Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2023
LA GIUSTIZIA
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una presa per il culo.
Gli altri Cucchi.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Un processo mediatico.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Senza Giustizia.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Qual è la Verità.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli incapaci.
Parliamo di Bibbiano.
Scomparsi.
Nelle more del divorzio.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Mai dire legalità. Uno Stato liberticida: La moltiplicazione dei reati.
Giustizia ingiusta.
L’Istituto dell’Insabbiamento.
L’UPP: l’Ufficio per il Processo.
Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.
Le indagini investigative difensive.
I Criminologi.
I Verbali riassuntivi.
Le False Confessioni estorte.
Il Patteggiamento.
La Prescrizione.
I Passacarte.
Figli di “Trojan”.
Le Mie Prigioni.
Il 41 bis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Diffamazione.
Riservatezza e fughe di notizie.
Il tribunale dei media.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Il Caso Eni-Nigeria spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Chico Forti Rea spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Giulio Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Biondo spiegato bene.
Piccoli casi d’Ingiustizia.
Casi d’ingiustizia: Enzo Tortora.
Casi d’ingiustizia: Mario Oliverio.
Casi d’ingiustizia: Marco Carrai.
Casi d’ingiustizia: Paola Navone.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Comandano loro.
Toghe Politiche.
Magistratopoli.
Palamaragate.
Gli Impuniti.
INDICE SESTA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di Marta Russo.
Il mistero di Luigi Tenco.
Il Caso di Marco Bergamo, il mostro di Bolzano.
Il caso di Gianfranco Stevanin.
Il caso di Annamaria Franzoni
Il caso Bebawi.
Il delitto di Garlasco
Il Caso di Pietro Maso.
Il mistero di Melania Rea.
Il mistero Caprotti.
Il caso della strage di Novi Ligure.
Il caso di Donato «Denis» Bergamini.
Il caso Serena Mollicone.
Il Caso Unabomber.
Il caso Pantani.
Il Caso Emanuela Orlandi.
Il mistero di Simonetta Cesaroni.
Il caso della strage di Erba.
Il caso di Laura Ziliani.
Il caso Benno Neumair.
Il Caso di Denise Pipitone.
INDICE SETTIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il caso della saponificatrice di Correggio.
Il caso di Augusto De Megni.
Il mistero di Isabella Noventa.
Il caso di Pier Paolo Minguzzi.
Il Caso di Daniel Radosavljevic.
Il mistero di Maria Cristina Janssen.
Il Caso di Sana Cheema.
Il Mistero di Saman Abbas.
Il caso di Cristina Mazzotti.
Il caso di Antonella Falcidia.
Il caso di Alessandra Matteuzzi.
Il caso di Andrea Mirabile.
Il caso di Giulia e Alessia Pisanu.
Il mistero di Gabriel Luiz Dias Da Silva.
Il caso di Paolo Stasi.
Il mistero di Giulio Giaccio.
Il mistero di Maria Basso.
Il mistero di Polina Kochelenko.
Il mistero di Alice Neri.
Il mistero di Augusta e Carmela.
Il mistero di Elena e Luana.
Il mistero di Yana Malayko.
Il caso di Luigia Borrelli.
Il caso di Francesca Di Dio e Nino Calabrò.
Il caso di Christian Zoda e Sandra Quarta.
Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.
Il mistero di Davide Piampiano.
Il mistero di Volpe 132.
Il mistero di Giuseppina Arena.
Il Caso di Teodosio Losito.
Il mistero di Michelle Baldassarre.
Il mistero di Danilo Salvatore Lucente Pipitone.
Il Caso Gucci.
Il mistero di «Gigi Bici».
Il caso di Elena Ceste.
Il caso di Libero De Rienzo.
La storia di Livio Giordano.
Il Caso di Alice Schembri.
Il caso di Rosa Alfieri.
Il mistero di Marina Di Modica.
Il Caso di Maurizio Minghella.
Il caso di Luca Delfino.
Il caso di Donato Bilancia.
Il caso di Michele Profeta.
Il caso di Roberto Succo.
Il caso di Pamela Mastropietro.
Il caso di Luca Attanasio.
Il giallo di Ciccio e Tore.
Il giallo di Natale Naser Bathijari.
Il giallo di Francesco Vitale.
Il mistero di Antonio Calò e Caterina Martucci.
Il caso di Luca Varani.
Il caso Panzeri.
Il mistero di Stefano Gonella.
Il caso di Tiziana Cantone.
Il mistero di Gilda Ammendola.
Il caso di Enrico Zenatti.
Il mistero di Simona Pozzi.
Il caso di Paolo Calissano.
Il caso di Michele Coscia.
Il caso di Ponticelli.
Il caso di Alfonso De Martino, infermiere satanico.
Il caso di Sonya Caleffi, la serial killer di Lecco.
Il caso di Rosa Bronzo, la serial killer di Vallo della Lucania.
Il mistero di Marcello Vinci.
Il mistero di Ivan Ciullo.
Il mistero di Francesco D'Alessio.
Il caso di Davide Cesare «Dax».
Il caso di Tranquillo Allevi, detto Tino.
Il caso Shalabayeva.
Il Caso di Giuseppe Pedrazzini.
Il Caso di Massimo Bochicchio.
Il giallo di Grazia Prisco.
Il caso di Diletta Miatello.
Il Caso Percoco.
Il Caso di Ferdinando Carretta.
Il mistero del “collezionista di ossa” della Magliana.
Il Milena Quaglini.
Il giallo di Lorenzo Pucillo.
Il Giallo di Vincenzo Scupola.
Il caso di Vincenzo Mosa.
Il Caso di Alessandro Leon Asoli.
Il caso di Santa Scorese.
Il mistero di Greta Spreafico.
Il Caso di Stefano Dal Corso.
Il mistero di Rkia Hannaoui.
Il mistero di Stefania Rota.
Il Mistero di Andrea La Rosa.
Il Caso Valentina Tarallo.
Il caso di Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi.
Il caso di Terry Broome.
Il caso di Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro.
Il Mistero di Giada Calanchini.
Il Caso di Cinzia Santulli.
Il Mistero di Marzia Capezzuti.
Il Mistero di Davide Calvia.
Il caso di Manuel De Palo.
Il caso di Michele Bonetto.
Il mistero di Liliana Resinovich.
Il Mistero del Cinema Eros.
Il mistero di Sissy Trovato Mazza.
I delitti di Alleghe.
Il massacro del Circeo.
Il mistero del mostro di Bargagli.
Il mistero del Mostro di Firenze.
Il Caso di Alberica Filo della Torre.
Il mistero di Marco Sconforti.
Il mistero di Giulia Tramontano.
Il mistero di Alvise Nicolis Di Robilant.
Il mistero di Maria Donata e Antonio.
Il caso di Sibora Gagani.
Il mistero di Franca Demichela.
Il mistero di Stefano Masala.
Il mistero di Luca Orioli Marirosa Andreotta.
Il caso di Emanuele Scieri.
Il caso di Emanuele Scieri.
Il caso di Carol Maltesi.
INDICE OTTAVA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il mistero di Pierina Paganelli.
L’omicidio Donegani.
Il mistero di Mario Bozzoli.
Il mistero di Fabio Friggi.
Il giallo della morte di Patrizia Nettis.
La vicenda di Gianmarco “Gimmy” Pozzi.
La vicenda di Elisa Claps.
Il mistero delle Stragi.
Il Mistero di Ustica.
Il caso di Piazza della Loggia.
Il Mistero di piazza Fontana.
Il mistero Mattei.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
I nomi dimenticati.
LA GIUSTIZIA
SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Mai dire legalità. Uno Stato liberticida: La moltiplicazione dei reati.
Antonio Giangrande: Il moralismo fasciocomunistoide ipocrita e giustizialista tende a stratificare di norme l’ordinamento giuridico dello Stato senza soluzione di continuità, nonostante cambino i Governi. L’eccesso di norme liberticide mi porta a pensare al colesterolo. Tanto più si accumula sulle pareti delle arterie, tanto aumenta il rischio di coronaropatie.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini e donne senza vergogna.
Antonio Giangrande: Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Antonio Giangrande: Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.
Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.
Il nostro Diritto è Neutro.
Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.
E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.
Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.
Estratto dell’articolo di Ilvo Diamanti per “la Repubblica” venerdì 1 dicembre 2023.
Lo straniero fa di nuovo paura. È quanto emerge dal recente sondaggio di Demos-Fondazione Unipolis per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza. Dopo alcuni anni di “quiete”, durante i quali la percezione degli immigrati si era “sdrammatizzata”, nell’ultimo anno il clima d’opinione è nuovamente cambiato.
E nel 2023 la quota di persone che, in Italia, ritiene gli immigrati “un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone” è risalita in misura rilevante. Raggiungendo il 46%. Si tratta del dato più alto dal 2007. Quando aveva toccato il 51%. Per scendere, o meglio: cadere, al 26% nel 2012-2013. In seguito, il grado di preoccupazione è risalito al 43%, tra il 2017 e il 2018. Per calare vistosamente in seguito […]
Livelli abbastanza elevati (35%) si osservano anche quando gli immigrati vengono valutati come “un pericolo per la nostra cultura, identità e religione”. Mentre la preoccupazione appare molto più limitata in rapporto “all’occupazione”. Questa differenza riflette un atteggiamento “consapevole”. In quanto è, ormai, evidente che nelle aziende il “lavoro manuale” è svolto, in molti casi, da “stranieri”. Spesso, immigrati.
Fra le ragioni che spiegano le variazioni degli ultimi vent’anni appare importante il peso che questo tema ha avuto nelle campagne elettorali. Il 2008 e il 2018, infatti, coincidono con le elezioni politiche e legislative. Quando, nelle Regioni del Nord, nel 2008, la Lega ottiene fra il 18% e il 22% Mentre nel 2018 sale sensibilmente, e si avvicina al 30%. […]
Utilizzando come “principale”, anche se non unico, argomento nelle campagne elettorali, la presenza degli stranieri. Gli immigrati, sempre più numerosi, che mettono in pericolo la nostra sicurezza. La nostra identità. In seguito, però, questo sentimento si alleggerisce.
Anzitutto, perché diventa chiaro come gli immigrati siano utili, talora essenziali, per il nostro sistema produttivo. In secondo luogo, perché altri motivi compongono il profilo delle nostre paure. Come è stato dimostrato, nel corso degli anni, dalle ricerche condotte da Demos con Unipolis. Le crisi economiche, il virus, le guerre, infatti, hanno lasciato sullo sfondo l’immigrazione, ridimensionata anche dai media. Nell’ultimo anno, però, gli immigrati sono tornati sulla scena delle nostre paure.
Di certo non ci troviamo di fronte a un’invasione. Peraltro, i principali flussi migratori non provengono dall’Africa. Ma dall’Est Europa, spinti dalle guerre. E da una domanda crescente di figure professionali, che in Italia non trova risposta adeguata. In particolare, l’assistenza alle famiglie e agli anziani.
[…]
L’attenzione dei media, in tal senso, è comunque cresciuta, come attesta il Rapporto annuale dell’Associazione Carta di Roma, che verrà pubblicato nelle prossime settimane. Per effetto di eventi tragici, come il naufragio avvenuto a Cutro, lo scorso febbraio, nel quale morirono circa 100 persone. E per le iniziative, conseguenti, avviate dal governo, anzitutto dal ministro Matteo Piantedosi.
Tuttavia, fra i diversi motivi che generano le nostre paure, tracciati dal recente Rapporto dell’Osservatorio Europeo sulla sicurezza di Demos-Unipolis (che verrà presentato il prossimo 6 dicembre, anche sul sito di Repubblica ), l’immigrazione conta in modo — relativamente — limitato. Infatti, solo il 6% degli italiani lo considera il primo problema che incombe. Metà rispetto a quanti indicano come prioritario il tema della qualità dei servizi. E oltre 6 volte in meno dei “problemi economici”, che preoccupano il 39% del campione.
Inoltre, il grado di inquietudine non è “trasversale”, ma coinvolge soprattutto le fasce di popolazione più esposte, sul piano professionale. Come i disoccupati e gli operai. E le persone con minor grado di istruzione. Mentre preoccupa molto meno i più giovani e gli studenti.
Le differenze più significative, com’era prevedibile, emergono quando si osserva l’orientamento politico degli intervistati. Rispetto ai temi dell’ordine pubblico e dell’identità, infatti, il grado di preoccupazione cresce soprattutto fra gli elettori di Centro Destra. E raggiunge i valori massimi nella base della Lega. Parallelamente, scende, in misura rilevante, fra chi vota per i partiti di Centro Sinistra e del M5s. […]
Gli stranieri, dunque, fanno ancora paura. Ma, in questi tempi, le paure cambiano spesso. Così siamo in attesa della prossima paura. Nei prossimi giorni…
Il panpenalismo riduce al minimo lo Stato sociale. In nome della sicurezza sono aumentate le categorie dei “nemici” da punire. Alberto Scerbo (ordinario Filosofia del diritto presso Università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro) e Orlando Sapia (avvocato, segretario Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro). Il Dubbio il 30 novembre 2023
Negli ultimi decenni si è realizzato un’accentuazione delle istanze repressive all’insegna di una legislazione “emergenziale” senza fine.
