che ci sia un gruppo organizzato di magistrati che si oppone al governo, ma il 35% pensa che, sia pure in modo non organizzato, esistano magistrati che si pongono obiettivi politici. Insomma, l’idea che un qualche «inquinamento» politico sia presente nel potere giudiziario è maggioritaria. Solo il 13% infatti ne nega l’esistenza. E, sia pur con diversa intensità, è un’opinione condivisa trasversalmente sia nel centrodestra (in particolare tra gli elettori di FdI è maggioritaria l’idea dell’esistenza di un gruppo organizzato) sia tra le forze di opposizione (dove invece tende a prevalere l’idea che si tratti di atteggiamenti individuali).
Una delle critiche rivolte al ministro è stata che le accuse esposte sarebbero in realtà notizie di reato da non esporre in un’intervista, ma da sottoporre al Csm e al presidente della Repubblica, che lo presiede. Qui le opinioni si dividono: il 32% pensa che Crosetto abbia fatto bene a rendere pubbliche le sue preoccupazioni (opzione maggioritaria tra gli elettori del centrodestra), il 30% pensa il contrario (opzione prevalente tra gli elettori di opposizione).
Quanto alle dimensioni del consenso su questa polemica, l’elettorato di centrodestra tende maggiormente a ritenere che ci sia una condivisione, non solo nella propria area politica ma anche nell’insieme degli elettori, mentre il contrario avviene tra gli elettori di opposizione, che tendono di più a ritenere che si tratti di opinioni condivise solo dal ceto politico o al più degli elettori di centrodestra.
Nell’ultimo Consiglio dei ministri è stata approvata anche la cosiddetta dei magistrati. Una scelta che riscuote un certo consenso: la approva il 36% degli intervistati (maggioranza assoluta, naturalmente, tra gli elettori di centrodestra), il 26% invece la disapprova (ma tra gli elettori di opposizione lo fanno con forza solo gli elettori del Pd, gli altri tendono a dividersi). Molti (38%) non si esprimono, come d’altra parte avviene un po’ per tutte le domande di questo sondaggio.
Da ultimo abbiamo chiesto se questo scontro serva in qualche modo al Paese. Il 39% pensa di no, che si tratti di una polemica dannosa che aggiunge inutili tensioni in un momento già difficile (scelta maggioritaria tra gli elettori di centrosinistra); al contrario il 30% la pensa utile, al fine di arrivare una volta per tutte ad un chiarimento sull’esistenza di una magistratura politicizzata (opzione prevalente tra gli elettori di centrodestra). Anche su questo oltre il 30% non si esprime.
In sostanza la magistratura ha perso parte importante della fiducia dei cittadini, pur con qualche crescita recente, ed è diffusa l’idea che ci sia una presenza politicizzata (in forme organizzate o individuali). Ma l’intervento di Crosetto non convince, divide per «fazioni» politiche e tutto sommato non muove sentimenti profondi. Serve forse, questo sì, a rinsaldare l’elettorato di riferimento.
Delmastro, il sospetto di Chirico: "Strano doppio standard. Per anni...". Il Tempo il 29 novembre 2023
Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove è stato rinviato a giudizio dal Gup di Roma Maddalena Cipriani. Delmastro dovrà rispondere davanti al giudice monocratico del tribunale penale di piazzale Clodio, di rivelazione di segreto d’ufficio per la vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41 bis che per mesi protestò con lo sciopero della fame. Questo è stato il tema che ha acceso il dibattito a Stasera Italia, il programma di cultura e di attualità di Rete 4. Ospite in studio, Annalisa Chirico è intervenuta nel salotto di Nicola Porro e ha avanzato i suoi dubbi sul caso.
"Noi abbiamo visto per anni stralci di atti, quelli sì, secretati, delle procure, che finivano sui quotidiani italiani. Io mi ricordo che la condanna avvenne per la famosa intercettazione e per anni non abbiamo mai visto una tale sensibilità", ha detto Annalisa Chirico, dopo aver preso la parola. "Che cosa mi vuoi dire?", l'ha incalzata il conduttore del programma. "Questa polemica su Delmastro, Donzelli...mi sembra di non vivere nel Paese in cui ho vissuto negli ultimi quarant'anni, è uno strano doppio standard", ha risposto. "Così come è censurabile il magistrato che dà il colpetto al politico, è censurabile anche il comportamento del politico (inteso come Angelo Bonelli esposto contro Demastro, Salvini, ecc.. n.d.a) che vive d'inchiesta per colpire l'opposizione. Non è normale che un parlamentare viva in Procura, è un malcostume", ha concluso la giornalista.
Magistratura democratica, toghe rosse smascherate: ecco il loro programma. Paolo Ferrari Libero Quotidiano il 03 novembre 2023
A leggere il programma sulla locandina tutto sembra tranne che un congresso di magistrati. «Eco attivismo: il conflitto generazionale». «Femminismo intersezionale e trans -femminismo: il conflitto die sul genere». «Maternità surrogata: il conflitto tra una idea tradizionale ed una nuova famiglia».
E ancora. «Tavola rotonda tra esperti per comprendere e delineare i conflitti, per intuire come gestirli, per farli diventare strumento di sviluppo dei diritti piuttosto che luogo di sterile contesa». A seguire, «Ricordo di Michela Murgia: un’intellettuale che è riuscita a far saltare il confine tra letteratura, arte e impegno politico, e a fare della propria stessa vita, sino alla fine, un atto di libertà e di affermazione indefessa dei diritti umani e al tempo stesso un atto di ribellione al neo-patriarcato e una sfida permanente agli abusi del potere».
Sono solo alcuni dei temi che verranno trattati durante il prossimo congresso nazionale delle toghe rosse di Magistratura democratica in programma a Napoli dal 9 al 12 novembre. Temi, forse, maggiormente adatti ad essere affrontati in un dibattito in qualche centro sociale autogestito che non in una assise di magistrati della Repubblica.
RELATORI
E c’è da rimanere basiti nel leggere i nomi dei relatori che sono stati invitati dalle toghe di Magistratura democratica. Il primo a prendere la parola, dopo la relazione del segretario nazionale Stefano Musolino, procuratore aggiunto a Reggio Calabria, sarà l’avvocato Giulio Giuli. Volto noto delle trasmissioni “de sinistra”, Giuli è il difensore degli imbrattatori di Ultima generazione che con le loro gesta a “salvaguardia” del clima stanno provocando danni per centinaia di migliaia di euro al patrimonio artistico nazionale. La semplice ripulitura del basamento del monumento equestre a Vittorio Emanuele in piazza Duomo a Milano, deturpato di vernice gialla la scorsa primavera, è costata circa 30mila euro, donati da uno sponsor dal momento che il comune di Milano, guidato dall'eco -ambientalista in monopattino Beppe Sala, si è ben guardato di chiedere i danni ai responsabili. Oltre ad imbrattare le opere d’arte, i fanciulli viziati ed annoiati di Ultima generazione si dilettano poi nei blocchi del traffico, causando disagi a non finire a chi, a differenza loro, deve andare a lavorare. Giuli ha rilasciato sul punto diverse interviste affermando che i veri criminali non sono questi scappati di casa mai i “politici”. A seguire, la docente universitaria e attivista femminista del movimento “Non Una di Meno” Enrica Rigo.
Il movimento, come si può leggere sul sito, si batte da sempre per contrastare ogni forma di “patriarcato" ed in queste settimane si sta dando da fare per organizzare manifestazioni contro Israele al fine di «normalizzare le relazioni del nostro Paese con lo Stato d’Israele: uno Stato fascista, imperialista, razzista».
GALLERIA
La galleria degli ospiti prosegue con Nichi Vendola, ex parlamentare di Sinistra ecologia e libertà, gay, che è ricorso alla maternità surrogata in Canada. Per rimanere in tema gender, ecco l'avvocata Cathy La Torre, specializzata nel «diritto antidiscriminatorio», orgogliosamente lesbica ed attivista dei diritti Lgbtqia+ e delle famiglie queer.
L’unico intervento che ci ricorda che non è il Leoncavallo di Milano o lo Spin Time di Roma sarà quello di Francesco Vigorito, presidente del tribunale di Civitavecchia.
Nel novembre 2012 Vigorito, all’epoca componente del Consiglio superiore della magistratura, spedì a migliaia di magistrati una lettera scritta invece per i suoi di Md («Miei cari... »). Nella mail esprimeva «il dubbio» di aver commesso «un’ingiustizia troppo grossa» nominando per «qualche pressione interna» e in ossequio a logiche di «opportunità politica» la persona meno adatta alla presidenza di un tribunale. Ovviamente non successe nulla in quanto il Palamaragate sarebbe esploso solo sette anni dopo.
Non è dato sapere se siano stati invitati il ministro della Giustizia Carlo Nordio o il vice presidente del Csm Fabio Pinelli. I loro nomi non compaiono. Certamente non si può non rimanere esterrefatti che magistrati, chiamati poi a giudicare e ad emettere sentenze, organizzino un congresso per parlare di simili argomenti. È evidente il loro attivismo politico. Il sospetto è che le toghe rosse vogliano mettere le basi per una «giurisprudenza creativa» al fine di condizionare le prossime decisioni del governo.
Iolanda Apostolico insegna. Se così fosse sarebbe meglio che si togliessero la toga e si candidassero alle elezioni.
Continuo a combattere per la giustizia e la legalità. “Renzi ubriaco e bastonatore”, le Toghe Rosse mi attaccano perché ho preso carta e penna, ho fatto ricorso e ho vinto. Matteo Renzi su Il Riformista il 3 Ottobre 2023
Nell’editoriale di prima pagina, Claudio Velardi pone una questione dopo aver assistito all’atto di omaggio deferente (leggasi: inchino) di Giuseppe Conte e Elly Schlein verso il congresso di Palermo della corrente della magistratura Area: come può la sinistra di questo Paese – facendo finta di credere che davvero Conte rappresenti la sinistra e Elly Schlein davvero rappresenti questo Paese – diventare così esplicitamente cinghia di trasmissione di Area, Md e di tutte le toghe rosse?
E in altra pagina Aldo Torchiaro scrive delle varie cinghie di trasmissione che legano il nuovo PD alle toghe rosse, alla CGIL, agli imbrattatori travestiti da ambientalisti eccetera.
Dunque: se cercate raffinate analisi politiche non leggete questo mio pezzo. Saltate la pagina, a più pari. Avete altri articoli più interessanti da consultare.
Qui infatti vorrei solo mettere in fila e raccontarvi qualche sensazione personale dopo aver visto il congresso di una delle più importanti correnti di magistrati attaccarmi in modo furioso, ad personam. Fa sempre un certo effetto quando una corrente di magistrati fa politica. Fa ancora più effetto quando quella corrente ti prende come bersaglio.
Io ormai ci ho fatto l’abitudine. Ma per le Istituzioni è un pessimo segnale.
Cosa avrei fatto di tanto strano? Sono stato accusato di reati inesistenti e anziché gridare al complotto, come va di moda, ho osato fare ricorsi sugli atti – illegittimi – dei miei accusatori.
E questi ricorsi sono stati accolti in Corte Costituzionale, Corte di Cassazione, tribunali vari. Intendiamoci: quelli di Area non hanno l’esclusiva sugli attacchi al mio modo di difendermi dai PM fiorentini.
Giornali come Il Fatto Quotidiano su carta e parlamentari come Carlo Calenda sui social hanno scritto che io uso Il Riformista “per bastonare i magistrati”: sarebbe intrigante soffermarci sulla curiosa identità di linguaggio tra il direttore de Il Fatto e il segretario di Azione. Ma qui non abbiamo tempo per occuparci di loro: de minimis non curat praetor.
Torniamo al punto: perché la corrente di Area mi attacca nel suo congresso?
Intanto partiamo dal linguaggio.
In una intervista a La Stampa il leader delle toghe rosse, Eugenio Albamonte, dice che “Renzi è ubriaco di maggioritarismo”. Ubriaco? Ubriaco. Ubriaco di che? Di maggioritarismo. Che poi era meglio ubriacarsi di Solaia o Masseto, nel dubbio.
Sinceramente non so se sia normale che un magistrato possa rivolgersi a un parlamentare dandogli dell’ubriaco.
Se un politico dicesse di un magistrato che è ubriaco, a qualunque ubriachezza si riferisse, sarebbe immediatamente posto sotto processo. Pensate che i PM di Potenza vogliono processarmi per diffamazione per aver detto che l’indagine su Tempa Rossa è stata uno “scandalo” e un “buco nell’acqua”. Siamo in un Paese in cui le opinioni dei parlamentari sono protette dall’articolo 68 della Costituzione ma ci sono alcuni magistrati – chissà se iscritti a qualche corrente – che decidono di processare un parlamentare “colpevole” di aver detto che l’inchiesta su Tempa Rossa che ha portato a interrogare quattro membri del Governo e a dimettersi un Ministro della Repubblica senza che vi fosse alcun reato da loro compiuto è stata “uno scandalo”.
Nel dubbio lo ripeto: il modo con il quale la procura di Potenza ha coinvolto nel 2016 il Governo della Repubblica nella vicenda Tempa Rossa è stato uno scandalo. E il fatto che la procura di Potenza provi a processare un parlamentare per averlo detto non è solo uno scandalo: è un atto eversivo e anticostituzionale. Ma di questo parleremo nei prossimi mesi, perché intendo investire il Senato del problema. Torniamo a noi. Anzi, agli ubriachi.
Renzi ubriaco di maggioritarismo. Può esprimersi così un magistrato, leader di una corrente? A quanto pare sì.
E io non ho niente contro chi si ubriaca. Grazie a Salvini ubriacarsi ha i suoi vantaggi: pare che sia l’unico modo per trovare un taxi in questo Paese, a giudicare dall’ennesimo annuncio del Ministro dei Trasporti. E per chi pensa meno a Salvini e più alla poesia – come me, del resto, inguaribile romantico – non possono che tornare in mente le celebri parole di Baudelaire: “Bisogna essere sempre ubriachi. Ecco tutto: questo è l’unico problema. Per non sentire l’orribile peso del Tempo che vi rompe le spalle e vi piega a terra, dovete ubriacarvi senza posa. Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi”.
Dunque, caro Eugenio Albamonte, non mi offendo se lei mi considera ubriaco, ubriaco di maggioritarismo.
Mi domando di cosa sia ubriaco lei, cara la mia Toga Rossa, per dire le cose che dice.
Ad esempio quando afferma che io attacco i PM di Firenze colpevoli soltanto di fare il proprio lavoro.
Allora, andiamo con ordine.
Sono indagato da anni in un procedimento assurdo per finanziamento illecito ai partiti. Ancora non si è capito quale sarebbe il finanziamento illecito e soprattutto quale sarebbe il partito visto che i soldi sono andati a una fondazione. Fondazione della quale non facevo parte. E vabbè. Ho promesso ai lettori del Riformista che non avrei mai parlato dei contenuti clamorosi della barzelletta “indagine Open”. Rimango fedele all’impegno. Rimango sul generale.
Il PM che mi ha indagato è lo stesso che ha arrestato mio padre e mia madre: l’arresto è stato annullato dal Tribunale della Libertà, essendo un provvedimento del tutto spropositato. Ma nel frattempo ai miei genitori è stata rovinata la vita.
Il PM che mi ha indagato è lo stesso che ha indagato mia sorella e mio cognato. La nonna ancora resiste, a 103 anni senza avviso di garanzia. Al momento, almeno.
Il PM che mi ha indagato ha violato la Costituzione all’articolo 68 come statuito dalla sentenza 170/2023 della Corte Costituzionale.
Il PM che mi ha indagato ha sequestrato il telefonino ai miei amici più cari e ai finanziatori delle mie iniziative politiche: il provvedimento di sequestro è stato giudicato illegittimo dalla Corte di Cassazione ma intanto i magistrati e in molti casi i giornalisti hanno avuto accesso a tutte le informazioni private di decine di persone che si sentono giustamente violate nella loro intimità.
Il PM che mi ha indagato ha archiviato la mia denuncia contro per diffamazione contro un vicino di casa che ha detto il falso su di me e sui miei figli.
Il PM che mi ha indagato ha archiviato tutte le denunce contro le fughe di notizie sui documenti privati di casa mia che niente hanno a che vedere con le indagini penali che mi hanno riguardato.
Il PM che mi ha indagato mi ha definito “imputato principale” in Aula nonostante vi siano oltre venti imputati alcuni dei quali con accuse più gravi di quelle rivolte a me: davanti alla legge non siamo tutti uguali? Perché uno è imputato principale e gli altri imputati secondari?
Il PM che mi ha indagato ha mandato le carte che dovevano essere distrutte sulla base di una sentenza della Cassazione al Copasir mettendole a disposizione in modo illegittimo di un organismo parlamentare che non avrebbe dovuto vedere le stesse carte.
Il PM che mi ha indagato è lo stesso che dirigeva la procura quando quell’ufficio rifiutava di sgomberare un immobile occupato da una banda di criminali, immobile nel quale si sono consumati numerosi reati e dal quale è scomparsa una bambina di cinque anni.
Potrei continuare. Davanti a questa incredibile sequela di vergogna non ho “bastonato” nessuno.
Ma ho preso carta e penna e ho fatto ricorso. E ho vinto. E questa cosa manda fuori di testa i miei accusatori. Perché io non ho urlato e sbraitato: ho utilizzato la giustizia e difeso la legalità.
Quel PM è stato sconfitto in sede di Corte Costituzionale e in sede di Corte di Cassazione. Adesso dovrà affrontare un procedimento disciplinare e se c’è un giudice a Genova dovrà affrontare anche un procedimento penale nel capoluogo ligure.
Quando chiedo giustizia non sono ubriaco. Sono sobrio. E difendo la legalità. E difendo i giudici seri, a cominciare da quelli della Cassazione e della Corte Costituzionale. E in un Paese civile una corrente di magistrati non attacca un cittadino perché sta semplicemente difendendosi usando gli strumenti della giustizia. I magistrati dovrebbero garantire il diritto di quel cittadino perché questo prevede la giustizia. Quando l’attacco non è al singolo cittadino, ma al cittadino parlamentare allora siamo davanti all’ennesima aggressione politica, l’ennesima invasione di campo.
A Palermo le toghe rosse mi hanno attaccato. E non perché mi hanno detto che sono ubriaco, questa è stata la cosa più gentile. Mi hanno attaccato perché sto dimostrando di credere nella giustizia almeno quanto loro credono all’ideologia.
E ho dimostrato che potranno mostrificarmi quanto vogliono: non smetterò mai di combattere per una giustizia giusta.
Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore
Ci rimette la magistratura, ci rimettono i cittadini onesti. La scomparsa di Kata, il mostro di Firenze e la reiterazione dell’errore: il pm Turco e le ispezioni di Nordio. Premessa: Turco ha indagato genitori, sorella, cognato, amici e finanziatori di Renzi. Zero condanne. Valeria Cereleoni su Il Riformista il 23 Giugno 2023
Quando parliamo del procuratore facente funzione di capo della procura di Firenze, Luca Turco, noi del Riformista dobbiamo fare una premessa. Stiamo parlando del procuratore che ha con il direttore Matteo Renzi – e la sua famiglia – un lungo contenzioso. Turco ha chiesto l’arresto dei genitori di Renzi, arresto poi annullato dal tribunale del riesame. Turco ha indagato i genitori di Renzi, la sorella di Renzi, il cognato di Renzi, i colleghi parlamentari più vicini a Renzi, gli amici più stretti di Renzi, i finanziatori di Renzi. E naturalmente ha indagato anche Renzi, almeno due volte, persino per una conferenza ad Abu Dhabi poi ovviamente archiviando il tutto dopo venti mesi di indagine. Al momento in cui scriviamo sono oltre dieci i procedimenti diversi aperti da Turco sull’ex premier e per il momento siamo a zero condanne. Zero.
Ma noi ci occupiamo di Turco senza toccare le questioni legate al nostro direttore. Perché parlare sul Riformista della incredibile attenzione riservata al leader di Italia Viva sarebbe poco elegante.
Affrontiamo le due vicende dell’ultima settimana: il Mostro di Firenze e la sparizione della piccola Kata dall’ex hotel Astor. Si tratta di due vicende nelle quali la responsabilità dell’ufficio della procura di Firenze guidato pro tempore da Turco è talmente evidente da risultare imbarazzante.
Partiamo dalla prima. La vicenda degli otto duplici omicidi compiuti dal cd Mostro di Firenze fino a metà degli anni Ottanta ha trovato larga eco nei media di tutto il mondo. Gli avvocati di alcune delle vittime, rappresentati tra l’altro dall’avvocato Mazzeo del foro di Montecatini, hanno chiesto di accedere ad alcuni atti per compiere indagini difensive come consentito anche alle parti civili. Ma dopo numerose battaglie giudiziarie, il Procuratore Turco ha opposto il segreto, ignorando il fatto che il materiale su cui la procura di Firenze ha negato l’accesso alle famiglie delle vittime era già in possesso – chissà come, chissà perché – di alcuni giornalisti, tra i quali Stefano Brogioni, valido collega de “La Nazione” che ha pubblicato interi virgolettati del materiale negato (perché “segreto”) alle famiglie.
Nella vicenda mostro di Firenze/procura ci sono troppe cose che non tornano. Per questo l’avvocato Mazzeo ha deciso di chiedere a Nordio un’ispezione ministeriale. Trovate l’esposto integrale qui.
Nordio aveva già promosso un’ispezione ministeriale sull’attività della procura fiorentina intervenendo in un question time in Parlamento. Lo spunto era stato dato dalla decisione – invero clamorosa – del dottor Turco di non aderire alla ordinanza con cui la Corte di Cassazione aveva disposto la restituzione “senza trattenimento” del materiale sequestrato illegittimamente a Carrai nell’ambito della rocambolesca e sempre più inverosimile vicenda Open. Insomma la Cassazione aveva detto a Turco: hai sbagliato a prendere il telefonino di Carrai, è un atto illegittimo, restituiscilo e non trattenere niente del contenuto che hai estratto. E che ha fatto il procuratore fiorentino? Ha preso il materiale nel telefonino di Carrai e lo ha inviato al Copasir. Un atto talmente incredibile da apparire sovversivo come non può che essere l’atto di chi decide scientemente di non rispettare la pronuncia della Corte di Cassazione.
Non possiamo sapere a che punto sia l’approfondita indagine chiesta da Nordio: sappiamo che sono trascorsi diversi mesi e sarà interessante capire se e come il Ministro motiverà la non apertura del procedimento disciplinare. Perché si possono promettere tutte le riforme della giustizia del mondo, ma se un procuratore che sbaglia non paga mai, la credibilità dell’ufficio giudiziario da lui guidato è messa a dura prova.
Nel frattempo, dieci giorni fa un caso di cronaca ha colpito duramente la comunità fiorentina. Si tratta della scomparsa della piccola Kata, una bambina di cinque anni improvvisamente sparita dall’hotel occupato abusivamente in cui viveva con la sua famiglia nella totale illegalità. Il Comune aveva chiesto lo sgombero dell’occupazione nove mesi prima della sparizione di Kata. E otto mesi prima che un cittadino occupante abusivo della struttura volasse tecnicamente dalla finestra dopo uno scontro durissimo con altri occupanti. Può essere considerato normale nella città dell’Umanesimo tenere centinaia di persone nella totale illegalità e far finta di non vedere una situazione così grave che provoca tentati omicidi e sparizioni di minori? Ovviamente no.
Ma nonostante questo la Procura guidata da Turco, così solerte nell’arrestare settantenni incensurati per qualche decina di migliaia di euro di fatture false (tutte da provare peraltro), finge di non vedere – o non vede proprio, il che è quasi peggio – l’emergenza rappresentata dall’occupazione abusiva dell’ex Astor. E non solo lascia passare mesi prima di intervenire. Ma anche in presenza di un fatto enorme come la sparizione di una bambina di cinque anni lascia passare otto giorni prima di procedere allo sgombero dell’hotel. Ammettiamo pure che sia giustificabile (e non lo è) l’inerzia di nove mesi dalla prima denuncia.
Perché gli uomini e le donne di Turco non hanno firmato subito, il giorno stesso della sparizione, lo sgombero della struttura? Perché si è consentito di trascorrere una settimana senza intervenire rischiando di compromettere qualche pista o traccia utile per le indagini? Chi pagherà per tutto ciò? Ovviamente oggi la priorità è soltanto recuperare la piccola Kata sana e salva. Ma come potrà il Ministero giustificare l’azione tardiva della procura?
I flop di Luca Turco sono numerosi, dalla vicenda Menarini – Aleotti a quella Grandi Opere – Incalza ma quello che non è possibile giustificare è la reiterazione dell’errore. La vicenda del mostro di Firenze con la richiesta dell’avvocato Mazzeo di aprire una nuova ispezione ministeriale dimostra che la Procura del capoluogo toscano vive una fase di difficoltà inedita e complicatissima. In attesa di conoscere le determinazioni di Nordio e le relative scelte del CSM c’è solo da augurarsi che i tanti bravi magistrati, civili e penali, che lavorano nel Palazzo di Giustizia di Novoli non risentano delle scelte ideologiche di una minoranza dei Pm, minoranza di Pm che tuttavia monopolizza la scena fiorentina. Dove un tempo lavoravano i Vigna e i Chelazzi oggi pullulano ispezioni scandali e ritardi. Ci rimette la magistratura, ci rimettono i cittadini onesti. Ci rimette Firenze. Valeria Cereleoni
L’assoluzione di Uggetti chiude il cerchio. Procure, gogna mediatica e politica a rimorchio, il 2016 dei finti scandali: “Un arresto al giorno, leva Renzi di torno”. Valeria Cereleoni su Il Riformista il 22 Giugno 2023
È stato il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, a far notare la curiosa coincidenza con un tweet nella mattinata di ieri. La nuova assoluzione dell’ex sindaco di Lodi Uggetti non chiude soltanto la vicenda della piscina del comune lombardo: chiude soprattutto il cerchio dell’intrigo politico giudiziario che ha segnato l’ultimo anno del governo Renzi.
“Un arresto al giorno toglie Renzi di torno” titolò Libero il giorno dopo l’arresto di Uggetti. Ed è andata proprio così: arresti, indagini, processi hanno massacrato l’immagine di quel Governo ma la verità giudiziaria è una verità di assoluzioni e archiviazioni. Renzi è andato a casa, è vero. Ma gli arrestati sono stati assolti. Chi pagherà per questo scempio giudiziario e mediatico? Correva l’anno 2016 e il Paese si apprestava a votare, il 4 dicembre, un referendum costituzionale: da un lato tutti i partiti di opposizione, dalla destra moderata di Forza Italia a quella di Giorgia Meloni, insieme alla sinistra più estrema e alla minoranza del Pd, dall’altra il governo di Matteo Renzi.
In campo per il no, però, scese soprattutto il Partito della Conservazione per eccellenza. Il partito delle toghe. Supportato ovviamente da larga parte dei media. Partiti, Pm, giornali, tutti insieme nel fango, si potrebbe dire, riprendendo una celebre prima pagina de L’Espresso che raffigurava la candidata del Pd alla Presidenza della regione Liguria Raffaella Paita insieme a Matteo Renzi. Accusata di strage colposa, fu assolta poi in ogni grado di giudizio. Intanto però, la regione era andata alla destra di Giovanni Toti.
Era il 2015 e già l’ostilità delle procure verso quel riformista che aveva portato il Pd a toccare vette di consenso storiche si poteva percepire. La sua colpa era stata probabilmente quella di aver portato il partito da sinistra verso il centro, di aver attuato politiche liberali ma forse anche quella di aver provato a scalfire la casta dei giudici, con le ferie. Eh già. Fu così, dicendo che l’Italia è la patria del diritto e non delle ferie, che i magistrati lo presero di mira. Ma fu il 2016 l’anno in cui questa ostilità divenne lotta armata.
31 marzo. Il Ministro dello sviluppo economico Federica Guidi sceglie di dimettersi: a causa di un’intercettazione priva di qualsiasi rilevanza penale, in cui parla genericamente di un emendamento con il suo compagno, indagato. Inizia il solito schema. Gli ingredienti ci sono tutti: procure, gogna mediatica, politica a rimorchio. Intercettazioni spiattellate sui giornali. È il mix perfetto per colpire l’avversario, con le procure che dettano la linea e i giornali e la politica che le seguono proni con
l’obiettivo di mandare a casa il Governo. Peccato che quelle confidenze così gravi per la procura di Potenza, riguardassero in realtà una legge già nota e pubblica. Federica Guidi viene massacrata mediaticamente senza ricevere nemmeno un avviso di garanzia. Stava lavorando benissimo al Governo, aveva impostato il lavoro su Industria 4.0, era una colonna del governo. A casa, per una intercettazione. 4 maggio, Lodi. Il sindaco Uggetti viene arrestato con l’accusa di turbativa d’asta. È il titolo di apertura di tutti i giornali, tranne poche lodevoli eccezioni come Il Foglio.
Quello di Libero colpisce particolarmente perché centra il punto: “un arresto al giorno, leva Renzi di torno”. La politica si scatena, con il Movimento 5 stelle in testa. Grillo: il Pd a onda nella piscina di Lodi. E via dietro Alessandro Di Battista, Paola Taverna, Nicola Morra, Danilo Toninelli e naturalmente Luigi Di Maio che, anni dopo, si scuserà con Uggetti. Dopo 7 anni, l’ex sindaco viene assolto con formula piena, ma quel fango resta impresso nella memoria e soprattutto nella storia politica del Paese. Nell’estate 2016 inizia a muoversi la procura di Firenze: il Csm di Legnini e Palamara nomina come aggiunto il sostituto procuratore Luca Turco. E Turco inizia a indagare la famiglia di Renzi: nasce l’inchiesta ribattezzata Unicef dove pure l’Unicef non c’entra niente ma per mesi Renzi viene inspiegabilmente accostato a un presunto scandalo legato ai bambini africani.
Nell’autunno dello stesso anno scende in campo un esperto di flop giudiziari, il Pm Woodcock: dopo aver arrestato il renziano Ferrandino, poi assolto, Woodcock diventa protagonista del caso Consip. Napoli si occuperà degli appalti napoletani, Roma di quelli della capitale. L’indagine coinvolge imprenditori, giornalisti, politici, l’arma dei carabinieri. Viene ribattezzata la madre di tutti gli appalti ma in realtà gli unici soldi che girano sono quelli delle parcelle legali per un processo infinito dove in tanti saranno archiviati o assolti come recentemente accaduto al Generale Del Sette comandante generale dei Carabinieri.
E come dimenticare la storia di Banca Etruria, che forse più di tutte ha minato ii consenso dell’ex premier, ovviamente anche questa finita con plurime assoluzioni tra cui quelle di Pier Luigi Boschi, padre della ministra più attaccata mediaticamente in quel 2016. Che anno, quell’anno. L’assoluzione di Uggetti chiude il cerchio. Prima o poi qualcuno avrà il coraggio di dire la verità: c’è stato un massacro mediatico contro Renzi e il suo Governo, grazie a una alleanza tra alcune procure e alcune redazioni. Negarlo significa negare la realtà.
Valeria Cereleoni
Vanno a braccetto. Pd, il partito delle Procure. Come disse Caiazza: “Uffici dove si esercita il potere più forte ed incontrollato del Paese”. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'11 Giugno 2023
Il Partito democratico continua ad essere il partito di riferimento della maggior parte della Procure del Bel Paese. Pur avendo votato in maniera compatta nella scorsa legislatura, a febbraio 2022, per il conflitto di attribuzione relativamente all’indagine Open condotta dalla Procura di Firenze, un suo esponente di punta, l’avvocato Andrea Pertici, professore di diritto costituzionale all’Università di Pisa, da poco chiamato da Elly Schlein nella segreteria nazionale, ha difeso nei giorni scorsi l’operato dei pm fiorentini nell’udienza alla Consulta. Un corto circuito su cui ci sarebbe da scrivere per giorni.
Come disse però una volta il presidente dell’Unione delle camere penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, le Procure sono “uffici dove si esercita il potere più forte ed incontrollato del Paese”. Quando si tratta di nominare un procuratore, al Consiglio superiore della magistratura iniziano ad andare in fibrillazione mesi prima. Sulla nomina del capo della Procura di Roma, quella che secondo Giulio Andreotti vale almeno tre Ministeri, si consumò nel 2019 uno degli scontri più violenti che la storia della magistratura ricordi, con le dimissioni di ben cinque togati di Palazzo dei Marescialli e dell’allora procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio.
Il rapporto fra Pd e Procure è risalente nel tempo. Non si contano, infatti, i pm che, appesa la toga al chiodo, sono stati candidati negli anni nelle liste dei dem. Un nome fra tutti: l’ex procuratore di Milano Gerardo D’Ambrosio, uno dei protagonisti della stagione di Mani pulite. La genesi di questo legame indissolubile risale al 1964 con la nascita di Magistratura democratica. Quell’anno a Bologna un gruppo di magistrati fortemente ideologizzati decise che era giunto il momento prendere posizione nel dibattito politico, stringendo un patto di ferro con l’allora Partito comunista. Un patto che ha condizionato e condiziona anche oggi l’attività della categoria.
“Magistratura democratica si autoproclama superiore dal punto vista etico: se sei collaterale al Pci-Pds-Pd sei un sincero democratico e un magistrato libero e indipendente, altrimenti sei un traditore dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e devi essere cacciato come infame”, disse l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara nel libro intervista “Il Sistema” con il direttore di Libero Alessandro Sallusti.
Il rapporto Pd-Procure è talmente stretto che il governatore della Regione Puglia, il pm barese Michele Emiliano, nel 2016 si candidò addirittura alla segreteria nazionale del Pd. C’è stato bisogno dell’intervento della Corte costituzionale per ricordargli che i magistrati, anche se fuori ruolo per incarichi politici, non possono prendere la tessera del partito e tanto meno candidarsi ai vertici dello stesso. Il caso Emiliano è, però, solo la punta dell’iceberg di un rapporto che non può non appannare il principio di terzietà ed indipendenza delle toghe.
Si è ricordato come gli ultimi tre procuratori nazionali antimafia, terminato il loro mandato, sono poi finiti in Parlamento, due di loro, Pietro Grasso e Franco Roberti, proprio con il Pd. Pietro Grasso, eletto poi presidente del Senato, iniziò la campagna elettorale che era ancora in servizio a via Giulia. Negli ultimi anni il rapporto si è accentuato. Uno degli stretti collaboratori del ministro della Giustizia Andrea Orlando, il sostituto procuratore generale Raffaele Piccirillo, era stato proposto nel 2018 come capolista per il Pd alla Camera nel collegio di Caserta. Candidatura poi sfumata e comunque mai smentita dal diretto interessato che l’anno dopo tornò al Ministero della giustizia, con l’incarico di capo di gabinetto, durante il governo giallorosso. Piccirillo è tutt’ora il rappresentante italiano presso il Greco, l’organo anti corruzione del Consiglio d’Europa che non perde occasione per bacchettare il governo italiano appena si azzarda a proporre una riforma che limiti lo strapotere dei pm.
Orlando, poi diventato ministro del Welfare, ha fatto nominare un altro magistrato, Bruno Giordano, a capo dell’Ispettorato del lavoro, incarico ricoperto fino al giorno prima dal generale dei carabinieri Leonardo Alestra. E come dimenticare, infine, l’ultimo capo di gabinetto di Orlando a via Arenula, Giovanni Melillo, prima nominato procuratore di Napoli ed ora procuratore nazionale antimafia. Insomma, essere vicini ad un politico dem porta bene. Paolo Pandolfini
"Toghe rosse contro la Meloni: la stessa manovra usata con Berlusconi". Il Pd è inconsistente e il ruolo di opposizione al governo Meloni viene di nuovo ricoperto dalla magistratura. Stavolta tocca alla Corte dei Conti. Francesco Curridori l'8 giugno 2023 su Il Giornale.
Il governo metta la fiducia sul decreto Pa? E la Corte dei conti indìce un’assemblea straordinaria in segno di protesta. “Una mossa che sarebbe stata letta come una prova di forza, che esclude ogni possibile discussione nel merito”, fanno trapelare all’Ansa i togati contabili.
"Non sono in gioco le funzioni della magistratura contabile ma la tutela dei cittadini", afferma l'Associazione dei magistrati della Corte dei Conti, commentando le norme inserite nel decreto legge Pa, una volta terminata l'assemblea straordinaria. Ma non solo. Viene ribadita "la netta contrarietà alle due norme che sottraggono al controllo concomitante della Corte dei conti i progetti del Piano nazione di ripresa e resilienza e prorogano l'esclusione della responsabilità amministrativa per condotte commissive gravemente colpose, tenute da soggetti sia pubblici che privati, riducendo di fatto la tutela della finanza pubblica". E ancora: "L'abolizione di controlli in itinere, su attività specificamente volte al rilancio dell'economia, significa indebolire i presidi di legalità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa". Un attacco in piena regola al governo che fa il paio con le parole del procuratore dell’Antimafia che, in un’intervista a La Stampa, ha avvertito: “Il Paese ha certo il dovere di impiegare al più presto quelle risorse, ma anche di farlo bene, evitando che esse si disperdano nei mille rivoli degli abusi e della corruzione ovvero finiscano nelle mani della criminalità mafiosa”.
Parole che hanno causato la ferma e dura replica del senatore azzurro Maurizio Gasparri che ha dichiarato: “la Procura Nazionale Antimafia si rivela una fucina di futuri esponenti politici della sinistra” e ha ricordato “che gli ultimi tre Procuratori nazionali si sono tutti candidati nelle file della sinistra", riferendosi a Piero Grasso, Franco Roberti e Federico Cafiero De Raho. E, poi, si è domandato: “Melillo si sta proponendo per essere il quarto della serie, per realizzare un poker di procuratori nazionali antimafia che passano direttamente dalla toga alla militanza politica con la sinistra?”.
Il disegno appare abbastanza chiaro e arcinoto: vista l’inconsistenza del Pd e le divisioni nel centrosinistra, il ruolo di opposizione al governo Meloni viene ricoperto dalla magistratura. Hanno provato a colpire FdI con l’inchiesta “lobby nera” e la Lega col "caso Metropol”. Entrambe le inchieste si sono rivelate un flop e, ora, entrano in scena i giudici della Corte dei conti. “Si sta insomma tentando contro Giorgia Meloni la stessa manovra tentata contro Berlusconi. Ma i tempi sono cambiati. E Giorgia giustamente tira dritto”, attacca la deputata meloniana Alessia Ambrosi parlando con ilgiornale.it e dicendosi convinta che “gli italiani non credono a tutte queste fandonie, come dimostrano chiaramente i sondaggi che danno Fratelli d’Italia a livelli stellari”.
La sua compagna di partito, Sara Kelany, membro della commissione Affari Costituzionali, però, getta acqua sul fuoco: "In realtà, la Corte dei conti non ha fatto alcun tipo di obiezione su questo provvedimento. Nel corso dell’audizione concessa all’opposizione dai presidenti delle Commissioni competenti, il presidente della Corte non ha fatto opposizione all’emendamento del governo. Si è dichiarato, com’è normale che fosse, in disaccordo su tutte le volte che viene compresso o eliminato uno dei modelli di esercizio del controllo contabile". Ma non solo. "Il presidente Carlino, però, ha ribadito che questo provvedimento non può essere ritenuto un bavaglio per la Corte dei Conti e ha ribadito che il controllo contabile non viene eliminato, ma viene garantito dalle forme di controllo ordinarie sia preventive sia successive", chiosa la deputata di Fratelli d’Italia.
Il "controllo concomitante". Revisione dei magistrati, le esperienze emblematiche di Albertini e Renzi. L’ex sindaco di Milano realizzò opere meravigliose senza neppure un avviso di garanzia coinvolgendo preventivamente le toghe. E ricordate come l’ex premier salvò l’Expo? Tiziana Maiolo su L'Unità il 7 Giugno 2023
Forse Giorgia Meloni avrebbe dovuto chiedere consiglio a Gabriele Albertini e Matteo Renzi sul problema del “controllo concomitante”, prima di osare contrapporsi a un intero plotone di toghe quale quello dei magistrati della Corte dei Conti. O forse è stato proprio per non incamminarsi su quel viottolo che l’avrebbe resa prigioniera della magistratura nel nome del principio bastardo del fine che giustifica il mezzo, che la premier si è sottratta.
La necessità di spendere nei tempi giusti e bene i 190 miliardi del Pnrr può valere il prezzo di rendersi ostaggio di una burocrazia togata impicciona e con la tendenza a tracimare per sottrarre al governo il potere di fare e di decidere? Giorgia Meloni ha risposto di no, costi quel che costi. Uno dei prezzi da pagare è quello di sentir scivolare nell’aria discorsi di avvertimento, perché “la legalità è a rischio”. Perché nell’aria ci son quelli per i quali è sempre 25 aprile, e bisogna liberarsi di questa “faccetta”, come disse quell’Ingegnere campione di volgarità. E poi ci sono anche quelli che non riescono a togliersi lo straccio di dosso.
Lo “straccio” è, nell’ironia dei corridoi dei palazzi di giustizia, la toga, croce e delizia della giustizia italiana. Federico Cafiero de Raho è uno di questi. Può finalmente parlare il linguaggio della politica in via ufficiale, da quando è diventato deputato. Ma è come se sedesse sempre sullo scranno più alto con un martelletto in mano. Così butta fuori parole di fuoco, sul famoso emendamento e sulla fiducia posta dal governo per la proroga di un anno dello scudo erariale e l’abolizione del “controllo concomitante” da parte della Corte dei Conti sulle spese del Pnrr.
“Rimuovendo gli argini dei controlli -dice l’ex procuratore antimafia-, il governo consente a mafie e corruzione di sguazzare nel fango dell’illegalità”. Ora, se è vero, marxianamente, che l’uomo è ciò che fa, lo è ancora di più, crocianamente, che la forma è sostanza. E l’equiparazione, sul piano penale, della corruzione alla mafia è la rappresentazione scenica dei comportamenti del fu Cafiero procuratore nazionale antimafia. Mentre l’immagine plastica del fango e ancora di più del gesto di “sguazzare”, che cosa rappresentano se non la proiezione della sub-cultura di chi ha espresso il concetto?
Ma è pur sempre una questione di potere. Che la politica ha da tempo perso e di cui le toghe si sono appropriate senza esser state invitate al banchetto. Per questo è sempre utile ripassare la storia, con i due esempi cui abbiamo accennato e che hanno visto come protagonisti due politici abili come Gabriele Albertini e Matteo Renzi e due procuratori di Milano, Saverio Borrelli e Edmondo Bruti Liberati. Due momenti storici diversi tra loro ma anche lontani dalla realtà politica di oggi. Pure affratellati dalla stessa necessità, quella di sviluppare opere importanti e di farlo in fretta. Sapendo di avere i fucili puntati addosso, con la consapevolezza di essere inermi davanti alla forza delle toghe. Costretti a trattare sul “controllo concomitante”, addirittura a sollecitarlo. Due storie parallele, tutte e due poi raccontate dai protagonisti nei loro libri.
L’imprenditore Gabriele Albertini diventa sindaco di Milano nel 1997, candidatura scelta personalmente dall’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi, colui cui il procuratore capo Saverio Borrelli aveva consigliato di lasciar perdere le ambizioni politiche, se per caso avesse qualche “scheletro nell’armadio”. Il neo-primo cittadino ha l’ambizione di trasformare Milano, e ci riuscirà. Quattro depuratori, la centrale elettronica computerizzata per il controllo del traffico, restauro del teatro alla Scala, passante ferroviario, Polo di Rho della nuova Fiera, nuove otto stazioni di metro, 108 nuovi parcheggi. E la realizzazione del grande progetto della fibra ottica e il cablaggio di tutta Milano. Tutto ciò necessitava grandi investimenti e, secondo il programma politico di un liberale come Albertini, gare d’appalto che coinvolgessero il mondo dell’economia privata.
Serviva un alleato forte. Politico. Il sindaco portava addosso, come zavorra, due zaini pesanti, il fatto di essere un uomo di Confindustria e, peggio ancora, amico di Berlusconi. Aveva alle spalle gli anni di tangentopoli e dei trionfi del pool “mani pulite”. Gioca quindi d’astuzia, fa girare nei salotti giusti la voce di essere un ammiratore dei capitani coraggiosi che avevano sgominato i partiti corrotti della prima repubblica, e i pesci abboccarono. Arrivarono nel suo ufficio Borrelli, poi Davigo e infine Colombo, che gli chiese persino un posto di lavoro a Palazzo Marino. Risultato? Due mandati, quella meraviglia di lavori realizzati e neanche un’informazione di garanzia.
Il prezzo? Molto di più che “controllo concomitante”, anche perché la vera cogestione realizzata in quegli anni, fino al 2006, comportava addirittura la collaborazione con la Procura della repubblica, non con la magistratura contabile. Non erano noccioline i nove miliardi di euro investiti dal Comune, con l’aggiunta dei trenta di investimenti privati. Ma tutto andò liscio. A Palazzo Marino viene formato il gruppo di lavoro chiamato “Alì Babà” (Albertini è sempre stato molto spiritoso), formato da tre funzionari e tre magistrati. Inoltre il problema degli appalti e delle possibili degenerazioni fu affrontato con la stipula di “patti di integrità” che vincolavano coloro che avessero derogato all’impegno a non partecipare in seguito a nessun’altra gara nella zona di Milano. E poi due nuovi istituti, il Direttore generale alla legalità e l’Internal auditing, per valutare la correttezza economico-finanziaria di ogni atto.
Ne è valsa la pena? Sul piano dei risultati certamente si. Nel 1997 probabilmente non si poteva fare diversamente. Di certo però quei depuratori, quella fibra ottica di cui tutti i milanesi godono e si compiacciono, portano addosso le impronte di un rafforzamento della Repubblica Giudiziaria, nata ben prima di tangentopoli e tuttora viva e vivace, come dimostrano le parole arroganti di Cafiero de Raho. E di questo il garantista Albertini è ben conscio. Matteo Renzi si ritrova a Palazzo Chigi nel bel mezzo dei lavori preparatori di Expo 2015, il bando vinto dal sindaco di Milano Letizia Moratti, che era riuscita prevalere sulla concorrenza agguerrita di Smirne e della Turchia di Erdogan.
A Milano nel frattempo c’è stata la svolta a sinistra, e dopo Giuliano Pisapia il primo cittadino è Beppe Sala, un bravo manager, ma che non ha alle spalle l’esperienza conquistata nelle dure trattative sindacali di Gabriele Albertini. Non sa nulla di “Alì Babà” né dei “patti di integrità”. Il premier Renzi racconterà in seguito nel suo libro Il mostro che il sindaco, che era anche commissario alle opere di Expo, a un certo punto aveva persino minacciato di dimettersi. Le opere e gli uomini che le stavano realizzando erano braccati della magistratura e i provvedimenti cautelari fioccavano. Molti appalti erano ormai a rischio.
E’ in quel momento che interviene in salvataggio un vero uomo di potere. Un magistrato, ovviamente, e chi se no? Un Violante o uno come lui, immaginiamo. Colui che darà al presidente Renzi il consiglio giusto: va’ in procura. E lui andò. E salvò, con un semplice caffè bevuto in una saletta riservata all’aeroporto milanese di Linate con il procuratore capo della repubblica Edmondo Bruti Liberati, l’Expo 2015. Tutto legittimo, dice Renzi. Il suo comportamento certamente. E quello del presidente dell’Anac Raffaele Cantone e di una norma ad hoc, un decreto legge che consentì la prosecuzione dei lavori e che permise ad Anac di mandare avanti gli appalti nonostante le inchieste giudiziarie.
E che salvò da una crisi istituzionale, mentre Erdogan stava già scaldando i muscoli. Ma quel che successe da quel momento al palazzo di giustizia di Milano non è altrettanto limpido. Fu chiamato “moratoria” delle indagini, e il termine, usato in alcuni articoli da Frank Cimini sul blog “Giustiziami”, non fu mai smentito, nonostante la palese violazione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. E forse bisognerebbe chiedere all’ex magistrato Alfredo Robledo, cui le indagini su Expo furono tolte dal suo superiore, e poi ai membri del Csm del tempo e anche a un ex Presidente della Repubblica, qualche retroscena su quel tipo di “controllo concomitante”, diverso da quello messo in scena da Albertini ma che portò, per altre vie, comunque al risultato.
DI Tiziana Maiolo 7 Giugno 2023
Le super carriere dei pm sui teoremi Stato-mafia. Felice Manti il 29 Aprile 2023 su Il Giornale. La figlia di Borsellino: processi più in tv che in aula. "Il Domani": Cairo sarà sentito sulla foto di Baiardo
Passata la sentenza, affiorano i veleni. E colpiscono al cuore la magistratura siciliana. «Un Titanic», lo definisce sul Foglio il giudice milanese Guido Salvini. Dopo l'assoluzione annunciata decisa dalla Cassazione per tutti gli imputati nella presunta Trattativa Stato-Mafia, da Mario Mori a Giuseppe De Donno fino a Marcello Dell'Utri, nell'Isola si scatena la guerra. «Qualcuno ha costruito la sua carriera su questo processo, immeritatamente», dice a caldo Fiammetta Borsellino all'AdnKronos commentando il tramonto definitivo sulla suggestione di un famigerato accordo tra boss e Palazzo legato alle stragi in cui morirono suo padre Paolo e Giovanni Falcone.
Da anni la figlia minore del giudice combatte perché qualcuno faccia luce sui tanti misteri che ancora avvolgono le indagini sulle stragi e se la prende, senza mai citarli, con i magistrati dell'accusa che sono stati ospiti in numerose trasmissioni televisive. «Ho trovato deontologicamente scorretto pubblicizzare mediaticamente un procedimento, con giornalisti complici di queste operazioni - aggiunge Fiammetta Borsellino - prima ancora che finisse l'iter giudiziario, che poi si è dimostrato un fallimento». Su Twitter il vicesegretario di Azione Enrico Costa passa ai raggi X i curriculum dei magistrati bocciati dalla sentenza: «Un Pm ha fondato un partito (Antonio Ingroia, ndr), un altro è stato eletto al Csm (Nino Di Matteo, ndr), così come il Gip (Piergiorgio Morosini, ndr) un altro è andato ai vertici del Dap (Roberto Tartaglia, ndr) e ora collabora con il governo. Un altro fa il senatore (Roberto Scarpinato, ndr)». A fare gli altri nomi ci pensa Maurizio Gasparri di Forza Italia: «Chissà cosa hanno da dire dopo la sentenza ulteriore della Cassazione Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Tartaglia, Scarpinato, Ingroia, Di Matteo ed altri, alcuni dei quali hanno creduto a personaggi come Vincenzo Scarantino. Noi cercheremo la verità che in alcune procure invece veniva sostituita da teoremi privi di fondamento. La storia non finisce. Comincia ora». Non a caso c'è anche chi tra i giornalisti ribalta completamente la narrazione, come fa Sigfrido Ranucci di Report: «Chi dice che la narrazione sulla Trattativa è stata inventata, citando la sentenza della Cassazione, dice una cazz...». Segno che alcune sentenze della Suprema Corte si possono criticare. Altre no, ma tant'è... Ma sul banco degli imputati non c'è più la politica ma la stessa magistratura. Quella che ha indagato oggi e quella di allora. «È arrivato il momento di concentrarsi sul nido di vipere di cui parlava Borsellino», dice all'Adnkronos l'avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia del giudice e marito di Lucia Borsellino. Che ricorda il delicatissimo fascicolo «mafia-appalti» forse frettolosamente archiviato il 13 luglio 1992 che fu al centro di un incontrò segreto proprio con Mori e De Donno prima che saltasse in aria, i possibili «recenti depistaggi sul tema del difficile periodo di Borsellino in quella procura retta da Pietro Giammanco». Bisogna ricordare anche che cinque giorni prima della strage di Via D'Amelio, Borsellino partecipò a un incontro alla Procura di Palermo proprio di quel dossier. «In quell'incontro il pm Guido Lo Forte nascose al giudice di avere firmato, appena il giorno prima, l'archiviazione dell'inchiesta». Cosa c'era davvero in quelle carte? La caduta del teorema riporta alla mente anche l'epitaffio pronunciato dalla Cassandra Luca Palamara, che nel suo libro Lobby&Logge aveva stigmatizzato definendolo «un intreccio di teoremi, complotti, depistaggi e veleni che una procura di Palermo fuori controllo stava usando come una clava, che ha travolto una classe politica e bruciato più di un magistrato». Ma chi pensa che la lotta ai fantasmi si fermarsi qui, si sbaglia. Ieri il Domani ha scosso il mondo dell'informazione scrivendo che l'editore del Corriere della Sera e di La7 Urbano Cairo potrebbe essere sentito dai pm di Firenze che indagano sulla famigerata foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi con il boss Giuseppe Graviano e con il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Un'immagine di cui nessuno ammette l'esistenza ma di cui Massimo Giletti avrebbe parlato con il suo editore, sufficiente però per riaccendere i riflettori sulla presunta Trattativa smentita dalla Cassazione.
Augusto Minzolini il 29 Aprile 2023 su Il Giornale.
Nel giorno in cui una montagna di teorie e congetture sulle stragi di Stato si sono rivelate panna montata, in cui Marcello Dell'Utri e i tre ex-investigatori dei Ros Mori, Subranni e De Donno sono stati assolti dalla Cassazione, sarebbe opportuna una riflessione sui guai che ha provocato in questo paese la giustizia ideologica. Già perché solo l'ideologia può far prendere abbagli di queste proporzioni, che tengono sulla graticola le persone per anni e provocano danni di immagine incalcolabili. Alla fine di quei teoremi di cui la Cassazione ha fatto, si può ben dire, giustizia, è rimasto un pugno di mosche solo che sull'eco di quelle narrazioni ci sono altre procure pronte a ripartire, magari sulla base di dichiarazioni di personaggi più adatti per l'avanspettacolo che non per indagini serie vedi Baiardo.
Appunto, un conto è la giustizia, un altro è la giustizia ideologica usata per abbattere l'avversario politico, per liquidarlo, per sporcarne l'immagine e la storia. Operazioni che non costano niente, perché chi ha preso l'abbaglio - volontariamente o meno - non paga niente. Il punto, però, è che le vittime di queste inchieste fondate sui teoremi appartengono sempre ad un versante politico, quello del centro-destra, quello che non può contare sui pm «militanti» nella magistratura. Dispiace dirlo ma purtroppo è un dato di fatto: ieri, in un giorno solo, c'è stata l'assoluzione di Dell'Utri finito nel mirino per colpire Silvio Berlusconi, mentre è stata archiviata l'inchiesta sul caso Metropol, cioè sulle presunte tangenti russe alla Lega, in cui era stato messo in mezzo Gianluca Savoini per tirare in ballo Matteo Salvini. Quindi, solo fumo, e va bene così, ma quel fumo nel frattempo è servito per organizzare campagne mediatiche contro il Cavaliere e contro il leader della Lega in Italia e all'estero. E per sporcarne in qualche modo l'immagine perché, come canta Don Basilio nel Barbiere di Siviglia, «la calunnia è un venticello», qualcosa resterà. Un meccanismo, va detto, che ha condizionato in un modo o nell'altro più di una consultazione elettorale e, quindi, anche la nostra democrazia.
Del resto basta pensare a cosa è stato imbastito sul «caso Ruby», messo in piedi quando il Cav era al massimo della sua popolarità (basta guardare, visto che se ne è parlato in questi giorni, gli indici di gradimento raggiunti dall'allora Premier con il discorso di Onna del 25 aprile) proprio per colpirlo politicamente. Un calvario finito con un'assoluzione. Intanto, però, quella vicenda contribuì a far cadere il suo governo e ne ha logorato la figura. E solo ora gli avversari, anche i più accaniti, ne riconoscono i meriti. Addirittura l'altro giorno l'ex-presidente del parlamento Europeo, Martin Schulz, quello che ebbe uno scontro storico con il Cav, lo ha definito «un baluardo di ragionevolezza».
Già, l'onestà intellettuale arriva tardi, intanto però la giustizia ideologica i danni li ha già fatti. E non li hanno subiti solo le vittime. Perché governi che cadono per ragioni che esulano dal loro operato o leader politici silurati da inchieste che poi naufragano nelle aule dei tribunali, nel bilancio di un Paese rispondono al capitolo delle risorse sprecate e delle riforme abortite. In fondo la giustizia ideologica serve proprio a garantire lo «status quo». Non per nulla ancora oggi l'«incompiuta» per antonomasia è la riforma della giustizia.
"La verità è che Oltralpe la magistratura pende verso sinistra proprio come da noi". L’ex Guardasigilli Castelli: «Il diritto di asilo? Dissero che era solo per chi non ha ucciso. Invece...» Felice Manti il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.
«C’era da aspettarselo, la magistratura francese è politicizzata, peggio di quella italiana...». Roberto Castelli è in campagna elettorale in Friuli, al telefono gli raccontiamo il verdetto della Cassazione francese che non ha estradato i dieci terroristi italiani esuli in Francia, chiudendo ormai definitivamente una storia che lui aveva iniziato quando si è seduto sulla poltrona di Guardasigilli in Via Arenula: «Il mio motto era: «Nessuno tocchi Caino? Ma io sto dalla parte di Abele...», ci dice subito. Il rammarico sui parenti delle vittime di quella stagione senza giustizia è pari alla rabbia per l’occasione sfumata di fare i conti con la Storia. «E non mi vengano a dire che c’entra la dottrina Mitterrand...
Ali no?
«Quando l’allora presidente francese Francois Mitterand decise di non concedere l’estradizione, precisò che il diritto di asilo non doveva essere esteso a chi si era macchiato di fatti di sangue. Ma fu bellamente ignorato...».
Ma non da lei...
«Feci una cosa semplicissima. Chiamai il mio collega Dominique Perben, con cui avevo un ottimo rapporto personale - e questo, mi creda, conta molto lui sposò la mia richiesta e stilammo un elenco di chi poteva essere estradato.
Venne fuori una lista di 13 persone, se non ricordo male».
E poi?
«Ci furono molte polemiche, intervenne persino l’Abbè Pier (eroe della Resistenza in Francia, fondatore delle comunità Emmaus e ispiratore della Dottrina, ndr) e tutto si incagliò».
Motivi politici o c’è dell’altro?
«Anche nella magistratura francese c’è una forte connotazione di sinistra, come in Italia. Sotto sotto, anche loro pensano che costoro non siano delinquenti ma combattenti».
Ha letto le motivazioni?
«Le trovo fragili dal punto di vista tecnico, speciose e offensive per il sistema giudiziario italiano, soprattutto rispetto all’iniquità del processo che avrebbero subito e al fatto che siano stati giudicati in contumacia. Si dimenticano di dire che sono scappati, si sono sottratti alla giustizia. Lo capisce anche un bimbo».
Come se ne esce?
«Dalla piaga dei magistrati di sinistra? Quando morirà la mia generazione...».
E per l’estradizione? È finita?
«La mia cultura giuridica costruita sul campo è ovviamente imperfetta, bisogna studiare bene le carte, ma credo di sì. A meno che non si trovi qualche cavillo, o si lavori sul mandato di cattura europea - che al tempo mio non c’era - o non c’è più niente da fare».
Pensa che il governo francese farà qualcosa?
«In Francia il presidente del Csm è il ministro della Giustizia, che ha poteri ben diversi dai nostri. Potrebbe esserci un’azione disciplinare se la sentenza fosse abnorme, ma non credo - visti i rapporti tra Emmanuel Macron e Giorgia Meloni - che il governo francese voglia imbarcarsi in questa operazione».
Il Guardasigilli Carlo Nordio è rammaricato...
«Ha ragione ad esserlo, ha fatto tutto il possibile».
La sinistra italiana festeggia. Perché c’è un’attrazione fatale per questi criminali?
«Guardi, sono abbastanza vecchio per ricordarmi bene la Storia. Le Br erano “compagni che sbagliano” ma sempre compagni. Sa quando il Pci cambiò davvero atteggiamento? Quando uccisero Guido Rossa».
Fu una stagione terribile...
«Ho visto katanga diventare terroristi, alcuni li ho conosciuti. Altri (sorride) sono diventati opinion leader come Adriano Sofri, direttori di giornali o parlamentari. Nasce tutto da lì, da quel substrato culturale permanente che nel Sessantotto partì proprio dalla Francia, contagiando anche i magistrati come da noi».
Un’ultima domanda. Si farà mai la riforma della giustizia? Quella che lei ideò è naufragata pochi giorni prima di entrare in vigore...
«La mia riforma dell’ordinamento giudiziario io l’ho fatta perché ero un incosciente... Era epocale perché agiva nella carne viva dentro la magistratura... Con la mia riforma, lo scriva, non ci sarebbe mai stato un caso Palamara.
Ecco perché nessuno la farà mai...».
Neanche Nordio?
«Quando ero ministro Nordio lavorò in una commissione alla riforma del codice penale che era molto interessante e sarebbe valida ancora adesso. Non so perché non se ne parla più...».
Magistratura. Il modello italiano. È solo una constatazione. La scoperta, o meglio, la presa d'atto di un fenomeno planetario. Augusto Minzolini il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.
È solo una constatazione. La scoperta, o meglio, la presa d'atto di un fenomeno planetario. Si tratta del meccanismo che sovrintende alle lotte di potere nelle autocrazie, che si è diffuso anche nelle democrazie: la liquidazione dell'avversario politico per via giudiziaria, o, più in generale, lo scontro tra politica e giustizia. Ciò che sta avvenendo in Israele sulla testa di Benjamin Netanyahu, per fare un esempio, sta capitando in altri angoli del pianeta secondo uno schema che ha visto il nostro Paese fare scuola, dato che da noi è servito per spazzare via una classe dirigente (Tangentopoli) o azzoppare un premier (Berlusconi).
In realtà, nei regimi operazioni di potere di questo segno ci sono sempre state. L'ultima condanna ad Aleksej Navalny, il principale oppositore di Putin, ammonta a 9 anni per reati estremamente generici: una non ben precisata «frode». In Cina, invece, si usa sempre l'espediente giudiziario per liquidare gli oppositori di Xi, anche se i processi vengono resi noti solo a condanna eseguita. Nelle democrazie, invece, l'uso sempre più frequente della giustizia come arma politica rappresenta una novità.
Lula in Brasile è stato fatto fuori con un processo e ora con il suo ritorno, ironia della sorte, il suo avversario Jair Bolsonaro rischia la stessa fine. Donald Trump, che ora maledice il «deep State», rischia di non poter correre per la Casa Bianca perché è sotto processo: tant'è che paventa il proprio arresto come arma mediatica per radunare i suoi fedeli. Paradossale è poi ciò che sta avvenendo in India. Rahul Gandhi non potrà partecipare alle prossime elezioni per una condanna per diffamazione: in una manifestazione avrebbe usato parole troppo forti contro l'attuale presidente Modi. Insomma, gli hanno dato due anni, ma soprattutto gli hanno impedito di candidarsi per fare il mestiere di oppositore.
Questo moltiplicarsi di esempi non può non preoccupare, sempreché non si pensi che la politica di mezzo mondo sia popolata da malfattori: se in un regime è normale che gli avversari siano fatti fuori per via giudiziaria, in democrazia lo stesso meccanismo rischia di trasformarsi in una grave patologia. Inoltre colpisce che l'Italia sia dai tempi del Machiavelli un laboratorio per la politica. Negli altri Paesi spesso si ripetono stagioni che noi abbiamo vissuto qualche anno prima. Da noi, per dire l'ultima, un comico (Grillo) è arrivato al potere ben prima di Zelensky in Ucraina.
E anche per l'uso dello strumento giudiziario in politica abbiamo un copyright almeno per le democrazie di cui certo non si può andare fieri. Anzi, da noi è una costante. Dopo Berlusconi ci hanno provato anche con Renzi e con Salvini. Ecco perché l'internazionalizzazione del fenomeno richiederebbe una riflessione, visto che lo scontro tra i poteri è un'eventualità non remota. E il fatto che il più delle volte sia sempre la politica, cioè il potere legittimato dal voto popolare, a perdere la partita, fa sorgere dubbi pure sull'essenza stessa della parola democrazia. In Francia, dove anche Macron è oggetto di due indagini, si sono inventati il meccanismo per cui ogni iniziativa giudiziaria che riguardi il presidente (a parte reati connessi al suo ruolo) viene congelata fino alla fine del mandato proprio per mettere a riparo il voto popolare. È un'opzione che magari non convince tutti. Ma un istituto va trovato anche da noi specie se, come vorrebbe qualcuno, si arrivasse all'elezione diretta del premier o del capo dello Stato.
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per "la Repubblica” il 28 gennaio 2023.
Sarebbe dunque la fine delle toghe rosse? Forse sì, forse ancora no, forse le toghe cambieranno presto i colori sociali, forse le variazioni cromatiche sono destinate a sbandare dinanzi ai tornanti della storia, forse vi scivolano sopra, forse l’espressione “toghe rosse” è il frutto della grande semplificazione di questo tempo e al tempo stesso, forse, dell’inestricabile groviglio di poteri che si combattono in un paese che da sempre considera il diritto penale uno strumento di lotta politica...
Quando le cose si fanno troppo complicate, vale la pena di aggrapparsi a fonti certe, per scoprire che nel 2008 il neologismo “toghe rosse” è entrato nel dizionario Treccani: “Membri dell’ordine giudiziario noti per la propensione nei confronti di formazioni politica della sinistra”. A frugare nella benemerita banca dati dell’Ansa se ne trova d’altra parte il primo uso nel 1989 […].
In ogni caso terminologia nata in ambienti missini, per la precisione messa in circolo da Francesco Storace, sul Secolo d’Italia, a sostegno del deputato Massimo Abbatangelo, non esattamente uno stinco di santo: «Stanno già tornando alla carica i cortigiani delle toghe rosse».
[…] Già settori reazionari (i progetti di revisione costituzionale della P2, per dire) puntavano all’abolizione dell’indipendenza dei Pm; già Craxi (disturbato da scandali a ripetizione) e i democristiani (sotto accusa per il caso Cirillo, snodo di servizi, Br e camorra) erano entrati in conflitto con la magistratura; già il Cossiga picconatore l’aveva sistematicamente attaccata, pure scagliandosi contro i “giudici ragazzini” […]. Eppure molto lascia pensare che anche dall’altra parte fossero maturati abusi, forzature, partigianerie […].
Una volta tornato a Palazzo Chigi, non parve vero a Berlusconi di impossessarsi dell’espressione, rilanciandola a martello contro la “dittatura”, l’“eversione”, la “persecuzione” delle toghe rosse a danni suoi e di certi suoi non specchiatissimi amici. Tutto era divenuto insidiosamente mediatico, dal che, mentre i partiti seguitavano ad arruolare magistrati secondo l’andazzo delle porte girevoli, la lunga guerra civile di cui oggi s’intravede e non s’intravede il termine, comunque s’arricchì d’una cascata di titoli, comitati, manifestazioni, intercettazioni, vittimismi, sondaggi, lungometraggi, cause, processi, minacce di commissioni parlamentari, strepiti e sghignazzi da talk show.
Difficile, in tutta onestà, sintetizzarla altrimenti; ancora di più trovarle un senso compiuto e addirittura una morale. A meno di non ricorrere alla Corte di Cassazione dove, nel 2015, hanno stabilito che “toga rossa” non è un’offesa, ma a volte il riconoscimento di “una coscienza tranquillamente fiera”.
Migranti, i clandestini inventano scuse ridicole per non lasciare l'Italia. E i giudici stanno dalla loro parte. Il Tempo il 30 settembre 2023
Il tema dei migranti resta al centro del dibattito politico, all’indomani del vertice del Med9 a Malta in cui la premier italiana, Giorgia Meloni, ha trovato la sponda degli altri Paesi del Sud dell’Europa - in particolare del presidente francese Emmanuel Macron - sul delicato dossier in vista dei prossimi appuntamenti europei. Ma a tenere banco è la decisione dei giudici della Sezione Immigrazione del tribunale ordinario di Catania, che hanno accolto il ricorso di un migrante - un cittadino tunisino arrivato lo scorso 20 settembre a Lampedusa e poi trasferito nel nuovo centro di Pozzallo - non convalidando il provvedimento con il quale era stato disposto il suo trattenimento. Il tribunale ha quindi disposto il rilascio immediato. I giudici hanno rilevato alcune illegittimità nelle misure adottate, evidenziando che «il richiedente non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua domanda» e che «il trattenimento deve considerarsi misura eccezionale e limitativa della libertà personale ex art. 13 della Costituzione». Inoltre, i giudici contestano che la cauzione di circa 5mila euro da pagare per non andare nel centro non sia «compatibile con gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33» in termini di legittimità.
Subito il ministero dell’Interno ha deciso di impugnare il provvedimento: la fondatezza dei richiami giuridici in esso contenuti sarà quindi sottoposta al vaglio di altro giudice. Ma è soprattutto a livello politico che la decisione di Catania causa un piccolo terremoto. Tra i primi a contestare la scelta il leader della Lega, Matteo Salvini: «Sbarcato da 10 giorni, e ricorso subito accolto dal tribunale. Ma aveva l’avvocato sul barcone? Riforma della Giustizia, presto e bene», scrive sui suoi social, mentre molti esponenti della Lega fanno notare la velocità della decisione sul migrante, mentre lo stesso Salvini è a processo da anni. Da Forza Italia, il capogruppo alla Camera, Paolo Barelli, tuona: «Ci sarà una parola fine da un giudice al termine di questo dibattito. È chiaro che il problema dell’immigrazione è un problema enorme. Non c’è nessuno, nemmeno chi critica e chi fa polemica, che ha la bacchetta magica per risolverlo. Ma il nostro Paese deve prendere dei provvedimenti perché non può essere il luogo di arrivo e di permanenza di centinaia di migliaia oggi, e domani, perché no, di milioni di cittadini che scappano ad esempio dall’Africa da guerre, colpi di Stato, alluvioni, terremoti».
Per il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti, la notizia «muove più sdegno che sorpresa. Occorre rilevare che, trattandosi di normativa promanante da un decreto legge, al giudice compete di rispettare il dettato costituzionale, segnatamente l’articolo 101». Per l’opposizione però la decisione «è la dimostrazione che il decreto voluto dal governo è semplicemente illegittimo e inapplicabile», come si sottolinea dal Pd, mentre per i 5Stelle è «l’ennesimo fallimento del governo».
Migranti, “decreto illegittimo”. Il tribunale di Catania contro il governo, ecco il ricorso. Il Tempo il 30 settembre 2023
Il tribunale di Catania ha accolto il ricorso di un migrante, sbarcato a metà settembre a Lampedusa e poi portato nel nuovo centro di Pozzallo, giudicando il recente decreto del governo «illegittimo in più parti, alla luce del diritto comunitario e della Costituzione italiana». Nella Sezione Specializzata del Tribunale etneo, infatti, si sono tenute le prime udienze di convalida di richiedenti asilo trattenuti nel nuovo ’Centro per il Trattenimento dei Richiedenti Asilo’ di Pozzallo.
Subito il ministero dell’Interno ha deciso che impugnerà il provvedimento del Tribunale di Catania che ha negato la convalida del trattenimento di un migrante irregolare: la fondatezza dei richiami giuridici contenuti nel provvedimento sarà quindi sottoposta al vaglio di un altro giudice.
La procedura accelerata di frontiera, si osserva dal Viminale, è uno degli aspetti che, già contenuto nella direttiva europea 2013/33/Ue, trova oggi l’unanime consenso dei Paesi europei nell’ambito del costruendo nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo e che il Governo italiano ha disciplinato nel decreto Cutro. Peraltro relativamente a due dei provvedimenti di non convalida del trattenimento, si tratta di due cittadini tunisini destinatari di provvedimenti di espulsioni già eseguiti (ciò nonostante rientrati nel territorio italiano) che nel corso dell’udienza per la convalida hanno invocato in un caso la protezione per la necessità di «fuggire perché perseguitato per caratteristiche fisiche che i cercatori d’oro del suo Paese, secondo credenze locali, ritengono favorevoli delle loro attività (particolari linee della mano)», nell’altro «per dissidi con i familiari della sua ragazza i quali volevano ucciderlo ritenendolo responsabile del decesso di quest’ultima». Nuova battaglia giudiziaria in vista sui migranti.
La guerra dei giudici ai decreti sicurezza. "Sono illegittimi". E il Viminale protesta. "Faremo ricorso".
Massimo Malpica l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Un siluro giudiziario contro il decreto sulle espulsioni accelerate
Ascolta ora: "La guerra dei giudici ai decreti sicurezza. "Sono illegittimi". E il Viminale protesta. "Faremo ricorso""
Un siluro giudiziario contro il decreto sulle espulsioni accelerate. A lanciarlo è il giudice civile di Catania che venerdì nell'udienza di convalida dei fermi per i richiedenti asilo trattenuti nel Centro inaugurato a Pozzallo ha deciso di non convalidare il trattenimento di quattro cittadini tunisini: per il magistrato la misura è illegittima nonostante il nuovo decreto varato dal governo. «La normativa interna incompatibile con quella dell'Unione va disapplicata dal giudice nazionale», scrive il magistrato, aggiungendo che «il provvedimento del questore non è corredato da idonea motivazione perché difetta ogni valutazione su base individuale delle esigenze di protezione manifestate, nonché della necessità e proporzionalità della misura in relazione alla possibilità di applicare misure meno coercitive». Ed è ancora la giudice a spiegare che, alla luce dell'art. 10 comma 3 della Costituzione italiana che garantisce comunque il diritto d'ingresso del richiedente asilo, debba «escludersi che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il suddetto richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale». Illegittimo, infine, chiedere la garanzia economica come sola alternativa alla detenzione. Esulta l'Associazione studi giuridici sull'immigrazione, che nella decisione vede «confermata la mancata coerenza ai principi statuiti dalla nostra Costituzione e dalla Direttiva Ue 2013» del decreto varato dal governo. Ed esulta anche l'opposizione, con Fratoianni (Avs) che vede la decisione come una conferma che il decreto «non solo è ingiusto, irragionevole ed inutile, ma è anche contro la legge», e il segretario di +Europa Riccardo Magi secondo il quale viene sancita «l'illegittimità delle decisioni del governo su tutta la linea».
Sull'altro fronte, il ministero dell'Interno avrebbe deciso di impugnare i provvedimenti del tribunale di Catania. Il dicastero, convinto della validità della norma, vuole dunque sottoporre al vaglio di un altro giudice la fondatezza dei richiami giuridici contenuti nelle decisioni, spiegano fonti del Viminale. Chiarendo che la procedura accelerata di frontiera è «già contenuta nella direttiva europea 2013/33/Ue» e «trova oggi l'unanime consenso dei Paesi europei nell'ambito del costruendo nuovo Patto per le migrazioni e l'asilo e che il governo italiano ha disciplinato nel decreto Cutro». Dal ministero si sottolinea inoltre che due dei provvedimenti di trattenimento non convalidati riguardano «due cittadini tunisini destinatari di provvedimenti di espulsioni già eseguiti (ciò nonostante rientrati nel territorio italiano)». Caustico Matteo Salvini. «Sbarcato da 10 giorni, e ricorso subito accolto dal Tribunale. Ma aveva l'avvocato sul barcone??? Riforma della giustizia, presto e bene», scrive il vicepremier e leader del Carroccio su Facebook. E Sara Kelany, responsabile immigrazione di Fdi, critica la decisione del giudice siciliano bollandola come «politica e ideologica», auspicando che le ordinanze vengano «impugnate dall'avvocatura dello Stato».
E mentre cresce la polemica per la decisione arrivata da Catania, il gip di Siracusa aggiunge carne al fuoco, scegliendo di scarcerare due uomini originari del Bangladesh, fermati nei giorni scorsi come scafisti e accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: sarebbero stati, secondo le accuse, gli uomini al timone di una barca intercettata al largo della Sicilia con a bordo 28 stranieri, in gran parte loro connazionali. Ma i due si sono difesi spiegando al giudice di aver pagato per il viaggio e di essere stati costretti a fare gli scafisti dietro minacce di morte per i loro familiari, e hanno accusato il terzo arrestato, un egiziano, di essere il vero scafista. Una tesi che sembra ricalcare la storia di «Io capitano», il film di Matteo Garrone, e che ha convinto il gip che ha scarcerato entrambi lasciando in carcere il solo egiziano.
Le toghe rosse tornano alla "resistenza". Al congresso della corrente Area gli slogan dei pm di Tangentopoli agitati contro Meloni. Luca Fazzo l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Un bel profumo di tempi andati, la nostalgia dolente dell'epoca in cui la magistratura incarnava la linea del Piave contro l'armata vincente del centrodestra. Nel congresso (che termina oggi a Palermo) della corrente di Area Democratica per la Giustizia, nome un po' prolisso per la vecchia, imperitura corrente delle «toghe rosse», a lanciare tra ieri e l'altro ieri il revival del «resistere, resistere» è il segretario uscente Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma: che come spesso accade ai leader a fine mandato ci tiene a lasciare traccia di sé almeno nei ricordi e nelle emozioni. Così tuona dal palco e ancor prima tuona a mezzo stampa, con una intervista tellurica alla Stampa in cui per dire dell'Italia il peggio possibile accomuna il paese ad un elenco di presunte nazioni canaglia: l'Ungheria, la Polonia, l'America di Trump e (incredibilmente) Israele.
A sottilizzare, ci si potrebbe domandare se il rigore che il ministro della Difesa Guido Crosetto ha avuto nel far rientrare tra i ranghi il generale Vannacci, ricordandogli che un servitore dello Stato ha un diritto di parola limitato, verrà impiegato anche nei confronti di Albamonte. Che, anche nella forma, si permette inconsuete libertà di linguaggio: quando, per esempio, definisce Matteo Renzi «ubriaco di maggioritarismo». Ubriaco, testuale.
Il problema è che, davanti alla platea di Area, Albamonte è tutt'altro che solo. Le uscite finali del leader che attribuiscono al governo una deriva quasi golpista («norme insidiose per gli equilibri democratici definiti dalla Costituzione») vengono accolte dagli applausi. In attesa del successore di Albamonte - quasi sicuro Giovanni «Ciccio» Zaccaro, ex Csm - sarebbe da chiedersi se magistrati saggi ed esperti che fanno parte della storia di Area (dal procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo al suo pm Giovanni Ardituro) si riconoscano appieno nei furori di Albamonte. Ma lì, a Palermo, nel trecentesco palazzo di piazza Marina, la claque è tutta per il segretario uscente. Il palazzo, d'altronde, una volta era la sede del tribunale dell'Inquisizione.
Arriva Giuseppe Conte, arriva la Elly Schlein, entrambi affannati a proporsi alle «toghe rosse» come alfieri delle loro rivendicazioni. Ma, applausi di cortesia a parte, è chiaro che ad Area qualunque targa di partito sta stretta, l'ambizione è giocare in proprio, rivendicare un proprio ruolo autonomo e trainante nell'opposizione al governo. Un po' come i poteri forti dell'economia (ammesso che esistano davvero) si dice che auspichino un governo tecnico come alternativa credibile alla Meloni, così Area si candida a incarnare un immaginario paese della legalità contro un altrettanto immaginario governo dell'illegalità.
A ben vedere, però, l'attacco di Albamonte e dei suoi compagni alla deriva «maggioritarista» in corso nel paese è l'altra faccia della deriva «minoritarista» di Area: in minoranza tra colleghi sempre più disincantati, in minoranza dentro il Consiglio superiore della magistratura, la corrente oggi - per bocca del suo leader - si lamenta del fatto che nel Csm consiglieri moderati sia in toga che laici facciano blocco. Che è quanto accadeva un tempo sul versante opposto, quando le nomine volute da Magistratura democratica venivano approvate con i voti decisivi dei politici di nomina comunista e diessina. Ma allora andava tutto bene.
Oggi per Area sono nel mirino del governo la Costituzione, la Corte Costituzionale, persino il presidente della Repubblica. Nei piani del centrodestra, a partire dalla separazione delle carriere, per Albamonte c'è «una giustizia forte con i deboli e debole con i forti», asservita a un «governo che orienta le investigazioni verso stranieri, emarginati, avversari politici, e utilizza un metro più soft per i propri accoliti». Standing ovation, nel palazzo dell'Inquisizione.
Un cane sciolto, mai iscritta a correnti”. Chi è Iolanda Apostolico, la magistrata che sfida il governo sui migranti. Alessandra Ziniti su La Repubblica l'1 Ottobre 2023
Di certo non è una toga rossa. Ma ora gli strali del governo sono contro di lei. Salvini: “Subito una riforma della giustizia”
Di lei in tribunale a Catania dicono: «Se c’è un cane sciolto qui, è Iolanda Apostolico». Mai iscritta a correnti della magistratura, lontana persino dal movimento di chi ne chiede lo scioglimento. Il suo lavoro e basta. Difficile trovare qualcosa che possa rivelare le sue idee e tanto meno qualificare una eventuale appartenenza politica.
La difesa della giudice di Catania Apostolico: “Io scafista in toga? Alla base dei miei atti solo motivi giuridici”. Alessandra Ziniti La Repubblica il 3 Ottobre 2023.
La magistrata accusata dal governo: “Non mi lascio condizionare dalle mie idee”. Il marito lavora in tribunale: “Puntano a indebolire le sentenze”
“Ma davvero mi hanno chiamato scafista in toga? Mi viene quasi da ridere”. Ieri mattina, al rientro in ufficio dopo un weekend di fuoco, Iolanda Apostolico si sfoga con una collega. Se la pressione su di lei non fosse così alta (e basterebbe l’intervento censorio della premier) scapperebbe anche da ridere. Ma la giudice che ha “osato” non convalidare il trattenimento dei primi richiedenti asilo sottoposti alla procedura accelerata di frontiera è finita sulla graticola. Accusata di aver firmato un provvedimento condizionata da un’appartenenza politica che non ha, come testimonia il fatto che in trent’anni di carriera non ha mai avuto una tessera di nessuna corrente della magistratura.
Chi è Iolanda Apostolico, la giudice che ha stoppato il decreto sui migranti: «Il mio provvedimento è impugnabile, non sta a me difenderlo». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera di lunedì 2 ottobre 2023.
Da 20 anni a Catania, ai colleghi spiega la sua decisione: «La mia non è affatto una decisione politica, io ho preso le mie determinazioni solo sulla base del diritto»
Il profilo Facebook è inaccessibile. Dopo le polemiche sul provvedimento col quale, di fatto sconfessando il cosiddetto decreto Cutro, non ha convalidato il fermo di tre migranti tunisini trattenuti nel cpr di Pozzallo, Iolanda Apostolico, giudice civile del tribunale di Catania, ha chiuso la sua pagina social. Cinquantanove anni, tre figli, originaria di Cassino, ma da 20 anni a Catania, ha dichiarato illegittimo il fermo disposto dal questore di Ragusa sostenendo che fosse contrario alle normative europee e alla Costituzione.
Chi è
Una esperienza nel penale da giudice del Riesame delle misure di prevenzione, mai iscritta alle correnti della magistratura, Apostolico è una giudice schiva, seria, apprezzata negli uffici giudiziari. Da tempo lavora nel Gruppo specializzato per i diritti della persona e della immigrazione della prima sezione civile del tribunale di Catania, presieduta da Massimo Maria Escher, con le colleghe Marisa Acagnino e Stefania Muratore. «La mia non è affatto una decisione politica, io ho preso le mie determinazioni solo sulla base del diritto», ha detto la giudice ai colleghi più stretti dopo le accuse di «sentenza ideologica» lanciate dal centrodestra nei giorni scorso.
Le parole della premier
Sulle parole della premier Meloni, che su Fb si è detta «basita davanti alla sentenza del giudice di Catania» e ha parlato di «motivazioni incredibili» Apostolico non vuole fare commenti e, appunto, domenica ha chiuso il profilo.
La replica della giudice
«Non voglio entrare nella polemica, né nel merito della vicenda. Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo stare a difenderlo. Non rientra nei miei compiti. E poi non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale», dice la giudice Iolanda Apostolico.
I quotidiani Libero e il Giornale sono riusciti a leggere alcuni suoi post prima della decisione di lasciare il social e hanno riportato che la magistrata seguirebbe su Facebook l’ong Open arms e avrebbe condiviso diverse campagne lanciate da Potere al Popolo contro la destra e una mozione di sfiducia contro il leader leghista Matteo Salvini nel 2018. Non ha chiuso il profilo Fb, invece il compagno Massimo Mingrino, catanese, funzionario al palazzo di giustizia di Catania che non fa mistero delle sue simpatie per le posizioni di Potere al Popolo e comunque non risparmia critiche alla politica sull’immigrazione anche di governi di centrosinistra. «Minniti, Salvini, Lamorgese - scriveva il 4 aprile del 2021 - Una sequenza senza interruzione. Istituzioni che lasciano crepare centinaia, migliaia di persone in mare, mentre le imbarcazioni della nostra Guardia Costiera languono nei porti (anche al Nic di Catania), spesso e volentieri con i motori accesi. Potrebbero salvare centinaia di vite ogni giorno...».
E, dopo la mancata convalida del fermo di Carola Rackete, comandante della Sea Watch arrestata dopo aver forzato i blocco della Guardia Costiera a Lampedusa: «Bye bye Salvini, il giudice ha studiato le carte, ha verificato i fatti ed ha accertato che la legge non è stata violata. Se tu studiassi (si, vabbè...) ti risparmieresti questi fervorini mediatici che ti espongono - agli occhi delle persone consapevoli - solo al ridicolo... Carola è libera e noi, allegramente, brindiamo alla faccia Tua». Parole dure anche verso la procura di Catania diretta da Carmelo Zuccaro: «Vedete, per la Procura della Repubblica di Catania è l’ennesimo flop in materia di ONG ed organizzazioni connesse. C’è abituata. Il problema è che quello che sembra, non da oggi, l’obbiettivo di questa strampalata e superficiale azione giudiziaria - e cioè la delegittimazione vergognosa dell’operato delle ong nel Mediterraneo - è stato da tempo raggiunto. Grazie alla Procura di Catania le ong sono ormai praticamente scomparse dal Mediterraneo ed è venuta pertanto meno la loro preziosissima azione di salvataggio di vite umane e di monitoraggio di tutto ciò che avviene in quel mare. Questo è un danno enorme in termini di vite umane (e pensare che Zuccaro si spaccia per fervente cattolico...) e di consapevolezza ed informazione».
Non è la prima volta che la sezione migrazioni del tribunale di Catania finisce nell’occhio del ciclone: mesi fa, tra le polemiche, stroncò il cosiddetto decreto anti-sbarchi del ministero dell’Interno, condannando il Viminale e i dicasteri della Difesa e delle Infrastrutture al pagamento delle spese processuali dopo un ricorso della nave Ong tedesca Sos Humanity. L’imbarcazione si trovava nelle acque di Catania il 6 novembre del 2022. Oltre 140 profughi a bordo vennero fatti sbarcare subito, altri 35 rimasero sulla nave in forza della legge che vietava alla ong di restare in acque territoriali oltre il tempo necessario a prestare soccorso a chi avesse problemi di salute, alle donne e ai minori. Gli avvocati della Humanity fecero ricorso al tribunale civile di Catania a tutela di chi non era stato fatto sbarcare. E vinsero. «Dichiarammo Illegittimo il decreto perché contravveniva ai trattati internazionali sui soccorsi in mare e alle direttive europee», spiega Marisa Acagnino, giudice della sezione e collega della Apostolico. Acagino, criticata allora per la sua appartenenza a Md, la corrente di sinistra delle toghe, si schiera con la magistrata finita ora nell’occhio del ciclone. «Noi decidiamo secondo scienza e coscienza, e secondo la legge», dice. «La collega - spiega tornando sul decreto Cutro- ha disapplicato il provvedimento, tra l’altro, perché questo tipo di trattenimento si può fare in frontiera e in questo caso i migranti erano sbarcati a Lampedusa, poi erano transitati a Palermo e infine erano stati portati a Pozzallo, poi c’era il problema legato alla normativa europea e infine mancava il provvedimento della commissione apposita sulla manifesta infondatezza o inammissibilità della domanda di asilo».
«L’elenco dei Paesi sicuri, poi, — prosegue — è un elenco ministeriale che non vincola il giudice, è un atto amministrativo e per giurisprudenza costante i magistrati non sono vincolati». «Io sono orgogliosa di essere di Magistratura Democratica , - spiega- aderire a una corrente non significa che le proprie idee incidano sulle decisioni o che mi condizionino. Critichino nel merito i provvedimenti». «Non vedo nulla di anomalo nell’esprimere le proprie idee», conclude infine difendendo il diritto di Mingrino di esprimersi sui social. «Il Paese – dice - sarebbe peggio di quel che è se non difendessimo le nostre convinzioni».
A Catania. Chi è Iolanda Apostolico, la giudice che ha definito “illegittimi” i decreti migranti del governo Meloni. Mai iscritta a correnti della magistratura. "Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo stare a difenderlo. Non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale". Redazione Web su L'Unità il 2 Ottobre 2023
La premier Giorgia Meloni ha attaccato direttamente la sentenza: in un post sui social ha detto di essere rimasta “basita davanti alla sentenza del giudice di Catania” e ha parlato di “motivazioni incredibili”. Il caso è quello del ricorso accolto di quattro migranti che erano sbarcati a Lampedusa e che erano stati trasferiti al nuovo centro di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Il Tribunale aveva deciso la liberazione giudicando illegittimi sia il decreto Cutro che il decreto attuativo da poco approvato che introduceva la garanzia finanziaria di quasi 5mila euro per i migranti provenienti da Paesi “sicuri” mentre la loro domanda di protezione viene analizzata. “Non voglio entrare nella polemica, né nel merito della vicenda. Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo stare a difenderlo. Non rientra nei miei compiti. E poi non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale”, ha dichiarato all’Ansa.
Apostolico ha 59 anni, è originaria di Cassino, ha tre figli. Da vent’anni è a Catania, giudice civile del tribunale di Catania. Ha un’esperienza nel penale da giudice del Riesame delle misure di prevenzione. Non è mai stata iscritta alle correnti della magistratura. Da tempo lavora nel Gruppo specializzato per i diritti della persona e della immigrazione della prima sezione civile del tribunale di Catania, presieduta da Massimo Maria Escher, con le colleghe Marisa Acagnino e Stefania Muratore.
Dopo la sentenza ha chiuso il suo profilo Facebook, alcuni quotidiani come Libero e Il Giornale sono riusciti a sbirciare sulla sua pagina social e hanno scritto di presunte simpatie politiche. Ancora aperto invece il profilo del compagno Massimo Mingrino, funzionario al Palazzo di Giustizia di Catania che ha scritto in alcune occasione contro le politiche di immigrazione sia dei governi di centrosinistra che di questo di centrodestra, contro il segretario della Lega e ministro Matteo Salvini contro alcune decisioni della Procura di Catania diretta da Carmelo Zuccaro. Post che avevano a che fare con il fermo non convalidato di Carola Rackete e contro la guerra alle ong.
La giudice, nella prima parte del provvedimento, ha ricostruito la vicenda di un migrante tunisino di 31 anni sbarcato senza documenti a Lampedusa e trasferito a Pozzallo per la procedura di rimpatrio rapito. Era già stato destinatario di un provvedimento di espulsione dall’Italia e aveva chiesto “protezione internazionale a Pozzallo perché perseguitato per caratteristiche fisiche che i cercatori d’oro del suo Paese, secondo credenze locali, ritengono favorevoli nello svolgimento della loro attività (particolari linee della mano ecc.)”.
Per Apostolico non tenevano i presupposti per privare M. H. della libertà in attesa dell’esito della domanda di asilo secondo la direttiva Ue 33 del 2013 che impedisce la privazione della libertà “per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità … in secondo luogo che tale trattenimento abbia luogo senza adozione di una decisione motivata”. La stessa direttiva nella parte in cui prevede restrizioni alla libertà personale “non si applica nelle ipotesi di soccorso in mare nelle quali il diritto di ingresso deriva da norme interne e internazionali”.
Redazione Web il 2 Ottobre 2023
Iolanda Apostolico, toga e Rifondazione: chi è il giudice che libera i migranti. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2023
«Schiva, equilibrata, non ha mai espresso posizioni che abbiano condizionato il suo lavoro in un tribunale particolarmente garantista sui diritti umani», ha scritto ieri Repubblica a proposito di Iolanda Apostolico, la giudice della sezione protezione internazionale del tribunale di Catania che la scorsa settimana non ha convalidato il trattenimento dei migranti nel centro richiedenti asilo di Pozzallo. Una decisione che rischia di mettere seriamente in discussione, stando ai rilievi della giudice, i recenti provvedimenti del governo sul contrasto all’immigrazione clandestina e lo stesso decreto Cutro.
Il quotidiano del Gruppo Gedi, che ovviamente non ha nascosto la propria soddisfazione per l’accaduto, ha anche pubblicato una foto in bianco e nero della magistrata, fino a ieri mattina visibile sul suo profilo Fb. «Di certo non è una toga rossa desiderosa di riaccendere lo scontro tra magistratura e politica», prosegue l’articolo di Repubblica, facendo finta di ignorare che l’ordinanza della giudice, arrivata appena cinque giorni dopo l’inaugurazione della struttura a Pozzallo, una parte della quale – circa ottanta posti – destinata proprio ad ospitare le persone sottoposte alla procedura di frontiera accelerata, è una bomba lanciata sotto la sedia di Giorgia Meloni che si sta giocando molto della sua credibilità sul tema dei migranti.
CAMPAGNE ELETTORALI
Tornando invece alla magistrata, in servizio a Catania dal 2001, prima che il suo profilo Fb fosse oscurato ieri pomeriggio, vi si potevano leggere post molto lontani dallo stile “low profile” citato da Repubblica. Vi erano, infatti, condivisioni delle campagne elettorali di Potere al popolo, post contro politici del centrodestra, ed altri a favore di esponenti del Pd come l’allora senatore e sindaco dem della Capitale Ignazio Marino. La magistrata, sempre secondo Repubblica, non è iscritta ad alcuna corrente. Una fonte, però, ha riferito che in passato sarebbe stata vicina a Magistratura democratica, la corrente più politicizzata in assoluto e da sempre costola del Pci-Pds-Ds-Pd.
Apostolico, poi, sarebbe anche legata a un funzionario del ministero della Giustizia che in passato è stato dirigente di Rifondazione comunista e che, fra l’altro, aveva espresso tutta la sua soddisfazione in una nota di partito quando venne nominato Giovanni Salvi, uno dei capi di Md, procuratore di Catania. Ovviamente siamo in democrazia e ci mancherebbe che qualcuno sindacasse le idee della magistrata e del suo compagno. Il tema su cui riflettere riguarda allora la composizione di queste sezioni che si occupano di protezione internazionale. Per una strana circostanza, la maggior parte di questi uffici sono diretti da magistrati di sinistra.
CORRENTE DI SINISTRA
Sicuramente una coincidenza, ma è molto curioso che Magistratura democratica e le altre correnti della sinistra giudiziaria, che non fanno mistero di essere a favore dell’immigrazionismo più spinto, abbiamo monopolizzato tali sezioni specializzate. Il caso più eclatante è la sezione protezione internazionale del tribunale di Roma dove quasi tutti i giudici presenti sono vicini alla sinistra giudiziaria, anche con elementi di primo piano dell’associazionismo togato progressista a livello nazionale. Questa concentrazione di toghe rosse rischia dunque di spalancare le porte ad interpretazioni orientate verso una asserita tutela dei diritti senza se e senza ma degli immigrati con provvedimenti “pilota” che puntualmente balzano alle cronache proprio perché azzerano le norme del governo. Si tratta di sentenze sempre a favore del richiedente asilo che puntualmente l’Avvocatura dello Stato impugna per non vanificare l’operato delle Forze di polizia impegnate nel contrasto all’immigrazione clandestina. Il magistrato, recita la Costituzione, deve essere (ed apparire) terzo ed imparziale: destinare da parte del Consiglio superiore della magistratura toghe che contestano apertamente la politica del governo sull’immigrazione non può dunque non suscitare perplessità.
Magistratura. La giudice pro migranti: applico la legge. Dal Csm firme anti premier. Felice Manti il 3 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Il sindacato delle toghe fa scudo alla Apostolico e alla sua decisione. La sottoscrizione avviata da dieci membri togati
Il Csm si schiera con la giudice del Tribunale di Catania che ha fatto a brandelli il decreto Cutro nel mirino del centrodestra. Iolanda Apostolico (nella foto) ha accolto il ricorso di un tunisino richiedente asilo, trattenuto nel centro di Ragusa, a suo dire in contrasto con la normativa comunitaria. Il magistrato è stato accusato di avere simpatie di sinistra per il tenore di alcune sue prese di posizione sui social. Una sensibilità, anzi una «faziosità ideologica» legata a movimenti come Potere al popolo che potrebbe averla condizionata. «Questione giuridica, non fatto personale», si difende lei. In serata arriva la raccolta firme sostenuta dalla maggioranza dei togati del Csm, che chiedono l'apertura di una pratica a tutela della giudice Apostolico, vittima di una «grave delegittimazione professionale» dopo gli «attacchi all'autonomia» venuti «persino» dalla premier Giorgia Meloni, che si era detta «basita» dalla sentenza.