Si sono andate sviluppando le dinamiche tipiche del «populismo penale» che hanno prodotto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Uno sguardo rapido, a titolo di esempio, ai più recenti interventi può essere utile. Nel 2017 la riforma c. d. Orlando, L. n. 103/ 2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo, per la rapina e per l’estorsione.
In seguito, il decreto c. d. Salvini, D. L. n. 113 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c. p. “Invasioni di terreni ed edifici” e ha reintrodotto i reati di mendicità e blocco stradale.
Sempre nel medesimo solco, sono le previsioni relative alla misura di prevenzione del Daspo Urbano, introdotto dal decreto c. d. Minniti D. L. n. 14/ 2017 e poi ampliato dal decreto Salvini, ovverosia esecutivi di differente colore realizzano la medesima politica.
Nel 2022, sempre con decretazione d’urgenza, è stato introdotto l’art. 633 bis c. p. che punisce l’invasione di terreni o edifici in occasione dei rave party. Successivamente, a seguito della tragedia di Cutro, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/ 2023, c. d. decreto Cutro, che ha inasprito le pene per il reato di immigrazione clandestina e introdotto il delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, punito con la reclusione da venti a trenta anni. È del mese di settembre l’emanazione del D. L. n. 123/ 2023, c. d. Decreto Caivano, che contiene norme finalizzate ad ampliare l’applicazione delle misure cautelari nei confronti dei minori.
Infine, recentissimo è un comunicato stampa, n. 59, del consiglio dei Ministri, nel quale si dà notizia dell’approvazione di tre disegni di legge che introdurranno, qualora diverranno legge, nuove norme in materia di sicurezza.
Spicca la modifica della normativa relativa al differimento della pena per donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età, così da rendere tale rinvio facoltativo anziché obbligatorio, come è attualmente. Tale norma, pensata nei riguardi di alcune decine di donne di etnia Rom e dei bambini al seguito, rischia di confinare all’interno del mondo penitenziario le madri ed i loro neonati.
Tra le altre novità, oltre ad aumenti di pena per varie fattispecie di reato, si segnala la creazione del reato di “rivolta in istituto penitenziario”, art. 415 bis c. p., che probabilmente realizzerà un’anticipazione della soglia punitiva, così da colpire anche condotte non concretamente offensive. La previsione normativa dimostra come il Legislatore non tenga in alcuna considerazione il fatto che, laddove vi sono state rivolte nelle carceri ciò è avvenuto per le condizioni di estrema sofferenza subite dalla popolazione detenuta e causate dal cronico problema del sovraffollamento carcerario valso allo Stato italiano alcune condanne dinanzi alla Cedu.
In sostanza, la parola d’ordine della sicurezza pubblica ha soppiantato il modello penalistico di matrice illuministica costituzionalmente orientato. Ha prodotto la frantumazione del principio di proporzionalità della pena, ha rinforzato gli istituti, più fluidi, della prevenzione a detrimento della tipicità legale.
Le categorie di “nemici” non sono più solamente i mafiosi e i terroristi, ma, a seconda delle circostanze, i rom, i rumeni, i migranti, i sex offenders, i giovani frequentatori di rave party, in generale tutti coloro che appartengono al mondo degli “ esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali, dei nuovi barbari”.
Compare lo spettro del novecentesco diritto penale d’autore (Täterstrafrecht), in cui la colpevolizzazione, il giudizio e la pena non riguardano più ciò che si è fatto, ma solamente ciò che si è.
La continua implementazione del sistema penale a garanzia della presunta sicurezza della comunità evidenzia una crisi di legittimazione dello Stato, che ha rinunciato alle sue funzioni sociali ed economiche. Lo Stato minimo nei contenuti sociali, diviene massimo nell’esercizio del potere punitivo.
Un tempo dei giuristi: la via del Codice civile cinese e le vie della seta. Storia di InsideChina su Il Giornale sabato 9 settembre 2023.
È stato scritto che, nei rapporti con la Cina, si potrebbe riconoscere un tempo degli ambasciatori, uno dei pellegrini, dei mercanti, dei missionari, dei navigatori; ci si può chiedere se non sia, quello presente, un ‘tempo dei giuristi’, e se questa qualificazione non possa riferirsi allo straordinario sviluppo in Cina di un tale gruppo professionale. Io non sono un sinologo. Sono uno studioso del diritto romano attento alla dinamica del sistema di questo diritto di cui la codificazione di Giustiniano e dei suoi giuristi è stata una tappa fondamentale che lo ha offerto ai secoli seguenti fino a noi; fino ai codici che usiamo.
Nel 1988 passava da Roma il collega Huang Feng, che era stato a Milano a un Congresso su Beccaria, di cui aveva tradotto e pubblicato a Pechino la famosa opera Dei delitti e delle pene. Con lui organizzammo per il seguente febbraio un ‘Incontro di studi’ con il collega Jiang Ping, Rettore della Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza-CUPL di Pechino (Università creata nel 1952 dal Ministero della Giustizia); membro della Commissione permanente dell’ANP e Vice-Presidente della Commissione giuridica di essa; autore di una manuale di Istituzioni di diritto romano, materia che aveva studiato a Mosca, Terza Roma, agli inizi degli anni ’50.
Al CNR, in quell’‘Incontro di studi a cui il Presidente della Repubblica, il professor Francesco Cossiga, aveva inviato un argomentato telegramma di sostegno, Jiang Ping richiamò l’attenzione sul diritto romano come “patrimonio comune dell’umanità”, sulla terminologia giuridica e sui problemi di traduzione di essa e ci accordammo per sviluppare un programma di traduzione di fonti del diritto romano dal latino al cinese, secondo quanto egli richiedeva. Nel quadro del programma. A dicembre arrivò a Roma la prima studiosa e mi portò in omaggio una traduzione in cinese delle Institutiones di Giustiniano compiuta a Pechino (Zhang Qitai, Pechino, 1988). Questo libro confermava l’interesse della cultura giuridica cinese alle fonti romane antiche.
Non è questa la sede in cui posso richiamare ciò che abbiamo realizzato insieme, usando l’italiano e il cinese come lingue di lavoro, ma non esito a porre al primo posto la formazione di oltre 70 dottori di ricerca, ora professori nelle Università cinesi, e le decine di congressi, primo fra i quali quello su “Diritto romano. Diritto cinese. Codificazione del diritto civile”, Pechino 1994 (serie che è giunta al VI Congresso nel 2018, specificatamente attento a: “Un sistema per i codici civili del XXI secolo”) (cfr. S. Schipani, Le vie dei Codici civili, Jovene, Napoli, 2003).
Altrettanto rilevante è stato il fondamento metodologico: voler tradurre dal latino al cinese, come richiesto, era espressione di una impostazione attenta ai termini-concetti, alle categorie ordinanti e alla necessità di comprensione di essi “dal principio” degli stessi e del sistema, di cui la dimensione tempo è, come scrisse il giurista Gaio e fu posto alla base dei codici di Giustiniano e dei suoi giuristi (D. 1,2,1), “parte essenziale di ogni cosa”, fondante e che dà forma a ciò che ne segue; base solo comprendendo pienamente la quale si può aggiornarla, modificarla, arricchirla.
Roma era stata fondata tracciando un solco lungo il quale vennero costruite le mura; il solco e le mura non potevano essere scavalcati, ma il solco veniva interrotto dove venivano aperte le porte. Dalle porte iniziavano le vie che collegavano i romani con il territorio, con altri uomini e con altri popoli e, rispettivamente, lungo le quali giungevano altri uomini e popoli con tutti i quali Roma era aperta alla accoglienza, aveva “molti diritti comuni”.
A Roma erano giunti dalla Cina nel I sec. a.C. anche i fili sottili della seta, ed erano stati molto apprezzati; lungo la loro via, pare che una delegazione romana già nel 284-285 d.C. abbia recato doni all’imperatore Wu. Da allora, lungo le vie della seta tanti furono i fili di una relazione che vennero raccolti e allacciati. Centrale quello della “iustitia” dell’Imperatore della quale il Gran Khan chiese notizie a Marco Polo; quello dell’“amicizia”, secondo il titolo del primo libro in cinese di Matteo Ricci, che a Roma aveva anche iniziato studi di diritto romano, e certo sapeva come l’“amicizia” fosse, per Roma, anche quella con altri popoli che, appunto, diventavano “amici”. Ora, una copia della preziosa riproduzione del Pandectarum Codex Florentinus (2 vol., Firenze, 1988) è conservata nella Biblioteca della Corte Suprema della Cina.
In questo tempo, che il già ricordato collega Jiang Ping ha qualificato del «risorgere dello spirito del diritto romano in Cina», i codici sono un sostegno lungo le vie che percorriamo «comparando tutti» i risultati della tradizione-esperienza anteriore, per cercare insieme, ciò che è «migliore e più produttivo di uguaglianza» per gli uomini, secondo il criterio guida dei codici giustinianei, fondativo di un comune sistema dinamico e aperto. Del Codice civile cinese 2020, subito si coglie che esso regola “i rapporti personali e patrimoniali tra persone” (art. 2), ponendo i primi al primo posto, sulla scia di Institutiones 1,2,12, e dedicando, innovativamente, ai diritti della personalità il centrale Libro 4. Esso pone poi come regole generali, la libera volontà, l’equità e la buona fede (art. 6-8); dedica il primo articolo in materia di cose, alla “conservazione delle risorse e alla protezione dell’ambiente ecologico” (art. 9). E non può non essere notata la sincronia del ruolo ordinante di esso con la “sconfitta della povertà”, annunciata in Cina negli stessi mesi in cui il codice veniva approvato. Questo nuovo Codice civile cinese costituisce un importante contributo, una via che si incontra e si fa tutt’uno con quelle di Roma e quelle della seta per lo sviluppo di un dialogo che deve crescere.
Sandro Schipani Professore emerito, “Sapienza” Università di Roma
Si va in galera con troppa facilità, e la politica si vende l’anima per un piatto di lenticchie. Ci sono norme che andrebbero trattate con cura, ma la faciloneria diventa la regola. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 15 agosto 2023
Invece di allargare il perimetro delle carceri, estendendolo anche alle caserme, perché non pensare di restringere quelle mura? E di pensare concretamente alla prigione solo come ultima spiaggia per ricucire quello strappo del patto sociale che è la commissione di un reato? Ci sono tanti modi per ridurre quell’affollamento che produce, prima ancora che disagio, soprattutto solitudine e abbandono. Si potrebbe pensare a un indulto, e sono vent’anni che non se ne parla. Ammesso che questa maggioranza sia in grado di una svolta culturale, soprattutto per il partito di Giorgia Meloni, che non pare più avere in sé quelle contraddizioni che nel 2003, quando fu votato l’ ” indultino”, attraversavano Alleanza Nazionale, in cui molti parlamentari come Enzo Fragalà, Sergio Cola e Altero Matteoli erano favorevoli anche all’amnistia.
Ma il primo motivo per cui le carceri italiane sono sempre stracolme è che si arresta troppo e con troppa facilità. L’articolo 274 del codice di procedura penale che prevede le tre ipotesi di pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato come condizione per la custodia cautelare, non è stato scritto con la stessa superficialità con cui viene applicato. Spesso appiccicando un bel reato associativo per rendere necessarie le manette. Sono norme che andrebbero trattate con cura, ma la faciloneria sembra troppo spesso la regola. Se consideriamo che, secondo i dati del Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, almeno 8.000 persone sono in carcere in attesa del primo giudizio, e che altre 7.000 attendono il secondo o il terzo grado, perché queste 15.000 persone devono stare recluse? Siamo proprio sicuri, visto che sono tutti innocenti secondo la Costituzione, che siano tutti così socialmente pericolosi? E’ una questione di mentalità, o meglio di cultura, di pubblici ministeri, ma troppo spesso anche di giudici. Troppe ordinanze abbiamo letto, che erano solo una ricopiatura delle richieste del pm, che a sua volta si ispirava, fino alle virgole, alla relazione della polizia giudiziaria.
Il ministro Carlo Nordio potrebbe cominciare a mettere il naso lì dentro, alle modalità per cui, nella fase delle indagini preliminari, si senta così tanto la necessità di stringere i polsi dell’indagato. Se a questo aggiungiamo il dato statistico per cui il 75% delle prescrizioni del reato avviene proprio in questa fase processuale, vediamo come lo sbattere qualcuno in galera con così tanta superficialità sia diventato quasi l’unico metodo per condurre le indagini, fino a lasciarle morire, spesso, di scadenza dei termini.
Ma c’è qualcosa di ancor maggiormente tragico nella disattenzione permanente della politica nei confronti delle carceri. Salvo risveglio brusco nelle estati dei suicidi. La popolazione in detenzione è molto cambiata negli ultimi anni, ci racconta Rita Bernardini, la presidente di Nessuno tocchi Caino che il ministro farebbe bene ad assumere velocemente al vertice dell’ufficio del Garante per i diritti dei detenuti. Ci sono tanti ragazzi tra i 18 e i 25 anni, i “giovani adulti”, con problemi psichici e di tossicodipendenza. Tenerli chiusi nelle carceri italiane è soprattutto un delitto, una condanna a morte. Sono loro, e le donne, le persone più a rischio. Non solo a rischio suicidio, ma proprio per il pericolo di vedere la propria vita frantumarsi, involversi in un giorno dopo giorno che a un certo punto passa dalla disperazione all’indifferenza.
Questi ragazzi vanno tolti immediatamente dal carcere, qualunque cosa abbiano fatto, di qualunque reato siano accusati o condannati. E’ vero che l’Italia è molto carente sul piano dell’assistenza sociale. Ma ci sono tanti “Don” con le loro strutture di aiuto, e ci sono anche tanti bravi sindaci e assessori pieni di capacità e voglia di fare. Date a tutti costoro risorse e aiuti, e anche alle famiglie, nei casi in cui sia possibile reinserire qualcuno in custodia domiciliare. Questo è lo spirito riformatore che ci aspettiamo da un ministro liberale, anche se capiamo le buone intenzioni nel discorso sul reperimento delle caserme in disuso, anche per differenziare il tipo di detenzione. Lo capiamo, ma ne sappiamo anche misurare le difficoltà di reperimento fondi, tempi di realizzazione del progetto e necessità di assunzione e formazione di nuovo personale. E intanto, quanti suicidi e quante vite buttate mentre il ministro si arma di cazzuola per cominciare a ristrutturare?
E infine. Se c’è stato qualcosa di buono fatto dal premier Conte e il guardasigilli Bonafede è stato quel provvedimento che gli stolti ancora oggi chiamano “svuota- carceri”, dando disvalore al concetto, e che ha invece probabilmente salvato molte vite umane nei giorni dell’epidemia da covid. Il merito maggiore di quella sospensione di pena per i detenuti più anziani e malati va ai giudici di sorveglianza, che quel provvedimento avevano sollecitato. Tutto sparito ormai, compreso l’aumento del numero di videochiamate con la famiglia concesso ai detenuti nello stesso periodo. Ma perché?
Se a tutto ciò si aggiungesse una più frequente applicazione della norma sull’alternativa al carcere a chi deve scontare una pena, o un fine pena, inferiore a tre anni ( sono circa 6.000 detenuti), ecco che magicamente il problema dell’affollamento sarebbe risolto. Ma c’è una vera volontà politica? L’Italia è già stata ripetutamente condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni disumane delle sue carceri. Gli ultimi due Presidente della repubblica, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, oltre allo stesso Papa, hanno rivolto al Parlamento appelli accorati. Ma nulla cambia mai, chiunque governi e chiunque sia all’opposizione. Possibile che, rispetto alla civiltà di un Paese che dipende anche dalle condizioni delle proprie carceri, prevalga sempre quel piatto di lenticchie del calcolo elettorale?
Rapporto sulle carceri: il proibizionismo riempie le prigioni italiane. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 29 Giugno 2023
“Il 34 per cento dei detenuti entra in carcere per possesso di droga. Quasi il doppio della media dei Paesi dell’Unione europea (18 per cento)”. È solo uno dei dati emersi dalla nuova edizione del Libro bianco, un rapporto indipendente sul modo in cui il Testo Unico sugli stupefacenti impatta sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società, realizzato da associazioni e sindacati.
Il documento, che non a caso quest’anno è intitolato La traversata del deserto – a evidenziare la difficile situazione politica italiana su argomenti come questo – ha canalizzato la sua attenzione principalmente sul tema delle presenze in carcere per effetto della legge sulle droghe. I dati dicono che 9.961 (il 26,1%) dei 38.125 ingressi in carcere nel 2022 sono stati causati dall’art.73 del Testo unico. Di che si tratta?
Nel nostro ordinamento giuridico la detenzione di sostanze stupefacenti è sanzionata dal DPR n.309/1990, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Questo, al suo interno, contiene due articoli particolarmente rilevanti quando si parla di droghe e galera: il 73, per il caso di detenzione ai fini di spaccio e il 75, per il caso di detenzione al fine di utilizzo personale. Il primo, in particolare, recita così: “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000”.
Il risultato è che, alla fine, oltre un quarto dei detenuti entra in carcere per possesso di sostanze, il 34% è dietro le sbarre per il solo art. 73 del Testo unico e quasi la metà di chi finisce in cella usa droghe.
In altre parole, senza detenuti per art. 73 o tossicodipendenti non si avrebbe sovraffollamento nelle carceri, come evidenziato dalle simulazioni prodotte.
Per non parlare dei processi, che subirebbero una netta diminuzione. I dati, fermi al 2021, dicono che le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142, e che 7 procedimenti su 10 terminano con una condanna.
Al momento, sotto il comando dell’attuale Governo, l’atteggiamento proibizionistico non sembra poter essere abbandonato. In concomitanza con l’uscita del Libro Bianco, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni interveniva all’evento organizzato in occasione della Giornata mondiale contro le droghe, tenutasi il 26 Giugno scorso, ribadendo a gran voce che «le droghe fanno male tutte, senza distinzioni». E che, per lo stesso motivo, vanno punite tutte in egual modo. Di tutt’altro avviso il leader di +Europa, Riccardo Magi, per cui «davanti a una così grande questione sociale, contano i dati di realtà. Il proibizionismo ha fallito. Ha riempito le carceri di detenuti per violazione della legge sulle droghe, ma i consumi continuano ad aumentare».
Lo scorso ottobre lo stesso CESCR, il Comitato delle Nazioni Unite incaricato di sovrintendere all’attuazione del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali aveva criticato le politiche italiane sulle droghe, definendole in contrasto con le norme internazionali che tutelano i diritti umani. Dopo essersi riunito negli scorsi giorni per esaminare la condotta di diversi Paesi tra cui l’Italia, il Comitato si è infatti detto “preoccupato per l’approccio italiano che punisce il consumo di droghe e per l’insufficiente disponibilità di programmi di riduzione del danno”, raccomandando così alla nostra nazione non solo di “migliorare la disponibilità, l’accessibilità e la qualità di questi ultimi” ma anche di “rivedere le politiche e le leggi sulle droghe per allinearle alle norme e alle migliori pratiche internazionali in materia di diritti umani”. [di Gloria Ferrari]
I dati del libro bianco. Record di tossicodipendenti in carcere: mai così tanti dal 2006. In aumento del 10%, mai così tanti dal 2006. Il 34% dei detenuti ristretto per violazione della legge sulle droghe. Leonardo Fiorentini su L'Unità il 27 Giugno 2023
Quasi metà delle persone che entrano nelle carceri italiane è classificato come “tossicodipendente”, secondo i criteri del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il 30% dei detenuti in carcere al 31/12/2022 erano persone che usano droghe, con una definizione meno stigmatizzante e preferibile da usare. Si tratta non solo di un aumento del 10% rispetto all’anno precedente, ma soprattutto del record di presenze in carcere di persone con problemi di uso di sostanze dal 2006 ad oggi.
È questo il dato più eclatante e allarmante proveniente dalla nuova edizione del Libro Bianco sulle droghe presentato ieri alla Camera e promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA e Legacoopsociali. Non era necessario il titolo – “La traversata del deserto” – per intuire quali siano le prospettive per le politiche sulle droghe nel nostro paese al tempo del duo Meloni-Mantovano. Il Governo ha del resto dato buona prova di sé, organizzando nel pomeriggio una kermesse (vedi l’Unità del 25 giugno) ad uso e consumo delle proprie lobby, imbarazzante dal punto di vista politico e scientifico.
Se Mantovano&c. hanno trasformato la giornata mondiale contro l’abuso di droghe e il narcotraffico nella giornata contro la cannabis, la Società Civile ha voluto celebrare invece la mobilitazione internazionale di “Support! Don’t Punish”, che chiede politiche sulle droghe rispettose dei diritti umani e delle evidenze scientifiche e che quest’anno ha coinvolto oltre 275 città in circa 100 paesi. Lo ha fatto anche con una contestazione dentro e fuori l’evento governativo, consegnando fra l’altro il Libro Bianco a Meloni e Mantovano. Prima ancora ha presentato per l’ennesima volta i dati sul disastro generato dalla legge sulle droghe in Italia. Per l’esattezza per la quattordicesima volta per buona pace di chi, come Meloni, accusa gli altri di “non essersene mai occupati”.
I dati pubblicati sono la conferma di quanto si dice ormai da troppo tempo: un quarto delle persone che entrano in carcere lo fanno per una singola norma penale, quella dell’art. 75, ovvero detenzione a fini di spaccio, in larga parte per fatti di lieve entità. Il 34% dei detenuti italiani a fine 2022 era ristretto a causa della legge sulle droghe, che è quasi il doppio della media europea. La media mondiale si aggira intorno al 22%. Di fronte a questa enormità, che mette a dura prova il nostro sistema della sicurezza, della giustizia e dell’esecuzione penale, dovrebbe essere impossibile non porsi interrogativi. È evidente in tutte le nostre piazze il completo fallimento delle politiche repressive nel disincentivare la domanda e arginare l’offerta di droghe.
Invece il Governo tira dritto con il paraocchi: “le droghe fanno male tutte, non esistono distinzioni, chi dice una cosa diversa dice una menzogna” ha detto Meloni. L’impressione è che l’obiettivo sia da un lato quello di mettere al centro della criminalizzazione e dello stigma – usando le solite tecniche narrative – la sostanza più usata e con meno rischi (anche di alcol e tabacco), dall’altro di gestire dal centro ingressi in comunità, finanziamenti ed accreditamenti, dirottando fondi e tagliando fuori le Regioni.
Intanto, la prima novità c’è stata. Per la prima sono stati negati dei dati ai curatori del Libro Bianco: il Dipartimento Antidroga ha infatti deciso di non concedere il dato sul numero di procedimenti in corso per droghe che nel 2021 erano addirittura 231.659. Un diniego incomprensibile quanto risibile, ma che rende bene l’idea del nuovo corso. Tornando ai dati va sottolineato l’aumento della criminalizzazione dei minori nel corso del 2022. Sono stati 1126 i minori denunciati per spaccio: si tratta di un aumento del 15%, il 75% lo è stato per derivati della cannabis. Sono stati circa il triplo, 3526, i segnalati al Prefetto per mero consumo, quasi tutti per cannabis (98%): l’aumento sul 2021 è del 33%. Non sappiamo se e come sia collegato a “Scuole Sicure” e ai controlli antidroga con i cani nelle scuole.
Di certo la clava della sanzione penale e amministrativa si sta abbattendo sui giovani. L’altra certezza è che è il metodo peggiore per intervenire. A proposito di repressione del consumo, è ormai da tre anni che oltre 30.000 persone l’anno sono oggetto di segnalazione. Il 38% di queste finisce con una sanzione amministrativa (ritiro della patente, del passaporto, del porto d’armi o del permesso di soggiorno turistico, anche senza aver messo in atto comportamenti pericolosi). La repressione colpisce principalmente la cannabis (75,4%), poi cocaina (18,1%) ed infine eroina (4,2%). Le altre sostanze sono quasi irrilevanti. Dal 1990 oltre un milione di italiani, perlopiù giovani, sono state segnalate per possesso di derivati della cannabis.
Il volume, liberamente scaricabile da fuoriluogo.it e presto disponibile in libreria, presenta anche un interessante focus sulla questione della riforma del fatto di lieve entità per droghe e un approfondimento sulle proposte di uscita dal carcere per le persone che usano droghe. Oltre a questo, nella parte internazionale, contiene un’analisi della posizione dell’Italia nel dibattito internazionale, sul rispetto dei Diritti Umani nelle politiche sulle droghe e una revisione critica del rapporto dell’INCB sulla cannabis recentemente pubblicato. È un fondamentale strumento per conoscere e farsi un’idea di come le leggi sulle droghe influiscono sulla società italiana e sulla necessità oramai improcrastinabile di una loro riforma. Ma prima bisogna togliersi il paraocchi.