Secondo il magistrato la normativa del 14 settembre che prevede una sorta di «garanzia finanziaria» di 5mila euro per evitare di essere trattenuti sarebbe «incompatibile con la normativa Ue sull'accoglienza» e «va disapplicata perché non prevede una valutazione su base individuale di chi chiede protezione internazionale», come stabilirebbero alcune recenti sentenze della Corte di giustizia Ue. Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ha già fatto sapere che il Viminale presenterà ricorso per far valutare la fondatezza dei richiami giuridici: «Dalla lettura convinti ci siano ragioni da sostenere». Intanto il centro di trattenimento per richiedenti asilo, aperto appena sette giorni fa nell'area industriale Modica-Pozzallo, si è già svuotato.
Al netto dei distinguo giuridici, la vicenda si è subito trasformata nell'ennesimo braccio di ferro tra la magistratura e la politica, proprio nelle settimane in cui si discute di riforma della giustizia e a 10 anni esatti dalla tragedia di Lampedusa dove morirono 386 disperati. La stessa Apostolico si schernisce: «Il provvedimento? Non devo stare a difenderlo, non rientra nei miei compiti». A farlo ci ha pensato anche l'Anm, il sindacato delle toghe, con «una posizione ferma e rigorosa a tutela della collega, persona perbene che ha lavorato nel rispetto delle leggi. Il rapporto tra potere esecutivo e giudiziario andrebbe improntato a ben altre modalità». Una risposta ai rilievi della premier e del vicepremier Matteo Salvini, che ha commentato le «gravi ma non sorprendenti notizie sul suo orientamento», chiedendo lumi al Guardasigilli Carlo Nordio. «Toni scomposti al di là della loro conclamata infondatezza - ribadisce l'Anm di Catania - lontanissimi da quelli che dovrebbero sempre informare una corretta dialettica tra poteri dello Stato». «La magistrata di sinistra che non fa rispettare un decreto del governo è una pessima servitrice dello Stato», incalza l'azzurro Flavio Tosi. «Davvero a Palazzo Chigi pensano che trovando ogni giorno un nemico potranno essere assolti?», si chiede Osvaldo Napoli di Azione. Di «ignobile linciaggio» parla Nicola Fratoianni (Verdi-Sinistra). «Nulla di personale nelle sue scelte, molta politica, come si evince sui suoi social contro i decreti Sicurezza di Salvini nel primo governo di Giuseppe Conte», sottolinea il vicepresidente Fdi della Camera Fabio Rampelli. Scende in campo anche la corrente delle toghe rosse più pasdaran come Area con l'ex segretario Eugenio Albamonte: «Si scava nella sua vita privata per capire quali siano i suoi orientamenti personali, comportamenti non degni di una democrazia». «No, sono indegne le indagini senza rispetto per la privacy che hanno rovinato molte vite, non i post in rete», replica l'azzurro Giorgio Mulè. La sensazione è che lo scontro con le toghe sia solo all'inizio.
Si “spacca” il Csm sulla giudice di Catania Iolanda Apostolico. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Ottobre 2023
Una parte dei togati prevalentemente di sinistra, chiede di aprire una pratica a tutela del magistrato al centro delle polemiche. Magistratura indipendente però non firma: "La militanza politica non ci appartiene". Quello che dovrebbe capire ed applicare quando indossa la toga la giudice Apostolico...
Il Consiglio Superiore della magistratura si divide sul “caso” del giudice di Catania Iolanda Apostolico. Al centro, la richiesta depositata oggi di aprire una pratica a tutela della giudice che non ha convalidato il trattenimento di quattro migranti a Pozzallo, disapplicando il decreto Cutro, ritenendolo illegittimo. Istanza firmata da 13 consiglieri delle correnti di Area, Md ed Unicost, e dagli indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda , ma non dai membri togati di “Magistratura indipendente“.
Dal testo finale sul quale era stata organizzata ieri una raccolta firme all’ultimo sono scomparsi i riferimenti diretti alle parole del premier Giorgia Meloni che si era dichiarata “basita” dalla decisione della giudice Apostolico mentre si parla “di dichiarazioni da parte di esponenti della maggioranza parlamentare e dell’Esecutivo che, per modi e contenuti, si traducono in autentici attacchi all’autonomia della magistratura” la solita lagna di quei magistrati-politicanti che si sentono degli “intoccabili” .
La “rimozione” delle parole del premier Meloni non è stato però sufficiente a convincere i consiglieri di Magistratura Indipendente la corrente notoriamente “moderata” dell’organo di autogoverno dei giudici. Si legge ancora nel documento un riferimento alla “grave delegittimazione professionale del giudice estensore dell’ordinanza” per la quale i magistrati firmatari hanno chiesto “con la massima urgenza” l’apertura di una pratica a tutela della Apostolico .
Molte delle accuse nei confronti della giudice di Catania sono conseguenti al suo dichiarato orientamento politico, che finché il suo profilo Facebook è stato visibile e, quindi, pubblico, era sotto gli occhi di tutti. C’era in bella mostra, come primo post della sua bacheca, una petizione del 2018 per chiedere ai parlamentari la sfiducia dell’allora ministro Matteo Salvini e c’erano diversi post in difesa di migranti e Ong. Chissà come mai… la giudice ha fatto scomparire il proprio profilo da Facebook ?!!!
Salvini infatti sembra essere particolarmente inviso a tutta la famiglia di Apostolico, come dimostra quel “like” che lo stesso giudice, il 16 agosto 2018, aveva messo su un post di suo marito Massimo Mingrino impiegato del tribunale etneo, anche lui simpatizzante della sinistra rossa, attivista di Rifondazione Comunista e Potere al Popolo, il quale a differenza di sua moglie ha lasciato aperto il suo profilo. sul quale negli ultimi anni ha pubblicato post assai critici contro la politica in tema di immigrazione degli ultimi governi, senza per altro risparmiare quelli di sinistra. “Minniti, Salvini, Lamorgese, una sequenza senza interruzione – scriveva Mingrino nel 2021 – istituzioni che lasciano crepare migliaia di persone in mare mentre imbarcazioni della Guardia costiera languono nei porti spesso e volentieri con i motori accesi. Potrebbero salvare centinaia di vite ogni giorno”.
Il marito della giudice Apostolico ha pubblicato anche una foto di una festa “multietnica“, che si tenne a Milena, in provincia di Caltanissetta, in quella che lui definisce “la nostra arretrata Sicilia”. All’interno della foto, compaiono alcuni ragazzi di colore che sembrano ballare e la didascalia di Mingrino è molto chiara: “Festa di piazza, si balla, si salta, tutti insieme… Allegria, energia, gioia… Fanculo Salvini“. Una didascalia colorita alla quale il giudice ha esternato il suo consenso. Una chiara manifestazione del suo orientamento politico, legittimo al di là di ogni contestazione, finché però non entra nelle aule di tribunale e si indossa la toga di giudice che dovrebbe essere in quella veste apolitico ed imparziale.
La giudice di Catania Iolanda Apostolico è evidentemente “schierata” in favore di quella sinistra radicale che appoggia con convinzione i movimenti no-borders e le Ong ed è per tale ragione che in molti considerano la sua una sentenza ideologica. Disapplicando il decreto Cutro ha di fatto rimesso in libertà quattro tunisini, dei quali due peraltro già con precedenti. Nessuno di loro ha il profilo del rifugiato, e quindi non si configura per loro la protezione internazionale. Una ragione in più a conferma del sospetto di una decisione “ideologica”, che però la Apolistico rigetta al mittente dichiarandosi convinta dell’inattaccabilità della sua decisione, che verrà opposta dal Governo, per voce del Ministro dell’ Interno, che ha già annunciato il ricorso in Cassazione, che verrà depositato nei prossimi giorni. Redazione CdG 1947
"Tutela per Iolanda Apostolico". Atto formale: 13 toghe dichiarano guerra al governo. "Sui social le sue opinioni sul governo?": giudice di Catania, Violante ammutolisce la sinistra. Claudio Brigliadori su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2023
Grida alla gogna mediatica, David Parenzo, poi però è il primo, a L’aria che tira su La7, a mandare in onda ripetutamente il volto “in borghese” di Iolanda Apostolico, il chiacchieratissimo giudice di Catania che la scorsa settimana ha deciso di “smontare” il decreto del governo liberando alcuni migranti irregolari che sarebbero dovuti finire nel centro di Pozzallo.
Una sentenza che ha «lasciato basita» Giorgia Meloni e che a fatto dire a Matteo Salvini che «i tribunali sono luoghi sacri, non della sinistra». La prima mattinata di lunedì è stata caldissima, con le dichiarazioni dei due leader e decine di reazioni “indignate” a sinistra.
Parenzo casca a fagiuolo e batte il ferro finché è caldo, tanto da far venire un sospetto: prendendo nettamente le difese della toga, e accusando il centrodestra di delegittimare la magistratura, ottiene esattamente l’effetto opposto dando ai telespettatori l’idea di un grosso “complottone”.
Dal suo punto di vista, un clamoroso autogol. Tra studio e collegamento si alternano voci assai schierate. Il rossissimo professor Luciano Canfora paragona Salvini a Mussolini e la giudice di Catania a Carola Rackete, e arriva a proporre il Premio Nobel per la Apostolico perché «in un regime autoritario c’è bisogno di un nemico».
La giornalista Claudia Fusani se la prende ovviamente sempre con Salvini: «Gravissimo che un leader politico prenda un magistrato e lo metta nel mirino». La più moderata è proprio una collega di partito di Meloni, la deputata di Fratelli d’Italia Ylenja Lucaselli: «Non è il magistrato a essere nel mirino, ma c’è una magistratura politicizzata e non lo scopriamo oggi. C’è da fare una riflessione». Intanto Parenzo continua a incitare la regia di La7: «Mostriamo la faccia della giudice». Inspiegabile, o forse no.
Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2023.
[…] «Non voglio entrare nella polemica, né nel merito della vicenda. Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo essere io a difenderlo». È netta Iolanda Apostolico, giudice civile al tribunale di Catania, travolta dalle critiche del centrodestra, premier Meloni e ministro Salvini in testa, per non aver convalidato, di fatto così sconfessando il cosiddetto decreto Cutro, il trattenimento nel cpr di Ragusa di 4 tunisini richiedenti asilo.
«Non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale», risponde, riferendosi alle critiche che le rivolgono Libero e Il Giornale , riusciti a leggere, prima della decisione di chiudere la pagina Facebook, suoi post che tradirebbero una simpatia per alcune campagne di Potere al Popolo, come una mozione di sfiducia contro il leader leghista Matteo Salvini.
Non ha smesso di usare il suo profilo social, invece, il compagno Massimo Mingrino, catanese, funzionario al palazzo di giustizia di Catania, che non risparmia critiche alla politica sull’immigrazione degli ultimi anni e che, dopo la mancata convalida del fermo di Carola Rackete, comandante della Sea Watch arrestata dopo aver forzato i blocco della guardia di finanza a Lampedusa, scriveva: «Bye bye Salvini, il giudice ha studiato le carte, ha verificato i fatti ed ha accertato che la legge non è stata violata. Se tu studiassi (si, vabbè...) ti risparmieresti questi fervorini mediatici».
Tre figli, originaria di Cassino, ma da 20 anni a Catania, […] Apostolico è un giudice schivo, serio, molto apprezzato in tribunale. Da tempo lavora nel «Gruppo specializzato per i diritti della persona e della immigrazione» della prima sezione civile del tribunale di Catania […].
«La mia non è affatto una decisione politica, io ho preso le mie determinazioni sono sulla base del diritto», ha detto ai colleghi più stretti dopo le accuse di «sentenza ideologica» lanciate dal centrodestra.
In sua difesa, si schierano l’Anm catanese, che giudica «irriguardosi» gli attacchi contro Apostolico, l’ex segretario di Area Eugenio Albamonte, secondo il quale «c’è una involuzione molto forte del governo attuale nel rispettare il ruolo della magistratura» e dieci togati del Csm che parlano di «attacchi all’autonomia dei giudici» e raccolgono le firme per l’apertura di una pratica a tutela. […]
Mattia Feltri per “La Stampa” - Estratti il 3 ottobre 2023.
La decisione del tribunale di Catania di disapplicare i decreti anti immigrazione del governo era stata ampiamente pronosticata, ed è stata ora ampiamente condivisa da vari costituzionalisti, ma una seria ragione per lamentarsi Giorgia Meloni l’ha in pieno.
Il Giornale ha infatti svelato che il giudice in questione, Iolanda Apostolico, aveva condiviso sul suo profilo Facebook una petizione affinché Matteo Salvini (allora all’Interno) fosse sfiduciato, ed espresso battagliere posizioni pro migranti e contro la destra. Tutto legittimo, poiché viviamo in regime di libertà di opinione.
Ma, come aveva detto il ministro Crosetto a proposito del generale Vannacci, esistono alcune categorie - magistratura, forze armate, forze dell’ordine che, per l’enormità dell’uso esclusivo della forza, anche di togliere la libertà, di cui sono per legge dotate - alle quali è richiesto non soltanto di essere ma di apparire imparziali.
È uno scrupolo sottolineato non da Crosetto o da me, ma dalle Sezioni unite della Cassazione: “… impone al giudice non soltanto di essere esente da ogni parzialità, ma anche di essere al di sopra di ogni sospetto di parzialità”. Uno scrupolo che buona parte della magistratura ignora e da anni, e nonostante Piero Calamandrei - che piace tanto citare e altrettanto trascurare - fondasse l’indipendenza della magistratura nella sua imparzialità, e l’imparzialità, diceva, presuppone lontananza e solitudine.
(...) I magistrati hanno perso la fiducia dei cittadini perché il loro enorme potere è, o quantomeno appare, un abuso di potere.
Basta con i magistrati «di parte», e con chi li difende ma poi critica Vannacci. Federico Novella su Panorama il 03 Ottobre 2023
Basta con i magistrati «di parte», e con chi li difende ma poi critica Vannacci Il caso di Catania dimostra come diverse toghe schierate politicamente possano giudicare politici ed i loro atti. Con buona pace del concetto di «super partes» Nel corso dell’ultima puntata di “Quarta Repubblica”, su Rete4, lo storico Angelo D’Orsi, riferendosi al giudice del tribunale di Catania che non ha convalidato il fermo dei migranti a Pozzallo, ha ripetuto con grande nonchalance un concetto che ormai in Italia viene dato per scontato: “Essere di sinistra non è una colpa”. Anche per una toga. Il fatto che un magistrato esprima liberamente opinioni politiche, anche schierandosi apertamente con toni tutt’altro che velati, è una tradizione tutta italiana che da Tangentopoli in poi è divenuta consuetudine. Il quotidiano “La Repubblica” parlava di tale magistrato come una toga “senza macchia né colore”, quando sui social network risulta che nel 2018 abbia condiviso una petizione per sfiduciare il ministro dell’interno Salvini
E abbia condiviso una petizione per sfiduciare il ministro dell’interno Salvini. E nel 2011 lo stesso magistrato scriveva: “Ricordiamoci che c’è qualcosa anche a sinistra di Vendola”. La libertà di pensiero è sacra, ma può un magistrato schierarsi politicamente su questioni nelle quali esercita il suo servizio? E’ lecito che nel nostro Paese esista una corrente storicamente progressista, Magistratura Democratica, che si è sempre ritenuta alla stregua di un partito politico in toga? Qua si scontrano due filosofie. Quella liberale del magistrato silente, che come la moglie di Cesare indossa la toga come divisa di servizio, che applica le leggi e non le contesta. E poi c’è la concezione “democratica” della magistratura, quella nata negli anni Sessanta ben riassunta dall’ex segretario di Md Livio Pepino: cioè quella secondo cui la Costituzione, “prima ancora che la fedeltà alla legge, comanda” per le toghe “la disobbedienza a ciò che legge non è. Disobbedienza al pasoliniano “palazzo”, disobbedienza ai potentati economici”. Questa idea della magistratura combattente che raddrizza i torti del mondo a colpi di sentenze, è una concezione pericolosa insinuatasi a tal punto nel vivere civile, che chi la contesta passa quasi per matto. E’ per questo che tolleriamo come niente fosse il moltiplicarsi delle “correnti” delle toghe, e le sottocorrenti in guerra tra loro, davanti e dietro i riflettori. Per non parlare dell’Anm, equiparato ormai a una Fiom tribunalizia. E la cosa curiosa è che nello stesso tempo, mentre a un magistrato viene garantita piena libertà di partigianeria, accade che la stessa libertà non venga accordata a un militare (leggasi Vannacci), o addirittura venga negata a un Ministro della Repubblica (leggasi Roccella), zittito a un pubblico dibattito poiché simbolo della difesa della famiglia tradizionale. Certe cose non si possono dire in quanto politicamente scorrette, ma contemporaneamente i magistrati, se vogliono, possono schierarsi apertamente nell’agone politico, esprimere giudizi su questo o quel ministro, e nessuno può permettersi di alzare il dito e dissentire. C’è qualcosa di storto che va raddrizzato, e non si tratta di censurare nessuno: ma perlomeno domandiamoci se in un Paese civile il comizio e la veste giurisdizionale possano accavallarsi così sfacciatamente. Fino al punto, e anche a questo ormai siamo abituati, che le toghe possano entrare e uscire dal parlamento per ritornare nelle aule di giustizia come niente fosse.
Iolanda Apostolico, la giudice sempre a sinistra: l'altra sentenza politica. Christian Campigli su Il Tempo il 05 ottobre 2023
Una diatriba lunga trenta, interminabili anni. Un arcigno confronto, quello tra politica e magistratura, divampato ai tempi di Tangentopoli, emerso in tutto il suo fragore durante i governi guidati da Silvio Berlusconi e tornato di strettissima attualità dopo il pronunciamento di Catania. Una sentenza, quella emessa dal giudice Iolanda Apostolico, che, di fatto, ha disapplicato il cosiddetto Decreto Cutro sull’immigrazione approvato lo scorso marzo ritenendo «illegittimo trattenere chi sta richiedendo asilo». Il togato ha stabilito che alcuni punti della norma fideiussione - provvedimento di trattenimento e procedure accelerate in frontiera – si porrebbero in contrasto con le leggi europee. Una scelta che ha sollevato un vespaio di polemiche. Basti pensare al premier, Giorgia Meloni, che si è definita «basita per una sentenza dalle motivazioni incredibili». In realtà, non è la prima volta nella quale Iolanda Apostolico si trova a doversi esprimere su vicende penali, condite da risvolti politici.
Basti pensare a quando, in veste di giudice a latere della Corte di Assise di Catania, l'11 dicembre del 2019, condannò a tredici anni di reclusione Guido Gianni. Una vicenda, quella dell'orefice siciliano, ancora oggi avvolta da numerosi interrogativi. Il 18 febbraio 2008, il gioielliere di Nicolosi, piccolo centro ad un passo dall'Etna, fu vittima di una rapina. Tre uomini assaltarono il suo negozio e aggredirono lui e la moglie. Gianni sparò e uccise due dei tre rapinatori. Secondo la tesi accusatoria, l'uomo avrebbe esploso i colpi alle spalle dei banditi e, per questo motivo, non gli venne riconosciuta la legittima difesa. Una decisione fortemente criticata dalla moglie del commerciante, che ha lanciato una petizione su Charge.org. «Ha difeso me, la sua vita, quella di un cliente e la nostra attività commerciale. Ed è per questo che ritengo che non possa pagare per la malvagità dei suoi assalitori». La Lega, sin dal primo momento, si è schierata dalla parte di Gianni. «Condannato, dopo una vita di lavoro, per aver reagito a una rapina a mano armata, difendendo la moglie dall'assalto dei rapinatori – ha sottolineato il leader del Carroccio, Matteo Salvini – Un'autentica follia. La difesa è sempre legittima».
Aspre critiche sono giunte anche dall'europarlamentare della Lega, Susanna Ceccardi. «Il giudice che ha rilasciato i migranti trattenuti a Pozzallo condivideva sui social le raccolte firme per sfiduciare Salvini e per comprare i biglietti aerei per i migranti irregolari in modo da farli venire direttamente in Italia. Lo stesso magistrato ha condannato l’orefice Guido Gianni per omicidio volontario, mentre la Lega conduceva una battaglia per la legittima difesa, molto osteggiata dalla sinistra. Ho incontrato Guido Gianni all’Ucciardone tempo fa ed è stato un momento di grande commozione. Abbiamo riflettuto sul fatto che al suo posto ci sarebbero potute essere molte altre persone perbene che avrebbero reagito alla stessa maniera, di fronte a una situazione così allucinante».
Sentenze da piangere e magistrati co***oni: Feltri nauseato dallo scontro. Cicisbeo su Il Tempo il 05 ottobre 2023
Nella sentenza con cui il tribunale di Catania ha giudicato illegittimo il decreto del governo sulle espulsioni accelerate di quattro migranti ci sono alcuni passaggi quantomeno anomali (e bizzarri) per giustificare un simile provvedimento: uno dice di essere perseguitato dai cercatori d’oro del suo Paese per alcune caratteristiche fisiche che ha, cioè le linee della mano... Un altro per dissidi con i familiari della sua ragazza, un altro ancora per la mancanza di adeguate cure ospedaliere in Tunisia, l’ultimo per le minacce che avrebbe subito dai creditori. La giudice Apostolico ha però assicurato di aver deciso della sorte dei quattro stranieri sulla base di motivazioni «esclusivamente giuridiche», e non avremmo alcuna esitazione a crederle se nel recente passato non si fosse, diciamo così, un po' esposta politicamente promuovendo sulla sua bacheca Facebook una raccolta di firme per le dimissioni di Salvini dal Viminale, invocando una «sinistra più a sinistra di Nichi Vendola» e invitando a partecipare ad alcune manifestazioni di Rifondazione comunista. La libertà di pensiero è sacra anche per i magistrati, ma è altrettanto sacro il nostro diritto al dubbio su una sentenza che odora di politica come l’incenso odora di sacrestia, e in questo senso il cognome Apostolico fa anche pendant. In questi giorni tanti, a sinistra, hanno preso le difese della giudice in nome della separazione dei poteri, anch’essa ovviamente sacra in questa Repubblica, scrivendo che la premier Meloni ha travisato il contenuto della sentenza, in quanto la frase sui cercatori d’oro è semplicemente riportata tra le premesse del provvedimento e non viene ripresa nelle motivazioni (una distinzione, se mi è consentito, un po’ da Azzeccagarbugli). Non solo: si è fatto notare che la giudice non dichiara affatto la Tunisia Paese non sicuro, ma sottolinea che alla luce della Costituzione e delle norme europee «deve escludersi che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale». Anche qui, ci si arrampica sugli specchi su una questione di lana caprina: se non è zuppa, è pan bagnato!
Su una cosa almeno la sinistra dovrebbe convenire: dichiarare un Paese non sicuro è compito che non spetta sicuramente alla magistratura. Invece il partito unificato delle procure mette in dubbio anche questo, e invito chi avesse ancora dubbi in proposito a leggere quello che ha scritto il tribunale di Firenze, che si è apertamente arrogato (carta canta) il diritto di dichiarare la Tunisia «Paese non sicuro». Lo ha fatto esaminando il caso di un altro migrante tunisino che pure, per giustificare la legittimità della sua richiesta di asilo, non si era dichiarato vittima di particolari persecuzioni, ma aveva posto attraverso i suoi legali una questione più complessiva: «La grave crisi socioeconomica, sanitaria, idrica e alimentare, nonché l’involuzione autoritaria e la crisi politica in atto sono tali da rendere obsoleta la valutazione di sicurezza compiuta a marzo dal governo italiano». Ma può un tribunale sindacare la valutazione di sicurezza di un Paese fatta dal governo? Avendo studiato un po’ di diritto costituzionale mi verrebbe di rispondere no, ma i giudici fiorentini non hanno questo scrupolo: scrivono infatti che non solo può, ma «deve». E che importa se l’Unione europea consente ai governi di stilare liste di Paesi sicuri autorizzando per tutti gli altri regole semplificate per il rimpatrio? «Il sacrificio dei diritti dei richiedenti asilo non esonera il giudice dal generale obbligo di verifica e motivazione in ordine ai profili di sicurezza del Paese». E qui arriva il paradosso: il tribunale di Firenze sostiene beffardamente che la «separazione dei poteri» resta fuori discussione, e che non ha alcuna velleità di invadere la sfera politica. Ma al giudice spetterebbe una «garanzia di legalità supplementare» in ossequio a norme internazionali e costituzionali «che prevalgono sui decreti del governo» (ma la Costituzione non limita forse il diritto d’asilo allo straniero a cui sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche?... forse ho letto male).
Quindi la magistratura, da Catania a Firenze, sta motu proprio costruendo una Costituzione materiale secondo cui sulla politica internazionale il parere dei giudici prevale sulle scelte del governo, in barba proprio alla separazione dei poteri di Montesquieu, sconfinando così nel campo dell’anarchia istituzionale, con un ordine dello Stato che si autoassegna il diritto non solo di non rispettare le leggi dello Stato, ma anche di imporre le sue scelte al governo. Ma non c’è da stupirsi, e sulla questione migratoria non possono che tornare alla mente le parole del procuratore capo di Viterbo Auriemma nella conversazione intercettata con l’allora presidente dell’Anm Palamara: «Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando: illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell'Interno interviene perché questo non avvenga, e non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento. Sbaglio?». E la risposta di Palamara fu illuminante: «No, hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo». Un comandamento molto poco apostolico.
Caso Apostolico, l'ira dei colleghi. Una toga delle Marche accusa: "Io criticata per la condanna a Grillo, nessuno mi difese". Luca Fazzo il 5 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Un procedimento disciplinare nella storia di Iolanda Apostolico, la giudice catanese divenuta nuova icona della sinistra dopo il suo provvedimento a favore dei migranti e contro il governo Meloni, c'è stato, e risale a vent'anni fa: ma la vedeva come vittima, per la cerimonia di iniziazione che le venne riservata appena arrivata in Sicilia dai colleghi, probabilmente non indifferenti alla sua avvenenza, che finirono denunciati e sanzionati.
Per il resto, nessuno ha mai trovato nulla da ridire nè nelle sue sentenze nè nelle esternazioni - tutte politicamente ben indirizzate - sui social network. Eppure più si scava, e più le figure della Apostolico e di suo marito Massimo Mingrino appaiono lontane dalla immagine di ieratica imparzialità politica che le venne cucita su misura all'indomani della liberazione dei quattro tunisini fermati in base alla nuova legge.
Questo spiega anche la reazione che in una parte della magistratura si sta registrando alla campagna in difesa della Apostolico scattata immediatamente da parte delle correnti di sinistra e di centro, con anche la richiesta di un intervento «a tutela» della giudice da parte del Csm. La pratica «a tutela» è uno strumento simbolico, privo di conseguenze concrete, ma che ha il pregio di fare sapere al mondo che il Consiglio superiore sta dalla parte di un collega. Ma ci sono casi in cui la «tutela» non scatta. A denunciarlo, commentando sulla mailing list dell'Associazione nazionale magistrati la richiesta a favore della Apostolico, è il giudice marchigiano Anna Maria Gregori, che nel 2016 condannò Beppe Grillo per diffamazione: «Sono stata attaccata personalmente per una sentenza di condanna a Grillo che mi ha attaccato pesantemente su tutti i giornali, nessuna pratica a tutela. I colleghi non erano d'accordo a tutelarmi? Se qualcuno ha una risposta la ascolto con piacere, in tanti anni non l'ho mai avuta. Devo dedurre che non si tratta di tutela dell'indipendenza che dovrebbe essere applicata a tutti i magistrati e per gli attacchi di tutti i partiti». Se invece è la sinistra a infangare un magistrato, per il Csm non c'è problema: lo ricorda, in un messaggio sulla stessa mailing list, il giudice Giuseppe Bianco, citando il caso di Valeria Sanzari, procuratore aggiunto a Padova che nel giugno scorso ordinò di cancellare decine di trascrizioni illegali di adozioni gay disposte dal sindaco, e che venne ricoperta per questo di insulti: contro di lei ci fu persino un appello, «era contro la collega Sanzari - scrive Bianco - che aveva adottato per obbligo di legge dei provvedimenti non alla moda». Anche in quel caso il Csm rimase immobile.
Per la Apostolico, invece, il Csm è chiamato a scendere in campo, e i consiglieri moderati di Magistratura Indipendente che non hanno firmato la richiesta a favore della collega vengono sommersi di contumelie sulle chat delle toghe organizzate, accusati di condividere le «scomposte reazioni del presidente del Consiglio» al provvedimento della collega.
Quello che non è chiarissimo è se le correnti di sinistra ritengano legittimo non solo il provvedimento della Apostolico ma anche le sue esternazioni politiche di estrema sinistra. La giudice ha rapidamente chiuso il suo profilo social, ma a fare capire che aria tiri in casa resta la figura di suo marito Massimo, già esponente di Rifondazione Comunista. A Catania c'è chi ricorda ancora di averlo visto in corteo nel 2001, il giorno dopo la morte a Genova di Carlo Giuliani, reggere uno striscione dietro il quale si lanciavano slogan contro i «carabinieri assassini». In tempi più recenti ai combattivi post su Facebook Migrino continua ad accompagnare vibranti interventi pubblici, come quando accusò il sindaco di Catania addirittura di «trovare molto più conveniente mantenere interi quartieri nel degrado e far perpetuare i fenomeni dell'abbandono scolastico e della proliferazione della criminalità minorile». Il sindaco, ovviamente, era di destra. E intanto spunta una sentenza in cui la Apostolico si dimostrò inflessibile con un gioielliere siciliano che nel 2008 uccise un rapinatore: 12 anni senza attenuanti.
Il video di Salvini contro la giudice, dubbi su chi l’ha girato: qualcuno tra le file della polizia. GIULIA MERLO E MARTA SILVESTRE su Il Domani il 05 ottobre 2023
Il vicepremier pubblica un video del 2018 in cui si vede la giudice dell’ordinanza che ha disapplicato il decreto del governo, a un corteo al porto di Catania. L’Anm: «No allo screening della vita privata»
Nessun armistizio tra governo e magistratura. Ieri mattia, vicepremier Matteo Salvini ha lanciato un nuovo attacco alla giudice del tribunale di sorveglianza di Catania, che con la sua ordinanza non aveva convalidato il trattenimento di un migrante nel cpr come previsto dal decreto delegato.
Dopo aver rilanciato i contenuti della pagina Facebook della giudice risalenti al 2018 in cui sosteneva la Open Arms e averla accusata di aver preso una decisione politicamente orientata, Salvini ha rincarato la dose pubblicando sui suoi social un video, in cui la toga viene inquadrata durante un corteo antirazzista organizzato al porto di Catania.
Uno zoom in avanti, un primissimo piano al volto di una donna che non partecipa ai cori dei manifestanti ma osserva in prima fila i poliziotti davanti a lei, poi i caschi della polizia che entrano nell'inquadratura. Il video, datato 25 agosto 2018 comincia così e a poca distanza dalle riprese c’è la nave Diciotti con 177 migranti a bordo trattenuti da giorni. «Mi sembra di vedere alcuni volti familiari….», è il messaggio di Salvini – che per il caso Diciotti non è finito a processo solo perché il Senato negò l’autorizzazione a procedere per lui –, con un riferimento chiaro alla giudice Iolanda Apostolico ma senza nominarla direttamente.
Sotto il video, il primo dei commentatori a fare il nome è Anastasio Carrà: carabiniere in pensione, luogotenente siculo di Salvini che, nell’aprile del 2019, fu il primo sindaco della Lega sull’isola e che oggi è deputato. Nel suo commento, Carrà invita la giudice Apostolico a smentire la propria presenza al porto di Catania e chiede un’informativa urgente del ministro della Giustizia Carlo Nordio. In seguito al video, poi, tutti i massimi dirigenti della Lega hanno ripreso le parole del Capitano, attaccando Apostolico e chiedendo chiarimenti.
Immediata è stata la risposta dell’Associazione nazionale magistrati. Il presidente Giuseppe Santalucia ha detto che «è su quello che un giudice ha scritto nel suo provvedimento che si misura la terzietà» e non con «lo screening sulla sua persona», «altrimenti la compressione dei diritti di un magistrato diventa impossibile da reggere».
Diversa la posizione del laico al Csm in quota Forza Italia, Enrico Aimi, che presiede la commissione che valuterà la richiesta di pratica a tutela della giudice, che definisce le immagini «eloquenti» e aggiunge che «l'autonomia e l'indipendenza non si limitino esclusivamente allo svolgimento delle funzioni, ma devono riguardare anche la proiezione esterna». Il togato indipendente Roberto Fontana, tra i promotori della pratica, ha invece detto che «spostare l'attenzione sulla vita del magistrato e le sue eventuali attività esterne è un tentativo di delegittimare l'attività giurisdizionale».
IL VIDEO
Il video, tuttavia, solleva qualche interrogativo. Le immagini condivise da Salvini sono inedite rispetto a quelle utilizzate nei giorni del 2018 e sono girate da un punto di vista privilegiato. L’inquadratura, infatti, è appena dietro il cordone della polizia in tenuta antisommossa, di fronte ai manifestanti. Da un altro video emerso nelle scorse ore si vede un uomo in borghese, appoggiato ad un agente, con in mano una telecamerina.
«Come fa il ministro Salvini ad avere un video del genere e a usarlo come arma politica?», è il messaggio di Luciano Cantone, parlamentare etneo del Movimento cinque stelle, «Non posso credere che Salvini utilizzi la polizia come propria milizia personale e che addirittura riceva imbeccate per affossare una giudice», ha scritto, annunciando che presenterà un’interrogazione parlamentare.
GIULIA MERLO E MARTA SILVESTRE Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
La toga rossa che tifa per le Ong. Francesca Galici il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Dopo il caso Catania, il giudice Minniti (militante di Area) dà lezioni di diritto sulla Tunisia
La Tunisia non può essere considerata un Paese sicuro e la Farnesina deve rivedere il proprio giudizio. È così che il collegio di giudici di Firenze, presieduto da Luca Minniti, ha annullato l'espulsione di un migrante tunisino a cui il Viminale aveva negato lo status di rifugiato. Un caso simile a quello di Catania destinato a far discutere, perché se Iolanda Apostolico, per tentare di allontanare le polemiche, è stata definita dai media di sinistra un «cane sciolto, mai iscritta a correnti», Minniti è stato recentemente candidato (nel 2021) da Area, corrente di sinistra, al Csm.
Sempre nel 2021, Luca Minniti è stato uno dei relatori di «Un mare di vergogna - L'inabissarsi dei diritti fondamentali», convegno organizzato da Magistratura democratica in collaborazione con A.S.G.I. (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione) a Reggio Calabria. Anzi, come si legge nella specifica presente sul sito di Radio Radicale, che ha caricato per intero il convegno, il giudice di Firenze è stato il moderatore della quarta sessione dal titolo: «Politiche di esternalizzazione, respingimenti, riammissioni informali: si va verso la fine del diritto d'asilo?». A quello stesso convegno, ma nella sessione precedente alla sua dal titolo «Le Ong e il soccorso in mare: la voce dei protagonisti», intervennero: Marco Bertotto, responsabile Affari Umanitari della Ong Medici Senza Frontiere; Sandro Metz, operatore sociale, animatore e sostenitore della Ong Mediterranea; Cecilia Strada, responsabile della Comunicazione della Ong ResQ People Saving People.
Nel suo intervento in quell'occasione, il giudice Minniti ha parlato delle «potenzialità di tutela giudiziaria» e ringraziato chi «osservando la legge, nell'ambito dell'accoglienza, svolge attività di sostegno all'integrazione dei migranti nel nostro Paese» e anche chi «nel momento più drammatico di sofferenza, il passaggio del Mediterraneo, oppure il passaggio delle frontiere nella rotta balcanica va a raccogliere materialmente i corpi di persone in difficoltà secondo la legge». Il riferimento, come spiegato dallo stesso nel suo intervento, era proprio alle Ong che avevano parlato poco prima, che lui sottolinea intervenire «secondo la legge». Non una precisazione secondaria, visti gli scontri che nel 2019 si sono aperti tra le Ong e l'allora ministro degll'Interno, Matteo Salvini.
E ancora, durante quel convegno, il giudice di Firenze ci ha tenuto a sottolineare che viene riconosciuto «il diritto alla protezione internazionale umanitaria alla maggioranza dei migranti sopravvissuti che arrivano nel territorio italiano» a dispetto «della vulgata populistica». I decreti Sicurezza sono stati dal giudice definiti come un «vento restrittivo» nell'ambito del riconoscimento dei diritti, superati i quali, ha proseguito, «si è tornati a una situazione di equilibrio».
Luca Minniti era già salito agli onori delle cronache, anche se come personaggio secondario, nel 2019, quando il giudice Luciana Breggia accolse il ricorso di un somalo per l'iscrizione all'anagrafe di Scandicci nonostante il decreto sicurezza di Salvini. «Invito questo giudice a candidarsi alle prossime elezioni per cambiare leggi che non condivide», disse l'allora ministro dell'Interno. Nel collegio che emanò quella sentenza, presieduto da Breggia, compariva anche Minniti. Invece, nel collegio presieduto da Minniti per il recente caso del tunisino compare Barbara Fabbrini, che risulta essere stata vicecapo di Gabinetto del ministero della Giustizia ai tempi di Andrea Orlando.
Ma questi sono solo una parte dei giudici che con le loro interpretazioni sfidano la legge e i governi, perché l'elenco completo è piuttosto lungo e articolato. Ci sono, per esempio, Luigi Patronaggio e Alessandra Vella, decisori nel processo a Carola Rackete. Per il magistrato Vella, per esempio, il comandante della Sea-Watch non commise mai alcun reato durante le fasi di salvataggio, nemmeno quando speronò la motovedetta della Guardia di finanza per accostare alla banchina del porto di Lampedusa. Quel fatto, scrisse Vella, «deve essere notevolmente ridimensionato nella sua portata offensiva». Iolanda Apostolico da Catania e Luca Minniti da Firenze sono solo gli ultimi di una schiera di giudici le cui sentenze prestano il fianco alle polemiche. Avere le proprie idee è un diritto di ogni essere umano ma un giudice non deve essere solo terzo e imparziale: deve anche apparire come tale.
"La giudice di Catania nel video con i dimostranti che insultavano gli agenti". Prima le petizioni contro Salvini condivise sui social, poi i mi piace alle campagne di "Potere al Popolo" e delle ong. Paolo Bracalini il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Prima le petizioni contro Salvini condivise sui social, poi i mi piace alle campagne di «Potere al Popolo» e delle ong, quindi il like ad un post del marito che si concludeva con un sonoro «Fanculo Salvini». Ora la partecipazione ad un corteo dell'agosto 2018 (Salvini era al Viminale) a Catania con tanto di cori «animali» e «assassini» urlati in faccia ai poliziotti per chiedere lo sbarco dei migranti dalla nave Diciotti. Il video lo ha pubblicato il vicepremier Matteo Salvini sui social, però senza fare nomi, limitandosi ad un «mi sembra di vedere alcuni volti familiari». Ma subito è arrivata la conferma dell'identità di quel volto familiare tra gli urlatori: «Sono certo di riconoscere la magistrata di Catania Iolanda Apostolico, che in quel 25 agosto 2018 era sul molo del porto catanese durante la manifestazione dell'estrema sinistra. Mi può smentire?» scrive il deputato catanese della Lega Anastasio Carrà.
Apostolico rivela ai colleghi, secondo le ricostruzioni emerse nelle serata di ieri, che era presente in piazza per evitare contatti tra le forze dell'ordine e i manifestanti. Gli stessi che avrebbe definito per lo più cattolici. Quella donna è inequivocabilmente la giudice che il 29 settembre, con un suo provvedimento, ha sconfessato il decreto del governo non convalidando il trattenimento di tre tunisini nel centro di accoglienza di Pozzallo. Anzi, in quelle immagini si vede chiaramente anche il marito, Massimo Mingrino, funzionario del Tribunale di Catania ma soprattutto militante di Potere al Popolo e grande odiatore del centrodestra sul tema immigrazione. Il video è la conferma definitiva della partigianeria della giudice di Catania, e infatti anche a sinistra, dove pure si era provato a difendere la Apostolico, si alza bandiera bianca (a parte i Verdi che escogitano una improbabile accusa di «misoginia» per Salvini, e Conte che la butta in caciara sul governo che «non deve approfittare di singoli episodi per costruire nuovi nemici»).
Anche il leader di Iv Matteo Renzi trova «scandaloso» il video, «se vuoi fare politica, non fai il magistrato. I magistrati che partecipano a manifestazioni politiche, di parte fanno male innanzitutto ai propri colleghi» scrive l'ex premier. Critiche da Azione di Calenda: «La giudice di Catania è indifendibile». Salvini, che proprio oggi pomeriggio sarà nell'aula bunker dell'Ucciardone, a Palermo, per l'udienza del processo OpenArms (in caso di condanna, rischia fino a 15 anni) affida ad una nota della Lega il suo «sconcerto per quanto sta emergendo» sulla giudice catanese. La presenza del magistrato e del compagno, «a sua volta funzionario del Palazzo di Giustizia etneo, pubblicamente schierato contro la Lega e dalla parte dei manifestanti» è definita «circostanza che rafforza la sensazione di totale allineamento ideologico della coppia, perfino nel bel mezzo di una manifestazione con grida assassini e animali di fronte alla Polizia».
Tutto il centrodestra, dalla Lega ai moderati di Lupi, si mobilita per denunciare la faziosità della giudice e i rischi di una magistratura militante. Il tutto si traduce in un pressing sul ministro della Giustizia Carlo Nordio, per inviare gli ispettori a Catania. Alla Camera viene depositata una interrogazione firmata dai deputati Fdi Sara Kelany (responsabile immigrazione del partito), Francesco Filini e Tommaso Foti, dove si chiede a Nordio di «valutare la sussistenza dei presupposti per l'adozione di iniziative di carattere ispettivo» nei confronti di Iolanda Apostolico, le cui ordinanze «sembrano afflitte da un vizio di motivazione determinato da un'impostazione ideologica, che tradirebbe la violazione dei princìpi di terzietà e imparzialità».
Un'altra interrogazione, questa a firma della leghista Erika Stefani, chiama in causa ancora il Guardasigilli, chiedendo «quali misure intenda adottare» rispetto al giudice di Catania, poiché un magistrato «non solo deve essere imparziale, ma deve anche apparire imparziale». Il ministro della Giustizia nei giorni scorsi ha annunciato che il governo impugnerà i provvedimenti della Apostolico, in cui ha riscontrato «criticità» e «distonie di ordine tecnico che stiamo valutando assieme ai ministero degli Interni». Per ora non è previsto di riferire in Parlamento, come chiede la Lega, né l'invio degli ispettori a Catania. Sarebbe uno step successivo, che a questo punto, con anche la «prova video» della parzialità della giudice, politicamente può anche essere superfluo.
Urlavano "assassini" ai poliziotti. E nel video del 2018 spunta la toga pro migranti. Le petizioni per chiederne le dimissioni, il like al "vaffa" del marito e ora il video delle proteste durante il caso Diciotti. L'ossessione della giudice Apostolico per Salvini. Andrea Indini il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Non c'è "solo" il profilo Facebook infarcito di petizioni anti Salvini, post pro immigrati e campagne a sostegno delle Ong. E non c'è nemmeno "soltanto" quel violentissimo like al "fanculo Salvini" postato (sempre su Facebook) dal marito Massimo Mingrino. Adesso spunta anche un video, datato 25 agosto 2018, che ritrae al porto di Catania un manipolo di manifestanti in protesta contro il governo. Urlano "Assassini!" e poi "Animali!" in faccia alle forze dell'ordine. E, nelle immagini che il vice premier Matteo Salvini ha condiviso questa mattina sui social, ad un certo punto spunta anche un "volto noto". Non partecipa agli schiamazzi sguaiati, agli attacchi forsennati, alle proteste. Però è in prima fila, davanti ai poliziotti in tenuta anti sommossa. Il deputato catanese della Lega, Anastasio Carrà, punta il dito: "Sono certo di riconoscere la giudice di Catania, Iolanda Apostolico. Mi può smentire?".
Riavvolgiamo il nastro un momento e torniamo all'estate del 2018. È l'anno del patto gialloverde e del Conte I. Al Viminale siede Salvini. Ha appena iniziato la guerra agli scafisti e all'immigrazione cladestina. Il primo braccio di ferro si consuma sulla nave della Guardia Costiera Diciotti che ha recuperato 190 immigrati. Il leader leghista vuole che anche gli altri Stati europei se ne facciano carico, che il peso dell'operazione non gravi, come al solito, solo sulle spalle dell'Italia, che l'Unione europea faccia la sua parte. Ma oltre i confini tutto tace. Per cinque giorni la nave resta ferma davanti a Lampedusa. Vengono fatti sbarcare solo tredici persone in gravi condizioni di salute. Il 20 agosto l'allora ministro dei Trasporti Danilo Toninelli la fa spostare a Catania ma Salvini non molla il colpo. Le proteste aumentano, la sinistra scende in piazza e invoca i porti aperti. Le scene sono quelle riprese dal video rilanciato da Salvini in mattinata. L'odio è palpabile in quelle urla: "Assassini!" e "Animali!". E lei non fa una piega. "La presenza di un magistrato tra le fila di estremisti di sinistra è garanzia della terzietà che un giudice deve assicurare?", si chiede oggi Ingrid Brisa, capogruppo in commissione Giustizia. Ai colleghi, una volta scoppiata la polemica, avrebbe detto che si trovava lì, tra le forze dell'ordine e i manifestanti, per evitare contatti tra le due parti, dopo che c'era già stato un primo scontro, e che la protesta era alimentata soprattutto da persone del mondo cattolico e, in misura minore, da esponenti della sinistra. Le urla contro gli agenti, però, sembrano suggerire lo stesso odio.
Cinque anni dopo. Salvini e la Apostolico di nuovo sui lati opposti della barricata. Lui di nuovo al governo, lei a mettere in discussione una legge appena approvata, quella che introduce la stretta sui migranti appena sbarcati e li assicura nei Cpr anziché lasciarli a zonzo per il Paese. La giudice si oppone: libera i primi quattro portati a Pozzallo e scrive nero su bianco che il decreto del governo viola sia la Costituzione sia la normativa europea. A guardare il cv della Apostolico non può che sorgere un sospetto. Il sospetto di parzialità. "Il video postato da Salvini - commenta il deputato di Fratelli d'Italia, Sara Kelany - prova l'impegno pubblico contro le politiche migratorie del governo di allora". Un impegno che non è mai venuto meno. Lo abbiamo ampiamente visto nei post condivisi su Facebook dalla Apostolico. Tanto che Fratelli d'Italia ha già depositato un'interrogazione al Guardasigilli Carlo Nordio. "Usare il potere giudiziario per piegare il diritto alla propria visione ideologica - conclude la Kelany - è molto grave e lede pesantemente il decoro della magistratura".
Purtroppo la gravità della situazione non viene avvertita da tutti quanti. Non la avvertono sicuramente all'Anm. Il presidente Giuseppe Santalucia parla di "screening della persona" e accusa di andare a "vedere chi è il giudice anziché guardare quello che ha scritto". Cosa per nulla vera visto che la linea politica espressa sui social riflette anche sulle sentenze prese nell'aula del tribunale. Nemmeno il consigliere del Csm, Roberto Fontana, tra i promotori della pratica a tutela della Apostolico, sembra capire la gravità delle posizioni della giudice di Catania. Tanto da arrivare ad accusare Salvini di "usare il video per delegittimare" e "confondere i piani". Un doppio tuffo carpiato degno di una magistratura che non ammette mai errori.
Scatta subito la difesa della magistratura. Anm invoca la privacy su un fatto pubblico. Il presidente del sindacato, Santalucia: "No agli screening al passato e alla vita privata". Ma c'è chi dissente. Aimi (Csm): "La giustizia deve anche apparire imparziale". Felice Manti il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Ci mancava solo l'alibi della privacy a tormentare i rapporti tra magistratura e politica. Di fronte al video diffuso dal ministro Matteo Salvini in cui si vede il magistrato Iolanda Apostolico manifestare nel 2018 contro la polizia e i decreti sicurezza del primo governo di Giuseppe Conte, confermando così una critica ideologica già resa pubblica sui social con diversi like (poi cancellati), Anm e Csm anziché fare ammenda gridano allo scandalo.
Per il togato indipendente del Csm Roberto Fontana, uno dei consiglieri che ha raccolto le firme per la richiesta di una pratica a tutela della Apostolico, è tutto normale, anzi serve a confondere i piani: «Criticare una sentenza si può, scandagliare la vita delle persone e spostare l'attenzione sulla vita del magistrato delegittima tutti», scrive Fontana.
Per l'Anm non è lecito dubitare sulla indipendenza di giudizio della giudice, che con una sentenza ha svuotato il Cpr di Ragusa, definendo illegittimo il decreto del governo nella parte in cui obbliga un richiedente asilo pagare una «garanzia sanitaria» di 5mila euro per evitare di essere trattenuto nel Centro. Un provvedimento che peraltro ha già creato un «orientamento legislativo» contro il decreto del governo (vedi la sentenza dell'altro giorno della Procura di Firenze sulla Tunisia «Paese insicuro»), come conferma lo stesso Fontana, che si augura un pronunciamento della Corte di Cassazione «a confermarlo o smentirlo» quando verrà chiamata a farlo. «La compressione dei diritti di manifestazione del pensiero dei magistrati diventa impossibile da reggere, si valuti la terzietà sulla base dei provvedimenti, sennò non se ne esce», blatera il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia (nella foto) a SkyTg24, invitando «non fare screening al passato, alla vita privata o pubblica». «Non è un preoccupante screening, siamo di fronte a una manifestazione pubblica al porto di Catania e a post pubblici di insulti contro il ministro Salvini», è la controdeduzione di alcune fonti del Carroccio. È plausibile pensare che il sindacato delle toghe e una parte del Csm difenda il magistrato dai soliti «gravissimi e inaccettabili attacchi» che nascondono l'accusa di essere «prevenuta». «Ogni magistrato ha un orientamento politico che non si riflette sulla sua imparzialità», è il solito ragionamento del togato Csm Fontana, anche se la sua sentenza demolisce un decreto su presupposti giuridici fallaci, secondo il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e quello della Giustizia Carlo Nordio (tirato per la giacchetta dalla Lega con un'interrogazione sulla «impostazione ideologica» della Apostolico), proprio perché il decreto sarebbe stato scritto in osservanza con le stesse normative nazionali e comunitarie che secondo la Apostolico invece sarebbero state violate. Da qui le critiche nel merito di Viminale e Guardasigilli.
Peraltro, dentro il Csm ci sono anche sensibilità diverse, come fa capire il laico di Forza Italia Enrico Aimi, presidente della Prima commissione del Csm, proprio quella che si dovrà pronunciare sulla pratica a tutela della magistrata di Catania chiesta da 13 consiglieri togati di sinistra: «La giustizia non deve essere solo terza e imparziale, ma deve anche apparire tale. Le eloquenti immagini del giudice in prima fila a un'accesa manifestazione dai connotati politici esortano un richiamo ai principi che sovrintendono il nostro Ordinamento», è il ragionamento del consigliere, che così anticipa il suo orientamento «colpevolista».
A far riflettere è l'escamotage di invocare il diritto alla privacy delle toghe dopo aver distrutto quella delle migliaia di innocenti messi alla gogna con intercettazioni irrilevanti (su cui finalmente arriverà una stretta), tralasciando le inchieste sui politici fatte dal buco della serratura che hanno indugiato sulla dimensione privata. La privacy è un alibi che oggi sembra, per la magistratura, la peggiore delle nemesi possibili.
"Dossieraggio". L'assurda difesa della toga pro migranti. La giudice di Catania accusa il governo di centrodestra: "È in corso un'operazione di dossieraggio contro di me". Il Fatto Quotidiano rincara: "Puzza di dossier". William Zanellato il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Imparziale, estranea alla politica e, soprattutto, lontana dalle cosiddette “toghe rosse”. Il curriculum di Iolanda Apostolico, prontamente descritto dai giornali “progressisti”, si scontra con il muro della realtà, o meglio, dei social. Post anti-Salvini, provocazioni pro-migranti e infine un video, datato 25 agosto 2018, che ritrae la giudice di Catania insieme ad un gruppuscolo di manifestanti intenti a protestare selvaggiamente, sempre in chiave anti-governativa, sul caso della Guardia Costiera Diciotti. La difesa del magistrato nel mirino delle polemiche è un attacco, nemmeno velato, al governo di centrodestra. “È in corso un’operazione di dossieraggio”, spiega il giudice in un colloquio con la Stampa.
La giudice "imparziale"
L’accusa, senza tanti giri di parole, è rivolta al numero uno del Carroccio, Matteo Salvini. Lo scontro a distanza tra i due entra nel vivo solo nella mattinata di ieri. Il video pubblicato dal vicepremier Salvini è il casus belli perfetto.“25 agosto 2018, Catania, io ero vicepremier e ministro dell’Interno. L’estrema sinistra manifesta per chiedere lo sbarco degli immigrati dalla nave Diciotti: la folla urla “assassini” e “animali” in faccia alla polizia. Mi sembra di vedere alcuni volti familiari".
Urlavano "assassini" ai poliziotti. E nel video del 2018 spunta la toga pro migranti
Il volto familiare è quello di Iolanda Apostolico, la magistrata di Catania che, come si vede perfettamente nel video, quel 25 agosto 2018 era sul molo del porto catanese. Il motivo? Protestare contro la politica anti-immigrazionista di Salvini, allora titolare del Viminale, e dell’intero governo giallo-verde. I cori dei manifestanti, tanto per usare un eufemismo, non erano dei più gentili. Prima gli insulti, “animali” e “assassini”, urlati in faccia ai poliziotti e poi le proteste per chiedere lo sbarco dei migranti della nave Diciotti.
L'accusa di dossieraggio
La giudice di Catania, la stessa che si oppone al decreto Cutro, è presente al corteo. Nessun movimento scomposto, nessuna protesta azzardata. In una parola: impassibile. Il curriculum creato ad hoc dalla sinistra della giudice imparziale, nel frattempo, è diventato cartastraccia. E l’auto difesa della giudice è una pezza peggiore del buco. Sulla manifestazione, spiega Apostolico su La Stampa, “non ho nulla da nascondere, né spiegazioni da dare”.
"La giudice di Catania nel video con i dimostranti che insultavano gli agenti"
“A meno che – lancia la provocazione – non si voglia tornare a magistrati che si rinchiudono nella torre d’avorio”. Il dado è tratto: il timore della giudice pro-migranti è che sia in corso “un’operazione di dossieraggio” contro di lei. Lo stesso refrain usato, questa mattina, da Il Fatto Quotidiano. “Chi ha passato a Salvini il video contro la giudice?”, recita il titolo di prima pagina del giornale diretto da Marco Travaglio. E ancora:“Puzza di dossier: il ministro sventola i frame su apostolico – afferma il sommario – ci sono schedature o è tutto casuale?”. Per riprendere e adattare la famosa frase di un noto film si potrebbe dire: “Sono i social, bellezza!”. William Zanellato
Iolanda Apostolico, nella folla che insulta i poliziotti spunta anche il marito. Libero Quotidiano il 05 ottobre 2023
C'è anche suo marito nel video in cui appare Iolanda Apostolico in mezzo alla folla anti-Salvini durante la manifestazione del 25 agosto 2018? A vedere questa immagine pare che sia lui. Quel giorno, la giudice che non ha applicato il decreto Cutro impedendo così il trattenimento di tre migranti al Centro di Pozzallo, era tra i manifestanti che sul molo di Catania protestavano contro Matteo Salvini che all'epoca, da ministro dell'Interno, impediva lo sbarco della nave Diciotti. Il filmato è stato pubblicato dal vicepremier leghista sul suo profilo Twitter. E a stretto giro è arrivata la conferma del deputato catanese della Lega Anastasio Carrà, che in una nota sostiene che si tratta proprio della giudice di Catania: "Ha ragione il vicepremier e ministro Matteo Salvini: nel video che ha pubblicato questa mattina (5 ottobre, ndr) sui social ci sono volti noti. Sono certo di riconoscere la magistrata di Catania Iolanda Apostolico, che in quel 25 agosto 2018 era su uno molo del porto catanese durante la manifestazione dell’estrema sinistra". Carrà ricorda che "la folla gridava assassini e animali in faccia alla polizia per chiedere lo sbarco degli immigrati dalla nave Diciotti. Mi rivolgo pubblicamente alla dottoressa: mi può smentire?".
Ora in un’altra immagine sembra spuntare anche il marito della giudice, Massimo Mingrino, funzionario amministrativo anche con funzioni di tutor del ministero della Giustizia, anche lui presente evidentemente alla manifestazione contro Salvini. Del resto basta scorrere il suo profilo Facebook per rendersi conto che non ha in simpatia il vicepremier leghista. Ecco infatti nella sua bacheca una copertina di Charlie Hebdo, il giornale satirico francese, con il ritratto di Marine Le Pen e di Salvini, chiamato affettuosamente le "tète de penis".
Di più. In un post di agosto 2018, Mingrino, condivide una foto che ritrae alcune persone di colore che ballano, accompagnata da queste parole: "Festa di piazza, si balla, si salta, tutti insieme. Allegria, energia, gioia. Fanc*** Salvini". Frase alla quale Iolanda Apostolico mette un "cuoricino". Evidentemente l'antipatia per Salvini è un "vizio di famiglia".
«C’era la giudice in quel corteo»: l’accusa di Salvini ad Apostolico, con un video, e la lite toghe-politica. Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera giovedì 5 ottobre 2023.
La magistrata Apostolico del caso Catania. Salvini posta un video. L’Anm: è vita privata
La giornata inizia, alle 9.46, con un video postato da Matteo Salvini: «25 agosto 2018, Catania, io ero vicepremier e ministro dell’Interno. L’estrema sinistra manifesta per chiedere lo sbarco degli immigrati dalla nave Diciotti: la folla urla “assassini” e “animali” in faccia alla polizia. Mi sembra di vedere alcuni volti familiari».
Il ministro dei Trasporti la lascia cadere così, non nomina i volti familiari. Ma il giallo dura non più di mezz’ora. Il deputato siciliano della Lega Anastasio Carrà, infatti, esce allo scoperto: «Ha ragione Salvini, nel video che ha pubblicato ci sono volti noti. Sono certo di riconoscere la magistrata di Catania Iolanda Apostolico, che in quel 25 agosto 2018 era su un molo del porto catanese». Poi, il parlamentare si «rivolge direttamente alla dottoressa: mi può smentire?». La magistrata nei giorni scorsi non aveva convalidato il trattenimento a Pozzallo di quattro migranti tunisini sbarcati a Lampedusa. Una decisione che aveva lasciato «basita» la premier Meloni. Mentre l’eurodeputata leghista Susanna Ceccardi sostiene che Apostolico era la giudice che nel 2008 condannò a 12 anni il gioielliere catanese Guido Gianni che uccise due rapinatori. Apostolico non ha commentato, mentre Salvini ha fatto sapere del suo «sconcerto». E il vicesegretario Andrea Crippa: «Se quella nel video è davvero la Apostolico va radiata». Così per tutto il giorno, raffiche di dichiarazioni leghiste che chiedono l’intervento di Nordio, a partire da Erika Stefani.
Il tutto, proprio alla vigilia di una nuova udienza del processo a Matteo Salvini per i fatti della nave Open arms. E proprio nel giorno in cui la stessa Open Arms viene bloccata nel porto di Marina di Carrara con 176 migranti: avrebbe contravvenuto al decreto Cutro che vieta i salvataggi multipli. L’Anm replica: «Valuteremo insieme alla diretta interessata se e come intervenire». Con il presidente Giuseppe Santalucia che invita a «valutare la terzietà dei giudici sulla base dei provvedimenti assunti e delle motivazioni poste alla base, e a non fare invece lo screening al passato, alla vita privata di un magistrato, scavando a ritroso per anni. Comunque — dice a La7 — non era una manifestazione contro il governo, invocava il ripensamento di Salvini, un atto umanitario. E partecipare alle manifestazioni è un diritto costituzionale».
Lo stesso Santalucia, poi, riflette: «A cinque anni di distanza si riprende non so bene come un video, quando questo magistrato non convalida il trattenimento dei migranti. Non so bene come spunti il video, se era già online o se appartiene alle forze di polizia come sembrerebbe dal modo in cui sono state effettuate le riprese, alle spalle delle forze dell’ordine che contengono il corteo. Questo mi sembra più grave». Dal Csm Roberto Fontana ritiene che «spostare l’attenzione sulla vita del magistrato è un modo per eludere il confronto sul merito del provvedimento». Il leader del M5S, Giuseppe Conte invita il governo a «non sferrare un attacco a un potere autonomo». Interviene il ministro Giuseppe Valditara: «Stupisce chi parla di irrilevanza della “vita privata” di un magistrato». Il ministro riassume con «la massima per cui un magistrato ha l’obbligo non solo di essere, ma anche di apparire indipendente». Da Noi moderati, Maurizio Lupi osserva che «come per il generale Vannacci, certi comportamenti sono inopportuni per chi ricopre ruoli e cariche pubbliche». E Matteo Renzi trova «scandaloso che un magistrato vada in piazza tra chi urla slogan vergognosi». Il Cdm, ieri, ha prorogato di 6 mesi lo stato di emergenza per «l’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti».
Iolanda Apostolico, la giudice sempre a sinistra: l'altra sentenza politica. Christian Campigli Il Tempo il 05 ottobre 2023
Una diatriba lunga trenta, interminabili anni. Un arcigno confronto, quello tra politica e magistratura, divampato ai tempi di Tangentopoli, emerso in tutto il suo fragore durante i governi guidati da Silvio Berlusconi e tornato di strettissima attualità dopo il pronunciamento di Catania. Una sentenza, quella emessa dal giudice Iolanda Apostolico, che, di fatto, ha disapplicato il cosiddetto Decreto Cutro sull’immigrazione approvato lo scorso marzo ritenendo «illegittimo trattenere chi sta richiedendo asilo». Il togato ha stabilito che alcuni punti della norma fideiussione - provvedimento di trattenimento e procedure accelerate in frontiera – si porrebbero in contrasto con le leggi europee. Una scelta che ha sollevato un vespaio di polemiche. Basti pensare al premier, Giorgia Meloni, che si è definita «basita per una sentenza dalle motivazioni incredibili». In realtà, non è la prima volta nella quale Iolanda Apostolico si trova a doversi esprimere su vicende penali, condite da risvolti politici.
Basti pensare a quando, in veste di giudice a latere della Corte di Assise di Catania, l'11 dicembre del 2019, condannò a tredici anni di reclusione Guido Gianni. Una vicenda, quella dell'orefice siciliano, ancora oggi avvolta da numerosi interrogativi. Il 18 febbraio 2008, il gioielliere di Nicolosi, piccolo centro ad un passo dall'Etna, fu vittima di una rapina. Tre uomini assaltarono il suo negozio e aggredirono lui e la moglie. Gianni sparò e uccise due dei tre rapinatori. Secondo la tesi accusatoria, l'uomo avrebbe esploso i colpi alle spalle dei banditi e, per questo motivo, non gli venne riconosciuta la legittima difesa. Una decisione fortemente criticata dalla moglie del commerciante, che ha lanciato una petizione su Charge.org. «Ha difeso me, la sua vita, quella di un cliente e la nostra attività commerciale. Ed è per questo che ritengo che non possa pagare per la malvagità dei suoi assalitori». La Lega, sin dal primo momento, si è schierata dalla parte di Gianni. «Condannato, dopo una vita di lavoro, per aver reagito a una rapina a mano armata, difendendo la moglie dall'assalto dei rapinatori – ha sottolineato il leader del Carroccio, Matteo Salvini – Un'autentica follia. La difesa è sempre legittima».
Aspre critiche sono giunte anche dall'europarlamentare della Lega, Susanna Ceccardi. «Il giudice che ha rilasciato i migranti trattenuti a Pozzallo condivideva sui social le raccolte firme per sfiduciare Salvini e per comprare i biglietti aerei per i migranti irregolari in modo da farli venire direttamente in Italia. Lo stesso magistrato ha condannato l’orefice Guido Gianni per omicidio volontario, mentre la Lega conduceva una battaglia per la legittima difesa, molto osteggiata dalla sinistra. Ho incontrato Guido Gianni all’Ucciardone tempo fa ed è stato un momento di grande commozione. Abbiamo riflettuto sul fatto che al suo posto ci sarebbero potute essere molte altre persone perbene che avrebbero reagito alla stessa maniera, di fronte a una situazione così allucinante».
Il pm anti-governo alla manifestazione pro-migranti? Salvini posta video e domanda. Serve una risposta. Andrea Soglio su Panorama il 05 Ottobre 2023
Salvini accusa il giudice di Catania che ha liberato i 4 tunisini dichiarando illegittimo il decreto legge migranti di aver preso parte ad una manifestazione del 2018 contro di lui e pro migranti. Fosse vero sarebbe gravissimo «Assassini, Assassini». Fa davvero impressione guardare il video della manifestazione avvenuta a Catania a favore dei migranti e contro l’allora Ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Fa impressione vedere dei ragazzi insultare dei poliziotti, uomini dello Stato, va sempre ricordato. Ragazzi esagitati, invasati, davanti ai quali c’è una donna che è lì con loro. Non dice nulla, non urla ma nemmeno difende gli agenti in tenuta anti sommossa. Secondo il leader della lega che ha postato sui social quello che è rapidamente diventato «il video del giorno» quella donna sarebbe Iolanda
Apostolico, la giudice del Tribunale di Catania che ha rimesso in liberà pochi giorni fa 4 tunisini (due dei quali pregiudicati) dichiarando «illegittimo» l’ultimo decreto migranti approvato dal Consiglio dei Ministri. Salvini ha invitato il giudice a dirci se fosse effettivamente lei quella donna; al momento nessuna risposta, solo il silenzio. A guardare cosa condivideva, approvava e sosteneva sui suoi social (prontamente chiusi quando è scoppiata la polemica per la sua decisione ma che qualcuno è riuscito a sbirciare) verrebbe da confermare la tesi del leader leghista ma la conferma ufficiale solo la dottoressa Apostolico la può dare.
Non si può però evitare di considerare per buona la teoria e soprattutto analizzare la questione, di fondo: può un giudice partecipare ad una manifestazione di piazza su un tema ben preciso e poi occuparsi proprio di quel tema? Nel mondo dello sport, a qualsiasi livello, qualsiasi sport, qualsiasi latitudine, l’arbitro, il giudice dev’essere per prima cosa imparziale. Senza quello non potrebbe nemmeno definirsi tale. Ovvio che, essendo persone umane, abbiano delle idee personali, ci mancherebbe. Siamo certi che molti arbitri di Serie A di calcio abbiano anche loro una squadra del cuore. E nessuno può e deve impedirlo: tutti devono avere il diritto di opinione, di idee, del tifo. Quello che l’arbitro non può fare però è scendere in piazza con gli ultras di una squadra, in prima fila, ad urlare slogan contro la formazione rivale o la tifoseria avversaria. Verrebbe radiato immediatamente o quantomeno gli verrebbe impedito di occuparsi di partite della sua squadra del cuore o della rivale. Non sono regole complicate o pesanti, è semplice buon senso. A salvaguardia per primo dello sport e della credibilità degli arbitri. Ecco, se quella donna fosse proprio Iolanda Apostolico bene, dovrebbe essere sospesa ed in futuro tenuta lontana da emettere giudizi su questioni politiche o legate ai migranti. Questo per tutelare lei, le persone delle quali andrebbe ad occuparsi e la credibilità della giustizia, uno dei tre poteri su cui si sostiene il nostro paese. Non si può poi nemmeno tacere sulla reazione della Anm, Associazione Nazionale Magistrati: «No allo screening della vita privata» hanno detto le toghe. Saremmo anche d’accordo sul concetto in se, non fosse che proprio le toghe sono state nel passato più volte i primi a mettere il naso nella vita privata di decine e decine di persone, con dettagli irrilevanti dal punto di vista processuale ma sicuramente utili per rovinare reputazioni e vite. Potremmo fare mille esempi, ne scegliamo uno per rimanere in tema «salviniano». L’assistente e guru dei social, Luca Morisi, finì al centro di un’inchiesta legata alla droga. Quando la notizia uscì ci vennero forniti i dettagli della vita privata del giovane che nulla avevano a che fare con l’ipotetico spaccio: gusti sessuali e persino le posizioni preferite. La madre di tutti gli «screening» della vita privata.
Ben venga quindi una giustizia più umana e corretta, ma per farlo devono essere proprio certi giudici a cominciare.
La sinistra salvinista. Tommaso Cerno su L'Identità il 6 Ottobre 2023
Inutile stare qui a girarci intorno, se già la sentenza di Catania era “insana” non tanto per quel che scriveva dentro i fogli, che sarà sottoposto a altri giudici e potrà essere rovesciato con estrema facilità giuridica, ma perché subito è stata impugnata dalla politica e sguainata come una spada per farne uso diverso dal proprio, cioè uso parlamentare.
Poi è uscito il video della giudice Apostolico, in prima fila durante una manifestazione, di natura politica, contro lo stop agli sbarchi, dove si vede plasticamente che la sentenza che oggi sta fra le carte di un tribunale corrisponde in pieno alle idee personali del giudice, espresse invece in sede extragiudiziale, di lotta vera e propria contro un governo della Repubblica. Ora questo significa non solo che la sentenza puzza, ma che se anche fosse perfetta sul piano giuridico diventa attaccabile in virtù di questo contorno a dir poco imbarazzante per un membro della magistratura che si esprime su temi così delicati e connessi alla vita politica.
Ma significa soprattutto che la sinistra finisce per attaccare a parole il Matteo Salvini ministro delle Infrastrutture, che a differenza di un magistrato giudicante ha il sacrosanto diritto di fare politica e di esprimere un pensiero politico, saranno poi gli elettori a giudicare quanto questo sia opportuno o meno alle elezioni, ma finisce per fare proprio il gioco del Matteo Salvini leader della Lega, che alla fine ha stanato Pd e Si rovesciando l’esito del match.
Perché se attaccare una sentenza è sbagliato, a maggior ragione lo è difenderla di fronte a quanto avvenuto. Non c’è differenza, se non di prospettiva politica, fra i due atteggiamenti, il metodo è lo stesso. Si tratta di usare la giustizia per fare altro.
E questo non cambia se chi lo fa giudica bene o male quel magistrato, perché sempre di un giudizio politico si tratta. Lo stesso errore la sinistra l’ha fatto sulla tragedia di Mestre. E sempre facendo il gioco di quel ministro Matteo Salvini che nelle intenzioni vorrebbe criticare o mettere all’angolo. Perché quando il titolare delle Infrastrutture ha sfoggiato dubbi sulla sicurezza dei motori elettrici, sicuramente in modo precoce e non informato, la reazione è stata – come nel caso del giudice Apostolico – di segno uguale e contrario. E cioè un trionfo di citazioni scientifiche e numeri che dovrebbero, di fatto, dissipare ogni ombra sulla vicenda, che ancora non è nemmeno al vaglio dei tecnici, e asserire che la verità si trova nel campo progressista.
Peccato che questo metodo sia il metodo di Harry Potter. Poco importa che tu sia un Serpeverde o un Grifondoro, se la magia e quindi la sapienza che ne deriva, è di fatto affermata come una verità assoluta. La differenza vera fra i sistemi populisti e le democrature rispetto alla nostra, benché ammaccata democrazia liberale occidentale, è il metodo scientifico opposto al sapere rivelato. E il metodo scientifico non afferma alcuna verità assoluta, tanto meno prima di avere svolto le verifiche, ma si fonda sulla verità putativa, dimostrabile e documentabile in quel momento, grazie alle conoscenze e agli studi.
Pronto per essere rimesso in discussione di fronte a nuove prove, nuove scoperte. Ed è questa mutazione di sé che la sinistra dovrebbe realizzare per diventare alternativa al populismo di Salvini, perché facendo in questo modo altro non è che una sinistra salvinista. Che finirà per passare per quella che dice una cosa non perché essa ha un valore reale ma perché è il contrario di ciò che ha detto il Salvini di turno.
Il bell’esempio della Meloni: scatena la caccia alla magistrata. Additare il nemico, ossia il giudice e non la sua decisione, legittima ciascun cittadino a scagliarsi contro, a scandagliare le profondità melmose del web per scovare indizi di propensioni, orientamenti. Alberto Cisterna su L'Unità il 4 Ottobre 2023
Certo avrà avuto ragione Francis Edward Smedley. Davvero, «tutto è permesso in amore e in guerra» (da Frank Fairleigh o scene dalla vita di un alunno privato, 1870) e ogni comportamento e ogni parola sono consentiti per vincere. Ma trasformare il duro dibattito in corso nel paese sulle misure antimmigrazione in una battaglia campale e in una quotidiana caccia al nemico – una volta la Francia, un’altra la Germania, un’altra ancora tutte e due insieme, poi l’Europa, ora un giudice di Catania e, con lei, l’intera magistratura – non rende un buon servigio al governo e a quella parte maggioritaria dell’elettorato che gli ha concesso ampia fiducia.
A prescindere dalle pericolose ricadute di politica estera di un tale atteggiamento, il dito aspramente puntato da un paio di giorni contro le tre decisioni assunte da un magistrato della Repubblica in Catania segna una cifra di durezza del confronto che non può essere giustificata. Si sono tirati in ballo like su Facebook, private prese di posizione del giudice, pareri e opinioni personali per bollare come parziale e politicamente orientate ordinanze che pochi hanno letto e ancor meno hanno comunque voglia di leggere per formarsi un’opinione indipendente e scevra da tossicità sull’accaduto.
Additato il nemico, ossia il giudice e non la sua decisione, la scorciatoia è pericolosa, ambigua, tagliente. Rischia di legittimare ciascun cittadino, qualsiasi parte processuale a dolersi della sentenza che lo riguarda, a scandagliare le profondità melmose del Web per scovare indizi di parzialità, propensioni, orientamenti. Delegittimare il giudice e non criticare la sentenza che ha pronunciato – anzi contestare il primo come argomento principe contro la seconda – sembrava appartenesse a retaggi che si pensava potessero essere superati soprattutto grazie al provvidenziale pensionamento o l’epurazione di un ceto di toghe propenso al protagonismo e alla pubblicità mediatica e disponibili, quindi, allo scontro frontale e personale con la politica. La magistratura italiana, nella sua stragrande maggioranza e quasi totalità, ha dismesso queste posture da tempo, anche aiutata dalla legge sulla presunzione di innocenza che ha finalmente contenuto la bulimia accusatoria di più d’uno.
Ora è la politica al suo massimo livello a riprendere le fila dell’attacco diretto, del discredito personale, del “colore dei calzini” con cui si voleva far beffe del giudice di un caso controverso che riguardava un altro presidente del Consiglio. Il fatto è che nella vicenda siciliana è esattamente il governo, il ministero dell’Interno a essere direttamente, in proprio verrebbe da dire, una parte dei procedimenti che hanno riguardato i tre immigrati il cui trattenimento non è stato convalidato. Era stato il questore di Ragusa a disporlo e il rilascio dei tre cittadini stranieri è stato a lui ordinato. Insomma l’autorità governativa, questa volta, non è il distaccato censore delle decisioni del giudice di Catania, ma è la diretta parte del procedimento anzi è quella, come dire, che ha perso la causa.
Ora se ogni cittadino italiano che si vede dar torto – come per forza capita in milioni di cause civili – scatenasse la caccia al giudice e lo attaccasse personalmente, ovviamente il processo diverrebbe un luogo ingestibile, la vita sociale piomberebbe in un disordine incontrollabile. Solo nelle dittature sudamericane i giudici stavano in udienza incappucciati e irriconoscibili; una democrazia matura rende visibili e noti i propri giudici perché la massima trasparenza e la massima responsabilità presieda le decisioni. Nessuno sostiene che il processo civile come quello penale non risenta delle convinzioni personali, delle oscillazioni ideologiche del giudice chiamato a pronunciarsi. Non vivono le toghe in una campana di vetro o in una torre di cristallo. L’unico limite invalicabile che i chierici hanno è quello di dar conto in modo accurato della propria decisione, articolando gli argomenti e rendendo chiare le interpretazioni. Una sentenza immotivata, prima ancora che nulla è un semplice atto di forza da punire in modo esemplare.
Ma leggendo le ordinanze della toga catanese (per chi voglia) non si coglie questa impressione. Valuterà la Cassazione la correttezza delle scelte se il ministero dell’Interno, come pare, presenterà un ricorso, ma i provvedimenti appaiono obiettivamente articolati, puntuali, densi di richiami a norme e precedenti di giurisprudenza costituzionale ed europea. Spieghi il “soccombente” alla pubblica opinione perché ritiene che si tratti di provvedimenti abnormi, illegittimi, che non rispettano la volontà sovrana del Parlamento. Non è proprio una lezione di stile per chi ha perso, per ora, in un’aula di tribunale appellarsi al giudizio del popolo per vedersi riconosciuto il torto subito, ma insomma passi.
Una reazione ci sta. L’abbordaggio alle opinioni e agli orientamenti del giudice è, invece, un’operazione non consentita perché sconfina dalla critica della decisione alla critica del decidente che, però, non ha detto una parola, non ha reso un commento, non ha criticato le autorità politiche del paese, non ha difeso in alcun modo il proprio operato appellandosi solo ai propri atti. Lo ha detto chiaramente il presidente dell’Anm in un’intervista di ieri: «Ci mancherebbe il governo, come qualsiasi altro soggetto, ha tutto il diritto di criticare. E può accadere che un provvedimento non sia ritenuto in linea con le norme».
La critica del dottor Santalucia è in filigrana, ma riluce, poiché reca implicita, ma evidente, l’obiezione che il governo non è un «qualsiasi altro soggetto» e non può scegliere questo crinale per dolersi dell’esito di un giudizio in cui era parte a tutti gli effetti. Non è un gesto d’amore verso il proprio elettorato, né un atto di guerra contro i trafficanti di uomini, per cui non è tutto consentito. Alberto Cisterna 4 Ottobre 2023
Il decreto illegittimo. Rifiutare la sentenza di Catania equivale a rifiutare lo Stato di Diritto. Il governo, a cominciare da chi lo capeggia, non rimprovera a quella giudice di aver male applicato il diritto che le consente di disapplicare un decreto illegittimo: ben diversamente, le contesta lo stesso potere di farlo. Iuri Maria Prado su L'Unità il 4 Ottobre 2023
Oltre che dell’esercito di famigli addetto a organizzare la claque nelle loro conferenze stampa e la quotidiana produzione di selfie, Giorgia Meloni e Matteo Salvini dispongono senz’altro di ottimi consiglieri giuridici: i quali potrebbero spiegare ai propri committenti che un giudice italiano non solo può, ma deve, disapplicare una norma nazionale quando ritiene che essa sbatta contro il diritto comunitario. Questo ha fatto la giudice catanese quando, con un’ordinanza dell’altro giorno, ha considerato illegittime le norme adoperate per privare della libertà personale alcuni migranti.
Ha sbagliato? Può darsi benissimo. Il decreto “o la borsa o la prigione” approvato dal governo, cioè la norma che legittima il taglieggiamento dei migranti e li manda al gabbio se non versano cinquemila euro, è rispettoso del sistema costituzionale ed europeo? Ma per carità: un’altra volta può darsi benissimo. Il “trattenimento”, cioè in buona sostanza l’arresto, era in realtà ordinato nel rispetto delle superiori norme dell’Unione che disciplinano la materia? Ancora: può anche darsi. Solo che non sta al presidente del consiglio stabilirlo, né a questo o quel ministro.
Ma non basta. Perché la realtà è che il governo, a cominciare da chi lo capeggia, non rimprovera a quella giudice di aver male applicato il diritto che le consente di disapplicare un decreto illegittimo: ben diversamente, le contesta lo stesso potere di farlo, e cioè si rivolta eversivamente contro lo Stato di diritto che non solo permette ma, si ripete, impone al giudice di non fare applicazione di una norma che cozza contro preminenti principi costituzional-comunitari.
La sciocchezza più ricorrente di questi giorni, propalata dalle truppe dei liberali per le manette, è che il decreto anti-immigrati quater (ma forse siamo oltre, al decies, al terdecies) sarebbe costituzionalmente impeccabile siccome l’ha firmato Mattarella. Questa scempiaggine è toccato sentirla non si sa più quante volte nelle ultime ore, ma i consiglieri giuridici di cui sopra potrebbero preparare una brochure semplice semplice per i gruppi parlamentari e per le redazioni di riferimento, un piccolo memorandum in cui si spiega sottovoce, senza che si sappia troppo in giro, che no, la firma del presidente della Repubblica è necessaria ma il fatto che essa sia apposta non significa per nulla che la norma sia legittima.
Non si rendono conto (se lo facessero consapevolmente sarebbe meno preoccupante) che in questo modo, e cioè contestando al giudice l’uso di un potere che egli non solo può, ma deve esercitare, si rendono responsabili di una specie di golpe endogeno. Fanno, a parti invertite, quello che fece il cosiddetto Pool di Milano nel comizio togato che contestava la presunta piega salva-ladri dell’attività di governo: solo che qui è anche più grave perché dai lombi dell’esecutivo viene il bel principio secondo cui la giustizia, nel decidere se privare qualcuno della libertà personale, non deve rifarsi al quadro di diritto applicabile ma agli inquadramenti usciti dall’ultimo consiglio dei ministri (almeno il manipulitismo chiedeva leggi per arrestare, non il diritto di arrestare contro la legge).
Il fatto, poi, che questa giudice si fosse a suo tempo lasciata andare a comportamenti inappropriati per un magistrato, con manifestazioni di militanza politicamente orientata, appartiene a tutt’altro piano di ragionamento. E dispiace che non se ne siano accorti alcuni garantisti impeccabili, questa volta andati fuori segno. Qui il punto è che si è contestato al giudice non già di aver emesso una decisione illegittima perché contraria al diritto, ma di aver emesso una decisione illegittima perché “antigovernativa”. Qui il punto è che non si vuole rimuovere la toga rossa per avere un giudice imparziale, ma per sostituirla con la toga bruna. Iuri Maria Prado 4 Ottobre 2023
Ai giudici licenza di apparire militanti politici, oltre che esserlo. Csm e Anm teorizzano un diritto alla militanza politica. Parafrasando Mattarella, non esiste e non può esistere un contropotere politico della magistratura. di Federico Punzi su Nicolaporro.it il 6 Ottobre 2023.
Per la serie il mondo al contrario, nel nostro Paese abbiamo membri del Csm e un’Associazione nazionale magistrati che teorizzano il diritto dei giudici non solo ad essere, ma persino ad apparire parziali e politicizzati.
Il caso lo conoscete, è quello del giudice Iolanda Apostolico del Tribunale di Catania, che pochi giorni fa non ha convalidato il fermo di quattro migranti illegali (che ci auguriamo non compiano reati violenti), disapplicando un decreto del governo ritenuto in conflitto con la normativa Ue.
Giudice attivista
Peccato che il giudice Apostolico abbia espresso sui social le sue posizioni politiche comuniste e immigrazioniste, e firmato anche appelli e petizioni contro l’allora ministro dell’interno Matteo Salvini. Un magistrato militante vicino a forze politiche di estrema sinistra.
Come se non bastasse, ieri un deputato della Lega ha diffuso un video nel quale si vede la Apostolico partecipare ad una manifestazione del 2018 nel porto di Catania contro l’operato di Salvini nel caso della nave Diciotto. Il suo volto appare proprio davanti ai poliziotti mentre una piccola folla di esagitati, tra cui il marito (sic!), intona insulti all’indirizzo degli agenti e del governo (“assassini” e “animali”).
Protesta ovviamente legittima, ma discutibile la presenza del magistrato. Un video che obiettivamente cambia la sostanza, perché un conto è che un giudice esprima una posizione politica, e già non dovrebbe accadere, ma ancor più grave che si trasformi in attivista.
“Trovo scandaloso che un magistrato vada in piazza, per di più in mezzo a persone che urlano slogan vergognosi contro le forze dell’ordine. Se vuoi fare politica, non fai il magistrato“, ha postato Matteo Renzi su X.
Il paragone con Vannacci
Subito da sinistra hanno tirato in ballo il caso Vannacci: ma come, la destra ha difeso la libertà d’espressione del generale e si lamenta delle posizioni politiche del giudice Apostolico? Discorso che si potrebbe ribaltare: la sinistra voleva censurare Vannacci, buttarlo fuori dalle forze armate, e invece va tutto bene se un giudice scende in piazza contro un governo?
Pari e patta, dunque? Nemmeno per idea. Primo, come ha fatto notare Andrea Venanzoni, “quando nell’ordinamento militare saranno inserite le motivazioni sottese all’istituto della ricusazione, dettate dal venire meno del fondamentale requisito della terzietà (incidente direttamente su quell’atto tremendo che è il giudizio), questo potrà apparire un paragone anche solo vagamente sensato”.
Secondo, il giudice decide in piena autonomia e ha nelle sue mani la libertà dei cittadini, può sconvolgere in modo drammatico le loro vite, distruggerle in modo irreparabile. Peraltro, nel nostro Paese è anche “irresponsabile”, una distorsione del sistema per cui di fatto non viene mai chiamato a rispondere del suo operato.
Un generale in tempo di pace ha un potere nemmeno lontanamente paragonabile – e solo sui suoi sottoposti – e risponde sempre ad una rigorosa catena di comando. Tant’è che Vannacci è stato immediatamente rimosso dal suo incarico, nonostante non sia ancora emersa a suo carico alcuna violazione per la pubblicazione del suo libro, mentre il giudice Apostolico è al suo posto e anzi il Csm si è subito mosso a sua tutela.
Diritto alla militanza politica
Subito, manco a dirlo, è scattata la difesa a spada tratta della corporazione, con argomenti però lunari. Non solo tredici togati del Csm hanno depositato una richiesta di pratica a tutela del giudice catanese. Il consigliere Roberto Fontana, uno dei firmatari, sostiene che con il video si vogliono “confondere i piani”.
La giurisdizione si esprime attraverso i provvedimenti, che ovviamente possono essere criticati e impugnati sulla base di ragioni tecnico-giuridiche. Spostare l’attenzione sulla vita del magistrato e le sue eventuali attività esterne a quella giudiziaria, è un modo per eludere il confronto sul merito del provvedimento e un tentativo di delegittimare l’attività giurisdizionale.
Ancora più esplicito il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia:
Inviterei a valutare la terzietà dei giudici sulla base dei provvedimenti che vengono assunti e delle motivazione poste alla base, e a non fare invece lo screening al passato, alla vita privata di un magistrato. Altrimenti la compressione dei diritti di un magistrato diventa impossibile da reggere.
Qui Fontana e Santalucia arrivano addirittura a rivendicare il diritto del magistrato a esibire la sua parzialità, la sua militanza politica. Un’arroganza che rivela la sensazione di intoccabilità della categoria.
Eh no! I magistrati devono non solo essere ma anche apparire terzi e imparziali, altrimenti non esisterebbe l’istituto della ricusazione. Ed esternare le proprie posizioni politiche sui social, firmare appelli e petizioni, partecipare a manifestazioni, è vita pubblica, non privata, che nel caso di un giudice può e anzi deve essere sottoposta a screening.
L’imparzialità della decisione va tutelata anche attraverso l’irreprensibilità e la riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il pericolo di apparire condizionabili o di parte. È un aspetto importante per ogni istituzione della Repubblica, particolarmente in questa stagione nella quale la preziosa moltiplicazione dei canali informativi presenta anche il rischio di trasmettere l’apparenza di realtà virtuali.
Di chi sono queste parole? Sono del presidente della Repubblica Sergio Mattarella non molti mesi fa, il 15 giugno scorso, parlando ai magistrati tirocinanti. Non scommetterei un centesimo di euro che il presidente Mattarella trovi il coraggio di ribadire questo concetto in queste ore, ma se ci credesse davvero, avrebbe pienamente senso farlo ora.
Parafrasando Mattarella in altra occasione, non esiste e non può esistere un contropotere politico della magistratura.
Il caso Guido Gianni
Che poi, la decisione più grave presa dal giudice Apostolico non è nemmeno la disapplicazione del decreto sui migranti, ma la condanna (che a questo punto ci sono molti elementi per ritenere ideologicamente motivata) del gioielliere Guido Gianni a 13 anni di carcere per legittima difesa, per aver difeso se stesso e la moglie da una banda di tre ladri che li minacciavano. Se n’è occupato Giuseppe Di Lorenzo su NicolaPorro.it: Guido Gianni libero subito!
Violante: "La giudice di Catania ha sbagliato a manifestare. Così non è più imparziale". L’ex presidente della Camera: “Un magistrato deve sempre essere figura terza. Schierarsi con chi è parte di un conflitto lede la funzione costituzionale. La difesa dei diritti dei più deboli si fa con le sentenze, non con i cortei". RAFFAELE MARMO su quotidiano.net il 7 ottobre 2023
“Un magistrato non può partecipare a manifestazioni conflittuali e pensare di essere ritenuto imparziale. La contraddizione, in termini di etica professionale, è palese". Luciano Violante, ex magistrato ed ex presidente della Camera, una vita a sinistra, è netto.
Dunque, il caso Apostolico è di agevole definizione?
"Sgombriamo il campo da questioni che non c’entrano niente, come quella delle opinioni politiche del marito, che sono un fatto privato. O come quella relativa alla sentenza, della quale si occuperà la Cassazione. Arriviamo al punto. E il punto è quello che riguarda il comportamento dei magistrati e la loro partecipazione a manifestazioni di parte".
Perché non devono essere possibili?
"Una premessa. Fino ai primi del Novecento le leggi erano poche e chiare: il magistrato traeva la sua legittimazione dalla applicazione della legge. Era, si diceva, la bocca della legge. Dalla metà del secolo scorso tutti i sistemi ordinamentali si sono fortemente inflazionati, hanno perso coerenza, si sono articolati in diversi livelli intrecciati tra loro: livelli internazionali, europei, nazionali, regionali, sentenze delle Corti costituzionali. Parallelamente alle magistrature sono stati attribuiti grandi poteri discrezionali e grandi poteri di intervento nella vita e nella reputazione dei cittadini. Tutto questo ha reso spesso difficilmente definibile a priori la regola da applicare al caso concreto. E a questo punto la legittimazione del magistrato non sta più nell’essere la bocca della legge, ma nell’essere un soggetto che interpreta la legge in modo credibile. Dunque, io magistrato posso fare le migliori sentenze in assoluto, ma se mi schiero con chi è parte di un conflitto non sono più credibile e ledo la mia funzione costituzionale".
C’è chi sostiene che schierarsi con i più deboli, però, sia consono a un giudice.
"Ho letto anche questa posizione di una persona che stimo molto, come Armando Spataro, secondo cui si deve stare dalla parte dei più deboli. Si deve stare dalla parte dei diritti dei più deboli, come impone l’articolo 3 della Costituzione, con le sentenze, non con le manifestazioni. Non si può rivendicare indipendenza, e poi tenere comportamenti che la mettono in discussione".
La giudice di Catania ha obiettato che era lì per fare da mediatrice.
"Non mi pare fosse il suo compito".
I vertici dell’Anm, dal canto loro, parlano di screening sui giudici, mentre il Pd punta l’indice su come il video sia finito a Matteo Salvini.
"Può darsi che qualcuno abbia violato un segreto di ufficio rendendo inconsapevolmente ricettatore chi ha usato il video. Ma questa è una polemica deviante. Le società fortemente polarizzate, come la nostra, hanno bisogno di figure terze, che possano risolvere in modo credibile i conflitti. È una responsabilità ulteriore che grava sulle spalle della magistratura".
L’etica pubblica, dunque, impone obblighi specifici ai magistrati?
"Sì. C’è un punto di etica professionale che va chiarito: un magistrato, per il suo specifico ruolo costituzionale, ha doveri più stringenti di un qualsiasi altro funzionario pubblico. Da qui il dovere di non partecipare a manifestazioni conflittuali che possano mettere in discussione la sua credibilità come soggetto imparziale. Si possono manifestare in modo corretto, non conflittuale, le proprie opinioni".
Come?
"Con studi, articoli, interventi in sedi proprie; evitando sempre di essere e di apparire parte di un conflitto sociale o politico".
Quando un magistrato vuole fare politica, insomma, deve lasciare la toga. Ma può tornare a fare ugualmente il giudice, chiusa l’attività politica?
"Ho visto ottimi magistrati diventare ottimi dirigenti politici. Alfredo Mantovano è stato un ottimo magistrato, è stato un ottimo sottosegretario all’Interno, è tornato a fare il magistrato in modo eccellente e oggi sta a Palazzo Chigi. Quelli di Salvatore Senese e di Pier Luigi Onorato, di altra parte politica, sono altri casi esemplari".
Il problema di fondo è che i rapporti complessivi tra politica e magistratura restano controversi e conflittuali.
"Ho letto che quel magistrato, con quella sentenza, sarebbe colpevole di essersi mosso contro gli eletti dal popolo. Ma tutta la storia delle libertà nelle democrazie, dalla rivoluzione americana in poi, si fonda sui limiti che la giurisdizione pone al potere politico e sulla rivolta del potere politico che non vuole limiti. Anche oggi in Paesi vicini a noi, si tenta di condizionare il funzionamento delle Corti Costituzionali. Questa strada porta al caos o alla riduzione delle libertà. Serve un atteggiamento responsabile, persuadente e non conflittuale. Le istituzioni si devono rispettare reciprocamente perché i cittadini possano rispettarle. Questo è lo sforzo da fare da parte di tutti".
Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” venerdì 6 ottobre 2023.
Spiace sostenere il senatore Matteo Salvini […]. Ma la dottoressa Iolanda Apostolico, Catania, non è un cittadino come gli altri, non gode degli stessi diritti di tutti, ha una toga sulle spalle, emette provvedimenti che vincolano e impegnano lo stato di diritto.
Da ragazzo, in un paese più povero ma non infelice, conoscevo un magistrato, il padre di un amico di scuola divenuto insigne storico, che la sera stava sempre e rigorosamente a casa, salvo eccezioni famigliari contenute, e ascoltava l’“Italiana” di Mendelssohn.
Sbirciò cinque minuti di Italia-Germania 4 a 3, ma non di più, mentre noi incasinavamo di urla la stanza della televisione nel suo appartamento. Lo ammiravo. Era una persona consapevole più che dei suoi diritti dei suoi doveri.
Una casta è una casta. Non è obbligata a portare il codino, ma se porta la toga il riserbo è essenziale, decisivo. L’imparzialità nella vita pubblica, anche di fronte a enormità come la crociata salviniana dei porti chiusi e delle “zecche comuniste”, gli consentirà di decidere in fatto di legge con autentica credibilità.
[…] Il linciaggio è comunque e sempre una vergogna, si parli della Apostolico di Davigo di Palamara o di Squillante, è uno sport barbaro dal quale è doveroso astenersi. Nota per Salvini: si può finire per avere torto anche quando si abbia ragione, e Twitter è lì per confermarlo.
Ma in questo caso la ragione ci dice incontrovertibile che un’ordinanza su un migrante e il suo trattenimento, quale ne sia la legittimità giuridica, non deve in nessun caso essere confusa e compromessa da un comportamento militante, Potere al popolo, e dalla manifestazione pubblica, magari anche sbracata, di un orientamento che appartiene o deve appartenere, nel caso dei togati, al foro interiore cosiddetto. Una casta è una casta legittima solo in questo caso.
[…] Ci sono limiti importanti per chi ha le mani in pasta con la libertà personale, sia nella direzione della carcerazione sia in quella della liberazione dal fermo di polizia. Sono cose così ovvie che non si vorrebbe fossero rappresentate dal solo senatore Salvini. Che ai miei occhi non togati, dunque liberi di stravedere, ha torto anche quando ha ragione, ma senza esagerare.
Sarina Biraghi per “La Verità" venerdì 6 ottobre 2023.