Leonardo Fiorentini Segretario Forum droghe 27 Giugno 2023
Carceri piene di piccoli spacciatori: perché è dannoso aumentare le pene. Fratelli d’Italia propone di aumentare le pene fino a cinque anni di carcere anche nei casi di “lieve entità”. Ma il problema è opposto: in Italia il 32 per cento dei detenuti finisce in cella per reati legati alle droghe, contribuendo al sovraffollamento carcerario. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 aprile 2023
Arriva l’ennesima proposta di legge volta ad inasprire le pene. Questa volta è per la detenzione o spaccio nei casi di “lieve entità”. Secondo la deputata Augusta Montaruli di Fratelli D’Italia, prima firmataria, è importante perché attualmente, la pena prevista va da sei mesi a quattro anni, e la multa da euro 1.032 a euro 10.329, renderebbe impossibile applicare la misura cautelare in carcere.
Eppure, dai recenti studi di Forum droghe, emerge l’esatto contrario: spesso capita che a queste persone, portate in carcere, quando viene loro riconosciuta la lieve entità del reato, non possono ottenere una custodia fuori dal carcere. Sono persone ai margini che hanno difficoltà ad avere un domicilio adeguato e una volta entrati nel sistema carcerario hanno difficoltà a uscirne.
POLITICA
Stretta di Fratelli d’Italia sulle droghe: fino a 5 anni di carcere per “lieve entità”
Quindi ancora una volta, la parola d’ordine è “più carcere”. Eppure, e questo va dato atto, c’è Andrea Delmastro di Fratelli D’Italia che ha riconosciuto il grave sovraffollamento dovuto da causa di un’alta percentuale di tossicodipendenti che in carcere non ci dovrebbero proprio stare. Ma la proposta di legge della deputata del suo stesso partito, è volta invece a far riempire le patrie galere, mirando ad alzare fino a 5 anni la pena massima per chi è responsabile di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope se il fatto è, appunto, di “lieve entità”. Come se l’attuale testo unico sulle droghe fosse “lassista”.
Nei fatti, il problema è l’opposto: in Italia il 32 per cento delle persone nelle nostre carceri è lì per aver violato la legge sulle droghe, mentre la media europea è del 18 per cento. La nostra è una normativa già produttrice di carcere e in particolar modo repressiva. Abbiamo già pene significativamente alte.
La legge sulle droghe è il principale veicolo di ingresso in carcere
Ci viene in aiuto il libro bianco sulle droghe promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. Ogni anno viene presentato in occasione del 26 giugno, Giornata mondiale sulle Droghe, nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione “Support! don’t Punish” che chiede politiche sulle droghe rispettose dei diritti umani e delle evidenze scientifiche. Si apprende, dati in mano, che la legge sulle droghe è il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Basti pensare che senza detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati “tossicodipendenti” non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane. La legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono quindi decisivi nella determinazione dei saldi della repressione penale: come dimostrato in questi anni la decarcerizzazione passa attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alla circolazione delle sostanze stupefacenti così come le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coattivo si fondano sulla loro criminalizzazione.
I 10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 sono causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Non è vero quindi che “gli spacciatori non vanno in carcere”: sono invece il 28,3% degli ingressi totali molti dei quali vi restano, come dimostrano i dati seguenti. Sono lontani gli effetti della sentenza Torreggiani della Cedu e dell’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. Sostanzialmente stabile la percentuale dei presenti per droghe è il 34,88% del totale (nel 2021 era il 35,04%). È una percentuale quasi doppia rispetto alla media europea (18%) e mondiale 21,65%) e che supera anche quella della Russia (28,6%). Sui 54.134 detenuti in carcere al 31 dicembre 2021 si registra un leggero calo dei presenti a causa del solo art. 73 del Testo unico (spaccio): sono 11.885. In aumento quelli in associazione con l’art. 74 (associazione per traffico illecito di droghe) 5.971. Aumentano anche i detenuti esclusivamente per l’art. 74, che superano per la prima volta quota mille: sono 1.028.
I detenuti tossicodipendenti sono il 35,85 per cento
Si confermano drammatici i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti definiti “tossicodipendenti”: lo sono il 35,85% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31/ 12/ 2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti “certificati”, il 28,16% del totale più di 1000 in più rispetto all’anno precedente. Si tratta del record percentuale, oltre i livelli della Fini-Giovanardi ( 27,57% nel 2007), alimentato dall’aumento degli ingressi in carcere di persone che usano sostanze. E poi c’è il problema dei tribunali ingolfati. Le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142. In totale 231.659 fascicoli per droghe intasano i tribunali italiani, dato che si mantiene ai massimi da 16 anni a questa parte, probabilmente anche per il rallentamento dovuto alla pandemia.
In sostanza, bastano solo i dati sulle carceri per comprendere che la vera emergenza è l’elevato numero di persone detenute nelle carceri italiane per una legge molto punitiva e che invece dovrebbero essere curate nel circuito dei servizi di cura. Viene colpito il consumatore, mentre i rappresentanti della criminalità organizzata rappresentano una minoranza. In carcere ci finiscono i piccoli spacciatori e la proposta di legge avanzata dalla deputata di Fratelli D’Italia non fa che aumentare il problema.
La proposta di legge di Riccardo Magi (+Europa) che punta alla depenalizzazione
Dal 2020, invece, è rimasta nel cassetto la proposta di legge avanzata da Riccardo Magi, deputato di Più Europa, la quale punta a depenalizzare il possesso di droghe leggere. Ridurre le pene e rafforzare l'attenuante della lieve entità, che diventerebbe una fattispecie autonoma. A ciò aggiunge la decriminalizzazione di coltivazione ed uso personale. Cosa che sta avvenendo in Germania con la riforma che apre la strada alla legalizzazione basata sull’autoproduzione, allargata alla forma associata sul modello dei “Cannabis Social Club”, peraltro già presenti in forma più o meno legale in vari stati europei, a partire dalla Spagna e poi integrati nella legge approvata dall’Uruguay di Mujica nel 2013. Nei “Cannabis Social Club”, con massimo 500 membri, sarà possibile “acquistare” la propria quota di coltivazione ( massimo 25 grammi, 50 in un mese). “Vogliamo combattere il mercato nero e ridurre i crimini legati alla droga” ha detto il ministro della Salute del governo rosso verde tedesco Karl Lauterbach, con un progetto che prevede la “distribuzione controllata di cannabis agli adulti entro limiti chiari”.
In una prima fase, sarà introdotto il provvedimento per decriminalizzare il possesso e la coltivazione per suo personale fino a 3 piante di cannabis e la possibilità di apertura dei cosiddetti “Cannabis Social Club”, ovvero associazioni senza scopo di lucro in cui potere acquistare la cannabis coltivata in forma associata. Poi in autunno verrà presentato un ulteriore progetto di legge che prevederà la sperimentazione di un sistema di licenze commerciali, volto a testare in specifici territori una forma di legalizzazione più ampia che preveda anche una regolamentazione legale di produzione, distribuzione e vendita a scopo di lucro. Da noi, invece, si pensa all’inasprimento della pena. Carcere, sempre e solo carcere.
Impazza la cultura autoritaria. Reato di anoressia e di omicidio nautico: quando il diritto penale diventa terreno di pascolo della politica. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 2 Aprile 2023
La formidabile capacità di sintesi della lingua latina ci ha consegnato, tra le tante rimaste nei secoli patrimonio del nostro linguaggio e del nostro pensiero, la locuzione “extrema ratio”. Il vocabolario Treccani ne esplicita il significato costringendosi ad impiegare alcune righe: «Espressione latina, spesso ripetuta con il sign. di “ultima soluzione, estremo rimedio”, a cui si ricorre quando non vi siano altre vie d’uscita, e che può quindi spesso essere la soluzione più dolorosa o più violenta».
Dunque la soluzione da rifuggire, ed alla quale ricorrere solo in via estrema, quando davvero si è giunti alla constatazione che non è possibile individuarne, per quel problema, una diversa. Nel pensiero liberale, è fondamentale l’idea che la sanzione penale sia appunto la “extrema ratio”, di fronte a comportamenti che attentano all’ordine sociale ed alle regole del buon vivere comune; i quali comportamenti debbono essere affrontati e sanzionati sì, ma non necessariamente ed anzi non preferibilmente con lo strumento del diritto penale. L’esatto contrario, dunque, di quanto si è invece da tempo radicato -dobbiamo ormai riconoscerlo- nella cultura e nel modo di pensare assolutamente prevalenti nel nostro Paese. Qui davvero non si colgono differenze sostanziali di storie e culture politiche, di destra o di sinistra che siano, ad eccezione -appunto- di quelle riserve di autentica cultura liberale che in tanti rivendicano, ma in pochissimi praticano.
Di fronte a fatti che colpiscono la pubblica opinione, cioè a comportamenti riprovevoli che allarmano, indignano e turbano la civile convivenza, la politica di ogni colore risponde in un solo modo: introducendo nuove figure di reato, o aggravando progressivamente l’entità delle pene per quelli che già esistono. Parlo qui di alcune chicche imperdibili solo per stare alla cronaca, ma non c’è nulla di nuovo, è storia uguale a sé stessa da almeno un trentennio, senza alcuna distinzione di colore politico. Dunque, alcuni parlamentari oggi in carica propongono di introdurre, per dire, il reato di istigazione alla anoressia.
L’esile confine tra gogna e cronaca: “Il processo mediatico” secondo Camaiora e Stampanoni Bassi
Poche settimane fa, altri hanno proposto la introduzione del reato di omicidio colposo nautico. Mentre da ieri si affaccia, a furor di parti offese, l’idea di istituire una mirabolante Procura nazionale anti-stragi, qualunque cosa ciò questo possa mai significare. Ricordo una strepitosa vignetta di un leggendario giornale satirico che furoreggiava alla fine degli anni ‘70, Il Male. Con autentica preveggenza il fantastico fumetto rappresentava un magistrato che si era imposto l’obiettivo di immaginare alcune decine di possibili nuovi reati da contestare ai movimenti politici extraparlamentari, tra i quali, in un crescente delirio punizionista ed esaurita ogni altra plausibile ipotesi, finiva per proporre quelli di “accensione, compressione, scoppio e scarico”, di “sonnolenza molesta” e, in un meraviglioso finale, il grandioso reato di “torto marcio”. Siamo ad un passo, la satira politica di un tempo è diventata cronaca della realtà.
La matrice di questi grotteschi spropositi è sempre la stessa: la cronaca racconta fatti che colpiscono la pubblica opinione, i social amplificano il dolore purtroppo inestinguibile delle vittime, sale la “sete di giustizia”, e parte la proposta del nuovo reato. L’omicidio colposo nautico immagino segua alle cronache di quell’orrendo incidente in un lago italiano, dove due dissennati tedeschi ubriachi alla guida di notte di un potente motoscafo, hanno maciullato una coppia di poveri ragazzi. Si tratta, leggi vigenti alla mano, di un omicidio colposo plurimo e pluri-aggravato, Dio solo sa perché occorrerebbe ora prevedere l’omicidio colposo nautico, e chissà se, alla prossima sciagura -per dire- causata da un trattore, non dovremo attenderci la introduzione dell’omicidio colposo agricolo.
Ancora più misterioso è il percorso logico che ha alimentato l’idea del reato di istigazione alla anoressia. Credo si faccia riferimento a quelle notizie che ogni tanto leggiamo, che ci parlano della diffusione di modelli comportamentali alimentari (per ragioni sportive, o di outfit modaiolo, o di qualche altra idiozia analoga) che indurrebbero soggetti più deboli a precipitare ineluttabilmente in gravi patologie del comportamento alimentare. Già immagino pool di procuratori della Repubblica impegnati a ricostruire impalpabili nessi causali tra un video di un qualche fanatico influencer e l’anoressia denunziata dai genitori di qualche povera ragazza.
Ci sarebbe da ridere, ma invece la questione è seria, molto seria. Siamo ormai precipitati in un gorgo di cultura autoritaria, dove il diritto penale è diventato terreno di pascolo privilegiato della politica, della ricerca del consenso, e della illusoria ossessione retributiva del dolore delle vittime attraverso la inutile, dissennata moltiplicazione delle figure di reato o della entità delle pene. Questo Paese ha un bisogno disperato di conoscenza e comprensione del pensiero liberale, e ancor più di leader politici in grado di diffonderle in modo credibile ed autorevole.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Tutti i nuovi reati che la destra vuole introdurre. Istigazione all’anoressia, divieto di maternità surrogata all’estero e molto altro: ecco come vuole allungare il codice penale chi sostiene il governo Meloni.
CARLO CANEPA il 28 marzo 2023 su pagellapolitica.it.
A quasi sei mesi dal suo insediamento il governo di Giorgia Meloni ha già introdotto due nuovi reati. Dalla fine di ottobre chi organizza o promuove un rave party rischia dai tre ai sei anni di carcere e una multa da mille a 10 mila euro, in base al nuovo articolo 633-bis del codice penale. Di recente il decreto “Cutro”, ora all’esame del Senato, ha introdotto il nuovo reato chiamato “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, con pene dai 10 ai 30 anni di carcere.
Nei prossimi mesi la lista dei nuovi reati potrà ancora allungarsi viste le numerose proposte di legge presentate in Parlamento da deputati e senatori che sostengono il governo Meloni.
Contro l’istigazione all’anoressia
Il 27 marzo alcuni senatori di Fratelli d’Italia hanno presentato un disegno di legge contro «l’istigazione ai disturbi del comportamento alimentare», come l’anoressia. Il testo non è ancora disponibile, ma il suo primo firmatario Alberto Balboni ha spiegato che la proposta è introdurre all’articolo 580 bis del codice penale il reato di «istigazione all’anoressia», con multe fino a 150 mila euro e una reclusione fino a quattro anni. Un testo simile è stato depositato a ottobre 2022 alla Camera dalla deputata della Lega Arianna Lazzarini, e altre proposte simili sono state presentate nelle due precedenti legislature, anche da esponenti del Partito democratico.
Contro le occupazioni e l’omicidio nautico
Lo stesso Balboni ha firmato altre due proposte per introdurre altrettanti nuovi reati nel codice penale. In una ha chiesto di creare il reato di «occupazione abusiva di privato domicilio o dimora», all’articolo 633-ter del codice penale, con una pena fino a cinque anni di detenzione (un progetto simile è stato avanzato dalla Lega alla Camera). In un’altra ha invece proposto di estendere le pene previste per il reato di omicidio stradale (art. 589 bis del codice penale) a quello nautico. In breve, chiunque è alla guida di un’imbarcazione e causa la morte di un’altra persona è punito con la reclusione da due a sette anni, che aumenta fino a un massimo di 12 anni se il conducente è in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Questo disegno di legge è già stato approvato dal Senato il 21 febbraio, con 140 voti favorevoli su 143 votanti, e ora è all’esame della Camera per l’approvazione definitiva.
Contro la maternità surrogata all’estero
In questa legislatura sono già stati presentati in Parlamento sei disegni di legge per estendere il divieto di fare ricorso alla gestazione per altri (o maternità surrogata) all’estero. Due testi sono stati depositati dalla Lega, due da Fratelli d’Italia, uno da Forza Italia e uno da Noi moderati, ossia tutti e quattro gli schieramenti che supportano il governo. In Italia la gestazione per altri è vietata dalla legge n. 40 del 2004, che all’articolo 12, comma 6, stabilisce che «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600 mila a un milione di euro». L’obiettivo dei partiti della maggioranza è impedire il ricorso a questa pratica fuori dai confini italiani, nei Paesi dove è invece consentita.
Contro i cellulari in carcere
In Senato due esponenti di Fratelli d’Italia hanno firmato un testo per introdurre il nuovo articolo 391-quater del codice penale e punire con sei mesi di carcere chi già si trova in un istituto penitenziario e viene scoperto in possesso di un cellulare o di «altri dispositivi idonei ad effettuare comunicazioni». La pena è aumentata se si dimostra che il detenuto sia riuscito a mantenere rapporti con le organizzazioni criminali grazie all’uso del cellulare.
Contro chi imbratta i vetri dei quadri
La Lega, con un disegno di legge a prima firma del senatore Claudio Borghi, ha chiesto di punire con la reclusione fino a un anno e con una multa di 15 mila euro chi «imbratta» le teche e i vetri dei quadri nei musei. L’obiettivo dichiarato di Borghi è scoraggiare le azioni degli ambientalisti che vogliono attirare l’attenzione sulla lotta contro i cambiamenti climatici gettando vernice sui quadri protetti da una teca o da un vetro.
Due deputate della Lega hanno invece proposto di introdurre nel codice penale il nuovo articolo 711-bis e di punire con l’arresto fino a un mese e con una multa fino a mille euro chi acquista merce contraffatta. Il venditore rischia invece fino a tre anni di carcere.
Contro chi truffa gli anziani
Almeno tre proposte della maggioranza chiedono poi di tutelare di più gli anziani da truffe e tentativi di circonvenzione. Per esempio il deputato di Fratelli d’Italia Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri, vuole introdurre l’articolo 640-bis nel codice penale e punire con sei anni di reclusione e una multa fino a 10 mila euro il nuovo reato di «truffa ai danni di soggetti minori o anziani». Una ventina di compagni di partito di Cirielli hanno proposto di introdurre tra gli atti persecutori puniti dal codice penale anche quelli di «bullismo e cyberbullismo».
Contro la linea di Nordio
La volontà di molti esponenti della maggioranza di allungare il codice penale si scontra con quanto professato in passato dall’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio. Durante la formazione del governo, Nordio ha per esempio dichiarato che «la velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati». Bisogna «eliminare questo pregiudizio che la sicurezza e la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali: questo non è vero», aveva ribadito il ministro.
Non è detto che tutte le proposte per introdurre nuovi reati arriveranno fino in fondo in Parlamento, anzi. Nella scorsa legislatura solo l’1 per cento delle proposte fatte dai parlamentari è diventata legge.
La moltiplicazione dei reati: istigazione a disturbi alimentari. VITALBA AZZOLLINI Il Domani il 30 marzo 2023 • 12:13
Il nuovo reato solleva alcuni dubbi. L’istigatore potrebbe essere chi a propria volta soffra di disturbi alimentari, e necessiterebbe di un approccio medico, più che penale, oltre al fatto di poter risultare non imputabile, in quanto non pienamente capace di intendere.
Inoltre, l’istigazione a condotte che causano disturbi alimentari è già sanzionabile in base alle norme attuali.
Continua la moltiplicazione delle fattispecie penali. Dopo l’introduzione del reato di rave party, il decreto Cutro, con il “reato universale” di chi causi morte o lesione mentre fa entrare in Italia immigrati irregolari in Italia, la proposta per rendere “reato universale” pure la gestazione per altri, un nuovo disegno di legge sanziona l’istigazione a condotte alimentari idonee a indurre disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia e altri). Come per i reati citati, anche per questo sorgono diversi dubbi.
IL DISEGNO DI LEGGE
Il recente disegno di legge è solo l’ultimo di una lunga serie in tema di disturbi del comportamento alimentare, poiché ricalca quasi alla lettera numerose altre proposte presentate nel corso degli anni, ma sempre sfociate nel nulla. A partire da quella di Beatrice Lorenzin, allora deputata del Pd, nel novembre 2008, fino ad arrivare a quella di Arianna Lazzarini, deputata della Lega, nell’ottobre 2022.
La nuova proposta introduce nel codice penale l’art. 580-bis, in base al quale chiunque, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, determini o rafforzi l'altrui proposito di ricorrere a condotte alimentari idonee a rafforzare o provocare disturbi del comportamento alimentare, e ne agevoli l'esecuzione, è punito con la reclusione fino a due anni e la sanzione amministrativa da euro 20mila a 60mila.
Se il reato viene commesso nei confronti di una persona in minorata difesa o di una persona minore di 14 anni o ancora su di una persona priva della capacità di intendere e di volere, si prevede l'applicazione della pena della reclusione fino a quattro anni e la sanzione amministrativa da euro 40mila a 150mila.
Negli altri articoli del disegno di legge si prevede l’istituzionalizzazione della giornata contro i disturbi alimentari, già ricordata ogni15 marzo con la giornata del Fiocchetto Lilla, un piano di interventi statali allo scopo di prevenire e curare tali disturbi e una relazione annuale del ministro della Salute alle camere con aggiornamenti sullo stato delle conoscenze e delle nuove acquisizioni scientifiche sulle malattie sociali.
Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge – firmatario Alberto Balboni, senatore di Fratelli d’Italia - si spiega come «attualmente nel nostro paese siano 3.000.000 i soggetti affetti da questi disturbi, circa il 5 per cento della popolazione italiana, di cui il 96,4 per cento sono donne. Ogni anno i disturbi alimentari provocano la morte di 4.000 giovani, collocandosi come seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali, e dopo la pandemia si è registrato un aumento del 40 per cento dei casi». Questo è il motivo per cui si reputa di intervenire normativamente.
CRITICHE ALL’INIZIATIVA DI LEGGE
Sull’iniziativa di legge possono svolgersi alcune considerazioni. Innanzitutto, l’ambito di estensione. È vero che essa consentirà di perseguire i gestori di siti, blog e chat che diffondono comportamenti alimentari nocivi per la salute.
Tuttavia, essendo imputabile chiunque, con qualsiasi mezzo, istighi a pratiche idonee a provocare disturbi del comportamento alimentare, potranno essere incriminate ad esempio anche persone che siano a propria volta affette dai medesimi disturbi, dei quali esse non sempre sono coscienti.
Può trattarsi di ragazzi e ragazze che, al di là di qualunque strumento virtuale e organizzato, nella comunicazione quotidiana trasmettano messaggi che rischiano di portare i propri coetanei a disturbi alimentari, senza avere piena consapevolezza delle conseguenze che tali messaggi possono avere. La distorta percezione della realtà, del significato delle proprie condotte e delle loro eventuali ripercussioni, in termini giuridici può tradursi in una incapacità di intendere in modo pieno. 2
Dunque, l’approccio penalistico onnicomprensivo, da un lato, potrebbe colpire persone che necessiterebbero, invece, di un approccio medico su svariati piani, più che sanzionatorio; dall’altro, potrebbe portare ad escludere l’imputabilità dell’autore del reato, se a propria volta affetto dai disturbi in questione, anche perché il concetto di infermità recepito dal codice penale è molto ampio e, quindi, potrebbero esservi soggetti incapaci di intendere, nonostante non siano malati in senso stretto (Cass. pen. n. 19532/2003).
In secondo luogo, va considerato che i disturbi del comportamento alimentare non sono mai frutto di un’unica condotta, quella che si vorrebbe sanzionare.
Come spiegava la relazione di accompagnamento al disegno di legge sullo stesso tema, presentato nel 2014, si tratta di patologie «risultanti dalla complessa interazione di fattori biologici, genetici, ambientali, sociali, psicologici e psichiatrici. Alcuni insistono sull’influenza negativa che possono avere un eccesso di pressione e di aspettative da parte dei familiari o, al contrario, sull’assenza di riconoscimento e di attenzione (…). Altri sottolineano l’importanza di traumi vissuti durante l’infanzia, come le violenze e gli abusi sessuali, fisici o psicologici. Altri ancora condannano l’impatto che potrebbero avere alcuni messaggi veicolati dalla società: uno dei motivi per cui alcune ragazze inizierebbero a sottoporsi a diete eccessive sarebbe la necessità di corrispondere a determinati canoni estetici che premiano la magrezza, anche nei suoi eccessi».
Di tutto questo la nuova fattispecie penale sembra non tenere conto, prendendo di mira l’ultimo atto, quello dell’istigazione. Ma il medesimo atto di incitamento potrebbe avere un maggiore o minore impatto a seconda della situazione psicologica della persona cui è diretto. Situazione della quale l’autore della condotta, peraltro, potrebbe non avere contezza.
Individuare quale fattore induca il disturbo alimentare potrebbe essere non agevole, rendendo ardua la precisa valutazione della portata lesiva della condotta istigatrice considerata dalla nuova norma. Peraltro, è difficile tracciare la linea tra una condotta che può essere idonea a indurre un disturbo alimentare, passibile di essere sanzionata, e una condotta che non lo è.
Certe diete, a volte sbilanciate o estreme, pubblicizzate su social network lo sono? Le foto del prima e del dopo un percorso di personal training? Il principio di tassatività della norma penale richiederebbe maggiore precisione.
Infine, benché non vi sia nel nostro ordinamento il reato di istigazione all’anoressia, chi mette in pratica tale condotta è già oggi sanzionabile con l’applicazione di norme vigenti. La condotta, infatti, può ricadere in altri illeciti previsti dal codice penale. Spesso l’anoressia porta a sintomi depressivi che si manifestano anche con intenti di suicidio, e la malattia può evolversi in un lento lasciarsi morire.
Pertanto, chi induce all’anoressia potrebbe essere denunciato per istigazione a tale atto (art. 580 c.p.). Se non conduce alla morte, l’anoressia provoca lesioni (che possono essere gravi o gravissime), pure queste perseguibili penalmente (art. 583, cc. 1 e 2, c.p.). Dunque, anche se il nuovo reato non fosse introdotto, la condotta sarebbe comunque punibile, come la è stata finora.
Si potrebbe obiettare che la recente proposta di legge mira a focalizzare l’attenzione pubblica sui disturbi del comportamento alimentare, dei quali forse non si parla come servirebbe. Ma uno strumento normativo non può avere l’intento di “sensibilizzare” l’opinione pubblica.
Né serve una norma di legge per definire un piano di azione, ad esempio con iniziative di educazione sanitaria ed alimentare verso la popolazione e una formazione del personale sanitario e degli insegnanti, al fine di arrivare a diagnosi precoci dei disturbi alimentari, anche in un’ottica di prevenzione. Si tratta di interventi che possono essere disposti senza l’introduzione di un nuovo reato.