Più vicino alle posizioni del governo, forse per i suoi frequenti rapporti con i tribunali, il leader di Italia viva, Matteo Renzi: «Le mie posizioni sull’immigrazione sono diametralmente distanti da quelle di Salvini. Trovo però scandaloso che un magistrato vada in piazza, per di più in mezzo a persone che urlano slogan vergognosi contro le forze dell’ordine. Se vuoi fare politica, non fai il magistrato. Quella giudice ha sbagliato e ha danneggiato la credibilità dell’intera magistratura». […]
Estratto dell’articolo di Liana Milella per repubblica.it venerdì 6 ottobre 2023.
Stavolta, al Csm, non c’è tutela che tenga per Iolanda Apostolico. A palazzo dei Marescialli, egemonizzato dal centrodestra della politica e delle toghe, in un Consiglio presieduto dall’avvocato leghista Fabio Pinelli, la giudice rischia il trasferimento d’ufficio.
Ma su di lei il Csm si spacca due volte in 48 ore. I laici filogovernativi assieme a Italia viva la “condannano” prim’ancora di averla sentita […]. Dopo che la destra delle toghe di Magistratura indipendente due giorni fa aveva negato la “tutela” chiesta per lei da 13 colleghi dopo l’attacco della premier Giorgia Meloni.
[…] Al Csm il “processo” per Apostolico è già scritto. Lo formalizza addirittura, con una sorta di condanna in anticipo, il presidente della prima commissione che si occupa dei trasferimenti d’ufficio. Enrico Aimi, ex senatore di Forza Italia, di professione avvocato, stavolta veste i panni dell’accusa e chiede che «i giudici siano come la moglie di Cesare».
Proprio mentre il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ricorda che «si criticano i provvedimenti non sulla base di un video di cinque anni prima preso dal cassetto, che allora non ha creato scandalo, e che semmai andava valutato in quel momento e non oggi».
Aimi la pensa all’opposto perché «l’autonomia e l’indipendenza del magistrato deve riguardare anche la sua proiezione esterna e la toga non deve essere solo terza e imparziale, ma deve anche apparire tale».
Apostolico insomma è già stata condannata. E a pensarla come Aimi è Ernesto Carbone, il laico di Iv, che cita «l’interpretazione granitica della Cassazione che impone di escludere anche il sospetto dell’imparzialità». Insomma, dice Carbone, «se hai manifestato sotto la nave Diciotti, devi astenerti sui migranti». Così la pensa Matteo Renzi: «Scandaloso che un magistrato vada in piazza».
Ma è certo che al Csm la battaglia sarà durissima. Perché, almeno in prima commissione, la destra potrebbe perdere sul trasferimento d’ufficio, visto che il centrosinistra può contare su tre togati (Abenavoli di Area, Miele di Md, Forziati di Unicost) e il laico Papa di M5S, a fronte del forzista Aimi e di Paolini di Mi.
Ma anche perché prima si dovrà discutere della pratica a tutela chiesta dall’indipendente Roberto Fontana e firmata da 12 colleghi. […] Lo scontro sarà durissimo, e visti i numeri alla fine potrebbe vincere chi la pensa come Salvini.
Estratto dell’articolo di Felice Manti per “il Giornale” venerdì 6 ottobre 2023.
Ci mancava solo l’alibi della privacy a tormentare i rapporti tra magistratura e politica. Di fronte al video diffuso dal ministro Matteo Salvini […] Anm e Csm anziché fare ammenda gridano allo scandalo.
Per il togato indipendente del Csm Roberto Fontana, uno dei consiglieri che ha raccolto le firme per la richiesta di una pratica a tutela della Apostolico, è tutto normale, anzi serve a confondere i piani: «Criticare una sentenza si può, scandagliare la vita delle persone e spostare l’attenzione sulla vita del magistrato delegittima tutti», scrive Fontana.
Per l’Anm non è lecito dubitare sulla indipendenza di giudizio della giudice, che con una sentenza ha svuotato il Cpr di Ragusa, definendo illegittimo il decreto del governo nella parte in cui obbliga un richiedente asilo pagare una «garanzia sanitaria» di 5mila euro per evitare di essere trattenuto nel Centro.
Un provvedimento che peraltro ha già creato un «orientamento legislativo» contro il decreto del governo (vedi la sentenza dell’altro giorno della Procura di Firenze sulla Tunisia «Paese insicuro»), come conferma lo stesso Fontana, che si augura un pronunciamento della Corte di Cassazione «a confermarlo o smentirlo» quando verrà chiamata a farlo.
«La compressione dei diritti di manifestazione del pensiero dei magistrati diventa impossibile da reggere, si valuti la terzietà sulla base dei provvedimenti, sennò non se ne esce», blatera il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia […] a SkyTg24, invitando «non fare screening al passato, alla vita privata o pubblica». […] È plausibile pensare che il sindacato delle toghe e una parte del Csm difenda il magistrato dai soliti «gravissimi e inaccettabili attacchi» che nascondono l’accusa di essere «prevenuta».
«Ogni magistrato ha un orientamento politico che non si riflette sulla sua imparzialità», è il solito ragionamento del togato Csm Fontana, anche se la sua sentenza demolisce un decreto su presupposti giuridici fallaci, secondo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e quello della Giustizia Carlo Nordio [...], proprio perché il decreto sarebbe stato scritto in osservanza con le stesse normative nazionali e comunitarie che secondo la Apostolico invece sarebbero state violate.
Da qui le critiche nel merito di Viminale e Guardasigilli. Peraltro, dentro il Csm ci sono anche sensibilità diverse, come fa capire il laico di Forza Italia Enrico Aimi, presidente della Prima commissione del Csm, proprio quella che si dovrà pronunciare sulla pratica a tutela della magistrata di Catania chiesta da 13 consiglieri togati di sinistra: «La giustizia non deve essere solo terza e imparziale, ma deve anche apparire tale. Le eloquenti immagini del giudice in prima fila a un’accesa manifestazione dai connotati politici esortano un richiamo ai principi che sovrintendono il nostro Ordinamento», è il ragionamento del consigliere, che così anticipa il suo orientamento «colpevolista».
A far riflettere è l’escamotage di invocare il diritto alla privacy delle toghe dopo aver di strutto quella delle migliaia di innocenti messi alla gogna con intercettazioni irrilevanti (su cui finalmente arriverà una stretta), tralasciando le inchieste sui politici fatte dal buco della serratura che hanno indugiato sulla dimensione privata. La privacy è un alibi che oggi sembra, per la magistratura, la peggiore delle ne mesi possibili.
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” venerdì 6 ottobre 2023.
Fa quasi ridere, in un Paese governato da chi non riconosce neppure la Costituzione e il Codice penale, ricordare a un giudice una questione di opportunità. Ma al posto della giudice Iolanda Apostolico, quando il marito attivista politico il 25 agosto 2018 scese in piazza a Catania contro Salvini che negava lo sbarco alla nave Diciotti carica di migranti, noi saremmo rimasti a casa.
Nessuna norma penale o deontologica le vietava di manifestare con tanti cittadini comuni, ma lei era ed è un giudice e la sua presenza accanto a chi insultava il ministro dell'Interno poteva far dubitare non della sua imparzialità e indipendenza (che sono fatti interiori), ma della sua immagine di giudice imparziale e indipendente.
[…] Ciò premesso, la sua partecipazione (peraltro silenziosa) a un vecchio corteo non inficia minimamente la sua ordinanza che nega il trattenimento di tre migranti mandando in bestia il governo.
Governo in cui siede, al ministero della Giustizia, un ex magistrato che, quando indossava la toga, andava a cena con Cesare Previti, imputato (e poi condannato) per corruzione di giudici in cambio di sentenze comprate: bell'esempio d'imparzialità e indipendenza.
[…] Ma ora un fatto gravissimo dovrebbe allarmare tutti e mettere il resto in secondo piano: l'angolatura di ripresa del video della giudice in piazza coincide […] con quella di un uomo armato di videocamera in mezzo alle forze di polizia (un agente in borghese?).
Il fatto che sia saltato fuori a tempo di record in mano al vicepremier e ministro Salvini, si spiega in soli due modi: o un poliziotto, con occhio di lince e memoria di ferro, si è ricordato di quel filmato di cinque anni fa e ha avvisato Salvini; oppure in qualche ufficio di polizia o di servizi si schedano i partecipanti illustrialle manifestazioni e, quando il politico di turno domanda "abbiamo niente contro la Apostolico?” c'è chi sa dove pescare in tempo reale.
Non sarebbe la prima volta: l’archivio segreto e illecito di Pio Pompa, analista del Sismi del gen. Pollari, trovato nel 2006 in un ufficio riservato di via Nazionale 230, raccoglieva schedature di magistrati, giornalisti e politici sgraditi a B. e alla sua banda. Pompa è morto ma, se Salvini non rivelerà subito chi gli ha passato quel video, saremo autorizzati a pensare che abbia già un degno successore. E ad avere paura.
Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it venerdì 6 ottobre 2023.
«Se fosse confermato che il video pubblicato da Salvini è materiale proveniente dagli uffici della polizia di Stato ci troveremmo di fronte a un caso di rilevante gravita». È uno dei passaggi dell’esposto presentato alla magistratura dai deputati Angelo Bonelli e Filiberto Zaratti, gruppo alleanza Verdi-Sinistra, che chiedono alla procura della repubblica di Roma di indagare e valutare l’eventuale violazione dell’articolo 326 che punisce la rivelazione di atti coperti da segreto d’ufficio.
I deputati nell’esposto, che Domani ha potuto leggere in anteprima, si chiedono se esista o meno una banca dati in grado di catalogare i cittadini, anche incensurati, che partecipano alle manifestazioni e chi ha accesso a questi dati. Ora i magistrati, guidati dal procuratore Franco Lo Voi, dovranno aprire un fascicolo oppure inviare gli atti ai colleghi catanesi.
A questo punto i pm potrebbero chiedere alla polizia di effettuare verifiche interne e sentire i testimoni coinvolti in questa vicenda a partire da Matteo Salvini e dal leghista catanese, l’ex carabiniere Anastasio Carrà.
[…] Non è certo semplice gestire la situazione innescata dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini con la pubblicazione di un video inedito della manifestazione a Catania dell’agosto 2018 contro lo stesso Salvini all’epoca ministro dell’Interno che bloccava le navi cariche di migranti lasciandole in mezzo al mare e vietando lo sbarco nei porti.
In quelle immagini compare il volto della giudice Iolanda Apostolico, ai tempi lavorava alla misure di prevenzione, oggi è la nemica numero uno del governo dopo aver bocciato i decreti immigrazione attraverso una serie di ordinanze che hanno liberato i migranti tunisini dai Centri di permanenza. Chi ha ripreso con lo zoom il volto della giudice e chi l’ha ritirato fuori a tempo debito quando serviva a colpire la firmataria delle sentenze che hanno messo in difficoltà l’esecutivo?
Ambienti leghisti, naturalmente, escludono provenga dalla polizia, alcuni sono certi che sia stato qualche leghista locale a farle. Di certo se così fosse sarebbe curioso perché è l’unico civile nel quadrante blindato dalle camionette inaccessibile persino alla stampa.
[…] Resta un mistero chi le ha girate, cioè la provenienza delle immagini finite sui social del leader leghista. Uno dei primi sospettati è stato un uomo calvo dietro i poliziotti in tenuta antisommossa e che è certamente un poliziotto perché in un frame di uno dei video di quella giornata, trasmessi da Gedi, sale addirittura sul paraurti della camionetta per riprendere le cariche in corso. Nessuno giornalista potrebbe farlo, verrebbe immediatamente fatto scendere. Ha uno zaino blue ed è quasi poggiato sulla spalla di uno degli agenti. Quindi ecco la prima certezza: lui è il poliziotto deputato a riprendere i momenti della protesta così da analizzarli in un secondo momento.
È l’unico a riprendere nella zona presidiata da tutti i lati dalle camionette, che avevano così formato una sorta di zona rossa. Tanto che l’emittente Local Team, sempre in prima linea durante i cortei, quella sera ha fatto riprese solo da lontano, quasi dall’alto che permettono comunque di individuare il tizio calvo incollato agli agenti con casco e manganelli. Non c’erano giornalisti, nessun’altra telecamera. Ma se anche non fosse lui l’autore, può essere stato solo qualcuno autorizzato a stare lì nell’area di sicurezza. Lo confermano anche altri giornalisti presenti quel giorno. A questo si aggiunge che il video è inedito, non c’è traccia sul web e sui social prima della diffusione sui social da parte di Salvini.
L’unico modo per risolvere il giallo è una verifica interna alla polizia. Quello che trapela da alcune fonti che Domani ha consultato è che non c’è certezza che le immagini siano state girate e diffuse da agenti in servizio e che comunque una verifica ufficiale non partirà se non per impulso della magistratura. In realtà se il ministero dell’Interno volesse potrebbe avviare una verifica a prescindere dalla procura e nel caso sanzionare la manina che ha trasmesso il video.
Tuttavia, sempre le stesse fonti qualificate, spiegano che «non si esclude che sia in corso una verifica informale […]. […]
Il fumo negli occhi della sinistra sulla Apostolico. Conta più da chi arriva il video che il video stesso. Andrea Soglio su Panorama il 6 Ottobre 2023
Il fumo negli occhi della sinistra sulla Apostolico. Conta più da chi arriva il video che il video stesso La sinistra attacca sull'origine del filmato che mostra la giudice di Catania mentre manifesta contro la Polizia e Salvini. Il punto resta però un altro: può giudicare un giudice di parte e militante? La strategia è chiara e soprattutto vecchia come il mondo: quando sei in difficoltà la cosa migliore da fare è distrarre, cercare un altro argomento di polemica per sviare l’attenzione. E’ quello che una certa parte della magistratura ed una certa parte della sinistra stanno cercando di fare oggi, da quando è stato diffuso il video che riprende Iolanda Apostolico, il giudice del Tribunale di Catania, in prima fila ad una manifestazione con chi contestava con violenza verbale la Polizia, l’allora Ministro dell’Interno, Salvini e si schierava pro migranti.
Sul fatto che la presenza del giudice sia non solo “poco opportuna” ma in qualche maniera non regolare lo dice l’articolo 1 del codice etico dei magistrati in cui è presente nelle tre righe del testo complessivo una parola che dice tutto: imparzialità. Nessuno vieta a nessuno di partecipare ad una manifestazione ma se un giudice scende in piazza, in bella vista, in prima fila, allora è chiaro che l’imparzialità richiesta e pretesa viene meno. E sono anche previste sospensioni o pene di vario genere per chi non rispetta queste norme. Aspettiamo con fiducia di vedere le decisioni dei superiori della Apostolico ma non ci facciamo grosse illusioni, visto il passato. La Lega ne ha chiesto le dimissioni; dargli torto su questo è davvero difficile. Ma a farci sorridere solo le dichiarazioni dell’Anm e ad esempio del leader dei Verdi italiani, Bonelli, che si sono concentrate su un altro punto: chi ha dato il video a Salvini? In realtà dietro a questa domanda che oggi è anche titolo di un quotidiano c’è un sospetto ben preciso. Il video sarebbe stato realizzato da agenti della Digos, che fanno riprese ormai da anni ad ogni manifestazione per motivi di ordine pubblico, e da questi, da uno di questi, girato alla Lega. La “manina” quindi sarebbe dello Stato… con la teoria dello screening sociale, del complotto, del regime fascista etc etc etc. La manifestazione a Catania pro migranti in cui il coro più gettonato era “Assassini” rivolto agli agenti di Polizia era pubblico; quella scena potrebbe essere stata ripresa da un passante, un turista, un portuale, un sostenitore delle Ong, da chiunque e poi messo in rete, condiviso, da chiunque. Scoprire quindi chi lo abbia fatto arrivare al leader della Lega è semplicemente impossibile. E poi, soprattutto, non conta, non c’entra nulla con il nocciolo della questione che era ed è un altro: può un giudice di parte giudicare in maniera imparziale? Se una persona sceglie di scendere in piazza e davanti a tutti all’aria aperta decide di metterci la faccia per questa o quella battaglia se ne deve assumere tutte le responsabilità ben sapendo ormai che nel mondo digitale ognuno di noi ogni telefonino è una telecamera è memoria storica digitale ognuno di noi, ogni telefonino è una telecamera, è memoria storica, incancellabile, inarrestabile. Fa ridere vedere la sinistra difendere la “privacy” dei manifestanti. La stessa sinistra che tanto per fare un esempio fece circolare tempo fa il video del saluto romano fatto ad un funerale dal Romano La Russa, fratello del Presidente del Senato. Un video che scatenò polemiche (ci fu pure un’inchiesta della Procura sulla punibilità del gesto, manco fosse la Var del calcio) e nessuno allora chiese la provenienza delle immagini, nessuno parlo di screening di piazza. Ciascuno può fare la sua parte scatenando nuovi tormentoni o alzando polveroni di ogni tipo. Ma dal punto non ci spostiamo e la domanda resterà sempre la stessa finché non avrà risposta: può un giudice dichiaratamente e pubblicamente di parte continuare a giudicare?
Csm, Anm e la richiesta di tutela per i “compagni” con la toga sulle spalle. Antonello de Gennaro il 6 Ottobre 2023 su Il Correre del Giorno.
La giudice Iolanda Apostolico ha preferito decidere, disapplicando una Legge, che secondo lei è da ritenersi anticostituzionale, contestando di fatto il principio che alla magistratura tocca esclusivamente applicare le Leggi e qualora ravvisi elementi in contrasto con la Carta Costituzionale su cui si fonda la Repubblica, e in un caso del genere sospendere il giudizio in attesa di una pronuncia della Consulta
di Antonello de Gennaro
Ha ragione il collega Alessandro Sallusti direttore del quotidiano IL GIORNALE a chiedersi nel suo editoriale di oggi come possa “un magistrato partecipare ad una manifestazione convintamente al fianco di estremisti che urlano “assassini” ed “animali” ai poliziotti e poi giudicare sul tema al centro di quella rissa ?”. Il riferimento è chiaramente a quanto ha fatto nel 2018 la giudice Iolanda Apostolico del Tribunale di Catania , come documenta un video, scesa in piazza assieme ai centri sociali per protestare contro le politiche migratorie dell’allora ministro dell’ Interno Matteo Salvini, la quale nei giorni scorsi ha deciso di non applicare le nuove leggi in materia, liberando quattro immigrati trattenuti legalmente in un centro di accoglienza.
Immediatamente è intervenuto il “soccorso rosso” dell’ Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Santalucia: “Non si entra nella vita privata dei colleghi, si deve stare nel merito delle loro sentenze“. Resta da capire cosa ci sia di “privato” su quanto è stato rivelato e documentato sul comportamento della Apostolico ! Fose qualcuno ha spiato nel buco della serratura della sua abitazione ? Il “soccorso rosso” dell’ ANM si guarda bene dal non commentare invece il comportamento di una loro collega che ha da tempo manifestato il suo odio ideologico contro Salvini e la sua politica anti-immigrazione.
Ha ragione il magistrato Simonetta Matone, ora senatore, allorquando afferma che “non è accettabile che un magistrato partecipi ad una manifestazione contro le Forze dell’ Ordine. Il CSM non dovrebbe aprire un procedimento per la protezione del giudice, bensì di quella di noi cittadini !”
“Soccorso rosso” non ha proferito però una sola parola sull’immediato auto-oscuramento della pagina Facebook personale della giudice Apostolico, che sembra un tentativo “last minute” di nascondere eventuali prove a suo carico.
Ha ragione il pubblico ministero anti-terrorismo Stefano D’Ambruoso, intervistato oggi dall’ amico e collega Francesco Specchia sul quotidiano LIBERO quando afferma che “Non è corretto far balenare anche minimamente il sospetto di essere schierati politicamente. Non sono d’accordo con l’ ANM. Serve un controllo nell’uso dei social network.” D’ Ambruoso, barese, classe 1962, è peraltro un magistrato stimatissimo, che si è affacciato alla politica venendo eletto parlamentare con “Scelta Civica“ creatura del prof. Mario Monti, diventando questore della Camera dei Deputati, per poi rientrare in magistratura come sostituto procuratore con una specializzazione in “dissenso interno”, cioè si occupa sopratutto di anarchici e terrorismo internazionale ed è fra i pochi magistrati capace di leggere la politica con un occhio giudiziario a 360°.
Mentre il quotidiano La Repubblica da sempre molto vicino alla “sinistra giudiziaria“, con attuali posizioni anti-governative, descrive la giudice Iolanda Apostolico come modello di indipendenza, D’ Ambruoso immediatamente prende posizione: “Io appartengo a quella stragrande maggioranza di magistrati che si impone di apparire terzo ancora prima di esserlo” aggiungendo “anche l’occhio sociale vuole la sua parte. Per me non è corretto anche minimamente fare balenare il sospetto che un magistrato possa essere schierato magari su posizioni politiche diverse da quelle di un comune cittadino che proprio da quel magistrato un giorno potrebbe essere giudicato“.
Forse è il caso al CSM ed all’ ANM qualcuno si domandi se si possa parlare di “uso legittimo dei social” per chi ha il dovere costituzionale ed istituzionale di apparire terzo. il pm anti-terrorismo D’ Ambruoso è tranchant: “E’ un tema che riguarda tutti coloro che svolgono una funzione istituzionale. Vale sicuramente per i magistrati, come per i prefetti, per le forze di polizia, per i comandanti dei carabinieri” aggiungendo ” Sono consapevole che l’uso dei social dev’essere controllato, e della possibilità delle diverse interpretazioni di un tweet o di un post. Quando uso Facebook mi sforzo di farlo per comunicazioni di iniziative culturali che mi vedono attivo“. Ed aggiunge “se posto su Instagram le foto delle feste di famiglia posso apparire un esibizionista; ma se metto un “like” ad una manifestazione di piazza salta la percezione del concetto di terzietà” concludendo “la terzietà di Falcone e Borsellino è il massimo esempio di terzietà che possa capitare di seguire“.
Quello che il “soccorso rosso” dell’ ANM e di parte del CSM non affermano è che il buonsenso dovrebbe servire a far capire che se si hanno opinioni personali in una materia in cui un giudice è chiamato ad occuparsi, l’onestà intellettuale, la deontologia professionale e l’etica dovrebbe suggerire di astenersi. Invece la giudice Iolanda Apostolico ha preferito decidere, disapplicando una Legge, che secondo lei è da ritenersi anticostituzionale, contestando di fatto il principio che alla magistratura tocca esclusivamente applicare le Leggi e qualora ravvisi elementi in contrasto con la Carta Costituzionale su cui si fonda la Repubblica, e in un caso del genere sospendere il giudizio in attesa di una pronuncia della Consulta.
Purtroppo spesso e volentieri si incontrano nelle aule di giustizia dei magistrati che si ergono a giudici delle stesse leggi. Una sorte di giustizia “creativa” che qualche tribunale trasforma in giustizia personale. Senza dimenticare nelle chat del processo Palamara sono emerse delle gravi affermazioni da parte dei magistrati coinvolti, si discuteva e pianificava come “incastrare” Matteo Salvini quando era ministro dell’ Interno.
E questa sarebbe l’autonomia ed indipendenza della Magistratura ? A noi sembra tanto una giustizia “spazzatura” !
Antonello de Gennaro. Giornalista professionista dal 1985 ha lavorato per importanti quotidiani e periodici, radio e televisioni nazionali in Italia ed all’estero. Pioniere dell’informazione sul web è ritenuto dei più grossi esperti di comunicazione su Internet.
Salvini come Delmastro, esposto ai pm sul video usato contro la giudice. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 06 ottobre 2023
La polizia: «Non è negli atti ufficiali». La denuncia ai pm di Bonelli apre alla possibilità degli accertamenti. La Russa e Meloni difendono il ministro: «Nessun dossieraggio»
«Se fosse confermato che il video pubblicato da Salvini è materiale proveniente dagli uffici della polizia di stato ci troveremmo di fronte a un caso di rilevante gravità». È uno dei passaggi dell’esposto presentato alla magistratura dai deputati Angelo Bonelli e Filiberto Zaratti, gruppo Alleanza verdi-sinistra, che chiedono alla procura della Repubblica di Roma di indagare e valutare l’eventuale violazione dell’articolo 326 che punisce la rivelazione di atti coperti da segreto d’ufficio. Lo stesso reato per il quale è finito sotto inchiesta il sottosegretario Andrea Delmastro dopo aver passato documenti sensibili sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito all’amico e collega di partito Giovanni Donzelli, il quale li ha usati in aula per colpire l’opposizione.
I deputati nell’esposto si chiedono se esista o meno una banca dati in grado di catalogare i cittadini, anche incensurati, che partecipano alle manifestazioni e chi ha accesso a questi dati. In pratica vogliono sapere se esiste una centrale di schedatura all’interno del Viminale. Ora i magistrati, guidati dal procuratore Franco Lo Voi, dovranno aprire un fascicolo oppure inviare gli atti ai colleghi catanesi. A questo punto i pm potrebbero chiedere alla polizia di effettuare verifiche interne e sentire i testimoni coinvolti in questa vicenda a partire da Matteo Salvini e dal leghista catanese, l’ex carabiniere Anastasio Carrà, il primo a fare il nome della magistrata Iolanda Apostolico commentando il video pubblicato dal suo leader. Non solo, più fonti qualificate, spiegano che con la denuncia e un’indagine aperta sarà possibile controllare gli accessi fatti negli archivi informatici della questura per verificare se e quando qualcuno ha estratto il video o materiale inerente la manifestazione del 25 agosto 2018.
LA VERSIONE DELLA POLIZIA
In tarda serata è arrivata la nota della polizia che comunica che «il video pubblicato non risulta tra gli atti d’Ufficio relativi all’evento in questione. Inoltre, negli atti redatti non risulta menzionata la presenza della dottoressa Iolanda Apostolico né del marito». Di certo non è semplice né per il questore di Catania né per i vertici del corpo gestire la situazione innescata dal ministro dei Trasporti.
Il video diffuso, finora inedito, è stato realizzato durante una manifestazione contro lo stesso Salvini, all’epoca ministro dell’Interno che bloccava i migranti a bordo delle navi impedendogli di sbarcare. Tra i presenti il giudice Iolanda Apostolico, ai tempi lavorava alla misure di prevenzione, oggi nemica numero uno del governo dopo aver bocciato i decreti immigrazione attraverso una serie di ordinanze che hanno liberato i migranti tunisini dai Centri di permanenza. Chi ha ripreso con lo zoom il volto del giudice? E chi ha ritirato fuori il video proprio quando serviva colpire la firmataria delle frasi che hanno messo in difficoltà l’esecutivo? La filiera potrà essere ricostruita con l’apertura dell’indagine a seguito dell’esposto, che potrebbe dare impulso a una verifica approfondita interna alla polizia.
L’EX CARABINIERE CARRÀ
Qui iniziano le difese d’ufficio. Ambienti leghisti, naturalmente, escludono provenga dalla polizia. Alcuni sono certi che sia stato qualche locale leghista a fare le riprese. Così fosse, sarebbe curioso perché si tratterebbe dell’unico civile nel quadrante blindato dalle camionette inaccessibili persino alla stampa. «Certo che sarebbe gravissimo se fosse uscito dagli archivi della polizia», ammette Carrà, deputato leghista, catanese ed ex carabiniere, che dunque conosce bene il mondo delle forze dell’ordine: «Ho fatto il carabiniere a Catania, ero luogotenente mica uno cos , ho prestato servizio puro in tribunale e perciò conosco il giudice Apostolico, per questo l’ho riconosciuta nel video pubblicato dal mio leader, Salvini».
Carrà è stato tra i primi a commentare il post del ministro e, soprattutto, è stato il primo a fare il nome di Apostolico. Salvini si era infatti limitato a scrivere a corredo del video che nelle immagini «riconosceva volti familiari». Carrà, dopo aver diffuso il nome in aula, ha chiesto un’informativa del ministro della Giustizia: «È Apostolico, il magistrato può smentire?» Tempismo perfetto, insomma. «Voi però vi state concentrando sulla fonte del video e non sul fatto grave che un giudice è a una manifestazione in cui gridano assassini alla polizia ea Salvini», torna sulla difensiva il deputato.
Resta il mistero della provenienza delle immagini e di chi le abbia girate. Uno dei primi indiziati è stato un uomo calvo, dietro i poliziotti in tenuta antisommossa, che è certamente un poliziotto perché in un frame di uno dei video di quella giornata, trasmessi da Gedi, si vede addirittura sul paraurti della camionetta per riprendere le cariche in corso. Nessun giornalista potrebbe farlo, verrebbe immediatamente fatto scendere. Quindi ecco la prima certezza: lui è il poliziotto deputato a riprendere i momenti della protesta così da analizzarli in un secondo momento.
È l’unico a riprendere nella zona presidiata da tutti i lati dalle camionette, che avevano così formato una sorta di zona rossa. Tanto che l’emittente Local Team, sempre in prima linea durante i cortei, quella sera ha fatto riprese solo da lontano, che permettono comunque di individuare il tizio calvo incollato agli agenti con casco e manganelli. Non c’erano giornalisti, nessun’altra telecamera. Ma se anche non fosse lui l’autore, ma un altro in borghese che si avvicina alla scena con il cellulare in mano, può essere stato solo qualcuno autorizzato a stare lì nell’area di sicurezza. Si torna dunque all’esposto presentato in procura a Roma: un atto che potrebbe portare all’apertura di un fascicolo di indagine e quindi autorizzare un controllo interno.
Salvini ha chiesto le dimissioni di Apostolico. Dallo staff del ministro preferiscono ironizzare e non rispondere nel merito alle domande di Domani. Ironia che in realtà maschera il nervosismo interno al partito, che non sa e non può dire altro di ufficiale.
Ma sono intervenuti anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, e la premier Giorgia Meloni. Per entrambi il problema non è come sia uscito il filmato, «nessun dossieraggio», è la difesa del premier, cui dà manforte La Russa: «Chi ha dato il filmato a Salvini? Il problema non è quello, ma valutare l’opportunità o meno di quel comportamento e quindi della partecipazione a quella manifestazione del giudice». Non è chiaro però perché la seconda carica dello stato si senta in dovere di intervenire su una questione, quella dell’origine del video, che potrebbe avere risvolti imbarazzanti per le istituzioni.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA. Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Nello Trocchia è inviato di Domani, ha realizzato lo scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere pubblicando i video e un libro sul Pestaggio di stato, Laterza editore. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
La destra che usa armi eversive contro i nemici. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 06 ottobre 2023
O Salvini chiude la querelle dimostrando che è in possesso delle immagini di Apostolico a buon diritto, o ci troviamo davanti a uno scandalo gemello a quello che ha coinvolto il sottosegretario Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli
La vicenda del video che immortala la giudice di Catania Iolanda Apostolico, pubblicato sui social dal ministro Matteo Salvini come prova inconfutabile della parzialità della magistrata che ha smontato con una sentenza il decreto Cutro, si presta a due letture differenti. Entrambe interrogano su questioni rilevanti della vita pubblica del paese.
La destra evidenzia la gravità del comportamento di chi, presenziando a una manifestazione anti governativa del 2018, rischia di minare non solo la sua credibilità personale, ma il prestigio dell’istituzione giudiziaria. Chiedendone addirittura le dimissioni. Altri giuristi spiegano al contrario che la Costituzione prevede il diritto di ogni cittadino di partecipare a eventi pubblici o esprimere libere opinioni, senza per questo dover temere censure di sorta.
Ragionamento sacrosanto ma irrilevante per coloro che sono convinti che chi esercita il potere giudiziario debba non solo essere, ma anche apparire imparziale di fronte all’opinione pubblica: per non prestare il fianco a polemiche strumentali Apostolico avrebbe dunque fatto meglio a non scendere in piazza contro le decisioni – pur aberranti – dell’ex ministro dell’Interno che teneva ostaggio in mare i migranti rinchiusi nella nave Diciotti.
Detto questo, la polemica alimentata dalla destra è solo il “dito” della vicenda. Un de cuius rispetto alla “luna”, all’enormità che potrebbe palesarsi se i sospetti dovessero essere confermati da nuove evidenze. Il leader leghista non ha infatti chiarito come, e soprattutto da chi, ha ricevuto il materiale finora inedito da lui usato per aggredire un giudice che ha bocciato un provvedimento di un governo di cui fa parte.
Secondo le ricostruzioni di Domani, Repubblica, Il Fatto e altri media, le prime evidenze lasciano supporre che il filmato sia stato girato da un agente in borghese, posizionato dietro i colleghi che presidiavano la piazza in assetto antisommossa.
Intendiamoci. Le registrazioni (della Digos, dei carabinieri o di altri reparti) sono antica consuetudine delle forze dell’ordine: servono a identificare eventuali agitatori o soggetti pericolosi, operazioni conformi alla legge. Ma talvolta occorrono anche a schedare – azione assai più discutibile – chiunque partecipi a manifestazioni di protesta.
In nessun caso, però, è accettabile che materiale girato da servitori dello stato finisca a cinque anni di distanza nelle mani di un ministro della Repubblica che lo sfrutta per azioni di propaganda che puzzano di dossieraggio. Dunque, delle due l’una: o Salvini chiude la querelle dimostrando che è in possesso delle immagini di Apostolico a buon diritto, o ci troviamo davanti a uno scandalo gemello di quello che ha coinvolto il sottosegretario Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli.
Qualche mese fa il vice del ministro dell’Interno Piantedosi aveva consegnato al collega di partito intercettazioni riservate dell’anarchico Alfredo Cospito carpite dalla polizia penitenziaria, in modo che il meloniano potesse declamarle in parlamento con il solo fine di attaccare le opposizioni. Informazioni sensibili ottenute dal potere esecutivo trasformate in frecce avvelenate contro gli avversari politici: al netto di cascami penali (Delmastro è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e rischia ora il rinvio a giudizio) l’azione sembra simile a quelle organizzate nelle democrature sudamericane.
Tireremmo tutti un sospiro di sollievo se il capo del Carroccio, ex numero uno del Viminale e dunque con ottime entrature negli apparati di polizia, rivelasse che stavolta ha trovato le immagini in rete, nel fascicolo dell’inchiesta che lo vede imputato sulla Diciotti, o grazie a un cronista che filmava la scena. In caso contrario, resterebbe l’odioso sospetto che rappresentanti dello stato abbiano consegnato filmati d’archivio a un ministro per attaccare un giudice considerato ostile all’esecutivo. Un atto che profuma di eversione.
EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è direttore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.
La giudice che cerca fondi per le Ong. Dopo i casi di Catania e Firenze, le campagne "balcaniche" della Albano, militante Md. Fausto Biloslavo il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Il caso della giudice Iolanda Apostolico, che grazia gli illegali tunisini e partecipa a rabbiose manifestazioni pro migranti dell'estrema sinistra è la punta di un iceberg. Sul versante della rotta balcanica c'è un'altra giudice, Silvia Albano, specializzata nella protezione internazionale al Tribunale di Roma, che ha fatto calare la scure sulle riammissioni dei migranti illegali in Slovenia. L'ordinanza scaturisce dall'esposto di un pachistano che si è rivelato una gigantesca bufala. La giudice fa parte dell'esecutivo nazionale di Magistratura democratica e del comitato direttivo dell'Anm, l'Associazione nazionale dei togati. E non è un caso che sia vicina all'Asgi, un'associazione legale finanziata da George Soros, che fa di tutto per aprire le porte all'immigrazione. Albano, sulla sua pagina Facebook, appoggia le Ong del mare, anche le più estremiste come la tedesca Sea watch, pubblicizzando raccolte fondi a loro favore e postando articoli. Il 7 febbraio 2020 fa una donazione, lanciata da Alessandro Metz, a favore di nave Mare Jonio. Oggi per Metz assieme a Luca Casarini la procura di Ragusa ha chiesto il rinvio a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina. E ovviamente negli ultimi giorni Albano difende a spada tratta la collega Apostolico nell'occhio del ciclone.
La mazzata sulle riammissioni in Slovenia, pratica comune da parte dei francesi a Ventimiglia, arriva il 18 gennaio 2021 quando Albano accoglie in pieno il ricorso contro il ministero dell'Interno di Mahmood Zeeshan presentato dagli avvocati Caterina Bove e Anna Brambilla legati all'Asgi. In sintesi il pachistano sostiene di essere arrivato a Trieste, capolinea della rotta balcanica, dove la polizia l'ha malmenato e rimandato in Slovenia. E poi è stato rimbalzato in Croazia e alla fine in Bosnia.
La giudice si spinge più in là nell'ordinanza bollando come «illegittime» le «riammissioni informali» in Slovenia, vero obiettivo dell'Asgi, che canta vittoria. L'allora ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, blocca le riammissioni, che si basano su un discusso accordo con Lubiana del 1996. «Al di là dei numeri è grave il messaggio sbagliato arrivato ai trafficanti: nessuno verrà rimandato indietro - spiega Pierpaolo Roberti assessore leghista del Friuli- Venezia Giulia su sicurezza e immigrazione - Per di più si è scoperto con il ricorso del Viminale che la denuncia del pachistano era inventata». Il 27 aprile 2021 il tribunale di Roma, ma con altri giudici, smaschera la presunta vittima della polizia italiana in stile Pinochet. E la condanna pure al pagamento alle spese processuali, ma non si pronuncia sull' «eventuale illegittimità» dell'accordo italo-sloveno sulle riammissioni. In pratica rimane in vigore il blocco e torniamo a rimandare indietro gli illegali solo di recente con il ministro Matteo Piantedosi. «Ma a rilento - ammette Roberti - Il danno provocato dall'ordinanza nel contrasto all'immigrazione illegale è irreversibile». Il motivo aggiuntivo è che in Slovenia il nuovo governo di sinistra non vuole saperne di riammissioni crollate a meno di 100. A parte le ripetute interviste sul Manifesto, che criticano il governo su Ong e sbarchi, Albano è l'unico magistrato a partecipare il 14 ottobre 2020 al convegno «Europa: migranti e richiedenti asilo Per una svolta di civiltà» organizzato da Cgil, Cisl, Uil, Md e Asgi. La mattina interviene Gianfranco Schiavone, allora numero due dell'associazione. A Trieste è presidente della onlus Consorzio Italiano di Solidarietà, che accoglie i migranti in arrivo dalla rotta balcanica facendosi pagare dallo Stato. Non solo preannuncia il caso (farlocco) del pachistano ma dichiara: «Prima o dopo ci sarà un giudice a Berlino». Nel pomeriggio prende la parola Albano che attacca i decreti sicurezza di quando Salvini era ministro dell'Interno. Solo tre mesi dopo gli avvocati dell'Asgi trovano «il giudice a Berlino» evocato da Schiavone con l'ordinanza di Silvia Albano che affossa le riammissioni in Slovenia.
La giudice resta. Ma è lite sui dossier. La sinistra insinua trame. Meloni: "Accusa strumentale, era a una manifestazione pubblica". Pier Francesco Borgia il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.
«Dimissioni» è la parola più frequente nel dibattito scatenato dalla diffusione del video in cui il magistrato Iolanda Apostolico partecipa a una manifestazione, nel 2018 a Catania, per chiedere lo sbarco dalla Diciotto degli immigrati bloccati a bordo. Eppure non ci saranno passi indietro. La conferma, seppur indiretta, arriva da una sua collega. «Non chiederà mai di essere trasferita, ma continuerà a fare il suo lavoro con serietà - spiega Marisa Acagnino, giudice del Tribunale di Catania -, anche perché sarebbe come darla vinta a chi sta riversando montagne di fango su di lei».
Per difendere la giudice del tribunale di Catania che, il 29 settembre, ha deciso di non convalidare i trattenimenti nel Cpr di Pozzallo di quattro migranti tunisini (bocciando, perché «incostituzionale e contrario alle norme Ue», il cosiddetto decreto Cutro), sono intervenuti non soltanto i suoi colleghi ma molti esponenti del mondo politico e dell'informazione. Una difesa che si concretizza in un'accusa di dossieraggio. Ci si chiede infatti: «da dove esce quel video?», «chi lo ha dato a Salvini?», «perché è emerso soltanto ora»? Una bomba a orologeria, secondo l'opposizione, che ha un «effetto intimidatorio» - parole dell'ex presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini - nei confronti della giudice Apostolico.
In merito al tanto discusso video diffuso da Salvini sui social, il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, ha presentato un esposto alla Procura di Roma. Secondo il parlamentare potrebbe essere stato violato l'articolo 326 del Codice penale che persegue la diffusione di notizie che devono rimanere segrete da parte di pubblico ufficiale. La Questura catanese però ribatte che il video pubblicato «non risulta tra gli atti d'Ufficio relativi all'evento in questione». I Cinquestelle chiamano in causa direttamente il ministro dell'Interno al quale chiede di spiegare come abbia fatto Salvini a entrare in possesso proprio ora di quel video. E Sandro Ruotolo (Pd) tuona: «Siamo tornati al dossieraggio per delegittimare avversari e coloro che si ritengono avversari». E si chiede: «Non è il caso che dica la sua la presidente Meloni? Non è il caso che della vicenda se ne occupi anche il Copasir?»
La Meloni risponde dal Granada definendo «strumentale» la polemica sul presunto dossieraggio: «Era una manifestazione pubblica e la giudice era lì, non c'è niente di occulto». Per poi aggiungere: «È legittimo chiedersi se qualcuno che partecipa a manifestazioni su quel tema, nel momento in cui decide, lo faccia con un pregiudizio o meno».
Ed è proprio ipotizzando un «pregiudizio» che molti esponenti della Lega sono tornati anche ieri a chiedere il trasferimento della Apostolico.
Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, invita il Csm a farsi arbitro di questa querelle. Mentre il senatore azzurro Maurizio Gasparri chiede al ministro della Giustizia, Nordio, di disporre un'ispezione a Catania dopo le eclatanti vicende che hanno riguardato la sostituta procuratrice Iolanda Apostolico. «Che altro deve accadere - dice Gasparri - per porre fine all'uso politico della Giustizia?» Sulla questione del presunto «dossieraggio» viene anche ricordato che all'epoca della protesta di piazza contro Salvini il capo della Polizia era Franco Gabrielli. Lo stesso che diciotto mesi dopo (febbraio del 2020), nel corso di un convegno a porte chiuse dei rappresentanti sindacali della Polizia ha usato parole a dir poco irriverenti verso il leader leghista: «Usa lo sfintere di un altro», salvo poi accorgersi della gravità dell'espressione scusandosi. Gabrielli «complice» di Salvini? Poco probabile. Pier Francesco Borgia
Iolanda Apostolico? "Non si trovava lì per caso": affondo contro la giudice. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2023
Iolanda Apostolico è diventata un caso nazionale. La giudice di Catania che ha dichiarato illegittimo il decreto immigrazione del governo non sembra essere propriamente imparziale. Il marito è praticamente un militante di sinistra e nelle scorse ore è emerso un video, diffuso da Matteo Salvini, in cui si vede la magistrato a una manifestazione del 2018 in cui si chiedeva lo sbarco dei migranti a bordo della nave Diciotti e si insultavano le forze dell’ordine. LaPresse ha intervistato Matteo Iannitti, presidente dell’Arci di Catania che nel 2018 fu tra i promotori di quella manifestazione.
“Io che faccio militanza a Catania nel movimento antirazzista e nella sinistra dal 2002 - ha esordito - non avevo idea di chi fosse la dottoressa Apostolico. È vero che la giudice è compagna di vita di un militante di sinistra assolutamente riconoscibile e, anche se lei non ha mai avuto nessun tipo di ruolo nell'attivismo, l'idea che sia una persona assolutamente slegata, tutta 'casa e tribunale', che non ha mai subito influenze di nessun tipo, non può assolutamente essere realistica. È però ipocrita fingere che non fosse una manifestazione contro il governo. Fa danno millantare l'indipendenza di una persona che invece convive con chi è impegnato politicamente. Quella manifestazione tra le parole d'ordine che aveva c'era la richiesta di dimissioni di Salvini da ministro. C'erano toni sprezzanti contro il governo che teneva in ostaggio quelle persone. C'era un clima di scontro profondo con il governo”.
Insomma, Iannitti è sicuro di una cosa: “La giudice non poteva trovarsi lì per sbaglio. Quella è stata una chiara scelta di partecipare ad una cosa che non era la manifestazione dei centri sociali contro la polizia, o una manifestazione ecumenica, ma era chiaramente organizzata contro il governo. Era una manifestazione pacifica. Poi un gruppo di manifestanti si staccò, tentando di aggirare il blocco di polizia e salendo sul molo di levante, dove c'era la Diciotti. Fu un tentativo più estetico che reale, visto lo spiegamento di forze messo in campo. La polizia reagì con una piccola carica scenografica che preoccupò le persone un po' più adulte che si misero in mezzo per placare gli animi”. Infine Iannitti ha avvalorato la tesi della giudice, che sostiene di aver cercato di tenere la situazione sotto controllo e non di aver partecipato alla manifestazione: “La giudice si trovò lì perché era in piazza, e come persona adulta volle placare gli animi. A prescindere dal ruolo di paciere che può aver avuto Apostolico, il fatto che la giudice fosse a quella manifestazione fu comunque una chiara affermazione della sua posizione politica”.
Apostolico, spunta un secondo video: la giudice discusse con gli agenti. Storia di Roberta d'Angelo su Avvenire sabato 7 ottobre 2023.
Svelato il mistero del video che ritrae la giudice Iolanda Apostolico a una manifestazione del 2018 al porto di Catania in favore dei migranti contro i provvedimenti dell’allora ministro dell'Interno Matteo Salvini.
È stato un carabiniere a girarlo con il proprio cellulare e «senza alcuna finalità» e lo stesso autore lo avrebbe riferito spontaneamente ai suoi superiori. E dopo giorni di rimpalli di responsabilità, spunta un secondo filmato - girato dall’agenzia LaPresse - con Apostolico che si rivolge agli agenti con una mano alzata.
Riguardo al primo video reso pubblico da giorni dal leader della Lega, dunque, sarebbe stato lo stesso militare che lo ha girato a farsi avanti, spiegando ai suoi superiori che si tratta di materiale privato, mai allegato ad atti interni o a informative all'autorità giudiziaria, ma che solo da pochi giorni l’autore avrebbe fatto circolare in una ristretta cerchia di persone. In questo modo sarebbe arrivato all’attenzione del vicepremier leghista, mentre i superiori del militare hanno già informato l'autorità giudiziaria di Catania. L’autore rischia di essere indagato per abuso d'ufficio e rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio.
Il Carroccio, però, continua a puntare i riflettori sulla giudice e aumenta il pressing per le dimissioni di Apostolico. «Per qualcuno a sinistra il problema è “chi ha girato il video”, in pubblica piazza di un evento pubblico - recita una nota da via Bellerio -. Per la Lega e milioni di italiani il problema è cosa si vede in quel video, ovvero un giudice in mezzo a una manifestazione dove si insultano (“assassini… animali…”) poliziotte e poliziotti, e si inneggia alla clandestinità». E allora, conclude, «cosa chiediamo? Scuse e dimissioni».
Da Fdi , il capogruppo al Senato Donzelli considera la giudice «indifendibile». Stessa opinione del suo collega alla Camera Tommaso Foti, pure meno duro prima dell’arrivo del secondo video. Ma, dice, dopo il filmato di LaPresse «nel quale si vede chiaramente il magistrato inveire contro le forze dell'ordine- ci sono ben poche parole da spendere. Il giudice farebbe bene a chiedere scusa e la magistratura tutta a prendere le distanze da una condotta inopportuna sempre, tanto più quando posta in essere da un soggetto che dovrebbe rendere onore alla toga che porta al posto di infangarla». E, aggiunge, «l’opposizione, che fino ad ora ha vergognosamente parlato di dossieraggi - non perdendo l’occasione per fare di un fatto grave la solita strumentalizzazione politica - intervenga finalmente nel merito con dignità e verità, se ne è capace, censurando l'accaduto».
Si sfila invece dalla polemica il deputato leghista siciliano Antonio Carrà, indicato dal quotidiano di Catania La Sicilia come l’intermediario tra l’autore appartenente alle forze dell’ordine e il leader del Carroccio Salvini. «Quel video non sono stato io a procurarlo, né a darlo a Matteo». assicura.
Per il governatore siciliano Renato Schifani, però, il nodo della questione di Apostolico è soprattutto di merito. «Non credo debba dimettersi», ma, spiega, «ritengo che il giudice non abbia ottemperato a uno dei principi a cui deve attenersi per il suo ruolo». E questo sarebbe «più preoccupante del video». Continua, dunque, il coro di critiche della maggioranza (a cui si aggiungono anche voci di costituzionalisti e dal mondo della sinistra). Il ministro Raffaele Fitto parla di «fatto gigantesco», mentre il suo collega allo Sport Andrea Abodi nega «una guerra tra governo e magistratura», ma, continua, «mi lascia perplesso il fatto che si metta in discussione un'azione di governo».
Il leader di M5s Giuseppe Conte però, chiede a Salvini di chiarire come abbia avuto il video, in un primo tempo attribuito alla Polizia. Mentre Magistratura democratica ieri ha approvato un documento per «esprimere solidarietà e sostegno» ad Apostolico, «vittima di un uso spericolato di ingerenze nella sua vita privata».
Giudice Apostolico, ci mancava il post del marito contro Israele: "Vergognatevi!". Il Tempo il 07 ottobre 2023
Il nuovo video che immortala le proteste della giudice Iolanda Apostolico contro la polizia. I vecchi post del compagno Massimo Mingrino, funzionario in tribunale, contro Israele. Si intrecciano cronaca e politica nelle novità emerse sul caso della magistrata di Catania che ha respinto il trattenimento di tre migranti tunisini bollando di fatto il decreto Cutro come illegittimo. Dopo le polemiche per i post e i like anti-Salvini, il caso della partecipazione alla manifestazione per i migranti della nave Diciotti a Catania, 5 anni fa. LaPresse oggi ha mostrato un nuovo video, che la vede protestare con decisione mentre altri manifestanti ne dicono di tutti i colori ai poliziotti. A rendere il tutto più surreale, sono alcuni post emersi dal profilo del compagno della giudice. Ora l'account è chiuso ma in precedenza Mingrino aveva il profilo Facebook pubblico, quindi i suoi post erano visibili a tutti. Come quello del maggio 2021, in cui il marito del giudice di Catania aveva condiviso senza commentarlo un post del partito di sinistra Potere al Popolo di chiaro stampo anti-israeliano.
"Vergognatevi! Questa è una immagine della manifestazione pro-Israele a Roma. Fa venire mal di pancia. Nell'ordine sono intervenuti Matteo Salvini, Enrico letta, e Antonio Tajani, Francesco Lollobrigida, Carlo Calenda, Maria Elena Boschi, Giovanni Toti, sciorinando la loro solidarietà a Israele, contro "il terrorismo". Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d'Italia, Azione, Italia Viva, tutti uniti quando si tratta di sostenere una potenza coloniale, Israele, che utilizza le stesse tecniche di apartheid del Sudafrica razzista contro i palestinesi", scriveva Potere al Popolo, "Capovolgono la realtà. Israele è l'aggressore. Israele colonizza, uccide, bombarda, opprime. Mentre scriviamo sono 56 i palestinesi uccisi. Noi stiamo con il popolo palestinese". Parole che emergono quando infuria la guerra in medio Oriente, con l'attacco dei miliziani di Hamas con migliaia di razzi su Israele.
Giudice Apostolico, spunta un nuovo video: cosa fa davanti alla polizia. Il Tempo il 07 ottobre 2023
Un altro video che ritrae la giudice Iolanda Apostolico durante la manifestazione al porto di Catania, nel 2028, a sostegno dei migranti della nave Diciotti getta nuova luce sulla vicenda. Si tratta di un filmato girato dal giornalista Stefano Bertolino per l'agenzia LaPresse, che lo ha pubblicato sabato 7 ottobre in esclusiva. Si vede la giudice, finita al centro delle polemiche dopo la decisione di non convalidare il trattenimento di tre migranti tunisini dichiarando di fatto illegittimo il decreto Cutro del governo, protestare attivamente contro le forze dell'ordine, mentre altri manifestanti insultano i poliziotti. Immagini che affossano i tentativi di minimizzare i fatti visti in questi giorni.
“L’esclusivo video di Lapresse è sconvolgente e spazza via le ridicole difese d’ufficio e i comici tentativi di spostare l’attenzione da un fatto evidente e gravissimo: un giudice in piazza contro le forze dell’ordine", si legge in una nota della Lega diramata dopo la pubblicazione del filmato. ".Nelle nuove immagini, la dottoressa Apostolico non difende donne e uomini in divisa insultati, alza la voce e il braccio, tace davanti a grida e parole irriferibili. Ci chiediamo cosa debba succedere ancora affinché tutte le istituzioni, unanimemente e rapidamente, intervengano di fronte a questa pagina oscena della nostra democrazia. Dimissioni, immediate”.
Iolanda Apostolico? Il Pd dimentica di quando mise alla gogna un magistrato. Il Tempo il 07 ottobre 2023
Per l’Anm è sbagliato chiedere conto di ciò che fanno i magistrati fuori dalle aule dei tribunali. Lo «screening» della loro vita privata, per usare le parole del presidente Giuseppe Santalucia, fa venire meno la necessaria «serenità», precondizione per l’autonomia della magistratura. Tradotto: la Lega non deve chiedere le dimissioni di Iolanda Apostolico, la giudice di Catania che non ha trattenuto tre migranti nel Centro per i rimpatri di Pozzallo, ritenendo le regole varate dal governo in contrasto con la normativa europea. Poco importa se nel 2018 partecipò ad una manifestazione in cui si gridava «poliziotti assassini» e in passato condivideva petizioni per sfiduciare l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Per la sinistra, Pd in testa, Apostolico non si deve dimettere. Deve restare al suo posto.
Eppure, cinque anni fa, il Partito democratico utilizzò tutt’altro metro di giudizio quando nella bufera finì un altro magistrato. Parliamo di Giuseppe Cioffi, travolto dalle polemiche a causa di un articolo de la Repubblica. L’accusa nei suoi confronti era quella di aver partecipato ad una convention di Forza Italia. Il Pd chiese in massa le sue dimissioni. L’allora ministro della Giustizia, il dem Andrea Orlando, fece scattare gli accertamenti, con tanto di pratica aperta dal Csm. A ricordare il caso di questo magistrato è la Lega, che evidenzia il solito doppiopesismo della sinistra italiana. Il partito di Salvini sottolinea come la terzietà di un giudice debba valere sempre, e non a seconda delle simpatie del momento. La storia di Cioffi è istruttiva. Tra l’altro, ricorda il Carroccio, «non aveva nemmeno condiviso insulti volgari contro i ministri, né era sceso in piazza mentre la folla grida "animali" e "assassini" alla polizia», come invece è accaduto nel caso che riguarda la giudice Apostolico. Nel 2018 Cioffi era presidente di collegio al Tribunale Napoli Nord. Insieme ai colleghi era chiamato a giudicare Aniello e Raffaele Cesaro, fratelli di Luigi, parlamentare di Forza Italia. Prima del processo, La Repubblica lo pizzicò insieme ad altre tre persone accanto alle locandine di una convention di Forza Italia ad Ischia. Tanto bastò per screditarlo senza appello. Lui, almeno inizialmente, provò a fare chiarezza: «Non ho mai preso parte alla convention di Forza Italia ad Ischia, mi sono solo trovato il giorno dopo a prendere un caffè con alcuni amici presso il bar dell’albergo dove si era tenuto il meeting, con le bandiere del partito che ancora non erano state rimosse». Cioffi era tranquillo. «Degli accertamenti avviati dal ministro Orlando non so nulla, ma di certo sto tranquillo dal punto di vista giuridico. Non ho mai conosciuto o frequentato i Cesaro, per cui non ho motivo di astenermi al processo che li riguarda».
Polemica finita? Assolutamente no. Le richieste di dimissioni da parte della sinistra si moltiplicarono. Fu accusato di non essere imparziale. Di aver contravvenuto al sacro principio di terzietà. A quel punto, preferì fare un passo indietro lasciando il processo. «Non voglio fare nessun braccio di ferro, la mia vita e la mia carriera sono case di vetro - disse con amarezza - Non ho fatto nulla per cui dovessi astenermi, ma a questo punto il clamore sollevato dalla vicenda mi fa preferire un passo indietro. La campagna mediatica nazionale su questo caso può creare turbamento nei giovani colleghi che sono con me nel collegio. E lo faccio anche per lo scompiglio che si è venuto a creare nella mia famiglia». Secondo la Lega, la morale di tutta questa storia è una sola: «I magistrati sono tutti uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri».
Il vescovo di Catania difende Apostolico: «Fiero della sentenza che difende i migranti». GIORGIO MANNINO su Il Domani il 07 ottobre 2023
Parla l’arcivescovo della città etnea: «Non conosco la giudice. Ma chi la attacca sbaglia: bisogna rispettare la separazione dei poteri». Critiche dure al governo: «Come si fa a scrivere decreti legge e capire solo dopo se i migranti posson o pagare o meno una cauzione?»
«Sono orgoglioso che la sentenza che ha disapplicato il decreto Cutro sia stata pronunciata dal tribunale di Catania». Monsignor Luigi Renna, arcivescovo della città etnea, non ha dubbi nel definire la sentenza del giudice Iolanda Apostolico «molto importante».
Monsignore come mai si definisce orgoglioso di quanto deciso dal tribunale che di fatto ha sconfessato il governo sulle politiche migratorie?
Premetto che non conosco il giudice ma la sentenza parla chiaro. Si legge di persone sfruttate per le loro caratteristiche fisiche o perseguitate dai parenti. Non sono motivazioni risibili. Non si scrivono sentenze per partito preso.
Eppure il governo con la premier Meloni e il suo vice Matteo Salvini ha innescato una dura offensiva nei confronti del giudice Apostolico.
Chi amministra un paese dovrebbe rispettare la distinzione dei poteri. In uno stato democratico questo attacco frontale alla magistratura non dovrebbe verificarsi. Bisogna mantenere i toni sereni. Forse qualcuno non ha letto bene la sentenza. Mi creda se chi ha avuto da ridire l'avesse realmente letta forse non l'avrebbe criticata così duramente.
Ma è proprio sui migranti che il governo gioca la sua partita politica soprattutto in termini di consenso.
L'opinione pubblica se non è informata rischia di pensare non con la propria testa ma con la pancia. In Italia la disinformazione regna sovrana e quando determinate idee vengono agitate dal punto di vista politico ho dubbi che si voglia avere la verità, ma si dà ragione delle proprie idee ad un elettorato disinformato.
Centri per il rimpatrio, indagini antropometriche per individuare l'età, il pagamento di 5 mila euro per evitare i Cpr. Secondo lei il governo come sta affrontando il tema dell'emergenza migranti?
Bisognerebbe prima rendersi conto se questi decreti vadano contro i diritti garantiti dalla nostra Costituzione e quelli sanciti a livello europeo. Il governo fa decreti legge e solo dopo si rende conto se sono applicabili o meno, se una cauzione può essere pagata o no? Credo non sia questa la strada da seguire.
Qual è la soluzione?
Penso ai corridoi umanitari. Questa è la via maestra. Avere un Piano Mattei per i paesi africani può essere un'iniziativa percorribile ma richiede troppo tempo e finora non abbiamo visto nulla di concreto. Non dobbiamo negare a queste persone la libertà di rimanere nel proprio paese oppure se ci sono motivi cogenti di poterlo lasciare. È un diritto umano fondamentale e inviolabile.
Gli accordi con la Tunisia, il memorandum con la Libia nel 2017 la convincono?
Credo sia importante capire quanto siano efficaci gli accordi con la Tunisia perché le maglie sono troppe larghe e le organizzazioni criminali hanno gioco facile. Serve un'analisi più attenta di quanto accade in Libia e in Tunisia, questo deve portare ad una legislazione che non permetta che queste persone vengano ricacciate nei luoghi dove li aspetta la morte. Poi ritengo sia urgente rivedere gli accordi con la Libia. L'inferno delle carceri libiche è sotto gli occhi di tutti. Ci troviamo difronte a paesi che hanno una loro complessità e criticità dal punto di vista democratico. Il problema non è di facile soluzione e non getto la croce su un solo governo ma non si può parlare di un Piano Mattei se prima non si cancella una prassi che si è rivelata fallimentare.
Perché, secondo lei, il governo ostacola l'impegno delle Ong?
Perché vanno oltre gli schemi con un unico nobile obiettivo: salvare le persone. Fanno il loro dovere di essere umani che hanno a cuore i diritti dell'umanità. Questo, oggi, può risultare scomodo.
È d'accordo con l'arcivescovo di Palermo, Monsignor Corrado Lorefice che, in occasione del ricordo della strage di Lampedusa, ha parlato di “Stato assente che preferisce occuparsi di un giudice che ha fatto il suo lavoro”?
Certamente. Non basta essere presenti nel celebrare, nel ricordare o nell'ispezionare certi luoghi. Bisogna impegnarsi perché certe condizioni non ci siano più. La verità è che le soluzioni sono inadeguate. Se rimaniamo fermi agli accordi con la Libia, lo Stato non sarà solo assente a Lampedusa ma su tutte le coste dove approdano queste persone. Ma mi faccia dire una cosa: il problema non è solo di questo governo, altri governi avrebbero dovuto mettere mano a certe leggi e non l'hanno fatto.
Anche l'Europa rimane a guardare. Che fine hanno fatto gli ideali che hanno animato il processo di nascita dell'Unione europea?
Le rispondo citando l'ultima enciclica di Papa Francesco che critica i governi tecnocratici. Molti paesi europei guardano a questo modello, al modello di un'elite, di un governo con al centro una persona forte che dovrebbe risolvere i problemi. L'Europa non può pensarsi come privilegiata. Il sogno di una grande Europa non è solo quello di un'Europa unita ma di un'Europa che torni a contare nel mondo e soprattutto a vivere democraticamente con i popoli. GIORGIO MANNINO
Video giudice Apostolico, non c’è nessun elemento che indichi pregiudizio per l’imparzialità. Luana Zanella (Deputata Alleanza Verdi-sinistra) su Il Riformista il 6 Ottobre 2023
Nel Si&No del Riformista spazio alla vicenda relativa al video della giudice Iolanda Apostolico: ha sbagliato? Favorevole il deputato leghista Igor Iezzi secondo cui “parte della magistratura confonde l’indipendenza con la militanza a sinistra“. Contraria Luana Zanella, Deputata Alleanza Verdi-sinistra, che sottolinea: “Non c’è nessun elemento che indichi pregiudizio per l’imparzialità”.
Qui il commento di Luana Zanella:
La decisione autonoma di una giudice di Catania di disapplicare il decreto Cutro sull’immigrazione (non convalidando il trattenimento nel centro di Pozzallo di quattro – e dico ben 4! – richiedenti asilo di nazionalità tunisina) ha scatenato reazioni alluvionali nel centro destra. Iolanda Apostolico, giudice del Tribunale etneo, è stata subito oggetto di reazioni compulsive, come se l’azione della magistratura esistesse solo in quanto cassa di risonanza di quella politica: la divisione dei poteri, valore costituzionale e solido principio di una democrazia moderna, non funziona il quel modo. I giudici applicano le leggi e, nel farlo, non hanno altro vincolo che quello della legge, fondamento unico del principio di legalità.
Ora pare che la stessa Apostolico, già additata come magistrata politicamente orientata visto che ha contestato un atto del Governo Meloni, sia stata scovata dai ‘cacciatori di giudici’ del leader leghista Matteo Salvini (immaginiamo che a cercare nel web si siano messi altri e non lui in persona, preso com’è a progettare il ponte di Messina) mentre si trovava al porto di Catania, nel lontano 2018 durante una manifestazione che chiedeva lo sbarco dei migranti dalla nave Diciotti della Guardia costiera, bloccato dall’allora vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ammettiamo anche che sia lei: davvero si vuole contestare il suo atto di oggi per la libera scelta di allora? Non è questo il modo di valutare la terziarità di una giudice: l’atto che fa fede è quello delle motivazioni al suo provvedimento e un comportamento sobrio che non implica l’astensione dalla vita civile.
La contestazione al blocco dei migranti è un fatto politico-culturale di enorme significato e portata: richiama ciascuno e ciascuna, qualsiasi professione si svolga, a dare il proprio contributo di coscienza. Se davvero in quella immagine c’è Iolanda Apostolico non colgo nulla di penalmente rilevante né un elemento che indichi pregiudizio per l’imparzialità a cui la Costituzione stessa vincola i magistrati. Sempre nel caso sia davvero Iolanda Apostolico, sta assistendo ad uno dei tanti eventi dimostrativi che hanno agitato le nostre società: quella piazza non è una bega di partito, un ring politico. Anche esprimendo una valutazione tecnica in un convegno il/la magistrato/a può dare un orientamento di tipo politico, inteso come valutazione rispetto ad un atto del Parlamento o del Governo: dunque dovrebbe sempre e solo tacere? A me pare, infine, che la vicenda abbia fatto scattare la molla dell’assalto alla donna-giudice: sotto sotto si sente odore di misoginia, sento voci che sussurrano: guarda quella come si permette di essere così libera di fare quel che ritiene! Perché le donne libere fanno ancora tanta paura.
Luana Zanella (Deputata Alleanza Verdi-sinistra)
Video giudice Apostolico, parte della magistratura confonde l’indipendenza con la militanza a sinistra. Igor Iezzi (Deputato Lega) su Il Riformista il 6 Ottobre 2023
Nel Si&No del Riformista spazio alla vicenda relativa al video della giudice Iolanda Apostolico: ha sbagliato? Favorevole il deputato leghista Igor Iezzi secondo cui “parte della magistratura confonde l’indipendenza con la militanza a sinistra“. Contraria Luana Zanella, Deputata Alleanza Verdi-sinistra, che sottolinea: “Non c’è nessun elemento che indichi pregiudizio per l’imparzialità”.
Qui il commento di Igor Iezzi:
“Salvini ha ragione ma bisogna fermarlo”: siamo ancora qui. Dopo la famosa chat tra Luca Palamara e Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, contenuta nelle carte dell’inchiesta che scosse alle fondamenta il CSM, non sembra essere cambiato molto e l’assurda e sconcertante vicenda che vede come protagonista il tribunale di Catania e il magistrato Iolanda Apostolico dimostrerebbe come una parte della magistratura (non tutta per fortuna) non riesca a scrollarsi di dosso la cappa dell’ideologia. Che siano toghe rosse o meno, sembra che il nostro Paese sia condannato ad avere una parte della magistratura che confonde l’indipendenza con la militanza a sinistra. Se davvero quella donna che capeggia una manifestazione di protesta al Governo fosse la magistrata di Catania, che è ormai passata alla storia per aver “bocciato” il decreto del governo sull’immigrazione e aver lasciato uscire da una struttura governativa tre tunisini in attesa di identificazione, sarebbe solo una triste conferma. Che però non va sottovalutata. Perché vedere un magistrato in mezzo ad un manipolo di manifestanti che urlano minacciosi contro la polizia “assassini” e “animali” lascia basiti chi ha a cuore veramente l’indipendenza della magistratura e la separazione dei poteri.
“La moglie di Cesare deve non solo essere onesta, ma sembrare onesta”. Qui il dubbio è che siamo di fronte ad un magistrato che non solo non è imparziale, ma non fa nulla per sembrarlo. Il video del 2018 in cui sembrerebbe essere presente la toga di Catania durante una manifestazione contro il ministro dell’Interno di allora Matteo Salvini, è solo l’ultima puntata di una serie di episodi che dovrebbero fare riflettere tutti. Come possiamo essere certi che una magistrata così esposta politicamente, nel suo lavoro non sia guidata solo dal rispetto della legge ma anche dalle proprie convinzioni politiche? Come è possibile non associare la sua decisione di qualche giorno fa sul decreto immigrazione dell’esecutivo ai post che ha scritto o condiviso su Fb (spesso di suo marito, militante antigovernativo in servizio permanente)? Come possiamo non considerare ideologica la condanna a 13 anni emessa sempre da lei contro Guido Gianni, commerciante di Nicolosi con cui aveva solidarizzato Salvini, in carcere per essersi difeso da tre malviventi entrati nel suo negozio?
Dobbiamo riformare la giustizia e farlo subito. Con il principale obiettivo di salvaguardare quei tanti magistrati che lavorano bene, avendo come unico faro la Costituzione e le leggi, capaci di essere imparziali e lontani dalla battaglia politica. Purtroppo qui siamo in un caso opposto, una decisione politica che ha il preciso scopo di limitare l’azione del governo. Un film già visto. Oggi, grazie alla giudice militante, alcuni tunisini, già entrati in passato illegalmente nel nostro paese, sottoposti a provvedimento di espulsione e macchiatisi anche di reati a danno dei nostri concittadini, sono fuori dal centro governativo. Questo stride se pensiamo che Matteo Salvini invece è a processo per aver difeso i nostri confini. Stupisce che ancora ci siano politici che non prendano nettamente le distanze, che continuino a difendere la politicizzazione di alcune toghe, forse nostalgici dei tempi in cui decidevano i capi delle procure insieme ai vertici dell’associazione delle toghe. E proprio per questo oggi dall’Associazione Nazionale Magistrati e dal CSM dovrebbero arrivare dure parole di condanna nel vedere una toga che manifesta con chi urla “assassini” alla polizia. Magari rivedendo anche le decisioni, le condanne e le assoluzioni che Iolanda Apostolico ha preso in passato nella sua carriera e verificando se possa proseguire a svolgere un ruolo così delicato. Il Governo andrà avanti, presto la Camera dei Deputati esaminerà il nuovo decreto sicurezza contenente norme sull’immigrazione. La politica continuerà a fare il proprio mestiere. Speriamo che anche certe toghe inizino a fare bene il loro. Igor Iezzi (Deputato Lega)
Esiste l’istituto dell’astensione. La giudice Apostolico, la presidente Meloni basita e la moglie di Cesare. Si parla e si straparla senza la minima conoscenza delle questioni, ragionando solo sulla ricaduta mediatica e social delle proprie reazioni, e sui dividendi politici che si immagina di poterne lucrare. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 6 Ottobre 2023
Ho letto con impegno il decreto della Giudice di Catania, oggetto delle furiose polemiche di questi giorni. Francamente, trattandosi di materia molto ostica e complessa, della quale non mi sono mai occupato prima come avvocato, avrei bisogno di ben altro approfondimento per formulare un giudizio decentemente serio sulla qualità e la fondatezza del provvedimento. Non capisco dunque come la Presidente Meloni abbia potuto con cognizione di causa dichiararsene “basita”, definendo quelle motivazioni “incredibili”, né come sia saltato in mente ad un noto parlamentare di maggioranza di prevedere, in caso di accoglimento dell’appello, nientedimeno che la radiazione della magistrata. Siamo di fronte, tanto per cambiare, all’ennesimo scontro tra tifoserie, che in materia di diritti e di giustizia è ormai la regola. Si parla e si straparla senza la minima conoscenza delle questioni, ragionando solo sulla ricaduta mediatica e social delle proprie reazioni, e sui dividendi politici che si immagina di poterne lucrare, senza la benché minima considerazione dei ruoli e delle responsabilità istituzionali coinvolte in queste desolanti polemiche.
Ma anche la tifoseria opposta si è lanciata senza freni in una polemica furibonda in difesa -immancabilmente- della indipendenza della magistratura, senza sentire minimamente il dovere di interrogarsi su alcune altre questioni che la vicenda invece prepotentemente chiama in causa. Sappiamo infatti ora che la Giudice ha avuto modo di esprimere sui social- e addirittura in una manifestazione pubblica- idee molto precise e schierate in tema di immigrazione, in aperta polemica con la politica dell’attuale Governo e di suoi esponenti apicali; e così pure avrebbero fatto suoi stretti congiunti.
Padronissima la giudice di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma ad una elementare condizione: che di tutto potrà poi occuparsi professionalmente, fuorché di quei temi. A me è capitata la spiacevolissima avventura di difendere in un noto processo ambientale, di fronte a giudici che avevano pubblicamente manifestato proprio contro quel presunto disastro ambientale, e coniugati con esponenti di primo piano del movimento ambientalista cittadino, promotori di un combattivo Sito dedicato al tema del processo.
Sono condizioni inconcepibili ed inaccettabili in un Paese civile, radicalmente incompatibili con elementari regole di uno Stato di Diritto; ed è proprio così che si semina vento e si raccoglie tempesta. Esiste l’istituto dell’astensione, la categoria della opportunità, il dovere del Giudice non solo di essere -come dice la stessa Corte di Cassazione- ma ancor prima di apparire imparziale. Un sistema sano innanzitutto previene simili situazioni, ed eventualmente chiede conto della infrazione di queste basilari regole di civiltà giuridica. A meno che il famoso idiomatismo sulla moglie di Cesare valga per tutti, ma non per i magistrati e le loro mogli. Gian Domenico Caiazza
Altra clip contro il giudice: è lei che guida la protesta. Spunta secondo video: la Apostolico urla agli agenti, altro che "mediatrice". Fdi: adesso chieda scusa. Paolo Bracalini l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Ecco un secondo video della manifestazione contro la polizia a sostegno dei migranti bloccati sulla nave Diciotti (decisione dell'allora ministro Matteo Salvini, nella foto) a Catania, nell'agosto 2018, in cui ha partecipato la giudice Iolanda Apostolico. In queste nuove immagini girate da un videomaker dell'agenzia La Presse si vede meglio il ruolo attivo della Apostolico, che non si limita a presenziare al corteo ma affronta in prima persona il cordone di agenti, urlando e puntando la mano in direzione dei poliziotti, a fianco agli altri manifestanti che insultano gli agenti, «avete fatto un atto infame!», «zitto merda!». Insieme alla giudice, anche qui, il marito funzionario del Tribunale di Catania, Massimo Mingrino, militante di «Potere al Popolo» e diffamatore seriale di Salvini sui social. Immagini che smentiscono la versione fatta filtrare della stessa Apostolico, secondo cui fosse lì «nel tentativo di evitare contatti tra le due parti». Dal video emerge all'opposto che la giudice partecipa direttamente alle contestazioni, fomentandole, altro che ruolo da paciere.
Se questo video è stato girato da La Presse, sull'origine del primo - su cui la sinistra aveva parlato di «dossieraggio» e convocato Piantedosi a dare spiegazioni alla Camera - si viene a sapere da «fonti qualificate» che l'autore sarebbe un carabiniere. Nessun agente segreto infiltrato per conto di Salvini, quindi. Il militare - come ha riferito ai suoi superiori - ha ripreso la scena con il cellulare «senza alcuna finalità», e infatti il video non è stato allegato ad alcun atto interno né a informative all'autorità giudiziaria. Il video, ha raccontato il carabiniere, sarebbe stato condiviso con una ristretta cerchia di persone, quindi è girato di telefono in telefono e da lì a qualcuno che poi lo ha fatto avere a Salvini. I superiori del militare hanno già informato l'autorità giudiziaria di Catania.
La questione vera, quindi, resta il comportamento della giudice, che nessuno al Tribunale di Catania sembra intenzionato a spostare dal «Gruppo specializzato per i diritti della persona e della immigrazione». Un comportamento compatibile con la sua funzione di magistrato? Secondo le toghe rosse di Magistratura democratica sì, eccome. Il Consiglio nazionale di Md, riunito ieri, ha approvato infatti un documento nel quale «sente di dover esprimere solidarietà e sostegno a Iolanda Apostolico, vittima di un uso spericolato di ingerenze nella sua vita privata». Quanto alla sua militanza testimoniata dalle immagini, la corrente di sinistra delle toghe scrive che «l'appassionata partecipazione alla conoscenza e alla critica del mondo, l'impegno civile nella vita del Paese non rendono il magistrato meno imparziale: semmai, lo rendono meno misero». Nessun problema, anzi una medaglia al valor civile.
La Lega invece torna all'attacco a chiedere le dimissioni: «Il video è sconvolgente e spazza via le ridicole difese d'ufficio e i comici tentativi di spostare l'attenzione da un fatto evidente e gravissimo: un giudice in piazza contro le forze dell'ordine. Nelle nuove immagini, la dottoressa Apostolico non difende donne e uomini in divisa insultati, alza la voce e il braccio, tace davanti a grida e parole irriferibili. Ci chiediamo cosa debba succedere ancora affinché tutte le istituzioni, unanimemente e rapidamente, intervengano di fronte a questa pagina oscena della nostra democrazia. Dimissioni, immediate» si legge in una nota della Lega. Per Fdi la giudice è ormai «indifendibile». «Il video fuga ogni dubbio, chi ha parlato di dossieraggio abbia la dignità di prendere le distanze. Il giudice farebbe bene a chiedere scusa e la magistratura tutta a prendere le distanze» scrive il capogruppo Fdi alla Camera, Tommaso Foti. Il fatto «è gigantesco» dice il ministro Raffaele Fitto, mentre per il vicepremier Antonio Tajani (Fi) «non è etico che un magistrato partecipi ad una manifestazione dove si inveisce alle forze dell'ordine e poi decida su argomenti che sono attinenti a quella manifestazione».
"Massacrato per una foto. E dai colleghi nessun sostegno". Il giudice finito nella bufera perché ritratto con esponenti di Fi: «La manifestazione politica il magistrato non la deve vedere». Manuela Messina l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Giuseppe Cioffi è il giudice finito al centro di una bufera politica e mediatica nel 2018, quando - soprattutto dal Pd - arrivarono feroci critiche per via di una foto che lo ritraeva insieme ad alcuni militanti di Forza Italia, il giorno dopo una convention azzurra a Ischia. L'operato di Cioffi, chiamato due mesi dopo quel raduno a giudicare all'interno di un collegio - un processo in cui erano imputati alcuni familiari di un esponente del partito fondato da Silvio Berlusconi, è stato oggetto di verifiche da parte del presidente del Tribunale di Napoli Nord. Verifiche da cui non è emerso nulla che abbia messo in dubbio la sua imparzialità e che abbiano richiesto interessamento da parte del ministero o del Csm.
Giudice Cioffi, il suo caso è stato paragonato a quello della collega Iolanda Apostolico, che 5 anni fa ha partecipato a una manifestazione di protesta a Catania in relazione allo sbarco della nave Diciotti. Che cosa ne pensa?
«Io sono stato massacrato sui giornali dopo la vicenda di quella foto a Ischia. Si è trattato di una sorta di onta che ha segnato la mia carriera. Io non sono abituato a fare la vittima, non mi metto mai nel ruolo di chi si lamenta, ma sicuramente ho sofferto di questa situazione. Però contano i fatti. Non solo le verifiche del tribunale hanno avuto esito negativo, e il mio comportamento nei processi è stato giudicato ineccepibile, ma io sono sempre rimasto al mio posto. Sa poi una cosa? Mi sono stati assegnati altri processi nei confronti di personaggi della stessa area politica, proprio perché la mia condotta è stata sempre all'insegna della trasparenza e del rispetto della regola. Processi che non ho trattato solo per questioni di incompetenza territoriale».
Cosa successe cinque anni fa?
«Mi sono trovato a Ischia e ho incontrato alcuni conoscenti che avevano partecipato a una manifestazione politica. Hanno detto che stavo prendendo un caffè con loro nell'hotel dove il giorno prima si era svolta la convention. È vero, ora che non vengo aggredito quando parlo, lo posso spiegare: questo mio amico mi ha tenuto letteralmente due ore sotto al sole per parlarmi di un fatto personale che riguardava lui e la moglie. Mi ha fatto una testa così. Poi è spuntata la foto su Facebook, che non ho postato io visto che io non metto mai le mie immagini sui social».
Due mesi dopo, lei è diventato membro del collegio giudicante in un processo su alcuni familiari di un senatore azzurro. Lei avrebbe condiviso la perplessità?
«Il processo mi è stato assegnato a dicembre con un meccanismo automatico. Dopo il clamore, secondo me esagerato e inspiegabile, ho fatto richiesta di astensione al presidente del tribunale».
In questi giorni 13 consiglieri togati del Csm hanno presentato una richiesta per aprire una pratica a tutela di Apostolico. Che cosa ne pensa?
«Io penso che se uno fa il magistrato, la manifestazione politica non la deve proprio vedere. Non ci si deve mai sbilanciare, in termini di favori per una bandiera o idea politica. Al Csm lo sanno benissimo tutti che l'unica mia passione è il Napoli. Anche io mi sarei aspettato un'azione dei miei colleghi contro l'aggressione della stampa, anche dopo eventualmente verifiche sulla regolarità della mia condotta sul lavoro e sulla vita privata. Azione non è mai avvenuta».
Silvia Albano, la toga "a caccia di soldi" per le Ong: l'ombra di Soros sulla magistratura. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2023
Continua a tenere banco il caso di Iolanda Apostolico, che ha dichiarato illegittimo il decreto immigrazione del governo e rimesso in libertà dei tunisini che non dovrebbero essere in Italia, essendo stati già espulsi in passato. Nelle ultime ore si è aggiunto un nuovo elemento che mette in dubbio la terzietà della giudice di Catania: è saltato fuori un video del 2018 in cui la Apostolico è tra la folla di una manifestazione di sinistra pro-immigrazione e contro il governo di allora e le forze dell’ordine. In difesa della collega è accorsa Silvia Albano, giudice presso il tribunale civile di Roma nella sezione specializzata in diritti della persona e immigrazione.
Inoltre fa parte dell’esecutivo nazionale di Magistratura democratica e del comitato direttivo dell’Anm. La cosa curiosa è che anche questa giudice è stata protagonista di una decisione controversa, quella sulle riammissioni dei migranti illegali in Slovenia. “Non è un caso - scrive Il Giornale - che sia vicina all'Asgi, un'associazione legale finanziata da George Soros, che fa di tutto per aprire le porte all'immigrazione. Albano, sulla sua pagina Facebook, appoggia le Ong del mare, anche le più estremiste come la tedesca Sea watch, pubblicizzando raccolte fondi a loro favore e postando articoli. Il 7 febbraio 2020 fa una donazione, lanciata da Alessandro Metz, a favore di nave Mare Jonio”.
Con questo background non sorprende che la Albano abbia preso le difese della Apostolico: “Per fortuna - ha dichiarato in un’intervista a Il Dubbio - esiste la libertà di pensiero e ritengo sia vergognoso appigliarsi ai presunti orientamenti politici o di voto per screditare una giudice. Non sono solo i giudici con orientamenti culturali o di voto a sinistra ad applicare e a dover applicare le norme costituzionali e sovranazionali, dovrebbe essere il compito della giurisdizione. È chiaro che c’è uno spazio discrezionale interpretativo, ma il provvedimento, sul piano giuridico, mi sembra molto fondato”.
La toga con il record di "asili". A Firenze Breggia, anti-Salvini, ammise: "Noi giudici decidiamo anche con il cuore..." Domenico Ferrara l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Se ci fosse ancora bisogno di prove sulla fallibilità del sistema giudiziario in tema di immigrazione e accoglienza potrebbe venire in aiuto rammentare il caso della giudice Luciana Breggia. Oggi magistrato in pensione, ha aderito all'appello, pubblicato sul sito dell'Anm, contro la separazione delle carriere e la riforma della giustizia voluta dal governo Meloni, ma è stata dal 2013 al 2020 presidente di sezione del tribunale di Firenze. In particolare, dall'agosto 2017 ha presieduto la sezione specializzata per l'immigrazione e la protezione internazionale. Solo nel secondo semestre di quell'anno, la percentuale di accoglimento delle domande era stata dell'85%.
D'altronde, nei convegni a cui partecipava, la Breggia non ha mai nascosto di decidere basandosi non soltanto sulle leggi. «Un giudice ha una testa e un cuore, non è disincarnato. Avere un pensiero ed esprimerlo lo rende più trasparente», ha dichiarato in occasione di un convegno del 2019 promosso dalla corrente della magistratura Area Democratica e da Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione). Nello stesso anno, la Breggia ha rigettato il ricorso del Viminale, all'epoca guidato da Salvini, contro l'iscrizione all'anagrafe di un richiedente asilo. Sempre nello stesso anno, a Viterbo, un pachistano è stato arrestato per violenza sessuale ai danni di due ragazzine di nemmeno 14 anni. La commissione territoriale aveva respinto la sua richiesta di asilo ma l'immigrato aveva fatto ricorso sostenendo di essere omosessuale e ottenendo così la protezione speciale dal tribunale di Firenze. Un'altra prova della stortura del sistema di accoglienza dove senza alcune prove tangibili e verificabili a volte viene concesso asilo a chi millanta o racconta falsità.
La Breggia nel corso della sua carriera ha partecipato a dibattiti con le Ong, con Arci e Anpi, ha presentato un libro contro i respingimenti e i porti chiusi e ha sostenuto che «nessuno è clandestino sulla terra». Ma il magistrato è stato anche coordinatrice e anima della Onlus «Rete per l'ospitalità nel mondo», che aveva come obiettivo, tra le altre cose, quello di trovare alloggi per le minoranze. Non per nulla, la casa alla famiglia rom resa famosa dall'allora governatore della Toscana Enrico Rossi con una celebre foto finita su tutti i giornali gliela trovò proprio l'associazione della Breggia. Che nel dicembre 2014 dichiarava: «Abbiamo incontrato questa famiglia rom alle 6 del mattino, era stata appena sgomberata da un campo all'Olmatex, fabbrica abbandonata di Sesto Fiorentino, era molto freddo (...) Gli abbiamo trovato una casa in affitto, pagando di tasca nostra, è una casa di proprietà della società Montedomini alla quale noi paghiamo un affitto pieno, la Rete da quando si è costituita, nel dicembre 2010, vive con l'autofinanziamento dei volontari e con finanziamenti privati, non abbiamo fondi pubblici. Ci occupiamo non solo dei rom, ma anche di altre minoranze e persone in difficoltà». Tutto lecito, per carità, così come è lecito nutrire il dubbio sull'imparzialità del giudice nei confronti delle minoranze che si sarà trovato a giudicare.
D'altronde, è la stessa Cassazione a definire il principio dell'imparzialità nella sentenza del 14 maggio 1998 n. 8906 in cui le Sezioni Unite hanno precisato che «l'esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di essere imparziale, ma anche di apparire tale; gli impone non soltanto di essere esente da ogni parzialità, ma anche di essere al di sopra di ogni sospetto di parzialità. Mentre l'essere imparziale si declina in relazione al concreto processo, l'apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l'esercizio della giurisdizione come funzione sovrana: l'essere magistrato implica una immagine pubblica di imparzialità». Parole vane al vento.
Il figlio della Apostolico aggredì i poliziotti a un corteo, la madre lo difese in aula: assolto. Ne 2019 il figlio della toga pro migranti partecipò a un corteo di antagonisti durante il quale si registrarono scontri con la polizia. La madre testimoniò in aula in suo favore. Francesca Galici il 15 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Continuano a emergere nuovi dettagli pubblici su Iolanda Apostolico, la toga pro migranti che si è messa in testa di combattere il governo Meloni a suo di sentenze e liberando tutti i clandestini che dovrebbero andare nei Cpr. L'ultima tessera di questo puzzle la mette sul tavolo il quotidiano il Messaggero riportando un fatto avvenuto nel 2019 a Padova, che non vede il magistrato di Catania coinvolto personalmente ma in quanto testimone. In quella che si potrebbe chiamare una vicenda di "vizi di famiglia", la Apostolico è madre di un giovane che quattro anni fa si trovò a partecipare a una contromanifestazione organizzata dai centri sociali nel capoluogo euganeo, durante la quale si registrarono alcuni scontri con la polizia. Quella per i centri sociali, per altro, sembra una simpatia condivisa con la madre, considerando i like di apprezzamento alle pagine social.
Altra clip contro il giudice: è lei che guida la protesta
In quell'occasione, gli antagonisti decisero di contro-manifestare al corteo che scese in piazza per esprimere contrarietà all'aborto e che era guidato da alcuni esponenti di Forza Nuova. Come spesso accade, anche in questo caso i centri sociali cercarono l'infiltrazione e il contatto ma vennero fermati dalle forze dell'ordine. Ne seguirono alcuni scontri che videro il ferimento di diversi agenti. Il figlio del giudice è risultato essere tra gli indagati per quei fatti per resistenza e violenza a pubblico ufficiale perché, come riferisce il quotidiano romano, è accusato di aver "colpito con un pugno gli scudi del personale di pubblica sicurezza".
Il giovane viene successivamente assolto insieme alla maggior parte delle persone che vennero indagate per quei fatti ma l'elemento clou di questo episodio è che a testimoniare per il figlio si presentò in aula proprio il giudice di Catania. Era ottobre 2022, quasi un anno fa esatto, e Apostolico spiegò ai suoi colleghi del tribunale euganeo che quel giorno il figlio la chiamò riferendole che "la polizia aveva usato violenza contro i partecipanti". Ma non solo, perché il giudice aggiunge di aver ricevuto dal giovane anche alcuni video. In uno di questi veniva ripreso un ematoma, che sarebbe stato conseguente a uno scontro con gli agenti, e in un altro il pantalone sporco di sangue di una sua amica, che sarebbe stata colpita da una manganellata.
Queste sono le sue parole riportate nella sentenza di assoluzione numero 505 del 2 febbraio 2023. Risulta, quindi, essere una passione familiare quella di partecipare alle manifestazioni in cui si sviluppano problemi con le forze dell'ordine. Va, infatti, ricordato che sia Iolanda Apostolico che il marito erano presenti al molo di Catania nel 2018 durante la manifestazione pro-migranti e contro Salvini, durante la quale alcuni partecipanti urlarono insulti contro gli agenti. E mentre dovrebbe essere la presenza di un giudice a destare scalpore, la sinistra tenta l'estrema difesa cercando di addossare responsabilità a chi ha fornito la clip di quell'evento al ministro Salvini. Francesca Galici
Apostolico scagionò il figlio che aggredì un poliziotto. Altre rivelazioni sulla giudice pro migranti: come testimone fece assolvere il giovane a processo per violenza. "Ora lasci". Felice Manti il 16 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Anche i giudici tengono famiglia. E la giudice «svuota Cpr» Iolanda Apostolico non è da meno. Per il magistrato di Catania, che per prima ha demolito il decreto Cutro del governo in materia di trattenimenti ed espulsioni degli immigrati entrati clandestinamente nel nostro territorio, sono ore difficili. Già sulla graticola per la sua partecipazione nel 2018 a una manifestazione condita da insulti alla polizia e alle forze dell'ordine contro i decreti sicurezza firmati da Matteo Salvini e organizzate dall'estrema sinistra (immortalata in un video, sui cui veri autori è ancora mistero) la Apostolico «paga» il fatto di avere come marito un dipendente del tribunale che è anche un dirigente di Potere al popolo: una vicinanza che potrebbe aver condizionato ideologicamente il suo verdetto.
Ieri il quotidiano Il Gazzettino ha ricordato una storiaccia che coinvolge anche il figlio, Francesco Moffa, indagato assieme ad altri antagonisti per aver dato un pugno allo scudo di una poliziotta durante una manifestazione dei centri sociali in risposta a un corteo antiabortista di Forza Nuova, il 29 marzo 2019 a Padova, con alcuni feriti tra le fila delle forze dell'ordine. Indagato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale, il ragazzo fu assolto il 2 febbraio. Come riferisce il quotidiano veneto, a intervenire in sua difesa fu proprio la madre, che il 25 ottobre dell'anno scorso fu ascoltata come teste dal giudice monocratico del tribunale di Padova. Il magistrato dichiarò che il giorno della manifestazione, il figlio la chiamò per riferirle che, nel corso della protesta, «la polizia aveva usato violenza contro i partecipanti»
La teste disse che il figlio le aveva mostrato in video «un ematoma comparso sulla gamba a seguito di un colpo subito» e «i jeans imbrattati del sangue di una sua amica che era rimasta ferita a causa di una manganellata», come si legge nella sentenza 505 che ha visto assolti 13 dei 14 imputati.
Il centrodestra invoca le dimissioni della toga. «Fatti gravi, imbarazzanti e documentati in modo incontestabile, comprese le testimonianze che avrebbe reso, rendono indifferibile una cessazione della sua attività. La Apostolico andrebbe allontanata rapidamente perché la sua convinta militanza è palesemente incompatibile con la funzione che svolge in maniera più che criticabile. Buon lavoro ministro Carlo Nordio. Buon lavoro Csm», scrive Maurizio Gasparri (Forza Italia). Stesso invito a farsi da parte arriva dai leghisti Simonetta Matone, Igor Iezzi, Erika Stefani, Ingrid Bisia e Stefania Pucciarelli, che si chiedono: «Come mai è così solerte a difendere il figlio e non si è accorta degli insulti a Salvini e alle forze dell'ordine mentre manifestava con l'estrema sinistra? Il suo essere schierata ormai è cosa certa».
Di tutt'altro avviso Nicola Fratoianni (Verdi-Sinistra): «Salvini dica finalmente agli italiani e al Parlamento chi gli ha dato il video con cui infanga la magistratura». Felice Manti
La Apostolico testimone ma solo per sentito dire. Nel processo a carico del figlio che colpì gli agenti ammise in aula di avere seguito i fatti al telefono. Felice Manti il 17 Ottobre 2023 su Il Giornale.
«Siamo al linciaggio mediatico, ora basta». L'Anm difende a spada tratta Iolanda Apostolico, la giudice del tribunale di Catania che con la sua sentenza «svuota Cpr» ha demolito il decreto Cutro e vanificato gli sforzi del governo in materia di contrasto all'immigrazione clandestina. Sulla Apostolico ogni giorno si addensano nuove nubi. Non bastava la sua partecipazione - ripresa da un video, sui cui autori è ancora giallo - a una manifestazione contro i decreti sicurezza anti clandestini del primo governo di Giuseppe Conte nel 2018, nel corso della quale sono volati insulti contro le forze dell'ordine. Né la sua possibile vicinanza ideologica con Potere al popolo, per alcuni like su Facebook ai post rilanciati anche dal marito, dipendente dello stesso tribunale e dirigente del movimento di sinistra.
L'altro giorno si è scoperto che il 25 aprile dell'anno scorso il giudice è volata da Catania a Padova per testimoniare a favore del figlio 26enne Francesco Moffa, imputato (e poi assolto) insieme ad altri 13 no global per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. La sua testimonianza de relato realizzata «in diretta telefonica» sarebbe stata decisiva per scagionare il figlio dall'accusa di aver dato un pugno allo scudo di una poliziotta durante una manifestazione dei centri sociali in risposta a un corteo antiabortista di Forza Nuova, il 29 marzo 2019 a Padova.
Ascoltata come teste dal giudice monocratico del tribunale di Padova, secondo i verbali diffusi ieri da Gazzettino, la Apostolico avrebbe detto di aver parlato con il figlio al telefono e che il ragazzo sarebbe estraneo alle accuse perché «non era in prima fila, lui era dietro, non so se in seconda o in terza», ma che anzi sarebbe lui stesso vittima delle manganellate, come dimostrerebbe un ematoma sulla gamba del ragazzo («poteva essere una manganellata sferrata dal basso oppure un calcio») e della carica violenta degli agenti, tanto che sui jeans macchiati del figlio c'era il sangue di un'amica «colpita dalla polizia».
Frasi che hanno scatenato le reazioni del mondo politico, ma non solo. «Alcuni agenti sono finiti all'ospedale, uno con la rottura dello scafoide e prognosi di 55 giorni», dicono i sindacati di polizia, che accusano il magistrato siciliano: «Così la piena convinzione della terzietà di un giudice legittimamente vacilla». Da giorni il centrodestra invoca vanamente le sue dimissioni e tira per la giacchetta il Guardasigilli Carlo Nordio e il Csm perché prendano provvedimenti, come ancora ieri pretende l'azzurro Maurizio Gasparri: «In che ruolo e per quali ragioni è andata a testimoniare? Farebbe bene a dimettersi». Sul video che la inchioda a una inopportuna partecipazione a una manifestazione dal sapore politico, la sinistra insiste: «Inaccettabile e arrogante il silenzio di Matteo Salvini sugli autori», dice il senatore Pd Filippo Sensi. «Il problema del video è quello che c'è, non da dove arrivi», insiste il vicepremier. «Chi chiede le dimissioni di un giudice a prescindere da qualsivoglia azione disciplinare è come quei magistrati che vogliono fare politica per via giudiziaria», ragiona su X Enrico Costa, deputato di Azione. Il rischio è che la Apostolico diventi un'eroina suo malgrado. «Molti magistrati moderati per reazione a questa affannosa ricerca di presunti scheletri nell'armadio (in questo caso sinceramente risibili) si avvicinano alla sinistra giudiziaria. Così si radicalizza lo scontro», osserva al Giornale un magistrato non certo di sinistra, che in parte condivide le critiche al provvedimento, non certo questo linciaggio mediatico di cui parla la stessa Anm catanese: «Il dibattito su una legislazione complessa è lecito, gli attacchi alla persona sono sconsiderati e indecorosi», dice il sindacato delle toghe, che sabato metterà il caso all'ordine del giorno del direttivo Anm. Ma a finire a manganellate è la residua credibilità delle toghe.