Un’ultima considerazione. Appena arrivato a via Arenula, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si era detto a favore di «una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati». Quale coerenza ci sia fra le affermazioni fatte da Nordio solo pochi mesi e l’inclinazione della maggioranza di governo a introdurre sempre nuovi reati non è dato saperlo. VITALBA AZZOLLINI
Giustizia ingiusta.
L’Imputazione Coatta.
Il Secondo Grado.
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Le Pezze a Colori.
La Ricusazione.
La Credibilità.
I Tagli.
I tempi biblici dei processi.
Il sondaggio.
La decisione del gip. Cos’è l’imputazione coatta: il caso Delmastro e l’attacco del ministero della Giustizia. "È necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio". Redazione Web su L'Unità il 7 Luglio 2023
Il ministero della Giustizia sostiene che il caso dell’imputazione coatta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro “dimostra, come nei confronti di qualsiasi altro indagato, l’irrazionalità del nostro sistema”. Le parole filtrate dal dicastero citate dall’Ansa rappresentano l’ultimo step della tensione sempre più alta tra il governo e la magistratura. Il gip di Roma Emanuela Attura ha disposto ieri l’imputazione coatta per il sottosegretario alla Giustizia sostenendo la sussistenza sia dell’elemento oggettivo che di quello soggettivo del reato.
Il caso è quello di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41bis al centro dell’attenzione mediatica per mesi dopo un lunghissimo sciopero della fame, e delle dichiarazioni in aula di Giovanni Donzelli. La richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura non è stata accolta. Secondo la Procura Delmastro, nel parlare con Donzelli dei colloqui in carcere di Cospito, non aveva commesso reato perché Delmastro non conosceva la natura di quegli atti. Per il gip, al contrario, il sottosegretario non poteva ignorare la segretezza di quel contenuto anche perché avvocato penalista. L’accusa è di rivelazione del segreto d’ufficio.
L’imputazione coatta viene disposta con un’ordinanza del giudice. Non si tratta di un rinvio a giudizio, in senso tecnico. La procura che aveva chiesto l’archiviazione tuttavia chiede il rinvio a giudizio per gli indagati. Il nuovo gup viene nominato a stretto giro di tempo e fissa un’udienza preliminare. L’accusa sostiene le ragioni del rinvio mentre le difese possono chiedere il patteggiamento, il rito abbreviato o l’assoluzione. Decide il nuovo giudice. La prassi fa seguire spesso all’imputazione un processo. La Procura chiedendo l’archiviazione aveva evidenziato ”l’esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo” aggiungendo però come non ci fossero prove sull’elemento soggettivo, ovvero che Delmastro fosse consapevole dell’esistenza del segreto e che quindi sapesse di commettere un reato.
Dal ministero filtrano dichiarazioni durissime. “Nel processo che ne segue l’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna non farà altro che contraddire se stesso. Nel processo accusatorio il Pubblico Ministero, che non è né deve essere soggetto al potere esecutivo ed è assolutamente indipendente, è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede. La grandissima parte delle imputazioni coatte si conclude, infatti, con assoluzioni dopo processi lunghi e dolorosi quanto inutili, con grande spreco di risorse umane ed economiche anche per le necessarie attività difensive. Per questo è necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio”.
Palazzo Chigi aveva fatto trapelare ieri in una nota informale un attacco alla decisione del gip e anche all’inchiesta che riguarda la ministra del Turismo Daniela Santanchè che avrebbe appreso dai media di essere iscritta nel registro degli indagati. “Non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione e il gip imponga che si avvii il giudizio. In un procedimento in cui gli atti sono secretati è fuori legge che si apprenda di essere indagati dai giornali. Quando questo interessa due esponenti del governo – si legge nella nota del ministero della Giustizia – è lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione e abbia deciso anzitempo di inaugurare la campagna elettorale per le europee“. Dal ministero definiscono “urgente” la riforma dell’iscrizione del registro degli indagati e dell’informazione garanzia, precisano oggi dal ministero fonti interne in relazione al caso Santanchè. Le stesse fonti “manifestano, ancora una volta, lo sconcerto e il disagio per l’ennesima comunicazione a mezzo stampa di un atto che dovrebbe rimanere riservato. La riforma proposta mira ad eliminare questa anomalia tutelando l’onore di ogni cittadino presunto innocente sino a condanna definitiva”.
Il commento di Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali: “L’imputazione coatta disposta dal gip contro la volontà del pubblico ministero è da sempre una delle norme più irrazionali e insensate del nostro codice di procedura penale per le ragioni che sono state ben espresse dal Ministero. Ma è una norma che esiste dalla fine degli Anni Ottanta. Ce ne accorgiamo solo ora? Meglio tardi che mai. Speriamo se ne traggano le conseguenze”. Redazione Web 7 Luglio 2023
Cortese e Saguto, l'uno-due della Cassazione che manda al tappeto il senso comune. La Suprema Corte ha rinviato a nuovi processi la zarina dei beni confiscati condannata a 8 anni e il superpoliziotto assolto per il caso Shalabayeva. Minando ancora di più la credibilità del sistema giudiziario. Enrico Bellavia su L'Espresso il 21 ottobre 2023.
Con un formidabile uno-due, la Cassazione ha rinviato ad altrettanti nuovi processi il verdetto sulla giudice Silvana Saguto, zarina dei beni confiscati, condannata in appello per corruzione e tentata concussione e per Renato Cortese, il superpoliziotto, assolto in secondo grado dall’incredibile accusa di sequestro di persona di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, che gli era costata la poltrona da questore di Palermo.
Le due vicende non hanno punti in comune se non la tragica parabola giudiziaria che nello stanco protrarsi di vicende, un tempo clamorose, allontana l’idea di una certezza del diritto che corrisponda a una opinione diffusa. Si sa che il giudizio non deve essere in alcun modo popolare, ma quando sembra fare a pugni con la logica e una sensibilità prevalente, occorrerà un surplus di dottrina per spiegare come si è potuti arrivare a questo punto.
Nel caso di Saguto, si trattava, in soldoni, di risparmiare all’ormai ex magistrata l’onta di una lunga carcerazione, dopo la radiazione dall’ordine di giudiziario. Così, tra prescrizioni e colpi di scure definitivi nel merito, sembra proprio che all’appello bis si andrà quantomeno a dimezzare, se non a ridurre a un terzo, la condanna a 8 anni e 10 mesi che l’avrebbe lasciata in cella a lungo. Per adesso, l’esecuzione della pena nella parte confermata, decisa dai giudici di Caltanissetta, la conduce in cella dalla clinica in cui era ricoverata. Secondo i magistrati di Caltanissetta dovrà attendere da detenuta la rideterminazione della pena che al momento, nonostante la “grazia” parziale della Cassazione, eccede i quattro anni. La battaglia legale sul punto è appena cominciata.
Ma, al di là del destino dell’ennesima star dell’antimafia spettacolo - precipitata dagli altari di confische milionarie che avevano fatto della sezione misure di prevenzione di Palermo la prima industria della città alla polvere di sacchi della spesa e soldi dirottati a casa della magistrata - resta un danno, incalcolabile, fatto al sistema della lotta ai patrimoni mafiosi. Perché alcuni di quelli che hanno perso tutto nei procedimenti avviati e conclusi da Saguto sono vere vittime di un sistema che si è fatto sbrigativo e sommario per calcolo e interesse.
In nome di questi, altri che non hanno alcun titolo per dirsi innocenti, però, invocano revisioni non solo dei propri processi ma dell’intero impianto della legge che li ha resi possibili. E si tratta della legge che porta il nome postumo di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci ucciso nel 1982, che periodicamente i governi di destra di turno, questo compreso, tentano di riformare. Ecco, la vicenda Saguto - incarichi a gogo a una ristretta cerchia di amministratori giudiziari amici, o necessari per conseguire altri scopi, privilegi e prebende, soldi a ripianare i conti di una cerchia familiare irresponsabilmente dispendiosa - dà fiato alle trombe dei revisionisti mascherati da garantisti.
Tutt’altra storia quella di Renato Cortese, il cacciatore di latitanti che stanò dopo otto anni di caccia Bernardo Provenzano, ammanettandolo a conclusione della più longeva fuga nella storia di Cosa nostra. Considerato uno dei più brillanti investigatori italiani, votato a una carriera che lo avrebbe portato ai vertici della polizia, resta imbrigliato, ostaggio, di una vicenda surreale. Per i giudici di appello che lo hanno assolto, si tratta di un «romanzo senza prove». Per quelli di primo grado che gli hanno affibbiato addosso l’etichetta di rapitore, di «alto tradimento».
In sintesi: nel maggio del 2013 gli uomini della squadra mobile di Roma diretta allora da Cortese, insieme con personale della Digos fanno irruzione in una villa di Casal Palocco a Roma per arrestare il latitante kazako Muktar Ablyazov, ricercato dall’Interpol con l’accusa di aver svuotato la banca del suo Paese. Ablyazov, ricco e potente, è passato da lì ma fiutando aria di manette, è riparato in Francia dove verrà arrestato qualche settimana dopo. Si definisce un dissidente costretto alla fuga, dopo essere transitato dal comodo ruolo di oligarca, arricchitosi all’ombra della fine del blocco sovietico, a ministro dell’Economia, sodale dell’allora presidente. Con il quale però è entrato in rotta per ragioni di mazzette. Nel tempo a volerlo interrogare sono le procure di mezzo mondo, Stati Uniti compresi per certi affari che portano fino a Trump.
Nella villa di Casal Palocco con altri parenti e i domestici ci sono la moglie e la figlia di Ablyazov, Alma Shalabayeva e la figlia Alua. La signora esibisce un passaporto falso rilasciato dalla Repubblica Centroafricana, la procura di Roma, certifica che il titolo per stare in Italia è falso, la signora non chiede asilo e non rivela mai la propria identità. La rappresentanza diplomatica kazaka chiede che venga trasferita nel suo vero Paese d’origine. L’ufficio immigrazione, dopo la convalida del trattenimento presso il Cie da parte di un giudice di pace, procede alla consegna della donna e della figlia ai kazaki.
Questo il fatto. Già dalla sera del rimpatrio, la narrazione diverrà la seguente: l’Italia per compiacenza verso un governo amico di Vladimir Putin, ha consentito la consegna a un regime illiberale di una donna e di una bambina che rischiano la vita. Il tempo politico è quello delle larghe intese. Al governo di Enrico Letta siede da ministro dell’Interno Angelino Alfano, enfant prodige del nuovo centro destra e delfino berlusconiano designato.
Parte una tempesta, dal Pd ai radicali, fino ai Cinquestelle, diretta a colpire il ministro che però fa dimettere il suo capo di gabinetto, scaricando la polizia. Mancato il bersaglio grosso, nella rete di una vicenda mai provata, la consegna illegale ai kazaki per compiacenza, restano solo i poliziotti.
Il più noto dei quali è Cortese. Poco importa che i suoi uomini abbiano partecipato solo all’irruzione, che il poliziotto abbia solo eseguito il blitz e la perquisizione e il resto sia il risultato della procedura prevista dalla legge sull’immigrazione. La tempesta mediatica dura tre mesi, durante i quali Ablyazov finirà in cella con un blitz delle teste di cuoio francesi, in attesa di estradizione, e la moglie, mai arrestata nel suo Paese, tornerà in Italia con il suo vero passaporto. Incassando, quel che sembra il vero fatturato di Ablyazov: dipingersi universalmente come un perseguitato, insieme con la famiglia.
Cortese da indagato, come gli altri colleghi coinvolti, proseguirà nel suo percorso, fino a diventare questore di Palermo quando, condannato a Perugia in primo grado a 5 anni, il doppio di quanto richiesto dall’accusa, dovrà dimettersi e restare a bagnomaria. Soltanto quest’anno, dopo l’assoluzione di appello, è arrivata la nomina a prefetto ma senza incarichi di prima linea. Adesso dovrà sottoporsi a un nuovo giudizio a Firenze. Nonostante mai, in nessun passaggio dei processi, sia solo comparsa l’ombra di una prova della volontà di rapire la Shalabayeva e la figlia e consegnarla ai kazaki. Nonostante i giudici del tribunale non abbiano mai voluto ascoltare i pm di Roma che certificarono il falso passaporto. Nonostante fosse stato proprio Cortese a indicare ad uno dei componenti del nutrito stuolo di avvocati della donna il pm a cui rivolgersi per far valere le ragioni della sua assistita ed evitare il rimpatrio.
Così, se la decisione della Cassazione su Saguto inevitabilmente evoca lo spettro della benevolenza, parzialmente “corretta” da Caltanissetta, su Cortese il fantasma è opposto. Perché questa, invece, è la storia di uno straordinario corto circuito per i media, per la politica e per la magistratura, complici i regolamenti dei conti consumati a distanza tra uffici giudiziari, sulla pelle degli imputati. In un caso e nell’altro, però, l’uno due della Cassazione, manda al tappeto il senso comune.
Bocconi amari. Caso MPS, Sansa e Tidei: un tris di delusioni e il flop dei giustizialisti. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 13 Ottobre 2023
La settimana che sta terminando è stata molto avara di soddisfazioni per i giustizialisti in servizio permanente effettivo di casa nostra. Il primo boccone amaro che hanno dovuto ingoiare è stata l’assoluzione definitiva dei vertici di banca Monte Paschi di Siena, fra cui l’ex presidente Giuseppe Mussari e l’ex dg Antonio Vigni. I due manager, insieme ad altri dirigenti della banca toscana, di Nomura e di Deutsche Bank, erano stati condannati in primo grado a pene fino a quasi 8 anni per l’accusa di irregolarità contabili in operazioni effettuate circa i fondi Alexandria e Santorini. Gli illeciti, in particolare, sarebbero stati commessi tra il 2008 ed il 2012 per coprire le perdite causate l’anno prima con l’acquisizione di banca Antonveneta. Le indagini, inizialmente condotte dalla Procura Siena, erano poi proseguite a Milano dove il fascicolo era state spacchettato in diversi filoni. Nel 2019, dunque, il tribunale di Milano aveva condannato tutti gli imputati. Nel 2022, però, la Corte d’appello aveva annullato la sentenza e, questa settimana, è arrivata la conferma da parte della Cassazione. La Procura generale di piazza Cavour aveva chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso ritenendo che non si potesse affermare che i fondi Alexandria e Santorini fossero stati architettati con l’unico scopo di “ottenere un illecito vantaggio contabile”. Il procedimento Mps aveva occupato per anni le prime pagine dei giornali che avevano sposato, come accade spesso, senza se e senza ma le tesi della Procura.
Ieri, invece, quattro persone sono state rinviate a giudizio dal gup di Civitavecchia in relazione al procedimento per corruzione da cui è nato poi il caso di revenge porn che vede vittima il sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei. L’inchiesta per corruzione, avviata proprio dopo la denuncia di Tidei, ha portato al rinvio a giudizio di Fabio Quartieri, Giuseppe Salomone, Fabrizio Fronti e Roberto Angeletti all’epoca dei fatti consigliere comunale. ‘’Tutti rinviati a giudizio. La giustizia è lenta ma arriva sempre’’, ha commentato ieri Tidei su Facebook aggiungendo che ‘’il Comune di Santa Marinella si è costituito parte civile contro gli imputati Quartieri, Angeletti, Fronti e Salomone accusati di corruzione. Il giudice ha valutato che gli elementi acquisiti durante le indagini consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna, ed ha pertanto disposto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati. La denuncia presentata dal sindaco Tidei volta a smascherare un tentativo illecito e corruttivo di condizionare la vita amministrativa del Comune ha trovato quindi risconto. Si attende fiduciosi il dibattimento”. Anche Tidei in queste settimane era stato oggetto di una violentissima campagna mediatica.
Il ‘contrappasso’ giustizialista, invece, ha colpito Ferruccio Sansa, ex giornalista del Fatto, il giornale manettaro per antonomasia. Sansa, trombato alle elezioni per la presidente della Regione Liguria, l’altro giorno invocava le dimissioni per il vicepresidente Alessandro Piana, trascinato a sua insaputa in una indagine per droga e prostituzione. Bene, Sansa è rimasto coinvolto in queste settimane in storia quanto mai torbida di cui ha dato ieri notizia La Verità.
La moglie, l’avvocata Maria Valeria Valerio, sarebbe indagata con la pesante accusa di circonvenzione d’incapace ai danni di una anziana perpetua che aveva la disponibilità di diversi immobili. Tramite delle scritture private si sarebbe inserita nella gestione dei beni dell’anziana, poi deceduta, divenendo beneficiaria di alcune polizze vita. Un giro vorticoso di soldi che non è sfuggito alla Procura che ha deciso di bloccargli i conti. L’Ordine degli avvocati del capoluogo ligure ne ha quindi disposto la sospensione cautelare dall’esercizio della professione fino al prossimo mese di febbraio. Ovviamente nessuno chiederà a Sansa di dimettersi, ci mancherebbe altro, però un po’ di prudenza non guasterebbe. Paolo Pandolfini
Vite umane distrutte per anni. Lucano, Monte Paschi, Napoletano e la funzione salvifica del secondo grado, sipario sulle vere sciagure giudiziarie. È bene che tutti sappiano quanto l’istituto dell’appello sia costantemente nel mirino di coloro -magistratura in primo luogo- vorrebbero ridurne drasticamente l’agibilità, in nome di una malintesa idea di efficientismo giudiziario. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 14 Ottobre 2023
Come in una sorta di tempesta perfetta, in 24 ore si sono concentrate tre clamorose assoluzioni in processi ad altissimo tasso mediatico.
Nel noto processo Monte Paschi, assolti, con tutti gli altri imputati, Mussari e Vigni (7 anni la condanna in primo grado per falso in bilancio ed altro); assolto l’ex Direttore del Sole 24 ore Roberto Napoletano (2 anni e sei mesi in primo grado per aggiotaggio ed altro); assolto da tutti i reati più gravi Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace (13 anni e due mesi in primo grado con accuse tremende ed infamanti di associazione criminale per lucrare sulla immigrazione, ridotti ora ad un anno e due mesi con pena sospesa, per un abuso che è più che altro un illecito amministrativo). Ovviamente, ogni processo fa storia a sé, ma è davvero difficile evitare di interrogarsi sul filo conduttore comune di questi esiti giudiziari così clamorosi.
La prima osservazione che si impone riguarda la salvifica funzione del secondo grado di giudizio. È bene che tutti sappiano quanto l’istituto dell’appello sia costantemente nel mirino di coloro -magistratura in primo luogo- vorrebbero ridurne drasticamente l’agibilità, in nome di una malintesa idea di efficientismo giudiziario. Qui parliamo di vite umane distrutte e infine tirate via per i capelli dal gorgo della disperazione. Giù le mani dal diritto di impugnazione delle sentenze. Poi, vi è da ragionare seriamente sul progressivo incremento della autonomia valutativa del giudice man mano che ci si allontana dalla micidiale forza inerziale delle indagini del PM. È il grande tema della “indipendenza interna” del giudice (dal PM, per capirci). Quella doverosa indipendenza di giudizio (o terzietà, fate voi) assai impalpabile fino alla udienza preliminare (eppure il GIP/GUP avrebbe proprio il compito di controllare le indagini e l’esercizio dell’azione penale, stroncando nella culla le accuse infondate), cresce in modo drastico nel progredire dei gradi di giudizio, ma non sufficientemente nel primo grado quando il processo è ad alta intensità mediatico-politica, come queste ultime vicende -e tante altre analoghe- inequivocabilmente confermano.
Solo quando il condizionamento mediatico si va spegnendo, e l’impatto della sconfitta dell’Accusa risulta stemperato dal decorso del tempo e dunque più facilmente tollerabile dal sistema, il giudizio riacquista la sua naturale indipendenza; e giudica i fatti per quello che sono e significano nella realtà. Infine, la carne viva di chi ha subito la pena intollerabile del processo e della gogna, gli imputati innocenti ed i loro cari, costretti a vivere la vergogna di accuse infondate, ed il linciaggio di moralisti senza scrupoli e di una informazione che, diciamocelo, si nutre innanzitutto di queste sciagure giudiziarie, contribuendo in modo decisivo ad inscenarle. Ma non illudetevi: le tricoteuses nostrane non hanno alcuna intenzione di riporre i loro ferri nel cesto.
Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane
«Arresti negati? Penso anche a chi è in carcere preventivo e poi è assolto». Parla l’ex magistrato Massimo Brandimarte: «La patologia risiede nell’alto numero di assoluzioni finali di soggetti già sottoposti a carcerazione preventiva. Un rigetto non significa che l’inchiesta è finita, ma anche andrà avanti senza la stretta necessità di privare qualcuno della libertà». Valentina Stella Il Dubbio il 30 ottobre 2023
Stampa e parte della magistratura in questo giorni non hanno affatto preso bene la decisione del gip di Milano che ha che ha “osato” rigettare la richiesta di arresto avanzata dalla Dda per 140 persone. Ne parliamo con l'ex magistrato Massimo Brandimarte che ci dice: «L’esigenza di arrestare preventivamente qualcuno, non si costruisce su teorie, ma su elementi di fatto, gravi ed evidenti. E’ la legge».
Il gip Perna non ha convalidato 140 arresti chiesti dalla DDA. C'è stata una rivolta mediatica e in una parte della magistratura. E' così anormale negare gli arresti?
Un GIP che respinge una richiesta di misure cautelari restrittive non è affatto un evento eccezionale, nel sistema di garanzie costituzionali. E’ fisiologia processuale. La patologia sta, al contrario, nell’alto numero di assoluzioni finali di soggetti già sottoposti a carcerazione preventiva. Un rigetto non significa che l’inchiesta è finita, ma che andrà avanti, per il momento, senza la stretta necessità di privare qualcuno della libertà. In generale, vale sempre la regola secondo cui l’affermazione della responsabilità penale e, prima ancora, l’esigenza di arrestare preventivamente qualcuno, non si costruisce su teorie, ma su elementi di fatto, gravi ed evidenti. E’ la legge. Poi, stiamo nel campo delle valutazioni ed ognuna di esse merita rispetto.
Il gip ora è sotto la mira della stampa che lo accusa di aver fatto quasi un favore alla mafia ma l'Anm tace. Dovrebbero invece prendere le sua difese?
Ogni giudice indipendente decide secondo scienza e coscienza. E’ una premessa logica ed istituzionale inderogabile. Ovviamente le critiche, da parte dell’opinione pubblica, sono sempre ammesse, visto che la Giustizia è amministrata in nome del Popolo. Ma, quando sono disgiunte dall’approfondimento storico e dalla conoscenza del sistema, finiscono per scadere nel pregiudizio e producono rumore, turbando la serenità di chi è chiamato a giudicare eventualmente in seconda battuta. La legittima preoccupazione nei confronti del fenomeno mafioso, come di qualunque altro evento criminale, non dovrebbe prevalere, emotivamente, sulla forza del diritto, quasi sacrificandola. La magistratura tutta resta un baluardo della legalità. Nessun timore, nessuna paura. Se dovessero servire interventi correttivi sul provvedimento già preso, ci sarà sempre una magistratura a riesaminare. Funziona così. Dunque, non mi pare indispensabile una presa di posizione pubblica di bandiera da parte della magistratura associata su un episodio processuale di natura fisiologica, al di là del clamore suscitato dal numero elevato di soggetti coinvolti nell’indagine.
Crede che i gip in Italia subiscano pressioni dalle procure per assecondare le loro richieste o i copia e incolla avvengono solo per mancanza di tempo?
La responsabilità di chi dispone del potere di richiedere l’arresto, cioè la magistratura requirente, non è pari a quella di chi, invece, dispone del potere diretto di arrestare, cioè la magistratura giudicante, soprattutto il gip. Il nuovo codice accusatorio ( all’americana) ha tolto il potere di arresto diretto al P. M., il quale, forse per una sorta di compensazione psicologica, ha iniziato ad esercitare il potere di richiesta più di quanto non esercitasse, una volta, il potere di arresto diretto. La realtà è che il P. M. appartiene ad un ufficio strutturato gerarchicamente e spesso procede in team. Il gip, invece, è colui che deve decidere da solo ed in solitudine, su richieste talvolta pressanti della procura, sostenute dagli organi di polizia, con uno sbilanciamento di forze evidente.
La separazione delle carriere potrebbe liberare i giudici da questa morsa?
Il coraggio morale e giuridico di chi ha il potere di richiedere un arresto non può essere pari a quello di chi deve disporlo, visto che la responsabilità finale e complessiva ricadrà su quest’ultimo. A quest’ultimo, perciò, deve essere riconosciuto, con dignità ed onestà intellettuale, il maggior peso che grava sulle sue spalle. Disporre un arresto, chiunque sia il destinatario, non è mai soltanto un esercizio di giurisprudenza, ma è sempre anche un momento di coinvolgimento di sensibilità umana. Chi si allontanasse da questa verità, perderebbe i contatti con la realtà quotidiana. Conta poco la mia opinione sull’annosa questione della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Di leggi tese a modificare il sistema processuale, in senso garantistico, se ne son fatte. Il problema resterà sempre quello della loro soggettiva interpretazione, all’interno di una normativa, che, per compromesso, finisce per affidare alla magistratura margini di discrezionalità valutativa maggiori di quanto dovuti. Diceva il ministro francese Tayellerand ai suoi funzionari: “Surtout pas trop de zèle”. Basterebbe questo!