I giudici e le manifestazioni: il precedente del caso Ilva a Taranto. Fu chiesta la sostituzione del presidente della Corte d’assise. Ma la Cassazione disse no. FRANCESCO CASULA su la Gazzetta del Mezziogiorno l'8 Ottobre 2023
Salgono da Catania fino a Taranto le accuse contro i magistrati ritenuti schierati su temi come immigrazione e ambiente. Dopo la bufera sul gip di Catania Iolanda Apostolico - colpevole di aver disapplicato una norma del Governo in tema di migranti dopo essere stata nel 2018 sul molo del porto etneo a manifestare per la liberazione dei profughi bloccati a bordo per le norme varate dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini - nuovi venti di tempesta sono stati indirizzati sul processo Ilva e sui magistrati togati che hanno fatto parte della Corte d’Assise che a maggio 2021 ha emesso diverse condanne nei confronti dei vertici dell’ex Ilva per il disastro ambientale e sanitario nel territorio ionico.
Ad accendere il nuovo focolaio di polemiche è stato l’avvocato Giandomenico Caiazza, fino a pochi giorni fa presidente dell’Unione Camere Penali Italiane e difensore, nel maxi processo “ambiente svenduto”, di Girolamo Archinà, l’ex responsabile delle relazione istituzionali del siderurgico durante la gestione Riva condannato a oltre 20 anni di carcere...
La sentenza di Catania. Il giudice Apostolico e i precedenti di Nordio e Gratteri: quando a destra le interferenze dei magistrati vanno bene. Perché un africano ventenne che chiede protezione per poter continuare a studiare e lavorare viene trattato in questo modo, nell’Italia che si protegge dall’invasione, viene trattato come un criminale da espellere. Iuri Maria Prado su L'Unità l'8 Ottobre 2023
Non sappiamo se esistano filmati che riprendono quest’altra giudice (siamo al tribunale di Bologna, questa volta) in posture di sedizione antigovernativa, o magari con le dita nel naso. È verosimile che si indagherà, come verosimilmente si sta indagando a proposito dei magistrati fiorentini (erano tre, accidenti: un lavoraccio) che l’altro giorno, come poi avrebbe fatto la giudice catanese presa in castagna da Salvini, esaminavano i provvedimenti butta-fuori assunti in omaggio alla normativa spazza-migranti approvata dal governo e li sospendevano per contrasto con la preminente disciplina europea.
Ma prima di dare conto di questa nuova decisione sull’argomento (in realtà è precedente, perché rimonta al 18 settembre), e nell’attesa che il giornalismo d’inchiesta faccia il suo lavoro sul conto dei giudici turbo-immigrazionisti, vediamo di intenderci sul ritornello del magistrato che deve essere e apparire imparziale, e dunque sul suo dovere di non prendere parte al dibattito pubblico intorno a questa o quell’urgenza politica. È verissimo. Non deve farlo, ed è una scemenza l’obiezione secondo cui il magistrato, come qualunque cittadino, avrebbe il diritto di dire la sua e di partecipare attivamente alla vicenda civile e politica del Paese.
Perché il magistrato non è un cittadino qualunque ma un uomo armato: è armato del potere di giudicare le persone e di arrestare la loro libertà. E come giudicheremmo inammissibile il comportamento di un colonnello che, su una legge che non gli piace, “dice la sua” manifestando per strada con la pistola alla cintola, così dovremmo considerare fuori dal mondo che un magistrato si ritenga libero di turbare l’ordine democratico sulla scorta di un potere che è anche più invasivo e temibile rispetto a quello del militare.
Quindi è verissimo che quella giudice catanese male ha fatto a partecipare a quella manifestazione, come è verissimo che faceva male un magistrato veneziano (si chiamava Carlo Nordio) quando si lasciava andare alle sue divagazioni sulla “petulanza” di quelli che mostravano dubbi circa l’appropriatezza dei propositi leghisti in materia di legittima difesa. Col dettaglio che quella volta, quando cioè un magistrato interveniva nel pubblico dibattito non per farla fare franca agli africani che chiedono fraudolentemente asilo anche se hanno le scarpe, ma per spiegare che bisogna smetterla con la Costituzione catto-marxista che incrimina chi si difende in casa propria, quella volta, dicevo, l’interferenza del magistrato andava benissimo alla destra che infatti l’avrebbe poi candidato e fatto ministro.
Esattamente come alla destra che denuncia le passate scompostezze di quella giudice siciliana va benissimo che il dottor Nicola Gratteri, quotidianamente e da anni, intervenga in materia di carcere per dire che non bisogna svuotarle ma costruirne di più, in materia di riforme per dire quali vanno bene e quali no, in materia di droga per dire che non bisogna legalizzare nulla, in materia di Covid facendo prefazioni a libri di autori secondo i quali i vaccini erano acqua di fogna confezionati dalle multinazionali in mano agli ebrei. Diciamo dunque che siamo d’accordo: i magistrati si astengano da certe interferenze. Sempre, però. E tutti. E i politici le condannino quando ci sono. Sempre, però. E non secondo l’orientamento dell’interferenza.
E ora veniamo alla decisione del tribunale di Bologna. Anche nel caso di cui si è occupato il giudice emiliano c’era di mezzo un tunisino, cioè uno proveniente da un Paese “sicuro” solo sulla carta, la cui richiesta di protezione internazionale era stata respinta perché ritenuta “manifestamente infondata”. In particolare, gli esaminatori avevano espresso dubbi sulla credibilità della versione fornita dall’immigrato: il quale aveva riferito di essere stato sottoposto, con la madre e con il fratello, a feroci maltrattamenti da parte del padre e dello zio, di temere di esserne ancora vittima se fosse stato rimpatriato e in ogni caso di non avere possibilità di sostentamento in Tunisia.
Tutte cose cui la competente Commissione territoriale non aveva creduto, non considerando inoltre che si trattava di un ventenne, qui in Italia da oltre un anno: un ragazzo che non solo risultava perfettamente integrato nella struttura di accoglienza che lo ospitava, ma che studiava e lavorava regolarmente. Il giudice bolognese, nell’urgenza, ha invece considerato queste circostanze, spiegando che “un eventuale
provvedimento di espulsione con rimpatrio forzato disperderebbe ogni sforzo di integrazione compiuto fino ad ora” da questo ragazzo.
Si noti che qui non si trattava neppure delle più recenti norme introdotte dal governo, ma della routinaria e indebita applicazione amministrativa di quelle anteriori: quelle cui il potere pubblico pretendeva di ispirarsi per ricacciare nel Paese di origine un ragazzo che lì subiva violenza, e che qui da noi era rispettoso delle regole di accoglienza, e studiava, e lavorava. E che, se non fosse stato per quest’altro giudice bolognese, sarebbe stato trattato alla stregua di un criminale: perché un africano ventenne che chiede protezione per poter continuare a studiare e lavorare viene trattato in questo modo, nell’Italia che si protegge dall’invasione. Viene trattato come un criminale da espellere. Iuri Maria Prado 8 Ottobre 2023
"Barbarie", "Delitto", "Lapidazione". Quando la sinistra contestava le sentenze dei giudici. Da Nichi Vendola a Marco Cappato, passando per Michele Emiliano, Mimmo Lucano e importanti leader di partito: in caso di condanne o di verdetti avversi, le reazioni sono sempre state furibonde contro i rispettivi magistrati. Lorenzo Grossi il 5 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Hanno accusato il governo di avere criticato troppo aspramente la sentenza del Tribunale di Catania che non ha convalidato il trattenimento per quattro migranti tunisini nel centro di Pozzallo e la giudice che ha scritto quel responso, Iolanda Apostolico, che in tempi recenti aveva espresso sui propri profili social delle chiare antipatie per esponenti dell'attuale governo Meloni e aveva sponsorizzato battaglie politiche a favore dei migranti. Ma, come spesso capita, gli esponenti di sinistra di dimenticano di guardare dentro il loro movimento politico in direzione di quei "compagni" che, in un recente passato, avevano più volte attaccato i giudici che avevano sentenziato contro loro stessi o comunque contro alcune battaglie ideologiche vicine al loro mondo di riferimento. Gli esempi sono molteplici e i toni utilizzati potrebbero tranquillamente fare impallidire le dichiarazioni rilasciate nelle scorse ore dal presidente del Consiglio e altri membri della maggioranza.
Nichi Vendola
Partiamo da una figura che per tanti anni è stata considerata la grande speranza della sinistra da parte degli elettori di quell'area: Nichi Vendola. Per dieci anni presidente della Regione Puglia e leader di Sinistra Ecologia Libertà, l'ex parlamentare di Rifondazione Comunista è stato condannato in primo grado a tre anni e mezzo in primo grado per concussione aggravata nel processo "Ambiente Svenduto" sull'ex Ilva di Taranto. Siamo nel giugno del 2021 e, intervistato da vari giornali, Vendola commentò in maniera durissima la sentenza: "deriva giustizialista", "ecomostro giudiziario", "barbarie". Per poi specificare: "Sono finito in una tagliola giudiziaria. Aspettavo con ansia la fine di un incubo che dura da troppi anni. Invece subisco una condanna assurda, che avalla un'accusa grottesca". Si tratta di una sentenza che "calpesta la verità per me e per chi ha lavorato con me", "un grave delitto contro la verità". Inoltre: "Ho sempre pensato che ci si difende in tribunale: e questo oggi capisco che è un errore". Perché "la gogna è il tifo colpevolista, è la lapidazione costruita in un continuo gioco di carambola tra alcuni pubblici ministeri e parti del giornalismo".
Mimmo Lucano
Pochi mesi più tardi rispetto a Nichi Vendola, arriverà anche la sentenza giudiziaria per Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, considerato il grande simbolo dell'accoglienza dei migranti a tutti i costi: il Tribunale di Locri lo condanna in primo grado alla pena di 13 anni e 2 mesi di reclusione per i reati di truffa, peculato, falso e abuso d'ufficio, appesantiti dall'aver "costituito un'associazione per delinquere che aveva lo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti contro la Pubblica Amministrazione" in concorso con la compagna Tesfahun Lemlem e con vari prestanome. Da considerare giustamente innocente fino a una sentenza definitiva (come Vendola), Lucano si sfogò: "Quando parlano di associazione a delinquere dovevano mettere insieme a me anche il ministero degli Interni e la Prefettura di Reggio Calabria, perché allora mi chiamavano San Lucano in Prefettura, perché gli risolvevo i problemi degli sbarchi". L'ex primo cittadino ne è convinto: "Questa storia è piena di contraddizioni". Si tratta di una "vicenda inaudita" all'interno della quale "ci sono tante ombre e cose gravi contro di me": "Per la prima volta, si è tentato, quasi scientificamente, di delegittimare, anche a livello mediatico, il cosiddetto modello Riace".
Michele Emiliano
Restando ancora nel Sud Italia, c'è un attuale presidente di Regione che si era messo alla testa del sedicente "popolo degli ulivi" che si batteva contro le eradicazioni delle piante colpite dal virus della Xylella. Nel 2016 la Corte di Giustizia europea confermò la validità dell'obbligo di procedere alla rimozione immediata delle piante ospiti indipendentemente dal loro stato di salute in un raggio di 100 metri attorno alle piante infette. Per Michele Emiliano "la Corte ha ritenuto di confermare misure drastiche che rischiano di produrre conseguenze inimmaginabili per il nostro paesaggio e anche per la nostra economia". Ma poco tempo dopo il governatore pugliese fu decisamente molto meno tenero riguardo a questa tematica: "Tagliare e distruggere gli ulivi monumentali proprio ora, con i progressi che sta facendo la ricerca per trovare la cura, sarebbe un po' come quando le guardie dei campi di concentramento nazisti uccidevano i prigionieri poco prima dell’arrivo delle truppe alleate". Un paragone leggermente azzardato, per usare un eufemismo.
Marco Cappato
Non solo tribunati e Corti europee. Anche la Consulta venne messe pesantemente nel mirino da un esponente di sinistra. Capitò appena un anno fa quando Marco Cappato si scagliò contro la Corte Costituzionale, presieduta da Giuliano Amato nel febbraio 2022, che bocciò le proposte di referendum dei radicali su cannabis e fine vita. "Brutta notizia per la democrazia", "quella dei giudici è stata una valutazione politica" ed è stato sferrato un "attacco al comitato promotore". Anzi, "c'è stata una manipolazione della realtà", che ha comportato una "violazione grave del diritto" dei cittadini di esprimersi. Il tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni andò si rivolse direttamente al presidente Amato, che avrebbe solo pronunciato delle "fake news" in conferenza stampa: "O c'è un errore materiale nel giudizio dei due quesiti, o c’è un attacco in malafede a noi promotori. Scelga il presidente della Corte quale delle due possibilità".
Coppie omosessuali
Nel 2015 una sentenza del Consiglio di Stato annullò la trascrizione da parte dei Comuni delle nozze contratte all'estero da cittadini omosessuali. Subito furono tante le reazioni dei tanti delusi che a sinistra gridarono allo scandalo per la presunta non imparzalità esercitata dall'estensore della sentenza, il giurista, Carlo Deodato, considerato troppo vicino alle istanze della famiglia tradizionale: "Chi l'ha scelto avrebbe dovuto porsi un problema di opportunità. Lui stesso, forse, avrebbe potuto astenersi", commentò Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia alla Camera per il Partito Democratico. Quest'ultima commentò l'intera vicenda con delle parole per niente dissimili a quelle utilizzate recentemente dal centrodestra: "Il problema che ci si pone è la nuova frontiera dei social. Io non so se questo giudice ha rilasciato i suoi tweet fino all'ultimo, o l'ha fatto prima che gli venisse assegnata la causa, ma mi pare evidente che dovremo presto adeguare le norme sulle astensioni. Non per caso - sottolineò Ferranti - nel codice etico dell'associazione nazionale magistrati, leggiamo che: fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione. Mi sembra scritto ottimamente. Specie nei social ci vuole equilibrio e misura".
Il G8 di Genova
Dopo la condanna dei black block per i fatti del G8 di Genova (2009), il comitato "Piazza Giuliani" e Rifondazione Comunista commentarono in coro il responso in maniera molto negativa: "Questa non è una sentenza è una vendetta, una mostruosità giuridica in cui versa il diritto e la politica nel nostro Paese. Queste sono sanzioni inflitte dagli stati autoritari contro i dissidenti". "I processi genovesi sono processi politici", riteneva Vittorio Agnoletto. Nonché "una sentenza difficile da digerire, difficilmente comprensibile perché per compensare che alcuni imputati hanno dovuto essere assolti per prescrizione, i giudici hanno elevato le pene per altri a livelli direi incompatibili".
I leader contro i magistrati
Matteo Renzi, Beppe Grillo, Massimo D'Alema. Ci sono stati anche storici leader di partito o ex presidente del Consiglio di centrosinistra ad accusare magistrati che stavano indagando su di loro. Il più impetuoso è stato l'ex sindaco di Firenze contro i magistrati della sua città che lo indagarono per il caso Open: "Io credo che i magistrati fiorentini non siano credibili. Ritengo eversivo il comportamento di Luca Turco che non rispetta nemmeno le sentenze della Cassazione. Ritengo scandaloso l'operato di Nastasi, il PM che prima di occuparsi di me ha seguito la tragica vicenda David Rossi a Siena. Io ho detto in faccia a quei PM che non mi fido di loro". Il fondatore del Movimento Cinque Stelle denigrò i magistrati che lo misero sotto inchiesta per traffico di influenze illecite, pubblicando una foto di uno scatolone e un cartello coi prezzi. Il titolo del messaggio recitava "Traffico di influenze". Sotto c'era il tariffario: "Legge tramvia in centro 2 mila euro"; "Legge pulizia strade 1000 euro"; "Solo tombini 500 euro". Infine D'Alema, indagato per corruzione internazionale aggravata per la vendita di armi per 4 miliardi di dollari alla Colombia, ammise che sui giudici Silvio Berlusconi non aveva tutti i torti, sottolineando "uno squilibrio nei rapporti tra poteri dello Stato". Lorenzo Grossi
L'excursus. La sinistra e la tradizione ormai persa dei veri avvocati del popolo. Il “fare giustizia” diventò una parola d’ordine – e un percorso di carriera – per molti ragazzi imbevuti di ideologia, animati dalla sincera voglia di cambiare. Oggi invece, chi grida “resistenza” mira a tutelare i suoi eterni privilegi corporativi e di casta. Claudio Velardi su Il Riformista il 3 Ottobre 2023
Agli albori, in materia di giustizia, la sinistra tifava per l’avvocatura, la più nobile delle professioni liberali. Molto spesso erano avvocati i primi e più importanti dirigenti del movimento dei lavoratori, a partire da Filippo Turati. Da allora, anche in epoche meno lontane, si trattasse di sostenere operai che occupavano fabbriche o studenti che facevano manifestazioni, c’era sempre un avvocato (dal latino ad-vocatus, chiamato in aiuto) pronto a combattere contro i soprusi del potere, per ergersi a protagonista acclamato di vibranti arringhe nelle aule di giustizia, in difesa dei diritti di ogni singolo individuo. Mentre la magistratura era per definizione un potere odioso e lontano, che presidiava in maniera occhiuta – a volte ottusa – le leggi vigenti, l’impianto istituzionale dato, la tutela dell’ordine costituito.
Accadde qualcosa di imprevisto, ma di sostanziale, a seguito del cambio epocale della fine degli anni ’60. Avendo preso rapidamente atto che la rivoluzione per via politica era una strada impraticabile e illusoria, nelle nuove generazioni si cominciò a pensare che bisognava penetrare nei gangli cruciali del sistema, per scardinarlo da dentro. E il “fare giustizia” (non parlo ovviamente delle orribili minoranze combattenti) diventò una parola d’ordine – e un percorso di carriera – per molti ragazzi imbevuti di ideologia, animati dalla sincera voglia di cambiare, meno consapevoli di quei principi sacri della separazione dei poteri che sono a fondamento dello Stato di diritto, e lo tengono da alcuni secoli in equilibrio.
Fu questo il corto circuito che portò alla “rivoluzione dei giudici” dei primi anni ‘90, alla conseguente alterazione strutturale dei rapporti tra i poteri e all’uso da allora permanente della giustizia come un grimaldello, non per “amministrare la legge”, ma per brandirla, per piegarla alle proprie convinzioni. Fino all’approdo ultimo, esibito con candore nella Carta dei valori dell’Area democratica per la Giustizia (che non è una componente del Pd, ma l’ormai nota corrente di sinistra dei magistrati italiani), che intende battersi per “l’interpretazione… come strumento essenziale… di promozione sostanziale dell’eguaglianza tra le persone”. Un programma che più eminentemente politico non si potrebbe, a quanto pare condiviso dalla premiata coppia Schlein e Conte.
Ed è così che la sinistra del terzo millennio archivia definitivamente il suo glorioso percorso, iniziato con veri “avvocati del popolo” che difendevano braccianti sfruttati, e si chiude con una grottesca genuflessione nei confronti dei nuovi potenti, quelli che invocano ogni giorno “resistenza” solo per tutelare i loro eterni privilegi corporativi e di casta. Chissà cosa ne penserebbe il povero Filippo Turati. Claudio Velardi
Le due sinistre. La sinistra che ispira Schlein è stata l’anticamera di giustizialismo e populismo, oggi è sottomessa alle Procure. La sinistra che stava con gli avvocati, che era degli avvocati, per la giustizia sociale e non politica, da Turati a Matteotti, sino a Vassalli, passando per mio nonno, era socialista. Stefania Craxi su Il Riformista il 5 Ottobre 2023
Velardi ha ragione quando dice che agli albori la sinistra era quella degli avvocati che difendevano gli indifesi al cospetto dello Stato dei giudici. Per la giustizia sociale, per poi diventare la sinistra dei giudici per la giustizia politica. Che in quanto politica non è più giustizia.
Ha ragione quando partendo da Turati descrive la trasformazione verso l’abisso di Conte e Schlein.
Ha ragione, ma ha anche torto.
Perché è apprezzabile quello che scrive, ma non scrive, non dice, tutto.
La sinistra, dice Velardi, di una volta, ma quale sinistra, di quale sinistra parla?
Avrei apprezzato ancor di più se avesse detto il non detto. Che invece va detto. Tutto.
La sinistra che stava con gli avvocati, che era degli avvocati, per la giustizia sociale e non politica, da Turati a Matteotti, sino a Vassalli, passando per mio nonno, era socialista.
Non era tutta la sinistra. Bisogna distinguere, sarebbe onesto distinguere. Era la sinistra alla quale un’altra sinistra, quella che è stata di Velardi, dichiarò guerra, sino a vincerla con le armi della giustizia politica. Della via giudiziaria al potere, alla quale pochi comunisti si opposero, Gerardo Chiaromonte ad esempio, perdendo.
Quando le diciamo queste cose, caro Velardi?
E la sinistra di Turati, di Matteotti, veniva accusata di social fascismo, dalla sinistra alla quale si ispira Elly, Ella, Schlein, da Gramsci in giù. Gramsci che definiva Turati uno “straccio mestruato”, o un “putrido riformista”, come lo definiva Togliatti. O social fascista come era definito Matteotti, martire del fascismo.
Il riformista avvocato del Polesine Matteotti che la sinistra alla quale si ispira la Schlein considerava quasi di destra, di una ideologia minore, il riformismo “putrido”, appunto, perché si occupava, da avvocato e politico, di difendere i braccianti, di cercare soluzioni concrete, piccole anche, ma ora, società di mutuo soccorso, diritti per chi non ne aveva alcuno, con gradualità, in continuazione, giustizia sociale. Anche con compromessi con il Governo esistente.
E invece c’era un’altra sinistra, che Velardi conosce meglio per averla frequentata, che predicando la rivoluzione è arrivata alla sottomissione al potere costituito delle Procure.
Passando dalla diversità morale, la superiorità morale, di Berlinguer e del vecchio capo di Velardi, che in Italia è stata l’anticamera del giustizialismo che poi è diventato populismo.
Il principio di superiorità che ha alimentato il diritto morale della giustizia politica. Della via giudiziaria al potere.
Caro Velardi, apprezzo. Ma se la dicessi tutta, la verità, sarebbe ancora più apprezzabile.
Stefania Craxi
I magistrati hanno perso il senso della misura. Davide Vecchi su Il Tempo il 06 ottobre 2023
Si può essere d’accordo o meno con il generale Vannacci sulle idee che ha espresso ma almeno lui ha avuto il coraggio di dire quello che pensa e di metterlo per iscritto. Non si è messo a nascondere o sbianchettare nottetempo i propri profili social per cercare di nascondere un recente passato improvvisamente divenuto decisamente imbarazzante. Tanto più che il generale Vannacci ha espresso le proprie idee su temi che non sono oggetto del proprio ambito lavorativo. Inoltre, Vannacci è incardinato in una rigida gerarchia militare e risponde a ordini superiori. Di fatto parla come un privato cittadino sebbene svolga un lavoro importante.
Un giudice invece «giudica», applica le leggi interpretandole in scienza e coscienza. E allora la domanda è: una persona che scende in piazza per manifestare con veemenza su un tema poi si può occupare di giudicarlo in tribunale? O sarà condizionata dalle proprie posizioni radicali fino a piegare le norme per farle coincidere con le proprie posizioni? Non si può certo entrare nel cuore e nella mente di un magistrato per sapere se ha fatto il suo lavoro con obiettività oppure facendosi condizionare dal pregiudizio. Per fortuna ci sono vari gradi di giudizio nel nostro sistema e ci sarà modo e tempo per valutare tutte le sentenze, in particolare quelle di cui si parla in questi giorni. Ma resta comunque la forte preoccupazione per come, anche tra i magistrati, si sia perso a volte il senso della misura, del contegno, del rispetto innanzitutto del proprio fondamentale ruolo nella società.
La politica di parte nascosta dietro i codici. Un solo obiettivo: delegittimare il governo. Altro che interpretazione corretta delle leggi, l'esecutivo è considerato un nemico. Augusto Minzolini il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
A volte i giudici, o meglio, la magistratura in generale, assumono posizioni surreali, impongono una logica politica coprendola con motivazioni da azzeccagarbugli. La decisione delle toghe di Catania e poi di quelle di Firenze di respingere l'ipotesi di un rimpatrio di alcuni immigrati illegali in Tunisia perché «il Paese non è sicuro», significa nei fatti che non si può riportare a casa o nei paesi di provenienza nessun clandestino. Se quello è il metro non c'è nazione africana o medio-orientale che riconosca ai suoi cittadini i nostri stessi diritti costituzionali: non è che l'Egitto (caso Regeni), la Libia divisa in fazioni, oppure il Marocco retto da una monarchia autoritaria, la Turchia di Erdogan oppure la Siria di Assad siano paesi democratici che hanno uno stato di diritto compatibile con gli standard europei. Si tratta di un dato chiaro, incontrovertibile, al netto di ogni ipocrisia.
Se poi prendiamo come riferimento le posizioni di Amnesty International anche alcune delle più antiche democrazie hanno delle ombre, addirittura peccati, su cui l'organizzazione umanitaria storce la bocca: in alcuni Stati Usa c'è la pena di morte, mentre in Inghilterra tengono i clandestini fuori dai confini a bordo dei traghetti. E pure l'Italia per alcuni episodi è stata fatta passare per un Paese dove c'è la tortura, per non parlare del capitolo sull'immigrazione per il quale le anime belle ci trattano alla stregua di incivili. Con il paradosso che pur non essendo secondo loro un modello, gli immigrati dobbiamo tenerceli lo stesso.
Inoltre se la motivazione del no al rimpatrio dei clandestini deciso dal giudice di Catania e da quelli di Firenze è quella che la Tunisia non è un Paese sicuro, allora, se tanto mi dà tanto, tutte le volte che le autorità italiane ne hanno rimandato a casa qualcuno hanno commesso un reato. Con Minniti, Salvini o Piantedosi. E altra questione: da quando la Tunisia non è uno stato sicuro? Chi lo decide il nostro governo che ha lì un'ambasciata o un magistrato interpretando gli astri o leggendo i tarocchi?
La verità è che quando la politica di parte nascosta dietro una toga inquina l'interpretazione di una legge, provoca come conseguenza una serie di contraddizioni a cascata. Un guazzabuglio da cui non se ne esce e che di fatto punta solo a delegittimare un provvedimento del governo con il solito immancabile corollario .
In realtà non è così perché determinate ordinanze o sentenze hanno soprattutto una valenza politica: uno può scriverle come vuole ma se la critica parte dall'assunto che secondo gli standard europei «la Tunisia non è un Paese sicuro» tu le leggi le puoi scrivere in italiano, in latino o in ostrogoto, ma non raggiungeranno mai l'obiettivo di accelerare i rimpatri. Quindi, il tentativo è quello di ostacolare l'azione di un governo considerato estraneo o, addirittura, avversario. Decisioni, quindi, che - mi sbaglierò - non aspirano ad un'interpretazione corretta del diritto ma vanno nel solco dello slogan lanciato una settimana fa da Eugenio Albamonte, il segretario di Area, la corrente che raccoglie le toghe di sinistra: «Bisogna resistere alla restaurazione».
Solo che a questo punto, invadendo il campo del potere esecutivo, questa parte della magistratura deve assumersi la responsabilità delle sue scelte, deve avere l'ardire di spiegarne all'opinione pubblica la natura politica: i clandestini non si rimpatriano, ma ce li teniamo punto e basta, siano mille, diecimila, centomila. Come pure la sinistra che plaude alle ordinanze di Catania e di Firenze deve avere il coraggio di sposare la politica dell'accoglienza indiscriminata, senza rinfacciare al governo l'aumento degli sbarchi. Tutto si può fare meno che due parti in commedia.
Immigrazione e toghe, "Italia assuefatta ai pm politicizzati". Libero Quotidiano il 02 ottobre 2023
Goccia dopo goccia di veleno, ormai ci siamo abituati alle toghe politicizzate. L'analisi del direttore editoriale di Libero Daniele Capezzone è impietosa, e arriva nel giorno in cui sia Giorgia Meloni sia Matteo Salvini si scagliano con estrema durezza contro la giudice di Catania Iolanda Apostolico, che nei giorni scorsi ha stoppato il decreto del governo liberando dei migranti. sbarcati (illegalmente) a Lampedusa e che sarebbero dovuti finire nel centro di Pozzallo.
"Basita da quella sentenza e dalle sue motivazioni", ha scritto sui social la premier. Il suo vice, nonché leader della Lega, pochi minuti dopo ha aggiunto: "I tribunali sono sacri, non devono essere della sinistra".
Sia Meloni sia Salvini fanno riferimento a quella parte d'Italia che sembra voler favorire l'immigrazione irregolare, andando di fatto contro le politiche del governo, una parte che coinvolge politica, Ong e, appunto, anche toghe politicizzate. Di contro, dalla sinistra, c'è chi come Arturo Scotto (del Pd, ex Articolo 1) arriva a definire per questo la premier come "eversiva".
Magari è solo una congettura o, peggio, un sospetto ma l'esperienza ci insegna che non c'è un limite a quello che avviene nei tribunali e nelle procure del Belpaese. Augusto Minzolini il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Magari è solo una congettura o, peggio, un sospetto ma l'esperienza ci insegna che non c'è un limite a quello che avviene nei tribunali e nelle procure del Belpaese: da noi spesso anche nell'amministrazione della giustizia, nell'interpretazione delle leggi, nell'uso delle norme si lancia un messaggio o, per dirla per intero, le toghe fanno politica. Se addirittura un ex ministro dell'Interno, che rischia la galera solo per aver fatto il suo dovere, deve presentare una denuncia in sei procure perché le intercettazioni raccolte da un sommergibile della nostra Marina sull'attività di una Ong spagnola che lo scagionavano non sono state inserite nei fascicoli dei procedimenti penali che lo riguardavano, può davvero succedere di tutto. Una vicenda che fa il paio con quella del pm Fabio De Pasquale che è imputato in un procedimento penale per aver nascosto una prova utile alla difesa nel processo delle presunte tangenti Eni in Nigeria.
Ecco perché il dubbio che alcuni magistrati facciano politica anche quando esercitano la loro attività professionale da noi è legittimo. Ad esempio l'house organ del giacobinismo italiano, Il Fatto, è stato il pesce pilota di una campagna che va avanti da settimane e punta a dimostrare come la riforma Cartabia sia un tragico fallimento: sembra che all'improvviso buona parte delle toghe italiane, infatti, siano diventate ipergarantiste. Hanno rimesso in libertà tifosi con l'obbligo di soggiorno che armati di coltelli hanno partecipato a risse a 500 chilometri distanza dai luoghi dove erano obbligati a stare; o, ancora, sono rimasti a piede libero boss mafiosi perché le parti offese non hanno avuto il coraggio di presentate denuncia; o un automobilista che ha investito due bambini e picchiato una vigilessa è potuto tornare tranquillamente a casa solo con la raccomandazione di un gip: «stia attento alla guida».
La tesi è che sia tutta colpa della riforma Cartabia. Il timore è che ci sia un'interpretazione della norma per alcuni versi strumentale che punta a dimostrare che quella riforma sia da gettare nel secchio. Ora il sottoscritto non è mai stato entusiasta del lavoro della Cartabia, tutt'altro, e lo ha scritto nero su bianco, ma se il sospetto fosse fondato un brivido correrebbe lungo la schiena. Non potendo bloccarla nelle aule parlamentari c'è chi sabota la riforma nella sua applicazione, pardon, nella sua interpretazione. E qui arriviamo al punto. La differenza, per offrire un termine di paragone, tra il sistema giudiziario francese e il nostro è che lì i giudici «applicano» la legge, mentre da noi la «interpretano». E l'interpretazione della norma offre un ampio potere discrezionale al magistrato. Addirittura capita che per uno stesso processo, con le stesse prove o altro, tu puoi essere assolto a Napoli e condannato a Milano.
Questa discrezionalità offre al magistrato di turno la possibilità di interpretare in maniera diversa le norme inserite nella riforma Cartabia. Uno strumento formidabile in mano a quelle toghe che perseguono un disegno squisitamente politico. Ecco perché quando si fanno delle riforme le nuove regole debbono essere precise al millimetro proprio per ridurre la discrezionalità del giudice nella loro interpretazione. Una lezione per quanto riguarda la riforma Cartabia, ma soprattutto per quelle che il nuovo ministro, Carlo Nordio, si appresta a varare. Non fosse altro perché, almeno sul piano degli annunci, dovrebbero essere più radicali di quelle di chi l'ha preceduto e, quindi, dare più fastidio a un partito che sulla carta non c'è nella realtà sì, quello delle toghe politicizzate.
Magistratopoli.
Alfonso Papa.
Henry John Woodcock.
Silvana Saguto.
Luca Turco.
Cosimo Ferri.
Enzo Bucarelli.
Ernesto Anastasio.
Innominati.
Emilio Sirianni.
Emilio Arnesano.
Errede e Silvestrini.
Matteo Di Giorgio.
Michele Ruggiero.
Giorgia Castriota.
Carlo Maria Capristo.
Giuseppe Cascini.
Giuseppe Creazzo Alessia Sinatra.
Savasta, Scimè e Nardi.
Tedeschini.
(ANSA martedì 7 novembre 2023) - L'ex parlamentare del Pdl Alfonso Papa è stato rimosso dalla magistratura. La condanna gli è stata inflitta dalla Sezione disciplinare del Csm. Secondo il tribunale delle toghe da parlamentare ed ex magistrato della procura di Napoli Papa avrebbe assicurato ad alcuni imprenditori l'acquisizione di informazioni su indagini della procura di Napoli ed anche su misure cautelari ancora da eseguire ricevendo somme di denaro, regali lussuosi come Rolex e viaggi. La vicenda era stata oggetto anche di un'inchiesta penale e processi che si sono conclusi con la prescrizione in Cassazione
L'ultima parola alla Cassazione. Magistratura, Alfonso Papa rimosso a distanza di 15 anni: i tempi biblici della giustizia disciplinare. La sezione del Csm ha disposto ieri la rimozione dalla magistratura per il pm coinvolto sulla loggia P4. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'8 Novembre 2023
A distanza di quasi quindici anni dai fatti, la Sezione disciplinare del Csm ha disposto ieri la rimozione dalla magistratura per il Pm Alfonso Papa, ex deputato dell’allora Pdl, coinvolto nell’indagine sulla loggia P4 e per il quale la Procura di Napoli nell’estate del 2011 aveva chiesto ed ottenuto l’arresto, ipotizzando anche l’aggravante mafiosa.
Secondo l’accusa, Papa aveva fornito ad alcuni imprenditori delle informazioni, grazie ai suoi rapporti con agenti dei servizi segreti, alti magistrati e esponenti di vertice della guardia di finanza, su indagini in corso nei loro confronti ed anche su misure cautelari ancora da eseguire, ricevendo in cambio somme di denaro e regali lussuosi come orologi Rolex e viaggi. Nell’inchiesta erano coinvolti anche Luigi Bisignani, che poi patteggerà, ed Enrico La Monica, un sottufficiale dei carabinieri in servizio presso la sezione Anticrimine di Napoli, che avrebbero promosso “una associazione per delinquere, organizzata e mantenuta in vita allo scopo di commettere un numero indeterminato di reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia”.
Nel 2011 il Parlamento, quarto caso nella storia repubblicana, aveva concesso a sorpresa l’autorizzazione a procedere nei confronti del magistrato. In primo grado, nel 2016, Papa era stato condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione per induzione alla concussione. I giudici già all’epoca dichiararono però prescritti diversi reati, assolvendolo comunque da alcuni capi di imputazione. La richiesta dei Pm era stata di otto anni.
Un episodio di istigazione alla corruzione venne contestato nei confronti dell’ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica Lorenzo Borgogni. Ad inchiodarlo durante il processo furono proprio gli imprenditori i quali avevano dichiarato che era stato lui a contattarli per informarli che erano nel mirino delle indagini e rischiavano guai con la giustizia. A Papa venne anche contestato di “aver costretto o comunque indotto l’immobiliarista Vittorio Casale a conferirgli beni e utilità vari per un valore pari a migliaia di euro, prospettandogli in cambio una soluzione ai suoi problemi giudiziari”. Secondo l’accusa, Casale, al fine di tutelarsi rispetto all’imminente pericolo di finire in carcere, avrebbe quindi pagato per un paio d’anni l’affitto di un appartamento in via Giulia a Roma, dove Papa viveva con la compagna. Casale sarà arrestato lo stesso nell’ambito di un’inchiesta per bancarotta condotta dalla Procura di Milano.
Lo scorso maggio la Cassazione aveva dichiarato prescritti tutti i reati, facendo così ripartire il disciplinare al Csm nei confronti di Papa il quale in questi anni è stato sospeso dal servizio continuando a prendere parte dello stipendio.
Prima di diventare deputato per il Pdl nel 2008, era stato Pm alla Procura di Napoli, dove svolgeva attività sindacale per la corrente di Unicost. Nel 1999 era stato candidato alla giunta distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati e nel 2000 era entrato nella giunta nazionale. Fu anche vicecapo di gabinetto del ministro della Giustizia Roberto Castelli e divenne poi direttore generale degli Affari civili per il Guardasigilli Clemente Mastella. Da parlamentare era stato membro della Commissione giustizia e delle Commissioni parlamentari per la semplificazione e d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali.
“Posso aver commesso delle leggerezze ma non illeciti” aveva detto all’epoca Papa. Rimase celebre una sua lettera al quotidiano il Mattino qualche settimana dopo il suo arresto dove evidenziava “l’incomparabile esperienza umana” che stava vivendo “nel Padiglione Firenze del carcere di Poggioreale”. “Mi stimola – disse – una riflessione che nasce dalla unica esperienza di solidale condivisione cristiana della reciproca sofferenza che trasuda dalle mura sorde di questo luogo dove le sbarre sembrano ricordare a tutti che oltre quel muro vi è comunque un cielo azzurro nel quale specchiarsi”. Parlando della custodia cautelare, Papa affermò: “Le ventidue ore al giorno chiusi in cella sono solo una forma di tortura, neppure velata per l’innocente. Esse sono poi un’espiazione anticipata per il colpevole. Ma la domanda è allora se sia giusto per uno Stato carente nell’eseguire le sentenze di condanna per i colpevoli passati in giudicato pretendere, con i tempi che attualmente ha il processo penale, che il presunto innocente debba invece espiare preventivamente in carcere”. “In questa situazione è allora auspicabile un intervento del Parlamento e della politica, fortunatamente fatta non solo da quegli imbecilli che ci definiscono un albergo a cinque stelle ed ai quali cristianamente auguriamo di non soggiornare mai in alberghi come questo, consapevoli come siamo che, nelle perigliose e imprevedibili onde della vita, un tale approdo potrebbe capitare prima o poi anche a loro”. Parole quanto mai profetiche. L’ultima parola spetterà ora alla Cassazione. Paolo Pandolfini
Le correnti salvarono il pm. Woodcock, la ‘grazia’ del Csm tra il mistero intercettazione e l’interrogatorio a Vannoni con vista su Poggioreale. Ci sarebbe un’intercettazione tra Legnini e Pomicino dove si parla male di Woodcock: il pm avrebbe evitato di metterla agli atti, salvo poi tirarla fuori nel disciplinare che lo riguardava. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 3 Novembre 2023
Henry John Woodcock venne ‘salvato’ dal disciplinare grazie all’intercessione delle correnti della magistratura? Quella del procedimento disciplinare nei confronti del pm anglo-napoletano è una vicenda che, a distanza di anni, continua ad avere contorni quanto mai poco chiari quando invece sarebbe opportuno il contrario. A raccontarla per la prima volta era stato l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara nel libro-intervista “Il Sistema” scritto nel 2021 con l’allora direttore di Libero Alessandro Sallusti.
Afferma Palamara che il 5 luglio del 2018, quando era componente della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistrati, sarebbe stato contattato da Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma ed esponente di primo piano delle toghe progressiste. Cascini lo voleva incontrare per dirgli che su Woodcock il Csm si doveva “fermare”. Il pm napoletano in quel momento era a processo davanti alla Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli per le modalità con cui aveva condotto l’indagine Consip. In particolare, per l’interrogatorio avvenuto a dicembre del 2016 di Filippo Vannoni, consigliere di palazzo Chigi. Vannoni era stato sentito come testimone e non come indagato, dunque senza l’assistenza di un avvocato, anche se erano già evidenti indizi di reità nei suoi confronti. L’interrogatorio venne condotto con sistemi quanto mai inquietanti, esercitando pressioni nei suoi confronti come quella di mostrargli dalla finestra della Procura Napoli il carcere di Poggioreale e chiedendogli se “volesse fare una vacanza”, e facendogli poi vedere dei fili da un cassetto spacciati per delle microspie. Woodcock, inoltre, avrebbe lasciato mano libera ai carabinieri del Noe comandati dal maggiore Gianpaolo Scafarto di “svolgere in maniera confusa e contemporaneamente, una molteplicità di domande”, invitando quindi Vannoni a “confessare”.
“Ci incontriamo – racconta nel libro l’ex presidente dell’Anm – al bar Settembrini a Roma e (Cascini) mi parla di una intercettazione tra il vice presidente del Csm Giovanni Legnini e l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino”. In questa intercettazione, a detta di Cascini, il vicepresidente del Csm “parla molto male del pm napoletano”. Woodcock, in possesso di tale intercettazione, acquisita proprio durante l’indagine Consip (non messa agli atti), sarebbe “intenzionato a renderla pubblica per dimostrare che il Csm ha un pregiudizio nei suoi confronti”, avrebbe aggiunto Cascini.
Legnini era il presidente del collegio che doveva emettere la sentenza nei confronti di Woodcock. Dopo quell’episodio il disciplinare subirà una battuta d’arresto e proseguirà con il nuovo Csm, a guida David Ermini, che assolverà Woodcock. Palamara tornò su questa storia durante uno dei suoi interrogatori in Procura a Perugia. Davanti al procuratore Raffaele Cantone disse che il procedimento disciplinare di Woodcock andava di pari passo con quello di Gilberto Ganassi, all’epoca procuratore aggiunto di Cagliari che era accusato di non essersi astenuto in una indagine sul collega Andrea Garau, in corsa come lui per la nomina a capo della Procura del capoluogo sardo. Cantone chiese se ci fosse stato “una sorta di scambio” e la risposta di Palamara fu che lo scambio era “correntizio”. Sulla vicenda era poi intervenuto Cascini. “Escludo di aver incontrato Palamara il 5 luglio 2018. Non che mi ricordi, ma sul mio telefono non trovo contatti con lui in quei giorni, mentre trovo un messaggio del 4 luglio 2018 a mio figlio nel quale gli dico che il giorno dopo mi fermo al mare e mi accordo per pranzare insieme il venerdì 6, cosa che, sempre sulla base dei messaggi, risulta avvenuta”, esordì Cascini in un comunicato.
“Non ho mai saputo – aggiunse – della esistenza di una intercettazione tra Legnini e Cirino Pomicino, nella quale si parlava di Woodcock. Non so se una tale intercettazione esista”. E ancora: “Non posso aver parlato con Palamara di una intercettazione della quale ignoravo (e ignoro) l’esistenza”. Cascini precisò anche di non parlare con Woodcock da anni “e certamente non mi ha riferito il contenuto di una intercettazione del genere”. “Ignoro quale interesse potessi avere io a veicolare a Palamara un messaggio del genere”, concluse il magistrato romano annunciando querele. A difendere apertamente Woodcock in quel periodo era stato Piercamillo Davigo il quale, in una intervista al Fatto Quotidiano, aveva affermato di essere rimasto esterrefatto dell’atteggiamento del Csm che “non dice nulla contro gli attacchi del governo a un pm colpevole di fare indagini ad alti livelli e anzi lo processa disciplinarmente prima ancora che vengano processati gli imputati”. Paolo Pandolfini
Da Savoiagate a Consip passando per Vallettopoli. WoodcockFlop, una carrellata dei ‘nulla di fatto’ del pm anglo-napoletano Henry John. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 2 Novembre 2023
Il procedimento per corruzione nei confronti dell’imprenditore Danilo Iervolino, fondatore dell’Università telematica Pegaso e attuale numero uno della Salernitana, destinato a finire come raccontato ieri sul Riformista in un nulla di fatto, è solo l’ultimo di una lunga serie di flop del Pm aglo-napoletano Henry John Woodcock.
Il più celebre è senza ombra di dubbio il Savoiagate. Nel 2006, Woodcock, allora Pm a Potenza, aveva accusato Vittorio Emanuele di Savoia, figlio dell’ultimo re d’Italia, di far parte di una associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e allo sfruttamento della prostituzione. Vittorio Emanuele venne fermato mentre si trovava a Varenna, un paesino sul lago di Lecco. Dopo un viaggio durato tutta la notte, fu tradotto nel carcere di Potenza dove rimase per una settimana prima di andare ai domiciliari. Finito l’iniziale clamore mediatico, l’inchiesta approdò a Como per competenza territoriale e Vittorio Emanuele, assolto perché il fatto non sussiste, sarà poi risarcito con 40mila euro per l’ingiusta detenzione patita.
A seguire Vallettopoli, una maxi inchiesta sul mondo spettacolo. Fra gli indagati, Elisabetta Gregoraci, Fabrizio Corona, Lele Mora, l’allora ministro Alfredo Pecoraro Scanio. Anche questa inchiesta si chiuderà con una sfilza di assoluzioni. Altra inchiesta mediatica, finita in un nulla di fatto, sarà Vipgate e coinvolgerà Franco Marini, Nicola Latorre, Maurizio Gasparri, Francesco Storace, Umberto Vattani, Tony Renis e Anna La Rosa. Associazione per delinquere, turbativa d’asta, corruzione ed estorsione, le accuse. Dopo Potenza per Woodcock arriva il trasferimento a Napoli con l’inchiesta sulla P4, una loggia P2 al quadrato. Figura centrale è Luigi Bisignani, accusato di aver creato un sistema informativo parallelo. Saranno coinvolti il magistrato Alfonso Papa, all’epoca deputato del Pdl e l’allora capo di Stato maggiore della guardia di finanza Michele Adinolfi, il comandante in seconda della Gdf Vito Bardi, oltre ad una pletora di dirigenti della Rai, delle Ferrovie e dei Ministeri. Le accuse verranno ridimensionate dalla Cassazione che stabilirà l’insussistenza dell’associazione a delinquere.
Dopo la P4, parte Consip, un’altra maxi indagine. Il procedimento sulla centrale acquisti della Pa nel 2016 coinvolge l’entourage dell’allora premier Matteo Renzi, il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Tullio Del Sette, i vertici della guardia di finanza, l’imprenditore ed editore di questo giornale Alfredo Romeo. Qui c’è una cosetta che vale la pena ricordare, così per sorridere anche se c’è francamente poco da ridere, la parte principale del reato contestato a un dipendente della Romeo Gestioni è il regalo di un myrtillocactus una pianta, tutta attorcigliata che ha un valore che solitamente non supera i cento euro, a una funzionaria della Regione Campania. Sì, cento euro. Torniamo sei, il fascicolo dell’inchiesta verrà poi spacchettato in vari tronconi, alcuni dei quali trasmessi per competenza a Roma. Quelli nei confronti di Romeo e Del Sette si sono conclusi con una assoluzione. Altri si trascinano stancamente nelle aule dei tribunali. L’inchiesta Consip, comunque, verrà ricordata per la più grande fuga di notizie della storia della Repubblica, con una intera informativa di oltre mille pagine redatta dai carabinieri del Noe finita integralmente nelle redazioni dei giornali.
Per questa indagine Woodcock subirà anche un procedimento disciplinare al Csm poi archiviato per “condotta irrilevante”. Al Pm furono contestate le modalità dell’interrogatorio di Filippo Vannoni, il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua, accusato di essere a conoscenza che la Procura stava facendo indagini nei confronti di altri manager pubblici. Vannoni venne sentito alla vigilia di Natale del 2016 da Woodcock come persona informata dei fatti, quindi come testimone e senza l’assistenza di un difensore. Per il Csm però già allora c’erano tutti gli elementi per iscriverlo nel registro degli indagati. Fu un interrogatorio “molto duro”, disse poi Vannoni, con domande “pressanti” concentrate soprattutto sui “rapporti con Matteo Renzi”, e poi una frase, “vuole fare una vacanza a Poggioreale”, che gli sarebbe stata rivolta da Woodcock e di fronte alla quale il manager era rimasto “colpito e intimidito”. Nell’elenco di flop non può mancare l’inchiesta sui vertici di Cpl Concordia, accusati di corruzione in relazione agli appalti per la metanizzazione dell’isola di Ischia, con l’arresto del sindaco Giosi Ferrandino, ora europarlamentare Pd. Scontato l’esito: tutti assolti. Dulcis in fundo, il procedimento a carico del professore Francesco Fimmanò, ex componente del Consiglio di Presidenza della Corte di Conti, fatto anche perquisire all’alba, la cui ‘colpa’ era stata quella di aver fatto l’avvocato, rappresentato l’Università Pegaso nel procedimento innanzi alla Sezione consultiva del Consiglio di Stato. Paolo Pandolfini
Quella gogna contro l’ex giudice Saguto è peggio del suo “sistema”. L’arresto in diretta della donna trasferita dalla clinica al carcere col metodo “Tortora”: così la stampa si presta allo show giudiziario. Simona Musco su Il Dubbio il 23 ottobre 2023
Una donna malata, una struttura sanitaria, i baschi verdi della Finanza e, oltre i cancelli, i giornalisti pronti a filmare tutto. L’ennesimo caso di giustizia spettacolo è quello di Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, condannata in via definitiva - ma la pena va rideterminata - per la gestione dei beni confiscati.
Un crimine terribile, il suo, che ha rovinato la vita di decine di famiglie. Ma terribile è anche la scelta consapevole di ledere la sua dignità, da cannibalizzare in diretta, nonostante i tentativi disperati del figlio di nascondere il volto della madre con il proprio corpo. «Il figlio minaccia i giornalisti», si legge online, a corredo delle immagini che immortalano il giovane urlare che si tratta di una struttura sanitaria e vige la privacy più stretta. Urla e dichiara la disponibilità a farsi arrestare, quell’uomo, pur di porre fine allo stillicidio, contrario ad ogni regola deontologica richiamabile a memoria e che ricorda ad ogni giornalista che la dignità delle persone non può essere violentata in nome del diritto di cronaca. Filmare quell’arresto, d’altronde, non fornisce alcuna informazione ulteriore all’opinione pubblica, alla quale sarebbe bastato sapere che la giudice e gli altri condannati sono finiti in carcere. Mentre sarebbe stato più utile chiedersi, forse, perché la pena sia stata subito eseguita quando c’è da affrontare un nuovo processo per stabilire l’entità della stessa. Domande sciocche, forse, interessanti solo per gli “addetti ai lavori”. Come se la giustizia interessasse solo una piccola parte della società.
«I baschi verdi antiterrorismo della Gdf per arrestare una persona anziana in ospedale, “casualmente” i giornalisti appostati, un figlio costretto a fare da scudo alla mamma dai flash e dalle riprese. Uno schifo vomitevole da Paese incivile», ha commentato su Twitter il deputato di Azione Enrico Costa, tra i pochi attenti - e in maniera bipartisan - alle degenerazioni della giustizia che si trasforma in show televisivo. Uno spunto di riflessione che non ha prodotto l’effetto sperato: i commenti al Tweet sono spietati e svelano una concezione della giustizia che è più vicina alla legge del taglione.
Hai rovinato tante famiglie, devi subire l’umiliazione che hai inflitto, questo il riassunto delle reazioni. «Buonismo schifoso», scrive un utente, «lo schifo è vedere come difendi i delinquenti» e poi ancora «siamo di fronte al male assoluto, nessuna pietà», ribadiscono altri. La giustizia non serve a nulla se non alla vendetta e pensare che un giorno con Silvana Saguto possa essere messo in pratica l’articolo 27 della Costituzione, che mira alla sua rieducazione, è forse una speranza vana. D’altronde tra le proposte depositate da Fratelli d’Italia a inizio legislatura ve n’è una che mira a modificare anche questo pilastro: prima viene l’effetto “intimidatorio” della pena, poi - se rimane spazio - quello rieducativo. E poco importa se la repressione ha sempre fallito nella battaglia contro il crimine.
La reazione scomposta della stampa è il sintomo di una “malattia” molto grave: l’informazione è una merce e dunque le regole che valgono non sono quelle deontologiche e nemmeno le leggi dello Stato, ma le regole di mercato. Ed è il mercato a richiedere la gogna, che porta clic, anche se fa a pezzi la Costituzione. La stessa sulla quale hanno giurato coloro che, occupando ruoli istituzionali, invocano la forca dai propri palcoscenici virtuali.
Difficile far sentire in colpa, dunque, chi da casa rivendica il diritto di poter dire la sua. Il corpo di quel giovane uomo disperato di fronte alla distruzione della sua famiglia - anche il padre è stato condannato - avrebbe dovuto essere, metaforicamente, il corpo di chi, come il giornalista, avrebbe il compito di garantire il rispetto dei principi cardine della nostra democrazia. Tra i quali non rientra la spettacolarizzazione della giustizia. Ma dovremo accontentarci, forse ancora per molto, della battaglia solitaria di chi prova a scardinare tutto questo.
E dovrebbe far riflettere se a condannare questo modus operandi è proprio chi del “sistema Saguto” (forma che a sua volta serve ad assolvere chi ha consentito che tutto questo avvenisse) è stato vittima, come Pietro Cavallotti. «Non mi ha fatto piacere vedere le immagini del suo arresto - ha dichiarato al TgR -. La giustizia penale non deve farsi carico delle aspettative di una popolo sempre più affamato di carcere e sempre meno disposto a chiedersi quali siano i veri problemi che si nascondono dietro i titoli dei giornali».
Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it venerdì 20 ottobre 2023.
Un tempo, a casa di Silvana Saguto, la giudice più potente dell’antimafia, c’era un gran via vai di fedelissimi. Ieri pomeriggio, in via De Cosmi 37, sono arrivati i finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria, per arrestare l’ormai ex magistrata, radiata dall’ordine giudiziario per lo scempio fatto dei beni sequestrati. Ma lei non c’era, si era fatta ricoverare in una clinica privata. È stata comunque accompagnata in carcere. Giovedì pomeriggio, la Corte di Cassazione ha confermato le accuse più gravi: corruzione e concussione.
Per altri reati minori, la sesta sezione della Suprema Corte ha deciso che dovrà essere celebrato un nuovo processo alla corte d’appello di Caltanissetta, per rideterminare la pena. Ma, intanto, si aprono le porte del carcere per l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo.
Per la condanna già definitiva deve scontare 7 anni e 10 mesi. In carcere è stato portato anche il marito di Silvana Saguto, l’ingegnere Lorenzo Caramma, deve scontare 6 anni e un mese. La procura generale nissena presieduta da Fabio D’Anna ha messo in esecuzione la sentenza di appello pure nei confronti dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e del professore Carmelo Provenzano: il primo, che deve scontare 6 anni e sette mesi, si è consegnato nel carcere di Bollate (Milano); il secondo, condannato a 6 anni e 8 mesi, si è consegnato a Roma. Anche per loro si farà poi un nuovo processo d’appello per alcuni reati minori, su cui la Cassazione ha disposto la rideterminazione della pena.
A bussare a casa di Silvana Saguto sono stati gli stessi investigatori del Gruppo tutela spesa pubblica che nove anni fa iniziarono a indagare sulla gestione scandalosa dei beni sottratti alla mafia. La parabola della giudice si è conclusa proprio in quella casa che era diventata la sua corte, in cui erano ammessi solo pochi devoti. Casa che peraltro adesso è stata confiscata, per provare a blindare almeno una parte dei risarcimenti alle parti civili, perché nei conti bancari della giudice imputata non c’era nulla.
[…] In alcuni giorni, c’era anche un gran via vai attorno a via De Cosmi. La presidentessa diceva all’agente della scorta di andare a prendere la fidanzata del figlio. I poliziotti erano sempre a disposizione. Per fare la spesa, per andare in lavanderia. Il tribunale ha detto che non era reato di abuso d’ufficio. Ma di sicuro era l’ennesimo segno di ossequio attorno a quella casa diventata un simbolo poco edificante. La casa-corte dell’antimafia peggiore.
La mazzetta
In via De Cosmi, dove ora finisce questa storia, l’avvocato Cappellano Seminara arrivò invece una sera, alle 22.35, con un trolley. Dentro, c’erano ventimila euro, hanno spiegato nel processo di primo grado i pubblici ministeri Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti. Il “re” degli amministratori giudiziari uscì alle 23.10. Il giorno dopo, d’incanto, i problemi finanziari della giudice trovarono soluzione. Con un versamento di tremila euro. Poi un altro, di duemila. E un altro ancora, di tremila euro. La casa dei regali e degli ossequi. Ora, è solo la casa simbolo di una giudice schiacciata dai suoi deliri di onnipotenza.
A un certo punto, il professore Provenzano la trasformò anche nella casa delle nuove strategie, il laboratorio dell’antimafia stile Saguto. E intanto il trojan installato nel telefono del docente registrava. «Facciamo un triangolone», è rimasta la sua frase più celebre. Voleva mettere le sezioni Misure di prevenzione di Trapani e Caltanissetta sotto il controllo di Silvana Saguto, per gestire un immenso patrimonio di amministrazioni giudiziarie. Di quella casa Provenzano era ormai diventato un habitué, anche perché seguiva gli studi e soprattutto la tesi del figlio della giudice, che poi scrisse lui. […]
Arrestata la paladina dell'antimafia. Il "sistema" per lucrare sui sequestri. In carcere l'ex giudice condannata definitivamente per corruzione Tante le aziende rovinate dal meccanismo che aveva messo in piedi. Lodovica Bulian il 21 ottobre su Il Giornale.
Era stata uno dei simboli dell'antimafia, prima di diventare quello dell'antimafia deviata, per questo poi radiata dalla magistratura. E tanto era diventato tentacolare il suo modus operandi, che è stato ribattezzato «Sistema Saguto» quello che lucrava sulla gestione delle misure di prevenzione, sequestri e confische di patrimoni e aziende di soggetti sospettati di mafia. Ora la Cassazione ha messo un punto fermo alla vicenda giudiziaria dell'ex magistrata palermitana ed ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, nel processo che ha portato alla sbarra con lei amministratori e professionisti: la Sesta sezione penale ha confermato la condanna in appello per corruzione rendendola definitiva. Sulle contestazioni di falso, peculato e tentata concussione ha disposto un nuovo processo di secondo grado, anche per i coimputati. Venerdì Saguto è stata prelevata da una clinica palermitana dove era ricoverata da 20 giorni e portata in carcere. Ieri il suo legale ha chiesto per lei i domiciliari per motivi di salute. Deve scontare 7 anni e 10 mesi, per aver favorito professionisti a lei graditi nell'assegnazione degli incarichi di amministratore giudiziario dei patrimoni confiscati.
Al di là degli esiti del nuovo processo, è una parola definitiva su un capitolo che ha macchiato l'antimafia siciliana e non solo, e che ha gettato un'ombra sull'intero sistema delle misure di prevenzione. Che, non solo nel caso Saguto, si è rivelato terreno fertile d'illegalità contestate ad amministratori giudiziari e magistrati. Talune inchieste ancora in corso fotografano un settore fatto di super parcelle e ambiti incarichi nelle amministrazioni giudiziarie a cui non sempre corrispondono altrettanto alti risultati di gestione.
Nel caso Saguto, ci sono aziende che sono state restituite dopo anni ai legittimi proprietari, quando i sequestri sono stati annullati, indebitate, svuotate, sull'orlo del fallimento e poi liquidate. Le misure di prevenzione viaggiano parallelamente al binario penale, non è necessaria cioè una condanna per procedere alla richiesta di sequestro. Basta il sospetto. Prevenzione, appunto. Il nodo però è il «dopo» sequestro. Gli amministratori giudiziari si dimostrano in molti casi incapaci di gestire i beni che hanno in custodia, soprattutto aziende, spesso condannate a morte insieme con posti di lavoro. Parte civile nel processo a Saguto ci sono gli imprenditori Rappa, titolari di concessionarie di automobili. Nel 2014 gli è stato sequestrato il patrimonio, 5 anni dopo è stato dissequestrato e restituito. Il titolare al processo ha descritto così cosa ha trovato al suo rientro: «É stato un assalto alla diligenza, una società piena di perdite, caricata di costi quasi per farla fallire». Lo stesso hanno trovato i Cavallotti, finiti nelle misure di prevenzione chieste da Saguto, quando le loro aziende sono state dissequestrate: erano ormai in rovina. Si sono rivolti alla Corte europea, che un mese fa ha chiesto chiarimenti al governo italiano sul sistema delle misure di prevenzione. Una delle domande è se questo rispetti il principio della presunzione di innocenza.
La strana storia che coinvolge ancora Luca Turco. Assolto Paolo Barlucchi, l’ex pm fiorentino che aveva avuto divergenze con Luca Turco durante l’inchiesta Concorsopoli. Il magistrato, in particolare, aveva chiesto l’astensione di Turco dal ruolo di coordinatore del procedimento quando emerse la necessità di interrogare la sorella Lucia, all’epoca direttore sanitario dell’ospedale: “Io la sorella del procuratore NON la intercetto”. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 15 Settembre 2023
È stato assolto da tutte le accuse l’allora pm fiorentino Paolo Barlucchi, ora pg a Perugia, che con le sue rivelazioni aveva acceso un faro sul modo in cui venivano condotte alcune inchieste da parte della Procura di Firenze. Barlucchi aveva avuto delle divergenze con il procuratore aggiunto Luca Turco nell’ambito dell’indagine sui concorsi pilotati, denominata ‘Concorsopoli’, presso l’ospedale di Careggi.
Il magistrato, in particolare, aveva chiesto l’astensione di Turco dal ruolo di coordinatore del procedimento quando emerse la necessità di interrogare la sorella Lucia, all’epoca direttore sanitario dell’ospedale. Barlucchi, difeso dal giudice Paolo Micheli, rinuncerà all’inchiesta dopo non aver sentito la dottoressa. Una condotta per la quale venne condannato dalla sezione disciplinare del Csm alla censura, poi annullata nelle scorse settimane dalla Cassazione. Il magistrato era stato già assolto per altre quattro incolpazioni concernenti i suoi rapporti con altri due aggiunti della Procura fiorentina, Gabriele Mazzotta e Luca Tescaroli.
Ed è stato assolto, in sede penale, anche il luogotenente della guardia di finanza Daniele Cappelli – principale teste della difesa di Barlucchi – finito sotto processo a Firenze per alcune omissioni nell’indagine che avrebbero favorito la posizione di uno degli indagati, l’ex dg Monica Calamai. Cappelli era il testimone che davanti alla sezione disciplinare del Csm dichiarò, senza tanti giri di parole, di essere stato ‘stoppato’ dal pm Tommaso Coletta, titolare del primo filone d’indagine sui concorsi. “L’ottavo piano non condivide”, avrebbe infatti detto Coletta alle fiamme gialle che volevano intercettare la sorella di Turco, poi promossa al vertice dell’Agenzia regionale di sanità della Toscana, riferendosi all’ufficio occupato dal procuratore di Firenze nel palazzo di giustizia del capoluogo toscano.
L’inchiesta, avviata nel 2018 dalla guardia di finanza e poi terminata con una valanga di assoluzioni, aveva ad oggetto le procedure di selezione dei docenti dell’ateneo fiorentino. Dopo aver effettuato degli accertamenti preliminari, i finanzieri depositarono in Procura una prima informativa in cui segnalavano irregolarità nelle procedure di selezione per un posto da ordinario all’interno del dipartimento di otorinolaringoiatra.
La Commissione d’esame, composta da quattro medici, fra cui la sorella di Turco, sarebbe stata “eterodiretta” ed il vincitore scelto senza una vera selezione. I finanzieri chiesero allora a Coletta, titolare del fascicolo, di poter intercettare i medici. Coletta – a sorpresa – volle procedere solo nei confronti di due dei componenti, lasciando fuori dalle intercettazioni la sorella di Turco ed il presidente della Commissione. Il luogotenente Cappelli, che aveva curato in prima persona le indagini e dopo aver ultimato l’informativa, chiese quindi ai suoi superiori, i colonnelli Adriano D’Elia e Pasquale Sisto, il motivo di tale decisione. La risposta fu che Lucia Turco era la sorella del procuratore aggiunto.
Cappelli, senza perdersi d’animo, tornò in Procura per reiterare la richiesta di intercettazione nei confronti della dirigente. “Ma allora non ha capito? La sorella di Turco non la intercetto”, avrebbe però risposto il pm, sempre secondo quanto dichiarato da Cappelli davanti al Csm sotto giuramento. “Se continuiamo così, ci manda a Genova (competente per i reati commessi dai magistrati toscani)”, fu la replica di Cappelli. “Guardi che non pensi che non l’abbia ponderata, diremo che l’abbiamo fatto per mantenere il riserbo dell’indagine”, la risposta di Coletta. Prima di aggiungere: “Sa cosa fa? Ci vada lei dal procuratore a chiedere di intercettare la sorella di Turco!”.
Cappelli dopo essere uscito dalla stanza di Coletta scrisse una relazione di servizio su quanto accaduto che, però, fu ritenuta “irricevibile” dai suoi capi. “Mettersi contro i magistrati è pericoloso. Non vuoi che ti trovino un reato? Poi scatta il trasferimento”, gli avrebbero detto i colonnelli D’Elia e Sisto. Dopo qualche giorno, Cappelli venne allora convocato da D’Elia che gli mostrò una nota di Coletta – ora promosso procuratore a Pistoia – con cui si disponeva la cessazione delle indagini in quanto gli elementi raccolti “erano esaustivi”, ordinandogli al contempo di “riscrivere” la relazione di servizio. Il luogotenente sarà poi trasferito ad un ufficio non operativo per evitargli “ulteriori conseguenze” con il procuratore, con il divieto di entrare in Procura e l’avvertimento di non parlare con i colleghi che nel frattempo erano stati chiamati a gestire il fascicolo al suo posto. Paolo Pandolfini
Nella scorsa legislatura deputato di Italia Viva. La rivincita di Cosimo Ferri, annullata la sentenza disciplinare nei confronti del giudice per il caso Berlusconi-Franco. Paolo Pandolfini su il Riformista il 5 Settembre 2023
COSIMO MARIA FERRI POLITICO
“Sia la mera partecipazione che la organizzazione di riunioni private costituiscono oggetto di un diritto costituzionale, il cui esercizio non è sindacabile sotto il profilo dello scopo e dell’oggetto della riunione, come si desume dal fatto che la Costituzione lo esclude implicitamente anche per le riunioni in luogo pubblico, per le quali pone limiti soltanto per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica”. Richiamando, dunque, i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana, le Sezioni unite civili della Cassazione, presiedute da Guido Raimondi, ex presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno annullato la sentenza disciplinare nei confronti del giudice Cosimo Ferri, nella scorsa legislatura deputato di Italia Viva.
Ferri, per anni numero uno di Magistratura indipendente, il gruppo conservatore delle toghe, e poi sottosegretario di Stato presso il Ministero della giustizia, era stato accusato dalla Procura generale della Cassazione addirittura di “grave scorrettezza” nei confronti dei colleghi per il solo fatto di aver accompagnato presso l’allora residenza romana di Silvio Berlusconi il giudice Amedeo Franco.
Quest’ultimo era stato il relatore della sentenza, presidente del collegio Antonio Esposito, che il primo agosto del 2013 aveva rigettato il ricorso proposto contro la sentenza di condanna a quattro anni di reclusione emessa dalla Corte d’appello di Milano nel processo su diritti Tv-Mediaset nei confronti del Cavaliere. Tale pronuncia, per effetto della legge Severino, aveva quindi determinato l’immediata decadenza di Berlusconi da parlamentare.
I fatti risalivano ad un periodo compreso fra la fine del 2013 e i primi mesi del 2014, quando Ferri era a via Arenula e Berlusconi era stato espulso dal Senato. L’incontro fra Berlusconi e Franco era stato rivelato ad anni di distanza, nell’estate del 2020, dopo la pubblicazione di alcuni audio registrati dallo staff dell’ex premier, all’insaputa del giudice, e poi depositati dai suoi avvocati nel ricorso alla Cedu avverso tale sentenza. Dopo la pubblicazione di questi audio, in cui Franco manifestava tutto il proprio disappunto per quanto accaduto, parlando di “un plotone d’esecuzione” davanti al quale si sarebbe ritrovato Berlusconi in Cassazione, era stato aperto nel 2020 un procedimento da parte della Procura di Roma. Il fascicolo era poi stato trasmesso alla Procura generale della Cassazione l’anno successivo per valutare la posizione del solo Ferri, essendo Franco nel frattempo deceduto l’anno prima.
Per la difesa di Ferri, rappresentata dall’avvocato romano Luigi Antonio Panella, l’atteggiamento critico di Franco nei confronti della decisione della condanna di Berlusconi era noto da anni. Già nel libro di Bruno Vespa “Sole, zucchero e caffè”, pubblicato nel 2013, si poteva leggere che Berlusconi considerava quella sentenza un “assassinio giudiziario”, “un tranquillo colpo di Stato”, nel quale “il relatore, unico componente imparziale del collegio, non condivideva né la sentenza né le motivazioni”. L’anno successivo, durante la trasmissione Porta a Porta, sempre Berlusconi aveva poi sottolineato che “la Cedu avrebbe annullato tale sentenza, costruita con precise regie”. La posizione di Franco, che aveva parlato con diverse persone prima di chiedere a Ferri un appuntamento con Berlusconi, era allora nota a molti. Nel 2016, nel ricorso alla Cedu, i legali di Berlusconi avevano sottolineato i “pregiudizi” del presidente del collegio Esposito, e di un “forte turbamento personale di Franco in totale disaccordo con la condanna, profondamente amareggiato a livello professionale per essersi lasciato indurre a condividere un palese errore giudiziario”.
“Risulta singolare che ora, a distanza di sei anni dal 2016 e nove dai fatti si ipotizzi una grave scorrettezza a carico di Ferri per aver asseritamente consentito e avallato un comportamento scorretto di Franco che nessuno ha mai contestato a quest’ultimo fino a che è stato in vita”, aveva puntualizzato nell’arringa difensiva l’avvocato Panella. Ed a proposito degli audio, l’avvocato romano aveva anche prodotto una consulenza tecnica in cui si dimostravano alcune loro ‘manomissioni’ che avrebbero reso i nastri di fatto inutilizzabili. Per il Consiglio superiore della magistratura, invece, la “grave scorrettezza” era pienamente dimostrata e Ferri veniva così condannato alla perdita di anzianità di due anni. Una condanna pesantissima se confrontata con altre condanne emesse dalla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli. L’allora procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, tanto per fare un esempio, per aver molestato sessualmente una collega, la pm palermitana Alessia Sinatra, era stato condannato alla perdita di appena due mesi di anzianità. Sulle ‘sperequazioni’ disciplinari nei confronti dei colleghi era intervenuto lo stesso Ferri, elencando i differenti trattamenti posti in essere da parte del Csm, come quello nei confronti della pm Anna Canepa che aveva definito “banditi ed incapaci” alcuni colleghi senza subire conseguenze.
In questa storia quanto mai oscura, una domanda è rimasta senza risposta: perché Franco non venne mai sottoposto a procedimento disciplinare da parte del Consiglio superiore della magistratura? Anzi, nel 2015, lo stesso Csm, quello dove spadroneggiava Luca Palamara, lo aveva anche promosso presidente di Sezione a piazza Cavour. Un ‘premio’ per aver fatto cacciare Berlusconi dal Senato? “Sono molto soddisfatto della sentenza delle Sezioni uniti della Cassazione. Il Csm non potrà non tenerne conto nel nuovo giudizio”, ha commentato l’avvocato Panella. Paolo Pandolfini
Estratto dell'articolo di Monica Serra per la Stampa giovedì 31 agosto 2023.
Se a influire sulle sue azioni sia stato il tifo sfegatato lo potranno stabilire solo le indagini. Certo, a favore del pm Enzo Bucarelli non sembrerebbe deporre il grande Toro appeso alle pareti del suo ufficio, al sesto piano del palazzo di giustizia.
Proprio sulla sua scrivania, tempo fa, è finito un esposto della ex fidanzata dell'attaccante senegalese del Torino, Demba Seck, che accusa il calciatore di revenge porn. E proprio per via della gestione dell'inchiesta, […] Bucarelli è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Milano, che ipotizza l'accusa di frode in processo penale e depistaggio. Un'accusa grave che, se confermata, può essere punita con pene fino a 12 anni di reclusione.
Tutto inizia con l'esposto presentato dalla ex del calciatore […] Non accettando la fine della relazione, l'attaccante ventiduenne avrebbe minacciato la ragazza di diffondere un video che immortalava momenti intimi della coppia. Un filmato […] che quest'ultima avrebbe depositato con l'esposto.
Aperto il fascicolo e avviate le indagini, Bucarelli ha deciso di perquisire l'appartamento del calciatore. […] da quel che emerge, ma è tutto da confermare, Bucarelli avrebbe avvisato l'agente di Seck. Tanto che all'arrivo di Gdf e carabinieri, in casa del calciatore del Toro sarebbero già stati presenti i suoi legali.
Ma c'è di più. […]Con gli investigatori, a perquisire Seck si è presentato anche Bucarelli che, davanti agli occhi increduli di carabinieri e Gdf, avrebbe cancellato il video incriminato dal cellulare del calciatore. Non solo dalla memoria dello smartphone. Anche dalla cronologia delle chat, in cui il ventiduenne aveva già inviato ad alcuni amici il filmato.
Da quel che trapela, Bucarelli […] per giustificare la scelta, avrebbe sostenuto che non c'erano «esigenze investigative» perché quel video era già in possesso della procura, in quanto depositato dalla presunta vittima. Dopo la perquisizione, è stata la Guardia di finanza a presentare alla procuratrice vicaria, a capo del pool anticorruzione, Enrica Gabetta, una relazione di servizio, che raccontava l'accaduto. La aggiunta ha così trasmesso gli atti al procuratore generale Saluzzo.
Che, a sua volta, ha inviato tutto alla aggiunta Tiziana Siciliano, che nella procura milanese guida il pool reati contro la pubblica amministrazione. E, molto probabilmente, anche al procuratore generale di Cassazione, che deciderà se esercitare anche l'azione disciplinare contro il magistrato. […]
Ci mancava soltanto il magistrato ultrà. Tony Damascelli l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
Com'è la storia dell'accecato dalla gelosia? Qui trattasi di uno accecato dal tifo per la squadra di pallone, il vecchio cuore granata ha creato problemi non a uno qualunque ma addirittura un magistrato
Com'è la storia dell'accecato dalla gelosia? Qui trattasi di uno accecato dal tifo per la squadra di pallone, il vecchio cuore granata ha creato problemi non a uno qualunque ma addirittura un magistrato, pubblico ministero, Bucarelli Enzo, il quale, come riporta La Stampa, è finito indagato dalla Procura di Milano con l'accusa di frode in processo penale e depistaggio, la pena prevista dal codice è di anni dodici. Ma che c'entra il Toro, nel senso di squadra granata di football? C'entra eccome, o meglio c'entra un suo calciatore, Demba Seck, senegalese di anni ventidue, pure lui accecato ma dalla gelosia al punto da filmare alcune scene private e intime con la sua fidanzata, la relazione si sarebbe interrotta e il calciatore, per vendetta e gelosia, avrebbe minacciato la ragazza di diffondere il video comunque a lei inviato. La stessa «ex» aveva deciso di denunciare l'accaduto, depositando il filmato e così facendo scattare le indagini.
La pratica è finito sulla scrivania del Bucarelli che, dicono, sia, nei corridoi del tribunale, un curvaiolo granata e nel suo ufficio brilla la fotografia della squadra, in un quadro appeso al muro. A questo punto il magistrato ultras è sceso in campo, anzi nell'appartamento del senegalese allertando il procuratore, non di giustizia, ma agente del calciatore che la vicenda stava prendendo una brutta piega. Non è finita, quando carabinieri e finanzieri si sono presentati nell'alloggio si sono trovati di fronte già schierati i legali di Demba Seck e, completare la scena, il Bucarelli medesimo.
Stando sempre al racconto de La Stampa, il magistrato avrebbe prelevato il cellulare del calciatore cancellando le immagini incriminate anche dalla memoria e dalla cronologia del telefono. Dinanzi allo sconcerto degli astanti, il magistrato ha spiegato come non esistessero esigenze investigative dal momento che il filmato in questione era già in possesso della Procura. Pensava, il Bucarelli, di avere chiuso la partita con quel golden gol ma gli ufficiali della Guardia di Finanza sono andati ai supplementari e hanno compilato la relazione dei fatti presentandola al capo del pool anticorruzione, Enrica Gabetta, da qui al procuratore generale Francesco Enrico Saluzzo e da costui a Milano, a conoscenza di Tiziana Siciliano a capo del pool reati contro la pubblica amministrazione, in ultimo il procuratore generale della Cassazione che potrebbe provvedere a una sanzione disciplinare. Torino si agita per un'altra storia buffa, dopo i pettegolezzi Seymandi-Segre, qui siamo dinanzi al togato con bandiera granata al vento, un po' troppo accecato dal tifo per un episodio erotico rivisto al Var e cancellato dall'arbitro. Roba da espulsione e squalifica. Senza appello.
(ANSA martedì 12 settembre 2023 ) - La Sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio il "giudice-poeta", il magistrato del tribunale di sorveglianza di Perugia Ernesto Anastasio, che ha accumulato un arretrato di 858 fascicoli e che da dieci anni subisce contestazioni per i suoi ritardi.
"È un magistrato che sostanzialmente rifiuta il lavoro", "gettando discredito sull'intera amministrazione giudiziaria" si legge nell'ordinanza che ha accolto la richiesta della procura generale della Cassazione. L'intervento serve a evitare "ulteriore grave pregiudizio" ai diritti del detenuti e al funzionamento del tribunale di sorveglianza di Perugia.
"Discredito sulla categoria". Chi è Ernesto Anastasio, il “giudice-poeta” sospeso dal Csm: stop allo stipendio, aveva accumulato 858 fascicoli. Redazione su L'Unità il 12 Settembre 2023
Nell’ordinanza della Sezione disciplinare del Csm che mette nero su bianco la sospensione dalle funzioni, e anche dallo stipendio, Ernesto Anastasio viene descritto come un magistrato che “sostanzialmente rifiuta il lavoro”.
Il suo caso ha del clamoroso: 54enne napoletano originario di Piana di Sorrento, ribattezzato il “giudice-poeta” per il suo amore per la poesia, ha accumulato l’arretrato record di 858 fascicoli lavorando al tribunale di sorveglianza di Perugia e prima a Santa Maria Capua Vetere. Attanasio, come accertato dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, ha anche omesso di depositare, o in altri casi depositando ben oltre i termini previsti, provvedimenti relativi alla libertà personale o alle condizioni di vita in carcere dei condannati.
Contestazioni disciplinari che si sono accumulate nei confronti del magistrato per un decennio, tanto da spingere i magistrati del Csm a scrivere che il suo non-lavoro “getta discredito sull’intera amministrazione giudiziaria”. Anastasio i problemi di cumulazione dei fascicoli se li portava dietro in ogni tribunale in cui ha prestato servizio: anche da giudice a Torre Annunziata prima e a Santa Maria Capua Vetere poi. Per i suoi ritardi era stato sanzionato mentre lavorava nel tribunale in provincia di Caserta, dove si contavano 214 sentenze non redatte nei termini prestabiliti dalla legge, con la “punizione” del trasferimento d’ufficio a Perugia, dove non aveva però corretto il tiro con altre 800 tra sentenze e provvedimenti non depositati.
La situazione di Anastasio era nota da tempo al presidente del tribunale umbro, Antonio Minchella, dove il 54enne sorrentino aveva iniziato a lavorare dal novembre del 2021, cinque mesi dopo la data inizialmente prevista per il trasferimento da Santa Maria Capua Vetere in modo che potesse smaltire le pratiche in ritardo cumulate nel tribunale casertano. Similmente, un piano di smaltimento dei documenti lasciati indietro è stato avviato anche a Perugia: 400 fascicoli relativi a udienze collegiali saranno ora assegnati all’altro magistrato del tribunale, mentre circa 60 casi monocratici, ovvero affidati a un solo giudice, dovranno ripartire da zero.
A sollecitare il provvedimento, contestualmente all’avvio l’azione disciplinare, era stato il Pg della Cassazione Luigi Salvato, contestando ad Anastasio di aver violato i doveri di diligenza e laboriosità per aver ritardato “in modo reiterato, grave e ingiustificato” decisioni che dovevano essere prese con urgenza.
Ritardi che hanno inciso “molto negativamente” sulla funzionalità del Tribunale di Sorveglianza di Perugia secondo la Sezione disciplinare del Csm, rendendo difficile la gestione del rapporto con i detenuti e costretto i colleghi di Anastasio a un surplus di lavoro per smaltire i suoi fascicoli.
Anastasio aveva provato anche a difendersi davanti al Csm, come riferisce il Corriere del Mezzogiorno: “Non sono un idiota che si diletta a scrivere poesie e combina solo scelleratezze sul lavoro… qualcosa la capisco anche io e posso dire che in Italia non è vero che vanno separate le carriere di giudici e pm, ma quelle tra Civile e Penale. Ma questa è una verità della quale non si vuole nemmeno sentir parlare”, aveva dichiarato il giudice oggi sospeso. Anastasio allo stesso tempo aveva ammesso l’esistenza di un problema: “Sicuramente il problema è grave e non è giusto che un giudice combini tutto questo macello – aveva detto Anastasio ai colleghi del Csm – Ma voglio dire che ora fare il magistrato di sorveglianza mi piace e vorrei portare a termine il quadriennio, anche se sono certo che non morirò magistrato“.
A proposito delle poesie, della sua passione parla anche la perizia a cui è stato sottoposto durante il procedimento disciplinare, firmata dal docente di Psicopatologia forense Stefano Ferracuti, che ha ipotizzato un disturbo della personalità e ha certificato che il magistrato si sente oppresso da un lavoro che non gli dà soddisfazione perché i suoi interessi sono orientati in altri campi, scrive l’Ansa. Perizia a cui fa diretto riferimento l’ordinanza del Csm per spiegare perché la sospensione dalle funzioni sia una strada obbligata: non si può pensare che il magistrato corregga il tiro perché “non è in grado di superare con le sue attuali risorse psicologiche le difficoltà che incontra sul piano dell’efficienza lavorativa“. Redazione - 12 Settembre 2023
Estratto dell'articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” lunedì 21 agosto 2023.
Scene da teatro eduardiano al Csm. Protagonista un giudice napoletano, Ernesto Anastasio. Magistrato dal 1999, ha un problema: non scrive le sentenze. A centinaia, facendo infuriare gli avvocati. Per questo la Procura generale della Cassazione gli contesta «la violazione dei doveri di diligenza e laboriosità» e ne chiede la sospensione urgente da funzioni e stipendio.
Lui si difende, con tanto di certificato medico e perizia psicologica: rifiuta il lavoro perché non è quello che sognava. Voleva fare il poeta, ma il «complesso rapporto» col padre principe del foro lo portò alla giurisprudenza. Con la toga addosso non si sente realizzato.
(...)
Per difendersi, Anastasio deposita un certificato medico e chiede una perizia. Il Csm incarica Stefano Ferracuti, docente di psicopatologia forense alla Sapienza, «di accertare l'esistenza di patologie in grado di incidere sulla condotta del giudice».
Il professor Ferracuti lo visita due volte, sottoponendolo a test mentali. Infine dà il responso: Anastasio non ha «patologie tali da scemare o escludere la capacità di intendere e volere, ma è portatore di un disturbo di personalità. Unito a una serie di difficoltà esistenziali e personali, porta a una oggettiva procrastinazione e irresolutezza nell'adempiere i doveri professionali.
Per un verso è completamente consapevole della problematica, per altro verso non è in grado di opporsi a questa sua tendenza interna». Il perito scopre nell'inconscio del giudice «un problema molto più antico: si trova a svolgere un ruolo professionale che non è in alcun modo soddisfacente per i suoi obiettivi esistenziali, e le conseguenze sono quelle che si rilevano. Si è trovato a fare un lavoro che per lui non genera alcun tipo di soddisfazione personale o esistenziale; i suoi interessi, la sua immaginazione e il suo desiderio di realizzazione sono orientati in altri campi. Ha una notevole intelligenza e cultura letteraria, interessi poetici, ciò che a lui effettivamente interessa, e questo pone un problema complessivo di adeguamento al ruolo, perché è in una parte in cui non si trova bene».
Il giudice non voleva fare il giudice, ma il poeta. «Era molto più dotato per lettere», dice il perito. Probabilmente si iscrisse a giurisprudenza per seguire le orme del padre avvocato.
(...)
Giudice non scrive le sentenze e chiede la perizia psicologica: "Si boicotta, voleva fare il poeta". Il Tempo il 20 agosto 2023
Una storia davvero sorprendente sulla giustizia italiana è quella raccontata oggi dalla Stampa che vede come protagonista un giudice napoletano, Ernesto Anastasio, finito al centro di un procedimento del Csm. Il motivo? Il magistrato "non scrive le sentenze", sintetizza il quotidiano che ricostruisce l'intricata vicenda che ha aspetti davvero inediti.
Il tutto inizia nel 2021 quando Anastasio subisce una sanzione, la censura, per gravi ritardi come giudice civile a Santa Maria Capua Vetere. La situazione si aggrava nel tempo e i provvedimenti non scritti aumentano, anche a Perugia dove viene trasferito come giudice di sorveglianza. Finisce sotto procedimento del Csm, e per difendersi, Anastasio "deposita un certificato medico e chiede una perizia. Il Csm incarica Stefano Ferracuti, docente di psicopatologia forense alla Sapienza, di accertare l'esistenza di patologie in grado di incidere sulla condotta del giudice".
Ebbene, cosa emerge? Per l'esperto il giudice non ha "patologie tali da scemare o escludere la capacità di intendere e volere, ma è portatore di un disturbo di personalità". In sintesi, l'uomo è stato portato a seguire le orme del padre avvocato: "Non vive l'attuale lavoro come una forma di espressione di sé stesso (....) siccome pensa che non è quello che avrebbe davvero voluto fare, lo boicotta", scrive l’esperto secondo quanto ricorda la Stampa. Il giudice voleva fare il "poeta", ma si è trovato con la toga addosso. L'uomo ha commentato: "Vivo questa situazione di dissidio interiore. Il problema è grave, non sta bene che un giudice faccia tutto questo macello di provvedimenti non depositatí. Non credo che morirò magistrato, non mi pare plausibile", ammette. In pratica, Anastasio chiede di continuare a fare il giudice di sorveglianza. Il Csm deciderà nel giro di qualche settimana.
Ernesto Anastasio, il giudice che non scrive più le sentenze (e ama la poesia): «Il mio lavoro è opprimente». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera domenica il 21 agosto 2023
Dopo una prima sanzione a Santa Maria Capua Vetere, nel 2021 è stato trasferito a Perugia. Ma anche qui ha accumulato enormi arretrati: 800 provvedimenti non depositati in un anno e altri redatti in ritardo. «Non è giusto», dice, «ma adesso il lavoro mi piace e gli stessi avvocati che prima mormoravano adesso hanno iniziato a difendermi»
«Non sono un idiota che si diletta a scrivere poesie e combina solo scelleratezze sul lavoro... qualcosa la capisco anche io e posso dire che in Italia non è vero che vanno separate le carriere di giudici e pm, ma quelle tra Civile e Penale. Ma questa è una verità della quale non si vuole nemmeno sentir parlare». Davanti alla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura il giudice Ernesto Anastasio non ha negato il suo grande amore per la poesia, ma ha provato anche difendersi. Rilanciando. A suo dire la lentezza, una sorta di blocco mentale, nello scrivere sentenze e provvedimenti sarebbe da addebitare anche alla circostanza di essere stato assegnato a un settore, il Civile, descritto come una sorta di sentina del sistema giudiziario italiano. «Nonostante avessi chiesto di essere assegnato a funzioni penali — ha urlato davanti al Csm — sono stato schiantato sul ruolo più incommentabile e inqualificabile del Civile di Santa Maria Capua Vetere».
Le sentenze non redatte
Per Ernesto Anastasio, 54 anni, originario di Piano di Sorrento (Napoli), in magistratura dal 1999, ex Giudice Civile a Santa Maria Capua Vetere ed attualmente Giudice di Sorveglianza a Perugia, deriverebbe anche da questo il cumulo di arretrati da record: ben 214 sentenze non redatte nei termini. Dopo una prima sanzione a Santa Maria Capua Vetere, nel 2021 è stato trasferito a Perugia. Ma anche qui ha accumulato enormi arretrati. Si parla di 800 provvedimenti non depositati in un anno e altri redatti in ritardo. Una condotta che ha provocato le proteste degli avvocati e persino un’istanza collettiva di un gruppo di detenuti. Inevitabile l’azione disciplinare davanti all’organo di autogoverno dei magistrati, che si dovrà pronunciare nei prossimi mesi. La Procura Generale della Cassazione accusa il giudice Ernesto Anastasio di gravi violazioni ai «doveri di diligenza e laboriosità», prospettando per lui l’immediata sospensione dalle funzioni e dallo stipendio.
La passione per la poesia
«Sicuramente il problema è grave e non è giusto che un giudice combini tutto questo macello di provvedimenti non depositati — ha replicato di fronte al capo di incolpazione —, ma voglio dire che ora fare il magistrato di sorveglianza mi piace e vorrei portare a termine il quadriennio. Gli stessi avvocati che in un primo momento mormoravano per qualche ritardo hanno cominciato a difendermi... anche se sono certo che non morirò magistrato». Insomma il giudice Anastasio è conscio di aver «combinato un macello», come non nasconde la passione per la poesia sulla quale si è soffermato a lungo con il perito nominato dal Csm. Sullo sfondo anche una difficile situazione familiare, l’obiettivo mancato dell’ingresso in Polizia e persino l’ombra lunga del padre, ex principe del Foro, proprio nel Civile da lui tanto odiato. Una situazione che avrebbe determinato un forte disagio per il quale ha prodotto anche dei certificati medici. Ma in queste condizioni può continuare a fare il giudice? Da qui la perizia, per accertare eventuali patologie, assegnata a Stefano Ferracuti, docente di psicopatologia forense alla «Sapienza» che l’8 giugno scorso ha esposto le sue conclusioni. Per il perito il giudice avrebbe «un disturbo di personalità che lo porta a procrastinazione e irresolutezza nell’adempiere determinate mansioni».
«Idoneo a fare il bibliotecario»
«Appare — aggiunge — consapevole del problema, ma allo stesso tempo non è in grado di opporsi a questa spinta interna... si trova a fare un lavoro che non genera in lui alcuna soddisfazione essendo tutti i suoi interessi orientati in altri campi, letterari e poetici, e questo non è in alcun modo soddisfacente per i suoi obiettivi esistenziali». In pratica «si sente oppresso dal lavoro... quello che fa non è quello che avrebbe voluto e tende a boicottarlo. Lo sa, ma allo stesso tempo può far poco per evitarlo... si trova a vivere una vita che non avrebbe voluto vivere ed ha difficoltà ad uscirne». Anastasio ha condiviso in ogni punto le conclusioni del perito con il quale ha spiegato «mi sono sfogato, senza nascondere nulla del mio dissidio interiore». E dunque cosa fare? «Se in magistratura esistesse la possibilità di un demansionamento — conclude il perito — potrebbe svolgere altre mansioni. Non è idoneo a fare il lavoro di giudice, ma essendo dotato di notevoli qualità, ad esempio, potrebbe fare il bibliotecario».
Il leader calabrese di Md rischia una sanzione disciplinare dal Csm. Sirianni, il giudice suggeritore e le intercettazioni con Lucano. Il leader calabrese di Md rischia una sanzione disciplinare dal Csm. Il voto per la non conferma è previsto oggi in Plenum. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 12 Luglio 2023
Emilio Sirianni non ha i requisiti per poter continuare a ricoprire l’incarico di presidente di sezione presso la Corte d’appello di Catanzaro. Il voto per la non conferma è previsto oggi in Plenum. In quinta Commissione si sono espressi in suo sfavore Magistratura indipendente, Unicost e i laici. Per il Csm i comportamenti tenuti da Sirianni, segretario distrettuale di Magistratura democratica in Calabria, hanno inciso in maniera grave ed irreversibile sui requisiti di «autorevolezza culturale» e «indipendenza da impropri condizionamenti».
Sirianni nel 2017 era stato intercettato al telefono con Mimmo Lucano, all’epoca sindaco di Riace, nel mirino della Procura di Locri per la gestione dei migranti nel piccolo centro della costa ionica calabrese. Nelle innumerevoli telefonate fra i due Sirianni aveva dapprima fornito un contributo per cercare di ricostruire i rapporti fra Lucano e la Prefettura a seguito dell’ispezione nel centro di accoglienza gestito dal Comune di Riace, e poi aveva dato suggerimento per la linea difensiva da seguire nell’ambito dell’indagine penale al termine della quale Lucano sarà condannato in primo grado a 13 di prigione. Il magistrato aveva predisposto un’istanza di accesso agli atti e dei comunicati di solidarietà nei confronti di Lucano, anche mediante un documento redatto dalla direzione nazionale di Md.
Per non farsi mancare nulla, Sirianni si era lanciato in commenti offensivi («sbirro» e «fascista») nei confronti del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Sirianni, sentito al Csm, si era giustificato dicendo che si era limitato solo a formulare «opinioni», visto il rapporto di amicizia con Lucano.
Il tenore delle conversazioni intercettate, per il Csm, dimostrava invece l’esatto contrario (…ora ti dico due tre cose che secondo me si possono fare, mi ci metto un attimo e le scrivo e poi magari ci vediamo. Perché ci sono due o tre cose in cui si può essere, secondo me un po’ più dettagliati ed efficaci nella risposta e poi dopo quello che cazzo vogliono fare fanno, insomma, va bene?; ma l’hai letta quella cosa che ti ho mandato?…).
E ancora: («…e fatela fatela, voglio sapere cosa cazzo rispondono ed io domani vado a Roma a parlare con i vertici nazionali della Magistratura democratica, voglio parlare di questa situazione e poi ti faccio sapere»; poi me l’ha mandato e io ieri l’ho mandato su tutte le mail list dei magistrati, gli ho detto di mandarlo sul mio indirizzario, gli ho detto di farlo girare anche ad altri, già a quest’ora avrà raggiunto un sacco di gente… però ancora non ho visto niente sui giornali…).
Molto attivo, infine, riguarda l’intervista da fare con L’Espresso. Sirianni: «…ma vogliamo fare venire questo cazzo di giornalista dell’Espresso? Quello l’altra volta mi ha mandato un Whatsapp per sapere se c’erano novità. Io gli ho detto senti adesso devo parlare con Mimmo (Lucano, ndr)…».
Lucano: «Vedi che mi ha chiamato quello dell’Espresso!»; Sirianni: «Ah, ti ha chiamato finalmente»; Sirianni: «…come siete rimasti con Tizian (Giovanni, all’epoca giornalista Espresso ora al Domani, ndr)?»; Lucano: «Con Tizian… devo chiamarlo oggi e lui farà in articolo»; Sirianni: «Tu gli devi dire Mimmo…però io prima che la pubblichi la voglio leggere»; Lucano: «Lui quando mi ha chiamato, mi ha detto così, non so se ti ha detto Emilio, quindi mi ha chiamato come se ha parlato con te»;
Sirianni: «Vabbè io ci ho parlato all’epoca, poi…»; Lucano: «Ma lui così mi ha telefonato oggi, te l’aveva detto Emilio che io volevo…si me l’ha detto. È uno di Bovalino tra l’altro, è delle nostre zone»; Sirianni: «Sì sì, ma poi poveraccio, questo ha avuto il papà ammazzato dalla ‘ndrangheta, lui…la sua storia ha scritto un libro, il padre non mi ricordo se era un imprenditore. Non mi ricordo bene questo, ma è stato ammazzato a Bovalino dalla ‘ndrangheta e poi lui se ne è andato al Nord Italia e poi là ha fatto gli articoli contro la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto che ha infiltrazioni in Emilia Romagna e l’hanno dovuto mettere sotto protezione perché questi se lo volevano ‘pulire’. No dovrebbe essere uno in gamba, poi ha fatto un articolo l’altro giorno, una bella inchiesta sul ritorno dei fascisti in Italia, su tutta una serie di collegamenti partendo dalla Mafia Capitale. Dovrebbe essere uno in gamba però per principio quando uno ti fa un’intervista telefonica, prima di pubblicarla me la devi mandare per e-mail perché la devo leggere. Perché non si sa mai, meglio non fidarsi mai di nessuno». Paolo Pandolfini
Milano, caos in Procura. Uno dei pm è indagato per pedopornografia. Luca Fazzo il 30 Maggio 2023 su Il Giornale.