Strage di Bologna? Criticare le sentenze è costituzionale: il passato lo dimostra. Pieremilio Sammarco, Professore Ordinario di Diritto Comparato, su Libero Quotidiano il 10 agosto 202310 agosto 2023
Le recenti dichiarazioni rese dal responsabile della comunicazione della Regione Lazio a proposito delle sue riserve sulla colpevolezza di Fioravanti, Mambro e Ciavardini quali autori della strage di Bologna, induce a riflettere sulla possibilità di criticare le sentenze ancorché definitive. È evidente che qualora vengano levate critiche in modo sistematico e senza alcun fondato motivo verso le decisioni emesse dall’autorità giudiziaria si crea una delegittimazione dell’istituzione che inficia l’intero sistema ordinamentale. Ma, al di là di queste condotte, quando le sentenze prendono in considerazione fatti storici controversi che hanno attraversato la storia del nostro paese e che hanno acceso per anni un dibattito pubblico, l’espressione della propria opinione circa la fondatezza dell’accertamento giudiziario, ivi incluso il procedimento rituale con il quale si è arrivati alla sentenza definitiva, costituisce una facoltà che rientra nell’ambito del costituzionalmente consentito.
Si pensi a vicende come l’assassinio di Aldo Moro, del commissario Calabresi, la strage di Ustica, di Erba, o l’omicidio di Chiara Poggi, di Meredith Kercher, o la morte di Davide Rossi, o la squalifica del corridore Alex Schwazer, o l’attentato a Papa Wojtyla: tutte le sentenze, sebbene definitive, hanno lati oscuri e incertezze e sono oggetto di continui approfondimenti, dibattiti, diretti a generare il dubbio sull’esito corretto o completo degli accertamenti giudiziari. Ciò rappresenta l’esercizio della libertà di espressione che peraltro costituisce anche un controllo sull’operato di un pubblico potere, soggetto, come tutti gli altri, a valutazioni critiche e giudizi, purché essi siano fondati su argomentazioni solide, logiche, documentabili ed espresse senza alcun intento denigratorio verso l’autorità giudiziaria. Se resa in questo modo, la critica contribuisce ad arricchire il dibattito pubblico e non può essere interpretata come un attacco alla magistratura ed alla sua indipendenza, o peggio ancora, percepita come lesa maestà.
Del resto, perfino la magistratura, attraverso le sue varie componenti associative, ha riconosciuto tali principi. Si pensi al recente caso della condanna giudiziaria dell’allora Sindaco di Riace amato dalla sinistra, Mimmo Lucano, che ha generato aspre critiche alla sentenza, perfino prima ancora che venissero depositate le motivazioni: la magistratura nelle sue componenti associative ha avallato le disapprovazioni da più parti mosse; ad esempio, un alto esponente di Magistratura Democratica pubblicava sul quotidiano il manifesto un articolo dal titolo «Criticare la sentenza non è lesa maestà» nel quale si legge: «la soggezione delle attività giudiziarie alla critica dell’opinione pubblica rappresenta una delle principali garanzie di controllo sul funzionamento della giustizia.
Ma vi è di più. A quanti, specie all’interno della magistratura, oppongono preconcette chiusure verso la critica pubblica ai provvedimenti giudiziari, occorrerebbe replicare ribaltando l’argomento dell’attacco alla indipendenza del giudiziario, evocato spesso in occasioni simili: ricordando, più in particolare, che il controllo dell’opinione pubblica sulle attività giudiziarie è un fattore essenziale non soltanto di responsabilizzazione democratica per i cittadini, ma anche di educazione dei giudici ad un costume di indipendenza». Magistratura Indipendente diffondeva un comunicato in cui si legge: «nello stato di diritto la magistratura rende conto all’opinione pubblica delle sue decisioni attraverso le motivazioni, che possono essere lette da tutti, criticate, e, ovviamente, impugnate, ma che devono essere il punto di partenza di ogni discussione». Pieremilio Sammarco
Il caso de Angelis. Ecco perché la giustizia non è uguale per tutti. Iuri Maria Prado su L'Unità l'8 Agosto 2023
“Quante condanne ho visto, più criminali del crimine” (Montaigne)
Ci sono molti punti di vista dai quali osservare l’evoluzione del discorso pubblico di questi giorni a proposito della strage di Bologna: un discorso che era cominciato stortignaccolo già prima delle polemiche che lo avrebbero rinvigorito – si fa per dire – sulla scorta delle dichiarazioni innocentiste di un amministratore di destra, quel Marcello de Angelis secondo cui Fioravanti, Mambro e Ciavardini, condannati per la strage, a suo giudizio “non c’entrano nulla” con l’attentato del 2 agosto del 1980.
E tra i tanti punti di vista (quello sociologico, quello storico, quello elettoral-rissaiolo, quello del corazziere quirinalizio, quello talmudico-giudiziario) sceglieremmo quelli desueti: il punto di vista da questa postazione un po’ strana che è lo Stato di diritto; e poi il punto di vista democratico.
Dal punto di vista dello Stato di diritto la legge è un fatto, ed è un fatto la sentenza che – bene o male, secondo il giudizio di ciascuno – la applica. La giustizia non è un fatto: è un valore. Un valore per definizione mutevole, appunto secondo il criterio di ciascuno. Per questo dietro alle spalle del giudice è scritto il fatto: “La legge è uguale per tutti”; e non il valore, cioè “La giustizia è uguale per tutti”. Perché non esiste una giustizia uguale per tutti, e se pretendesse di esistere non sarebbe giustizia ma arbitrio.
Ora, lo Stato di diritto obbliga al rispetto delle leggi e delle sentenze per il fatto che esse sono emesse: non per il fatto che esse sono giuste, perché ciò che è giusto per uno non è giusto per un altro. E quel rispetto non risiede nell’omaggio alla giustizia della legge o della sentenza, né tanto meno nell’obbligo di omaggiarle. Risiede nel dovere di riconoscere quel fatto (la legge, la sentenza) e di rispettarne il contenuto in questo solo senso: nel senso che non va travisato, non certo nel senso che va condiviso.
La sentenza che condannasse il delitto di omicidio commesso da un comunista non sarebbe – se non diventando un atto arbitrario – una sentenza anticomunista; e non sarebbe un sovversivo comunista chi denunciasse che non debbono esistere sentenze anticomuniste: sarebbe un ordinario osservatore dal punto di vista dello Stato di diritto, almeno sino a che l’ordinamento non preveda il delitto di omicidio comunista.
E semmai lo prevedesse (eccoci al secondo punto di vista, l’altrettanto desueto punto di vista democratico) quell’ordinamento cesserebbe di essere, giustappunto, democratico.
Uno può essere spinto al nocumento altrui, o comunque rendersene responsabile, in quanto fascista, comunista, ecologista, liberista, familista, sovranista, monarchico, gnostico, eretico, deista, ateista: ma lo Stato democratico lo condanna per il nocumento che arreca agli altri, non per i suoi convincimenti né per la sua condizione o predilezione politico-religiosa.
Né ancora in uno Stato democratico esiste un’autorità con il potere di richiamare chicchessia al dovere di “rispettare” una sentenza in quel senso democraticamente vietato: e cioè nel senso di ritenerla giusta e indiscutibile, perché “Spetta non soltanto ai giureconsulti ma agli uomini tutti affermare in coscienza se non ritengano che lo spirito della legge in quell’occasione sia stato alterato” (Voltaire). E pericolosamente, invece, molto pericolosamente, lo Stato democratico destituisce sé stesso quando qualcuno si lascia andare o è istigato ad assumere quell’autorità, trasformando il proprio ufficio istituzionale in un sacerdozio che non ha nulla a che fare con la legge uguale per tutti, questo “fatto” che obbliga tutti e che bisogna rispettare nella misura in cui (e solo in questa misura) obbliga tutti: e prende piuttosto a maneggiare, “anti” qualcosa o “pro” qualcos’altro, la giustizia, questo “valore” in nome del quale l’umanità si è macchiata dei delitti più atroci e le società umane si sono involute nei più terribili autoritarismi. Iuri Maria Prado 8 Agosto 2023
Simboli, figure, allegorie. Le forme della giustizia nell’arte. Al Museo Correr di Venezia la mostra “Imago Iustistiae. Capolavori attraverso i secoli” che resterà aperta al pubblico fino al prossimo 3 settembre. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 21 giugno 2023
La giustizia contemporanea ha la forma di una telecamera di sorveglianza scavata nel marmo. La vede così Ai Weiwei, l’artista cinese dissidente che ha realizzato la sua Surveillance Camera dopo aver passato 81 giorni in prigione, confinato in una località segreta. La sua opera è una delle tre che la Fondazione Berengo ha prestato al Museo Correr di Venezia per la mostra “Imago Iustistiae. Capolavori attraverso i secoli” a cura di Marina Mattei, che resterà aperta al pubblico fino al 3 settembre 2023.
Quello di Ai Weiwei è il punto di arrivo: con lui l’occhio bendato della Giustizia non è più simbolo di imparzialità, come non lo era neanche in origine. Nella storia dell’arte la benda è arrivata solo dopo la bilancia e la spada, e non per sottolineare una virtù: la giustizia che non fa distinzioni è «un’elucubrazione umanistica assai recente», secondo lo storico dell’arte Erwin Panofsky. Prima del 1500 invece la benda è segno di sfiducia e disaffezione, una giustizia cieca per rabbia che “non guarda in faccia nessuno”, come scrive Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River.
Niente a che vedere con La Giustizia di Giorgio Vasari, dipinta dall’artista durante il soggiorno veneziano di metà ‘500. C’è una donna che si volta di spalle, forse in segno di imparzialità. Alla sua sinistra ci sono due magistrati romani con i fasci littori che personificano la giustizia militare, alla destra un’immagine incoronata, Salomone o Traiano. In questo caso la giustizia sfila come virtù sotto gli occhi di chi visita, ma nella mostra di Venezia l’iconografia attraversa i secoli cambiando forma, supporto e significato.
Le sei sezioni che compongono l’allestimento percorrono la rappresentazione della giustizia nell’arte dagli albori della civiltà fino all’età moderna. Si parte da reperti archeologici, monete e medaglie. Si passa alle opere su carta, legno, tela e tavola. Ci sono i lavori di Guercino - con la sua tela Allegorie della Giustizia e della Pace -, Andrea Del Sarto, Matini, Nani, Reni, Sansorvino, Maccari e un bulino di Raffaello. Da personificazione e allegoria della stessa città di Venezia, la Giustizia lascia il posto ai simboli che la rendono unica e riconoscibile. Per prima la bilancia, il più antico degli attributi, che risale al cerimoniale della dea egizia Maat: la “pesatura del cuore” o “pesatura dell’anima” a cui veniva sottoposto il defunto prima di poter accedere all’aldilà. Perfetta espressione di equilibrio e armonia, la bilancia sta solitamente nella mano sinistra. Nella destra invece la Giustizia impugna la spada: è il potere del giudizio, il mezzo per comminare la pena. Entrambi i simboli tornano ne La Giustizia Corporativa, un grande altorilievo realizzato da Arturo Martini nel 1937 per il Palazzo di Giustizia di Milano e qui riproposto in dimensioni ridotte. Si tratta di una figura ieratica, una Giustizia che «non guarda nessuno e vede tutto, mentre l’umanità sogna e lavora, medita e s’affanna, lotta ed ama, attorno al tronco su cui ella è seduta, dell’albero della scienza, del bene e del male», dice Riccardo Bacchelli nel 1937. Già per Aulo Gellio, giurista e scrittore latino del II secolo d.C, la giustizia è una giovane donna dall’aspetto solenne e severo, «vergine poiché incorruttibile, volitiva poiché non conosce cedimenti, austera poiché non lascia spazio a preghiere o lusinghe, temibile poiché nemica implacabile con chi sceglie di non rispettarla».
Ma espressione della giustizia sono anche i luoghi costruiti per praticarla e amministrarla, gli schemi decorativi che ricorrono nel tempo per celebrarla, e le azioni volte al raggiungimento del suo scopo. È il caso della sezione V, dove la figura di Cesare Beccaria riassume l’attività di intellettuali, giuristi e letterati che si sono battuti per l’abolizione della pena di morte. Il percorso della mostra inizia dalla sala della Biblioteca Pisani del Museo Correr, le cui pareti sono interamente rivestite da librerie in radica di olmo e ospitano pregiate edizioni storiche. E si chiude “con una serie di scene che mostrano atti e protagonisti di Giustizia, immortalati come eroi e santi”.
L’antico diventa contemporaneo con l’opera dell’artista belga Koen Vanmechelen, che con Socrates Temptation scolpisce nel marmo le tribolazioni del filosofo greco, affiancato da un Ibis: l’uccello venerato come simbolo del dio Thot, divinità del Sapere nell’Antico