Il viceprocuratore onorario del Palazzo di Giustizia finisce in un'inchiesta sui pedofili
È uno dei tanti peones della giustizia, i magistrati avventizi e pagati a cottimo sulle cui spalle grava buona parte del carico dei processi considerati di scarsa importanza. Da una manciata di giorni, il viceprocuratore onorario - questa la denominazione ufficiale dell'incarico - in servizio nel Palazzo di giustizia di Milano è al centro di una delicata inchiesta per pedopornografia. Il suo nome è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Brescia che è competente per i reati commessi dai magistrati in servizio a Milano: sia che si tratti di toghe a tempo pieno che di precari della giustizia quali sono i Vpo.
La voce secondo cui un magistrato onorario era finito sotto accusa circolava a Milano già dagli ultimi giorni della scorsa settimana, e si era anche sparsa la notizia secondo cui nei confronti del sospettato erano scattati gli arresti domiciliari. Ieri, anche se non vengono forniti dettagli, arrivano conferma e chiarimenti: l'indagine esiste, il pm è indagato ma nei suoi confronti per ora non sono stati disposti provvedimenti restrittivi.
Tra i pochi dettagli c'è che si tratterebbe di una figura assai nota nelle aule dove si svolgono i processi considerati «minori»: quasi tutte al piano terreno del palazzo di giustizia milanese ospitano sia le convalide degli arresti avvenuti nella notte da parte delle Volanti sia i giudizi per direttissima. In queste aule si fronteggiano i gradi meno elevati del mondo giudiziario: da una parte avvocati quasi sempre d'ufficio, dall'altra procuratori onorari sommersi da decine di fascicoli in cui si orientano a fatica. L'accusato di pedopornografia è uno tra i più noti ed esperti tra i Vpo in servizio a Milano, noto anche per una apprezzabile solerzia e indipendenza di giudizio.
Ma ora sull'uomo si abbatte una accusa che mette a rischio la sua carriera, oltre ad esporlo a un processo penale dove le pene previste sono assai severe. A imbattersi in lui sarebbe stata la stessa Procura di Milano, che alla lotta contro la pornografia infantile dedica una squadra apposita del Quinto dipartimento, che si occupa di «soggetti deboli», guidato dal procuratore aggiunto Letizia Mannella. Indagando su una rete di maniaci sessuali, e risalendo a ritroso dagli indirizzi informatici dei partecipanti allo scambio di immagini di bambini sessualmente esplicite, gli inquirenti sarebbero arrivati alla casella dell'uomo. Lo hanno identificato, e qui è arrivata la sorpresa: si trattava di un magistrato, seppure onorario, in servizio nella stessa Procura.
A quel punto la dottoressa Mannella non ha potuto fare altro che sospendere l'indagine perché il codice parla chiaro: una Procura non può indagare sui suoi stessi componenti. Il nome del Vpo è stato stralciato dal resto dell'indagine e trasmesso a Brescia, dove il capo della Procura locale Francesco Prete lo ha assegnato a uno dei suoi pm. Indagine ancora agli inizi, responsabilità ancora da accertare, ma intanto una nuova, ennesima grana per una Procura che fatica a tornare alla normalità.
Giustizia&favori a Lecce, arrestato l’ex pm Emilio Arnesano. Definitiva, dopo la Cassazione, la condanna a 6 anni per corruzione in atti giudiziari. GIANFRANCO LATTANTE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Giugno 2023
Arrestato l’ex pubblico ministero Emilio Arnesano di 65 anni. Ieri mattina i carabinieri si sono presentati nella sua abitazione di Carmiano e lo hanno accompagnato nella Casa circondariale di borgo San Nicola. Il provvedimento di carcerazione per l’ex magistrato era nell’aria dopo il verdetto della Corte di Cassazione che ha reso irrevocabile e definitiva la condanna a sei anni per corruzione in atti giudiziari. La sentenza della Suprema Corte è dell’altro giorno: confermati i due principali capi di accusa, relativi allo scambio di favori nei confronti di due medici (l’allora direttore generale della Asl di Lecce Ottavio Narracci e l’allora primario di Neurologia dell’ospedale “Vito Fazzi” Giorgio Trianni di Gallipoli) attraverso l’intermediazione di Carlo Siciliano, all’epoca dei fatti direttore del Dipartimento di Medicina del Lavoro e Igiene Ambientale dell’Asl di Lecce.
Attraverso Siciliano, l’ex pm avrebbe acquistato un’imbarcazione a prezzo di favore ( 28mila euro anziché i 45mila di effettivo valore) per aver chiesto ed ottenuto in dibattimento l’assoluzione di Narracci pur non essendosi mai occupato nel corso delle indagini preliminari. E sempre grazie all’intermediazione di Siciliano si sarebbe attivato per il dissequestro di un manufatto ritenuto abusivo di Trianni in cambio del pagamento dei costi di due battute di caccia.
La Cassazione non ha confermato l’intera sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello di Potenza che aveva inflitto 10 anni di reclusione all’ex sostituto procuratore. Sono stati annullati con rinvio dinanzi alla Corte d’Appello di Salerno altri cinque capi di imputazione relativi a presunti episodi di corruzione di rivelazione di atti d’ufficio.
Il nuovo processo si celebrerà davanti alla sezione della Corte d’Appello di Salerno perché a Potenza c’è una sola sezione. Ecco perché l’ordinanza di carcerazione, che è stata eseguita ieri mattina dai carabinieri della stazione di Carmiano, è stata emessa dalla Procura generale di Salerno.
L’inchiesta che ha travolto l’ex magistrato, in servizio presso la Procura di Lecce, uscì allo scoperto nel dicembre del 2018, al termine delle indagini condotte dalla Guardia di Finanza. La Procura di Potenza ottenne dal gip sei arresti, fra cui quello del magistrato che da Lecce fu condotto nella Casa circondariale di Potenza. Dopo circa sette mesi di custodia cautelare trascorsa fra carcere e domiciliari, Arnesano fu rimesso in libertà.
L’inchiesta - come detto - ruotava attorno a presunti favori e prestazioni sessuali ottenuti dal magistrato “con abuso e vendita delle proprie funzioni”. Accuse dalle quali, nel corso del processo, l’ex magistrato si era difeso: «Sono sereno, io non ho fatto nulla di quello di cui mi si accusa. Mai con nessuno».
Incarichi pilotati al tribunale di Lecce, due giudici tra gli indagati. Tra le accuse c'è tentata concussione, corruzione e turbativa d’asta. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Settembre 2023
Sotto accusa i giudici del Tribunale di Lecce
Sono dieci gli indagati che compaiono nell’avviso di conclusione delle indagini avviate dalla Procura di Potenza nel settembre 2021 su un presunto giro di incarichi pilotati alla sezione fallimentare del tribunale di Lecce in cambio di favori, regali e varie utilità.
Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ci sono due giudici leccesi: Pietro Errede, 55 anni, all’epoca dei fatti giudice delle sezioni Fallimentare/Esecuzioni immobiliari e dal maggio scorso ai domiciliari; e Alessandro Silvestrini, 67 anni, indagato a piede libero.
L’avviso di conclusione delle indagini è a firma del procuratore capo Francesco Curcio e dei sostituti procuratori Maurizio Cardea, Vincenzo Montemurro e Anna Piccininni.
Tra gli indagati anche tre avvocati, tre consulenti commercialisti, un geometra e un imprenditore. Le accuse contestate a vario titolo sono di tentata concussione, corruzione, turbativa d’asta, estorsione, tentata estorsione.
Chiuse le indagini della Procura di Potenza sulla sezione fallimentare del Tribunale di Lecce: a rischio processo due magistrati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Settembre 2023
Le accuse contestate a vario titolo sono la tentata concussione, corruzione in atti giudiziari, turbativa d’asta e un tentativo di estorsione in danno dell’ex sindaco di Carmiano, Giancarlo Mazzotta, per ottenere un cronografo Rolex Daytona del valore di oltre 20mila euro.
La Procura di Potenza ha notificato un avviso di conclusione delle indagini preliminari in relazione all’inchiesta su giustizia e favori alla sezione Fallimentare del Tribunale civile di Lecce nei confronti di dieci persone tra i quali figurano due magistrati: Pietro Errede, sottoposto agli arresti domiciliari, e Alessandro Silvestrini, indagato in stato di libertà. Rischiano il processo anche Alberto Russi, avvocato e compagno di Errede; Antonio Casilli, avvocato e consulente del Tribunale; i commercialisti Massimo Bellantone, Giuseppe Evangelista, Emanuele Liaci, Marcello Paglialunga, l’ex funzionario della Regione Puglia Antonio Vincenzo Salvatore Fasiello, e l’imprenditore Eusebio Giovanni Mariano, di Surbo.
L’impianto accusatorio viene confermato di fatto dal procuratore della Repubblica Francesco Curcio, e dal procuratore aggiunto Maurizio Cardea e dai pm Vincenzo Montemurro e Anna Piccininni. Le accuse contestate a vario titolo sono la tentata concussione, corruzione in atti giudiziari, turbativa d’asta e un tentativo di estorsione in danno dell’ex sindaco di Carmiano, Giancarlo Mazzotta, per ottenere un cronografo Rolex Daytona del valore di oltre 20mila euro.
Secondo la Procura di Potenza Errede avrebbe acquistato personalmente il Rolex, che in seguito sarebbe dovuto essere “rimborsato” dal Mazzotta, imprenditore e titolare della società “Barone di Mare“, sottoposta all’epoca dei fatti a misura di prevenzione e quindi al controllo giudiziario , ma all’insaputa del magistrato. Nell’inchiesta si è parlato, in buona sostanza, di incarichi in qualche modo “pilotati” e di una serie di regalie giunte al giudice Errede per il tramite dei consulenti.
Il “sistema” vigente al Tribunale Fallimentare di Lecce era fondato su una circuito di contatti e amicizie, i cui indagati sono stati sottoposti a intercettazioni ambientali e telefoniche. L’indagine ha origine da un esposto presentato alla Procura, a Lecce da Saverio Congedo ed Emanuele Macrì, in qualità di professionisti nominati quali amministratori giudiziari nell’ambito di una procedura. Procedimento che è stata trasmesso alla procura di Potenza competente su presunti reati commessi negli uffici giudiziari di Brindisi, Lecce e Taranto.
La procura guidata da Francesco Curcio ha quindi dato il via ad ulteriori necessari approfondimenti investigativi. Al magistrato Errede sarebbero state fornite delle informazioni privilegiate su un’asta giudiziaria, oltre a una serie di elargizioni, mentre Il magistrato Silvestrini risponde di due episodi di presunta corruzione in atti giudiziari. Uno dei quali in concorso con il commercialista Massimo Bellantone, che gli avrebbe garantito (secondo le tesi accusatore) una “sponsorizzazione” al Csm per la sua nomina a presidente del Tribunale, che è ancora sub judice, e l’altro episodio è relativo alla gestione “pilotata” di un’asta giudiziaria in cambio di una partita di tegole per la ristrutturazione di un’ abitazione ed incredibilmente della regalia di una cernia da quattro chili (che in realtà una ricciola) . Redazione CdG 1947
Arrestato dalla Procura di Potenza il magistrato Pietro Errede: corruzione e turbativa d’asta. Il Csm dorme o insabbia? Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Maggio 2023
Gli indagati in totale sono dieci. Nel provvedimento cautelare emesso dal gip del tribunale di Potenza le accuse contestate a vario titolo sono: concussione, corruzione in atti giudiziari, turbata libertà degli incanti ed estorsione. Indagato un altro magistrato in servizio nel tribunale di Lecce che tramite il Sen. Marti cercava di arrivare a Matteo Salvini per farsi "sponsorizzare" al CSM
Il magistrato pugliese Pietro Errede, fino a poco tempo fa in servizio come giudice delle sezioni Fallimentare/Esecuzioni Immobiliari/Misure di Prevenzione del Tribunale di Lecce , ed ora in servizio negli uffici giudiziari di Bologna, l’ “amico” del magistrato, avvocato Alberto Russi in relazione al quale il Gip del Tribunale di Potenza dr. Salvatore Pignata ha ritenuto dimostrata la tentata estorsione non consumata, e tre commercialisti Massimo Bellantone, Emanuele Liaci, Marcello Paglialunga che sono finiti ai domiciliari per corruzione in atti giudiziari su disposizione della Procura di Potenza.
La “cricca” di professionisti all’insaputa di Errede, costringeva soggetti privati le cui aziende erano sottoposte ad amministrazione giudiziaria a pagare loro il corrispettivo di 20mila euro per un orologio Rolex, in realtà già pagato realmente, anche se ad un prezzo vantaggioso dal dr. Errede, somma che non risultava corrisposta personalmente al giudice.
Gli indagati in totale sono dieci, tra i quali un altro magistrato in servizio nel tribunale di Lecce. Nel provvedimento cautelare emesso dal Gip dr. Pignata del Tribunale di Potenza le accuse contestate a vario titolo sono: concussione, corruzione in atti giudiziari, turbata libertà degli incanti ed estorsione. Sono in corso delle perquisizioni negli studi di commercialisti e professionisti, alcuni dei quali sono stati convocati in caserma per essere interrogati.
Errede era già iscritto nel registro degli indagati nel procedimento per corruzione e turbativa d’asta. L’inchiesta era partita un anno fa dopo un esposto anonimo in relazione ad un giro di nomine e incarichi “pilotati” nel Tribunale fallimentare di Lecce, oltre ad una presunta interferenza in un’asta giudiziaria in cambio di favori, e dalle successive dichiarazioni verbalizzate il 21 settembre 2021 da Saverio Congedo e Michele Macrì amministratori giudiziari di due società al centro di una articolata vicenda, al culmine della quale era stato poi proposto l’inserimento di un “coadiutore”, persona per l’appunto alquanto vicina a Errede. I due denuncianti avrebbero mostrato gli screenshot delle conversazioni whatsapp ai pm di Potenza.
Da queste evidenze vennero disposte una serie di ulteriori verifiche e grazie alle intercettazioni telefoniche ed ambientali, copiosa acquisizione di documenti, analisi e studio di tabulati telefonici, messaggistica ed atti giudiziari compiuti dagli attenti investigatori delle Fiamme Gialle salentine, affiancate dai magistrati della Procura di Potenza, sarebbe poi venuto alla luce un quadro che ha portato alla esigenza di compiere delle perquisizioni. Un intero capitolo delle indagini del nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Lecce è dedicato alla “collana tennis di brillanti” fornita da un consulente che sarebbe una “collana tennis di brillanti di particolare valore commerciale, a un prezzo pressoché simbolico“.
Una nota ufficiale della procura di Potenza rende noto che il Gip, “in relazione ad ulteriori episodi di corruzione in atti giudiziari e tentata concussione contestati da questo ufficio, ha motivatamente ritenuto, per ragioni di carattere giuridico o probatorio, di non condìvidere l’impostazione accusatoria. Tale decisione viene doverosamente rispettata ed è dimostrativa, ancora una volta, della terzietà del giudice. Per tali aspetti, tuttavia la stessa sta per essere impugnata da parte di questo Ufficio e, quindi, sarà oggetto di appello innanzi al Tribunale del Riesame di Potenza“
Per dovere di cronaca segnaliamo che il Csm aveva avviato un procedimento poi incredibilmente “archiviato” per incompatibilità ambientale, che ha costretto il giudice Errede a trasferirsi da Lecce a Bologna. Ma non solo. Recente la 5a commissione ( incarichi semidirettivi del Csm) aveva proposto la presidenza del Tribunale di Lecce per il giudice della sezione Commerciale e Fallimentare Alessandro Silvestrini, con 4 voti al plenum, 2 voti sono andati al reggente, Roberto Tanisi), mentre la procura di Potenza ha chiesto i domiciliari per il giudice Silvestrini che risponde di un episodio di “corruzione in atti giudiziari” in concorso con il commercialista Massimo Bellantone. Secondo le ipotesi accusatorie del procuratore della Repubblica Francesco Curcio, Bellantone avrebbe accettato di sponsorizzare politicamente la nomina di Silvestrini alla presidenza, attraverso i membri laici del Csm in cambio di una “preminenza” negli incarichi e nelle consulenze ottenute dal Tribunale di Lecce.
Secondo l’impianto accusatorio della Procura di Potenza Bellantone avrebbe quindi chiesto, al segretario regionale pugliese della Lega, il Sen. Roberto Marti, di impegnarsi su tale fronte, e si sarebbe impegnato a contattare direttamente il leader della Lega Matteo Salvini (che ha indicato il nuovo vicepresidente Pinelli, così come ìnvece contava su Rocco Casalino per il M5s.
“Sto andando con Roberto (senatore Roberto Marti n.d.r.) questa sera mi vedo con Paganella (senatore Andrea Paganella, capo della segreteria politica di Matteo Salvini n.d.r.) , che mi deve organizzare l’incontro per domani direttamente con Salvini” dice Bellantone in una conversazione intercettata. Il giudice Silvestrini risponde: “Quindi mi chiamate e io vengo“. Aggiungendo: “Si io prendo la macchina e fino alle due arrivo, al limite». Oltre che per Silvestrini i domiciliari erano stati richiesti anche per Giuseppe Evangelista e Antonio Casilli. La procura aveva chiesto il carcere per il giudice Pietro Errede, per il suo compagno, l’avvocato Alberto Russi, e per Massimo Bellantone.
Secondo le indagini condotte dalla Guardia di Finanza di Lecce, il giudice Silvestrini, presidente della sezione Fallimentare il cui nome era già emerso lo scorso anno in occasione di una perquisizione, a seguito della quale si era dichiarato estraneo agli addebiti avrebbe affidato numerosi incarichi al commercialista Massimo Bellantone (finito ai domiciliari per altri due episodi) in cambio dell’interessamento di quest’ultimo per “una attività di sponsorizzazione” politica, proprio ai fini della nomina a presidente del Tribunale. Un’attività che avrebbe coinvolto i vertici locali e nazionali della Lega ma di cui, però, non c’è alcun riscontro. Inoltre Bellantone, sempre secondo le indagini della procura di Potenza avrebbe anche chiesto all’imprenditore Giancarlo Mazzotta, esponente di Forza Italia, ex sindaco di Carmiano, di “avvicinare” altri politici, sempre per lo stesso scopo.
Il Gip Pignata ha rigettato la richiesta per il suo collega Silvestrini. Garantismo ? Colleganza ? Impianto accusatorio debole ? Lo deciderà per il momento il Tribunale del Riesame di Potenza a cui la Procura di Potenza ha annunciato ricorso. Redazione CdG 1947
Estratto dell’articolo di F. Ame. per “la Verità” il 30 maggio 2023.
Gli incarichi agli avvocati della sua corte venivano ricambiati con regalini, vacanze e feste esclusive. Per «l’uso strumentale dell’attività giudiziaria», il magistrato pugliese Pietro Errede, fino a poco tempo fa in servizio al Tribunale di Lecce e ora a Bologna, un avvocato e tre commercialisti sono finiti agli arresti domiciliari.
Un esposto anonimo arrivato in Procura a Potenza, competente a indagare sui magistrati di Lecce, aveva acceso un faro su un presunto giro di incarichi pilotati al Tribunale fallimentare leccese. Il capo della Procura potentina Francesco Curcio ha subito puntato su una ipotizzata interferenza per un’asta giudiziaria. Ed è emerso il sospetto che dietro ci fosse un mercimonio.
Il settore, quello dei fallimenti e delle misure di prevenzione, è molto delicato. E gli investigatori della Guardia di finanza delegati dalla Procura di Potenza a ficcare il naso in quello che si è scoperto essere un suk si sono mossi con una certa accortezza.
Finché non hanno scoperto che due soci di un’azienda finita in amministrazione giudiziaria sarebbero stati costretti a versare denaro per tentare di schivare le azioni giudiziarie. A quel punto hanno cominciato a convocare i testimoni e il coperchio è subito saltato dalla pentolaccia.
[…] Il perno attorno al quale tutto sarebbe ruotato, stando all’accusa, è proprio Errede, in passato pm nel caso del rapimento e omicidio del piccolo Tommaso Onofri e moralista nella vicenda delle nomine al Csm che coinvolse Luca Palamara.
Beccato a pronunciare queste parole con il dipendente di una concessionaria di automobili della quale stava curando una procedura di controllo giudiziario e dove aveva comprato una Mini Cooper: «Io non devo correre dietro a nessuno, che non ti dimenticare quello che sono e quello che rappresento a Lecce, cioè voglio dire, non ci dobbiamo stare a prendere in giro, se devo usare il potere lo uso, male ma lo devo usare con voi, che devo fare?».
L’avvertimento, secondo quanto ha ricostruito la Procura, era legato alla pretesa di restituire la Mini Cooper dopo un anno di utilizzo «alla medesima cifra, paventando presunti difetti alla centralina».
Il «potere» al quale faceva riferimento d’altra parte, hanno ricostruito i finanzieri, poteva esercitarlo come preferiva. Anche tramite le nomine di persone di sua fiducia scelti come coadiutori nelle procedure. Gli indagati sono 10. E tra questi, proprio per delle pressioni sugli amministratori giudiziari dei controlli per favorire la nomina di Antonio Casilli, è finito nei guai Alberto Russi («quest’ultimo convivente del giudice», annota il gip).
In altri casi sceglieva lui direttamente i curatori dei fallimenti. E agli incarichi corrispondevano, secondo l’accusa, dei regalini. Marcello Paglialunga, per esempio, diventa curatore fallimentare in una decina di procedure. Da lui, ha scoperto la Guardia di finanza, avrebbe ricevuto un Ipad 4 poi sostituto con un Iphone 13, una collana tennis di brillanti da 12.000 euro e un incarico legale per Russi con immediato versamento di un anticipo da 2.450 euro.
Una vicenda simile a quella che vede coinvolto Emanuele Liaci, nominato in una ventina di procedure di vendita. Il «prezzo del mercimonio della funzione giudiziaria pagato a Errede da Liaci», annota il gip, sarebbe stata «l’organizzazione e il pagamento di una crociera in Grecia» con tanto di «noleggio di una imbarcazione a vela» per Errede e i suoi cinque ospiti (tra i quali il compagno del giudice e la sorella Maria Grazia). Costo: 3.000 euro. […]
Altro incarico, altri regali. Questa volta le vittime sono note, perché finite nella storia dell’affare delle armi che Massimo D’Alema avrebbe tentato di mediare con il governo della Colombia: Paride e Giancarlo Mazzotta (il primo consigliere regionale in Puglia, il secondo ex sindaco di Carmiano).
Ai due, che avevano grane con la società di famiglia Pgh Barone di Mare, il commercialista Massimo Bellantone avrebbe fatto sapere che «per non incorrere in provvedimenti giudiziari più incisivi, bisognava sottostare alle richieste economiche della coppia Errede-Russi, bisognava individuare un commerciante di fiducia che avrebbe dovuto fornire al giudice un raro Rolex Daytona.
[…]
Regalo dopo regalo, il pm di Potenza ha cominciato a costruire i capi d’imputazione (ben 12), con le accuse di concussione, corruzione in atti giudiziari, turbata libertà degli incanti ed estorsione. Il gip di Potenza ha anche ordinato sequestri preventivi «nella forma diretta o per equivalente» a carico degli indagati, pari al «profitto illecito conseguito». Che nel caso di Errede corrisponde a 12.000 euro, più tutte le regalie.
Il caso Errede a Lecce: giustizia, brillanti e Rolex. Una collana da 7.100 euro come regalo di compleanno. LINDA CAPPELLO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Giugno 2023
Come tutti i magistrati di lungo corso, anche il giudice Pietro Errede gode di un’ampia disponibilità economica. Ma nonostante le somme di tutto rispetto possedute sul conto corrente, il magistrato - ai domiciliari dal 29 maggio scorso con l’accusa di corruzione in atti giudiziari e sospeso dal Csm - si è ben guardato dal rimborsare i 7.100 euro spesi dal suo amico, il commercialista Marcello Paglialunga - pure lui agli arresti - per la collana di brillanti che l’allora giudice della sezione commerciale del Tribunale di Lecce aveva intenzione di regalarsi per il suo 55esimo compleanno.
Nelle nuove carte dell’inchiesta, i militari della Guardia di Finanza ricostruiscono con dovizie di particolari l’episodio della collana, individuata come «merce di scambio» poiché lo stesso Paglialunga - presidente del Cda della «Esposito Group Oro e Metalli Preziosi Spa», poi fallita e ora divenuta EGM Spa - aveva nominato come legale di fiducia della società l’avvocato Alberto Russi, convivente di Errede, pure lui ai domiciliari. Una scelta fatta, secondo gli inquirenti, non su criteri meritocratici ma in base a logiche di «convenienza». E che rientra nella fitta rete di trame basate su scambi di favori fra il magistrato e la sua cerchia di professionisti nominati nelle diverse procedure, così come sostenuto dalla procura di Potenza.
Il gioiello, sequestrato la scorsa estate dai baschi verdi, era stato prodotto dal noto designer Giorgio Visconti, e sulla scorta di una perizia il suo valore commerciale era di circa 12mila euro. Un girogola lungo 50 centimetri con pietre - viene riportato nel certificato di garanzia - di ben 2,78 carati.
In una intercettazione, Errede e Paglialunga parlano proprio della tipologia di collana da acquistare:
Pietro: «…Senti no ti volevo dire queste cose vanno anche sapute portare…indossare secondo me, perché per esempio ci sono dei mazzaroni che te li vedi con queste cose»;
Marcello: «no, vabbè, che c’entra, mica puoi paragonarti a quelli…dai…»;
P: «no, dai, io voglio dire cioè…io per esempio…quando mi metto qualcosa lo vedi no?»;
M. «ma ci mancherebbe»;
P: «cioè è anche con nonchalance le metti con nonchalance i tennis, gli orologi, le cose no? Queste sono veramente cose belle…»;
M: « (…) alcune gioiellerie, quindi diciamo il grossista, quello importante…allora mi ha detto, guarda questo…è inutile che vai su quelli grossi»;
P: «no no»;
M: «è quello che è più raffinato e quello che va di più, fra l’altro»;
P: «no ma infatti io non li volevo…»;
M: «tra l’altro è anche di una marca importante»;
P: «no…io non li voglio quelli grossi…(…) sono pacchiani»;
M: «no no questo dice: “guarda è quello più di classe”»;
P: «cioè quello che si vede e non si vede, cioè che tu lo metti intorno al collo…è un filo e si vede»;
M: « guarda a te sta perfetto. Io ho detto però portamelo, cioè fammelo avere…»;
P: «senti però secondo me per come sei tu…»;
M: «così lo provi»;
P: «sì ovvio. Per come sei tu Marci io veramente una cosa del genere la vedrei anche su di te, perché anche tu sei disinvolto».
Gioielli e orologi sembrano essere la vera passione del magistrato originario di Monopoli. Tant’è che l’inchiesta racconta di un orologio Rolex Daytona, acquistato per Errede dall’ex sindaco di Carmiano Giancarlo Mazzotta, proprietario del complesso turistico Barone di Mare, colpito da interdittiva antimafia la cui procedura era affidata proprio al giudice. Nella sua lunga deposizione davanti al procuratore capo Francesco Curcio, Mazzotta svela anche altri retroscena. Come quello secondo cui un funzionario della Prefettura - che si era occupato dell’interdittiva - gli avrebbe consegnato il curriculum di una sua parente per farla assumere alla Bcc Terra D’Otranto, chiedendogli di intercedere presso il presidente. Richiesta alla quale però non fu dato seguito.
Ieri a Potenza erano fissati gli interrogatori per l’avvocato leccese Antonio Casilli e per il giudice del Tribunale Fallimentare di Lecce Alessandro Silvestrini, per i quali la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari, non concessi dal gip. Il primo si è avvalso della facoltà di non rispondere, il secondo ha posticipato l’interrogatorio a venerdì.
Lecce, inchiesta sul Tribunale Fallimentare: anche un magistrato ai domiciliari. Arrestato Pietro Errede, giudice di Monopoli, trasferito dal Csm a Bologna. Il gip di Potenza: «Uso strumentale dell’attività giudiziaria per procacciare utilità personali». Dieci gli indagati, c’è un altro magistrato. REDAZIONE ONLINE il 29 Maggio 2023 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
Tentata concussione, corruzione e turbativa d’asta in relazione alle attività della sezione Commerciale del Tribunale di Lecce sono le accuse contestate a vario titolo a dieci persone in una inchiesta della Procura di Potenza che stamattina ha portato all’esecuzione di cinque misure cautelari ai domiciliari.
Tra le persone arrestate c’è il giudice Pietro Errede, originario di Monopoli, recentemente trasferito al Tribunale di Bologna, oltre che un avvocato e tre commercialisti.
Tra gli indagati a piede libero dalla Procura di Potenza vi sarebbero un altro magistrato in servizio nel Tribunale di Lecce, e due avvocati, uno del Foro di Lecce e uno di Roma. Le accuse contestate a vario titolo nel provvedimento cautelare emesso dal gip del Tribunale di Potenza sono dunque di concussione, corruzione in atti giudiziari, turbata libertà degli incanti ed estorsione.
In relazione al magistrato Pietro Errede, il «quadro indiziario» descritto dal gip di Potenza parla di «un uso strumentale dell’attività giudiziaria utilizzata per procacciare utilità personali non solo al magistrato (vacanze, preziosi, device, feste) ma anche ai professionisti che ruotavano intorno a lui, che beneficiavano degli incarichi dati dal magistrato e che per questo lo ricambiavano». Il gip di Potenza, dunque, ha ordinato l’arresto ai domiciliari - eseguito dalla Guardia di Finanza - del magistrato Pietro Errede, attualmente presso il tribunale di Bologna ma all’epoca dei fatti giudice delle sezioni fallimentare-esecuzioni immobiliari nonché misure di prevenzione del tribunale di Lecce. Oltre a Errede, agli arresti domiciliari sono stati posti anche tre commercialisti e un avvocato: Massimo Bellantone, Alberto Russi, Marcello Paglialunga ed Emanuele Liaci.
Le indagini, cominciate nel settembre del 2021, si sono basate sull'ascolto di testimoni e parti offese, intercettazioni telefoniche e ambientali, sequestro di documenti e approfondimenti su tabulati telefonici, messaggi e atti giudiziari. I reati ipotizzati sono: tentata concussione, tentata estorsione, estorsione consumata e più ipotesi di corruzione in atti giudiziari.
In un aspetto dell’inchiesta, due degli arrestati avrebbero costretto privati le cui aziende erano in amministrazione giudiziaria a dare denaro poi non versato a Errede. Si era avviato - secondo i risultati delle indagini della procura della Repubblica di Potenza - «un meccanismo di reciproco scambio, fondato, da una parte, sull'assegnazione degli incarichi maggiormente remunerativi da parte del giudice a vari professionisti e, dall’altra, sull'ottenimento da parte del giudice di regalie e altre utilità».
Il gip di Potenza ha ordinato anche sequestri preventivi «nella forma diretta o per equivalente» a carico degli indagati pari al «profitto illecito conseguito». Su altri episodi di corruzione, il gip non ha concordato sull'impostazione accusatoria della Procura, che ha deciso di ricorrere al tribunale del riesame di Potenza.
Indagato anche il giudice Silvestrini, in corsa per la presidenza del Tribunale di Lecce. L'accusa: "Incarichi in cambio di sponsorizzazioni politiche". Ma il gip dice no all'arresto. MASSIMILIANO SCAGLIARINI il 29 Maggio 2023 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
Era in corsa per la presidenza del Tribunale di Lecce il giudice Alessandro Silvestrini, per il quale la Procura di Potenza aveva chiesto l’arresto ai domiciliari con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. Ma il gup Salvatore Pignata ha detto «no» alla misura cautelare, un diniego contro cui l’accusa ha già annunciato ricorso al Tribunale del Riesame.
Secondo le indagini condotte dalla Finanza di Lecce, Silvestrini, presidente della sezione Fallimentare (il cui nome era già emerso lo scorso anno in occasione di una perquisizione, quando l’uomo si era dichiarato estraneo agli addebiti) avrebbe affidato numerosi incarichi al commercialista Massimo Bellantone (finito ai domiciliari per altri due episodi) in cambio dell’interessamento di quest’ultimo per «una attività di sponsorizzazione» politica, proprio ai fini della nomina a presidente del Tribunale. Un’attività che avrebbe coinvolto i vertici locali e nazionali della Lega ma di cui, però, non c’è alcun riscontro.
Le indagini hanno acccertato che nel maggio 2022, poche settimane dopo il voto in Quinta commissione del Csm in cui Silvestrini aveva preso tre voti contro i due del collega Tanisi, Bellantone parlava con il giudice delle sue strategie per sensibilizzare i vertici della Lega: «Bellantone, evidentemente parlando sul solco di precedenti intese – secondo il gip -, entrava direttamente nel vivo della questione specificando di avere già in serata un appuntamento (evidentemente a Roma) per parlare con il capo della segreteria di Salvini onde sensibilizzarlo sulla questione “Silvestrini" per poi cercare di fissare la mattina seguente un incontro con l’onorevole Salvini Matteo in persona, mentre evocava il canale “Casalino” da contattare attraverso Simone Acquaviva». Le indagini hanno evidenziato che il giorno successivo a questa conversazione Bellantone è effettivamente stato a Roma, ma non ci sono conferme sul fatto che abbia effettivamente raggiunto gli interlocutori nominati: né Salvini né Rocco Casalino, all’epoca stretto collaboratore dell’ex premier Giuseppe Conte. «Da evidenziare - scrive infatti il Gip - come dai tabulati del traffico telefonico non risultino contatti fra il Bellantone ed i politici indicati nelle conversazioni».
Tuttavia agli atti delle indagini c’è la testimonianza di Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di Carmiano, che nella sua veste di imprenditore sarebbe stato in qualche modo costretto a nominare Bellantone, oltre che a pagare per un Rolex asseritamente richiesto dal giudice Errede. «Lo stesso Bellantone – dice Mazzotta - mi chiese di sollecitare i miei amici di Forza Italia per sostenere al Csm il Silvestrini in corsa per la presidenza del Tribunale di Lecce. Ciò avvenne nel corso o dopo la vicenda Rolex quindi nella tarda primavera o all’inizio dell’estate del 2022 . Io per non indispettirlo dissi che “avrei visto”. Ma ovviamente non feci nulla. Ricordo che Bellantone era molto bene informato in quanto mi disse che avrei dovuto attivarmi per fare giungere questa sollecitazione all’avvocato Cerabona e Lanzi del Csm eletti su proposta di Forza Italia».
A marzo 2023 la difesa di Silvestrini ha depositato una memoria per respingere tutte le accuse. Ma comunque il gip ha rilevato che gli incarichi concessi da Silvestrini a Bellantone (dal 2014 al 2019) fossero molto precedenti alla presunta promessa di aiuto con la nomina, e ha dunque ritenuto che «non emergono dagli atti di indagine elementi specifici per ritenere sussistente la prova del prospettato collegamento sinallagmatico diretto tra le condotte del citato magistrato e la “disponibilità” del citato professionista a promettere la descritta sponsorizzazione in favore del giudice stesso».
LA REPLICA DEL GIUDICE SILVESTRINI
Non tarda ad arrivare la replica del giudice Silvestrini che commenta così la vicenda: «Nulla so di questa asserita attività di “sponsorizzazione”; quel che posso dire è che il precedente CSM (che ha cessato di operare nel febbraio di quest’anno) non ha potuto mai deliberare sulla mia eventuale nomina a presidente di tribunale, perché a causa delle indagini della Procura di Potenza ha dovuto soprassedere a qualsiasi decisione; posso anche affermare con certezza che il professionista - che si sarebbe attivato a mio favore - negli ultimi quattro anni non ha ricevuto alcun incarico e comunque il fatto che io goda della stima dei professionisti del posto non ha alcun rilievo penale».
«Sono certo che il procuratore della Repubblica - ha aggiunto Silvestrini in una nota - quando mi avrà finalmente ascoltato, si convincerà che non vi è alcun motivo di continuare ad indagare; sono pure certo che, a dispetto delle illazioni di molti, non vi è alcun collegamento fra tali indagini e la procedura di assegnazione del posto di presidente del tribunale. E che, per una mera coincidenza, il mio interrogatorio è stato fissato a pochi giorni dalla deliberazione con la quale la quinta commissione del CSM ha proposto a maggioranza la mia nomina a presidente del Tribunale».
Inchiesta sui favori in Tribunale a Lecce, sentito anche l’ex premier Conte. La Procura di Potenza indaga sulle sponsorizzazioni a Silvestrini: tra i testimoni anche i politici. LINDA CAPPELLO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Giugno 2023
Il giudice Pietro Errede rinuncia al riesame. Il magistrato leccese, ai domiciliari dal 29 maggio scorso con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, ha scelto di non chiedere ai giudici del Tribunale di Potenza di revocare la misura alla quale è sottoposto. Una scelta, annunciata a sorpresa ieri in udienza dagli avvocati Michele Laforgia e Donatello Cimadomo, probabilmente frutto di una strategia difensiva ben precisa.
Un’udienza fiume, quella di ieri, nel corso della quale il procuratore capo Francesco Curcio ed il sostituto Vincenzo Montemurro hanno discusso l’appello per le misure cautelari non concesse dal gip. In particolare, pare che i magistrati si siano soffermati a lungo sulla posizione di Alessandro Silvestrini, presidente della sezione fallimentare Tribunale fallimentare di Lecce, anche lui indagato per corruzione in atti giudiziari e per il quale la procura aveva chiesto i domiciliari. Secondo l’accusa, avrebbe chiesto al commercialista Giuseppe Bellantone - beneficiario di incarichi nelle procedure fallimentari - di sponsorizzare a livello politico la sua nomina a presidente del Tribunale. E per consolidare ancora di più questa tesi sono stati depositati i verbali di alcuni personaggi politici a cui sarebbe stata chiesta la raccomandazione: il senatore della Lega Roberto Marti, il leader del M5S Giuseppe Conte, Rocco Casalino, Mario Turco del M5S, e il senatore della Lega Andrea Paganella. Silvestrini, presente ieri in aula, ha rilasciato spontanee dichiarazioni.
In sintesi ha negato fermamente che gli incarichi a Bellantone - pure lui ai domiciliari - potessero essere considerati merce di scambio. Tanto perché l’ultimo incarico gli era stato affidato nel 2014. E per questo ha prodotto una copiosa mole di documenti. Poi sono iniziate le discussioni per le richieste di scarcerazione di coloro che si trovano ai domiciliari: oltre a Bellantone ed Errede ci sono Alberto Russi, compagno del magistrato, e i commercialisti Emanuele Liaci e Marcello Paglialunga. La decisone sarà depositata nelle prossime ore.
La deposizione dell’ex premier alla Gdf sulle manovre del magistrato salentino. LINDA CAPPELLO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Giugno 2023
«Ho incontrato personalmente il giudice Silvestrini ma non mi sono mai attivato in suo favore».
È quanto l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato ai militari della Guardia di Finanza che stanno indagando sul presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Lecce, accusato di corruzione in atti giudiziari: secondo le contestazioni, Alessandro Silvestrini avrebbe chiesto al commercialista Massimo Bellantone di contattare alcuni politici locali per sponsorizzare la sua candidatura come presidente del Tribunale presso i membri laici del Csm.
Conte, nei verbali depositati martedì al Riesame dal procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, ha ammesso di aver incontrato il magistrato il 9 giugno 2022 all’hotel Ermitage di Galatina, senza però fornire ulteriori dettagli, aggiungendo di non ricordare l’oggetto della conversazione. Quest’incontro era avvenuto grazie all’intervento del senatore Mario Turco, che aveva il compito di “filtrare” gli appuntamenti di Conte con i personaggi locali. «È stato un incontro rapido e non significativo», ha aggiunto, specificando di non ricordare non solo il nome del suo interlocutore ma neanche l’argomento affrontato. «Qualsiasi cosa mi abbia chiesto - ha concluso - non ne ho dato alcun seguito».
Più circostanziata, invece, la deposizione del senatore della Lega Roberto Marti, che offre una lettura della vicenda ben diversa da quella della procura. Silvestrini lo aveva sì contattato, ma non per essere raccomandato, bensì per sollecitare il Csm a prendere una decisione visto che la pratica per la nomina di presidente del Tribunale sembrava essersi arenata. «Silvestrini - spiega Marti - aspirava ad un colloquio a livello istituzionale elevato in modo da poter sbloccare la pratica che a suo dire si era impantanata al Csm. (...) vi era un intoppo, mi sembra al plenum, probabilmente dovuto se ben ricordo ad una serie di ricorsi che pendevano».
La vicenda si inserisce nell’inchiesta che ruota attorno al giudice leccese Pietro Errede, ai domiciliari dal 29 maggio scorso con l’accusa di aver elargito incarichi professionali nelle procedure fallimentari in cambio di regalie. Agli arresti anche il compagno del magistrato, l’avvocato Alberto Russi, e i commercialisti Massimo Bellantone, Marcello Paglialunga ed Emanuele Liaci.
La procura ha impugnato la decisione del gip che non ha concesso i domiciliari a Silvestrini ed all’avvocato Antonio Casilli: inoltre, per Errede, Russi e Bellantone la pubblica accusa aveva chiesto il carcere.
Durante l’udienza del riesame di martedì, i pubblici ministeri hanno depositato una nuova annotazione della Guardia di Finanza, datata 19 giugno.
Gli atti di indagine riguardano una conversazione fra un commercialista leccese ed una funzionaria della sezione commerciale del Tribunale, ascoltata casualmente da un finanziere il 15 giugno scorso. I due commentano l’arresto di Errede e degli altri personaggi coinvolti, ma il professionista racconta un episodio inedito. A suo dire, sarebbe stato avvicinato dall’avvocato Russi, il quale gli avrebbe proposto di fargli ottenere incarichi giudiziari da parte di Errede a condizione del ritorno del 50 per cento della somma percepita a titolo di compenso. Tanto perché il magistrato avrebbe liquidato il relativo compenso in forma maggiorata, al fine di compensare gli oneri fiscali rimasti a carico del professionista incaricato. Ma non è tutto. Aggiunge anche di aver saputo da un elettricista di Galatina che Russi gli aveva commissionato un lavoro, ma alla fine si sarebbe rifiutato di pagare, affermando di non temere un’eventuale azione legale perché il tecnico non avrebbe trovato né un legale né un giudice disponibile a tutelare i suoi interessi.
Convocato dai finanzieri, però, il commercialista conferma parzialmente il contenuto della conversazione. Nello specifico, dice di non ricordare di aver fatto riferimento alla figura di Russi come intermediario per eventuali incarichi. «Ho commentato che i fatti descritti sui giornali potevano essere veri – ha dichiarato – perché in base alle voci che circolavano in ambiente giudiziario, e non solo, si sarebbero potuti ottenere incarichi giudiziari dal dottor Errede se si era disposti a retrocedere il 50 per cento del relativo compenso».
Per quanto riguarda l’episodio dell’elettricista, il professionista ribadisce di aver saputo l’episodio ma aggiunge di non ricordare chi gliel’abbia raccontato e tantomeno di sapere chi sia l’elettricista.
Affermazioni che però stridono con quanto detto dalla funzionaria del Tribunale, che sentita a sommarie informazioni precisa: «non ho dubbi che il racconto che mi ha fatto era riferito ad una sua esperienza personale avvenuta con l’avvocato Russi».
«Vacanze gratis e minacce»: l’ex pm tarantino Di Giorgio risarcirà lo Stato. Condannato a pagare 150mila euro: «È il danno di immagine causato alla giustizia». MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2023
Le condotte di corruzione e concussione che gli sono costate una condanna definitiva a otto anni di carcere hanno causato un danno di immagine all’amministrazione della giustizia. È per questo che la Corte dei conti ha condannato l’ex pm tarantino Matteo Di Giorgio a risarcire lo Stato con 150mila euro.
La vicenda risale al 2010, quando il pm finì ai domiciliari con l’accusa di aver chiesto favori e messo in atto ricatti per interferire nella vita politica del Comune di Castellaneta, minacciando imprenditori e amministratori locali per favorire l’elezione di un suo amico. La condanna a 15 anni in primo grado a Potenza è poi scesa a 12 anni in appello e, infine, a otto anni in Cassazione: il magistrato avrebbe messo su un «apparato di potere» a scopi personali, il «sistema Di Giorgio» che venne scoperchiato dopo la denuncia del senatore Rocco Loreto: l’ex primo cittadino di Castellaneta (arrestato a giugno 2001 per calunnia ai danni del pm, e poi completamente assolto da ogni accusa) aveva presentato esposti per segnalare l’incompatibilità ambientale del magistrato. L’ex pm tarantino è rimasto in carcere fino al settembre 2020, quando ha ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali. Nel frattempo, dopo la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, nel 2018 il Csm ne aveva disposto la definitiva rimozione dall’ordine giudiziario.
Il procedimento erariale è partito con la citazione presentata nel gennaio 2022, dopo che Di Giorgio è stato sentito a seguito della notifica dell’invito a dedurre (l’equivalente dell’avviso di conclusione delle indagini nel processo penale). Il procuratore regionale Carlo Alberto Manfredi Selvaggi (rappresentato in udienza dal vice-procuratore Cosmo Sciancalepore) ne ha chiesto la condanna a 150mila euro per il danno all’immagine causato al ministero della Giustizia. Il processo si è svolto in contumacia: i giudici (presidente Daddabbo, relatore Iacubino) hanno rilevato che l’ex magistrato ha firmato personalmente il mandato al difensore, ma essendo stato dichiarato interdetto (nel 2019, dal Tribunale di Taranto) la nomina doveva essere sottoscritta dal tutore.
Di Giorgio è stato condannato per il soggiorno gratuito ottenuto nel 2008 in un villaggio turistico di Castellaneta Marina (da cui ha fatto cacciare un dipendente per «finalità ritorsiva»), e per aver esercitato pressioni indebite su un imprenditore affinché ritrattasse alcune accuse. Le minacce per costringere alle dimissioni un consigliere comunale di Castellaneta, pur dichiarate prescritte, sono state considerate rilevanti in sede di accertamento del danno di immagine. Di Giorgio - secondo la Procura erariale - ha «offuscato con il proprio comportamento la credibilità dell’amministrazione di appartenenza, anche in ragione della evidente sistematicità con cui poneva in essere le condotte criminose».
I giudici hanno pienamente condiviso questa impostazione, anche sul fronte della quantificazione del danno per via del «particolare disvalore che caratterizza la vicenda, connotata non solo da un episodio di natura concussiva, ma da un quadro univocamente convergente nel senso di un utilizzo assolutamente deviato delle funzioni giudiziarie». «Non può dubitarsi - è scritto in motivazione - che le condotte abusive realizzate dal convenuto abbiano arrecato pregiudizio all’immagine della pubblica amministrazione», avendo generato «sconcerto per il disinvolto e reiterato sviamento delle funzioni magistratuali, asservite a interessi squisitamente egoistici, tali da integrare una irreparabile lesione al prestigio e alla fiducia nell’Ordine Giudiziario». La vicenda ha in effetti avuto una enorme eco mediatica «in ambito ultra territoriale». L’inchiesta penale su Di Giorgio ha avuto una lunga coda in sede civile, con le condanne al risarcimento ottenute da quasi tutte le persone (a partire da Loreto) che sono state riconosciute vittime dei suoi comportamenti abusivi.
A Bari le sentenze si applicano ancora ? Sembrerebbe di no. Il Csm cosa fa? Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Settembre 2023
Una domanda è sempre più attuale : come mai Michele Ruggiero fa ancora il pubblico ministero a Bari ? La legge è uguale per tutti, o quando riguarda i magistrati può non essere applicata ?
I magistrati Michele Ruggiero e Alessandro Donato Pesce sostituti della procura di Bari sono stati condannati lo scorso 30 gennaio con sentenza definitiva della Suprema Corte di Cassazione rispettivamente a 6 mesi e a 4 mesi di reclusione per “tentata violenza privata” ai danni di alcuni testimoni. I due magistrati quando prestavano servizio alla procura di Trani avevano minacciato, intimidito ed esercitato violenze verbali nei confronti di tre persone al fine di costringerli a dichiarare il falso per confermare l’impianto accusatorio dei magistrati.
La sezione disciplinare del Csm lo scorso maggio, ignorando la richiesta della procura generale della Cassazione che aveva chiesto la loro radiazione, ha preferito decidere di sanzionare Ruggiero con una sospensione di due anni, e Pesce per nove mesi. Al termine delle rispettive sanzioni disciplinari i due dovranno tornare a lavorare come giudici civili, uno in Tribunale a Torino e l’altro a Milano.
Ma la circostanza allucinante è che i due magistrati continuano ancora a lavorare, a indagare e a coordinare inchieste., come se nulla fosse accaduto. In pratica la sentenza passata in giudicato ignorata e ci sia consentito di dirlo “calpestata” . Come se la sanzione disciplinare del Csm fosse solo un rimprovero ! La responsabilità della magistratura ? Una barzelletta !
Il magistrato Michele Ruggiero ci risulta che stia coordinando alla procura di Bari una indagine in merito alla morte di una persona ritrovata carbonizzata nel parcheggio di un centro commerciale della città pugliese. Ad anche consultando il sito della procura di Bari risultano presenti ancora i nomi dei due pm condannati, ed in servizio !
È iniziato oggi 20 settembre, nel Tribunale a Bari, il processo che vede imputati l’ex consigliera comunale Francesca Ferri, il compagno Filippo Dentamaro e l’ex consigliere regionale (imprenditore e presidente del Foggia Calcio) Nicola Canonico per il presunto voto di scambio avvenuto nelle elezioni amministrative nei Comuni di Bari e Valenzano nel 2019. Ferri e Dentamaro, sono stati prosciolti lo scorso luglio dalle accuse di voto di scambio politico-mafioso relativamente alle elezioni di Bari e da quella di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale per quelle di Valenzano. La Gup Anna Perrelli decise che “il fatto non sussiste“.
Nel corso dell’udienza odierna l’avvocato Michele Laforgia difensore di Canonico, ha eccepito l’ utilizzabilità delle intercettazioni a carico dell’imprenditore poichè sarebbero state disposte in origine per un reato diverso da quello per cui attualmente l’imprenditore Nicola Canonico è imputato. Alla richiesta si sono uniti con motivazioni simili anche i difensori degli altri imputati, ma il pm Michele Ruggiero (proprio lui !!! ) ha chiesto al Tribunale di rigettare queste eccezioni. La riserva sarà sciolta nella prossima udienza dell’8 novembre, in cui verranno ascoltati i primi testimoni dell’accusa.
Ma resta una domanda: come mai Michele Ruggiero fa ancora il pubblico ministero a Bari ? La legge è uguale per tutti, o quando riguarda i magistrati può non essere applicata ? Chissà cosa ne pensano il procuratore capo Roberto Rossi ed il procuratore generale di Bari, l’ avvocata dello Stato Angela Tomasicchio facente funzione dopo il pensionamento di Anna Maria Tosto avvenuto esattamente un anno fa ?
Redazione CdG 1947
Mele marce tra le toghe. Il Csm resta muto sui casi della Puglia. Domenico Ferrara il 7 Maggio 2023 su Il Giornale.
Chissà se qualcuno avrà sussurrato all'orecchio del vice presidente del Csm Fabio Pinelli per dirgli che alla procura di Bari c'è un problema non da poco.
Chissà se qualcuno avrà sussurrato all'orecchio del vice presidente del Csm Fabio Pinelli per dirgli che alla procura di Bari c'è un problema non da poco. Anzi, due. Con nomi precisi: Michele Ruggiero e Alessandro Donato Pesce, sostituti procuratori della Repubblica ancora in servizio nonostante una condanna definitiva in Cassazione per violenza privata rispettivamente a sei mesi e a quattro mesi di reclusione. Dal 30 gennaio, giorno della sentenza, al Csm nessuno ha mosso un dito per aprire un procedimento disciplinare, tanto che i due continuano a esercitare le loro funzioni come se nulla fosse. L'altro ieri, il tour del nuovo vicepresidente del Csm ha fatto tappa in Puglia, proprio a Bari, precisamente alla Corte d'Appello. Ed è inverosimile credere che nessuno gli abbia posto la questione. «È il momento di riportare il Csm alle sue funzioni costituzionali, cioè quelle di amministrazione della giurisdizione e di garanzia dell'autonomia dell'indipendenza della magistratura». Oltre a ciò, esiste però da tempo anche un problema di credibilità. E sapere che due toghe - condannate per violenza su alcuni testi - continuino a condurre indagini su altre non è sicuramente un buon viatico per migliorare la credibilità del sistema giudiziario. Le condotte illecite di Ruggiero e Pesce risalgono a quando entrambi lavoravano alla procura di Trani, altra città in cui, l'altro ieri, si è recato Pinelli. Che, dalla corte d'Appello della cittadina pugliese, ha dichiarato: «Sono qui per un abbraccio a chi sul territorio ha vissuto un periodo difficilissimo. Qui c'è stata una rigenerazione, ed uscire dalla situazione in cui si trovava Trani è il segnale migliore che potessimo ricevere (...). I magistrati tornino ad essere un riferimento fondamentale nel sistema Paese, così che il cittadino torni a credere nella magistratura e nella giustizia». Sintomatico che lo abbia detto proprio a Trani, la cui procura, fino a poco tempo fa, si poteva considerare senza timore di smentite la più chiacchierata. Lì è stato capo della procura Carlo Maria Capristo, rinviato a giudizio pochi mesi fa per corruzione in atti giudiziari. Lì l'ex presidente del Tribunale Filippo Bortone è stato indagato per falso e truffa ai danni dello Stato. Lì gli ex pm Antonio Savasta e Luigi Scimè insieme all'ex gip Michele Nardi sono imputati e accusati di aver pilotato sentenze e azioni giudiziarie. Lì sono state svolte inchieste flop, alcune delle quali hanno portato all'arresto di persone innocenti, come Luigi Riserbato, ex sindaco di Trani, inquisito e poi, dopo otto anni di inferno, assolto per non aver commesso il fatto. Insomma, ci vogliono dei segnali per cambiare l'opinione che i cittadini hanno della magistratura.
Il pm condannato è ancora al suo posto e continua a far danni. Michele Ruggiero è stato punito in Cassazione per violenza privata ai danni di alcuni testi. Ma il Csm lo ignora. Domenico Ferrara il 23 Aprile 2023 su Il Giornale
A i flop non c'è mai fine. Specie se chi ha le armi per bloccarli rimane con le mani in mano. Chi nasce tondo non può morire quadrato, recita un adagio popolare che potrebbe ben fotografare il caso del pm Michele Ruggiero, condannato a febbraio in via definitiva a sei mesi di reclusione dalla Cassazione per violenza privata ai danni di alcuni testi e ancora in servizio a perseguire gli stessi reati, cioè quelli contro la Pubblica Amministrazione. E a collezionare ancora débâcle.
È il 21 aprile 2022 quando l'ex pubblico ministero di Trani, oggi sostituto procuratore della Repubblica presso la procura di Bari, coordina un'inchiesta su alcuni appalti pilotati in cambio di consenso elettorali e favori al Comune di Polignano. Inchiesta che porta all'arresto di cinque persone, tra cui il sindaco della città che ha dato i natali al cantante Modugno nonché presidente dell'Anci Puglia, Domenico Vitto. Il primo cittadino, accusato di tentata concussione e calunnia, nega ogni accusa, si dimette qualche settimana dopo per non influenzare la campagna elettorale in corso e giura che dimostrerà la sua totale estraneità dalle accuse. Dal canto suo, il pm Ruggiero sostiene che Vitto ha preteso una tangente di 100mila euro dall'imprenditore Michele Lestingi per l'organizzazione dell'evento Meraviglioso Natale del 2018.
Bene, a distanza di un anno, la procura di Bari ha cambiato idea. Contrordine. Vitto deve essere archiviato perché non è stato lui a chiedere mazzette né a commettere il reato di calunnia. Accuse stralciate, insomma. E non solo per Vitto. Infatti, la Procura ha chiesto l'archiviazione anche per altri cinque indagati per vari reati. Vitto rischia comunque il rinvio a giudizio per corruzione e turbativa d'asta per un altro - presunto - appalto truccato per la riqualificazione, da 850mila euro, del lungomare di Polignano. Ma qui il punto non è Vitto, su cui la giustizia farà il suo corso. Qui parliamo di un modus operandi che torna a ripetersi quando ciò non dovrebbe essere reso possibile. Parliamo dell'operato di un pm che è ancora al suo posto nonostante una condotta illegale certificata. «Tua moglie lo sa cosa hai fatto?»; «Dal carcere c'è una visuale sul mare stupenda e secondo me a lei col problema che c'ha le fa pure bene..»; «Possiamo impegnarci per farla stare con il caldo che fa al fresco...». Sono solo alcune delle frasi pronunciate da Ruggiero e rivolte a tre testimoni allo scopo di spingerli ad ammettere di essere al corrente del pagamento di tangenti a un imputato nel secondo filone dell'inchiesta «Sistema Trani». L'operato di Ruggiero annovera anche una serie di flop giudiziari e di inchieste finite in una bolla di sapone. Il tutto a spese del contribuente, quando a farle non è qualche imputato vittima di malagiustizia. Qualche esempio? Quella sulla correlazione tra vaccini e autismo, quella sulla Deutsche Bank, quella sui presunti complotti contro l'Italia da parte delle agenzie di rating. Tutto finito nel nulla. C'è poi l'inchiesta del 2014 nei confronti dell'ex sindaco di centrodestra Luigi Riserbato, indagato per ipotetica associazione a delinquere e altri quattro capi di imputazione e assolto nel febbraio 2023 dopo otto anni di calvario per non aver commesso il fatto. Anche in quel caso l'arresto avvenne a ridosso della campagna elettorale e determinò le dimissioni del primo cittadino con conseguente stravolgimento dell'esito elettorale. Ma questi sono dettagli. La questione qui è la credibilità delle istituzioni e della magistratura stessa. Sono passati tre mesi e il Csm non ha ancora mosso un dito nei confronti di Ruggiero né ha avviato l'iter per un procedimento disciplinare. Nel frattempo lui continua a lavorare senza aver subito nemmeno un trasferimento di sfere di competenze, almeno. Al contrario, seguitando ad esercitare le sue funzioni. E il dubbio che lo faccia utilizzando metodi illeciti come gli stessi per i quali è stato condannato non lo potrà emendare nessun colpo di spugna. Perché sta scritto nero su bianco. E non si può cancellare.
E’ la Procura di Bari il nuovo “porto delle nebbie” della giustizia italiana? Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Aprile 2023
C’è una grande asimmetria, perché i sindaci accusati vengono arrestati e devono dimettersi, mentre i pm pure dopo le condanne restano al loro posto. I casi di malagiustizia sono tanti. Speriamo che il governo e il presidente Mattarella, che è anche presidente del Csm, possano accendere l’attenzione e intervenire.
di Antonello de Gennaro
Alla guida della Procura di Bari c’è un magistrato che dimenticò… per appena 6 anni, di iscrivere nel registro degli indagati, una persona Salvatore (Tato) Greco , che guarda caso faceva politica ed apparteneva alla famiglia Matarrese, una delle famiglie più potenti ed influenti del capoluogo pugliese, salvo poi mandarlo a processo, inutilmente, per il quale la procura di Bari aveva chiesto una condanna a 2 anni e 8 mesi di reclusione nell’ambito di un processo sulla gestione della sanità in Puglia. Accusa insussistenti per il Tribunale di Bari che lo ha assolto “perché il fatto non sussiste”.
E quando la sezione disciplinare del Csm aprì un procedimento nei suoi confronti, quel magistrato per salvarsi si era fatto eleggere al Csm nelle lista della solita corrente sinistrorsa di Area , e quindi i suoi colleghi lo “salvarono”. Parliamo dell’attuale procuratore capo Roberto Rossi, magistrato molto attivo per la sua corrente nelle operazioni di candidature nei ruoli direttivi della magistratura.
Un procuratore “permaloso” che se qualcuno (come il sottoscritto) osa criticarlo, lui risponde con esposti alla Procura di Roma ed al Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti, che come prevedibile sono finiti entrambi “rottamati” (archiviati) all’ unanimità, dopo aver verificato la correttezza del mio comportamento professionale e personale.
Ma Rossi è anche un procuratore “dormiente” che ha all’interno della sua procura ha un proprio collega, il sostituto procuratore Michele Ruggiero, condannato lo scorso febbraio dalla Suprema Corte di Cassazione e quindi con con sentenza definitiva, che come ha scritto ieri il quotidiano IL GIORNALE “è ancora al suo posto e continua a fare danni“. Infatti il pm Ruggiero lo scorso anno aveva condotto un’inchiesta su alcuni presunti appalti pilotati in cambio di consenso elettorale e favori nel Comune di Polignano (Bari) , arrestando cinque persone tra cui il sindaco Domenico Vitto (Pd), che era anche il presidente dell’ ANCI Puglia, e molto vicino al sindaco di Bari Antonio Decaro.
Vitto si dimise per non influenzare la campagna elettorale, mentre il pm Ruggiero sosteneva l’accusa nei suoi confronti di aver incassato una tangente da 100mila euro da un imprenditore locale per l’organizzazione dell’ evento “Meraviglioso Natale” del 2018. Peccato che quella stessa procura dopo un anno ha cambiato idea sul proprio impianto accusatorio, archiviando le proprie accuse nei confronti dell’ex sindaco Vitto perchè non è stato lui a chiedere alcuna tangente nè tantomeno a commettere il reato di calunnia. Ma non solo. Infatti vennero archiviate tutte le accuse anche per altri cinque indagati accusati di altri reati.
Vitto rischia a questo punto un rinvio a giudizio per corruzione e turbativa d’asta per un altro appalto, che la procura di Bari presume essere truccato, del valore di 850mila euro, per la riqualificazione del lungomare di Polignano. Ed in questo caso la giustizia farà il suo corso ed attendiamo di darne notizia al momento opportuno. Ma il vero problema è il “modus operandi” della Procura di Bari che torna a ripetersi quando non potrebbe , e non dovrebbe, essere consentito. Un “modus operandi” che i giornalisti baresi sinistrorsi e ginuflessi alla procura barese non vi racconteranno mai, nonostante i loro giornaletti perdono di giorno sempre più copie e lettori!
Come si fa a lasciare operare indisturbato un magistrato “condannato” come Michele Ruggiero, mentre quella solita corrente “sinistrorsa”, ha cercato di far fuori dalla magistratura due magistrati come Carlo Maria Capristo (ex procuratore capo di Taranto) e Michele Nardi (ex ispettore del Ministero di Giustizia) ? Il GIORNALE ieri riporta alcune delle frasi usate dal pm Ruggiero nei suoi interrogatori: “Tua moglie lo sa cosa hai fatto ?”…”Dal carcere c’è una visuale sul mare stupenda e secondo me a lei col problema che c’ha le fa pure bene…“…”Possiamo impegnarci per farla stare con il caldo che fa al fresco…“, rivolte nei confronti di tre testimoni allo scopo di indurli ad ammettere di essere a conoscenza del pagamento di tangenti ad un imputato nel secondo filone dell’ inchiesta “Sistema Trani”, città e procura dove viveva il Ruggiero prima di essere “promosso” ed assegnato alla procura del capoluogo pugliese guidata da Roberto Rossi.
“Non è mai esistito un “comitato politico-affaristico” disse con chiarezza in conferenza stampa il procuratore capo di Trani Carlo Maria Capristo, a suo tempo, prendendo le dovute necessarie distanze dall’operato del pm Michele Ruggiero.
Il magistrato Michele Ruggiero annovera una lunga serie di “flop” giudiziari e di inchieste svanite nella nebbia di una magistratura inquietante, chiaramente tutte a spese dei contribuenti e sulla pelle di chi ci capitava dentro: dal collegamento fra vaccini ed autismo, all’inchiesta sulla Deutsche Bank per la vendita dei titoli di stato italiani nel 2011, quella sui presunti complotti contro l’ Italia da parte delle agenzie internazionali di rating finanziario, quella sulle supposte pressioni dell’ex premier Silvio Berlusconi al commissario Agcom Giancarlo Innocenzi per la chiusura del programma tv “Annozero” condotto da Michele Santoro. O come l’inchiesta del 2014 nei confronti dell’ex sindaco di centrodestra di Trani, Luigi Riserbato, indagato e posto sotto accusa di una ipotizzata associazione a delinquere ed altri quattro capi di accusa, conclusasi con una piena assoluzione decisa dai magistrati giudicanti del Tribunale. Chiaramente anche in quel caso l’arresto del sindaco di Trani in carica avvenne a ridosso della campagna elettorale. Solo coincidenze ? Qualcosa che ci ricorda al contrario l’ arresto dell’ormai ex pm Matteo Di Giorgio a Castellaneta (Taranto) il quale approfittando del ruolo di magistrato volve condizionare la vita politica per interessi personali.
“Sono passati 2.935 giorni – disse Riserbato al Foglio – Tantissimi per arrivare a un’assoluzione piena a fronte di cinque capi d’imputazione. Per l’associazione a delinquere, in maniera surreale, è stato il pm a chiedere l’archiviazione al termine delle indagini preliminari. Eppure proprio quell’accusa era il motivo dell’arresto”. Per riottenere la libertà, Riserbato di fatto venne costretto a dimettersi da sindaco. “Esattamente. E fu anche la ragione per cui la città passò dal centrodestra al centrosinistra, sovvertendo così l’esito delle elezioni. Per altri due capi d’imputazione, tentata truffa e tentata concussione, c’è stato il proscioglimento della gup”. Ma anche per gli ultimi due capi di accusa . “Tentata concussione politica e tentata turbativa d’asta, per cui il nuovo pm ha chiesto l’assoluzione per insufficienza di prove. Ma sono stato assolto perché il fatto non sussiste, con formula piena. Sono serviti 8 anni per mostrare la mia assoluta innocenza. Ho rinunciato anche alla prescrizione, perché si sapesse che la città di Trani dal 2012 al 2014 è stata amministrata da una persona perbene”.
Il pm Ruggiero che accusava Riserbato ha subito una condanna definitiva per violenze sui testimoni proprio durante questa inchiesta. “Erano metodi che conoscevamo bene, tanta gente ha sopportato ma alla fine qualcuno ha denunciato. C’è una grande asimmetria, perché i sindaci accusati vengono arrestati e devono dimettersi, mentre i pm pure dopo le condanne restano al loro posto. I casi di malagiustizia sono tanti. Spero che il governo e il presidente Mattarella, che è anche presidente del Csm, possano accendere l’attenzione e intervenire. Perché non è un articolo di stampa dopo otto anni a risarcire, nulla potrà farlo. Il sacrificio ha senso solo se cambiano le cose” conclude Riserbato intervistato dal FOGLIO.
Oggi a distanza di circa tre mesi dalla condanna definitiva del pm Michele Ruggiero disposta dagli ermellini della Suprema Corte di Cassazione, il magistrato è ancora al suo posto alla Procura di Bari senza aver ricevuto neanche un trasferimento al tribunale Civile (come avviene molto spesso), continuando ad esercitare le funzioni di pubblico ministero, probabilmente con gli stessi metodi discutibili che lo hanno portato ad essere condannato. Resta da chiedersi a questo punto, più di qualcosa anche sull’immobilismo della Procura Generale della Cassazione e del Consiglio Superiore della Magistratura.
O forse la fretta e l’acceleratore disciplinare funziona solo per la vicenda che ha coinvolto l’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara ed altri magistrati (non di sinistra !) ??? Redazione CdG 1947
Estratto dell'articolo di Andrea Ossino e Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 aprile 2023.
Avrebbero chiamato «cagnotte» le millantate tangenti che avrebbero dato ai vigili del fuoco per ottenere il via libera su un immobile a Fregene. E avrebbero offerto all’imprenditore che tenevano sulle spine, gestendo le sue aziende sequestrate, affari illegali. La faccenda però si è rivelata un boomerang, che ha alzato il sipario sul business opaco creato da un magistrato e dai suoi collaboratori.
È trascorso appena un anno da quando l’imprenditore Fabrizio Coscione ha depositato la denuncia da cui è nata l’indagine che ha svelato il sistema dietro al quale la giudice di Latina, Giorgia Castriota, adesso in carcere, affidava l’amministrazione dei beni sequestrati all’amante Silvano Ferraro, anche lui arrestato, e ai collaboratori Stefania Vitto, ai domiciliari, e Stefano Evangelista, indagato a piede libero.
Tutto è iniziato l’ 8 aprile del 2022, con una querela in cui Coscione dice che sotto il suo naso si consumano quattro reati: abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata e traffico di influenze.
[...] dice di aver registrato alcune conversazioni, trasformandosi in un detective, «perché ha cominciato a nutrire timori e dubbi circa la liceità dell’intera situazione e la buona fede dei professionisti che direttamente o indirettamente sono stati coinvolti nella procedura di sequestro della Isp logistica e della Isp servizi», le sue due aziende. Quelle affidate a Stefano Evangelista, con coadiutore Ferraro.
Le altre persone chiamate in causa nella denuncia, il cui nome compare in maniera ricorrente anche nell’ordinanza di custodia cautelare ai danni del gip Castriota, sono Stefano Schifone, legale rappresentante pro tempore delle società di Coscione, e Alessandro Bartoli, titolare della Abeco Service, con cui gli amministratori giudiziari della Isp logistica hanno stipulato un contratto di consulenza.
[...]
L’indagato dunque si trova davanti a pubblici funzionari o loro collaboratori che gli avrebbero chiesto di partecipare ad affari opachi. Versa 70mila euro per un progetto mai realizzato, sempre secondo la denuncia, e registra conversazioni dove si parla di millantate tangenti, di una «promessa di ‘na cagnotta ai vigili del fuoco».
Quando Coscione spiega che lui tangenti non ne vuole pagare, Bartoli risponde: «Devi cambiare sistema. Devi far lavorare la gente giusta in maniera tranquilla». Di più: «Nun cascà dal pero, nun fare la mammola». [...]
Gli “ordini” della gip ai pm: «Quando io scrivo una cosa deve essere obbedita...». La “fratellanza” tra magistrati inquirenti e giudicanti nelle carte del caso Castriota: gli accordi preventivi alla ricerca di un accordo, in barba alla terzietà del giudice...Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 24 aprile 2023
Se in Italia le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici fossero separate, il procedimento penale che ha portato la scorsa settimana all’arresto, con l’accusa di corruzione, della gip del tribunale di Latina Giorgia Castriota ci sarebbe stato? Ovviamente è impossibile dare una risposta in quanto sono troppe le varianti in gioco.
Le circa 130 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del giudice di Perugia Natalia Giubilei offrono però uno spaccato quanto mai eloquente dei rapporti “confidenziali”, al netto degli eventuali profili penali, che spesso intercorrono fra pm e gip e che di conseguenza influenzano le scelte processuali.
I fatti sono ormai noti: Castriota, gip presso il tribunale di Latina, avrebbe creato un sistema che permetteva di incassare delle tangenti sugli incarichi di amministratore giudiziario che assegnava. Fatta sempre salva la presunzione d’innocenza, le decine e decine di intercettazioni telefoniche che sono state riportate nell’ordinanza non possono non lasciare indifferenti. La vicenda trae origini da un procedimento a carico di un imprenditore pontino, Fabrizio Coscione, accusato di aver commesso dei reati tributari. La magistratura dispone il sequestro delle sue società, nominando un amministratore giudiziario. Le società vanno male e si arriva alla stato di pre-fallimento. L’amministratore prepara allora una relazione da inoltrare ai pm per la richiesta per bancarotta (sperando che sia stata commessa, ndr).
Castriota, che avrebbe tratto come detto utilità economiche da questa procedura, ha il timore che possa finire in altre mani, in quanto la competenza non sarebbe più del tribunale di Latina, ma di Velletri. Iniziano così una serie di interlocuzioni fra la magistrata ed il procuratore aggiunto di Latina Carlo Lasperanza, assegnatario, insieme al sostituto Andrea D'Angeli, del fascicolo. La gip sollecita Lasperanza a prendere contatti con la Guardia di Finanza per prevenire la notifica di un eventuale dissequestro, anche parziale, delle società, con conseguente loro restituzione a Coscione. Per raggiungere lo scopo preme sulla stessa procura affinché sia celere nel presentare una istanza di sequestro delle predette società di Coscione per ulteriori reati segnalati da uno dei curatori, nonché facendo portare avanti la domanda di fallimento. Il piano ha degli intoppi in quanto sorgono contrasti con D'Angeli, dal momento che il nuovo decreto di sequestro imporrebbe il vincolo anche sui consorzi che controllano le società di Coscione e quindi al di là della originaria richiesta.
«Fammi un favore tu a me e io a te, fra virgolette per la giustizia», dice Castriota a D'Angeli. E a Lasperanza: «A me per levare questo (Coscione, ndr) dal delinquere mi interessa sicuramente il sequestro preventivo di 4 milioni». Informata che D’Angeli è in disaccordo, Castriota si lascia andare ad una violenta sfuriata con Lasperanza: «Quando io scrivo una cosa deve essere obbedita, la procura non è che fa come c... gli pare». La toga inizia anche ad accusare con i colleghi il sostituto di volere fare gli interessi dell’imputato. Lasperanza, nel frattempo, chiede al procuratore di Velletri, senza avere riscontro, se l’atto di dissequestro possa essere bloccato. Un estremo tentativo è con la Guardia di Finanza, invitata a rivolgersi direttamente a lei. Tentativo non realizzabile secondo Lasperanza, in quanto non si può scavalcare la procura, perché interverrebbe il procuratore a difesa di D’Angeli.
Come se non bastasse, Castriota cerca di far aprire, informando di ciò Lasperanza, un procedimento disciplinare, nei confronti del sostituto, cercando sponda presso il procuratore generale della Capitale Filippo Salvatore Vitello, contattato tramite un ex consigliere del Csm. La condotta della magistra è dunque ben sintetizza nelle frasi della giudice di Perugia secondo cui «l’urgenza di far fallire le società con la nomina di un curatore di fiducia e quella all’emissione del nuovo provvedimento di sequestro in tempi record, prima che fosse eseguito il dissequestro parziale disposto dalla procura di Velletri, spingendosi a sequestrare anche società non oggetto della richiesta del pm, coinvolgendo il procuratore aggiunto e ingaggiando una vera contesa con il titolare del procedimento, cercando di “portare dalla sua parte” la presidente del Tribunale, sono atti emblematici del tentativo del magistrato, di mantenere, sempre in nome della giustizia ed utilizzando mezzi di per sé leciti, lo status quo di mantenere la provvista economica». Ed Inoltre, prosegue la giudice di Perugia, «impedire che l’imprenditore o altri soggetti potessero verificare il coinvolgimento dei colleghi della procura, del presidente del Tribunale e del procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma è indice di estrema spregiudicatezza».
Che bilancio trarne? È innegabile un rapporto di “fratellanza” dove ci si dà tutti del tu e dove le scelte processuali paiono essere il frutto di un lavoro “d'equipe”. Gli atti processuali, in altre parole, sono il risultato di interlocuzioni preventive dove si è alla ricerca di un accordo. La terzietà del giudice, ed è questo l'aspetto su cui riflettere, non risulta essere pervenuta. E lo stesso dicasi per l'indipendenza dei singoli magistrati e della conseguente salvaguardia dei diritti degli imputati nel processo penale, dove il pm dovrebbe esercitare l'accusa ed il gip una funzione di garanzia. Ciò che è emerge, invece, è una “commistione” che risulta essere deleteria per tutti: pm, giudici e, soprattutto, imputati. Ps: per una volta il percorso è stato inverso. Normalmente il gip sarebbe appiattito sul pm, questa volta è stato il contrario. Ma non c'è nulla di cui rallegrarsi. Anzi.
Le trame della giudice Castriota arrestata a Latina: «Questo deve fallire, va arrestato. I 1.500 euro? Mettimeli in borsa». Fulvio Fiano, Michele Marangon su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2023.
Latina, la gip arrestata per corruzione cercava di non perdere il controllo delle società sequestrate: «I 1500 euro? Mettimeli nella borsa»
«Te devo dà na cosa, te la do adesso perché sennò...». «Che cos’è?... A noooo, in Tribunale no». È il 18 febbraio e la cimice piazzata nell’auto del gip Giorgia Castriota intercetta uno dei tanti incontri tra lei e Silvano Ferraro, l’uomo col quale ha una relazione e che ha messo a gestire alcune aziende sotto sequestro perché lui le giri parte (cospicua) del suo stipendio. Stavolta Ferraro ha 1.550 euro in contanti: «Mettila in borsa» (la busta) le suggerisce lei. «Te li metto nella zip», suggerisce lui. «E nun ce va, nun ce vanno».
La disinvoltura con cui la giudice commette reati in spregio del suo ruolo è pari solo alla sua bramosia costante di denaro, in nome del quale, annota l’ordinanza che l’ha portata in carcere, «sono emersi suoi ulteriori e plurimi atti contrari ai doveri di ufficio», tra omissioni e manovre «attive». È lei a nominare l’amministratore giudiziario Stefano Evangelista (indagato) a gestire le società sequestrate a Fabrizio Coscione ed è lei ad affiancargli i coadiutori per completare la triangolazione delle nomine in cambio di denaro. Da ultima, la sua amica di lunga data Stefania Vitto: «Stefà, ormai sei tu la padrona, l’ho detto anche ad Evangelista, sei tu che gestisci... Sei pronta al tuo primo bonifico ricco?», la festeggia Castriota, alludendo al suo stipendio da 10mila euro, dei quali 3mila le verranno prontamente riversati ogni mese su una postepay. Per la giudice è una svolta perché potrà affrancarsi da Ferraro («l’ingrato»), con il quale ormai c’è una insopportazione reciproca per i continui battibecchi sui soldi: «Mi sono stancata pure dell’elemosina che mi fa - si sfoga Castriota con la colf che hanno in comune - basta, basta, tanto da sto mese c’è Stefania e buonanotte vaff...».
L’indagine su Coscione e le sue società però evolve e Castriota teme di perderne il controllo. L’idea, violando ogni dovere d’ufficio, è di portarle al fallimento. Per arrivare all’obbiettivo briga con Evangelista, invitato a denunciare l’imprenditore, e cerca di persuadere i pm titolari dell’indagine ad arrestarlo, adombrando la bancarotta: «Altro che dissequestro, questo deve fallire, spero lo arrestino». I pm però non la assecondano e Castriota appreso di essere sotto indagine, si affretta a inquinare le prove: distrugge un telefono, dicendo che «l’ha mangiato il mio cane Riccardo»; prende un pc in permuta per sviare gli accertamenti sul suo personale; infine si disfà di alcuni oggetti di valore, prove della corruzione, tra cui una borsa. «Meno male che so da dove viene — confida a Ferraro di ritorno dalle terme di Viterbo — Semmai me la voglio riprendere, era dell’outlet».
L’inchiesta di Perugia sta intanto smuovendo dalle fondamenta gli uffici giudiziari di Latina. Castriota ha gestito alcuni dei più delicati e recenti fascicoli di inchiesta, a partire da quelli che hanno portato alla caduta dei comuni di Terracina e Sabaudia, e in molti si fanno domande sulla loro gestione. Anche l’ordine degli avvocati pontini esprime «preoccupazione e apprensione» per i fatti emersi, rimarcando come la vicenda riporti d’attualità «la problematica dei criteri di affidamento degli incarichi giudiziari».
Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per "Il Messaggero" il 23 aprile 2023.
Per occultare le prove che avrebbero potuto incastrarla, il giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Latina Giorgia Castriota, finita tre giorni fa in carcere, sarebbe arrivata al punto di dire che il suo cane Riccardo le aveva «mangiato il telefono». «Ancora deve venire chi mi si fotte».
Questa frase dà il metro della sfrontatezza con la quale il magistrato 45enne avrebbe approfittato del suo ruolo per nominare consulenti "amici", nell'ambito delle procedure di amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati, facendosi ripagare con una serie di mazzette che le servivano a soddisfare quelli che lei chiamava «sfizi»: come un Rolex da 6.300 euro, un viaggio a New York da 3.200 euro con il compagno, l'abbonamento in tribuna d'onore all'Olimpico di Roma del valore di 4.300 euro, un "Dado" di Bulgari da 1.900 euro.
E tutto questo «perché si ostina a voler vivere al di sopra delle proprie possibilità economiche», scrive la collega gip del Tribunale di Perugia, Natalia Giubilei, nell'ordinanza di arresto.
[…] la coppia mette in atto una serie di strategie per inquinare le prove, distruggendo i contenuti nello smartphone o nel pc, disfacendosi di beni di lusso in proprio possesso, condizionando eventuali testimoni. Così pensano di dare in permuta un computer fisso per un portatile. «Vado io a Bufalotta (centro commerciale, ndr) se tu non vuoi venire», propone Castriota.
Ma Ferrero si preoccupa di essere visto: «Ce sta la videosorveglianza». La giudice, dall'alto della sua esperienza nelle indagini, lo tranquillizza: «Ma mica le tengono per 20 anni. Generalmente 3 settimane». Due giorni prima, inoltre, tiene a precisare con una conoscente che il suo cane: «Mi ha spaccato il telefono in mille pezzi. Non ho recuperato un dato, tranne quelli che avevo sulla scheda». […]
Estratto dell'articolo di Valentina Errante per "Il Messaggero" il 23 aprile 2023.
L'ultimo "regalino" è stato un Rolex da 6.300 euro. Il gip di Latina, Giorgia Castriota, lo desiderava tanto da suggerire al compagno, al quale conferiva gli incarichi, il commercialista Silvano Ferraro, arrestato insieme a lei giovedì, di farsi pagare un compenso di 500mila euro in una procedura. Ma dagli atti dell'inchiesta della procura di Perugia, che ha portato ai domiciliari anche Stefania Vitto, un'amica del magistrato incaricata ad amministrare una società per 10mila euro al mese, emerge come la gestione dell'ufficio da parte del giudice fosse solo finalizzata a ottenere soldi, ai danni delle aziende.
Perché a Castriota, come scoperto dalla Finanza di Perugia, venivano assicurati: il pagamento dell'affitto e poi le utenze, lo stipendio della colf, viaggi, vacanze e, ancora, il ripianamento di esposizioni debitorie, l'abbonamento annuale in tribuna d'onore allo stadio Olimpico da 4.300 euro.
Addirittura, il "Dado" di Bulgari, «uno sfizio». E poi 1.800 euro al mese dal compagno e 3mila dalla Vitto, con una Postepay. E il bonifico da mille euro, fatto dal commercialista al giudice per Natale: «Tanti auguri amore mio». Con Ferraro, col quale trascorre le vacanze (abitualmente pagate dall'uomo), lo scorso aprile Castriota è volata a New York. Costo 3.200 euro.
[…] Castriota avrebbe fatto di più, tentando di portare al fallimento le società, emettendo provvedimenti che annullassero i dissequestri disposti alla procura e ingaggiando una vera e propria battaglia per disporre nuovi provvedimenti per impedire che le aziende tornassero ai titolari ed emergessero le irregolarità.
LE INTERCETTAZIONI […] Ferraro e Vitto definiscono il suo problema di «shopping compulsivo». Il 23 febbraio la giudice suggerisce all'uomo, che tra il 2018 e il 2023 dalle sole procedure finite sotto accusa ha fatturato 312mila euro: «Ti dico la verità, vorrei levarmi le rate della macchina e poi, se mi avanzava qualche soldino, me volevo comprà un Rolex di secondo polso e quindi vorrei fare questa cosa se avanza qualche cosa, magari sui 20mila euro.
Mi estinguo la macchina e mi tolgo il pensiero, comunque è un bel pensiero, e poi un regalino mi faccio, che un Rolex mi piacerebbe tanto». Delle procedure i professionisti parlavano con un gergo chiaro: «Dammi i documenti, me la studio, se c'è ciccia, come si dice a Roma, te l'accetto». E ancora: «C'è una marea di soldi da spartirsi».
L'INTERESSE Nell'ordinanza il giudice fa riferimento a come la coppia fosse tenuta unita solo dall'idea del profitto […] E infatti Ferraro dice a un amico: «Quella di Latina non ce la faccio più». E quello risponde: «Adesso sta bono, concludi le tue cose e dopo prendi la decisione». E alla domanda dell'interlocutore che chiede quanto tempo serva, Ferraro risponde: «Penso 6 mesi ancora», aggiungendo: «E te sto facendo fà pure bella figura (riferendosi a Castriota), perché le attività che portiamo avanti sono tutte attività proficue per il risultato che tu devi ottenere». E l'amico: «Se era un'impiegata delle Poste... l'avevi lasciata dopo 6 mesi».
[…]
Estratto dell’articolo di Michele Marangon per roma.corriere.it il 20 aprile 2023.
Corruzione ed induzione indebita a dare e promettere utilità: con queste accuse, a vario titolo sono state eseguite tre ordinanze di custodia cautelare, due in carcere ed una ai domiciliari, rispettivamente nei confronti del giudice per le indagini preliminari Giorgia Castriota, per il consulente Silvano Ferraro. Restrizione nel proprio domicilio, invece, per l’imprenditrice Stefania Vitto. Indagati a piede libero anche altri due professionisti coinvolti nelle amministrazioni giudiziarie ‘disinvolte’ orchestrate dai tre soggetti.
[…] La genesi dell’indagine stia nella denuncia dell’amministratore di una società di logistica sequestrata per reati tributari, che lamentava condotte poco trasparenti nella gestione dei beni che gli erano stati sequestrati da parte degli amministratori giudiziari e del coadiutore, con l‘avallo del giudice.
Le indagini sono state delegate ai finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di Perugia, facendo emergere un quadro indiziario pesante verso i tre, basato sul conferimento degli incarichi da parte della Castriota a persone con cui aveva assidue frequentazioni, in particolare Ferraro e Vitto, ottenendo prebende da parte degli stessi.
L’ordinanza fa emergere «attraverso le intercettazioni telefoniche e i riscontri documentali in quadro granitico di gravità indiziaria», facendo intravvedere un chiaro accordo corruttivo e di vendita della funzione nel quale i soggetti nominati dal giudice all’interno dell’amministrazione, già legati da rapporti personali pregressi, retrocedevano al magistrato sotto forma di contributo mensile ed altre regalie, parte del denaro che lo stesso giudice liquidava loro per l’adempimento degli incarichi».
La toga avrebbe ricevuto compensi in denaro da parte dei due amici, ma anche altre utilità come gioielli, viaggi e un abbonamento annuale per lo stadio olimpico in tribuna d’onore. […]
Arrestati anche due consulenti. Terremoto al tribunale di Latina, arresta la giudice Castriota: “Corrotta con soldi, gioielli e abbonamento allo stadio Olimpico”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Aprile 2023
Il giudice per le indagini preliminari di Perugia scrive di un “chiaro quadro di accordo corruttivo e di vendita della funzione”. È quello che emergerebbe dall’indagine che ha portato all’arresto in carcere del gip di Latina Giorgia Castriota, inchiesta che ha coinvolto anche due collaboratori nell’ambito di procedure di amministrazione giudiziaria, Silvano Ferraro, anche lui finito in cella, e Stefania Vitto, ai domiciliari.
A eseguire le misure cautelari, disposte nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Perugia, è stata questa mattina, 20 aprile, la Guardia di finanza del capoluogo umbro. Le accuse sono a vario titolo di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità.
Indagine nata dalla denuncia sporta dal rappresentante legale pro tempore di alcune società, tutte riconducibili allo stesso gruppo operante nel settore della logistica, sotto sequestro per reati tributari nell’ambito di un’inchiesta portata avanti proprio dalla Procura di Latina.
L’imprenditore ha evidenziato, nella sua denuncia, “condotte non trasparenti e irregolarità nella gestione dei compendi aziendali” sequestrati da parte dei consulenti con l’avanzo del gip. L’attività di indagine, portata avanti anche con intercettazioni, ha permesso di ricostruire rapporti amicali molto stretti tra il giudice e i due consulenti, un rapporto che, sottolinea la Procura di Perugia, “dovrebbe impedire, per legge di accettare o conferire incarichi di amministratore giudiziario e coadiutore, nel caso in cui il rapporto amicale con il magistrato è caratterizzato da assidua frequentazione“.
Stando alle indagini dei magistrati umbri, in cambio di incarichi, affidati anche al di fuori di criteri oggettivi, si intravede un “chiaro quadro di accordo corruttivo e di vendita della funzione“, scrive il gip nell’ordinanza di arresto di Giorgia Castriota, nel quale i consulenti avrebbero diviso con il giudice le cifre liquidate, spesso sotto forma di contributo mensile e regali.
Si parla in particolare di denaro, percepito “sistematicamente” come parti dei compensi in denaro liquidati dallo stesso gip nell’ambito dell’amministrazione giudiziaria o corrisposto, a titolo di compenso, dalle società sequestrate, ma anche “gioielli, orologi, viaggi e un abbonamento annuale per assistere in tribuna d’onore dello stadio Olimpico alle partite di una squadra calcio” che la giudice per le indagini preliminari di Latina avrebbe percepito dai professionisti nominati da lei e inseriti nell’amministrazione giudiziaria.
Una vicenda delicata e, come tiene a precisare il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, nei confronti degli arrestati “sussistono solo gravi indizi di colpevolezza, e non certo prove di responsabilità. Pertanto gli indagati potranno fornire tutti gli elementi a loro difesa”.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Estratto dell’articolo Valentina Errante per “il Messaggero” il 21 aprile 2023.
Denaro ricevuto «sistematicamente» e poi gioielli, orologi, viaggi e un abbonamento in tribuna d'onore allo stadio Olimpico per le partite della Roma. Non solo ma anche la spartizione con il suo compagno, un commercialista, dei compensi ottenuti grazie agli incarichi che lei stessa gli affidava. Ieri il gip di Latina Giorgia Castriota, 45 anni, è finita in carcere.
Per la procura di Perugia, violando la legge, avrebbe nominato consulenti "amici", o disposti a ripagarla, nell'ambito delle procedure di amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati.
Anche due dei professionisti ripetutamente "scelti" dal magistrato sono stati arrestati: il compagno di Castriota, Silvano Ferraro, è in carcere, mentre Stefania Vitto è ai domiciliari. Corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità, sono le accuse le accuse contestate a vario titolo nel fascicolo. […]
Gli accertamenti erano partiti proprio da Latina e sono stati condotti dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza Perugia. Hanno delineato quella che gli inquirenti ritengono una rete di rapporti amicali e di frequentazione fra i vari soggetti che, all'interno dell'amministrazione giudiziaria, hanno percepito «e stanno tuttora percependo» compensi particolarmente cospicui.
In particolare il conferimento degli incarichi sarebbe avvenuto «al di fuori di qualsiasi criterio oggettivo» e in contrasto con la norma che vieta ai professionisti di assumere gli incarichi di amministratore giudiziario e coadiutore, qualora abbiano «un'assidua frequentazione» con il magistrato che li conferisce.
Il giudice di Latina - per l'accusa - non solo avrebbe direttamente nominato e agevolato persone con cui intratteneva rapporti personali «consolidati», ossia il suo compagno commercialista, ma da quest'ultimo avrebbe poi percepito, sistematicamente, parte dei compensi in denaro liquidati da lei stessa o corrisposti dalle società amministrate dal professionista.
Non solo: Castriota dopo le nomine non avrebbe vigilato. Tanto che il giudice di Perugia le contesta «plurimi atti contrari ai doveri d'ufficio» nella gestione delle società sequestrate. Come l'omessa vigilanza o la mancata denuncia di attività illecite da parte degli ex amministratori. […]
Giorgia Castriota giudice corrotta tra viaggi, massaggi e gioielli: «Spendo una marea di soldi». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 22 aprile 2023.
La gip di Latina pilotava le nomine degli amministratori giudiziari e intercettata diceva: «Bulgari e Rolex, mi levo qualche 'sfizio'»
La giudice per le indagini preliminari del tribunale di Latina, Giorgia Castriota, 45 anni, aveva due problemi: il desiderio di soddisfare qualche costoso «sfizio», anteponendolo ai debiti accumulati e alle spese correnti, e quello di dover dipendere da sei anni da una relazione senza amore, ma sostanzioso interesse, per poterseli permettere.
«Se lavorava alle Poste la lasciavi»
«Il problema è mio che non riesco a mandarlo a quel paese», si sfogava con una amica a proposito di Silvano Ferraro, ventidue anni più grande e da lei nominato coadiutore di società in amministrazione giudiziaria: lauta paga, mano pressoché libera nei loro conti e percentuale fissa da riconoscere alla giudice sotto forma di contanti, regali, servizi. «Se era una impiegata alle poste l’avevi lasciata dopo sei mesi», rifletteva un amico di Ferraro.
L'arresto
Insieme, lui e lei, sono finiti in carcere due giorni fa per corruzione: «Giorgia Castriota è una donna che ha bisogno di soldi, non perché il suo stipendio sia basso ma perché si ostina a vivere al di sopra delle sue possibilità economiche», la descrive la collega di Perugia Natalia Giubilei nell’ordinanza d’arresto. «In questo ambito, ha pensato di sfruttare il proprio ruolo per lucrare sulle nomine del compagno e di amici da quali poi farsi remunerare come atto dovuto». Un’amica stretta della giudice, Stefania Vitto, anche lei coadiutrice giudiziaria, è ai domiciliari. L’amministratore delle società, Stefano Evangelista, è indagato assieme ad altri funzionari della galassia di Castriota.
L'abbonamento alla Roma in tribuna autorità
L’elenco dei beni e delle utilità avuti dalla giudice delle indagini preliminari, direttamente o da lei acquistati con i soldi della corruzione, è ampio: un abbonamento alla Roma calcio in tribuna autorità, valore 4.300 euro. Un Rolex da 6mila euro. L’affitto di una casa a Roma dove si ostinava a vivere nonostante l’incarico a Latina («Sai quanto mi costa di benzina andarci ogni giorno?»). I soldi da dare alla collaboratrice domestica, che condivideva con Ferraro in un continuo battibecco sulla divisione dei costi. E ancora vestiti e borse delle marche più note, massaggi e finanche la spesa nei negozi di alimentari più costosi.
Il dado di Bulgari
Un giorno Giorgia Castriota si lamentava del tenore di vita al quale la «costringeva» Ferraro con la sua contabilità sempre puntuale: «Mi doveva 1500, si è tenuto 50 che mi aveva anticipato. Diciamo che spendo una marea di soldi per la casa, per il cibo a Roma, per psicologi, psichiatri... e Silvano deve stare zitto perché non ha idea di quello che sto passando con Cesare (il cane della giudice, ndr)». Poi, nella stessa conversazione con l’amica, puntava in alto: «Volevo comprarmi il dado di Bulgari che costa intorno ai 1800 euro... ho detto quasi quasi... Poi se mi avanza qualche soldino, te lo dico, me volevo compra? un Rolex di secondo polso. Magari sui 20mila, ed estinguo le rate della macchina». A spese di Ferraro vanno a New York e progettano una seconda trasvolata a Los Angeles o una crociera sul Nilo. A Natale lui le dà mille euro in contanti ma lei soffre: «È una persona a cui uno vuole bene, ma mi sta rendendo la vita un inferno». I finanzieri contano 1400 incontri tra i due, che vanno anche assieme a trovare la famiglia del giudice in Calabria.
L'indagine di Raffaele Cantone
E quanto alle malelingue dei colleghi in tribunale: «Avete fatto un bordello dicendo che io avevo una relazione ma io vivo da sola. Quel Ferraro può essere pure che me lo sc.... ma non sono c.. vostri». Come detto la rete di Giorgia Castriota era molto più ampia. L’inchiesta della procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone nasce dalla segnalazione di un imprenditore le cui società erano amministrate in modo opaco da Stefano Schifone, che la giudice invita a dimettersi «per motivi personali» per allontanare i sospetti: «Quando vengono gli ispettori lo trovano dimesso e si attaccano al c...», confida a Vitto. Proprio l’amica prenderà il posto di Schifone («ma non deve emergere che ti ho indicata io») e soprattutto diventa nei piani della giudice un’alternativa per potersi «liberare» di Ferraro, con i tremila euro mensili che le gira su una Postepay dai suoi 10mila di stipendio, salvo richieste di extra. «Stai attenta, quella ha lo shopping compulsivo», l’avverte lui.
«Capristo corrotto da Laghi»: rinvio a giudizio a Potenza. L'ex procuratore: con lui va a processo anche l’avvocato siciliano Amara. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Marzo 2023.
È caduta per prescrizione soltanto un’accusa di calunnia. Ma l’ipotesi principale, quella della svendita delle funzioni da parte dell’ex procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, approderà a dibattimento davanti alla Corte d’assise di Potenza. Lo ha deciso ieri il gup Annachiara Di Paolo, che ha disposto il rinvio a giudizio per sei persone tra cui anche Enrico Laghi e Piero Amara: l’avvocato siciliano, da cui tutto è partito, ha provato invano a patteggiare.
L’inchiesta del procuratore Francesco Curcio e dei pm Piccininni e Borriello ha come fulcro centrale l’accusa di concorso in corruzione in atti giudiziari tra il 2015 e il 23 luglio 2019: un accordo tra Capristo, Amara, l’ex commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Laghi e il consulente Nicola Nicoletti (che ha patteggiato): in cambio «del costante interessamento» per la carriera di Capristo, e «per ottenere i vantaggi economici e patrimoniali in favore del suo inseparabile sodale» Giacomo Ragno (avvocato che dall’Ilva ottenne lucrosi incarichi di difesa), Capristo avrebbe piegato la sua funzione agli interessi degli ex vertici del siderurgico di Taranto.
Tra gli imputati c’è anche l’ex pm tranese Antonio Savasta, nonostante per lui Curcio avesse chiesto il non luogo a procedere rispetto all’accusa di rivelazione colposa di segreto d’ufficio (avrebbe reso nota l’esistenza dell’indagine sul falso esposto contro Eni). Amara inizialmente aveva chiesto di patteggiare tre mesi in continuazione con le sue numerose altre condanne, ma la pena non è stata ritenuta congrua dal gup. Nicoletti aveva invece scelto fin da subito di collaborare e da tempo ha patteggiato 16 mesi (pena sospesa).
Le indagini della Procura di Potenza a giugno 2021 portarono all’arresto in carcere di Amara e di Filippo Paradiso, mentre Nicoletti e Ragno finirono ai domiciliari. Per Capristo (nel frattempo andato in pensione) venne invece disposto l’obbligo di dimora. Laghi finì ai domiciliari a settembre (fu liberato un mese dopo dal Riesame), dopo gli interrogatori fiume di Amara. Tra le contestazioni mosse a Capristo e Paradiso c’erano pure il falso e la calunnia (quest’ultima ritenuta prescritta) per il falso esposto sul complotto contro Eni presentato alla Procura di Trani con la regia di Amara: l’ex ministro Paola Severino e l’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, si erano costituiti parte civile. Capristo, insieme a Ragno e Laghi, risponde poi di concussione: i tre avrebbero costretto alcuni dirigenti dell’Ilva a nominare Ragno come proprio difensore. Un ulteriore imputato nel frattempo è deceduto.
Capristo è già a processo per l’inchiesta che il 19 maggio 2020 lo portò ai domiciliari con l’accusa di tentata induzione indebita nei confronti di una pm di Trani. Questo nuovo processo riguarda il periodo in cui era procuratore di Trani, e in cui avrebbe sfruttato i rapporti di Amara e Paradiso per ottenere raccomandazioni al Csm «in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti». In cambio avrebbe curato gli interessi di Amara: dal falso esposto presentato a Trani, che serviva ad accreditare l’avvocato siciliano con i vertici Eni, agli incarichi ottenuti dai vertici dell’Ilva che a loro volta avrebbero potuto contare sulla disponibilità del procuratore di Taranto rispetto alle inchieste sullo stabilimento siderurgico. Tutte accuse che la difesa ha sempre respinto, ritenendo che i rapporti contestati rientrassero nell’alveo di normali conoscenze professionali.
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 15 marzo 2023.
L’epoca in cui il faccendiere Piero Amara imperversava nelle Procure raccontando ai pm la «favola di Pinocchio» e questi abboccavano come il burattino di legno con il Gatto e la Volpe sembra essere arrivata al definitivo tramonto. Ieri il Gup di Potenza, come aveva già fatto il collega di Milano per una presunta calunnia, lo ha rinviato a giudizio
in un procedimento che ruota intorno a vicende legate all’Ilva di Taranto, in compagnia dell’ex procuratore di Trani (dal 2008 al 2016) e di Taranto (sino al 2020) Carlo Maria Capristo, dell’ex commissario straordinario per l’Ilva Enrico Laghi e dell’ex pm tranese Antonio Savasta (già condannato in altro procedimento).
Ma anche gli inquirenti di Milano si sono dovuti arrendere all’evidenza della fallacia di un simile testimone, che per mesi aveva ingolosito le toghe con le panzane sulla Loggia Ungheria e sul cosiddetto Patto della Rinascente (un’invenzione per incastrare i vertici dell’Eni), e hanno chiesto il suo rinvio a giudizio per calunnia proprio per quel fantomatico accordo mai realizzato con il numero 2 della compagnia petrolifera Claudio Granata.
Un doppio colpo alla credibilità di Amara che si aggiunge ai già molti altri arrivati in questi mesi, così tanti da far assomigliare questo «impumone» professionista (mitologico incrocio tra un imputato e un testimone) in una sorta di pentolaccia dei tribunali.
Ma procediamo con ordine. Ieri Amara, considerato «soggetto attivo nella corruzione in atti giudiziari», è stato mandato a processo per tale reato insieme con Capristo, Laghi, con l’ex funzionario di polizia Filippo Paradiso e con l’avvocato Giacomo Ragno. Il legale siracusano si sarebbe prodigato per garantire a Capristo nomine da parte del Csm che non pare tuttavia siano arrivate. Amara è stato rinviato a giudizio anche per falso ideologico e rivelazione di segreto.
È stata, invece, dichiarata la prescrizione per la contestazione di calunnia: l’imputato, in alcuni esposti presentati alla Procura di Trani nel 2015, aveva accusato Emma Marcegaglia, Paola Severino e altri di un inesistente traffico illecito internazionale di rifiuti. Alla sbarra, come detto, è finito pure Laghi: cinquantaquattrenne commercialista e revisore dei conti, è stato commissario straordinario dell’Ilva e di Alitalia, mentre nel 2020 ha condotto per i Benetton la trattativa per la cessione di Autostrade..
I fatti contestati a Laghi fanno riferimento all’incarico tarantino, svolto tra il 2015 e il 2018, quando avrebbe nominato e conferito incarichi a consulenti vicini all’allora procuratore Capristo, come l’avvocato Ragno e Nicola Nicoletti, per ottenere un trattamento giudiziario di favore negli innumerevoli procedimenti per incidenti mortali e per inquinamento ambientale contro l’Ilva che intasavano il tribunale pugliese.
Amara ha tentato inutilmente di patteggiare la pena (strada intrapresa con successo, invece, da Nicoletti) e di inserire anche queste accuse nel calderone degli oltre quaranta reati che era già riuscito a chiudere con un accordo favorevole con l’accusa, ma i diversi giudici lucani che si sono occupati dell’inchiesta hanno sempre respinto queste istanze giudicando non congrua la pena proposta.
A dicembre del 2022 aveva rigettato la terza richiesta il giudice Annachiara Di Paolo, adeguandosi all’indirizzo inaugurato dalla collega Teresa Reggio che aveva precisato che «per Amara il crimine rappresenta un valido ed alternativo sistema di vita» […] Come detto, per l’avvocato siciliano arrivano brutte notizie anche da Milano e proprio dai pubblici ministeri che per anni lo hanno coltivato come fonte attendibile da utilizzare perfino nel processo più importante del decennio: quello denominato Eni-Nigeria od Opl 245.
L’aggiunto Laura Pedio e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco il 3 marzo 2023, quindici mesi dopo l’avviso di chiusura delle indagini, hanno finalmente depositato la richiesta di rinvio a giudizio nel cosiddetto procedimento «complotto» contestando ad Amara e ai suoi due sodali Giuseppe Calafiore e Vincenzo Armanna il delitto di calunnia ai danni dell’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e di Granata per il già citato Patto della Rinascente, vale a dire il fantomatico accordo che nel 2016, a detta dei tre compagni di merende, avrebbero stretto Descalzi e Granata con Armanna per fargli ritrattare le accuse contro Eni, offrendogli denaro e la riassunzione presso il Cane a sei zampe.
Il 6 marzo scorso, sempre Pedio, Civardi e Di Marco hanno, quindi, disposto l’archiviazione del procedimento iscritto contro Eni per illecito amministrativo che scaturiva dall’iscrizione di Descalzi e Granata per il reato di induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, sempre conseguenza delle false accuse di Amara, Calafiore e Armanna.
È interessante notare che tale provvedimento sia stato trasmesso al Procuratore generale di Milano Francesca Nanni che pare proprio aver commissariato la Pedio in tutto ciò che riguarda i procedimenti a carico di Eni. Amara non convince, però, neppure la Procura Generale di Perugia il cui procuratore Sergio Sottani ha impugnato per Cassazione il provvedimento con il quale il Tribunale di sorveglianza ha concesso al legale siciliano la misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali. […]
Il pm Cascini perde contro il quotidiano La Verità. Per fortuna esistono ancora magistrati corretti che applicano la Legge correttamente. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Settembre 2023
Se questo è il rigore, e l'integrità morale degli esponenti della corrente di Area come Giuseppe Cascini, si capiscono tante cose delle storture ed abusi di una certa magistratura che si sente intoccabile e pura, allorquando in realtà non lo è.
Il Gip Angela Laura Minerva accogliendo la richiesta della pm Cristina Roveda della procura di Milano guidato dal procuratore Marcello Viola ha rigettato le accuse mosse con una querela presentata il 16 maggio 2020 dal magistrato Giuseppe Cascini, esponente della corrente delle toghe “sinistrorse” di Area, nei confronti del quotidiano La Verità difeso dall’ avvocato Valentina Ramella, con un provvedimento più che motivato.
Il permaloso Cascini aveva accusato il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, di aver falsificato il contenuto delle sue conversazioni avvenute via Whatsapp con l’ex presidente dell’ Anm Luca Palamara quando quest’ultimo era componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Cascini aveva peraltro depositato la querela alla Procura di Roma, dove probabilmente pensava di poter giocare in “casa” senza valutare (o ignorare) la incompetenza territoriale di piazzale Clodio, che aveva dovuto inoltrarla per corretta e dovuta competenza alla procura di Milano, luogo ove è registrata la testata giornalistica in questione.
Nel suo provvedimento la pm Roveda della Procura di Milano ha evidenziato che quanto era stato pubblicato dal quotidiano La Verità (e ripreso integralmente dal nostro giornale) era in realtà perfettamente conforme al reale contenuto delle chat fra Cascini e Palamara, e quindi non vi era stata alcuna manipolazione o falsificazione, e che il diritto di critica esercitato dal giornalista nel valutare tali conversazioni, è stato congruo e pertinente, “posto che la critica muove da un nucleo fattuale rappresentato dal contenuto delle chat, questo mai messo in discussione tanto che è citato anche dall’opponente a sostegno delle proprie conclusioni: che pacificamente sussiste l’interesse pubblico (requisito mai contestato) e che, da ultimo, ricorre il requisito della continenza che, come noto trova il suo limite esclusivamente nell’ aggressione gratuita, pretestuosa ed immotivata della sfera morale altrui non potendosi invece condannare i toni aspri, pungenti, polemici, quali certamente sono quelli utilizzati“.
Nell’articolo del 16 maggio 2020 dal titolo “Cascini a Palamara: “Basta Davigo su La7. Dillo a Mentana“ a firma di Giacomo Amadori, oggetto della querela di Cascini, con sottotitolo “Il giudice di Area, corrente di sinistra, chiedeva aiuto per farsi eleggere al Csm e piazzare il fratello al Tribunale di Roma“, il quotidiano diretto da Belpietro aveva infatti interpretato in modo corretto il contenuto delle conversazioni fra Cascini e Palamara, evidenziando l’intesa e condivisione delle azioni correntitizie dei due interlocutori, che avevano come obiettivo non soltanto la futura (purtroppo avvenuta ed oggi conclusa) elezione di Cascini al Csm, ma anche al rientro del fratello Francesco alla Procura di Roma, con manovre poco chiare ed etiche,il quale era fuori ruolo da circa 10 anni, preferendolo in commissione e nel plenum rispetto ad altri candidati che sicuramente avevano più diritto.
Dopo la perquisizione avvenuta il 30 maggio 2019 al magistrato Luca Palamara, e la pubblicazione delle intercettazioni delle conversazioni avvenute in una suite dell’ Hotel Champagne, Giuseppe Cascini aveva parlato persino di fatti più gravi della P2, l’ormai famosa loggia “deviata” Propaganda Due guidata da Licio Gelli. Ma sempre dalle chat con Palamara risulta che il “rigoroso”… consigliere Cascini avesse chiesto a Palamara informazioni sulla candidatura a procuratore aggiunto di Bologna del suo collega Stefano Pesci, notoriamente amico intimo di Cascini con cui milita nella corrente di Area. Palamara rispondeva a Cascini “è dura“, ed in seguito qualche mese dopo inviava un messaggio più ottimista “Anche Stefano ok. Lo porto unanime la prossima settimana“.
Sempre dalle stesse chat con Palamara che Cascini sosteneva essere state “taroccate” risultava documentalmente che Palamara si era dovuto preoccupare di sistemare anche del “fratellino” di Cascini. Francesco Cascini alla fine del 2017 dopo essere stato fuori ruolo per 11 anni, distaccato al Ministero di Giustizia, stava cercando di sistemarsi alla procura di Roma invece di tornare a quella di origine, cioè a Napoli. Il “fratellino” era accompagnato anche dalla buona sorte, in quanto allungandosi i tempi del suo rientro in ruolo, era uscito il bando per un posto da pm nella procura di piazzale Clodio nella Capitale.
“Luca ho mandato l’integrazione” cioè dei documenti per aumentare il punteggio personale “sai qualcosa ?….secondo te come si mette” scriveva Francesco Cascini che si era candidato in lizza con il collega Carlo Villani, e Palamara gli rispondeva “Sto cercando di rimetterla a posto. Sono fiducioso“, E Cascini il “fratellino” rispondeva: “Luca grazie speriamo bene al plenum…. Grazie davvero, senza di te non avevo speranze“. Palamara gli spiegava il suo operato: ” Devo tenere a bada la San Giorgio (riferendosi a Maria Rosaria, una delle esponenti più importanti della corrente moderata di Unicost). Qualche giorno più tardi Palamara messaggiava a Francesco Cascini che “sta andando bene in commissione (la terza, quella che si occupa dei trasferimenti n.d.r.)”. E Cascini jr. “Ma non è già passata 3 a 3?“. Palamara: “Stanno discutendo di nuovo“.
Della questione si occupa ed attiva anche il “rigoroso” esponente di Area, Giuseppe Cascini, al quale Palamara scrive: “Ora in terza a difendere tuo fratello”. La battaglia dopo qualche ora è vinta ed il “fratellino” di Cascini ottiene il trasferimento alla Procura di Roma come sostituto procuratore. Palamara da la notizia: “Francesco, ok”. E Giuseppe Cascini dall’alto…del suo rigore scrive a Palamara: “Grazie Luca”. Identico messaggio viene mandato da Francesco Cascini: “Grazie Luca“.
Il quotidiano La Verità nei suoi articoli aveva raccontato anche come Giuseppe Cascini il 3 aprile 2018 aveva chiesto a Luca Palamara di partecipare (senza giocare) ad una trasferta di una partita di calcio della squadra dell’ Associazione. Nazionale Magistrati: “Hai già fatto la squadra per Lecce ? Io verrei per bieche ragioni elettorali“.
I legali di Giuseppe Cascini nell’opposizione alla richiesta di archiviazione della querela , formulata dalla pm Cristina Roveda della Procura di Milano, avevano sostenuto il carattere a loro dire diffamatorio del racconto giornalistico pubblicato dal quotidiano La Verità, sostenendo che “poichè vi erano solo quattro candidati per quattro posti” la nomina del loro assistito era “assolutamente certa senza bisogno dell’aiuto di nessuno”. Tesi che ignorava completamente un elemento fondamentale di ogni competizione elettorale, cioè il “peso politico” che avrebbe dato ai candidati il numero dei vori ricevuti, che il Gip Angela Laura Minerva del Tribunale di Milano ha ignorato definendola “inconferente“.
Il magistrato Giuseppe Cascini finisce puntualmente al centro di polemiche come quella altrettanto famosa che emergeva sempre dalle chat con Luca Palamara, nella quale il “rigoroso” Cascini gli chiedeva aiuto per reperire dei biglietti omaggio in Tribuna Autorità allo stadio Olimpico di Roma per suo figlio accanito tifoso romanista, circostanza che è stata anche oggetto di una interrogazione parlamentare puntualmente riportata nell’ articolo del quotidiano La Verità, per finire alle ultime vicende processuali inerenti alla fantomatica “Loggia Ungheria“, per la quale il Gip dr. Nicolò Marino con una propria sentenza lo scorso 18 gennaio 2023 ha prosciolto Marcella Contrafatto, la segretaria dell’ ex magistrato Piercamillo Davigo allorquando era consigliere al Csm (prima di andare in pensione), individuando altri reati ordinando alla procura di Roma di indagare su Giuseppe Cascini e su un altro consigliere del Csm, ipotizzando delle loro responsabilità penali per il reato di “omessa denuncia”.
La chat fra Cascini e Palamara
Cascini > Palamara: “ciao Luca, hai qualcuno da indicarmi al Coni con cui posso parlare per i biglietti dello stadio per portare anche Lollo?» (Lollo è il figlio ventenne all’ epoca dei fatti di Cascini n.d.r.)
Palamara > Cascini : “bisogna parlare direttamente con la segreteria, ora mi informo e ti faccio sapere”
Cascini > Palamara: “io ho fatto la tessera per me. Ma quello che ho in segreteria al Csm dice che non danno altri biglietti“
Palamara > Cascini : “le scorte biglietti in tribuna autorità sono esaurite, se vuoi chiediamo per un altro posto alla Roma come per Rocco” ( Rocco è il figlio di Palamara n.d.r.)
Cascini > Palamara: “non ti preoccupare ora vedo io, però dammi contatto, non posso romperti i coglioni per ogni partita“.
Se questo è il rigore, e l’integrità morale degli esponenti della corrente di Area come Giuseppe Cascini, si capiscono tante cose delle storture ed abusi di una certa magistratura che si sente intoccabile e pura, allorquando in realtà non lo è. Con quello che guadagnava come consigliere del Csm e come aggiunto della Procura di Roma, un abbonamento per suo figlio casici poteva permetterselo. E doveva pagarlo di tasca sua.
Le chat di Cascini pubblicate dal quotidiano La Verità
Tutte le chat dei Cascini (prima parte) from La Verità
Tutte le chat dei Cascini (parte due) from La Verità
Redazione CdG 1947
La festa al Csm è finita. E l’ Anm “censura” il procuratore aggiunto della Procura di Roma Giuseppe Cascini. Redazione CdG 1947 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Marzo 2023.
Il collegio dei probiviri dell' ANM ha avviato un procedimento nei confronti di Cascini ed il Comitato direttivo centrale a larghissima maggioranza (con l’astensione di Poniz) conseguentemente ha deliberato la "censura" nei confronti del magistrato romano
L’ex consigliere del Csm Giuseppe Cascini, esponente della corrente di Area, procuratore aggiunto della repubblica di Roma era arrivato a paragonare l’inchiesta su Palamara e colleghi allo scandalo P2 degli anni Ottanta, sostenendo che “noi magistrati dobbiamo essere e non solo apparire come quelli che si occupano tutti i giorni della giustizia come servizio in favore della collettività, della tutela dei diritti dei più deboli. Sforzandosi ogni giorno di essere un buon esempio per i più giovani, cosa che spesso vale molto di più di tante parole”.
Cascini era tanto impegnato a dare il buon “esempio” ai giovani …., che come emerso dalle chat agli atti dell’inchiesta su Palamara, il 18 ottobre 2018 provava ad ottenere un biglietto omaggio per il figlio per la partita di Champions League Roma-Cska Mosca. Partita alla quale lui aveva diritto a un posto in tribuna autorità del CONI, ma il figlio no, e dal trojan risulta questo scambio di messaggi tra Cascini e Palamara:
Cascini > Palamara: “ciao Luca, hai qualcuno da indicarmi al Coni con cui posso parlare per i biglietti dello stadio per portare anche Lollo?» (Lollo è il figlio ventenne all’ epoca dei fatti di Cascini n.d.r.)
Palamara > Cascini : “bisogna parlare direttamente con la segreteria, ora mi informo e ti faccio sapere”
Cascini > Palamara: “io ho fatto la tessera per me. Ma quello che ho in segreteria al Csm dice che non danno altri biglietti“
Palamara > Cascini : “le scorte biglietti in tribuna autorità sono esaurite, se vuoi chiediamo per un altro posto alla Roma come per Rocco” ( Rocco è il figlio di Palamara n.d.r.)
Cascini > Palamara: “non ti preoccupare ora vedo io, però dammi contatto, non posso romperti i coglioni per ogni partita“.
La conversazione sul biglietto “omaggio” per il figlio di Cascini venne pubblicata dal quotidiano La Verità che il 16 maggio 2020 aveva diffuso il botta e risposta, ed il magistrato rispondendo all’articolo pubblicato sulla questione del biglietto dichiarò : “appena arrivato al Consiglio ho ricevuto una tessera del Coni che mi autorizzava a entrare allo stadio, ho solo chiesto a Luca se era possibile portare mio figlio con me e se aveva un riferimento al Coni per chiedere”. Come se suo figlio fosse un magistrato, invece di essere qual’è un ragazzo come tutti quelli che per andare allo stadio a tifare per la propria squadra si pagano con i soldi propri soldi il biglietto di accesso alla stadio.
Cascini non spiegò al quotidiano La Verità se il figlio sia entrato all’Olimpico gratis o a pagamento limitandosi ad affermare di aver dato mandato al suo legale “di agire in giudizio per diffamazione”. Resta da capire quale fosse la diffamazione, in quanto a nostra opinione c’era soltanto l’intimidazione al giornale da parte di un magistrato, un violento e volgare attacco al diritto di cronaca e di critica.
Ma non solo, come scrisse a suo tempo il quotidiano il Riformista, nelle chat compaiono anche conversazioni fra Cascini e Palamara, sull’iter del tramutamento del fratello minore Francesco, (ora pm a Roma) e all’epoca fuori ruolo distaccato presso il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia.
Due mesi dopo, nei primi giorni di agosto del 2020, Giuseppe Cascini lasciò la corrente di Magistratura democratica passando in quella di Area decisione sulla quale,, deve aver pesato verosimilmente proprio la pubblicazione della chat con Luca Palamara, intercettata nell’ambito dell’indagine di Perugia. Nulla di penalmente rilevante ma messaggi che hanno creato grande imbarazzo nella sua “corrente” che ha sempre fatto un vanto autoreferenziale della questione morale in magistratura.
Il collegio dei probiviri dell’ ANM avrebbe avviato un procedimento nei confronti di Cascini ed il Comitato direttivo centrale a larghissima maggioranza (con l’astensione di Poniz) conseguentemente avrebbe deliberato la “censura” nei confronti del magistrato romano, il quale è in attesa di rientrare in servizio in Procura a piazzale Clodio, anche se circolano voci di una sua iscrizione nel registro degli indagati in altro procedimento insieme al collega Giuseppe Marra (come quest’ultimo ha dichiarato dinnanzi al Tribunale di Brescia nel processo a Davigo) . I lavori del collegio dei probiviri, nominati nel gennaio 2021 dalla giunta presieduta da Giuseppe Santalucia, dovrebbero essere coperti dal più totale riserbo. I verbali delle sedute vengono depositati in segreteria. I cinque componenti, sono tutti giudici in pensione, e dovrebbero rispettare la riservatezza. Questi i loro nomi e la loro “collocazione” correntizia: il presidente è Gioacchino Romeo, ex toga della Cassazione, vicino ad Articolo 101, l’unica corrente all’opposizione nell’attuale giunta che regge il governo dell’Anm e con un forte radicamento in Sicilia. E poi: Roberto Alfonso, ex Pg di Milano, di Magistratura indipendente. Quindi Elena Riva Crugnola, ex giudice del tribunale di Milano, toga della sinistra di Magistratura democratica. Mario Rosario Ciancio, ex presidente di sezione del tribunale di Roma, di Autonomia e indipendenza, il gruppo che faceva capo a Piercamillo Davigo, e l’ ex capo della procura di Napoli Nord Francesco Greco di Unicost.
In pieno Covid-19, nella primavera 2020, Cascini rilasciò un’intervista a Lucia Annunziata su Rai Tre e parlando sul sul “caso Palamara” disse: “Sono anni che lanciamo un grido d’allarme: questo scandalo getta un discredito sull’intera magistratura, è un problema che riguarda tutta la classe dirigente della magistratura”. aggiungendo “Ho sempre detto che l’autogoverno rischiava di suicidarsi. Abbiamo tutti la responsabilità“.
Fra i motivi della degenerazione del sistema, i troppi posti di vertice: “Su 9mila magistrati ci sono 1.200 dirigenti: è un esercito di generali ed eserciti così raramente vincono le guerre. Dobbiamo ridurre drasticamente il numero di dirigenti. Serve un passo indietro delle correnti rispetto alla gestione del potere. C’è una pressione enorme di parte della magistratura per acquisire incarichi direttivi”. E lui ne sa qualcosa…
Cascini ha sempre negato di aver chiesto favori all’ex presidente di Anm: «Quando io ho fatto la domanda come procuratore aggiunto e Luca Palamara era componente del Csm dalle chat risulta che non c’è stato nessun contatto fra me e lui, solo una comunicazione con la quale lui mi comunica l’esito del voto in commissione in mio favore, dato pubblico che poteva tranquillamente essere comunicato». Ma La Verità replicò sostenendo che Luca Palamara avrebbe indotto Sergio Colaiocco, suo compagno di corrente, a ritirarsi dalla corsa per agevolare la nomina di Cascini.
Nell’intervista rilasciata a Lucia Annunziata il pm Giuseppe Cascini non fece esplicitamente il nome del quotidiano La Verità, ma il riferimento era ovvio edevidente “Un quotidiano ha dato un’immagine di me che non rappresenta la realtà“, ha dichiarato. E poi un’ accusa grave : “C’è stata una manipolazione del contenuto di alcuni messaggi. Io ho avuto una lunga collaborazione con Luca Palamara: si è creato un rapporto tra noi». Accusa quella di Cascini che il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ha respinto, rilanciando quanto scritto nei giorni precedenti e ponendo anche degli interrogativi al pm.
“Ci verrebbe da chiedere a Cascini perché dopo che ha inviato a Perugia le carte sulla presunta corruzione di Palamara e che ha saputo dai giornali che l’inchiesta era ben avviata abbia continuato a frequentare il pm sotto indagine, successivamente definito una specie di piduista“. Il giornale faceva riferimento ad una chat risalente al gennaio del 2019, per un pranzo romano. Visto che poi Cascini ha dichiarato che le 50mila pagine di chat depositate a Perugia non riguardano loro, il precedente Consiglio, La Verità ha deciso di pubblicare, “per rinfrescargli la memoria“, pubblicando le chat in cui è coinvolto proprio Cascini e quelle degli attuali consiglieri.
Paolo Mieli, ospite a Mezz’ora in più condotto su Rai Tre da Lucia Annunziata, dialogò con il magistrato ed ora ex membro del Csm, Giuseppe Cascini, sul caso Palamara. Pur apprezzando i toni sinceri del magistrato e il “mea culpa”, a nome dei colleghi, sulle frasi proferite contro l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, venute alla luce grazie al “trojan” inserito dal Gico della Guardia di Finanza di Roma nel cellulare di Luca Palamara ed intercettato dai magistrati di Perugia titolari dell’inchiesta che vede coinvolto l’ex presidente dell’Anm , l’ex direttore del Corriere della Sera fu lungimirante non credendo che sarebbe potuto succedere qualcosa di positivo all’interno della magistratura dopo lo scandalo. Mieli replico scettico: “Le sue sono buone intenzioni, ma nella magistratura non cambierà niente. Come mai queste cose vengono fuori dai trojan e non c’è mai stato nessun magistrato che l’ha denunciate?“.
Lasciatacelo dire…. ma come si fa non dare ragione a Paolo Mieli ?
Redazione CdG 1947
Sospesa per sei mesi la pm Sinatra. «Ha fatto prescrivere reati di stalking e violenze». Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera martedì 14 novembre 2023.
La sanzione decisa da Palazzo dei Marescialli è stata ben più severa di quella chiesta dalla procura generale della Cassazione che aveva sollecitato nei confronti della pm la perdita di anzianità di tre mesi. Anche nella vicenda delle molestie subite da Creazzo il Consiglio andò oltre le istanze dell’accusa, allora addirittura la Procura generale aveva chiesto l’assoluzione della magistrata accusata di aver cercato, tramite l’amico e compagno di corrente Luca Palamara, all’epoca consigliere a Palazzo dei Marescialli, di condizionare i consiglieri del Csm e spingerli a votare contro la nomina a procuratore di Roma di Creazzo, che quattro anni prima l’aveva molestata sessualmente.
Un comportamento che il Consiglio ritenne gravemente scorretto tanto da «censurare» la Sinatra, pur vittima del collega sanzionato solo con la perdita di tre mesi di anzianità. La decisione suscitò un vespaio di polemiche, perché vista da alcuni come un brutto segnale per le donne colpevolizzate per non aver denunciato la violenza subita. «Non si ricorda a memoria d’uomo una sentenza così pesante per incolpazioni di questo tipo, che supera di gran lunga ancora una volta la richiesta della procura generale della Cassazione», commenta infatti il difensore della Sinatra, il professore Mario Serio. Il legale aveva assistito l’ormai ex sostituto procuratore, che da anni ha lasciato il pool che si occupa delle cosiddetta fasce deboli per indagare sulla mafia agrigentina, anche nella storia delle molestie.
E' accusata di ritardi nella definizione di fascicoli. La pm Alessia Sinatra molestata dal collega Creazzo: alla sbarra finisce lei…Paolo Pandolfini su Il Riformista il 7 Giugno 2023
La Procura generale della Cassazione, competente per gli illeciti disciplinari delle toghe, ha chiesto e ottenuto un nuovo processo per la Pm di Palermo Alessia Sinatra. L’accusa consisterebbe nell’aver accumulato dei “ritardi” nella definizione di alcuni fascicoli, sei per la precisione. Ieri la prima udienza. La magistrata, con la sua condotta, sarebbe venuta meno “ai doveri di diligenza e laboriosità” per “negligenza inescusabile”.
Una contestazione che ha molto sorpreso dal momento che i disciplinari nei confronti dei Pm che fanno prescrivere un loro procedimento si contano sulle dita di una mano. “Sono stato indagato per dieci anni per un abuso d’ufficio che non stava né in cielo e né in terra”, ha ricordato sempre ieri l’ex assessore al personale del Comune di Parma Giovanni Paolo Bernini (FI) presentando alla Camera il libro “Colpo al Sistema” dove sono raccontate le sue vicissitudini giudiziarie. “La Pm Paola Dal Monte scrisse che gli investigatori avevano commesso degli errori e sono stato anche risarcito”, ha aggiunto Bernini, sottolineando che quel decennale stallo “investigativo-procedurale” non aveva determinato per la toga alcuna conseguenza di tipo disciplinare.
Tornado, comunque, alla magistrata siciliana, nei mesi scorsi, suo malgrado, era balzata agli onori delle cronache per essere stata punita dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura per alcune chat scambiate con Luca Palamara. Dopo essere stata molestata sessualmente in un albergo della Capitale dall’allora procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, Sinatra aveva deciso di non denunciarlo, cercando conforto e vicinanza in Palamara. Alla vigilia della nomina del nuovo procuratore di Roma, a maggio del 2019, Sinatra aveva chiesto al collega e amico di stoppare la candidatura di quello che per lei era un “porco”.
Comportamento “errato”, per il Csm, secondo cui “non avendo ritenuto di denunciare le condotte abusanti del dott. Creazzo mediante formale querela, ben avrebbe potuto comunque far valere le sue ragioni nell’opportuna sede civile”. Il “magistrato, come qualunque altro cittadino, è tenuto ad esperire le tutele – e solo esse – consentite dall’ordinamento”, avevano scritto i giudici disciplinari. La lettura della sentenza di condanna aveva scatenato numerose polemiche per evidenti contraddizioni.
Per la sezione disciplinare del Csm, presieduta da Fabio Pinelli, le chat con Palamara rappresentavano un “condizionamento dei componenti del Csm nella scelta del procuratore della Repubblica di Roma allo scopo meramente privato di perseguire la riparazione di un torto subito”.
Palamara, però, nel maggio 2019, non era più consigliere del Csm per avere cessato dal mandato consiliare nel settembre 2018, essendo inoltre incontroverso che avesse gelosamente custodito per sé solo le rimostranze della collega, senza metterne a conoscenza alcuno e tantomeno i consiglieri del Csm in carica.
E sempre ieri sono state depositate le motivazioni della sentenza con cui il 30 maggio scorso hanno accolto la richiesta di patteggiamento a un anno per Palamara. L’accusa iniziale di corruzione era stata riqualificata dalla Procura di Perugia, con il procuratore Raffaele Cantone e i Pm Gemma Miliani e Mario Formisano, in traffico di influenze illecite. “Da quanto si evince dal compendio probatorio in atti, l’attività di mediazione svolta da Palamara è stata certamente finalizzata ad inquinare la funzione dei terzi pubblici agenti – sottolineano i giudici perugini – con cui egli aveva rapporti (o comunque era in grado di allacciarli senza difficoltà), compromettendone l’uso del potere discrezionale”.
“Come si evince dalle intercettazioni – prosegue – molti erano i magistrati, anche di altri uffici e/o sedi giudiziarie, che si rivolgevano a Palamara per avere anticipazioni sulle future determinazioni consiliari o per chiedergli di ‘caldeggiare’ domande avanzate per uffici direttivi o semi-direttivi”. “Egli era una fonte sicura di consigli, tranquillizzava e rassicurava gli interlocutori, anche grazie ad un modo di porsi certamente empatico ed accattivante. Aveva, così facendo, costruito intorno a sé una rete di relazioni interne alla magistratura, che andava a saldarsi con quella delle relazioni esterne, anch’esse coltivate assiduamente nel corso degli anni, coinvolgente politici, imprenditori, personaggi del mondo dell’informazione e perfino dello spettacolo”, aggiungono i giudici, puntualizzando che “ovviamente, Palamara non era, in ogni caso, in grado di assicurare il risultato sperato, così come la sua spendita di influenza non era sempre finalizzata a scopi illeciti”. Paolo Pandolfini
Paolo Frosina per ilfattoquotidiano.it il 9 giugno 2023.
Ha lasciato nei cassetti fascicoli delicatissimi per stalking, sequestro di persona e – in più casi – violenze sessuali su minori, dimenticandoli per nove, dieci o addirittura 17 anni, “oltre ogni ragionevole termine di durata delle indagini preliminari”. Così i reati sono tutti caduti in prescrizione, “arrecando un indebito vantaggio” agli indagati e “un ingiusto danno” alle presunte vittime.
Con queste accuse la Procura generale della Cassazione ha sottoposto (di nuovo) a processo disciplinare Alessia Sinatra, pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e a lungo membro del pool dedicato ai reati contro le fasce deboli. Sinatra è nota a livello nazionale per aver subito una molestia sessuale dall’ex procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo: invece di denunciarlo, però, per “vendicarsi” si era rivolta in privato al capo della sua corrente, Luca Palamara, chiedendogli di boicottare la corsa del collega “porco” al vertice della Procura di Roma.
Per questo, a febbraio scorso, il Consiglio superiore della magistratura le ha inflitto la sanzione simbolica della censura. Criticando la decisione, il suo avvocato aveva parlato di “grave arretramento nella difesa delle vittime di abusi”. Pochissimo tempo dopo, la pm torna davanti alla Sezione disciplinare di palazzo dei Marescialli per rispondere di violazione dei “doveri di diligenza e laboriosità”, violazione di legge “determinata da negligenza inescusabile” e “grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” proprio in relazione a procedimenti per abusi.
Gli episodi contestati sono sei, di cui uno coperto da omissis. Il primo, il più grave, riguarda una segnalazione di violenze in famiglia ai danni di tre fratellini, arrivata sulla scrivania di Sinatra nel lontanissimo giugno 2003 e firmata dal “Gruppo operativo interistituzionale contro l’abuso e il maltrattamento all’infanzia” del Comune di Palermo. I minori coinvolti, sentiti nei mesi successivi, raccontano gli abusi con “dichiarazioni univoche e coincidenti“, “ritenute dal consulente (una psicologa infantile, ndr) nel complesso attendibili”. Eppure la pm non iscrive notizie di reato e si dimentica il fascicolo per ben sette anni, fino al 5 novembre 2010, quando iscrive l’ipotesi di atti sessuali con minorenni.
Ma “impropriamente” l’accusa resta a carico di ignoti, “nonostante la completa identificazione” dello zio e della zia, “soggetti indicati dalle vittime quali autori degli abusi, sin dal 9 ottobre 2003”. La vicenda però è ancora lontanissima dal concludersi: da quel momento passano “ulteriori dieci anni“, trascorsi i quali Sinatra “si limitava a richiedere l’archiviazione in data 26 maggio 2020, dopo più di 16 anni di totale inerzia investigativa, nonostante la assoluta rilevanza dei fatti denunciati in danno di minori in condizioni di grave disagio”, scrive il pg della Cassazione.
A quel punto la prescrizione dei presunti abusi è scattata da tempo e il gip può soltanto archiviare. Ma lo fa con motivazioni durissime: “Dagli atti emergono fatti di inaudita gravità, sussumibili quantomeno nell’ipotesi aggravata di cui all’articolo 609-quinquies del codice penale (corruzione di minorenne, ndr) e comunque assolutamente meritevoli di ulteriori approfondimenti“, scrive. E invece – rimarca – le testimonianze dei fratellini “non potranno mai più trovare sfogo in un processo penale per essere state di fatto “archiviate” dalla Procura”, poiché il fascicolo è stato “trasmesso a questo ufficio dopo 17 anni di totale inattività, quando il tempo ha ormai “cancellato” il reato ma non certo il dolore di quei ragazzini“.
Su segnalazione del presidente della sezione gip, allora, il procuratore capo trasmette gli atti a Caltanissetta, dove la pm finisce imputata per rifiuto di atti d’ufficio e chiede di essere giudicata con rito abbreviato. Il gip nisseno archivia anche in questo caso l’accusa per prescrizione, ma scrive che la collega “ha deliberatamente, e senza alcuna plausibile giustificazione, deciso di “lasciare in disparte” la pratica, accettando tutti i conseguenti rischi, tra cui quello che, nelle more, il reato si prescrivesse”.
La sentenza non è stata impugnata ed è diventata definitiva lo scorso 14 aprile. Per giustificare l’incredibile ritardo, Sinatra nel 2020 inviava all’allora procuratore Franco Lo Voi una relazione in cui affermava di aver valutato le dichiarazioni dei minori come inattendibili, dimenticandosi poi di chiedere l’archiviazione a causa dell’eccessivo carico di lavoro, e che, ad ogni modo, si era trattato di un episodio isolato nell’arco della sua lunga carriera.
A leggere l’atto di accusa della Cassazione, però, si scopre che le cose non stanno affatto così: la pm è incolpata di almeno quattro condotte analoghe. La prima: aver omesso per nove anni, dal 2011 al 2020, “qualsivoglia doveroso approfondimento” su una denuncia di stalking nei confronti di un padre pregiudicato, accusato di minacciare i figli di sei e 11 anni, nonostante i ripetuti solleciti.
La seconda: aver chiesto soltanto il 30 novembre del 2020, “quando ormai il reato risultava già estinto per intervenuta prescrizione”, il rinvio a giudizio per un uomo imputato di violenza sulla nipote 14enne, reato segnalato dalla Questura il 18 ottobre del 2010, “nonostante la assoluta rilevanza dei fatti denunciati” e “le dichiarazioni rese dalla ragazza ritenute dal consulente nel complesso attendibili”.
La terza: non aver svolto “alcuna attività di indagine con conseguente scadenza dei termini massimi della misura cautelare” disposta nei confronti di un uomo imputato di violenza sessuale e sequestro di persona. L’ultima accusa, infine, è di aver omesso, per circa sei anni, “di adottare qualsivoglia determinazione” in merito a un fascicolo in cui un sacerdote era indagato per abusi sessuali e maltrattamenti nei confronti di un 13enne, nonostante le indagini avessero permesso “la ricostruzione in dettaglio degli accadimenti a riscontro di quanto denunciato dai genitori”. L’udienza disciplinare al Csm è stata fissata al 14 novembre.
(ANSA il 22 Febbraio 2023) - Nel 2021 la Sezione disciplinare del Csm aveva condannato l'allora procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo alla perdita di 2 mesi di anzianità per aver molestato sessualmente la collega Alessia Sinatra.
Oggi è stata lei ad essere condannata dallo stesso "tribunale" , alla sanzione della censura, per aver tenuto un comportamento "gravemente scorretto" nei confronti di Creazzo, per alcuni messaggini inviati a Luca Palamara. Una sentenza inaspettata visto che la procura generale della Cassazione aveva chiesto l'assoluzione. L'avvocato di Sinatra parla di "grave arretramento nella difesa delle vittime di abusi in ambito lavorativo".
L'accusa nei confronti di Sinatra si riferiva appunto ai messaggi inviati all'ex presidente dell'Anm Palamara, all'epoca leader di Unicost, ("giurami che il porco cade subito", "il mio gruppo non lo deve votare") quando Creazzo concorreva per la nomina a procuratore di Roma che il Csm avrebbe dovuto decidere a breve. Secondo la contestazione per la quale è stata condannata la pm voleva cosi' tentare di condizionare negativamente i consiglieri per una sorta di "rivincita morale" sul capo dei pm di Firenze.
Dura la reazione dell'avvocato di Sinatra, Mario Serio: "la sentenza della sezione disciplinare di condanna di una magistrata , già vittima di accertati abusi sessuali da parte di un collega, che aveva la sola colpa di avere in una conversazione privata - destinata a non essere divulgata e malgrado questo fatta ostensibile- reso manifesta la sua indignazione per la possibile promozione dell'autore del gesto ed auspicato, in ambito egualmente privato, il mancato riconoscimento del successo professionale, segna un grave arretramento nella difesa delle vittime di abusi in ambito lavorativo e suscita grave allarme".
"Malgrado la motivata richiesta di assoluzione per la scarsa rilevanza del fatto formulata dalla Procura generale della Cassazione- prosegue l'avvocato- la sezione disciplinare del Csm, composta in misura paritaria da componenti maschili e femminili e con una sostituzione per ragioni non rese note, ha condannato la donna magistrato alla sanzione disciplinare della censura, evidentemente trascurando ciascuno degli argomenti difensivi e perfino l'accorata, toccante autodifesa dell' incolpata che ha spiegato il retroterra psicologico ed il fine dei messaggi, che altro non rappresentavano se non uno sfogo segreto di una donna violata.
È un precedente pericoloso sia sul piano giurisprudenziale sia sul piano del costume sociale che non potrà non toccare le corde della diffusa sensibilità femminile. Naturalmente - conclude Serio- l'auspicio è che la Cassazione, che finalmente sta per trovare al proprio vertice una prestigiosissima e coraggiosa presenza femminile, pronunci l'appropriata e definitiva parola di Giustizia ed equità".
(ANSA il 30 marzo 2023) La sua condotta è "grave" anche perchè si è concretizzata in una "sorta di giustizia fai da te": "anzichè denunciare" chi l'aveva molestata sessualmente quattro anni prima, "si è fattivamente attivata con il dott. Palamara per condizionare" i componenti del Csm "affinchè esprimessero il loro voto contrario alla nomina del dott. Creazzo all'ufficio di procuratore della Repubblica di Roma". Lo scrive la Sezione disciplinare del Csm nelle motivazioni della condanna alla censura inflitta alla pm di Palermo Alessia Sinatra il 21 febbraio scorso. Una decisione che allora aveva suscitato un vespaio di polemiche.
La "ferma volontà" di Sinatra di "condizionare negativamente" i consiglieri del Csm, "tentando di interferire" nella loro attività, "costituisce una grave violazione del dovere di correttezza e di equilibrio", si legge nella sentenza. E la sua condotta non può essere giustificata dall'esigenza "privata e personale" di "ottenere una rivincita morale per essere stata vittima quattro anni prima di condotte abusanti".
Perchè agire come ha fatto lei per ottenere "una riparazione per l'abuso pur grave subito", si traduce in una "giustizia privata inammissibile per qualunque cittadino e ancor di più se chi vi fa ricorso è un magistrato". I rilievi nei confronti della pm non si fermano qui: anche se nell'immediatezza non aveva "ritenuto di denunciare le condotte abusanti del dott. Creazzo mediante formale querela, ben avrebbe potuto far valere comunque le sue ragioni nell'opportuna sede civile", sottolinea il "tribunale delle toghe".
«Sinatra doveva denunciare»: ecco perché il Csm l’ha punita. Per Palazzo dei Marescialli la pm molestata avrebbe tentato di impedire la nomina dell’ex procuratore di Firenze Creazzo. La difesa: «Sbalordito». Simona Musco su Il Dubbio il 27 marzo 2023
Quella della pm Alessia Sinatra sarebbe stata una sorta di «giustizia fai da te», un tentativo di condizionare l’esito della candidatura a procuratore di Roma del collega Giuseppe Creazzo, che quattro anni prima l’aveva molestata. E per farlo avrebbe sguinzagliato l’ex capo dell’Anm Luca Palamara, chiedendogli di evitare la nomina del magistrato, preferendo questa via a quella della denuncia, dimostrando così «evidente e profonda sfiducia nell’istituzione giudiziaria».
Sono pesanti le parole usate dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, che nei giorni scorsi ha depositato le motivazioni della decisione con la quale ha censurato la magistrata siciliana per via dei messaggi scambiati con Palamara. Un comportamento, il suo, che avrebbe colpito «il prestigio» dell’istituzione giudiziaria e, contestualmente, «leso la sua stessa immagine di magistrata attraverso l’indebita via dell’appartenenza correntizia».
La censura del Csm parte dalla disapprovazione per una scelta del tutto personale formulata dalla pm: quella di non denunciare Creazzo. Sinatra aveva infatti deciso di tenere per sé il suo dolore, limitandosi agli sfoghi in chat con Palamara. Messaggi carichi di disprezzo nei confronti dell’ex procuratore di Firenze, al quale augurava di non raggiungere l’ambitissima poltrona della procura di Roma, ma il cui unico scopo, ha affermato davanti alla sezione disciplinare, era quello «di voler esprimere e contenere, a salvaguardia della mia persona e del mio ruolo istituzionale, esclusivamente il mio dolore». Per il Csm, però, quegli scambi rappresentavano un tentativo di mettere materialmente i bastoni tra le ruote al percorso professionale di Creazzo, punito poi per quelle molestie con la perdita di anzianità di due mesi.
Sinatra, ha sentenziato la sezione disciplinare, avrebbe tentato «di perseguire la riparazione di un torto subìto quattro anni prima, mediante una sorta di “anelata e privatissima rivincita morale”», intesa dalla magistrata «come unica modalità suscettibile di darle soddisfazione e riparare in qualche modo il danno subito». Una modalità ritenuta «impropria e obliqua» dai giudici disciplinari, con la quale Sinatra avrebbe tentato di «condizionare negativamente le determinazioni» del Csm sulla nomina di Creazzo. Tale intenzione, secondo Palazzo dei Marescialli, si evincerebbe chiaramente dalle chat con Palamara, dalle quali «è emersa, altresì, la ferma determinazione della dottoressa Sinatra di contattare in prima persona» i consiglieri del Csm, «dichiarandosi disposta a tutto pur di impedire la nomina del dottor Creazzo (...) qualora il dottor Palamara non fosse stato in grado di farlo».
Sinatra, in sede disciplinare, aveva chiarito che quei messaggi erano dettati esclusivamente «dalla necessità di lenire la sofferenza e di ottenere in questo modo una giustizia riparativa». Ma per il Csm, il tenore delle chat «non è quello di una mera privata conversazione — comunque impropria in considerazione dei rispettivi ruoli istituzionali — su quanto potesse essere condivisibile che il dottor Creazzo andasse a ricoprire l’ufficio cui aspirava, ma è sintomatico dell’intesa tra i due soggetti che a qualunque costo avrebbero dovuto condizionare negativamente, attraverso impropri canali di stretta appartenenza correntizia, i componenti del Csm nella votazione».
A commentare le motivazioni è l’avvocato di Sinatra, Mario Serio. «Il deposito della sentenza disciplinare, completa delle ragioni, da un canto non desta sorpresa e dall’altro scuote le coscienze - dichiara al Dubbio -. Non stupisce perché già in un’intervista un consigliere estraneo alla sezione disciplinare aveva in sostanza ed in modo particolarmente originale la trama argomentativa della decisione poi puntualmente recepita. Lascia poi sbalorditi il fatto che la motivazione tralasci del tutto l’esposizione del grave fatto di violenza, giudizialmente accertato, da cui la vicenda è nata e trascuri completamente il tremendo impatto psicologico che l’abuso ha determinato nei confronti della vittima, verso la quale si leggono solo parole di biasimo e non una sola di solidarietà e comprensione. Il Csm - conclude - ha perso l’occasione per mostrare vicinanza nei confronti di una donna magistrato travolta da un evento che l’ha annichilita e segnata per sempre, preferendo punirla solo perché interlocutrice di Palamara in un ambito strettamente e dolorosamente privato. Questa terribile povertà di approfondimento ed il completo oblio delle difese ripetutamente svolte fonderanno l’inevitabile ricorso per Cassazione».
Ma davvero per il Csm le donne che non denunciano molestie sono colpevoli? Il caso della pm Sinatra, censurata da Palazzo dei Marescialli: sembrerebbe quasi che una donna che subisce molestie passi da vittima dell’abuso a colpevole, se non trova la forza di denunciare. Raffaella Paita, presidente del gruppo Azione-Italia Viva su Il Dubbio il 28 marzo 2023
L’altro ieri il Csm ha riportato le motivazioni con cui ha condannato alla sanzione della censura la magistrata Alessia Sinatra, rea di aver scambiato messaggi con Luca Palamara, l’ex Presidente dell’Anm, in cui chiedeva di fermare la corsa a capo procuratore di Roma di Giuseppe Creazzo, definendolo “porco”. Una reazione che penso sia naturale per una donna che vede il suo molestatore avanzare di carriera. Per quelle molestie, Creazzo aveva subito poi successivamente una sanzione disciplinare dal Csm, pari alla perdita di due mesi di anzianità. Una pena che è parsa talmente lieve, davanti alla gravità dei fatti, che ha suscitato giustamente polemiche vibranti.
La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha però ritenuto doveroso censurare anche la vittima, adducendo fra le motivazioni il fatto che la Sinatra non avesse denunciato il suo molestatore. Non solo quindi la magistrata, dopo aver subito un abuso, si è trovata sottoposta a procedimento disciplinare. Ma ora si trova addirittura sanzionata, fra l’altro, dando evidenza alla mancata denuncia. Un messaggio incomprensibile quello mandato dal Csm: perché sembrerebbe quasi che una donna che subisce molestie passi da vittima dell’abuso a colpevole della propria rabbia se non trova la forza di denunciare e di affrontare il calvario che ne segue.
Da donna, prima ancora che da parlamentare, non posso che solidarizzare con la dottoressa Sinatra ma allo stesso tempo indignarmi per tutte quelle donne che non hanno voce. Denunciare è doveroso, è vero. Ma è anche doloroso. Non tutte le donne vogliono rivivere il trauma, con deposizioni, indagini, processi. A volte, nelle more della giustizia, il procedimento diventa un secondo trauma. È giusto? No. Voglio dire che non si debba denunciare? Assolutamente. Spingerò sempre le donne a denunciare chi le molesta. Ma questo non vuol dire che si possa condannare chi invece questa forza non la trova. Una magistrata è, prima che un servitore dello Stato, una donna, un essere umano, con tutte le sue fragilità. Quelle fragilità che il Csm non solo ha ignorato ma ha trasformato in una colpa.
Al Csm suggerirei di dare una lettura ai dati ISTAT: il 76% di donne dichiara di non aver denunciato la molestia subita. La percentuale sale all’ 80% quando ciò avviene sul luogo di lavoro. Questa vicenda è l’ennesima conferma di come il mondo della magistratura richieda una profonda riforma. Una riforma che parta innanzitutto da un principio che sembra valere per tutti tranne che per questa categoria: chi sbaglia, paga.
Non mi stancherò mai si ripeterlo: finché per la magistratura varranno principi diversi, essa sarà irriformabile. Il mio appello al Ministro Nordio e al Governo è quello di intervenire al più presto con una vera riforma della giustizia, di non esitare a dare risposte ai cittadini ma anche a tutti quei magistrati che onestamente fanno il loro lavoro.
Occorre cambiare le regole del gioco, spezzare quella logica corporativa che porta le toghe all’autoprotezione e che non consente di avere un sistema davvero giusto. Troppi sono i casi che hanno lasciato con l’amaro in bocca: troppi, gli episodi in cui non solo chi ha sbagliato non ha pagato, ma è stato addirittura promosso. La vicenda Palamara è passata come nulla fosse: hanno ritenuto che cacciarlo fosse equivalente a cancellare il problema. Non è stato così. I fatti lo dimostrano. È ora che la politica intervenga.
Cosa è successo tra Creazzo e la Sinatra: il “porco” e la mancata denuncia. Tiziana Maiolo su Il riformista il 24 Febbraio 2023
Due storie diverse pur se intrecciate, quelle di due magistrati, un uomo e una donna, su cui si è espresso in sede disciplinare il Csm. Lui, Giuseppe Creazzo, già procuratore capo a Firenze, dove ha avuto modo di occuparsi di Silvio Berlusconi indagandolo per strage mafiosa, e anche di Matteo Renzi. Ma in questa vicenda, il magistrato Creazzo è noto come “porco”, perché così lo ha definito “lei”.
Lei, la collega più giovane e compagna di corrente sindacale, è la pm palermitana Alessia Sinatra, che nel 2015 a Roma, quando con il collega era rientrata in albergo dopo un incontro delle toghe di Unicost, era stata da lui violentemente molestata. Non usiamo l’avverbio a caso. Prima di tutto perché c’è sempre un certo tasso di violenza in qualunque gesto, anche se sotto l’apparenza scherzosa, che violi la libertà del corpo di una donna. Anche una pacca sul sedere, come fu nel caso del tifoso di Empoli, che fu processato e condannato. Ma soprattutto perché il procuratore Creazzo si era reso responsabile di ripetuti gesti molto aggressivi e volgari. Sarebbe stata violenza sessuale, se Alessia Sinatra lo avesse denunciato.
In molti si domandano, giusto perché la donna molestata deve essere comunque sempre anche un po’ colpevolizzata, perché lei non abbia compiuto quel gesto. Perché lei, pm non sia andata in procura, come sicuramente lei stessa consiglierebbe di fare a qualunque altra donna avesse subito quell’umiliazione violenta. La verità è che noi donne per prime non abbiamo del tutto chiara la percezione di violenza, e finiamo per “vederla” solo nello stupro. La seconda verità è che nelle donne più colte ed emancipate finisce con esserci maggiore ritrosia verso la denuncia, come dimostrano i vari movimenti “Me too” nati vent’anni dopo fatti di molestie e ricatti sessuali subiti da donne anche famose nel mondo della cultura e dello spettacolo. Più di recente anche le sportive e le donne in divisa hanno fatto sentire la propria voce.
Poi c’è un altro aspetto, che nel caso Sinatra-Creazzo ha aperto la strada al procedimento disciplinare nei confronti della pm, ed è stata la pretesa un po’ presuntuosa di lei di farsi giustizia da sé. Nel caso in questione la donna avrebbe potuto fare quel che una volta suggerivano le mamme e soprattutto le nonne: un bello schiaffone sulla faccia del molestatore o un calcio ben assestato. Alessia Sinatra ha preferito servire fredda la propria vendetta. Il “porco” era stato sanzionato in modo lievissimo, ridicolo, dal Csm, con la perdita di due mesi di pensione e si era poi trasferito da Firenze a Reggio Calabria, a capo della procura dei minori. Perché nel frattempo un fatto privato e privatamente raccontato per telefono dalla pm a un amico, era diventato scandalo pubblico all’interno delle centinaia di chat e telefonate svelate dal telefono del magistrato Luca Palamara indagato a Perugia.
Ed è in quel momento che emerge un fatto paradossale. Una magistrata, una persona che dovrebbe credere nella giustizia più di ogni altro, non solo non denuncia il proprio molestatore, ma ben quattro anni dopo lo ripaga con la moneta peggiore in uso nel suo mondo. Tenta, facendo pressione sul Csm che sta per decidere sulla nomina del successore di Pignatone al vertice della procura di Roma, di segare al “porco” le aspirazioni di carriera. Sono molte e ripetute le telefonate e i messaggi a Palamara finalizzate a convincere una serie di membri del Csm a non votare Creazzo come candidato al vertice della procura di Roma. Imbarazzanti. Non perché la pm continua ad appellare il procuratore di Firenze come “porco”. L’appellativo è più che meritato, e lui sarebbe stato probabilmente condannato se lei lo avesse a suo tempo denunciato.
Ma perché il “sistema Palamara” si è trasformato, come ha sottolineato la procura generale nel capo di incolpazione nei confronti della dottoressa Sinatra, in una sorta di “giustizia riparativa” ad uso e consumo della propria vendetta. E questo è grave, perché quel sistema era finalizzato a qualcosa di illecito, cioè ad alterare la regolarità delle nomine negli incarichi direttivi della magistratura. Per questo è stata censurata, e non per aver definito “porco” il collega, la dottoressa Sinatra. Ma c’è da domandarsi, visto che al Csm nei confronti di altri magistrati ben più responsabili di lei dello stesso comportamento si sono chiusi non uno ma due occhi, non è che in fondo in fondo la dottoressa Sinagra sta pagando proprio per il suo essere donna e aver continuato a gridare “porco”?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il Csm non cambia mai. Censurata la magistrata che subì abusi dal pm. Punita la Sinatra perché in una chat privata chiese di ostacolare la nomina di Creazzo. Anna Maria Greco il 22 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Guai a parlar male del proprio molestatore, la si potrebbe pagar cara. E se si è una donna con la toga indosso, forse è anche peggio. Almeno se questa è l'aria «nuova» che tira al Csm appena insediatosi.
Quello accaduto ieri si potrebbe catalogare come «danno collaterale» dello scandalo Palamara e ha molto a che fare con le intercettazioni e la loro divulgazione, anche se estranee alle inchieste. Lei si chiama Alessia Sinatra ed è una pm palermitana che, a questo punto si può dire, ha la «colpa» di essere molto attraente. Ieri la sezione disciplinare del Csm, l'ha colpita con la sanzione della censura per «comportamento gravemente scorretto» nei confronti dell'allora Procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo.
E chi è questo signore? Quello che nel 2021 è stato condannato proprio dalla sezione disciplinare alla perdita di 2 mesi di anzianità, udite udite, «per aver molestato la collega Sinatra». Più anziano e superiore in grado Creazzo nel 2015 aveva aggredito sessualmente la giovane collega in un corridoio d'albergo, in occasione di una riunione a Roma dei vertici dell'Anm. Lei non lo aveva denunciato per vergogna o per timore delle conseguenze, ma quando divennero di dominio pubblico le chat di Palamara la vicenda conosciuta da pochissimi venne fuori. In un messaggio inviato all'expresidente dell'Anm, all'epoca leader di Unicost, la Sinatra scriveva: «Giurami che il porco cade subito, il mio gruppo non lo deve votare». Si riferiva alla candidatura di Creazzo per la Procura di Roma. Per il «tribunale dei giudici» di Palazzo de' Marescialli la pm palermitana «voleva così tentare di condizionare negativamente i consiglieri per una sorta di rinvincita morale» sul Procuratore di Firenze. E dunque merita la condanna, anche se la stessa pg della Cassazione ha chiesto l'assoluzione.
Nel suo intervento spontaneo la Sinatra ha spiegato che non cercava alcuna vendetta, esprimeva la sofferenza per il «vile gesto consumato dentro l'Istituzione, in un assetto associativo». Un gesto «indecoroso e mortificante, che ha generato ferite profonde». Lei si sfogava con una delle poche persone al corrente dell'accaduto, in una conversazione «in cui si è certi di non essere letti o ascoltati», perchè «nella dimensione privata ogni sfogo dovrebbe rimanere sempre libero». Non è stato così, malgrado questa e tante altre chat non riguardassero le accuse contro Palamara, la procura di Perugia le ha inviate al Csm e tutto è finito sulle pagine dei giornali, sul web, in radio e tv.
Ora Mario Serio, l'avvocato difensore di Sinatra, si dice sbalordito per la condanna di una pm che manifestava «la sua indignazione per la possibile promozione dell'autore» della violenza ed auspicava «in ambito privato» che non fosse promosso. É, aggiunge, «un grave arretramento nella difesa delle vittime di abusi in ambito lavorativo», anche «un precedente pericoloso sul piano giurisprudenziale e del costume sociale». Ci sarà il ricorso in Cassazione e anche azioni nei confronti della procura di Perugia. «Naturalmente - conclude Serio- l'auspicio è che la Cassazione, che finalmente sta per trovare al proprio vertice una prestigiosissima e coraggiosa presenza femminile, pronunci l'appropriata e definitiva parola di giustizia ed equità».
Per quanto riguarda lui, l'avvocato che in passato è stato membro del Csm, dice che questa sentenza lo «priverà in futuro della gioia e dell'onore di difendere magistrati in sede disciplinare». La delusione è troppo forte.
Punita dal Csm dopo gli abusi. «Raccontavo solo il mio dolore». Lo strano caso della pm Alessia Sinatra, sanzionata da Palazzo dei Marescialli dopo l’accusa di molestie al collega Creazzo. Il legale: «Decisione del tutto infondata». Simona Musco su il Dubbio il 22 febbraio 2023
«Le mie parole hanno un’unica "responsabilità". Quella di voler esprimere e contenere, a salvaguardia della mia persona e del mio ruolo istituzionale, esclusivamente il mio dolore». Poco prima della sentenza con la quale la sezione disciplinare del Csm l’ha censurata per i messaggi inviata a Luca Palamara, la pm Alessia Sinatra ha provato a dare forma ai propri sentimenti e alle proprie ragioni, ripercorrendo con fatica il dolore provato dopo il 12 dicembre 2015. Ovvero dopo essere stata molestata dall’allora procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo nel corridoio di un albergo, dove i due si trovavano alla vigilia di una riunione del comitato direttivo centrale dell’Anm, di cui entrambi facevano parte.
Un episodio per il quale il magistrato è stato punito dal Csm con la perdita di due mesi di anzianità, ma che è costato una punizione anche alla vittima. E ciò per aver scritto a Palamara messaggi carichi di disprezzo nei confronti dell’ex amico, augurandosi che la poltrona della procura di Roma - per la quale in quel momento Creazzo correva - gli fosse negata. Astio, risentimento, volontà di vedere "punito" - dal destino - chi le aveva procurato dolore. Ma non per il Csm, che in quegli scambi ha intravisto un tentativo di mettere materialmente i bastoni tra le ruote al percorso professionale del magistrato, che a Roma non ci arrivò mai. La decisione - una delle prime del nuovo Csm - ha già suscitato critiche anche al di fuori della magistratura, arrivando fino ai banchi del Parlamento, dove si parla di «segnale preoccupante» per la lotta contro la violenza sulle donne, come evidenziato dalla presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio Valeria Valente (Pd). Ma è anche il punto di vista «tecnico» a suscitare dubbi.
«È una decisione che appare del tutto infondata - spiega al Dubbio Mario Serio, difensore di Sinatra davanti alla sezione disciplinare -. Manca qualunque volontà di influire negativamente sul concorso per la procura di Roma da parte della mia assistita: è evidentissimo che si trattava di uno sfogo intimo destinato a rimanere nella sfera privata, senza alcuna possibilità di divulgazione. Uno sfogo con una delle prime persone, Palamara, con la quale l’interessata, praticamente nell’immediatezza dell’aggressione, si era confidata». Ma anche dal punto di vista oggettivo, secondo Serio, la decisione sarebbe «incomprensibile». Non solo perché Palamara, all’epoca, non era più consigliere del Csm, ma anche perché non aveva dato alcuna rassicurazione o millantato la possibilità di intervenire. «Noi avevamo un fatto privato - ha aggiunto Serio - che è stato considerato capace di sovvertire gli equilibri costituzionali, cosa assolutamente priva di agganci con la realtà. Ma c’è di più: c’è da chiedersi - in un momento in cui si discute sulla legittimità di intercettazioni o captazioni di natura privata e intima -, perché la procura di Perugia abbia divulgato, trasmettendole al Csm, chat e messaggi completamente privi di rilevanza penale nel procedimento contro Palamara. Quel materiale sarebbe dovuto rimanere in archivio, proprio perché lesivo della riservatezza delle persone».
Era stata la stessa procura di Perugia, in un primo momento, a negare all’Anm le chat di Palamara, proprio in ragione della delicatezza - in termini di privacy - delle stesse. «Perché poi ha cambiato idea? - si è chiesto Serio - Perché le ha divulgate, trattandosi di atti che non avevano alcuna possibilità di circolazione, al di fuori del procedimento penale, per il quale peraltro erano irrilevanti? C’è un tema politico molto importante. Non è vero che un abuso delle intercettazioni o delle captazioni sia innocuo: ci sono dei casi in cui è particolarmente nocivo e sono i casi in cui non viene fatto un buon governo delle regole di riservatezza da parte dell’autorità inquirente».
Sinatra aveva deciso, dopo una riflessione travagliata, di non rivolgersi all’autorità giudiziaria. Ma il palamaragate e la diffusione illimitata delle chat dell’ex presidente dell’Anm hanno travolto la sua vita intima, diventata in pochi attimi di pubblico dominio. Sulla veridicità storica del fatto, ha sottolineato Serio, non ci sono dubbi, data la sentenza passata in giudicato con la quale Creazzo è stato condannato dalla sezione disciplinare. Una sentenza che «esplicitamente dichiara non soltanto vero, ma pienamente riscontrato il racconto della mia assistita». La decisione di martedì, dunque, «è solo frutto di una totale mancanza di sensibilità umana nei confronti del dramma vissuto da un magistrato. Si è preferito valorizzare in senso punitivo le chat di Palamara rispetto ad un fatto dilaniante - ha aggiunto il legale -. Chat che vengono utilizzate in modo diverso a seconda delle circostanze: alcuni magistrati non sono stati nemmeno perseguiti, inspiegabilmente. Ed è molto grave che si sia arrivati a questa condanna, che sebbene emessa da un collegio del quale facevano parte tre donne, delle quali due magistrate, riflette una concezione tipicamente maschilista dei rapporti di lavoro, secondo cui sostanzialmente ad un maschio si perdona tutto. Come si può conciliare questa pronuncia con l’esistenza di un comitato pari opportunità presso il Csm, di cui ha fatto parte fino a poco tempo fa la mia assistita?». Insomma, servirebbe un "me too" della magistratura, secondo Serio.
A giudicare Sinatra non sono stati i consiglieri che hanno effettuato l’istruttoria, bensì i neo eletti. Che senza riascoltare i testimoni, in un’unica seduta, hanno scelto di acquisire il materiale prodotto senza alcun contradditorio e pronunciarsi, respingendo anche la richiesta di assoluzione del procuratore generale. «Un esordio peggiore non poteva esserci - ha concluso l’avvocato -. Sarebbe bastato ascoltare le parole della mia assistita, mai smentite da elementi esterni, per comprendere come non vi fosse alcuna voglia di giustizia privata. Se la mia assistita avesse avuto il potere, attraverso le interlocuzioni con Palamara, di intervenire sull'attività consiliare, perché non ha chiesto qualcosa per sé? Avrebbe agito solo per procurare un danno a terzi? Era uno sfogo destinato a rimanere tra le due persone che si parlavano. E si trattava di fatti di quattro anni addietro, totalmente travolti dalla storia successiva, per cui era anche un procedimento inattuale. E pone, a mio avviso, un serio problema di legittimazione della sezione disciplinare».
Censura per la magistrata. Il caso Creazzo e la ‘vendetta’ del Csm contro la pm molestata, l’avvocato di Sinatra: "Ho perso la fiducia". Paolo Comi su il Riformista il 22 Febbraio 2023
"Sono profondamente turbato da questa sentenza e non sono più certo di avere le risorse di fiducia per continuare ad esercitare la mia ventennale attività di difensore di magistrati in sede disciplinare". A dirlo è il professore siciliano Mario Serio, difensore della pm antimafia di Palermo Alessia Sinatra, condannata ieri alla sanzione della censura dalla sezione disciplinare del Csm, presieduta da Fabio Pinelli, per aver definito "porco" l’allora procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo.
La magistrata, dopo aver subito delle molestie sessuali da Creazzo tornando in camera in albergo durante un convegno dell’Anm a Roma, si era sfogata con Luca Palamara con alcuni messaggi che poi erano diventati di dominio pubblico quando il telefono di quest’ultimo era stato sequestrato nell’indagine di Perugia. Erano i giorni in cui la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm stava votando il successore di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. Quattro i voti a favore del procuratore generale di Firenze Marcello Viola, un voto ciascuno per Creazzo e per Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo.
"Non mi dire che Creazzo ci crede?", scriveva Sinatra a Palamara, aggiungendo: "Sono pronta a tutto e lo sai".
"Io insieme a te. Sempre…", rispondeva rassicurante Palamara.
"Ma con te il porco ha parlato?", proseguiva Sinatra. E Palamara: "Assolutamente no".
"Porco mille volte", la secca replica della magistrata.
E poi: "Sono inorridita. Sento kazzate su valori e principi fondanti ed elevatissimi. E su queste basi il gruppo per il quale io mi sono spesa stando nell’angolo, farà di tutto per mettere sulla poltrona di Roma un essere immondo e schifoso", rincarò la dose la pm siciliana prima di esplodere: "Non solo io non ho mai avuto e non avrò niente ma devo assistere a questa vergogna".
Per la Procura generale della Cassazione si sarebbe trattato di "comportamento gravemente scorretto" nei confronti del capo dei pm di Firenze per ottenere una sorta di "giustizia riparativa". Interrogata sul significato dei messaggi, la magistrata raccontò allora la violenza subita e quindi l’astio nei confronti di Creazzo. E alla domanda perché non avesse denunciato il fatto, la pm disse che si era trattato di "un dolore privato" e che aveva voluto preservare "l’istituzione". Fra i vari testimoni durante il processo, svoltosi a porte chiuse, era stato sentito un professionista che aveva suggerito alla magistrata di andare da uno psichiatra, da cui poi è stata effettivamente in cura, per superare il trauma subito.
Nei mesi scorsi il Csm aveva condannato per questa vicenda Creazzo alla perdita di due mesi di anzianità. "La perpetuazione – prosegue Serio – della rilevanza delle interlocuzioni con Palamara che non è più un magistrato da anni ed appartiene al passato hanno colpito non soltanto una donna magistrata stimata ed integerrima, ma hanno sconvolto l’assetto ordinato e rispettoso fra generi nell’ordine giudiziario". "La lezione – prosegue – che si trae da questa sentenza non può che intimorire le donne che aspirano a rilevare nella propria sfera privata il carico di sofferenze patite dai comportamenti altrui", conclude quindi Serio. "Questa sentenza è un pessimo segnale per tutte le donne", il commento in serata di Raffaella Paita, deputata di Italia viva. Paolo Comi
La sconvolgente sentenza. Il Csm punisce la pm vittima di molestie, definì "porco" il procuratore protagonista della "marachella". Piero Sansonetti su il Riformista il 22 Febbraio 2023
Il Csm ha stabilito che se un uomo compie una violenza sessuale contro una donna e la donna poi dice che quell’uomo è un porco, la donna va condannata. Non era mai successo. Almeno negli ultimi 500 anni. Ecco i fatti: qualche mese fa il Csm aveva accertato che una Pm era stata molestata sessualmente da un Procuratore della Repubblica.
La notizia del reato era emersa da un messaggio privato inviato dalla Pm vittima della violenza al suo collega Luca Palamara (il messaggio era stato poi pubblicato nel libro di Palamara). Il Csm aveva esaminato il caso e dichiarato che le molestie c’erano state: ma aveva giudicato il comportamento del Pm una piccola marachella e lo aveva condannato semplicemente alla perdita di due mesi di anzianità (qualche decina di euro sulla futura pensione). Niente sospensione, niente radiazione. Si stabilì che un magistrato colpevole di violenza sessuale poteva comunque continuare a fare il procuratore.
Poi il Csm ha deciso di processare anche la vittima. Perché? Perché nel messaggio a Palamara la Pm aveva definito il Procuratore "un porco". Parola sconveniente. E anche "schifoso". Molto sconveniente. Ieri, sempre il Csm – il nuovo Csm, che tutti speravamo cambiasse strada rispetto al precedente – ha solennemente affermato in una sentenza che chi dà del porco a un magistrato solo per essere stata da lui molestata sessualmente commette una grave scorrettezza. La Pm che ha subito la violenza è stata condannata al provvedimento della censura.
Il Procuratore in questione si chiama Giuseppe Creazzo e all’epoca dei fatti era il capo della Procura di Firenze. La Pm si chiama Alessia Sinatra, ieri era su tutte le furie. Il Csm ha stabilito in modo formale che chi compie atti di violenza sessuale su una donna commette una piccola infrazione e che la vittima della violenza sessuale deve essere censurata e punita se protesta in modo eccessivo. Non credo che il presidente della Repubblica, in qualità di presidente del Csm, possa intervenire in qualche modo per correggere questa follia piuttosto infame. Però forse potrebbe compiere un atto formale di dissociazione. Sarebbe utile, credo. Utile, almeno, per lasciarci un lumicino piccolo, piccolo, piccolo di speranza.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Avrebbe chiesto trecentomila euro per pilotare una sentenza, nuova tegola giudiziaria sull'ex magistrato Michele Nardi. Nicolò Delvecchio su Il Corriere della Sera il 3 novembre 2023.
È al centro delle inchieste di Lecce e Potenza sul «Sistema Trani». È ora indagato anche dalla Procura di Bari per tentata concussione
Nuove accuse per Michele Nardi, l’ex magistrato condannato per calunnia – e per questo destituito dal Csm - e al centro delle inchieste di Lecce e Potenza sul «Sistema Trani». Insieme al commercialista Massimiliano Soave, Nardi è accusato di tentata concussione – nella sua veste di membro togato della commissione tributaria di Bari - per aver chiesto 300mila euro a un imprenditore che intendeva costruire un hotel a Bisceglie. Le indagini, coordinate dalla pm Chiara Giordano della Procura di Bari e condotte dalla finanza, partirono proprio dopo la denuncia dell’imprenditore, la cui vicenda inizia nel 2018. Il provvedimento di conclusione delle indagini è stato recentemente notificato agli indagati.
All’imprenditore, assistito da Soave in commissione tributaria, erano infatti state contestate cartelle esattoriali per 2 milioni di euro per le quali aveva si era opposto con ricorsi alla giustizia tributaria. Ricorsi accolti ma poi impugnati dall’agenzia delle entrate. Prima dell’appello, però, Nardi avrebbe chiesto al costruttore – con l’intermediazione di Soave – soldi per dirottare la causa in suo favore. Gli incontri, sempre alla presenza del commercialista, sarebbero stati tre. Soave e Nardi, come scrivono gli inquirenti, avevano da tempo un rapporto personale e il primo era stato nominato consulente anche quando il secondo era pm a Roma. L’imprenditore si sarebbe rifiutato di pagare la tangente chiesta e i procedimenti si conclusero con l’accoglimento dell’appello dell’agenzia delle entrate. Pochi mesi dopo questa vicenda, a gennaio 2019, Nardi fu arrestato per corruzione in atti giudiziari.
L'altra vicenda giudiziaria
Nardi, insieme ai pm Antonio Savasta e Luigi Scimè, è stato al centro dell’inchiesta sulla «giustizia svenduta» a Trani. Un’inchiesta della Procura di Lecce che portò a tre condanne (rispettivamente 16 anni e 9 mesi, 10 anni e 4 anni) poi annullate dalla dichiarazione di incompetenza della corte d’appello di Lecce, che inviò i fascicoli a Potenza. Anche in Basilicata, però, un giudice ha sollevato il conflitto di competenza. Sarà la Cassazione a decidere se il processo andrà avanti a Lecce o Potenza. A giugno Nardi è stato destituito dalla magistratura dopo la condanna – definitiva – a un anno e un mese di reclusione per calunnia nei confronti delle colleghe Maria Grazia Caserta e Margherita Grippo e dell’avvocato barese Michele Laforgia.
«Calunniò due colleghe»: il Csm destituisce Nardi. L’ex gip tranese rimosso dalla magistratura dopo la condanna definitiva per il falso complotto. Il giallo della lettera di Savasta. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Giugno 2023
Le false accuse mosse nei confronti di due colleghe e di un avvocato, autori di un complotto mai esistito, sono incompatibili con la permanenza nell’ordine giudiziario. Per questo ieri la sezione Disciplinare del Csm, presieduta dal vicepresidente Fabio Pinelli, ha disposto la rimozione dell’ex gip Michele Nardi, già sospeso dopo l’arresto di gennaio 2019 nell’ambito dell’inchiesta sui processi truccati ma cacciato dalla magistratura per un’altra vicenda: la condanna definitiva a un anno, un mese e 10 giorni per calunnia ai danni delle magistrate Maria Grazia Caserta e Margherita Grippo e dell’avvocato Michele Laforgia.
La storia risale al 2012, ai primi veleni interni alla Procura di Trani, e si intreccia con le indagini e i processi ancora in corso. Inizia tutto con il ritrovamento di tre proiettili nella cassetta della posta di Nardi, che poi davanti all’allora procuratore di Trani, Carlo Capristo, mette a verbale la seguente storia: «C’è un piano che ha messo a punto Laforgia, insieme alla Grippo, che praticamente prevede questo: la dottoressa Grippo si sarebbe astenuta dal processo Truck Center, facendolo transitare in base alle tabelle (...) e, quindi, il presidente del Tribunale sarebbe stato indotto - cosa che mi risulta è andata proprio così - a chiedere al ministero una proroga della permanenza della dottoressa Caserta a Trani»...
Ping pong sul processo ai giudici di Trani, il pm di Potenza: «Si torni a Lecce». Colpo di scena dopo l’annullamento della sentenza in Salento. E Nardi ricusa il gup. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta deal Mezzogiorno il 4 Aprile 2023
«La competenza su questo procedimento appartiene al Tribunale di Lecce, come ha già chiarito la Cassazione». È per questo che il pm Giuseppe Borriello ha chiesto al gup di Potenza, Lucio Setola, di dichiararsi incompetente sul fascicolo che esattamente un anno fa è stato trasferito in Basilicata dai giudici della Corte d’appello di Lecce. Ovvero quello contro l’ex gip Michele Nardi e altre quattro persone, accusate di aver truccato i procedimenti della Procura di Trani in cambio di denaro e regali per aiutare l’imprenditore Flavio D’Introno: dopo l’annullamento della sentenza di primo grado, sembra diventato il processo che nessuno vuol fare.
Ieri davanti al gup Setola si è aperta l’udienza preliminare bis, finita in Basilicata a seguito dell’annullamento per incompetenza territoriale disposto dalla Corte salentina. La Procura di Potenza ha depositato una memoria in cui riassume la giurisprudenza in materia: la Cassazione aveva già respinto l’eccezione di incompetenza del Tribunale di Lecce, e una volta cominciata l’udienza preliminare - ha detto il pm Borriello - la competenza non può più cambiare.
Anche la difesa di Nardi (avvocato Domenico Mariani) ha fatto identica eccezione, ma sostenendo che all’epoca dei fatti contestati l’ex gip era già in servizio a Roma e dunque la competenza deve essere del Tribunale di Perugia. Nardi ha poi ricusato il giudice Setola (sull’istanza dovrà decidere la Corte d’appello di Potenza), e il suo avvocato lo ha invitato ad astenersi perché - ha spiegato - Setola aveva già deciso l’udienza preliminare del processo Capristo-Nardi, in cui il giudice aveva già esaminato una parte degli stessi atti di questo procedimento (compreso l’incidente probatorio di Lecce).
Ieri hanno chiesto la costituzione di parte civile tutte le persone che sarebbero state vittime del sistema dei magistrati corrotti. Dall’imprenditore Paolo Tarantini (avvocato Beppe Modesti) agli ufficiali giudiziari e carabinieri falsamente accusati di abusi, fino all’Avvocatura dello Stato per conto di Palazzo Chigi e dei ministeri. Rigettata la richiesta di D’Introno (che ha patteggiato) di costituirsi nei confronti di Nardi.
L’udienza è stata aggiornata al 29 maggio, quando le parti discuteranno sulle questioni potenzialmente in grado di definire la fase processuale. Una ipotesi, se il giudice nel frattempo non verrà ricusato, è che il gup possa chiedere alla Cassazione (in base alla riforma Cartabia) un regolamento di competenza preventivo.
Ma se per caso gli ermellini dovessero stabilire che la sede naturale è Lecce, la sentenza di primo grado annullata (con la condanna di Nardi a 16 anni e 9 mesi) potrebbe rivivere e si potrebbe dunque ripartire dal processo di appello davanti a una sezione diversa.
L’indagine sui procedimenti truccati a Trani era partita a Lecce dopo una informativa dei carabinieri ed è sfociata, a gennaio 2019, nell’arresto dell’ex gip Nardi e dell’ex pm Antonio Savasta. Il processo ha portato alla condanna in primo grado sia degli imputati che avevano scelto di farsi giudicare con il rito abbreviato (Nardi, l’avvocato barese Simona Cuomo, l’ex ispettore Vincenzo Di Chiaro, Gianluigi Patruno e Saverio Zagaria), sia di quelli (tra cui Savasta e l’ex pm Scimè) che avevano optato per l’abbreviato. Ma due sezioni diverse della Corte d’appello di Lecce hanno annullato il procedimento per incompetenza funzionale, rilevando il ruolo «sopravvenuto» di Capristo (ex procuratore di Trani, poi passato a Taranto) e dunque la competenza di Potenza.
Lecce, annullate anche le condanne agli ex pm Savasta e Scimè: «Deve giudicarli Potenza». La corte di Appello salentina dichiara la incompetenza funzionale, come già aveva fatto anche per Nardi. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Gennaio 2023
Anche il processo agli ex pm Antonio Savasta e Luigi Scimè deve ripartire da zero a Potenza. Lo hanno deciso I giudici della Corte d’Appello di Lecce (presidente Nicola Lariccia) che hanno annullato per incompetenza funzionale le condanne in abbreviato dei due ex pm nell’ambito della cosiddetta «giustizia svenduta» al Tribunale di Trani. Savasta, difeso dall'avvocato Massimo Manfreda, era stato condannato a 10 anni, Scimè a 4. Cadono anche le condanne agli avvocati Ruggero Sfrecola e Giacomo Ragno e all’immobiliarista Luigi D’Agostino. I giudici hanno accolto una eccezione formulata dal difensore di Scimè, Mario Malcangi, che in prima battuta era stata respinta a maggio 2022. Il 1 aprile scorso la Corte di appello di Lecce aveva annullato per incompetenza funzionale anche la condanna all’ex gip Michele Nardi e ad altre quattro persone, condannate con rito ordinario, trasferendo gli atti a Potenza.
La rete del prof corruttore nei circoli della destra. "Mi muovo e fotto tutti". Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 21 Dicembre 2022.
Tedeschini e le trame nelle stanze del Tar e del potere romano. Meloni e Raggi tra i clienti del docente e avvocato ora ai domiciliari
Sapeva dare le carte Federico Tedeschini, 75 anni, principe del foro, (finito ai domiciliari ndr) docente di diritto pubblico in pensione, avvocato amministrativista di grido. Sapeva come incassare, con gli interessi, gli appoggi che forniva. Roma era la città in cui, il "prof", così veniva chiamato, si era costruito il suo regno. Nei palazzi del potere si muoveva con disinvoltura, la sua rete di conoscenze contemplava politici, capi di gabinetto, magistrati e giornalisti.
Corruzione al Tar del Lazio a Roma: arrestati gli avvocati Federico Tedeschini e Pierfrancesco Sicco. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Dicembre 2022.
In un'intercettazione dello scorso gennaio si sente il professor Federico Tedeschini dire al suo collega Pierfrancesco Sicco: "No, ma è tutto regolare, pulito. In questa maniera perché vale il principio dell'irrilevanza dei motivi. Tu mi devi andare a dimostrare che io ho fatto questo perché avevamo fatto un 'pactum sceleris'. E come cazzo me lo dimostri?".
L’operazione dei Carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Roma arriva dopo un’ordinanza di ben 80 pagine del Gip Roberta Conforti del Tribunale di Roma nell’ambito dell’inchiesta per corruzione della procura di Roma coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, che si basa su intercettazioni telefoniche e ambientali nonché analisi documentali, sono le prove su cui si fonda il provvedimento cautelare che ha portato agli arresti domiciliari per corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e in atti giudiziari nei confronti di noti due avvocati amministrativisti romani, il professor Federico Tedeschini e Pierfrancesco Sicco ed alla sospensione dagli uffici per 12 mesi per il magistrato Silvestro Maria Russo presidente della III sezione del Tar del Lazio, il legale Giammaria Covino, e Gaia Checcucci commissario ad acta presso la provincia di Imperia per le funzioni di Ente di governo dell’Ato Ovest per il servizio idrico integrato.
La Checcucci “in accordo con Sicco, che svolgeva funzione di intermediario degli accordi illeciti e riscuoteva parte del prezzo del reato” avrebbe conferito, “in violazione dei doveri di imparzialità della pubblica amministrazione, plurimi incarichi legali e di consulenza allo studio Tedeschini”.
Il magistrato amministrativo Russo, secondo quanto ricostruito dai Carabinieri del nucleo investigativo, avrebbe favorito il professor Tedeschini in almeno tre cause al Tar. In un caso il magistrato avrebbe aiutato lo studio legale Russo in un provvedimento che riguardava un suo cliente escluso in un appalto per la riqualificazione di piazza dei Cinquecento adiacente alla stazione Termini di Roma.
Chi è l’avvocato Federico Tedeschini
Quello dell’avvocato Tedeschini è il nome più noto tra gli indagati: è stato professore di ruolo all’ex facoltà di Sociologia dell’Università di Roma La Sapienza, dove ha insegnato dal 1991 ‘Istituzioni di Diritto Pubblico’. Come avvocato, si legge sul suo sito, si occupa principalmente “di appalti pubblici di lavori, forniture e servizi, nonché di diritto della concorrenza, organizzazione amministrativa, urbanistica, ambiente, pubblico impiego, espropriazioni, trasporti e infrastrutture”. Attualmente è il titolare dello Studio Tedeschini.
In un’intercettazione dello scorso gennaio si sente il professor Federico Tedeschini dire al suo collega Pierfrancesco Sicco: “No, ma è tutto regolare, pulito. In questa maniera perché vale il principio dell’irrilevanza dei motivi. Tu mi devi andare a dimostrare che io ho fatto questo perché avevamo fatto un ‘pactum sceleris’. E come cazzo me lo dimostri?“.
In un’altra delle intercettazioni agli atti il professor Tedeschini in relazione di una cena da organizzare per discutere dei loro affari con l’avvocato dello Stato Maurizio Greco (non indagato) dice: “È una marchetta… Mo’ ci danno il traffico di influenze“. In un’altra intercettazione, sempre Tedeschini, detta la linea al collega Sicco: “E poi cerchiamo anche di pensare… qualche credibile forma di consulenza su qualche cosa… Sì, sì, fuori sacco. Facciamo tante cose, quindi”.
Le conversazioni intercettate nelle indagini, secondo il gip Conforti che ha disposto i domiciliari per i due professionisti, sono “l’ennesima conferma di come Tedeschini rappresenti un centro di riferimento e di potere nella Capitale per accedere a raccomandazioni politico-istituzionali; in tal modo Tedeschini acquisisce ulteriore potere e credito presso centri di interesse da “monetizzare” al momento opportuno con richieste di favori per se’, per i suoi clienti o persone a lui vicine”.
L’indagine, secondo la procura di Roma, è il “risultato di intercettazioni telefoniche e ambientali nonché analisi documentali sono la provvista probatoria su cui si fonda il provvedimento cautelare emanato nella fase delle indagini preliminari nella quale vige la presunzione di non colpevolezza fino ad accertamento definitivo della responsabilità, il cui contenuto potrà essere vagliato nelle opportune sedi di impugnazione”.
Redazione CdG 1947
Grazia Longo per “la Stampa” il 21 dicembre 2022.
C'è la corruzione in due filoni: uno al Tar per smania di carrierismo e un altro per arrivare alla cabina di regia che decide gli investimenti del Pnrr. E c'è la suggestione politica con tanti nomi e circostanze che emergono dalle carte, ma che non ha una ricaduta giudiziaria.
In entrambi i casi corruttivi il deus ex machina è l'avvocato amministrativista Federico Tedeschini, 75 anni, che si è speso in raccomandazioni varie per aiutare a far carriera al Consiglio di Stato Maria Silvestro Russo, presidente della III sezione del Tar del Lazio, ora sospeso, che in cambio lo ha favorito almeno in tre udienze.
Tedeschini è finito ai domiciliari. Come pure un altro avvocato, Pierfrancesco Sicco, coinvolto nell'altro episodio di corruzione che vede una misura interdittiva di un anno, disposta per Gaia Checcucci, commissario ad acta presso la provincia di Imperia per le funzioni di Ente di governo dell'Ato Ovest per il servizio idrico integrato e la sospensione dalla professione di avvocato per un anno per Gianmaria Covino. Checcucci è fidanzata con Sicco ed è accusata di aver offerto alcune consulenze a Tedeschini a patto che consegnasse una parte degli introiti a Sicco.
L'indagine dei carabinieri del Nucleo investigativo della capitale sono state coordinate dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. E dalle 84 pagine dell'ordinanza si impone il rapporto tra il magistrato del Tar e Tedeschini che definisce «di reciproco soccorso e di reciproca messa a disposizione delle funzioni rivestite e favori».
Per quanto concerne, invece, Gaia Checcucci, questa avrebbe dato consulenze per un valore di 104 mila euro a Tedeschini che in cambio, le prometteva l'intervento «presso gli ambienti giusti per farla nominare a capo delle neo Unità per gestire gli investimenti del Pnrr». A tal fine Tedeschini millantava il rapporto con l'allora capo di gabinetto del ministero del Sud Francesca Quadri (non indagata), che oggi è la capo dipartimento degli Affari giuridici di Palazzo Chigi.
Tornando a Russo, avrebbe aiutato lo studio legale di Tedeschini in un provvedimento che riguardava un suo cliente escluso in un appalto per la riqualificazione di piazza dei Cinquecento.
In un'intercettazione dello scorso gennaio, l'orecchio investigativo dei carabinieri registra l'avvocato Federico Tedeschini dire al collega Pierfrancesco Sicco: «No, ma è tutto regolare, pulito. In questa maniera perché vale il principio dell'irrilevanza dei motivi. Tu mi devi andare a dimostrare che io ho fatto questo perché avevamo fatto un "pactum sceleris". E come c...me lo dimostri?».
Non finisce qui. Tedeschini voleva sollevare una campagna mediatica contro il Consiglio di Stato e «quindi proponeva di parlarne con Augusto Minzolini, direttore di una testata giornalistica nazionale: "Lui è proprio un mio amico"» . Minzolini avrebbe potuto avvicinare il presidente del Consiglio di Stato, (ex ministro degli Esteri, ndr) Franco Frattini, «lui conosce molto bene Frattini».
Ma in realtà non risulta affatto che Minzolini (estraneo all'inchiesta) abbia provveduto ad esaudire quanto sostenuto da Tedeschini. E tra l'altro Minzolini ribadisce: «Non so nulla di questa storia. Io conosco l'avvocato Tedeschini in quanto sono stato suo cliente in una causa con la Rai nel 2011 e per un'altra, sempre relativa alla Tv di Stato. Non ero al corrente fino ad oggi neppure dell'esistenza del giudice Russo»
Tra i clienti illustri di Tedeschini ci sono peraltro i big della politica. Nel 2014, l'avvocato si è schierato al fianco di Elisabetta Rampelli (la sorella di Fabio, volto stranoto di Fratelli d'Italia) per contestare i risultati delle Europee. Una battaglia combattuta rappresentando, tra gli altri, l'attuale premier Giorgia Meloni e il ministro Guido Crosetto. Ha inoltre assistito anche l'ex sindaca di Roma Virginia Raggi.
Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 21 dicembre 2022.
Sapeva dare le carte Federico Tedeschini, 75 anni, principe del foro, docente di diritto pubblico in pensione, avvocato amministrativista di grido. Sapeva come incassare, con gli interessi, gli appoggi che forniva. Roma era la città in cui, il "prof", così veniva chiamato, si era costruito il suo regno. Nei palazzi del potere si muoveva con disinvoltura, la sua rete di conoscenze contemplava politici, capi di gabinetto, magistrati e giornalisti. Le cene nei circoli romani erano funzionali a intessere le sue trame in un vorticoso giro di favori e controfavori.
E così nel sottobosco dell'alta società, tra un brindisi e un antipasto, costruiva carriere. Il centrodestra era la galassia politica a cui faceva riferimento. La sua fama ha avuto un brusco arresto quando i carabinieri del nucleo investigativo hanno bussato alla porta del suo appartamento ai Parioli: ai domiciliari per corruzione insieme a un altro avvocato, una semplice pedina mossa da Tedeschini nella sua scacchiera, il 53enne Pierfrancesco Sicco.
I due cavalli su cui l'amministrativista aveva puntato le sue fiches erano invece un magistrato del Consiglio di Stato che non riusciva a fare carriera, Silvestro Maria Russo, 65 anni, e una manager pubblica alla costante ricerca di un incarico più prestigioso, Gaia Checcucci, 52 anni. Entrambi sono finiti sotto inchiesta con l'accusa di corruzione e sospesi dai loro incarichi per un anno. La loro colpa? Aver chiesto aiuto a Tedeschini.
Il 75enne si era subito rimboccato le maniche.
Un'assistenza che prevedeva contropartite. Sono due storie separate ma che trovano in Tedeschini il punto di riferimento. I favori al giudice Il suo biglietto da visita, l'anziano amministrativista, lo porge al magistrato quando il 29 gennaio del 2022 decide di prendere in carico la sua richiesta perché, ritiene il giudice, di essere stato «buggerato dalla cricca» che governa la giustizia amministrativa. Ecco cosa dice di sé il 75enne: «Ti confesso, io ho avuto grandi amici e potenti nemici. Siccome sono uno che, bene o male, si sa muovere. Capito? Anche perché quando fai il professore sei un teorico, quando fai l'avvocato e stai in battaglia, li fotti i teorici!»
Russo è affascinato dalla premessa del legale e replica: «Ecco, a me è mancata questa capacità di sapermi muovere!». Tedeschini si compiace e spiega: «Tutti quelli che hanno provato a fottermi poi si sono trovati Dicevano sempre: "Tedeschini sai dove lo metti ma non sai dove lo ritrovi". Questo è il migliore dei complimenti che ho mai ricevuto». Punto. Tedeschini accende il motore e attiva la sua rete di contatti. Illustra il piano, "la strategia" così la chiama per andare a dama.
Lo schema di Tedeschini sarebbe questo: fare leva su Augusto Minzolini, direttore del Giornale , affinché parli con Franco Frattini presidente del Consiglio di Stato (ex ministro degli Esteri nei governi Berlusconi) e sostenga la causa del magistrato Russo. Diversamente Minzolini avrebbe fatto esplodere un caso sul suo quotidiano. Il giudice promuove la strategia.
Dall'indagine non emerge nessun aiuto fornito da Minzolini e Frattini, tuttavia il magistrato il 25 febbraio del 2022 incassa l'agognata promozione, presidente della III sezione esterna del Tar del Lazio. Nel frattempo Russo aveva già pagato la tassa al 75enne, darsi da fare per pilotare tre sentenze del Tribunale amministrativo a favore dello studio legale di Tedeschini.
Centrodestra È il centrodestra l'area storicamente di riferimento del 75enne. Nel curriculum di Tedeschini ci sono i big della politica. Nel 2014, l'avvocato si è schierato al fianco di Elisabetta Rampelli (la sorella di Fabio, volto stranoto di Fratelli d'Italia) per contestare i risultati delle Europee.
Una battaglia combattuta rappresentando, tra gli altri, l'attuale premier Giorgia Meloni e il ministro Guido Crosetto. Tre anni più tardi, l'affare a 5 Stelle di Virginia Raggi.
Tempi duri, all'epoca, per l'ex sindaca di Roma, nella bufera tanto per il caso Marra che per la nomina dell'amico e collaboratore Salvatore Romeo a segretario politico. Perché non rivolgersi al "prof"?.
Ecco il salto da FdI ai grillini e l'immediata investitura del legale a totem della verità. Uscendo dalla procura, dove si era affacciata per parlare delle nomine, Raggi parlava così: «Abbiamo depositato un parere pro veritate a firma del professor Federico Tedeschini, il quale sostiene la legittimità della nomina di Romeo».
La manager pubblica Dal mondo del centrodestra viene anche Gaia Checcucci, ex An vicina ad Altero Matteoli, salvo poi diventare una fedelissima di Matteo Renzi nel 2015 quando l'allora premier le affida un incarico prestigioso al ministero dell'Ambiente. Checcucci si rivolge al "prof" quando decide di voler rivestire un ruolo ai vertici nella gestione dei fondi del Pnrr. La dirigente pubblica è commissaria ad acta presso la Provincia di Imperia dell'Ato Ovest per il servizio idrico integrato. Da questa posizione elargisce, o promette di affidare, incarichi e consulenze allo studio Tedeschini.
A mediare nella trattativa è il compagno della donna. Ovvero l'avvocato Sicco che incassa così la sua parte, consulenze ben remunerate da parte dell'amministrativista 75enne. Il "prof" intanto si muove per cercare di saziare i desideri di Checcucci. In questo caso il piano è una cena "all'antico Circolo Tiro a Volo" nel quartiere Parioli. Uno dei più classici ritrovi dell'high society romana.
Al tavolo, secondo lo schema del legale, dovranno sedere Checcucci da una parte e Maurizio Greco, avvocato dello Stato, in compagnia della moglie Francesca Quadri, capo di gabinetto del ministero per il Sud dall'altra. Alla fine non se ne farà nulla e Checcucci non riuscirà a diventare capo dipartimento della struttura del Pnrr al ministero della Transizione ecologica. In questo caso Tedeschini non riesce ad accontentare la donna. Nonostante questo "fallimento" il gip che lo ha arrestato non ha dubbi: «Tedeschini rappresenta il centro di riferimento e di potere nella Capitale per accedere a raccomandazioni politico istituzionali».
Augusto Minzolini per “il Giornale” il 21 dicembre 2022.
Nella recente glorificazione della riforma Cartabia era stata accreditata la tesi che nei verbali di intercettazioni che vengono dati in pasto ai giornali (la linfa del circuito mediatico-giudiziario) non sarebbero stati più coinvolti i nomi di terze persone non indagate. Ieri ho scoperto che si trattava di norme scritte sull'acqua: il mio nome è stato tirato in ballo ed accostato ad una storia di cui non so nulla.
L'avvocato che mi ha difeso 12 anni fa nella vertenza con la Rai, il professore Federico Tedeschini, per anni ordinario di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, è stato coinvolto in un'inchiesta con l'accusa di aver brigato nel tentativo di promuovere un giudice del Consiglio di Stato, Silvestro Maria Russo, di cui ho scoperto l'esistenza solo leggendo i giornali. Che un avvocato dell'abilità di Tedeschini debba ricorrere a questi espedienti per vincere le cause è un'accusa che mi lascia perplesso (per usare un eufemismo). Saranno, comunque, le indagini e un eventuale processo ad accertarlo.
La congettura più assurda, che invece mi conferma quanto sia infernale il meccanismo della giustizia italiana, è l'ipotesi basata sulla frase, a quanto pare buttata lì da Tedeschini in un'intercettazione, che io potessi essere lo strumento per caldeggiare al presidente del Consiglio di Stato, Franco Frattini, la promozione di Russo.
Ora, già solo l'idea che un personaggio come me, che ha sempre avuto un giudizio severo sul sistema giudiziario, possa favorire l'avanzamento di carriera di un magistrato ha una vena irresistibilmente comica. Tanto più che il sottoscritto è stato vittima dei meccanismi perversi di certa giustizia, visto che da senatore di Forza Italia, dopo un'assoluzione, è stato condannato in primo grado da un giudice che per 12 anni era stato parlamentare del Pd e sottosegretario nei governi dell'Ulivo e in Cassazione, e si è ritrovato come relatore in Cassazione il capo di gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia del governo Prodi.
Al punto che per impedire simili obbrobri sull'imparzialità dei giudici è stata approvata una legge che impedisce alle toghe di tornare nei tribunali dopo un'esperienza politica.
A parte ciò, io con Franco Frattini non ho contatti da 12 anni. E che quel sospetto sia campato in aria lo dimostra il fatto che non sono indagato. Per cui il mio nome nell'ordinanza aveva un solo scopo: inserirlo nel circo mediatico. Esemplare l'articolo di Repubblica. Titolo: «La cricca che raccomandava il giudice: "Dico a Minzolini se parla a Frattini"». Solo che la conclusione dell'articolo (ultime cinque righe) afferma: «Non emergono gli aiuti di Frattini e Minzolini vantati da Tedeschini».
Ora, cosa c'entri un articolo così costruito con il giornalismo mi rimane oscuro. Ma soprattutto mi sorprende, anzi mi scandalizza, il comportamento di chi inserisce il mio nome in un'ordinanza senza neppure avermi interrogato sulla vicenda, soprattutto alla luce delle mille discussioni che hanno portato alla riforma Cartabia.
Motivo per cui l'attuale Guardasigilli, invece di gongolarsi in tante dissertazioni sull'universo giudiziario, farebbe bene a presentare provvedimenti, sic et simpliciter. Anche perché le riforme non vanno solo approvate, ma anche applicate. Il che è ancora più difficile. Riforma Cartabia docet.
Giustizia & Corruzione. L’inchiesta sulla giustizia amministrativa si allarga. Salgono a 18 gli indagati per affari e sentenze pilotate. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Dicembre 2022
L’indagine condotta dai Carabinieri ha origine da un altro fascicolo della procura di Roma, quello che vede indagato l' avv . Luca Di Donna ex collega e socio di studio dell’ex premier Giuseppe Conte, accusato insieme ad altri professionisti di "associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di influenze", per gli appalti che durante l’emergenza sanitaria avrebbe garantito e procurato a società e aziende
La “cupola” della giustizia amministrativa nella Capitale, che manovrava dietro le quinte e riusciva a pilotare le nomine persino per gli incarichi ministeriali avrebbe agito “in modo sistematico (secondo abitudini e consuetudini certamente risalenti nel tempo), avvalendosi di schemi e meccanismi collaudati, oltre che di esperienze, competenze e relazioni personali consolidate” per la procura di Roma. Nell’inchiesta che ha portato ai domiciliari l’avvocato Federico Tedeschini e il suo collega Pierfrancesco Sicco, e alla sospensione per un anno dai loro incarichi l’avvocato Gianmaria Covino, la manager Gaia Checcucci e il giudice amministrativo Silvestro Maria Russo (anche per loro i pm avevano chiesto l’arresto). Dalla documentazione depositata dai pm Gennaro Varone e Fabrizio Tucci, emergono i veri contorni di un’inchiesta che, tra nomi “omissati” e approfondimenti tuttora da effettuare, conta almeno 18 indagati.
Dagli atti dell’inchiesta viene alla luce il “modus operandi” di Tedeschini, che attraverso una fitta rete di relazioni, puntava dritto ai ministeri, come quello per il Sud e quello per l’Ambiente; con l’obiettivo di ottenere la nomina della Checcucci (che per “ringraziarlo” lo avrebbe retribuito con consulenze) a capo dipartimento di una delle strutture che avrebbe gestito i fondi europei del Pnrr .
Il collegamento con un’indagine su un ex-socio di studio dell’ex premier Giuseppe Conte
Non è un caso infatti che l’indagine condotta dai Carabinieri abbia origine da un altro fascicolo della procura di Roma, quello che vede indagato l’ avv . Luca Di Donna ex collega e socio di studio dell’ex premier Giuseppe Conte, accusato insieme ad altri professionisti di “associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di influenze“, per gli appalti che durante l’emergenza sanitaria avrebbe garantito e procurato a società e aziende .
l’ avv . Luca Di Donna
I Carabinieri nella loro relazione alla Procura di Roma spiegano in che modo Tedeschini puntasse al Ministero per il Sud. Anche a costo di utilizzare amici, più delle volte inconsapevoli delle trame ordite. Si legge in un’informativa: “A partire dal 4 novembre (2021) sono state intercettate alcune conversazioni telefoniche in cui Tedeschini si prodiga per fissare un appuntamento con la dottoressa Quadri, coniuge del suo amico avvocato dello Stato Maurizio Greco (non indagati ndr)”. Francesca Quadri, consigliere di Stato, era il capo di Gabinetto del ministro per il Sud e la Coesione Territoriale Mara Carfagna, che avrebbe dovuto d’intesa con il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano (estraneo all’indagine ndr) , proporre al presidente del Consiglio il nominativo del commissario straordinario per la Zes, Zone economiche speciali, Puglia.
Ma si erano rivolti in tanti a Tedeschini, scrivono nell’informativa i Carabinieri: Gaia Checcucci, Vera Corbelli, presidente dell’autorità di bacino distrettuale dell’Appennino meridionale, Arnaldo Sala ex-consigliere regionale pugliese e Giosy Romano, attuale presidente della Zes Campania. Aggiungono i militari: “Per quest’ultimo va fatto un discorso a parte, potendo lo stesso contare, per il suo ruolo politico, anche su canali diretti di interlocuzione con il ministro“. Per i militari i clienti citati si erano rivolti a Tedeschini per trovare il giusto canale istituzionale che assecondi le loro aspirazioni“.
Lo scorso 10 marzo scorso Tedeschini e Sicco, intercettati, commentavano la possibile nomina della Corbelli a un ruolo di vertice al ministero dell’Ambiente. Ma si pone il problema dell’incompatibilità con l’incarico dell’autorità di Bacino e l’ avv. Sicco commenta: lei lascerebbe il posto, “perché in quella Direzione di cui parlo io, tutte le bonifiche, tutto il suolo, tutto: c’ha il 60% del bilancio del ministero” aggiungere poi: “Nel vecchio incarico lei si farebbe sostituire da Gennaro”.
Tra le iniziative più impegnative di Tedeschini c’era quella di “sistemare” sua figlia Lodovica all’Agcom, l’ Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. I Carabinieri del Nucleo investigativo di Roma, annotano: “Ulteriore conversazione di interesse è quella avvenuta presso lo studio di largo Messico tra Tedeschini, Innocenzi (Giancarlo Innocenzi, ex commissario AGCOM ed ex presidente di Invitalia – ndr) e la moglie di quest’ultimo Lenzi Alessandra, funzionario presso l’Agcom“. È la stessa funzionaria a farsi avanti prospettando a Tedeschini la possibilità di favorire l’assunzione di Lodovica all’autority che si occupa di comunicazione (“Hanno un sacco di soldi in pancia e vogliono giustamente fare le assunzioni nuove“, dice il prof). Quindi una raccomandazione. Che contiene in sé anche un ulteriore aggiramento delle norme e regole.
Lodovica Tedeschini all’università ha ottenuto un punteggio basso . E quindi secondo quanto previsto dalle norme e regole non potrebbe superare la selezione necessaria per entrare all’Agcom. Serve una soluzione che lo scaltro Tedeschini però afferra immediatamente: “Là può entrare come mobilità, certo… le facciamo vincere un concorso scamuffo …“. La proposta (superare un concorso truccato) convince subito tutti e quindi si passa alla messa in atto del piano. “A comprova – spiegano gli inquirenti – del potere di Tedeschini di intervenire addirittura per far vincere alla figlia un concorso truccato per poi farla transitare, con mobilità, presso l’Agcom“. Contestualmente i due parlano anche con l’avvocato Nicola Petracca (non indagato – ndr ), al quale Tedeschini illustra la problematica che riguarda la Lenzi: “Il problema di Alessandra è il seguente punto, che questo è il momento nel quale l’Autorità sono carichi di soldi, si può organizzare per la sua carriera… inventarci qualche cosa sulle funzione“.
L’esperto di diritto amministrativo a sua volta si rendeva disponibile, a ricambiare favori ricevuti o a interloquire con professionisti autorevoli per aiutare gli amici. Così, di nuovo, secondo le annotazioni dei Carabinieri: “L’avv. Antonella Minieri telefona al prof. Federico Tedeschini chiedendogli di intercedere per l’esame universitario di diritto amministrativo che il figlio avrebbe dovuto sostenere l’indomani con il prof. Salvatore Romano (docente all’ Università Luiss,ndr)”.
Il professor Tedeschini in questo periodo, era alla ricerca continua di liquidità finanziare per fare fronti a numerosi problemi fra i quali i costi di mantenimento dello studio legale ed i debiti con il fisco. Dalle carte dell’inchiesta emerge un suo consistente debito con l’ Agenzia delle Entrate per circa 590 mila euro ed un conto corrente pignorato per via di un debito legato a un contenzioso civile, e quindi si vedeva costretto a dilazionare i pagamenti dovuti all’avvocato Pierfrancesco Sicco, referente importante assieme alla sua compagna Gaia Checcucci della sua attività di lobbing.
“Mo’ i soldi arrivano, ma devi aspettare, perché guarda che c… mi è successo – cerca di temporeggiare Tedeschini con Pierfrancesco Sicco, compagno della Checcucci, accusato di aver fatto da intermediario nella triangolazione delle consulenze alla base dell’accusa di corruzione – Ti ricordi la lite con l’avvocato Lorusso (Piero, ndr) per l’appartamento di sopra? Mi ha fatto pignorare tutto, anzi tutti i conti (…) Ho fatto aprire un conto da mia moglie sennò pigliano 200mila euro (…) Questo è uno che vorrei cacciare via, ma ancora occupa due stanze qua dentro, non riesco a cacciarlo via… è quello del servizio delle Iene“. I pm Gennaro Varone e Fabrizio Tucci scrivono: “La ragione della richiesta è nell’ esigenza dello studio di evitare che le somme introitate da enti pubblici possano essere oggetto di pignoramento da parte dell’Agenzia delle Entrate nella procedura di rottamazione pendente” .
La trasversalità delle relazioni del professor Tedeschini viene fuori anche nella partita per la nomina a presidente di sezione del magistrato amministrativista Silvestro Maria Russo, accusato di corruzione in atti giudiziari e interdetto per un anno dal suo incarico su ordine del gip del Tribunale di Roma, Roberta Conforti. Il 31 gennaio scorso Tedeschini e Russo vengono intercettati mentre parlano proprio di questo problema e delle difficoltà di Russo ad assumere incarichi più importanti, fatto che lui imputava a nemici che aveva all’interno, tra i quali citava il consigliere di Stato Oberdan Forlenza, membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa: “Ma il problema è questo… qui c’è una cricca spartitoria che è governata come al Csm. La cricca spartitoria ovviamente, si allarga con me, perché sa che io non c’ho santi in paradiso, siamo sempre lì, anzi avevo pregato i miei colleghi di Consiglio di Stato (…) non viene comandato da quattro strummoli di terre, alcuni dei quali psicopa, uno camorrista gli altri psicopatici… allora l’intesa spartitoria è stata quella di mandare anzitutto gli uomini del Consiglio di Presidenza“.
Dopo aver fatto delle sue previsioni in relazione alle varie nomine, Russo riferisce che, in quel momento, non erano rimasti incarichi di prestigio, ma solo “scartine”, tra i quali vi era la Presidenza del Tar dell’Abruzzo: “Allora, l’intesa spartitoria è questa, adesso che cosa sono rimasti, le scartine, perché fra poco a marzo, ad aprile, se ne va Umberto Realfonzo e si libera… siccome lì, il Tar dell’Abruzzo, tranne che ci vuole andare Tasso… Tassoni... poco appetito, insomma“. Tedeschini, a sua volta, cercava di convincere l’amico giudice che il Tar dell’Abruzzo era un posto appetibile, poiché era in corso la ricostruzione post terremoto: “Guarda che il Tar dell’Abruzzo c’ha tutta la ricostruzione, eh! Non è un Tar secondario… e poi è comodo da raggiungere“. I due commentano anche l’assegnazione del Tar della Lombardia. Russo dice: “Basta, perché già la Panzironi si è prenotata il Tar della Lombardia e passerà in tromba”.
Oggi il prof. Tedeschini, difeso dall’avvocato Gaetano Scalise è stato interrogato dal gip per circa quattro ore. “Ha risposto a tutte le domande e ha ribattuto punto per punto alle accuse che gli sono state mosse – spiega all’ ADNKRONOS l’avvocato Scalise difensore di Tedeschini, insieme al collega Michele Andreano, – dando una contestualizzazione alle intercettazioni, di cui abbiamo chiesto gli audio per avere un quadro completo. Ha dato dimostrazione che non c’e’ stata alcuna corruzione e che quello di cui si parlava nelle conversazioni intercettate erano contenuti già presenti nei ricorsi”, aggiunge il penalista che ha avanzato la richiesta di revoca della misura cautelare. Istanza sulla quale il gip si è riservato di decidere.
Nel corso degli altri interrogatori il giudice Russo si è avvalso della facoltà di non rispondere. Sentito anche l’avvocato Covino, sottoposto a misura interdittiva. “Ha risposto per un’ora e mezza con assoluta disponibilità e onestà processuale – ha dichiarato il suo legale, Francesco Caroleo Grimaldi – abbiamo formulato istanza di revoca della misura interdittiva“. Redazione CdG 1947
Estratto dell’articolo di Michela Allegri e Valentina Errante per “il Messaggero” il 23 Dicembre 2022.
Silvestro Maria Russo non era l'unico giudice con cui l'avvocato Federico Tedeschini aveva rapporti confidenziali. Sono diverse le conversazioni captate dalle cimici che i carabinieri del Nucleo investigativo di Roma hanno piazzato per mesi nell'ufficio dell'amministrativista in cui lui fa riferimento, con i clienti, «ai suoi rapporti con magistrati».
Si legge negli atti dell'inchiesta che ha fatto finire il legale ai domiciliari insieme al collega Pierfrancesco Sicco, e che ha portato alla sospensione del giudice Russo e del commissario ad acta della provincia di Imperia, Gaia Checcucci. Gli indagati, con accuse che vanno dalla corruzione alla corruzione in atti giudiziari, sono in tutto 18.
[…] Ma la rete del Prof - come è chiamato da colleghi e collaboratori - usciva dalle aule di tribunale per arrivare ai vertici delle istituzioni. Quando Pierfrancesco Sicco chiede una mano per fare ottenere alla compagna la nomina a capo dipartimento o dirigente al ministero della Transizione ecologica, nei ruoli che si sarebbero aperti per la gestione dei fondi del Pnrr, è consapevole di poter puntare in alto.
Non sa però di essere intercettato: «A noi serve una persona dentro per realizzare le attività, ce l'hai questo spazio disponibile visto che non hai il capo dipartimento del Pnrr. Stesso discorso lo devi fare a Cingolani - l'ex ministro, che è estraneo alle indagini, ndr -, ci sono quattro posti liberi in due ministeri», dice. Sta parlando con Tedeschini, che replica: «E uno sarebbe per Gaia?».
Il riferimento è alla compagna di Sicco, Gaia Checcucci, che, per l'accusa, in qualità di commissario della provincia di Imperia ha affidato incarichi per centinaia di migliaia di euro in via praticamente esclusiva allo studio del professore. In cambio, lui avrebbe restituito una parte degli importi fatturati sotto forma di tangenti mascherate da finti contratti di consulenza.
Dalle intercettazioni sembra emergere l'esistenza di un tariffario prestabilito. Quando Sicco si presenta con il prospetto dei pagamenti, elencando gli incarichi ottenuti dal collega grazie alla Checcucci, la cifra viene suddivisa. Il 20 per cento è destinato ai collaboratori dello studio, mentre il 30 per cento è per il professore.
«Su questi devi sempre togliere il 20 per cento che si prendono loro, come sai eh? - dice Tedeschini - guarda, tu mi devi soltanto pagare il 30%». I carabinieri sottolineano che «il carattere illecito degli accordi sottesi alla fatturazione appare più evidente quando Tedeschini dà direttive al collega su come, quanto e cosa fatturare».
Addirittura lo tranquillizza: il suo studio segue casi diversificati, quindi ha la possibilità di giustificare forme diverse di collaborazione «così da consentire al collega Sicco l'emissione di molteplici fatture per importi poco rilevanti, che destino meno attenzione», si legge negli atti.
Ecco un'intercettazione considerata rilevante: «Cerchiamo di pensare, perché ricorda sempre su sta cosa dobbiamo stare attenti, qualche credibile forma di consulenza... fuori sacco - dice il Prof a voce bassa - facciamo tante cose... le fatture piccole a poche settimane di distanza non ci fa caso nessuno». []
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 23 Dicembre 2022.
Indebitato eppure imperturbabile il professor Federico Tedeschini, commentava la procedura di sequestro dei conti intrapresa nei suoi confronti dall'Agenzia dell'entrate (oltre mezzo milione di euro) così: «Sennò io me li faccio pure pignorare a me che me ne frega. Li pignorano, poi li spignorano...». Nella vicenda di presunta corruzione ricostruita dai carabinieri del Nucleo investigativo anche il temperamento dei singoli si rivela, dunque, importante.
Ad esempio Gaia Checcucci, il pubblico funzionario di Imperia che faceva convergere consulenze (con denaro pubblico) sullo studio Tedeschini sembra impaziente di difendersi, ricostruire, spiegare e dunque il 3 novembre scorso si presenta in Procura puntando il dito contro chi l'aveva preceduta per spiegare cosa l'avesse portata a eleggere il prof Tedeschini proprio consulente: «Mi sono trovata davanti ad una situazione particolarmente critica. Situazione complessa perché niente era a regime. Ho trovato molti contenziosi in essere... Mi sono così rivolta ad uno studio non della zona, intenzionalmente, perché volevo la massima discontinuità rispetto a quel territorio...».
Tace, invece, su quello che, a detta dei pm, è il vero movente delle sue scelte. Servirsi del capitale relazionale di Tedeschini per farsi nominare ai vertici di unità che gestiscono il Pnrr e i relativi fondi. Il prof che collezionava pistole (gliene sono state confiscate otto: tutte con porto d'armi) e puntava ad avvicinare responsabili delle istituzioni e uomini politici per aumentare la propria influenza e le consulenze del proprio studio ascolta con soddisfazione le parole dell'avvocato Pierfrancesco Sicco che annuncia nuovi incarichi per Checcucci (e dunque per loro): «Il ministro ha incaricato Gaia di fare il segretario dell'Autorità di distretto... sta in firma a Draghi».
Mentre Tedeschini progetta di cenare con il neo presidente della terza sezione del Tar, Silvestro Russo, il quale, annotano gli investigatori, «dice che festeggeranno a Trinità dei Monti da Ciampini». C'è poi Sicco jr che, in una crescente agitazione, rimprovera suo padre: «No è tutta me... - dice Leonardo Sicco riguardo al prof - però lui c'ha solo tanti buffi da avere ... dovere prendere dei soldi da uno che c'ha un milione d'euro di erario».
Poi, in uno sfogo improvviso grida al padre: «Sei stato 10 giorni in montagna (Sicco senior sarebbe stato in Val Venosta, ndr ) a non fare un ca.. e non ti sei mai degnato di aiutarmi!». Davanti alla gip Roberta Conforti, Russo si è avvalso della facoltà di non rispondere, fa sapere il suo difensore Pierluigi Mancuso: «Questo per avere il tempo di prendere visione del compendio probatorio e contrastare le accuse mosse». Diversamente l'interrogatorio di Tedeschini, assistito dai suoi difensori Michele Andreano e Gaetano Scalise, è durato 5 ore: «Ha respinto ogni ipotesi di corruzione».
Fabio Amendolara per “la Verità” il 23 Dicembre 2022.
L'inchiesta di Roma sull'avvocato Luca Di Donna e sul giro di legali legati all'ex premier Giuseppe Conte miete la prima vittima: Federico Tedeschini, pure lui noto civilista della Capitale che, mentre con La Verità scherzava, con un gusto tutto romano per la battuta, sull'inconsistenza del traffico di influenze illecite, avrebbe commesso, secondo il giudice che per lui ha disposto gli arresti domiciliari, un reato più grave, la corruzione.
«Per noi avvocati il traffico di influenze che vol di'?», giocherellava mentre i cronisti della Verità gli chiedevano un anno fa se era stato perquisito. Prima di congedarsi fece una previsione: «Con questa accusa nel processo mi assolvono, ma prima mi rompono le scatole». E con la consueta arguzia affermò che li stava aspettando: «Vengano pure, non sono uno che si spaventa». L'altro giorno i carabinieri si sono presentati a casa sua. E del collega Pierfrancesco Sicco (finito pure lui ai domiciliari).
Ma sono state notificate anche altre misure cautelari: la sospensione dai pubblici uffici per 12 mesi per il magistrato presidente della Terza sezione del Tar del Lazio, Silvestro Maria Russo, per l'avvocato Giammaria Covino e per il commissario ad acta dell'Ato di Imperia, Gaia Checcucci (ieri inibita dal governatore ligure Giovanni Toti). L'inchiesta, proprio come aveva ricostruito La Verità, parte da quella su Di Donna, nella quale emerse che nello studio Alpa-Di Donna durante la pandemia si sarebbe consumato un incontro per l'affare mascherine, con un imprenditore in cerca di contatti per ottenere commesse dal commissario per l'emergenza, Domenico Arcuri.
E dopo l'articolo della Verità dell'ottobre 2021, i carabinieri, con due informative del febbraio 2022, segnalano alla Procura di Roma alcune «conversazioni [...] costituenti autonome notizie di reato in tema di corruzione». Tedeschini con Di Donna ha condiviso più di una causa civile. Tra queste ne spicca una a difesa del presidente del porto di Trieste Zeno D'Agostino, silurato da una decisione dell'Anac che aveva ritenuto inconferibile l'incarico.
I giornali notarono subito il dream team messo in campo da D'Agostino: il professor Guido Alpa, mentore di Conte, e con lui anche Di Donna (l'Autorità portuale lo ha pagato 15.000 euro) e Tedeschini. Il prestigioso collegio difensivo incassò una vittoria davanti al Tribunale amministrativo e D'Agostino tornò in sella. Ma i carabinieri si sono concentrati su alcuni contenziosi amministrativi.
E le due strade di Di Donna e di Tedeschini si sono divise. Dalle chiacchierate intercettate nello studio Tedeschini, annotano i carabinieri, sarebbe emerso che l'avvocato «non solo avrebbe messo a disposizione dei clienti la sua professionalità, ma soprattutto collaudati rapporti con pubblici ufficiali in posizioni apicali». E, così, intercettazione dopo intercettazione, è stata ricostruita quella che secondo i pm era la volontà di interferire con le centrali del potere romano.
Con trucchetti per pilotare provvedimenti amministrativi e strategie per tentare di influenzare le nomine all'interno del Consiglio di Stato (con tanto di «cavallo di Troia» con il compito di informare il presidente Franco Frattini che l'eventuale pubblicazione di notizie in merito avrebbe screditato il Consiglio), ma anche «la nomina ai vertici delle unità di struttura per la realizzazione del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza)». E non solo.
A Tedeschini si rivolgeva chiunque aspirasse a ricoprire incarichi di rilievo per trovare quello che i magistrati definiscono «il giusto canale istituzionale». E lui si faceva forte di un'amicizia col marito del capo di gabinetto di Mara Carfagna al ministero per il Sud e la Coesione Territoriale, Francesca Quadri (che non è indagata). Proprio Checcucci, per esempio, mirava «a essere nominata capo dipartimento della struttura per il Pnrr». Tedeschini, invitando Covino a una cena con la Quadri, torna a ironizzare: «Me l'ha chiesto la Checcucci... è una marchetta... mo' ci danno il traffico di influenze». Alla fine, invece, è spuntata l'accusa di corruzione.
Palamaragate.
Contro-corrente. Carbone e il dubbio sulle correnti dei magistrati. L’intervento è arrivato in occasione dell’ennesima discussione sul contenuto delle chat di Palamara che da un lustro caratterizza ormai i lavori del Csm. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 10 Novembre 2023
“Noi diciamo sempre che i gruppi non esistono. Poi scendiamo nei corridoi e vediamo che le vostre stanze sono divise per gruppi. È un caso che i consiglieri di Area siano tutti insieme? Come sono tutti insieme quelli di Unicost? No, non è affatto un caso. Però noi facciamo finta del contrario”. A dirlo durante il Plenum di questa settimana è stato il laico di Italia Viva Ernesto Carbone il quale, come il ragazzo della fiaba di Hans Christian Andersen, “I vestiti nuovi dell’imperatore”, ha voluto togliere il velo alla grande ipocrisia che le correnti della magistratura non condizionino più come un tempo le scelte del Csm.
Le pratiche di mercoledì
“C’è bisogno di sedici voti per far passare una pratica. Discutere dunque di richieste di voti mi fa sorridere”, ha proseguito Carbone, facendo riferimento alle pratiche in discussione all’ordine del giorno di mercoledì scorso e che avevamo messo nel mirino i magistrati che si erano attivati per ricerca del consenso elettorale. Una condotta che avrebbe determinato un appannamento dei loro “prerequisiti” di terzietà ed imparzialità. “Ma voi come siete stati eletti? Avete chiesto i voti per essere eletti? Siete andati nei distretti per chiederli? Chiedere sostegno è normale vita democratica”, aveva poi aggiunto rivolgendo lo sguardo ai venti colleghi togati, di cui ben diciannove diretta espressione dei gruppi dell’Associazione nazionale magistrati. Un risultato frutto della riforma Cartabia che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto diminuire la presenza dei candidati delle correnti a favore degli indipendenti: l’esatto contrario.
L’intervento di Carbone, come detto, è arrivato in occasione dell’ennesima discussione sul contenuto delle chat di Palamara che da un lustro caratterizza ormai i lavori del Csm. Nel caso specifico si trattava di magistrati che avevano organizzato iniziative in vista delle elezioni per i rinnovi dei Consigli giudiziari.
“Ho visto che quando si parla di prerequisiti ci sono perennemente due pesi e due misure. C’è troppa discrezionalità: si critica il magistrato che incontra un politico e non quello che partecipa ad una attività politica”, ha infine concluso Carbone.
Il nervo scoperto
La presa di posizione dell’ex parlamentare è stata duramente stigmatizzata dal primo magistrato d’Italia, la presidente della Cassazione Margherita Cassano, che ha invitato a non fare interventi che possano colpire l’opinione pubblica, determinando lacerazioni che poi screditano la magistratura. “Il Csm sta recuperando una situazione di oggettiva difficoltà amministrativa”, ha sottolineato Cassano, apprezzando l’impegno da parte di tutti. “Non si può banalizzare l’associazionismo giudiziario”, ha quindi proseguito la presidente della Cassazione, ricordando di essere in magistratura dal 1980 e che le correnti hanno sempre discusso di “grandi temi”. “Ci sono ideologie diverse”, con approcci differenti, ad esempio su quale debba essere il “comportamento del magistrato” o il rapporto con il diritto, ha proseguito Cassano, ma non si deve accreditare all’esterno l’idea che le correnti siano dei “potentati”, esse infatti non hanno nulla a che vedere con le ben note “degenerazioni” del sistema. Insomma, serve “rispetto” per i magistrati che lavorano in silenzio, ha allora concluso la presidente della Cassazione, definendo quindi l’intervento di Carbone “ingeneroso” e che, evidentemente, ha invece toccato un nervo scoperto, quello dell’influenza di associazioni private nell’attività di un organo di rilevanza costituzionale presieduto dal Capo dello Stato. Paolo Pandolfini
I tormentoni di Luca Palamara. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 7 Novembre 2023
Se fossero compilation musicali di successo si potrebbe parlare di ‘tormentoni’. Invece sono le chat che l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara scambiava con i colleghi che gli chiedevano una nomina o un incarico e che a distanza di anni continuano a sollevare polemiche. Per definire finalmente “criteri certi e oggettivi” e dunque “uniformità di trattamento” da parte del Consiglio superiore della magistratura nel loro esame, il laico di Iv Ernesto Carbone ha chiesto al Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli l’apertura di una pratica.
Si tratta di comunicazioni risalenti a 5 anni fa, ricorda Carbone e se “quelle rilevanti penalmente e/o disciplinarmente sono state già acquisite” dagli uffici competenti, le altre “vengono a tutt’oggi utilizzate senza criteri di riferimento” tanto da “ridursi a strumenti di agevolazione o penalizzazione della carriera del magistrato oggetto di valutazione, in quest’ultimo caso potendosi tradurre in una ostruzione del suo percorso professionale, pur avendo tenuto una condotta integra e ineccepibile, per i solo fatto dei contatti con Palamara”. Quindi, “per esigenze di uniformità di trattamento e rispetto del principio di uguaglianza fra tutti i magistrati” è necessario che “il Csm intervenga con urgenza per fare chiarezza”.
Per Carbone, poi, “è doveroso considerare che Palamara ha ricoperto il ruolo di presidente dell’Anm, circostanza naturalmente foriera di contatti con diversi magistrati per molteplici ragioni di natura certamente estranea a qualsivoglia ipotesi criminosa”. Per questo la proposta “vuole essere l’occasione per individuare in modo definitivo quale uso può essere fatto da parte di tutte le Commissioni del Csm” delle chat con Palamara “ed evitare utilizzi promiscui, arbitrari, soggettivi non rispettosi del principio di uguaglianza sì da preservare, di conseguenza, l’immagine e il decoro della magistratura evitando pure che vengano diffuse e divulgate notizie riguardanti condotte ormai non più perseguibili né in sede penale né in sede disciplinare”. Sarà la volta buona? Paolo Pandolfini
Chiese a Palamara di essere valutato equamente, punito dal Csm il magistrato Pilato. Una vera beffa per la toga siciliana, che non ha ricevuto alcun incarico. Le chat dell’ex zar delle nomine colpiscono a corrente alternata. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 18 ottobre 2023
Le chat di Luca Palamara, anche se sono trascorsi oltre cinque anni, continuano a creare problemi ai magistrati. L'ultima vittima in ordine di tempo è il giudice palermitano Fabio Pilato che, come centinaia di suoi colleghi, si era rivolto al "Luca nazionale" quando quest’ultimo era un potente membro del Consiglio superiore della magistratura. A differenza, però, della maggior parte di costoro che grazie all'intercessione di Palamara hanno ricevuto incarichi e nomine, Pilato non ha avuto nulla e ieri il Csm gli ha anche negato, a maggioranza, la valutazione di professionalità per mancanza dei prerequisiti. Una vera beffa.
La vicenda ha inizio quanto Pilato, sottoposto a disciplinare, chiede a Palamara il nome di un difensore. Il disciplinare era nato a seguito di esposti della sua presidente di sezione che, a suo dire, lo perseguitava. «In quel periodo sono stato oggetto di tanti esposti da parte di un presidente di sezione (Pasqua Seminara, ndr), che adesso è in pensione, e questa cosa era diventata quasi una barzelletta», aveva dichiarato Pilato, affermando che il disciplinare era stato «costruito a tavolino per lesa maestà, per antipatia personale, perché nella mia attività di giudice tutelare non stavo troppo simpatico». Il procedimento, poi, si era protratto a causa «dell'accanimento del ministero e di inspiegabili rinvii della sezione disciplinare», arrivando ad ipotizzare, poiché Palamara e il vice presidente del Csm Legnini dicevano “bisogna colpire Salvini”, che il comportamento del ministero fosse ascrivibile alla sua qualità di presidente del Tribunale dei Ministri nel “caso Salvini-Diciotti".
Pilato, poi, aveva spiegato di essersi rivolto a Palamara poiché la collega «Alessia Sinatra, che era in Anm», lo aveva consigliato in quella direzione («mi dice: “guarda, c’è Luca, che è il nostro referente, capisce della materia, chiamalo che ti saprà dare tutti i consigli di questo mondo”. Quindi, siccome Palamara era l’unico collega romano che conoscevo, prendo il telefono e lo chiamo»). In altre parole, aveva chiesto solo un consiglio circa il difensore cui rivolgersi («è successa questa cosa. A chi posso rivolgermi?”, mi dice: “guarda, c’è Roberto Carrelli Palombi, che è un bravissimo difensore”»), convinto di non interferire con la sezione disciplinare posto che lo stesso Palamara gli aveva premesso di essere componente di una diversa sezione («Lì è stato lo stesso Palamara che ha fatto una precisazione preliminare a qualsiasi forma di interlocuzione, dicendo: “Posso parlare con te perché siccome tu hai un difensore che è un collega io non sarò mai il tuo giudice naturale”, perché mi ha spiegato, e questa è una cosa che voi potrete facilmente rilevare agli atti, che la Sezione disciplinare era stata divisa in due Sezioni: una sezione dove confluivano gli affari di minore rilevanza, dove tendenzialmente i colleghi erano assistiti da altri colleghi, e un'altra sezione dove invece c’erano dei difensori esterni. Questa è stata la versione che mi ha fornito Luca Palamara, che io ho preso per buona perché non avevo motivo per dubitare»).
In questo contesto, dunque, si era anche più volte sfogato con Palamara per rabbia e timore di un procedimento disciplinare ingiusto. Con riferimento, infine, alle domande per i posti semidirettivi, Pilato aveva solo chiesto di essere correttamente valutato e non pregiudicato dai dissapori territoriali all’interno del gruppo Unicost («Le antipatie locali mi hanno pregiudicato quando poi ho fatto la richiesta del semidirettivo perché i discorsi che mi venivano fatti erano questi: “Tu hai il disciplinare pendente e con il disciplinare pendente non ti prenderanno mai in considerazione” ... Mi sono trovato stretto fra l’incudine e il martello perché, da un lato, c’era il disciplinare, dall’altro lato, “scusate, ma cosa sto chiedendo? Chiedo soltanto di essere valutato. Voi non dovete darmi un semidirettivo che non mi spetta, io chiedo soltanto di essere...»).
Il magistrato siciliano, in conclusione, aveva evidenziato di essere stato “vittima del sistema”, sostenendo che l’interlocuzione con Palamara era quello: un consiglio. Pilato, come detto, non aveva conseguito alcuno dei posti per cui aveva fatto domanda e non aveva mai beneficiato dell’appoggio del gruppo. Di diverso avviso, invece, era stato recentemente il Csm nei confronti di un procuratore aggiunto che aveva dichiarato di avere registrato un «veto» nei suoi confronti perché «aveva gestito determinati procedimenti particolarmente sensibili che avevano inciso nei confronti dei detentori del potere». Per superare il “veto” ed ottenere l’agognata nomina il magistrato si era dunque recato al Csm a trovare Palamara ottenendo così il via libera per il prestigioso incarico. In quel caso, tutto regolare per Palazzo dei Marescialli e nessun addebito. Della serie, due pesi e due misure.
Due pesi e due misure. Giustizia a doppia morale: lo strano caso del procuratore Racanelli, penalizzato solo se parla con Palamara. Lo strano caso del procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli: se parla con Palamara non è più così indipendente, ma se parla con un collega di punta della sinistra giudiziaria di un’importante nomina al Csm allora va bene…Paolo Pandolfini su Il Riformista il 21 Settembre 2023
Se un magistrato parla con Luca Palamara di nomine ed incarichi risulta essere inevitabilmente “deficitario sotto il profilo dell’indipendenza da impropri condizionamenti”. Se lo stesso magistrato, invece, parla con un collega di punta della sinistra giudiziaria della nomina del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, va tutto bene.
È la quanto mai singolare la vicenda che ha riguardato il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli. Il magistrato, infatti, per aver parlato nel lontano 2019 con Palamara ha rischiato ieri di essere rimosso dal Plenum di Palazzo dei Marescialli dall’incarico e di tornare a fare il Pm. Racanelli, va detto, per questi stessi fatti era stato archiviato dai probiviri dell’Associazione nazionale magistrati che non avevano evidenziato criticità sotto il profilo deontologico.
Lo zelo sanzionatorio dell’organo di autogoverno delle toghe si è ben guardato, invece, di contestare a Racanelli una sua conversazione avuta l’anno prima, alla vigilia del voto del Parlamento per i componenti laici del Csm, con Giuseppe Cascini, anch’egli procuratore aggiunto a Roma ed esponente di punta delle toghe progressiste.
La conversazione fra Cascini e Racanelli, quest’ultimo all’epoca segretario nazionale di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, era finalizzata a sponsorizzare la nomina del costituzionalista di area dem Massimo Luciani come numero due di Sergio Mattarella.
“Senti Antonello, qui bisogna pensare seriamente, qui è interessato, è un grosso professore di diritto costituzionale che però ha una richiesta: lui accetta di essere nominato tra gli eletti dal Parlamento solo se c’è l’accordo all’unanimità di tutti i gruppi sul suo nome”, gli avrebbe detto Cascini. “Guarda Giuseppe, non tocca a me decidere, io posso trasmettere il tuo messaggio e la tua richiesta ai consiglieri di Mi”, la risposta di Racanelli.
Il procuratore aggiunto della Capitale decise così di inviare un messaggino ai cinque togati del Csm eletti in quota Magistratura indipendente: “Guardate, Cascini mi ha chiamato, mi ha detto questa cosa, vuole l’appoggio di tutti i gruppi su questo nome. Decidete voi. Se siete d’accordo io dico a Cascini che Mi è d’accordo a eleggerlo”. I cinque consiglieri, dopo essersi consultati, gli fecero sapere che Luciani non andava bene e Racanelli avvisò subito Cascini.
Trascorsa qualche settimana, Cascini andò a trovare Racanelli in ufficio a piazzale Clodio. “Sai – disse Cascini – siccome sento dire che probabilmente Mi intende appoggiare il professore Lanzi (Alessio, eletto in quota Forza Italia, Ndr), ti comunico che Lanzi è stato autore di un’audizione in Commissione bicamerale in cui ha parlato della separazione delle carriere”. Racanelli: “Io non sapevo di questo particolare, ognuno ha il suo modo di rapportarsi e sapere le vicende degli altri”. E poi: “Fammi sapere cosa ha detto”.
La partita della nomina del vice presidente del Csm ebbe allora un finale a sorpresa con il nome di David Ermini, responsabile giustizia del Pd ma osteggiato dalla sinistra giudiziaria che puntò, senza successo, sul professore Alberto Maria Benedetti, voluto dai grillini.
L’elezione al cardiopalma del vicepresidente del Csm avverrà il 27 settembre del 2018 e terminerà con 13 voti per Ermini ed 11 per Benedetti. Saranno determinanti i voti del primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone (Mi) e del Pg Riccardo Fuzio (Unicost). Paolo Pandolfini
(ANSA il 28 giugno 2023) - La richiesta di patteggiamento a quattro mesi di reclusione è stata avanzata oggi al gup di Perugia dalla difesa dell'ex magistrato Luca Palamara, nell'ambito del procedimento che lo vede accusato avere messo a disposizione di due imprenditori "le sue funzioni e i suoi poteri" in cambio, tra l'altro, della partecipazione a "un affare molto vantaggioso", dell'uso gratuito di due scooter e di soggiorni a Capri e a Roma.
La richiesta di patteggiamento da parte degli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni è arrivata dopo la riqualificazione dell'accusa da corruzione per l'esercizio della funzione e in atti giudiziari a traffico di influenze illecite per Luca Palamara da parte dei pubblici ministeri Gemma Miliani e Mario Formisano.
Una decisione che va in continuazione con quella che, il 30 maggio scorso, ha portato l'ex magistrato a patteggiare una condanna a un anno, pena sospesa, nel filone principale dell'inchiesta che lo vedeva imputato sempre a Perugia per i suoi rapporti con l'imprenditore Fabrizio Centofanti. Ha scelto di procedere con il rito ordinario, invece, la difesa dell'imprenditore Federico Aureli per il quale la procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, ha chiesto il rinvio a giudizio mentre i suoi legali hanno sollecitato per il loro assistito il non luogo a procedere.
La decisione del gup dovrebbe arrivare il 19 settembre prossimo. "Pur non riconoscendo nessuna responsabilità abbiamo deciso di chiudere anche questa parte di processi in coerenza con la conclusione definitiva di tutta la vicenda processuale " hanno detto al termine dell'udienza di oggi gli avvocati di Palamara, Benedetto Buratti e Roberto Rampioni.
Conversazioni fatali. Le chat di Palamara mietono un’altra vittima: Lucia Musti finisce nel mirino del Csm, carriera stroncata. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'1 Giugno 2023
Le ormai famigerate chat dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara hanno fatto ieri una nuova vittima illustre. A finire sotto la scure del Consiglio superiore della magistratura è stata questa volta Lucia Musti, ex procuratrice di Modena ed in corsa per il posto di procuratore generale di Bologna.
Rispetto ai concorrenti, il procuratore di Aosta Paolo Fortuna, poi nominato, ed il rappresentate italiano presso Eurojust Filippo Spiezia, la magistrata aveva i titoli migliori, potendo contare su oltre trent’anni d’esperienza in uffici di Procura, anche con incarichi importanti. Le chat con Palamara, però, riemerse come un fiume carsico, anzi, come “l’isola ferdinandea” per utilizzare le parole del laico pentastellato Michele Papa, le sono state fatali, stroncando le sue aspirazioni di carriera.
Agli inizi del 2019 la toga si era rivolta all’ex capo dell’Anm, come centinaia di altri magistrati, per caldeggiare il suo trasferimento al termine di un contenzioso amministrativo. A febbraio del 2016, il Csm l’aveva nominata procuratore di Modena, bocciando il collega Paolo Giovagnoli. Quest’ultimo si era allora rivolto al giudice amministrativo che, a gennaio del 2018, gli dava ragione, annullando la nomina di Musti. Il Csm, dopo aver riesaminato la pratica, nominava per la seconda volta Musti. Immediato il nuovo ricorso da parte di Giovagnoli al Consiglio di Stato che bocciava la decisione del Csm e ordinava di esaminare ancora una volta la nomina, dando un termine di venti giorni.
A Palazzo dei Marescialli nominavano però per la terza volta Musti capo della Procura di Modena. A settembre del 2018 si insediava la nuova consiliatura ed arrivava un nuovo ricorso di Giovagnoli al quale il Csm decideva per la quarta volta di opporsi dando mandato all’Avvocatura dello Stato. Questo tormentone terminava a gennaio del 2019 con il Consiglio di Stato che ‘obbligava’ il Csm a nominare Giovagnoli una volta per tutte. Interrogata allora sul motivo di questa “interlocuzione”, Musti aveva esordito che non conosceva Palamara e che il numero di telefono le era stato dato un collega. Si era rivolta a Palamara perché in passato, quando era al Csm, era “stato il relatore su due delle mie tre nomine”. Palamara, quindi, l’aveva ‘catechizzata’, rappresentandogli che “senza le raccomandazioni, senza i giochi di potere, non si va da nessuna parte”. E, alla domanda “aiutami, dammi un consiglio, dove vado?”, Palamara non aveva però fatto nulla.
Nonostante ciò, per il Csm si era trattato di un “tentativo di orientare, secondo le proprie soggettive aspirazioni, le scelte dell’Organo di autogoverno con riferimento alla propria ricollocazione nelle funzioni all’esito degli annullamenti da parte del giudice amministrativo”. Anche se, nel 2019, Palamara non era più un consigliere del Csm ma un pm a Roma. Per il Csm, la magistrata avrebbe dovuto provare “ad avere una interlocuzione formale con il Csm al fine di individuare una soluzione ai problemi dalla stessa rappresentati a Palamara”.
“Ebbene, in quanto finalizzate ad incidere sulle funzioni proprie del Csm al di fuori di qualsiasi formale contesto di dialogo con il medesimo Consiglio e avvenute con un magistrato, Palamara, che aveva già cessato le proprie funzioni presso lo stesso Organo di autogoverno”, le chat “evidenziano l’adozione di un comportamento grave, reiterato ed inopportuno, che non può non riverberarsi in un giudizio di inidoneità della stessa a ricoprire l’incarico”. Bocciatura, quindi, senza appello a cui ha provato ad opporsi il laico Ernesto Carbone, relatore della pratica a favore di Musti come pg a Bologna. Con Carbone hanno votato anche Papa e la togata progressista Mariafrancesca Abenavoli. “Su queste chat non ha mai indagato la Procura generale e il Csm perché è stato ritenuto che non ci fosse stata alcuna interferenza”, ha ricordato Carbone.
La magistrata era balzata agli onori delle cronache per una delle tante fughe di notizie che caratterizzano le indagini in Italia. Il periodo era il 2015 quando a Modena venne trasmesso uno stralcio dell’indagine sul caso Cpl-Concordia, aperta a Napoli dal pm Henry John Woodcock, con l’informativa preparata dal Noe dei carabinieri. Nel fascicolo erano state inserite le conversazioni telefoniche captate l’anno prima tra il generale della guardia di finanza Michele Adinolfi e Matteo Renzi.
L’11 gennaio del 2014 Adinolfi, intercettato dai carabinieri, aveva chiamato Renzi per gli auguri di compleanno. Si trattava di “intercettazioni che non avevano alcuna rilevanza penale”, disse Musti dopo che le stesse vennero pubblicate integralmente dal Fatto Quotidiano a luglio del 2015, stoppando la carriera di Adinolfi.
Paolo Pandolfini
Da corriere.it il 30 maggio 2023.
Davanti al quarto collegio del Tribunale di Perugia Luca Palamara ha patteggiato un anno di reclusione per presunti benefici erogati all'ex magistrato dall'imprenditore Fabrizio Centofanti, che, per lo stesso procedimento, aveva patteggiato in udienza preliminare.
L'altra imputata Adele Attisani è stata assolta dall'accusa di traffico di influenze illecite. I giudici hanno accolto la richiesta di patteggiamento avanzata dalla difesa di Palamara e accordata dalla Procura della Repubblica di Perugia. Accolta anche la richiesta della difesa e dell'accusa di assolvere Attisani
Si chiude l’epopea Palamara: nessuno parlerà più del sistema. La corruzione non c’era. I giudici accolgono la richiesta di patteggiamento a un anno per traffico di influenze. Assolta Adele Attisani. L’ex magistrato: “Guardo al futuro”. Simona Musco su Il Dubbio il 30 maggio 2023
Nessuna corruzione, nessuna sfilata di testi pronti a raccontare nuove verità, nessuna nuova bomba pronta da lanciare sul mondo della magistratura. Dopo gli scandali e dopo aver provocato un vero e proprio terremoto all’interno del Csm, il Palamaragate si chiude con un patteggiamento a un anno e un’assoluzione. I giudici del Tribunale di Perugia hanno infatti accolto la richiesta dell'ex magistrato Luca Palamara, assolvendo la coimputata Adele Attisani, che aveva scelto di essere giudicata con rito abbreviato.
La procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, ad aprile aveva riqualificato l'accusa da corruzione a traffico di influenze illecite e i pm Mario Formisano e Gemma Miliani, dopo l'ok della procura al patteggiamento per Palamara, avevano sollecitato per la presunta complice l'assoluzione per «non aver commesso il fatto». Il processo che vedeva imputati Attisani, difesa dagli avvocati Cesare Placanica e Luca Rampioni, e Palamara, difeso da Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, si era aperto il 15 novembre del 2021 dopo che il gup di Perugia Piercarlo Frabotta aveva disposto il rinvio a giudizio nel filone principale dell'inchiesta perugina, accogliendo la richiesta di patteggiamento a un anno a sei mesi per l'imprenditore Fabrizio Centofanti, che aveva reso dichiarazioni spontanee.
La derubricazione del reato ha lasciato aperti molti interrogativi. Se, da un lato, come sostenuto da Cantone, il traffico di influenze illecite, pure meno grave della corruzione, rientra comunque nel novero dei reati contro la pubblica amministrazione e lascia immutato «il quadro delle acquisizioni investigative compiuti negli anni dall'ufficio», dall’altro viene da chiedersi se fosse evitabile l’utilizzo del trojan, che ha consentito di svelare il “sistema” che pilotava le nomine della magistratura e le trattative interne alle correnti, raccontando al mondo la famigerata sera dell’Hotel Champagne. Lo stesso trojan che ha fatto finire sulla graticola decine di magistrati, tutti colpevoli di aver chiesto favori all’ex zar delle nomine e finiti (a volte) davanti alla Commissione disciplinare del Csm per rispondere delle loro chiacchiere con Palamara, terremotando l’intera magistratura e capovolgendo gli equilibri di potere a Palazzo dei Marescialli.
La domanda sorge spontanea a fronte delle numerose modifiche del capo di imputazione in questo lungo e travagliato caso giudiziario: con quello di aprile scorso, sono sei gli aggiustamenti fatti in corso d’opera, a partire dalla prima ipotesi dei 40mila euro intascati per favorire la nomina di Giancarlo Longo a procuratore della Repubblica di Gela o per danneggiare il pm Marco Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto, ipotesi scartate dalla procura alla chiusura delle indagini. Successivamente all’ex pm vennero contestati i reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio e corruzione in atti giudiziari, ipotesi a loro volta “corrette” poco dopo, con il rinvio a giudizio, quando venne contestata la corruzione in concorso per l’esercizio delle funzioni.
Insomma, uno sgonfiamento continuo delle accuse, fino all’epilogo. Che ha anche cassato ogni possibilità di far emergere nuovi particolari sul mercato delle nomine e sulle zone d’ombra del mondo della magistratura, dato l’alto numero di testimoni previsti, molti dei quali pronti a levarsi non pochi sassolini dalle scarpe.
«Ho deciso di liberarmi dal peso dei processi senza l’ammissione di alcuna forma di mia responsabilità ma perché ritengo ci debba essere un momento in cui occorre guardare al futuro per trovare serenità e per superare una fase non certo lusinghiera del nostro sistema giudiziario - ha commentato Palamara al termine dell’udienza -. Quattro anni dopo si chiude un capitolo che ha visto contrapposizioni anche aspre accedendo ai riti alternativi previsti dalla legge Cartabia per una ipotesi di reato diversa e sicuramente meno grave, grazie al rigore e all’equilibrio del procuratore Cantone».
Soddisfatti anche i legali di Attisani. «Meritava l'assoluzione. Fa piacere che la stessa procura, con grande onestà intellettuale, abbia riconosciuto la sua totale estraneità ai fatti - ha commentato all’AdnKronos Placanica -. Ora si spera che il malcostume sociale, che identifica un delinquente in ogni indagato, prenda atto della decisione dei giudici. L'unica che conta».
"Va riscritto il ruolo della magistratura". “Scarpinato trasforma i sospetti in prova. Chiarisca il significato di quel profetico manoscritto di Montante”, intervista a Luca Palamara. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 25 Maggio 2023
Abbiamo incontrato l’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, autore dei best seller che mettono a nudo le insipienze della magistratura.
Che ne è oggi del “Sistema”? Le lottizzazioni per appartenenza proseguono oggi come ieri?
“Io penso che il problema debba essere risolto a monte. E’ di solare evidenza la permanenza di una correntocrazia interna alla magistratura che inevitabilmente finisce per condizionarne le scelte. Per rompere questo meccanismo bisogna avere il coraggio di incidere sul meccanismo di scelta dei magistrati da nominare all’interno del CSM così come delineato nell’art.104 della costituzione. Il sorteggio costituisce l’unico antidoto alla correntocrazia tanto è vero che nella mia esperienza all’ANM costituiva la riforma più temuta da parte della magistratura associata”.
Come giudica il Csm che si è composto di recente?
Ogni nuovo CSM ha bisogno di un fisiologico momento di assestamento. Tuttavia non è facile liberarsi dalle scorie del recente passato e soprattutto da un meccanismo di ricatti che in maniera latente cerca di condizionarne l’attività. L’auspicio è che una stagione negativa per la magistratura possa essere messa definitivamente alle spalle evitando quelle che oramai sembrano essere inutili vendette.
Nordio ha le idee chiare. Gli faranno fare le riforme che ha in mente, con questa maggioranza?
“Io penso che la politica debba riappropriarsi del potere di decidere scegliendo quello che meglio risponde al bene comune dei cittadini. Da questo punto di vista il Ministro Nordio si è chiaramente espresso”.
La Commissione antimafia faceva gola a Scarpinato. Lo ha sentito ieri dal Senato?
“Dal discorso di Scarpinato trasuda una obiettiva volontà di trasformare il sospetto in prova ed una visione della società nella quale i cattivi si trovano da una parte sola. A questo punto, perché però Scarpinato non chiarisce come avvenne la sua nomina alla Procura generale di Palermo, e il significato dell’appunto-manoscritto rinvenuto presso l’abitazione di Montante nel quale veniva indicato il suo nome come prossimo Procuratore di Palermo? Oppure i sospetti valgono solo in alcune occasioni?”
Complotti e terzo livello, spectre e trattative segrete… la Cassazione ha parlato ma sembra che qualcuno non voglia sentirci
“Parlerei di un garantismo a corrente alternata. I giudici e le sentenze si difendono solo in certe occasioni cioè quando vanno nella direzione voluta da una parte della magistratura. Ma per fortuna esiste una parte sana ed importante della magistratura che è restia a farsi abbindolare dai teoremi senza prove”.
Scarpinato ha parlato in aula della condanna di Sansonetti. Lo sapeva che la magistrata che ha condannato il direttore, Camilla Cognetti, subito dopo quella sentenza è stata promossa al Ministero?
“Ho ascoltato il processo su Radio Radicale. Io sono convinto che la stampa debba essere il cane di guardia della democrazia in ogni occasione anche quando si affronta un tema così scottante come quello di mafia e appalti. Detto questo più che soffermarmi sulla persona del giudice evidenzierei come in uno stato costituzionale di diritto sia necessario anche da parte del giudice giustificare le proprie scelte che in questo caso dovranno essere validate da un giudice di appello”.
La Procura di Palermo che ha archiviato mafia appalti ha rinunciato ad una inchiesta importante, quella su cui stava lavorando Falcone. Perché, a suo giudizio – ormai storico?
“Dicevo prima che si tratta di una vicenda estremamente complessa e che forse rappresenta il primo vero caso in cui nascono conflitti sia all’interno della magistratura, parlo della differente valutazione tra la Procura di Catania e quella di Palermo, sia tra i Ros ed alcuni magistrati della procura di Palermo. Conflitto che appunto si è propagato fino ai recenti pronunciamenti della Cassazione”.
“Non voglio portarmi segreti nella tomba”, ha detto lei Palamara in una intervista. Eppure la storia della magistratura non è anche una storia di segreti inconfessabili?
“Assolutamente si. E solo quando queste verità potranno finitamente emergere si potrà contribuire a riscrivere interamente il ruolo e la funzione della magistratura nella storia repubblicana di questo Paese”.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Il caso Palamara crolla: chiesta l’assoluzione per la sua “complice”. Attisani era accusata di aver beneficiato delle presunte (e poi smentite) corruzioni dell’ex pm quando quest’ultimo presiedeva la potente Commissione per gli incarichi direttivi del Csm e decideva così sulle nomine. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 17 maggio 2023
Dopo quasi cinque anni sembra calare definitivamente il sipario sull'indagine della Procura di Perugia che nella tarda primavera del 2019 sconvolse il Consiglio superiore della magistratura, determinando le dimissioni di ben cinque consiglieri e dell'allora procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, oltre all'annullamento della nomina di Marcello Viola a capo della Procura di Roma come successore di Giuseppe Pignatone.
Dopo aver dato il via libera al patteggiamento di un anno per il traffico d’influenze addebitato all'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, l’ufficio inquirente guidato da Raffaele Cantone ha chiesto ieri l'assoluzione per Adele Attisani, amica dell’ex presidente Anm, inizialmente imputata di corruzione.
Professoressa, Attisani era accusata di aver beneficiato delle presunte (e poi smentite) corruzioni dello stesso Palamara quando quest’ultimo presiedeva la potente Commissione per gli incarichi direttivi del Csm e decideva così sulle nomine. Secondo l’iniziale ipotesi della Procura di Perugia, in particolare, Palamara per anni avrebbe ricevuto utilità economiche dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, anche indirettamente per il tramite di Attisani, consistenti in lavori edilizi per un totale di circa 60mila euro, oltre a monili, viaggi e pranzi. Centofanti, nei mesi scorsi, aveva patteggiato il reato di corruzione che, a questo punto, rimarrà senza il corrotto. Il “Gico” della Guardia di Finanza che aveva condotto l’indagine e che aveva “infettato” il telefono di Palamara con il trojan, ritenuto indispensabile per scoprire tale corruzione, non ha dunque dato un volto al pubblico ufficiale corrotto da Centofanti.
L'indagine di Perugia verrà comunque ricordata anche per il funzionamento a “singhiozzo” del trojan, che si accendeva o spegneva a seconda di chi incontrava Palamara. Quando si trattava, per esempio, del giudice Cosimo Ferri, all’epoca parlamentare di Italia viva, il virus informatico era sempre acceso: e infatti si è in attesa che la Consulta si pronunci sull'utilizzabilità di tali ascolti nel disciplinare che era stato aperto a carico dell’allora deputato. Senza dimenticare, infine, le varie fughe di notizie di cui aveva beneficiato l'avvocato Piero Amara, che tramite Centofanti avrebbe, come detto, cercato di condizionare il Csm. Sentiti a dibattimento a Perugia, gli ufficiali del “Gico” avevano ammesso che qualche militare dipendente - o più di uno o tutti - avevano in passato consegnato ad Amara, tramite il carabiniere Loreto Francesco Sarcina, le informative fatte dallo stesso “Gico” prima ancora che queste venissero depositate in Procura...
Non ci sono state conseguenze per nessuno...Luca Palamara nelle chat parlava da solo: tempi scaduti e tutto è finito a tarallucci e vino. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 17 Maggio 2023
I sempre più frequenti richiami ai magistrati da parte del capo dello Stato a svolgere la propria attività con correttezza e imparzialità, l’ultimo in ordine di tempo questa settimana in occasione dell’inaugurazione della sede di Napoli della Scuola superiore della magistratura, finiscono puntualmente in un nulla di fatto. Se ne è accorto l’ex sostituto procuratore generale della Cassazione Rosario Russo, ora in pensione, che nelle scorse settimane ha presentato una istanza al Consiglio superiore della magistratura per conoscere che fine avessero fatto gli eventuali procedimenti aperti nei confronti dei magistrati che chiedevano favori e incarichi a Luca Palamara.
A giugno 2019, esploso il Palamaragate, Sergio Mattarella in qualità di presidente del Csm, ammonì che “tutta l’attività del Consiglio, ogni sua decisione sarà guardata con grande attenzione critica e forse con qualche pregiudiziale diffidenza”. “Non può sorprendere – aggiunse – che sia così e occorre essere ancor più consapevoli, quindi, dell’esigenza di assoluta trasparenza, e di rispetto rigoroso delle regole stabilite, nelle procedure e nelle deliberazioni”. Affermazioni di principio importanti che hanno aumentato la delusione di Russo quando ha scoperto che non era successo nulla.
“Lo scrivente, come civis e quale… persona informata dei fatti, si permette segnalare al presidente del Csm che, sanzionato immediatamente Palamara, dopo quasi quattro anni nessuna delle illegittime condotte documentate dalle sue chat è stata sanzionata in sede propriamente disciplinare, creando grave sconcerto nell’Utente finale della Giustizia”. “È destinato a vacillare e infine a implodere qualunque ordinamento giuridico incapace di guardarsi allo specchio per emendarsi, correggersi e vaccinarsi”, ha aggiunto quindi Russo che ha ricostruito cosa è accaduto nella scorsa consiliatura quella guida da David Ermini, ex responsabile giustizia del Pd ed ora nella segreteria nazionale di Elly Schlein.
Le norme sull’azione disciplinare sono rigide, con dei tecnicismi non da tutti, e hanno poi dei termini ben precisi entro la quale essa deve essere esercita. Se il procuratore generale della Cassazione non promuove l’azione disciplinare trascorso oltre un anno dalla conoscenza dei fatti, ha irrimediabilmente “consumato” o “esaurito” il potere-dovere di agire. Lo scorso Csm aveva voluto recuperare con il procedimento amministrativo del trasferimento per incompatibilità ambientale quanto era stato “perduto” con il procedimento disciplinare.
I due procedimenti sono alternativi e la loro gestione non può fare a meno della collaborazione istituzionale tra procuratore generale della Cassazione e Comitato di Presidenza del Csm, presieduto dal vicepresidente. Nell’ordine logico più appropriato, pervenute le chat incriminate all’esame prioritario del procuratore generale, egli è tenuto a stabilire se sussistano violazioni disciplinari di sua competenza; soltanto se non sussistono archivia, ma è tenuto a trasmettere gli atti al Csm qualora individui ragioni di oggettiva incompatibilità.
A propria volta, il Comitato di Presidenza è tenuto a deliberare, anche sulla scorta delle informazioni e delle archiviazioni disposte dal procuratore generale (che, va ricordato, fa parte del Comitato insieme al primo presidente della Cassazione), se sussistano ragioni di oggettiva incompatibilità affidandone l’accertamento alla Prima Commissione, ma è tenuto a trasmettere gli atti al procuratore generale se individua la sussistenza di violazioni disciplinari, sempre che (ovviamente) il procuratore generale non abbia agito in modo diverso.
Quest’ultimo, come si è scoperto, ha promosso l’azione disciplinare soltanto in parte anche con riferimento a “etero-raccomandazioni” e talvolta ha probabilmente archiviato anche “etero-promozioni”. Soltanto sulla base delle sue archiviazioni pre disciplinari (totali o parziali), il Comitato di Presidenza del Csm ha allora potuto “incanalare” sul procedimento per incompatibilità oggettiva condotte di auto o etero – raccomandazioni disciplinarmente rilevanti, oggettivamente sottraendole alla valutazione della Sezione disciplinare del Csm e segnandone il destino.
Non si ha notizia, dunque, che tranne per Palamara e, come scrive Russo per “i suoi correi nella ‘congiura’ dell’Hotel Champagne, tutte le gravissime e numerose scorrettezze documentate dalle famose chat siano state (trattate e) sanzionate in sede disciplinare o abbiano provocato il trasferimento d’ufficio”. Cosa fare adesso? Assolutamente nulla. Lo ha ricordato l’altro giorno il nuovo Csm a guida Fabio Pinelli. I tempi sono scaduti e tutto è finito a tarallucci e vino. Della serie, mettiamoci una bella pietra sopra. Paolo Pandolfini
L’ex pm di Roma Fava: «Non volevo colpire nessuno, mai dati atti a Palamara». Il magistrato, ora giudice civile a Latina, è imputato sul filone riguardanti le presunte rivelazioni del segreto d’ufficio. Il Dubbio il 12 maggio 2023
«Io non avevo alcun interesse a colpire nessuno, né interessi nelle nomine, né sugli incarichi. Non ho mai chiesto a Palamara alcuna prebenda e non gli ho consegnato atti, non gli ho dato nulla. Né volevo fare alcuna “campagna mediatica'”. Volevo solo adempiere ai miei doveri d'ufficio». A dirlo l'ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, ora giudice civile a Latina, nel corso dell'esame in aula nel processo nato dal filone di inchiesta della procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, sulle rivelazioni dove è imputato insieme all'ex magistrato Luca Palamara.
Nel processo, che si è aperto il 19 gennaio di un anno fa, a Palamara e a Fava viene contestato di aver rivelato notizie d'ufficio «che sarebbero dovute rimanere segrete», e in particolare «che Fava aveva predisposto una misura cautelare nei confronti di Amara per il delitto di autoriciclaggio e che anche in relazione a tale misura il procuratore della Repubblica non aveva apposto il visto». Nel procedimento, che vede il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo parte civile, Fava è accusato anche di accesso abusivo a sistema informatico e abuso d'ufficio per essersi "abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d'udienza e della sentenza di un procedimento". Fatto che secondo i pm avveniva «per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita».
L’obiettivo di Fava, secondo l'atto di accusa «era di avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone, da poco cessato dall'incarico di procuratore di Roma e dell'aggiunto Paolo Ielo» da effettuarsi anche con "l'ausilio" di Palamara «a cui consegnava tutto l'incartamento indebitamente acquisito». Fava, rispondendo alle domande dei pm della procura di Perugia Gemma Miliani e Mario Formisano, ha detto che «Ielo tra fine aprile e maggio era venuto nel mio ufficio dicendomi che alcuni giornalisti gli avevano chiesto conto degli incarichi di suo fratello in Eni e Condotte e mi disse di verificare la correttezza del suo modo di procedere nel procedimento relativo a Brunella Bruno (poi assolta ndr). Ielo mi ha detto di verificare, non mi ha detto vai al Tiap, ma per fare quella verifica - ha detto Fava - cosa avrei dovuto fare?''.
Interpellato dai pm perugini su quanto riferito in sede di interrogatorio sulla consegna a Palamara di allegati all'esposto, Fava ha precisato che, ascoltando successivamente i file audio dell'inchiesta, ''ho capito di non averli mai consegnati a Palamara. Ho fornito una giustificazione a un fatto che non ho commesso. Lui era a conoscenza, come anche i giornalisti e alcuni consiglieri del Csm, degli incarichi che gli amministratori di Condotte avevano dato al fratello di Ielo. Io ho parlato di quella sentenza, del fatto che non era stata appellata, è stato un dialogo, un pourparler con Palamara: gli ho fatto vedere la sentenza su Brunella Bruno, gli estratti degli incarichi a Condotte, ma non glieli ho consegnati. Non ho mai rivelato a Palamara una notizia coperta da segreto e lui non mi ha mai chiesto niente».
Fava nel corso dell'esame in aula ha ribadito di non essere stato lui a dare la notizia dell'esposto al Csm ai giornalisti del Fatto Quotidiano e della Verità. «Non sono stato io, non sono un indovino e non posso sapere dove hanno preso queste notizie», ha spiegato l'ex pm. «Tra me e Ielo non c'era nulla di personale ma una divergenza di vedute su Piero Amara e sui provvedimenti da adottare nei suoi confronti. Un contrasto che si è radicalizzato nel gennaio 2019, poi Pignatone mi negò il visto dandomi delle alternative e lì il contrasto non si è più ricomposto», ha sottolineato. Nella prossima udienza, il 17 maggio andrà avanti l'esame e si terrà il controesame di Fava. Palamara ha rinunciato a sottoporsi all'esame riservandosi dichiarazioni spontanee.
Il Patteggiamento, come rito alternativo premiale, è una scelta di opportunità, non un’ammissione di colpevolezza.
Estratto dell'articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 19 aprile 2023.
«Ah, se però ci propongono lesioni colpose ne riparliamo», aveva scherzato (ma non troppo) Benedetto Marzocchi Buratti, avvocato dell’ex magistrato Luca Palamara, di ritorno tempo fa da un’udienza perugina. Nell’Italia dei processi infiniti, anche se passati in giudicato da decenni, c’è un processo che finisce prima, come negli Stati Uniti.
Palamara patteggia, la Procura di Perugia derubrica il reato da corruzione a traffico di influenze illecite. Tutto concordato: un anno di reclusione, pena sospesa. Quindi niente carcere. E soprattutto niente interdizioni, niente incandidabilità, niente legge Severino.
[…] Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone esce dalla morta gora processuale del Palamara-gate, inchiesta ruvida che si era ritrovato già impacchettata, nel bene e nel male, quando si è insediato tre anni fa. Palamara evita il rischio di una ben più pesante condanna per corruzione, con ipotetici cumuli di pena, e si prepara alla terza vita. Politica, spera.
L’iniziativa è partita dagli avvocati di Palamara, Roberto Rampioni e Benedetto Buratti. Sondato, Cantone ha dato disponibilità a parlarne. Accordo chiuso a Perugia ieri sera. Cambia il reato contestato: non corruzione ma «mediazione illecita verso altri magistrati investiti di funzioni giudiziarie, componenti del Csm, altri pubblici ufficiali».
Ma nel capo di imputazione restano «il disegno criminoso» e l’attività di Palamara «al di fuori delle proprie competenze istituzionali», nonché le utilità ricevute: soggiorno e cenone di Capodanno a Madonna di Campiglio, viaggio a Madrid con figlio per la partita della Roma, viaggio di famiglia in Sardegna, weekend per due a Favignana, ripetuti soggiorni termali in Toscana, viaggi a Londra, Ibiza, Dubai, lavori edilizi di vario tipo e autisti a disposizione, servizio traslochi, trattamenti estetici, cene e pranzi in ristoranti e hotel romani. In tutto 23 «utilità» (più quelle promesse e non realizzate) per un valore complessivo di circa 100mila euro.
Non magistrato corrotto, dunque. Casomai, la nuova imputazione lo configura nella più sfaccettata, e italianissima, maschera del faccendiere. Che un po’ maneggiava, un po’ millantava, un po’ orientava le cose giudiziarie, un po’ trescava con la politica. E molto viveva. Talvolta per gli amici, talaltra per le istituzioni. Seguirà serie tv, che di questi tempi non si nega a nessuno.
[…] Cantone spiega che «in linea con lo spirito della recente riforma Cartabia, possono rapidamente definirsi due procedimenti di particolare complessità che avrebbero significativamente impegnato l’ufficio inquirente e quello giudicante nei prossimi anni. Ma il quadro oggettivo resta immutato: il reato di traffico di influenze illecite, pur meno grave della corruzione, rientra comunque nel novero dei reati contro la pubblica amministrazione».
Palamara rivendica di aver patteggiato «senza riconoscere alcuna forma di responsabilità ma solo per liberarmi dal fardello dei processi ed essere così più libero di portare avanti la battaglia di verità per una giustizia giusta».
Il caso Palamara era deflagrato nel 2019, nel pieno della contesa sulla Procura di Roma. Era di maggio. Indagato per corruzione per i viaggi pagati dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, Palamara tramava con i deputati del Pd Ferri e Lotti per orientare le nomine del Csm. Politica giudiziaria, sangue e merda. Il trojan registrava tutto, o quasi. Grande scandalo. Il presidente della Repubblica Mattarella denunciava «un quadro sconcertante e inaccettabile». Cinque consiglieri del Csm si dimettevano. Ribaltone delle correnti sconfitte.
[…]
Il reprobo Palamara si trasformava in campione da best seller, raccontando con baldanza non sempre pari all’equanimità gli interna corporis della magistratura politicizzata. Complotti, controcomplotti. Un successone. Coronato da pingui royalties Mondadori, non da una candidatura nelle liste del centrodestra. Al momento buono, l’estate scorsa, sia Salvini che Berlusconi si sono defilati. Del terzo volume della saga, non v’è certezza. In queste condizioni, impiccarsi alle trasferte perugine con seguito di avvocati non era la prospettiva migliore.
Per la verità, l’esito del processo era tutt’altra che scritto. Per quanto Cantone fosse riuscito a puntellarla con le deposizioni dell’avvocato Amara (pur preso con guanti e pinze) e del lobbista-corruttore Centofanti (già a sua volta patteggiante nel 2021), l’accusa rimaneva periclitante. E infatti il capo di imputazione era già stato cambiato almeno quattro volte, in assenza di una controprestazione illecita che scolpisse la corruzione di un membro del Csm sulla pietra della colonna infame.
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Che cosa resta del Palamara-gate? Non poco, comunque. A Perugia il processo penale a carico dello stesso Palamara, ma in posizione marginale, e dell’ex pm romano Stefano Fava per il presunto complotto ai danni dei vertici della Procura di Roma di allora, Pignatone e Ielo. Sentenza di primo grado entro l’anno.
Al Csm, dopo la radiazione di Palamara, resta in piedi una dozzina di processi disciplinari a carico di magistrati per telefonate e chat con il medesimo.
[…]
Le chat aleggiano ancora nei corridoi del Csm. Sono entrate nei fascicoli di molti magistrati che ambiscono a posti di responsabilità. La questione è delicata e si presta a usi ibridi. Pur in assenza di contestazioni disciplinari e di incompatibilità ambientali, nei mesi scorsi è stata «interrogata» per due volte Lucia Musti, candidata alla procura generale di Bologna di cui è reggente da un anno e mezzo.
Tra dieci giorni sarà «interrogato» il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, dopo che per due volte il Consiglio di Stato ha bocciato la sua nomina, risalente ormai al 2018 (all’unanimità), contestandone non senza sorpresa l’esperienza antimafia.
L’Associazione nazionale magistrati ha avviato procedimenti interni, ma tenendo tutto segreto. Il Garante della privacy ha stabilito che il magistrato incolpato ha diritto a essere giudicato a poter chiuse. Nessuno dei circa cento incolpati ha chiesto un processo pubblico. Una trentina si sono dimessi dall’Anm per evitare la condanna. Una settantina sono stati sanzionati. Tra loro alcuni big delle principali correnti ed ex componenti del Csm. […]
(ANSA il 18 aprile 2023) Cade l'accusa di corruzione a carico di Luca Palamara nel processo principale in corso a Perugia, quello legato ai rapporti con l'imprenditore Fabrizio Centofanti (che ha già patteggiato). La Procura ha infatti rideterminato il capo d'imputazione e quindi derubricato il reato in quello meno grave di traffico d'influenze illecite. Lo ha fatto nell'udienza di oggi del processo in corso davanti al tribunale il procuratore Raffaele Cantone. Secondo il quale ora le parti possano chiedere "riti speciali"
(ANSA il 18 aprile 2023) Luca Palamara ha chiesto di patteggiare la condanna nei suoi confronti, un anno di reclusione, pena sospesa, nel processo in corso a Perugia nel quale è imputato per i suoi rapporti con l'imprenditore Fabrizio Centofanti. L'istanza è stata avanzata in seguito alla rideterminazione da parte della Procura dell'accusa di corruzione in traffico d'influenza illecite.
La Procura - rappresentata in aula anche dal procuratore capo Raffaele Cantone - ha dato il suo assenso all'istanza di patteggiamento. Sulla quale si deve ora esprimere il tribunale. Ha invece chiesto di essere processata con il rito abbreviato la co-inputata Adele Attisani. Anche per lei la Procura ha rideterminato l'accusa da concorso in corruzione in traffico di influenze illecite. Il tribunale ha acquisito la determinazione delle parti e ha fissato udienza per il 16 maggio per la decisione.
(ANSA il 18 aprile 2023) "E' caduta ogni ipotesi corruttiva nella nuova contestazione della Procura di Perugia. Accedo ai riti alternativi senza riconoscere alcuna forma di mia responsabilità ma solo per liberarmi dal fardello dei processi ed essere così più libero di portare avanti la battaglia di verità per una giustizia giusta": a sottolinearlo è Luca Palamara dopo che la Procura di Perugia ha rideterminato il reato nei suoi confronti. "Come ho sempre dichiarato sin dall'inizio della vicenda che mi ha riguardato non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura" ha aggiunto.
"Oggi sono definitivamente cadute tutte le accuse di corruzione mosse nei miei confronti - ha sottolineato ancora Palamara - essendo mutata l'ipotesi di reato che mi viene contestata dalla Procura di Perugia. Quindi, non c'è mai stata nessuna corruzione al Csm come una parte della (dis)informazione raccontava il 30 maggio del 2019 all'inizio di questa vicenda. Accedendo ai riti alternativi previsti dalla legge Cartabia per una ipotesi di reato diversa e sicuramente meno grave, ho così deciso di liberarmi dal peso dei processi senza l'ammissione di alcuna forma di mia colpevolezza ma esclusivamente per ragioni personali e processuali.
Tutto questo mi consentirà di essere più libero e di dedicarmi con rinnovato vigore alla battaglia di verità su ciò che non ha funzionato all'interno della magistratura e nei rapporti tra politica e magistratura a supporto di quei tanti cittadini onesti che in questi anni mi hanno sostenuto e che fuori dalle ipocrisie vogliono far sentire la loro voce per una vera riforma della giustizia che - ha concluso Palamara - da troppo tempo manca nel nostro Paese".
Caso Palamara, cade la corruzione: “Patteggio ma sono innocente”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Aprile 2023
Luca Palamara, cade la corruzione: “Patteggio ma sono innocente. Come ho sempre dichiarato sin dall’inizio della vicenda che mi ha riguardato non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura”
Caduta l’accusa di corruzione , l’ex presidente dell’ ANM è pronto a patteggiare. La condanna imposta dallo “sconto” lieve, è soltanto un anno. Palamara alza le mani. “Io non ammetto nulla, resto innocente”. Ovvero, la ripartenza secondo Palamara, che a questo non troverebbe i precedenti ostracismi per una candidatura di livello. L’ex pubblico ministero romano ed ex membro del Consiglio Superiore, Luca Palamara, la toga che nel 2019 fu travolta dalle cene all’hotel Champagne con politici e colleghi, il primo ed unico caso di ex presidente dell’Anm radiato dalla magistratura, di fatto non è più imputato per corruzione.
Ha chiesto invece di essere processata con il rito abbreviato la co-inputata di Palamara, Adele Attisani nei cui confronti Cantone ha rideterminato anche per lei l’accusa da concorso in corruzione in traffico di influenze illecite.
L’aula del Tribunale di Perugia
Nel processo principale in corso a Perugia, infatti, quello legato ai rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti (che aveva già patteggiato a suo tempo) che lo vede sotto accusa con Adele Attisani, su richiesta della Procura guidata da Raffaele Cantone, l’accusa più grave è derubricata all’ipotesi meno pesante di “traffico di influenze”. La stessa sorte seguirà anche il secondo procedimento avviato – sempre per corruzione – dallo stesso ufficio guidato dal procuratore Cantone.
Quanto previsto dalla legge è molto chiaro: una volta decaduto il capo di accusa di corruzione, la pena diminuisce sensibilmente, e quindi Palamara ha potuto accedere al rito alternativo che prevede un “accordo” con la Procura: l’ottenimento di pene più basse in cambio della cancellazione del processo. Gli avvocati di Palamara, Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, hanno depositato non a caso la richiesta a un anno di carcere (che prevede paraltro la pena sospesa), c’è l’accordo con i pm. Tra un mese, si attende la pronuncia del Tribunale. Ma entrambi i filoni d’inchiesta dovrebbero chiudersi entro l’estate.
Un accordo che salva sopratutto il “sistema Giustizia” dalla fuoriuscita di tutte le anomalie di questa inchiesta venite fuori grazie al lavoro di indagini difensive svolte dal collegio difensivo, ma sopratutto mette la “sordina” alle dichiarazioni dell’ avv. Pietro Amara che per troppo tempo ha abbeverato di menzogne le procure di mezza Italia.
“Non ci fu alcuna corruzione” sostiene Luca Palamara. “Ho deciso di accedere ai riti alternativi solo per liberarmi dal fardello dei processi. Non ammetto nulla, non riconosco alcuna forma di mia colpevolezza, lo faccio solo per ragioni personali e processuali” aggiungendo “Come ho sempre dichiarato sin dall’inizio della vicenda che mi ha riguardato non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura” .
Il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone presente in aula con i suoi sostituti, chiarisce che “il traffico di influenza rientra comunque tra i reati contro la pubblica amministrazione, e la nuova formulazione non cambia il quadro investigativo acquisito negli anni dall’ufficio” spiegando la ratio che ha portato alla rideterminazione del capo di accusa : “La scelta dell’ufficio è in linea con lo spirito della recente riforma Cartabia: così possono rapidamente definirsi due procedimenti di particolare complessità, che avrebbero significativamente impegnato l’ufficio inquirente e quello giudicante nei prossimi anni”. Ha contribuito anche la lentezza con la quale un piccolo Tribunale come quello di Perugia poteva affrontare un dibattimento di tale portata.
La prossima udienza è stata fissata dal tribunale per il prossimo 16 maggio. Se tutto dovesse procedere secondo quanto previsto, Palamara raggiunge due risultati molto importanti. Da un lato potrebbe rimettere in discussione la sua, un pò troppo rapida radiazione dalla magistratura: anche se il processo disciplinare non potrà incidere sul suo progetto di una candidatura politica che si sarebbe resa impossibile con quell’imputazione più pesante.
A spianargli la strada la circolare del Guardasigilli Nordio intervenuta solo un mese fa, che – su parere del ministro dell’Interno Piantedosi, a sua volta sorretto all’Avvocatura dello Stato – ha reinterpretato la legge Severino, escludendo dall’incandidabilità, tra coloro che si sono macchiati di reati contro la pubblica amministrazione, anche i condannati via patteggiamento.
Dietrofront della Procura: Palamara non fu corrotto. Derubricata l'accusa per i rapporti con Centofanti. L'ex pm patteggia un anno e potrà candidarsi. Luca Fazzo il 19 Aprile 2023 su Il Giornale
Quando nel maggio di quattro anni fa i giornali titolarono «Corruzione al Csm» non erano improvvisamente ammattiti: semplicemente riprendevano e amplificavano le teorie che avevano portato la procura della Repubblica di Perugia a indagare su Luca Palamara, allora potente leader della magistratura organizzata, e sul sistema di potere che gli ruotava intorno. Ne seguì il terremoto che si sa. Peccato che ora si scopra che la corruzione di Luca Palamara semplicemente non esisteva. E che incastrando Palamara, presentato all'opinione pubblica come l'unica mela marcia di un organismo sano, si siano create le condizioni perché tutto continuasse come prima.
Ieri è la Procura umbra a fare un ultimo, cruciale passo indietro. Nel processo in corso a carico di Palamara per l'accusa di essersi fatto corrompere dall'imprenditore Fabrizio Centofanti, è lo stesso Raffaele Cantone, procuratore capo, a chiedere che l'accusa venga derubricata. Non più corruzione ma «traffico illecito di influenze», reato introdotto nel codice solo nel 2012, dai contorni piuttosto sfuggenti e comunque assai meno grave. È una scelta figlia di una lunga trattativa tra Cantone e i difensori di Palamara, davanti a un processo che nessuno - per motivi molto diversi - aveva voglia di affrontare.
Davanti al passo indietro di Cantone, Palamara sceglie di patteggiare la condanna a un solo anno, pena poco più che simbolica, e sottolineando comunque che «non è una ammissione di colpevolezza, è solo una scelta processuale e personale per liberarmi da un fardello e essere sempre più libero di continuare la mia battaglia per una giustizia giusta». Anche perché, dettaglio non irrilevante, grazie alla legge Cartabia il patteggiamento non fa più scattare la incandidabilità alle cariche politiche e amministrative. Nella sua nuova vita l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati potrà sbarcare senza problemi in Parlamento.
È la sesta volta che gli inquirenti umbri modificano al ribasso le accuse a Palamara. Sul tavolo ormai erano rimasti i viaggi e le cene offerti da Centofanti al potente amico e alla sua fiamma Adele Attisani: favori di cui, anche nelle ipotesi d'accusa, non era mai stata individuata la contropartita illecita, e questo rendeva per Cantone il processo tutto in salita. Ben prima erano venute meno accuse più precise e pesanti, come i 40mila euro contestati a Palamara per la nomina del procuratore di Gela: eppure proprio quell'accusa era stata utilizzata come un grimaldello per infettare il telefono del pm romano con il trojan che rivelò agli inquirenti l'impressionante rete di favori e di nomine di magistrati di primo piano in tutta Italia che veniva smistata da Palamara. Ma i beneficiati da Palamara sono rimasti quasi tutti al loro posto, e gli altri capicorrente che partecipavano alla lottizzazione non hanno avuto scossoni di carriera. Ora l'accordo di pace con la procura umbra chiude la partita.
Lui, Palamara, al telefono più che contento sembra sollevato. «È finita, era ora. Mi sono battuto come una bestia, come un leone. Nessuno avrebbe scommesso che ne sarei uscito vivo. Invece ce l'ho fatta».
Palamara, non fu corruzione: sul caso toghe cala il sipario. Reato derubricato e patteggiamento: così non si saprà più nulla sul mercato delle nomine. Simona Musco su Il Dubbio il 18 aprile 2023
Non si trattava di corruzione, ma di traffico di influenze illecite. E dunque il telefono di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e perno del “sistema” che pilotava le nomine della magistratura, probabilmente non poteva essere infettato con il trojan che ha svelato le trattative interne alle correnti della magistratura per le nomine dopo la famigerata sera dell’Hotel Champagne. Lo stesso trojan che ha fatto finire sulla graticola decine di magistrati, tutti colpevoli di aver chiesto favori all’ex zar delle nomine e finiti (a volte) davanti alla Commissione disciplinare del Csm per rispondere delle loro chiacchiere con Palamara, terremotando l’intera magistratura e capovolgendo gli equilibri di potere a Palazzo dei Marescialli.
Il colpo di scena è arrivato oggi a Perugia, dove è in corso il filone principale del processo a carico di Palamara, accusato di essersi fatto corrompere dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, che aveva già patteggiato. Il procuratore Raffaele Cantone ha infatti riqualificato l'ipotesi di reato, consentendo alle parti di chiedere riti speciali. E gli avvocati dell’ex consigliere del Csm, Roberto Rampioni e Benedetto Buratti, hanno così chiesto il patteggiamento a un anno, con il parere favorevole della procura, decisione che consentirà all’ex zar delle nomine di chiudere i suoi conti con la giustizia. La coimputata di Palamara, Adele Attisani, che avrebbe accompagnato il magistrato nei viaggi pagati da Centofanti, ha chiesto invece il rito abbreviato.
La corte si è riservata di decidere e l'udienza è stata aggiornata al 16 maggio. Ma il destino del processo è già segnato, così come la possibilità che a Perugia si approfondiscano i misteri legati all’uso del trojan inoculato nel telefono di Palamara, sul cui utilizzo sono stati sollevati diversi dubbi. La questione rimane però aperta a Napoli e Firenze, procure alle quali si sono rivolti l’ex deputato e magistrato in aspettativa Cosimo Maria Ferri e l’ex consigliere del Csm Antonio Lepre (punito in sede disciplinare per la sua partecipazione alla riunione all’Hotel Champagne, nella quale si doveva decidere il futuro della procura di Roma) per chiarire il mistero dei server fantasma che a Napoli elaboravano i dati prima di inoltrarli alla procura incaricata di raccoglierli nell’indagine a carico di Palamara.
Non si tratta della prima modifica del capo di imputazione in questo lungo e travagliato caso giudiziario: con quella di oggi, sono sei gli aggiustamenti fatti in corso d’opera, a partire dalla prima ipotesi dei 40mila euro intascati per favorire la nomina di Giancarlo Longo a procuratore della Repubblica di Gela o per danneggiare il pm Marco Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto, ipotesi scartate dalla procura alla chiusura delle indagini. Successivamente all’ex pm vennero contestati i reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio e corruzione in atti giudiziari, ipotesi a loro volta “corrette” poco dopo, con il rinvio a giudizio, quando venne contestata la corruzione in concorso per l’esercizio delle funzioni. Insomma, uno sgonfiamento continuo delle accuse, fino all’epilogo di oggi.
«È caduta ogni ipotesi corruttiva, accedo ai riti alternativi senza riconoscere alcuna forma di mia responsabilità ma solo per liberarmi dal fardello dei processi ed essere così più libero di portare avanti la battaglia di verità per una giustizia giusta - ha commentato Palamara -. Come ho sempre dichiarato, non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura. Quindi, non c'è mai stata nessuna corruzione al Csm come una parte della (dis)informazione raccontava il 30 maggio del 2019 all'inizio di questa vicenda. Accedendo ai riti alternativi previsti dalla legge Cartabia per una ipotesi di reato diversa e sicuramente meno grave, ho così deciso di liberarmi dal peso dei processi senza l'ammissione di alcuna forma di mia colpevolezza, ma esclusivamente per ragioni personali e processuali. Tutto questo mi consentirà di essere più libero e di dedicarmi con rinnovato vigore alla battaglia di verità su ciò che non ha funzionato all'interno della magistratura e nei rapporti tra politica e magistratura a supporto di quei tanti cittadini onesti che in questi anni mi hanno sostenuto e che fuori dalle ipocrisie vogliono far sentire la loro voce per una vera riforma della giustizia - ha concluso - che da troppo tempo manca nel nostro Paese».
Per Cantone non si tratta, però, di un passo indietro. «La modifica dell'imputazione - ha spiegato -, con la derubricazione del reato in una fattispecie introdotta solo nel 2012 con la legge anticorruzione che, pure meno grave della corruzione, rientra comunque nel novero dei reati contro la pubblica amministrazione, lascia immutato, del resto, il quadro delle acquisizioni investigative compiuti negli anni dall'ufficio e appare altresì coerente con un recentissimo orientamento della Cassazione, espresso nel novembre 2021, nel procedimento contro un sindaco di Roma», ovvero Gianni Alemanno. Decisione, quella, che alzò la soglia probatoria per la contestazione del reato di corruzione. La modifica, ha evidenziato il procuratore, «consegue una serie di contatti intercorsi con la difesa del dottor Palamara che aveva prospettato la possibilità di definire non solo il processo pendente presso il primo collegio, ma anche quello appena avviato che pure vede il dottor Palamara imputato di corruzione. L'ufficio si è determinato nel senso indicato perché in questo modo, in linea con lo spirito della recente riforma Cartabia, possono rapidamente definirsi due procedimenti di particolare complessità che avrebbero significativamente impegnato l'ufficio inquirente e quello giudicante nei prossimi anni».
Il processo avrebbe potuto far emergere nuovi particolari sul mercato delle nomine e sulle zone d’ombra del mondo della magistratura, dato l’alto numero di testimoni previsti, molti dei quali pronti a levarsi sassolini dalle scarpe. Tutti contenti, dunque? «Prima di tutto, adesso, deve venire l’interesse della magistratura, che deve prevalere su tutto», si limita a commentare Palamara.
Il colpo di scena a Perugia. Caso Palamara, cade l’accusa di corruzione e l’ex pm chiede il patteggiamento: “Mai venduto la mia funzione”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 18 Aprile 2023
Cade l’accusa di corruzione nei confronti di Luca Palamara. La Procura di Perugia questa mattina ha riqualificato l’ipotesi di reato che pesa sull’ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm, indagato per i suoi rapporti con l’imprenditore e faccendiere Fabrizio Centofanti.
Palamara, radiato una volta emerso il caso delle ‘chat’ per orientare nomine negli uffici giudiziari d’Italia, dovrà infatti rispondere “semplicemente” di traffico di influenze illecite.
Alla luce della richiesta, la difesa di Luca Palamara, rappresentato dagli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Buratti, hanno chiesto il patteggiamento a un anno nei confronti del loro assistito. La coimputata di Palamara, Adele Attisani, che avrebbe accompagnato il magistrato nei viaggi pagati da Centofanti, ha chiesto invece il rito abbreviato. La corte si è riservata di decidere, rinviando l’udienza al 16 maggio.
Per Palamara è comunque un primo risultato importante. Per l’ex magistrato nella nuova contestazione della Procura di Perugia “è caduta ogni ipotesi corruttiva” e quindi “non c’è mai stata nessuna corruzione al Csm come una parte della (dis)informazione raccontava il 30 maggio del 2019 all’inizio di questa vicenda”.
L’ex numero uno dell’Associazione nazionale magistrati ribadisce però che la richiesta di accedere a riti alternativi, come appunto il patteggiamento, non implica “riconoscere alcuna forma di mia responsabilità” ma è solo un modo per “liberarmi dal fardello dei processi ed essere così più libero di portare avanti la battaglia di verità per una giustizia giusta”, ha spiegato Palamara nelle parole riportate dall’Ansa.
“Come ho sempre dichiarato sin dall’inizio della vicenda che mi ha riguardato non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura“, ha aggiunto l’ex pm di Roma, che ribadisce poi il suo impegno nella “battaglia di verità su ciò che non ha funzionato all’interno della magistratura e nei rapporti tra politica e magistratura a supporto di quei tanti cittadini onesti che in questi anni mi hanno sostenuto e che fuori dalle ipocrisie vogliono far sentire la loro voce per una vera riforma della giustizia che – ha concluso Palamara – da troppo tempo manca nel nostro Paese“.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket
Ma le chat di Palamara “inguaiano” il procuratore Bombardieri: il Csm lo convoca a Roma. La quinta commissione doveva decidere lunedì scorso sulla nomina del procuratore di Reggio Calabria, ma ha optato per un approfondimento istruttorio. a. a. su Il Dubbio il 18 aprile 2023
La quinta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura rinvia la decisione sulla procura di Reggio Calabria. Lunedì scorso infatti i consiglieri togati e laici di Palazzo dei Marescialli hanno trattato la pratica che riguarda l’attuale procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Domenico Angelo Raffaele Seccia, già procuratore di Lucera e Fermo.
Durante la discussione il consigliere togato indipendente Andrea Mirenda ha proposto e ottenuto l’audizione di Bombardieri in merito alle note chat con Luca Palamara, scagionato dalla procura di Perugia per il reato di corruzione. L’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati era molto amico di Bombardieri e nel periodo della nomina del Plenum, avvenuta nel 2018, i due magistrati si scambiavano di frequente messaggi su Whatsapp e Telegram. In alcuni casi si discuteva dell’inchiesta della procura di Locri contro Mimmo Lucano, esprimendo nei confronti dell’allora procuratore Luigi D’Alessio dei giudizi poco lusinghieri nei suoi confronti. Ma Bombardieri e Palamara parlavano anche delle dichiarazioni pubbliche di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, e delle varie dinamiche associative all’interno della magistratura.
Prima di prendere una decisione definitiva (si spera) sulla procura di Reggio Calabria, la quinta commissione ha valutato la possibilità di aprire anche il fronte delle chat con Palamara, rifacendosi alla recente sentenza del Consiglio di Stato che sul punto aveva bacchettato il Csm per non aver motivato sul punto discusso lunedì scorso a Roma. Bombardieri salirà nella Capitale il prossimo 27 aprile. La scelta arriverà subito dopo.
Vittime e reduci del caso Palamara. Se la giustizia non è uguale per tutti. Tanti i comportamenti gravi emersi dalle chat con l’ex presidente dell’Anm e mai puniti da Palazzo dei Marescialli. Che ora deve gestire decine di nomine. Giovanni M. Jacobazzi su il Dubbio il 22 febbraio 2023
La vicenda disciplinare che ha riguardato la pm dell'antimafia di Palermo Alessia Sinatra, condannata questa settimana con la censura, racchiude molte storie in una. La prima è certamente quella di un magistrato che assume di essere stato vittima di un reato ma non si rivolge ai magistrati - come dovrebbe egli per primo - per chiedere la punizione dell’aggressore, preferendo la strada dei canali punitivi "occulti". Un comportamento che è stato stigmatizzato dai giudici della sezione disciplinare del Csm. In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, è possibile azzardare la previsione che il non aver denunciato la condotta di Giuseppe Creazzo all'epoca dei fatti non sia stato visto di buon occhio.
La seconda storia, invece, è proprio quella dei canali occulti: l’ennesima riprova dell’esistenza di poteri paralleli capaci di pilotare efficacemente le nomine in magistratura, al di fuori di ogni regola, promuovendo i sodali e abbattendo i nemici. Le chat di Luca Palamara sono particolarmente esaustive a tal riguardo, al punto che è stata necessaria una circolare dell'allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi per escludere da possibili conseguenze chi si auto sponsorizzava o si faceva sponsorizzare per un incarico o una nomina. L'effetto prodotto dalla circolare Salvi è stato che tutti quelli che si erano rivolti a Palamara sono rimasti tranquillamente al proprio posto. In diversi casi, poi, la Procura generale dall'alto del suo potere senza controllo, ha omesso di procedere disciplinarmente anche in casi eclatanti, come quello di un magistrato che definiva "banditi" e "incapaci" due colleghi che concorrevano per un posto di procuratore.
La terza storia, infine, sta proprio in questa chiara asimmetria tra chi - per chat di contenuto spesso peggiore di quello della pm siciliana - l’ha fatta franca perché ben radicato o addirittura a capo di cordate correntizie. E chi, invece, perduto ogni appoggio, viene punito esemplarmente per un comportamento riprovevole sì, ma forse perdonabile per umana compassione ove appena ci fosse stata più umiltà nel difendersi. Che bilancio trarre? Senza dubbio emerge un’immagine di una magistratura in profonda crisi che non offre molte garanzie. Cosa può pensare, infatti, un cittadino davanti ad un simile quadro? Può continuare, usando quella frase spesso usata a sproposito, ad aver ' fiducia nella magistratura'?. Difficile un atto di fede davanti a realtà del genere. Ma i primi a non avere "fiducia" dei giudici, sono i giudici stessi.
A parte l'episodio toccato alla pm Sinatra, c'è un dato che nessuno racconta: ogni tre nomine fatte, una viene impugnata davanti al giudice amministrativo. I criteri previsti per la nomina dei direttivi fanno sì che i magistrati non proposti non accettino il giudizio del Csm, convinti - a torto o a ragione - di essere "vittime" di un sopruso correntizio. Ecco, quindi, la ricerca della via giudiziaria a tutela del loro preteso buon diritto. In altre parole, dopo il Palamaragate sono sempre meno i magistrati disposti a sentirsi dire di essere meno bravi del collega.
Attualmente sono pendenti, lo ha ricordato il vice presidente del Csm Fabio Pinelli, decine e decine di nomine per incarichi direttivi. Ci sono uffici scoperti da anni. Pare incredibile ma ci sarebbero, lo ha detto sempre Pinelli, uffici che non hanno un dirigente dal 2018. Tutto ciò avviene nell’indifferenza del legislatore che ha approvato lo scorso anno una riforma dell'Ordinamento giudiziario che ha dato ancora più potere alle correnti (su venti componenti togati, ben 19 sono espressioni di gruppi della magistratura associata). Ci sono soluzioni? Una semplice riforma a costo zero era quella del sorteggio temperato dei candidati al Csm. La voleva tutto il centro destra che poi ha fatto marcia indietro. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, forse sotto la pressione delle correnti, disse che era anticostituzionale Poi si potrebbe pensare ad una rotazione, con opportuni accorgimenti, negli incarichi direttivi. Si tratta di riforme in grado di restituire alla Giustizia serenità e prestigio e ai cittadini la sicurezza di trovarsi in uffici giudiziari retti da giudici effettivamente terzi ed imparziali la cui nomina non è stata il frutto di compromessi ed accordi opachi.
Toghe tutte salvate. Palamaragate, spunta foto del Pm Formisano con gli indagati Mancinetti e Spina. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Gennaio 2023
L’indagine della Procura di Perugia che ha terremotato il Consiglio superiore della magistratura, seppur a distanza di ormai quattro anni, continua a riservare ancora sorprese sui rapporti personali di amicizia e frequentazione tra i due pm umbri titolari del fascicolo e i magistrati a vario titolo coinvolti in questi mesi nel procedimento.
Il primo caso ha riguardato la pm Gemma Miliani e l’ex parlamentare di Italia viva Cosimo Ferri, oggi magistrato fuori ruolo perché eletto al Consiglio comunale di Massa. Dopo circa un anno dall’inizio dell’indagine e dal coinvolgimento dell’ex toga renziana, emerso da subito quale “referente presso il Csm” degli indagati avvocati siracusani Piero Amara e Giuseppe Calafiore, la pm, precisamente l’8 maggio 2019, scrisse all’allora procuratore di Perugia Luigi De Ficchy di essere stata testimone di nozze di Ferri e di essere legata da un perdurante rapporto di amicizia con la moglie. Ed inoltre, di essersi persino recata in qualche occasione a Pontremoli per fare visita a casa dei coniugi Ferri rispetto al quale, continuò la magistrata, “sono emersi molteplici contatti telefonici” proprio con Palamara, indagato per corruzione, “come ben noto” allo stesso De Ficchy.
Dalla foto pubblicata oggi, risulta invece, a guardare i volti, il rapporto di amicizia intrattenuto dall’altro pm incaricato dell’indagine, Mario Formisano (al centro), con altri due indagati: i due ex consiglieri del Csm Marco Mancinetti (a sinistra) e Luigi Spina (a destra), entrambi esponenti di punta di Unicost, la corrente di centro. il primo venne archiviato dalla Procura di Perugia dopo essere stato interrogato proprio da Formisano il 25 novembre 2020 e il secondo, invece, definito sollecitamente con la “messa alla prova” per alcune ipotesi di rivelazione di segreto. La foto risale alla campagna elettorale per le elezioni del Csm dell’anno 2018 che hanno sancito l’elezione sia di Mancinetti che di Spina all’organo di autogoverno. Formisano era all’epoca nell’Associazione nazionale magistrati il referente per Unicost a Perugia con l’incarico, quindi, di procurare i voti ai due candidati per consentirne l’elezione. Davvero uno strano intreccio tra inquirenti e inquisiti che, a memoria, pur nelle tante stranezze cui ci ha abituati la magistratura italiana, mai si era dovuto registrare. Paolo Comi
Il caso Palamaragate. Il trojan finisce sotto inchiesta, il Senato apre indagine conoscitiva sulle intercettazioni. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Dicembre 2022
Il trojan, il terribile virus informatico che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso, è fuori controllo. I casi di abuso, dopo che nel 2019 l’ex ministro della Giustizia Bonafede (M5s) l’ha esteso anche ai reati contro la Pa, sono ormai all’ordine del giorno. Il Palamaragate, dove venne fatto ampio utilizzo di tale strumento da parte del Gico della Guardia di finanza su mandato della Procura di Perugia, è stato certamente uno dei più noti: funzionamento ‘a singhiozzo’, registrazioni audio sparite, programmazioni cancellate a posteriori.
Per cercare di capire cosa accade nelle Procure, la Commissione giustizia del Senato procederà nelle prossime settimane con una ‘indagine conoscitiva’ sulle intercettazioni e, in particolare, quelle a mezzo trojan. Come annunciato dalla presidente della Commissione Giulia Bongiorno (Lega), l’attenzione si concentrerà sui “presupposti e le forme di autorizzazione”, “le fattispecie di reato interessate”, “i costi”, “l’autorità giudiziaria richiedente”, “il numero di indagati”, “il numero di proroghe” e “l’esito dei procedimenti”. Il senatore Pierantonio Zanettin (FI) ha già fatto sapere che nei primi giorni del prossimo anno verranno ascoltati a Palazzo Madama il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo e l’avvocato Luigi Panella, difensore del giudice ed ex parlamentare di Italia viva Cosimo Ferri, il primo a sollevare nel Palamaragate la questione del ‘malfunzionamento’ dei trojan.
“Abbiamo chiesto di sentire anche i tecnici informatici che in varie inchieste hanno evidenziato le anomalie dell’uso, oltre ai tecnici della società Rcs, che ha inoculato il telefonino di Palamara”, ha dichiarato ieri Zanettin. E sempre ieri il vice presidente del Csm David Ermini ha risposto al ministro della Giustizia Carlo Nordio che aveva criticato in settimana la gestione dell’organo di autogoverno delle toghe. “Il ministro – ha affermato – non conosce il lavoro svolto per rinnovare il Csm”. Come esempio Ermini ha citato “le prassi virtuose” utilizzate per le nomine. Dimenticandosi, però, la valanga di ricorsi al giudice amministrativo contro tali decisioni. Paolo Comi
"Porcherie anche nel caso Palamara". Nordio tranchant sulle intercettazioni. L’analisi tagliente del ministro della Giustizia in commissione al Senato: “Le intercettazioni del trojan sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva”. Massimo Balsamo il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Le riforme annunciate sono state bocciate dall’Anm, ma Carlo Nordio tira dritto. Il ministro della Giustizia ha le idee chiare sul percorso liberale da seguire e, intervenuto in commissione al Senato, non ha lesinato stoccate. Riflettori accesi sulla disciplina delle intercettazioni, sin qui utilizzate come metodo di delegittimazione personale e politica. Il Guardasigilli non ha utilizzato troppi giri di parole: le intercettazioni devono essere solo uno strumento per la ricerca della prova, non la prova in sé.
L’analisi di Nordio
"Questa porcheria è continuata anche dopo la legge Orlando basta vedere il sistema Palamara, cosa è uscito che non aveva niente a che fare con l'indagine e cosa non è uscito", l’opinione del titolare della Giustizia nel suo intervento a Palazzo Madama. Nordio ha poi posto un quesito provocatorio: “Credete che tutte le intercettazioni del trojan di Palamara siano state trascritte nella forma della perizia?”. Lui non ha titubanze: “Sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva, e non sono ancora tutte state rese pubbliche”.
Nordio si è poi soffermato sull’emendamento del governo inserito nella manovra che riguarda le intercettazioni preventive legate alle attività di intelligence: “È un equivoco che l'emendamento nella legge di bilancio sulle intercettazioni preventive sia rivoluzionario, è esattamente la stessa cosa, ha solo aumentato le garanzie, e trasferito un piccolo capitolo di spesa". Il ministero ne era a conoscenza, ha ribadito, e ha dato parere favorevole.
Abuso d’ufficio e codice degli appalti
Uno dei dossier più roventi riguarda l’abuso d’ufficio, Nordio ha ribadito ancora una volta la posizione del governo sul tema. Il ministro ha sottolineato di aver ascoltato attentamente le richieste dell’Anci:“È intenzione mia e del governo rivedere completamente i reati contro la pubblica amministrazione che ispirano la cosiddetta paura della firma. Le opzioni riguardano essenzialmente l'abuso d'ufficio e il traffico di influenze, si può andare dall'abrogazione di uno o di entrambi i reati fino a una rimodulazione integrale degli stessi. Questo sarà oggetto di confronto e di dibattito in Parlamento”. La strada è tracciata.
L’ex magistrato ha ribadito la sua posizione sulla separazione delle carriere – “non faccio un passo indietro” – ma ha anche spiegato che si tratta di un problema divisivo che richiede una revisione costituzionale, un cammino piuttosto lungo. “Oggi non è la priorità”, ha chiosato. Poi, ancora, il codice degli appalti, a stretto giro di posta oggetto di discussione:“Una semplificazione normativa, se fatta bene, non significa né un regalo alle mafie né alcuna forma di impunità per la corruzione. Significa semplificare le procedure e individuare le competenze”, il monito di Nordio.
Spie e server occulti, i misteri mai risolti del caso Palamara. Da due anni sono ancora fermi al palo i fascicoli relativi alle violazioni del segreto nei procedimenti sull’ex capo dell’Anm. Né sono mai state chiarite le anomalie sugli ascolti. Simona Musco e Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 25 dicembre 2022
Ci sono state delle violazioni di legge nella gestione delle intercettazioni, telefoniche e a mezzo trojan, nel Palamaragate? E, soprattutto, che fine ha fatto l’indagine sulla fuga di notizie che caratterizzò la prima fase dell’inchiesta a maggio del 2019 e poi denunciata dal diretto interessato?
Nell’intervista rilasciata al Dubbio, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha criticato fermamente le dichiarazioni rilasciate dal ministro della Giustizia Carlo Nordio a proposto delle “illegalità” commesse nell’indagine della Procura di Perugia nei confronti di Luca Palamara, riprendendo l’argomento già speso dal vicedirettore del Domani Emiliano Fittipaldi secondo il quale, prima dell’entrata in vigore della legge Orlando, le intercettazioni erano liberamente divulgabili.
Santalucia, in particolare, ha affermato che le «cose non stanno» come le rappresenta Nordio perché «le intercettazioni di quel fascicolo erano regolate dalla legge precedente alla Orlando» ed inoltre «non è poi vero che le intercettazioni non siano state depositate a favore della difesa e che non si sia proceduto alla loro trascrizione nelle forme della perizia in contraddittorio con la difesa» pur premettendo di «non avere il fascicolo in mano».
Sul punto vale la pena ricordare che il giudice per le indagini preliminari di Firenze Sara Farini, con un provvedimento del 27 gennaio 2021, quindi successivo all’entrata in vigore della legge Orlando, a proposito della divulgazione degli atti dell’indagine perugina del 29 maggio 2019, ha testualmente affermato che «sussiste senza dubbio il fumus commissi delicti del reato in iscrizione, considerata la circostanza - non controversa alla luce della documentazione prodotta dal denunciante e dalla scansione temporale dei fatti riferita in querela - della pubblicazione su varie testate giornalistiche di notizie ancora coperte da segreto investigativo.
Appare dunque configurabile la fattispecie di cui all'art. 326 c. p.: vi è stata una condotta di illecita rivelazione di dette notizie da parte di un pubblico ufficiale, allo stato non identificato, che, avvalendosi illegittimamente di notizie non comunicabili in quanto coperte dal segreto investigativo, riferibili ad atti depositati presso la Procura della Repubblica di Perugia, le ha indebitamente propalate all'esterno». A proposito della condotta tenuta dalla Procura di Firenze nella persona del procuratore aggiunto Luca Turco, la medesima dottoressa Farini non ha mancato di precisare che «ad oggi non risultano infatti compiuti atti di indagine volti quantomeno a circoscrivere la platea di soggetti che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete indebitamente propalate all'esterno della Procura della Repubblica di Perugia».
Ebbene a distanza di quasi due anni dal provvedimento della dottoressa Farini nulla si è mosso a Firenze, competente per i reati commessi dai colleghi umbri, e le richieste dei legali di Palamara cadono regolarmente nel vuoto. Anche dell’altro fascicolo, allo stato attuale, non si hanno notizie. Ovvero quello sulla presunta manomissione del trojan, denunciata da Palamara e dall’ex deputato Cosimo Ferri a Napoli e Firenze. Le ipotesi avanzate dalle due procure a carico di quattro persone sono gravi: accesso abusivo al sistema informatico, frode nelle pubbliche forniture, errore determinato dall’altrui inganno, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico e falsa testimonianza, reati contestati, a vario titolo, ai vertici della Rcs, la società che ha noleggiato il trojan alla guardia di finanza di Roma per le indagini a carico dell’ex presidente dell’Anm.
Le difese dei due ex magistrati avevano scoperto l’esistenza di un server “occulto” della Rcs collocato all’interno della Procura di Napoli. Un server non autorizzato, scoperto dopo l’ammissione dell’ingegnere della Rcs Duilio Bianchi davanti ai pm fiorentini, ai quali ha confermato che i dati del telefono di Palamara, anziché finire sul server autorizzato installato nei locali della Procura di Roma, finivano a Napoli, nella memoria di due server collocati nei locali del Centro direzionale. Bianchi, nel corso del procedimento disciplinare a carico di Palamara davanti al Csm, aveva invece negato l’esistenza di un server intermedio.
Ma ad indagare è stata la difesa di Ferri, rappresentata dall’avvocato Luigi Antonio Paolo Panella, che si è rivolto a due super consulenti tecnici: l’ingegnere elettronico Paolo Reale, presidente dell’Osservatorio nazionale di informatica forense, e il dottor Fabio Milana, perito iscritto all’Albo del Tribunale di Roma. Dai dati acquisiti dalla procura di Firenze è emerso che la Rcs avrebbe utilizzato differenti architetture di sistema per le intercettazioni con il trojan disposte dalle diverse procure, ipotesi confermata dalle audizioni dei tecnici della società e dalle indagini svolte dal Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche e dai carabinieri. Nel 2019 la Rcs avrebbe utilizzato un sistema fondato su tre macchine, architettura in seguito modificata con l’eliminazione di uno dei server, rimasto in funzione soltanto per consentire l’attività d’indagine di un’altra procura.
Il 4 aprile del 2019, parte dei macchinari di tale sistema è stata trasferita nella sala server della procura di Napoli. Il tutto senza che lo stesso ufficio giudiziario fosse a conoscenza di nulla. Ma non solo. La Procura di Perugia ha, infatti, intercettato oltre che Palamara anche altri indagati ed in particolare gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Ebbene di queste intercettazioni, soprattutto di quelle di Amara, il beneficiario della corruzione di Palamara, non si è mai saputo nulla. Il Gico della guardia di finanza, delegato alle indagini, non ha trascritto neppure una delle centinaia di telefonate fatte da Amara e i legali di Palamara non sono mai entrati in possesso dei relativi file audio sicché non hanno mai neppure avuto la possibilità di chiedere al giudice la “trascrizione nelle forme della perizia”.
Tutto ciò a distanza di quasi quattro anni dallo scoppio dell'indagine e quando l’ex zar delle nomine al Csm si trova già rinviato a giudizio davanti al giudice del dibattimento. Forse Nordio - che ha annunciato l’invio degli ispettori ministeriali a Firenze dopo le denunce di Matteo Renzi - non ha proprio tutti i torti quando stigmatizza duramente la gestione di quel fascicolo….
Nordio non conosce nemmeno le leggi che vuole smantellare. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 22 dicembre 2022
Nordio due giorni fa, in una bizzarra audizione alla commissione al Senato, ha protestato di nuovo contro l’uso osceno che viene fatto delle captazioni in Italia.
Nordio, come un novello Orsini, non sembra conoscere bene la materia di cui discetta: come spiega il decreto legge del 30 aprile 2020 e il codice penale, l’entrata in vigore della legge Orlando si applica «ai procedimenti penali iscritti successivamente successive al 31 agosto 2020».
Peccato che le investigazioni su Palamara siano del lontano maggio 2019, e che la gestione delle intercettazioni sia stata dunque regolata dalla normativa precedente.
Emiliano Fittipaldi per “Domani” il 23 dicembre 2022.
Qualche giorno fa il giornalista Antonio Talia ha inchiodato Alessandro Orsini alla sua ennesima gaffe, evidenziando come l’ospite preferito di Bianca Berlinguer avesse citato un inesistente giornalista del New York Times, tal William J. Ampio, in un video in cui discettava della guerra tra Russia e Ucraina. Il commentatore aveva infatti usato il traduttore automatico, che ha modificato il cognome originale del reporter (Broad) nell’italianissimo “Ampio”. «Se Orsini non ha gli strumenti cognitivi per capire l’errore nella traduzione automatica di un articolo» s’interrogava Talia «come potrà riuscire a decifrare e poi spiegare il contenuto dell’articolo stesso?».
Ora, identico dubbio si pone per il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio, noto soprattutto per la ferrea volontà di mettere mano alla riforma delle intercettazioni. L’ex magistrato 75enne, voluto sulla poltrona di Via Arenula da Giorgia Meloni in persona, prima ha scritto il demenziale decreto legge sui rave. Poi due giorni fa, in una bizzarra audizione alla commissione al Senato, ha protestato di nuovo contro l’uso osceno che viene fatto delle captazioni in Italia.
Attaccando la normativa vigente e facendo, finalmente, un esempio concreto: «La porcheria è continuata anche dopo la legge Orlando. Basta vedere l’inchiesta sul sistema Palamara. Cosa è uscito su cose che non avevano a che fare sulle indagini e, aggiungo, cosa non è uscito. Sono state selezionate, pilotate, diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva».
Nordio, come un novello Orsini, non sembra conoscere bene la materia di cui discetta: come spiega il decreto legge del 30 aprile 2020 e il codice penale, l’entrata in vigore della legge Orlando si applica «ai procedimenti penali iscritti successivamente successive al 31 agosto 2020». Peccato che le investigazioni su Palamara siano del lontano maggio 2019, e che la gestione delle intercettazioni sia stata dunque regolata dalla normativa precedente. Ormai superata.
Se abusi ci sono stati, dunque, non riguardano mancanze o vulnus del decreto Orlando. Che sembra invece aver funzionato abbastanza bene: tutto è perfettibile, ma è un fatto che negli ultimi due anni le violazioni della privacy si sono fortunatamente ridotte ai minimi.
L’intemerata di Nordio ha ricevuto subito gli applausi di Palamara, of course, e di Forza Italia, da sempre fautore dell’impunità massima per corrotti e corruttori. L’anno prossimo il ministro dovrebbe proporre l’ennesima riforma-bavaglio. Si spera che prima di presentarla studi meglio le norme esistenti, evitando scivoloni che sembrano suggerire, piuttosto che un impeto riformista mosso da un sincero garantismo, un furore ideologico e pericoloso per la già disastrata giustizia italiana.
Per attaccare Nordio Fittipaldi confonde Viminale e via Arenula. Il vicedirettore del “Domani” ha preso una cantonata: le divulgazioni pilotate di cui parla il ministro della Giustizia trovano la propria disciplina direttamente nell’articolo 326 del codice penale, “rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”, e non nel decreto Orlando. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 23 dicembre 2022
Emiliano Fittipaldi, vicedirettore del Domani, quotidiano che annovera molti giornalisti d'inchiesta, in un articolo apparso ieri dal titolo “il Ministro della Giustizia non conosce la giustizia” sostiene che i riferimenti fatti da Carlo Nordio alle indebite divulgazioni delle intercettazioni captate nell’inchiesta di Perugia sull’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara sarebbero erronei. Ciò in quanto il decreto Orlando «si applica ai procedimenti penali iscritti successivamente al 31 agosto 2020» laddove l’indagine perugina nei confronti di Palamara è del maggio 2019.
Secondo Fittipaldi, poi, Nordio avrebbe anche «scritto il demenziale decreto legge sul rave». Ci permettiamo di far osservare a Fittipaldi che il decreto sul rave è uscito dalle stanze del Viminale e non da quelle di via Arenula e che, per quanto riguarda il presunto errore sul decreto Orlando, le intercettazioni dell’inchiesta di Perugia sono state pubblicate dal Corriere, da Repubblica e dal Messaggero, a partire dal 29 maggio 2019 e a ritmo quotidiano, laddove non erano state depositate ai difensori e risultano pervenute al Consiglio superiore della magistratura soltanto il 3 giugno successivo.
Dovrebbe essere quindi facile comprendere che le divulgazioni pilotate di cui parla Nordio trovano la propria disciplina direttamente nell’articolo 326 del codice penale, “rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”, e non nel decreto Orlando che prevede un complesso meccanismo di segretezza per le intercettazioni lecitamente depositate ritenute non rilevanti.
La differenza, che non pare sia stata colta dal vicedirettore del quotidiano di Carlo De Benedetti, non è solo nella rilevanza penale della condotta di coloro che hanno, il 28 maggio 2019 o prima, consegnato a ben tre organi di informazioni trascrizioni di intercettazioni quando queste erano ancora in corso presso l’autorità giudiziaria di Perugia, ma anche nella “finalità” da costoro perseguita. "Finalità” che non era certo quella di accertare i reati per i quali si procedeva, vale a dire la presunta e fumosa corruzione di Palamara, bensì quella di impedire che venisse nominato Marcello Viola procuratore della Repubblica di Roma.
Ci auguriamo che queste ovvie considerazioni costituiscano per il futuro una più solida premessa per comprendere la gravità di ciò che è successo, giustamente evidenziata da Nordio.
Il caso Palamaragate. Il trojan finisce sotto inchiesta, il Senato apre indagine conoscitiva sulle intercettazioni. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Dicembre 2022
Il trojan, il terribile virus informatico che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso, è fuori controllo. I casi di abuso, dopo che nel 2019 l’ex ministro della Giustizia Bonafede (M5s) l’ha esteso anche ai reati contro la Pa, sono ormai all’ordine del giorno. Il Palamaragate, dove venne fatto ampio utilizzo di tale strumento da parte del Gico della Guardia di finanza su mandato della Procura di Perugia, è stato certamente uno dei più noti: funzionamento ‘a singhiozzo’, registrazioni audio sparite, programmazioni cancellate a posteriori.
Per cercare di capire cosa accade nelle Procure, la Commissione giustizia del Senato procederà nelle prossime settimane con una ‘indagine conoscitiva’ sulle intercettazioni e, in particolare, quelle a mezzo trojan. Come annunciato dalla presidente della Commissione Giulia Bongiorno (Lega), l’attenzione si concentrerà sui “presupposti e le forme di autorizzazione”, “le fattispecie di reato interessate”, “i costi”, “l’autorità giudiziaria richiedente”, “il numero di indagati”, “il numero di proroghe” e “l’esito dei procedimenti”. Il senatore Pierantonio Zanettin (FI) ha già fatto sapere che nei primi giorni del prossimo anno verranno ascoltati a Palazzo Madama il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo e l’avvocato Luigi Panella, difensore del giudice ed ex parlamentare di Italia viva Cosimo Ferri, il primo a sollevare nel Palamaragate la questione del ‘malfunzionamento’ dei trojan.
“Abbiamo chiesto di sentire anche i tecnici informatici che in varie inchieste hanno evidenziato le anomalie dell’uso, oltre ai tecnici della società Rcs, che ha inoculato il telefonino di Palamara”, ha dichiarato ieri Zanettin. E sempre ieri il vice presidente del Csm David Ermini ha risposto al ministro della Giustizia Carlo Nordio che aveva criticato in settimana la gestione dell’organo di autogoverno delle toghe. “Il ministro – ha affermato – non conosce il lavoro svolto per rinnovare il Csm”. Come esempio Ermini ha citato “le prassi virtuose” utilizzate per le nomine. Dimenticandosi, però, la valanga di ricorsi al giudice amministrativo contro tali decisioni. Paolo Comi
Federico Capurso per “la Stampa” il 23 Dicembre 2022.
Un colpo di piccone alla volta, fosse per Forza Italia, della legge Spazzacorrotti di Alfonso Bonafede non rimarrebbe più nulla. Dopo aver restituito ai colletti bianchi i benefici penitenziari, finisce nel mirino del senatore Pierantonio Zanettin il "trojan", una sorta di virus che trasforma lo smartphone dell'indagato in un microfono sempre acceso. Zanettin ha quindi presentato una proposta di legge per rivederne l'uso, che Bonafede aveva esteso, oltre ai già previsti reati di mafia e terrorismo, anche a quelli contro la pubblica amministrazione. Troppo invasivo, dice Zanettin: «Viola la sfera di intimità dell'intercettato». E quindi, via l'intercettazione per i colletti bianchi.
Il trojan non piace nemmeno al ministro della Giustizia Carlo Nordio, che lo giudica «una porcheria», «un'arma incivile». Per il Guardasigilli - intervenuto a "L'aria che tira" - può semmai «essere usato come era all'inizio, e cioè in casi eccezionali di gravissima pericolosità nazionale, diciamo pure mafia e terrorismo».
Per questi reati, spiega Nordio, «mai detto che vanno toccate le intercettazioni.
Per gli altri reati, invece, esiste la possibilità di conciliare il diritto di cronaca con il diritto costituzionale secondo cui il diritto alla segretezza delle conversazioni è inviolabile. Poi - precisa - ci sono casi eccezionali che ne prevedono la vulnerabilità con l'ok dell'autorità giudiziaria».
A domanda, Nordio risponde, ma quella di Zanettin «è solo una proposta di legge», spiegano da Fratelli d'Italia, tirando il freno. Anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro, di FdI, sottolinea la necessità di «intervenire sulle intercettazioni in modo organico, perché le misure spot rischiano di rompere i delicati equilibri del sistema giustizia».
Del Mastro condivide la volontà di rivedere e limitare l'uso dei trojan, «ma ne dovremo iniziare a parlare a gennaio, valutando anche gli effetti della precedente normativa e poi i necessari aggiustamenti da fare». Insomma, quello che dicono Nordio e Forza Italia è condiviso da tutti, all'interno della maggioranza, ma FdI - che la Spazzacorrotti l'ha votata - preferisce percorrere una strada prudente. Forse anche per non offrire ogni giorno un nuovo motivo alle opposizioni per tuonare contro la loro visione della giustizia. Esprime «profonda preoccupazione», infatti, il senatore del Pd Walter Verini.
«Una proposta come questa - dice - dà un segnale con cui si indebolisce il contrasto alla corruzione e alla criminalità organizzata». Preoccupazione che non si ferma solo al trojan, ma che si estende «alla decisione di togliere dai reati ostativi quelli contro la pubblica amministrazione e la revisione del codice degli appalti appena varata: questo governo sta intaccando tutti i presidi di contrasto alla corruzione».
È dello stesso parere l'ex procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, oggi deputato dei Cinque stelle: «Il trojan non va limitato solo a mafia e terrorismo, perché la corruzione dei colletti bianchi è una delle strade privilegiate per infiltrare nell'economia, stringendo relazioni con esponenti delle pubblica amministrazione ed esponenti delle istituzioni che hanno compiti di controllo e assegnazione degli appalti».
Per questo, propone Cafiero De Raho, «sarebbe più utile andare verso un controllo rigoroso del giudice che autorizza le intercettazioni, con l'esclusione di quelle fondate solo sul sospetto, sempre investendo, però, sul trojan, che è la tecnologia più avanzata a disposizione». La disciplina che ne regola l'uso, aggiunge, «è già molto stringente e impone lo stralcio di qualunque registrazione che non sia penalmente rilevante, se è questo che preoccupa il ministro».
La barbarie delle intercettazioni. Il caso Ferri e l’inciviltà del trojan: la vita privata in pasto a chiunque. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Dicembre 2022
«Il trojan è uno strumento incivile». Parola di Carlo Nordio. Il Guardasigilli, intervenendo ieri a una trasmissione televisiva, ha deciso – finalmente – di prendere posizione sull’utilizzo del micidiale virus informatico che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso.
Nel 2017 fu l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) ad introdurre questo nuovo strumento investigativo da affiancare alle tradizionali intercettazioni telefoniche.
Il ‘captatore’ doveva essere utilizzato esclusivamente per il contrasto ai reati di eccezionale gravità, come quelli di mafia e terrorismo. Nel 2019, con l’avvento del grillino Alfonso Bonafede a via Arenula, il suo utilizzo venne però esteso anche ai reati contro la pubblica amministrazione, aumentando quindi a dismisura il suo impiego. I reati contro la Pa sono infatti oggi gli unici dove il trojan trova il suo utilizzo. “Il mafioso non parla al telefono”, ha ricordato sempre ieri Nordio. Per stoppare questo uso indiscriminato del trojan, che è in grado anche di accendere le telecamere e di copiare tutti i dati presenti sul cellulare, il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha depositato questa settimana a Palazzo Madama un disegno di legge per vietare l’utilizzo dei trojan nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione.
«Con tale strumento viene registrata la vita privata, i gusti commerciali, l’orientamento sessuale, le preferenze sessuali. Ne vale la pena per il traffico di influenze o altri reati di questa natura? Chi conserverà questi dati? Che uso ne farà? Quali garanzie avranno i cittadini di un utilizzo corretto di questi dati?», si è chiesto Zanettin. Al momento ci sono due indagini, una a Firenze e una Napoli, di cui si sono perse le tracce da mesi, utili a capire che uso è stato fatto di queste informazioni. I fascicoli furono aperti a seguito della denuncia dell’ex deputato di Italia Viva Cosimo Ferri, intercettato con il trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara. I tecnici nominati da Ferri appurarono la presenza di server ‘intermedi’ tra il telefono di Palamara e il server della Procura di Roma, l’unico autorizzato a registrare i dati e a trasmetterli alla sala ascolto del Gico della guardia di finanza della Capitale, delegato alle indagini dai magistrati di Perugia.
La società Rcs di Milano, che aveva fornito ai finanzieri il trojan, aveva sempre negato questa circostanza. I tecnici di Ferri, invece, scoprirono che il server non si trovava a Roma, ma addirittura a Napoli, nel centro direzionale. Il numero uno della Rcs, l’ingegnere Duilio Bianchi, dopo aver sempre negato l’accaduto, fu costretto ad ammettere che i dati del telefono di Palamara, prima di arrivare a Roma, finivano in due server a Napoli collocati, ironia della sorte, nei locali della Procura di Repubblica. L’allora procuratore del capoluogo campano Giovanni Melillo, dopo aver revocato qualsiasi incarico a Rcs, decise di iscrivere Bianchi per falsa testimonianza, frode in pubbliche forniture e falso ideologico per induzione in errore dei magistrati di Perugia. Fascicolo poi trasmesso a Firenze.
Ma non solo: il server napoletano avrebbe per mesi ricevuto i dati, accessibili quindi dal personale di Rcs, delle Procure di tutta Italia che in quel momento stavano utilizzando il trojan. “Ciò significa che, potenzialmente, poteva accadere di tutto e ciò è assolutamente allarmante e costituisce, a mio parere, un pericolo per la democrazia di questo Paese”, disse l’avvocato romano Luigi Panella, difensore di Ferri.
Panella su questo scandalo silenziato dai grandi giornali che, invece, si battono in questi giorni affinché il trojan continui ad essere impiegato senza freni, verrà ascoltato in Senato nei primi giorni di gennaio nell’ambito di una indagine conoscitiva sull’utilizzo delle intercettazioni e, appunto, del ‘captatore’. Paolo Comi
Gli Impuniti.
Antonio Giangrande: Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
A cura del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS.
Il codice etico della magistratura: ecco come ci si dovrebbe comportare nel pubblico e nel privato. Rita Galimberti su Panorama il 06 Ottobre 2023
Il codice etico della magistratura: ecco come ci si dovrebbe comportare nel pubblico e nel privato Dignità, correttezza, sensibilità all'interesse pubblico. Ma anche disinteresse personale, indipendenza e imparzialità. Ecco le regole di comportamento di un magistrato «Nella vita sociale il magistrato si comporta con dignità, correttezza, sensibilità all'interesse pubblico. Nello svolgimento delle sue funzioni, nell'esercizio di attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità. Il magistrato opera con spirito di servizio per garantire la piena effettività dei diritti delle persone; considera le garanzie e le prerogative del magistrato come funzionali al servizio da rendere alla collettività; presta ascolto ai soggetti che in diverse forme concorrono all'esercizio della giurisdizione e ne valorizza il contributo». Quello che avete appena letto è l'articolo 1 del codice etico della magistratura. Un volume a cui, tutti i magistrati italiani, si dovrebbero attenere e che detta modi, usi e costumi da mantenere in pubblico, nella vita privata, e in quella lavorativa. Il video diffuso da Matteo Salvini che mostra la giudice Iolanda Apostolico alla protesta sul mancato sbarco degli immigrati a bordo della Diciotti ha scatenato un acceso dibattito su quali dovrebbero essere i comportamenti ritenuti consoni per un magistrato con tanto di accento sulle regole che, questi, dovrebbe mantenere dentro - e soprattutto - fuori il palazzo di giustizia. Come abbiamo detto, l'articolo uno recita chiaramente che il magistrato esercita le sue funzioni con imparzialità, correttezza, diligenza, rispettando la dignità delle persone. Andando avanti con il codice etico si scopre che questo principio è valido anche all'estero del palazzo di giustizia. E che, il magistrato «non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o dell'istituzione giudiziaria». Una qualsiasi violazione di questo dovere resta, secondo il codice, perseguibile disciplinarmente. Prosegue una lunga lista di attività vietate, di regole e doveri, modalità di intrattenere rapporti con la stampa, dichiarazioni pubbliche, e così via. Da quel che se ne trae (il testo del regolamento lo trovate scorrendo la pagina di questo articolo) ne se trae che, in linea di massima, al magistrato è vietato "ogni comportamento tale da compromettere indipendenza, terzietà e imparzialità anche sotto il profilo dell’apparenza" e che "l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza". Lo sarà anche nel caso Salvini-Apostolico?
Il codice etico
I. LE REGOLE GENERALI
Art. 1 - Valori e principi fondamentali Nella vita sociale il magistrato si comporta con dignità, correttezza, sensibilità all'interesse pubblico. Nello svolgimento delle sue funzioni, nell'esercizio di attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità. Il magistrato opera con spirito di servizio per garantire la piena effettività dei diritti delle persone; considera le garanzie e le prerogative del magistrato come funzionali al servizio da rendere alla collettività; presta ascolto ai soggetti che in diverse forme concorrono all'esercizio della giurisdizione e ne valorizza il contributo.
Art. 2 - Rapporti con le istituzioni, con i cittadini e con gli utenti della giustizia Nei rapporti con i cittadini e con gli utenti della giustizia il magistrato tiene un comportamento disponibile e rispettoso della personalità e della dignità altrui e respinge ogni pressione, segnalazione o sollecitazione comunque diretta ad influire indebitamente sui tempi e sui modi di amministrazione della giustizia. Nelle relazioni sociali ed istituzionali il magistrato non utilizza la sua qualifica al fine di trarne vantaggi personali di procurare vantaggi a sé o ad altre persone. Si astiene da ogni forma di intervento che possa indebitamente incidere sull'amministrazione della giustizia ovvero sulla posizione professionale propria o altrui.
Art. 3 - Doveri di operosità e di aggiornamento professionale Il magistrato svolge le sue funzioni con diligenza ed operosità, impegnandosi affinché alla domanda di giustizia si corrisponda con efficienza, qualità ed efficacia. Partecipa attivamente e con assiduità ai momenti organizzativi e di riflessione comune interni all'ufficio. Conserva ed accresce il proprio patrimonio professionale impegnandosi nell'aggiornamento e approfondimento delle sue conoscenze nei settori in cui svolge la propria attività e partecipando alle iniziative di formazione, anche comuni agli altri operatori del diritto.
Art. 4 - Modalità di impiego delle risorse dell'amministrazione Il magistrato cura che i mezzi, le dotazioni e le risorse d'ufficio disponibili siano impiegati secondo la loro destinazione istituzionale, evitando ogni forma di spreco o di cattiva utilizzazione,adotta iniziative organizzative che perseguano obiettivi di efficienza del servizio giudiziario.
Art. 5 - Informazioni di ufficio. Divieto di utilizzazione a fini non istituzionali Il magistrato non utilizza indebitamente le informazioni di cui dispone per ragioni d'ufficio e non fornisce o richiede informazioni confidenziali su processi in corso, né effettua segnalazioni dirette ad influire sullo svolgimento o sull'esito di essi.
Art. 6 - Rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa Nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio. Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni per ragioni del suo ufficio concernenti l'attività del suo ufficio o conosciute per ragioni di esso e ritiene di dover fornire notizie sull'attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l'esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l'utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati. Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione. Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica.
Art. 7 - Adesione ad associazioni Il magistrato non aderisce e non frequenta associazioni che richiedono la prestazione di promesse di fedeltà o che non assicurano la piena trasparenza sulla partecipazione degli associati.
Art. 7 bis – Cariche associative e istituzionali Il magistrato componente del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, delle Giunte Esecutive Sezionali, delle presidenze e delle segreterie nazionali dei gruppi associativi (comunque denominate) non si candida al Consiglio Superiore della Magistratura prima della scadenza naturale dell’organo di appartenenza; Il magistrato componente dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Scuola Superiore della Magistratura non si candida al Consiglio Superiore della Magistratura prima della scadenza naturale dell’incarico; Il magistrato fuori ruolo non si candida al Consiglio Superiore della Magistratura prima del decorso di due anni dal ricollocamento in ruolo; Il magistrato già appartenente al Consiglio Superiore della Magistratura non presenta domanda per ufficio direttivo o semidirettivo, ove non ricoperto in precedenza, e non accetta incarichi fuori ruolo prima del decorso di due anni dal ricollocamento in ruolo.
II. INDIPENDENZA, IMPARZIALITÀ, CORRETTEZZA
Art. 8 - L'indipendenza del magistrato Il magistrato garantisce e difende, all'esterno e all'interno dell'ordine giudiziario, l'indipendente esercizio delle proprie funzioni e mantiene una immagine di imparzialità e di indipendenza. Nell'espletamento delle funzioni elettive in organi di autogoverno, centrale o periferico, opera senza vincolo di mandato rispetto all'elettorato e ai gruppi associativi. Evita qualsiasi coinvolgimento in centri di potere partitici o affaristici che possano condizionare l'esercizio delle sue funzioni o comunque appannarne l'immagine. Non permette che le relazioni dei suoi prossimi congiunti influenzino impropriamente il suo operato professionale. Il magistrato continua ad operare con spirito di indipendenza e di imparzialità nello svolgimento di funzioni amministrative. Di esse limita comunque nel tempo la durata. Non accetta incarichi né espleta attività che ostacolino il pieno e corretto svolgimento della propria funzione o che per la natura, la fonte e le modalità del conferimento, possano comunque condizionarne l'indipendenza. In particolare, fermo il regime delle ineleggibilità e delle incompatibilità stabilite dalle normative in materia, nel territorio dove esercita la funzione giudiziaria il magistrato evita di accettare candidature e di assumere incarichi politico-amministrativi negli enti locali.
Art. 9 - L'imparzialità del magistrato Il magistrato rispetta la dignità di ogni persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione. Nell'esercizio delle funzioni opera per rendere effettivo il valore dell'imparzialità, agendo con lealtà e impegnandosi a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sull'interpretazione ed applicazione delle norme. Assicura inoltre che nell'esercizio delle funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita. A tal fine valuta con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità.
Art. 10 - Obblighi di correttezza del magistrato Il magistrato non si serve del suo ruolo istituzionale o associativo per ottenere benefici o privilegi per sé o per altri. Il magistrato che aspiri a promozioni, a trasferimenti, ad assegnazioni di sede e ad incarichi di ogni natura non si adopera al fine di influire impropriamente sulla relativa decisione, né accetta che altri lo facciano in suo favore. Il magistrato si astiene da ogni intervento che non corrisponda ad esigenze istituzionali sulle decisioni concernenti promozioni, trasferimenti, assegnazioni di sede e conferimento di incarichi. Si comporta sempre con educazione e correttezza; mantiene rapporti formali, rispettosi della diversità del ruolo da ciascuno svolto; rispetta e riconosce il ruolo del personale amministrativo e di tutti i rispetta e riconosce il ruolo del personale amministrativo e di tutti i collaboratori.
LA CONDOTTA NELL'ESERCIZIO DELLE FUNZIONI
Art. 11 - La condotta nel processo Nell'esercizio delle sue funzioni, il magistrato, consapevole del servizio da rendere alla collettività, osserva gli orari delle udienze e delle altre attività di ufficio e programma lo svolgimento delle stesse anche al fine di evitare inutili disagi ai cittadini e ai difensori e fornendo loro ogni chiarimento eventualmente necessario. Svolge il proprio ruolo con equilibrio e con pieno rispetto di quello altrui ed agisce riconoscendo la pari dignità delle funzioni degli altri protagonisti del processo assicurando loro le condizioni per esplicarle al meglio. Cura di raggiungere, nell'osservanza delle leggi, esiti di giustizia per tutte le parti, agisce con il massimo scrupolo, soprattutto quando sia in questione la libertà e la reputazione delle persone. Fa tutto quanto è in suo potere per assicurare la ragionevole durata del processo.
Art. 12 - La condotta del giudice Il giudice garantisce alle parti la possibilità di svolgere pienamente il proprio ruolo, anche prendendo in considerazione le loro esigenze pratiche. Si comporta sempre con riserbo e garantisce la segretezza delle camere di consiglio, nonché l'ordinato e sereno svolgimento dei giudizi. Nell'esercizio delle sue funzioni ascolta le altrui opinioni, in modo da sottoporre a continua verifica le proprie convinzioni e da trarre dalla dialettica occasione di arricchimento professionale e personale. Nelle motivazioni dei provvedimenti e nella conduzione dell'udienza esamina i fatti e gli argomenti prospettati dalle parti, evita di pronunciarsi su fatti o persone estranei all'oggetto della causa, di emettere giudizi o valutazioni sulla capacità professionale di altri magistrati o dei difensori, ovvero - quando non siano indispensabili ai fini della decisione - sui soggetti coinvolti nel processo. Nel redigere la motivazione dei provvedimenti collegiali espone fedelmente le ragioni della decisione, elaborate nella camera di consiglio. Non sollecita né riceve notizie informali nei procedimenti da lui trattati.
Art. 13 - La condotta del pubblico ministero Il pubblico ministero si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo. Indirizza la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell'indagato e non tace al giudice l'esistenza di fatti a vantaggio dell'indagato o dell'imputato. Evita di esprimere valutazioni sulle persone delle parti, dei testimoni e dei terzi, che non sia conferenti rispetto alla decisione del giudice, e si astiene da critiche o apprezzamenti sulla professionalità del giudice e dei difensori. Partecipa attivamente alle iniziative di coordinamento e ne cura opportunamente la promozione. Non chiede al giudice anticipazioni sulle sue decisioni, né gli comunica in via informale conoscenze sul processo in corso.
Art. 14 - I doveri dei dirigenti Il magistrato dirigente dell'ufficio giudiziario cura al meglio l'organizzazione e l'utilizzo delle risorse personali e materiali disponibili. in modo da ottenere il miglior risultato possibile in vista del servizio pubblico che l'ufficio deve garantire. Assicura la migliore collaborazione con gli altri uffici pubblici, nel rispetto delle specifiche competenze di ciascuna istituzione. Garantisce l'indipendenza dei magistrati e la serenità del lavoro di tutti gli addetti all'ufficio assicurando trasparenza ed equanimità nella gestione dell'ufficio e respingendo ogni interferenza esterna. Cura in particolare l'inserimento dei giovani magistrati ai quali assicura un carico di lavoro equo. Si attiva per essere a tempestiva conoscenza di ciò che si verifica nell'ambito dell'ufficio, in modo da assumerne la responsabilità e spiegarne le ragioni e si dà carico delle questioni organizzative generali e di quelle che si riflettono sul lavoro del singolo magistrato. Esamina le lagnanze provenienti dai cittadini, dagli avvocati e dagli altri uffici giudiziari o amministrativi, vagliandone la fondatezza e assumendo i provvedimenti necessari ad evitare disservizi. Anche a tal fine deve essere disponibile in ufficio. Vigila sul comportamento dei magistrati e del personale amministrativo intervenendo tempestivamente, nell'esercizio dei suoi poteri, per impedire comportamenti scorretti. Sollecita pareri e confronti sulle questioni dell'ufficio da parte di tutti i magistrati, del personale amministrativo e, se del caso, degli avvocati. Cura l'attuazione del principio del giudice naturale. Redige con serenità, completezza e oggettività i pareri e le relazioni sui magistrati dell'ufficio, così lealmente collaborando con coloro cui è rimessa la vigilanza sui magistrati, con il Consiglio giudiziario e con il CSM. Il dirigente non sui avvale della propria posizione per ottenere benefici o privilegi per se o per altri.
Che fine fa la deontologia? Toghe e canali social, quando nei post dei magistrati manca prudenza e sobrietà. Le cronache sono piene di magistrati scatenati su Fb. Fra i casi più eclatanti, quello del pm di Trani Marco Ruggiero, che dopo essersi presentato in aula con la cravatta tricolore, aveva esternato il proprio disappunto per essere stato lasciato solo dallo Stato, ma anche quello del commento della pm di Imperia Barbara Bresci sulla bellezza di Gabriel Garko. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 4 Ottobre 2023
“Se un giudice usa i social per criticare o condividere questo o quel politico o le posizioni di questo o quel partito, può scrivere le sentenze più belle del mondo o fare le inchieste più azzeccate, ma presterà sempre il fianco a chi mette in dubbio le sue decisioni”, ha scritto ieri su X Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione.
La vicenda di Iolanda Apostolico, la giudice del tribunale di Catania che non ha convalidato il trattenimento di tre tunisini sconfessando il decreto del governo e che sul proprio profilo Fb condivideva post volgari e beceri contro l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, a favore delle Ong e del Partito democratico, ha fatto tornare nuovamente d’attualità il tema “toghe e social”.
L’argomento non è nuovo. Anzi. Nel 2017, dopo l’ennesima esternazione di un magistrato su Fb, l’allora laico del Csm Pierantonio Zanettin (FI), decise che era giunto il momento di aprire una pratica per individuare delle linee guida volte a garantire che la comunicazione sui social da parte dei magistrati avvenisse nel rispetto dei principi deontologici e con forme e modalità tali da non arrecare pregiudizio alla credibilità della funzione.
In quei mesi le cronache erano piene di magistrati scatenati su Fb. Fra i casi più eclatanti, il pm di Trani Marco Ruggiero, che dopo essersi presentato in aula con la cravatta tricolore, aveva esternato il proprio disappunto per essere stato lasciato solo dallo Stato nel processo sulle agenzie di rating, finito con l’assoluzione di tutti gli imputati.
Il post, ripreso poi dal Blog delle stelle, diventò virale. Altro post decisamente sopra le righe fu quello del presidente del Tribunale di Bologna Francesco Caruso che aveva paragonato chi votò Si al referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi a coloro che aderirono alla Repubblica di Salò del Duce.
E come non ricordare la pm di Imperia Barbara Bresci, titolare dell’inchiesta sull’esplosione di una villetta di Sanremo nella quale alloggiava Gabriel Garko, incidente che costò la vita alla proprietaria dell’immobile, che si lasciò andare ad apprezzamenti sull’attore? “Era bello? L’hai guardato anche per me?” gli chiedeva un’amica. E Bresci: “Eccome…”. Un’altra: “ti sei rifatta gli occhi?” E lei: “Sì”, attaccando gli ricordava che era omosessuale.
Per Zanettin, attuale capogruppo azzurro in Commissione giustizia al Senato, era dunque necessario da parte del Csm un “solenne intervento” per richiamare i magistrati a canoni di maggiore prudenza, sobrietà e riservatezza nell’uso dei social network e piattaforme digitali in genere, nel rispetto della libertà di pensiero. Il Csm, però, dimostrando scarsa attenzione nei confronti di tutto ciò che mette in discussione il prestigio delle toghe agli occhi dei cittadini, invece del “solenne intervento”, aveva deciso nel 2022, dopo cinque anni, di archiviare direttamente la pratica. Perché l’argomento non sarebbe stato di sua competenza.
“Nulla di nuovo. Ancora una volta, seguendo una tradizione ben consolidata in questi anni, il Csm aveva preferito nascondere il problema sotto il tappeto invece di trovare una soluzione”, disse quindi Zanettin, ricordando che “il magistrato non è un cittadino come tutti gli altri: il suo ruolo gli impone di non lasciarsi andare a commenti e giudizi sconvenienti che possano comprometterne la terzietà ed imparzialità e che non possono essere giustificati con la libertà di pensiero”.
Dello stesso tenore Antonio Leone, anch’egli ex componente laico del Csm ed ora presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, duro nei confronti di chi ritiene sia comunque “libertà di pensiero”.
“Chi prende a cuore la difesa di questi magistrati che si lasciando andare a commenti su Fb pensa che essi siano come il dottor Jekyll ed il signor Hyde: sui social posso dire tutto ed il suo contrario, invece quando scrivono le sentenze lo fanno in ossequio la legge ed in piena autonomia ed indipendenza”, afferma Leone. Una voce contro al ‘giustificazionismo’ togato viene da magistrati di Magistratura indipendente. “Da sempre pensiamo che un magistrato debba parlare solo attraverso i suoi provvedimenti e proprio per questo chiediamo che la critica muova dal loro contenuto, sulla base di un confronto intellettualmente onesto, basato sul rifiuto del metodo dell’argumentum ad hominem”, scrivono le toghe conservatrici di Mi in un comunicato diffuso ieri.
“Non dimentichiamo – proseguono – che il magistrato deve sia essere che apparire indipendente dalla politica e siamo disponibili a interrogarci su come questo dovere debba essere declinato nell’era dei social network, ma ci opponiamo alla critica dei provvedimenti basata su slogan o sul processo alle intenzioni di chi li emette, perché crea una dannosa contrapposizione tra istituzioni democratiche, che rischia di lasciare i cittadini disorientati e di compromettere la loro fiducia nelle istituzioni”.
In Italia, va sottolineato, da tempo i social sono diventati l’unico mezzo con cui le persone si informano su ciò che accade.
Le ultime ricerche annotano che circa 15 milioni di italiani si informano esclusivamente sui social, non ricordando l’ultima volta che hanno letto un giornale.
In un simile scenario è fondamentale pertanto che i personaggi pubblici diano informazioni corrette, non diventando dei divulgatori di fake news o lasciandosi andare a commenti e giudizi sfavorevoli.
Per la cronaca, comunque, tutti i magistrati finiti fino ad oggi sotto disciplinare per un post ‘sopra le righe’, sono sempre stati assolti per “scarsa rilevanza” del fatto. Paolo Pandolfini
La condanna senza che il difensore avesse discusso. Il giudice intoccabile, strappa la sentenza sbagliata e viene graziato perché “stressato” dal troppo lavoro. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 26 Agosto 2023
Un collegio di giudici piemontesi infligge 11 anni di reclusione ad un imputato di violenza sessuale, senza che il difensore avesse discusso. La vicenda è formidabile, e merita attenzione. Innanzitutto, di essa ha dovuto occuparsi la Procura di Milano, giacché il Presidente del Collegio, resosi conto del pasticcio, aveva strappato il dispositivo della sentenza (e invitato la difesa a discutere!), così commettendo falso per soppressione. Ma la Procura di Milano, di solito così severa ed inflessibile, più che mai in relazione a questo genere di reati, ha richiesto – ed il GIP ha disposto – l’archiviazione: si trattò di errore, mancò il dolo.
Non è disponibile (dubito lo sarà mai) la motivazione di questa singolarissima decisione; dunque, occorre fare uno sforzo di fantasia. Avrà strappato la sentenza da lui stesso vergata perché in quel momento era distratto dalle urla del difensore; o piuttosto perché spaventato di averla tra le mani, immaginandola scritta da una entità sovrannaturale che in quei drammatici momenti gli è parso lo avesse posseduto; o forse l’ha confusa con un fazzolettino di carta appena usato per soffiarsi il naso. Non so immaginare altre ipotesi, conoscendo bene la severa giurisprudenza sul dolo in questa materia. Non è stato meno divertente il procedimento disciplinare, che intanto ha sanzionato il solo Presidente, giacché le due giudici a latere hanno adottato il famoso schema argomentativo del grande Totò: “E che so’ Pasquale io?!”, e se la sono cavata alla grandissima. Al Presidente, un buffetto sulla guancia, cioè la sanzione minima, la censura.
A quanto pare, tanta indulgenza è conseguita alla considerazione che, in fondo, l’imputato non ha subito nessun danno, anzi, gli è andata di lusso perché nel giudizio infine celebrato avanti a diverso collegio, lui ha avuto solo sette anni e la moglie è stata addirittura assolta, dunque ringraziasse il cielo. Ma anche questa minima sanzione è stata annullata dalle Sezioni Unite Civili della Cassazione, che ordinano un nuovo giudizio nel quale il Giudice disciplinare dovrà mostrare ben altra considerazione del tema difensivo principale, assai superficialmente liquidato: l’incolpato, al momento del fatto, era stressato. Proprio così: stressato dal troppo lavoro. Come avvocato penalista, saluto con favore questi autorevoli precedenti. Ne faremo uso nella nostra quotidianità professionale, e siamo certi che essi ci apriranno le porte ad insperati successi. L’amministratore della società fallita ha bruciato le scritture contabili? Fu un fatale errore. Il funzionario delle agenzie delle entrate ha omesso di segnalare l’evasore? Era stressato per il troppo lavoro. Non ci avevamo pensato. E dunque, sincere congratulazioni al difensore, che leggo essere stato l’ex Procuratore di Torino Marcello Maddalena. Anche se d’istinto, non chiedetemi perché, mi viene in mente quello slogan pubblicitario, quello che diceva: “Ti piace vincere facile eh?”. Oh, senza offesa, ben s’intende.
Gian Domenico Caiazza
Lo scandalo autoassoluzioni. Luca Fazzo il 21 Agosto 2023 su Il Giornale.
Che odore di chiuso, di stanza poco areata, di fiati che respirano altri fiati. Con rispetto parlando, è questa la sensazione che viene rileggendo la decisione delle Sezioni Unite della Cassazione che ha graziato il giudice Roberto Amerio
Che odore di chiuso, di stanza poco areata, di fiati che respirano altri fiati. Con rispetto parlando, è questa la sensazione che viene rileggendo la decisione delle Sezioni Unite della Cassazione che ha graziato il giudice Roberto Amerio. Amerio è il giudice di Asti che quattro anni fa condannò un uomo prima ancora che i suoi difensori prendessero la parola. Si presentò in aula con la sentenza già scritta, si alzò in piedi insieme alle sue colleghe a latere e rifilò undici anni di carcere all'imputato. Si era dimenticato che l'udienza era fissata proprio per dare la parola ai difensori. La sentenza l'aveva scritta a casa, o in ufficio, solo sulla base della requisitoria del pubblico ministero. Gli avvocati, arrivati in aula per pronunciare le loro arringhe, rimasero di sasso, poi insorsero. Quando il giudice si rese conto del gigantesco pasticcio, strappò precipitosamente il foglio della sentenza. Amerio e le sue colleghe si spogliarono del processo. Davanti alla enormità della cosa, fu inevitabile che tutti e tre i giudici finissero sotto procedimento penale e disciplinare. Ora tutto a finisce a tarallucci e vino, grazie all'azione congiunta di tre soggetti: la Procura di Milano, il Consiglio superiore della magistratura, le Sezioni Unite della Cassazione, compatti nella volontà di dimostrare al cittadino medio quel che forse egli già sospetta: che il nobile sistema elaborato dalla Costituzione, per cui a giudicare i giudici sono altri giudici, stessa toga, stesso concorso, magari stessa corrente, è divenuto una micidiale macchina di autoassoluzione permanente, in cui brutture che costerebbero a un cittadino la libertà o almeno la carriera diventano marachelle. Tutto si giustifica, cane non mangia cane. Provi un cittadino qualunque, magari imputato, a strappare la sentenza che lo ha appena condannato. Invece Amerio e le due a latere, Giulia Bertolino e Beconi, spiegano che quella non era una sentenza ma un appunto di lavoro, un promemoria. Peccato che cominciasse con la formula «Repubblica Italiana, in nome del popolo italiano»: i tre finiscono indagati a Milano per distruzione di atto pubblico, e incredibilmente vengono prosciolti in istruttoria, «fatto privo di dolo». Non sapevano che quella era una sentenza, forse non sapevano nemmeno che quello era un processo. Arriva il Csm, che proscioglie le due giudici a latere: anche se erano rimaste lì impettite, come se nulla fosse, mentre Amerio pronunciava la sentenza impossibile. «Non potevamo mica strappargliela di mano», si difesero: che invece era ciò che dovevano fare. A Amerio il Csm invece rifila la condanna più blanda possibile, una censura, appena sopra il minimo della pena. Ora la Cassazione cancella anche quella, Per la Cassazione il Csm non ha considerato che il giudice era «stressato» dai carichi di lavoro. Lo stress non assolve i poliziotti, i medici, i camionisti che sbagliano nel loro mestiere. Ma i giudici sì.
Ecco cosa succede se un magistrato “sbaglia”. Quale responsabilità per danno erariale dei giudici? Un aspetto poco dibattuto è la responsabilità per danno erariale da parte dei giudici. Il tema è stato affrontato dal professore Francesco Fimmanò, in un articolo questa settimana sull’Espresso. Inoltre, nelle scorse settimane è arrivata all’ex pm Di Giorgio la condanna da parte della Corte dei Conti della Puglia a risarcire 150mila euro. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 29 Luglio 2023
Ma cosa succede se un magistrato “sbaglia”? Tralasciando le conseguenze penali e disciplinari, la responsabilità civile delle toghe è oggi regolamentata dalla legge Vassalli del 1988, poi in parte modificata dalla legge numero 18 del 2015. I magistrati in particolare rispondono dei propri errori, se pur in via “indiretta”, nei casi in cui sussiste una violazione manifesta della legge, anche europea, o per travisamento di fatti o prove. Vi è colpa grave, ad esempio, ogni qualvolta viene emesso un provvedimento cautelare personale o reale senza motivazione o fuori dai casi previsti dalla legge.
Un aspetto poco dibattuto riguarda, invece, la responsabilità per danno erariale. Il tema è stato affrontato dal professore Francesco Fimmanò, ordinario di diritto commerciale e direttore scientifico università delle Camere di Commercio “Mercatorum”, in un articolo questa settimana sull’Espresso. “Il danno consiste nella grave lesione della dignità e del prestigio e dell’autorevolezza dell’Amministrazione della giustizia, determinata da una condotta che abbia inciso su valori primari che ricevono protezione dall’ordinamento costituzionale e da quello finanziario e contabile”, afferma Fimmanò.
Al momento l’unico magistrato condannato dalla Corte dei Conti è l’ex pm tarantino Matteo Di Giorgio. La vicenda di Di Giorgio si interseca con quella di Rocco Loreto, per tre volte sindaco di Castellaneta e per tre volte senatore del Pci-Pds-Ds. Loreto era stato arrestato a giugno del 2001 dall’allora pm di Potenza Henry John Woodcock con l’accusa di calunnia nei confronti proprio di Di Giorgio. Il parlamentare aveva presentato un esposto al Csm, al Ministero della giustizia e alla Procura generale della Cassazione in cui criticava l’operato di Di Giorgio, all’epoca dei fatti in servizio presso la Procura di Taranto. Gli atti – per ragioni di competenza funzionale – vennero trasmessi alla Procura di Potenza che non ritenne credibile quanto era stato rappresentato da Loreto, incriminandolo per calunnia e violenza privata, e ottenendo così dal gip il suo arresto.
Dopo aver trascorso due settimane in carcere, Loreto venne rimesso in libertà in quanto non vi erano prove nei suoi confronti e quindi assolto da tutte le accuse solamente nel 2017. Di Giorgio invece venne condannato a 15 anni (poi ridotti ad 8) per aver interferito nell’amministrazione di Castellaneta, arrivando a provocare lo scioglimento del Consiglio comunale per delle sue mire politiche. Nel 2008 il magistrato si era anche messo in aspettativa per candidarsi al Parlamento e nel 2009 per candidarsi alla provincia di Taranto, non avendo più Loreto come competitor. Fra le tante accuse a suo carico, quella di aver intimorito un imprenditore, al quale fu sequestrato un villaggio turistico, e di aver indotto un’altra persona a non denunciare – per usura – un suo parente. Per tali fatti Di Giorgio era stato arrestato a novembre del 2010. Il Csm nel 2018 aveva disposto la sua rimozione dall’ordine giudiziario.
Nelle scorse settimane è arrivata a Di Giorgio anche la condanna da parte della Corte dei Conti della Puglia a risarcire 150mila euro. Un precedente significativo che va ad aggiungersi all’elenco dei risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari che negli ultimi trent’anni ha raggiunto l’incredibile cifra di un miliardo di euro. “La quasi totalità di questi importi, vorrei sottolinearlo, grava sulle casse dello Stato dal momento che le azioni di rivalsa sono ben poca cosa e la giustizia contabile pochissimo ha fatto prima della sentenza a carico di Di Giorgio”, puntualizza Fimmanò.
Vale la pena di ricordare, infine, che la Corte Costituzionale lo scorso anno ha introdotto nell’ordinamento il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili dell’uomo anche diversi dalla libertà personale. Vedremo se ci saranno conseguenze per i magistrati che “sbagliano”.
Paolo Pandolfini
Tutti i magistrati del caso Tortora fecero carriera. Tranne il giudice che lo assolse. Ecco il prologo al libro del libro “Lettere a Francesca”, con gli scritto inviati alla compagna Scopelliti, che Il Dubbio pubblicherà nel corso di agosto. Stefano Bargellini su Il Dubbio il 28 luglio 2023
L’articolo che segue, a firma di Stefano Bargellini, fa da prologo alla ripubblicazione, che il Dubbio offrirà nel mese di agosto, di “Lettere a Francesca”, il volume con gli scritti inviati da Enzo Tortora alla compagna Francesca Scopelliti.
Sono trascorsi quarant’anni dal 17 giugno 1983 quando, alle quattro di notte, i Carabinieri bussarono alla porta della stanza dell’hotel Plaza in cui Enzo Tortora stava dormendo, ignaro della sporcizia che stava per sommergerlo. Lo scorso 17 giugno, nell’anniversario, utilizzando i documenti originali, Aurelio Aversa ha raccontato su Radio Radicale la tragedia di un uomo onesto incarcerato senza aver fatto nulla di male.
Il pubblico ministero: “Il signor Enzo Tortora è un camorrista… Ma lo sapete voi signori che l’ultima persona che i giudici napoletani volevano portare in questa vicenda era Enzo Tortora? Sapete voi perché Enzo Tortora è in questo processo? Perché più si cercavano le prove della sua innocenza, più uscivano le prove della sua colpevolezza!”. Il presidente del Tribunale che consente la prosecuzione del confronto fra Tortora e Melluso “tanto per non dire che io non do spazio alla difesa”. Il coraggio dell’imputato prima della camera di consiglio in appello: “Io sono innocente, io spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi”. Ascoltare l’accusa, rivivere la condizione d’impotenza di una persona irreprensibile costretta a difendersi da imputazioni più assurde che infondate, lascia un senso di vertigine.
Se Vent’anni dopo è l’ottimo seguito di un magnifico romanzo, Quarant’anni dopo potrebbe essere il titolo dell’attuale replica di una tragedia. Il caso Tortora non è un caso ma il frutto di un sistema. Quello che ha colpito e poi contribuito a uccidere Tortora non è un errore giudiziario ma un abominio che avrebbe dovuto spingere, anzi costringere, la magistratura a profonde trasformazioni. Viceversa, i colleghi penalisti denunciano che orrori simili continuano a verificarsi nell’indifferenza di chi li crea o li consente. Qualche considerazione.
1. I magistrati che inquisirono e condannarono Tortora fecero tutti carriera. Nessuno subì un qualsiasi provvedimento disciplinare o vide rallentata la normale progressione professionale.
2. Uno dei magistrati che sostenne l’accusa nei confronti di Tortora venne eletto al Csm. Cioè i magistrati italiani scelsero uno degli inquisitori di Tortora quale rappresentante nel loro organo di autogoverno. Circostanza che conferma quale insegnamento la magistratura abbia tratto dal sacrificio dell’imputato.
3. Non fece carriera il consigliere Michele Morello, estensore della sentenza d’appello che assolse Tortora. Dopo la decisione alcuni colleghi gli tolsero il saluto. A lui andrebbe invece intitolata almeno un’aula della Corte d’appello di Napoli, non solo per l’opera che ha saputo svolgere nella circostanza, ma per l’attitudine a rappresentare i tanti magistrati indipendenti, preparati e schivi ai quali sono affidate le nostre cause. Non sempre, purtroppo.
4. La mancanza di una concreta valutazione dell’attività professionale dei magistrati è probabilmente la causa principale del malfunzionamento della giustizia. Il deputato Enrico Costa ha ricordato che il 99,6% (novantanove virgola sei per cento) dei giudici italiani ottiene una valutazione positiva e che dal 2010 i magistrati condannati in applicazione della legge sulla cosiddetta responsabilità civile sono stati 8 (otto). Più o meno 1 ogni 2 anni. Che la legge sull’asserita responsabilità civile sia stata approvata nel 1988 a seguito del processo Tortora e del successivo referendum abrogativo conferma che quanto accaduto al popolare presentatore costituisce per alcuni più un fastidio da rimuovere che una lezione da tenere a mente.
5. Non essendo generalmente coinvolta la libertà delle persone, nel settore civile parliamo di errori e non di orrori. Anche quando le inadempienze e i ritardi comportano conseguenze gravi. Il discorso resta comunque il medesimo: fino a quando i giudici saranno tutti egualmente eccellenti, tutti maratoneti da due ore e dieci, tutti centometristi da dieci netti, dubito che i cittadini potranno guardare all’amministrazione della giustizia con maggiore fiducia.
6. Nella (irrealistica) attesa che una classe politica impreparata e impaurita riesca a imporre criteri di razionalità, efficienza e uniformità all’organizzazione giudiziaria e nella (impossibile) aspettativa che la magistratura provveda a riformare se stessa, gli avvocati costituiscono l’unico appiglio cui i cittadini possano aggrapparsi. Che, almeno questa, “non sia un’illusione”! (così come è inciso sulla lapide di Enzo Tortora).
Non ingannò il prefetto di Catanzaro, assolto l'ex pg Otello Lupacchini. CHIARA FAZIO su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2023
L’ex procuratore generale della corte d’appello di Catanzaro, Otello Lupacchini è stato assolto dall’accusa di falso ideologico
CATANZARO – Otello Lupacchini non tentò di ingannare il prefetto di Catanzaro per far sì che gli fosse potenziata la scorta. A stabilirlo, il giudice monocratico del Tribunale di Salerno, Viviana Centola, che ha emesso sentenza immediata di assoluzione – a seguito dell’esame dei soli testimoni del pubblico ministero e senza aver assunto le dichiarazioni di quelli della difesa – nei confronti dell’ex procuratore generale di Catanzaro dall’accusa di falso ideologico a suo tempo mossagli dai pm di Salerno Roberto Penna e Luca Masini, perché il fatto non sussiste.
La vicenda processuale risale al 2019 ed aveva ad oggetto le dichiarazioni rese da Lupacchini agli organi istituzionali preposti a garantirne la sicurezza personale con adeguato livello di scorta in merito a possibili situazioni di pericolo connesse alla presenza di taluni soggetti nel contesto criminale locale calabrese – tra cui l’ex capo clan camorristico Michele Senese, detenuto presso il carcere di Catanzaro e da lui fatto arrestare nel 2012 in qualità di sostituto procuratore generale di Roma -, ed al pedinamenti subìto dallo stesso Lupacchini lungo l’autostrada Salerno-Roma il 29 gennaio 2019, da parte di un’automobile intestata ad apparati dello Stato e condotta da soggetti rimasti ignoti.
Otello Lupacchini quindi è stato assolto perché riconosciuto “pienamente estraneo all’accusa, del tutto infondata – dichiara con soddisfazione in una nota il legale Ivano Iai – di aver ingannato, il 6 febbraio 2019, il Comitato interforze riunitosi presso la Prefettura di Catanzaro per deliberare sull’esistenza di un superiore livello di esposizione al rischio del magistrato all’epoca in cui svolgeva le funzioni di procuratore generale presso la Corte di Appello di Catanzaro e sulla conseguente opportunità cautelativa di potenziare la scorta già assegnatagli”.
Siamo alle solite: le toghe non pagano mai. Così il Csm ha "graziato" due magistrati condannati. Domenico Ferrara su Il Giornale il 26 Maggio 2023
Michele Ruggiero e Alessandro Donato Pesce sono stati condannati il 30 gennaio scorso in via definitiva a 6 mesi e 4 mesi di reclusione per violenza privata ai danni di alcuni testimoni. Ieri il Csm si è opposto alla radiazione e li ha sospesi per due anni. Ma poi torneranno a fare i magistrati civili a Torino
Canis canem non est. Cane non mangia cane. Un adagio ormai insito nella storia della casta della magistratura. E così non stupisce il Csm abbia "salvato" due toghe che erano state condannate in via definitiva a fine gennaio scorso - rispettivamente a sei mesi e quattro mesi di reclusione - per violenza privata ai danni di alcuni testimoni. Si tratta di Michele Ruggiero e Alessandro Donato Pesce, fino a ieri in servizio presso la procura di Bari come sostituti procuratori della Repubblica. E già era anomalo che il Csm li facesse lavorare e li abbia fatto lavorare per mesi nonostante un fardello non da poco. Già, perché i due pm, quando erano in servizio alla procura di Trani, avevano minacciato, intimidito ed esercitato violenze verbali nei confronti di alcuni testimoni per costringerli a dichiarare il falso.
Ecco alcune frasi delle minacce pronunciate dai due magistrati: "Stai attento a quello che dici", "io le cose le so già e te ne andrai in carcere pure tu", "ti sto sottoponendo a questa specie di chiacchierata interrogatorio che verrà tutta fono registrata per darti la possibilità di salvarti", "tu mo ti puoi alzare, te ne vai e poi ci vedremo tra un mesetto però in una diversa posizione, tu dietro le sbarre e io da un'altra parte...non ti sto impaurendo...ti sto dicendo quello che succederà perché noi sappiamo", "Dal carcere c’è una visuale sul mare stupenda e secondo me a lei col problema che c’ha le fa pure bene".
Nonostante la procura generale della Cassazione avesse chiesto la radiazione, la sezione disciplinare del Csm ha optato per una sospensione di due anni per Ruggiero e di qualche mese in meno per Pesce. Dopo la pausa forzata, però, i due torneranno a lavorare come magistrati civili a Torino. La notizia del loro arrivo negli ambienti istituzionali e giudiziari sabaudi non è stata presa proprio con felicità, anzi. Ma da qui a due anni può succedere di tutto. Anche che Ruggiero venga condannato in un altro processo. Infatti, il primo giugno si celebrerà davanti al Tribunale di Lecce la prima udienza a suo carico per il reato di falso ideologico: l'accusa è di aver falsificato alcuni verbali ai danni dell allora vice sindaco Giuseppe Di Marzio. Al netto di come vada a finire, è indubbio che i due magistrati siano stati graziati dal Csm soprattutto se si pensa che qualunque altra categoria di pubblici ufficiali e non solo in caso di condanna definitiva subiscono sempre una radiazione o licenziamento. I magistrati invece possono caversela, proprio come Ruggiero e Pesce. Nella speranza che non facciano altri danni. Di danni Ruggiero non ne ha fatti pochi per la verità: dalle inchieste flop contro le agenzie di rating passando per quelle contro Deutsche Bank e sulla correlazione tra autismo e vaccini. Senza considerare poi le accuse infamanti mosse contro l'allora sindaco di Trani Luigi Riserbato, arrestato per associazione a delinquere e altre tre capi d'accusa e poi dopo otto anni assolto perché il fatto non sussiste. Errori gravi di cui hanno fatto le spese gli innocenti e i contribuenti italiani. Perché i magistrati non pagano mai. Canis canem non est.
Csm. Tutto cambia perchè nulla cambi. Due magistrati condannati dalla Cassazione, continueranno a indossare le loro toghe sporche! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Maggio 2023
Nonostante la procura generale della Cassazione avesse chiesto con dovuto rigore la loro radiazione, la sezione disciplinare del Csm ha preferito optare per una sospensione di due anni per Ruggiero e di qualche mese in meno per Pesce. Dopo sospensione però, i due condannati torneranno a lavorare come se nulla fosse accaduto in Cassazione,
Due pubblici ministeri della procura di Bari, Alessandro Donato Pesce e Michele Ruggiero, sono stati condannati con sentenza definitiva lo scorso 30 gennaio, rispettivamente a 4 mesi e 6 mesi di reclusione per “violenza privata” nei confronti di alcuni testimoni quando erano in servizio alla procura di Trani allorquando i due magistrati avevano intimidito, minacciato ed esercitato violenze verbali nei confronti di alcuni testimoni per costringerli a dichiarare il falso, Entrambi nel 2021 erano stati condannati sia in primo grado che in appello . Una sentenza gravissima per i due pubblici ministeri, chiamati a condurre le indagini nel rispetto della legge, Ciò nonostante il Csm aveva consentito ad entrambi di continuare a lavorare per mesi nonostante una sentenza non indifferente nei loro confronti.
“Stai attento a quello che dici”, “io le cose le so già e te ne andrai in carcere pure tu“, “dal carcere c’è una visuale sul mare stupenda e secondo me a lei col problema che c’ha le fa pure bene“, “ti sto sottoponendo a questa specie di chiacchierata interrogatorio che verrà tutta fono registrata per darti la possibilità di salvarti”, “tu mo ti puoi alzare, te ne vai e poi ci vedremo tra un mesetto però in una diversa posizione, tu dietro le sbarre e io da un’altra parte…non ti sto impaurendo…ti sto dicendo quello che succederà perché noi sappiamo” sono alcune frasi delle minacce pronunciate dai due magistrati.
Nonostante la procura generale della Cassazione avesse chiesto con dovuto rigore la loro radiazione, la sezione disciplinare del Csm ha preferito optare per una sospensione di due anni per Ruggiero e di qualche mese in meno per Pesce. Dopo sospensione però, i due condannati torneranno a lavorare come se nulla fosse accaduto in Cassazione, esercitando le funzioni di magistrati civili a Torino, decisione questa che negli ambienti giudiziari piemontesi non è stata accolta con gioia.
Piccolo particolare su cui il Csm ha fatto finta di niente, e che potrebbe anche verificarsi che il magistrato Michele Ruggiero possa essere condannato in un altro processo in cui è imputato. Infatti il prossimo primo giugno dinnanzi al Tribunale Penale di Lecce si svolgerà la prima udienza a suo carico rispondendo del reato di “falso ideologico“, accusato di aver falsificato alcuni verbali ai danni dell’ allora vice sindaco Giuseppe Di Marzio.
Comunque vada a finire, è fuori discussione che i due magistrati siano stati letteralmente “graziati” dalla disciplinare del Csm soprattutto considerando che chiunque ricopra la carica di pubblici ufficiali e non solo in caso di condanna definitiva subiscono sempre una radiazione o licenziamento. I magistrati invece come accaduto per Ruggiero e Pesce possono continuare tranquillamente a percepire il loro stipendio ed esercitare le rispettive funzioni di Magistrati.
Nessuna valutazione è stata presa in considerazione per l’impianto accusatorio infamante mosso in passato nel precedenti dell’allora sindaco di Trani Luigi Riserbato, arrestato per associazione a delinquere e altre tre capi d’accusa che dopo otto anni di un ingiusto processo è stato assolto perché “il fatto non sussiste”. Valutazioni giudiziarie quindi campate in aria che hanno colpito e danneggiato solo e soltanto degli innocenti ed i contribuenti italiani a pagare gli stipendi a questi magistrati . A volte, o meglio, molto spesso i magistrati si salvano sempre. E la chiamano “giustizia“. Redazione CdG 1947
Quarantacinquemila arresti nel 2022, uno su tre in carcere: azioni disciplinari verso i magistrati? Una sola, archiviata. Angela Stella su L'Unità il 26 Maggio 2023
Nell’anno 2022 sono state emesse 81.568 misure cautelari personali coercitive; di queste, 24.654 in carcere, oltre 500 in più rispetto al 2021 (erano 24.126). Diminuiscono invece i domiciliari senza braccialetto elettronico: nel 2022 sono stati 16.507 rispetto ai 18.036 del 2021. Ma crescono quelli con braccialetto: 3.357 nel 2022 rispetto ai 2.808 del 2021. Pertanto una misura cautelare coercitiva su tre emesse è quella carceraria (32%), mentre una misura cautelare coercitiva su quattro è quella degli arresti domiciliari (25%). Complessivamente sono state circa 45 mila le persone messe in custodia cautelare nel 2022.
Questi sono solo alcuni dei dati contenuti nelle 51 pagine della Relazione del Governo sullo stato di applicazione delle misure cautelari personali in Italia. La percentuale di risposta dei Tribunali (sezioni GIP e sezioni dibattimentali) interessati al monitoraggio dei dati dell’anno 2022 è stata dell’80%, con la precisazione che hanno risposto quasi tutti i 29 Tribunali distrettuali; i dati degli uffici non rispondenti sono stati stimati. Sette distretti, congiuntamente considerati, detengano più della metà del totale nazionale delle misure emesse. E sono: Roma (12%), Milano (10,6%), Napoli (9,5%), Torino (7,6%), Bologna (7,5%), Firenze (5,8%), Bari (5,8%). Un altro dato interessante mostra come i 3/4 circa delle misure vengano emessi dalle sezioni GIP, mentre solo il restante 1/4 venga emesso delle sezioni Dibattimentali. In particolare, per ciò che riguarda l’utilizzo della custodia cautelare in carcere, la differenza appare molto significativa: il GIP utilizza la misura carceraria con frequenza quasi doppia (34,7%) rispetto al giudice dibattimentale (17,6%.). Purtroppo, come sempre, seppur sollecitato, manca il dato percentuale rispetto alle richieste dei pubblici ministeri di misure cautelari e l’accoglimento da parte dei gip. Ad un certo punto si legge anche che rispetto alle misure coercitive emesse “9 misure su 10 sono state emesse in un procedimento che ha avuto poi come esito la sentenza di condanna”. Ma attenzione: quelli sono i definiti nel 2022 che hanno avuto misure nel 2022. Sono per la maggior parte patteggiamenti, direttissime e immediati. E gli altri? Che destino hanno avuto negli anni successivi?
Il secondo capitolo della Relazione è dedicato alla riparazione per ingiusta detenzione. I distretti più significativi quanto ad entità numerica di richieste sono quelli di Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Roma. Nel 2022 su 1.180 domande per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione, ne sono state respinte il 52% ed accolte 556 (irrevocabili 482). Record di accoglimenti nel distretto di Reggio Calabria (103). “Finalmente il ministero della Giustizia ha reso noti i dati ufficiali delle ordinanze di custodia cautelare emesse nel 2022 e delle somme sborsate dal Mef per le ingiuste detenzioni”, ha commentato il responsabile giustizia di Azione, l’onorevole Enrico Costa che li aveva sollecitati più volte. “Quanto ai pagamenti, lo Stato nel solo 2022 ha pagato 539 casi per un totale di 27.378.085 euro, di cui oltre 10 milioni solo nel distretto di Reggio Calabria”. Nella relazione c’è poi scritto che “il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione – così come, del resto, del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario di cui all’art. 643 c.p.p. – non possa essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto”. “Nel 2022 – chiede sarcasticamente Costa – quante iniziative disciplinari per emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale con negligenza grave e inescusabile? 1 (una). Esito? Non doversi procedere”, critica alla fine il parlamentare. Angela Stella
"C'è chi devasta la vita delle persone". L’intoccabile casta dei magistrati, sbagliano spesso e non pagano mai: “Ogni giorno tre innocenti in carcere”. Francesca Sabella su Il Riformista l’8 Febbraio 2023
Chi sbaglia, paga. Funziona così per chiunque eserciti una professione, è così per tutti tranne che per i magistrati. Gli intoccabili. Sbagliano? Certo. E anche tanto. Ma non pagano. E lo ha ricordato e detto bene Davide Faraone, deputato di Azione-Italia Viva, a Omnibus, La7. “Chiunque di noi, nello svolgimento della propria attività, quando sbaglia, paga. Non capisco perché questo non debba valere anche per i magistrati – ha affermato Faraone – Ogni anno mille persone, cioè tre al giorno, finiscono ingiustamente in carcere. A volte si suicidano perché non hanno la possibilità di far valere le loro ragioni. Per un uso distorto della legge sulla confisca dei beni ai mafiosi, molto spesso accade anche che una persona assolta sul piano penale subisca la confisca dei suoi beni – continua – La stragrande maggioranza dei magistrati fa benissimo il proprio lavoro ma c’è una piccola minoranza che, in collusione con certi settori dell’informazione e della politica, devasta la vita delle persone. E oltre ai detenuti innocenti, quegli errori li paghiamo noi tutti perché le ingiuste detenzioni costano ogni anno ai cittadini 870 milioni di euro. Questi soldi – conclude il deputato – dovrebbero pagarli i magistrati che sbagliano, non i cittadini con le loro tasse”.
Già… dovrebbero. In un mondo ideale se sbagli, paghi e in base al tuo sbaglio magari si decide se è il caso di continuare a svolgere quel lavoro. Un manager che fa fallire un’azienda o crea un grosso danno, si dimette. Per i magistrati non funziona così. Ma oggi il diritto in che modo regola la responsabilità dei magistrati? Oggi la legge dice che chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali.
In sostanza, non può citare direttamente il magistrato, ma lo Stato che se poi risarcirà effettivamente il cittadino si dovrà rifare obbligatoriamente sul magistrato. Il magistrato, però, il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio non può essere chiamato in causa ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dal secondo comma dell’art. 105 del codice di procedura civile. Tutto chiaro no? Il magistrato sbaglia? Non importa. Intoccabile. Di recente, il nostro Paese ha avuto l’occasione di cambiare questa assurdità con il Referendum Giustizia Giusta che si è arenato poi su una spiaggia di indifferenza e inesatta comunicazione, senza contare la levata di scudi dei magistrati che per un attimo hanno tremato.
Ebbene, se il sì al Referendum avesse trionfato il lavoro del magistrato sarebbe stato equiparato a tutte le altre professioni: i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. I magistrati, invece, non potendo essere chiamati a rispondere direttamente dei danni causati nell’esercizio delle funzioni, sono beneficiari di un privilegio immotivato rispetto agli altri pubblici funzionari e anche ai comuni cittadini. Inoltre, osservando le statistiche è evidente che qualcosa in questo sistema giudiziario non funziona come dovrebbe: dal 2010 al 2021 si contano 129 pronunzie tra i tribunali e la Cassazione, ma solo 8 condanne, di cui 3 nei tribunali e 5 in Cassazione, contro lo Stato (l’1,4%).
In tribunale, su 62 sentenze, ci sono state solo 3 condanne, in appello 11 sentenze e “zero” condanne, in Cassazione 23 sentenze e 5 condanne. Tra i distretti nei quali si iscrivono più cause spicca Perugia con 136 richieste in 11 anni, ma solo 6 sentenze emesse, di cui nessuna di condanna. Quindi il risultato è 136 a zero. Nessuna responsabilità mai riconosciuta, in ben 11 anni, in quel distretto. Capite? Non pagano mai. È una giustizia giusta, questa?
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Sallusti: magistrati impuniti più dei ladri, Carlo Nordio pensaci tu. Libero Quotidiano il 10 gennaio 2023
C'è un rumeno maldestro ladruncolo d'auto che a Vicenza giorni fa ha tentato, con scarso successo, di rubare tre auto. Pizzicato, è stato portato in cella. Con il nuovo codice penale - la riforma Cartabia - per procedere occorrono le denunce delle parti lese, i proprietari delle auto. Ma, complici le festività natalizie, la polizia fatica a raccoglierle. Si arriva così in aula, la difesa contesta dei vizi di forma nelle denunce e il giudice ordina la scarcerazione e dà novanta giorni di tempo per sistemare le cose. Per gli oppositori della riforma della Giustizia è grasso che cola: «Tutti fuori ovunque» (tutti chi? Dove?) titola il Fatto Quotidiano a nome del Sistema perverso della magistratura, che di farsi riformare non ne vuole sentire parlare.
La cosa avrebbe un minimo di senso se fosse vero che prima dell'entrata in vigore della Cartabia tutti i ladri d'auto, ma anche i borseggiatori e i topi di appartamento, insomma i microcriminali, una volta presi passavano il resto dei propri giorni in cella fino a fine pena. Va bene tutto, ma una balla del genere è davvero troppo anche per il più in malafede dei giornalisti, per il più fazioso dei magistrati. L'eterna lotta tra guardie e ladri, nel campo dei piccoli reati, è impari proprio perché le guardie si fanno un mazzo così per acciuffare un ladro che quasi regolarmente il giorno dopo torna libero in quanto un magistrato, non la Cartabia, ne dispone la scarcerazione in attesa di processo. Chiunque negli ultimi trent'anni abbia frequentato una Questura ha riempito il taccuino di lamentele da parte delle forze dell'ordine demoralizzate dal fatto che il loro lavoro viene regolarmente vanificato dai giudici. Sfido qualsiasi collega a sostenere il contrario.
Solo nello spaccio - dato preso da una relazione parlamentare 2020 - il 32 per cento degli arrestati non ha mai passato neppure un giorno in galera, come ben sa chi è costretto a vivere in quartieri degradati. Altro che «Allarme delitti impuniti». Qui di impunita c'è la magistratura che non ha mai pagato dazio per avere, tra l'altro, lasciato per decenni impunita la microcriminalità perché perseguirla seriamente non dava punteggio per la carriera. Auguriamoci che il ministro Nordio, nella sua azione riformatrice, non si lasci intimidire da quattro ballisti senza scrupoli.
Csm, Ermini “richiama” Nordio: «Sempre rigorosi sugli illeciti disciplinari delle toghe». Il vicepresidente dell’organo di auto-governo della magistratura italiana non ha condiviso le recenti dichiarazioni del ministro della Giustizia e ha inteso puntualizzare alcuni punti. «Abbiamo garantito il rispetto dell'indipendenza della magistratura da ogni altro potere e da qualunque forma di condizionamento» Il Dubbio il 21 dicembre 2022.
«Ritengo necessario rivolgermi al ministro Nordio, che ha dimostrato di non conoscerlo, per ribadire ancora una volta il grande e faticoso lavoro di autoriforma e di rinnovamento svolto da questo Consiglio, in osservanza delle prerogative che la Costituzione gli assegna, per garantire il rispetto dell'indipendenza della magistratura da ogni altro potere e da qualunque forma di condizionamento». Lo ha detto il vicepresidente del Csm David Ermini, in apertura del plenum di oggi, replicando così ad alcune dichiarazioni rilasciate dal Guardasigilli.
«Voglio ricordare, in relazione all'attività delle nomine, le prassi virtuose introdotte dal Consiglio, in conformità al principio di trasparenza dell'attività amministrativa, costituite dallo svolgimento delle audizioni dei candidati e dal rispetto del cronologia nella trattazione dei posti, che hanno anticipato le riforme legislative poi sopravvenute» ha aggiunto Ermini.
«Il ministro ignora altresì la faticosa e incessante attività svolta dalla sezione disciplinare, che ho l'onore di presiedere, per reprimere, con rigore, gli illeciti accertati, in modo che quanto accaduto, che ha destato, in primo luogo in questa Assemblea, grande sconcerto e riprovazione non debba più ripetersi. Mi limito a riportare soltanto un dato: nell'anno 2021 il numero delle condanne, in relazione ai procedimenti avviati, è stato pari al 56%».
«Tutto questo è stato essenziale, lo dico con orgoglio, per assicurare la tenuta costituzionale del sistema del governo autonomo della Magistratura che costituisce, come in più occasioni ha ricordato il Presidente Sergio Mattarella, uno dei cardini della nostra Carta costituzionale» ha concluso Ermini mettendo in evidenza il lavoro di «autoriforma» e «rinnovamento» svolto nel corso dell'attuale consiliatura.
Azioni disciplinari, al ministero una verifica ogni mille fascicoli sui magistrati. Su 5142 segnalazioni verso le toghe trasmesse a via Arenula, gli ultimi due guardasigilli hanno chiesto la copia degli atti in soli 10 casi. Ed hanno promosso l'azione disciplinare in quattro casi. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 15 dicembre 2022.
Nell’ultima legislatura i ministri della Giustizia Alfonso Bonafede e Marta Cartabia hanno verificato meno di 10 casi sugli oltre 5000 di archiviazione disposti dal procuratore generale della Cassazione. «Sono numeri da non credere quelli che ha comunicato il governo rispondendo ad una mia interrogazione in materia di azioni disciplinari nei confronti dei magistrati», ha commentato Enrico Costa, vice segretario di Azione e presidente della Giunta per le Autorizzazioni della Camera.
Costa aveva presentato nei giorni scorsi una interrogazione per conoscere l’attività svolta negli ultimi 5 anni dai ministri della Giustizia, titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati insieme al procuratore generale della Cassazione, nei riguardi dei provvedimenti di archiviazione disposti da quest’ultimo. Su ben 5142 segnalazioni disciplinari verso le toghe trasmesse a via Arenula, che ha facoltà di chiedere copia degli atti e promuovere direttamente l’azione disciplinare, gli ultimi due Guardasigilli hanno chiesto la copia degli atti in soli 10 casi, ed hanno promosso l’azione disciplinare in quattro casi.
«Questa è stata l’azione di controllo inflessibile del ministero della Giustizia: in due casi su mille si sono richieste le copie degli atti, in meno di un caso su mille si è smentito il Pg della Cassazione», prosegue Costa. Praticamente sia Bonafede che Cartabia hanno avvallato di “default” l’imponente attività di archiviazione posta in essere dal procuratore generale della Cassazione. «Chiederemo a questo punto l’accesso agli atti per verificare perchè di questa incredibile inerzia addirittura nell’avere la copia degli atti», ha aggiunto Costa. «Senza esaminare gli atti è lecito chiedersi – continua – su cosa si possa basare l’acquiescenza verso una simile massa di archiviazioni. Questa vicenda dimostra come nel nostro Paese le vie di fuga dalla responsabilizzazione per i magistrati siano infinite».
«Mi auguro che con Carlo Nordio, che voglio ringraziare per aver fornito i dati, cosa non affatto scontata visti i precedenti, ci sia finalmente un cambio di passo. Questa, comunque, è una delle conseguenze di avere i magistrati fuori presso il ministero della Giustizia», ha quindi concluso il deputato di Azione.Il dato impietoso di queste migliaia di archiviazioni non può che far riflettere sul potere, di fatto senza alcun controllo, del procuratore generale della Cassazione. A tal riguardo, sempre Costa, nella scorsa legislatura, aveva presentato un emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario voluta da Cartabia affinchè l’attività del procuratore generale della Cassazione fosse almeno sottoposta al vaglio del primo presidente. L’emendamento venne però bocciato e tutto è rimasto come prima. Una domanda destinata a non avere una risposta è come possa il pg archiviare tutti questi procedimenti senza neanche un giudizio. Le norme in vigore vietano, infatti, di avere gli atti. Salvo, appunto, il Guardasigilli, nessuno, né il denunciante, né un’istituzione, né chiunque altro può avere copia degli atti e leggere le motivazioni dei proscioglimenti.
Al cittadino che ha presentato denuncia nei confronti del magistrato e chiede le ragioni dell’archiviazione viene risposto con lo “stampone” dalla Procura generale che non ha interesse, visto che il procedimento disciplinare non è finalizzato a tutelare l’interesse di chi ha denunciato, ma quello dell’amministrazione della giustizia. Bisognerà capire, allora, se Nordio riuscirà a “togliere” un po’ di potere al pg della Cassazione che decide da solo e senza che nessuno vagli la legittimità del suo operato. Per quanto noto, la motivazione più utilizzata per archiviare è quella della “scarsa rilevanza” dei fatti addebitati. Ad esempio, il ritardo nel compimento di atti rileva solo se reiterato, grave e ingiustificato, la violazione di legge c’è solo se grave e determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, il travisamento del fatto è punito solo se determinato da negligenza inescusabile, l’adozione di provvedimenti in casi non consentiti dalla legge è rilevante solo se frutto di negligenza grave e solo se abbia leso diritti personali o patrimoniali, il sottrarsi all’attività di servizio ha rilievo solo se abituale e ingiustificato, la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione solo quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui.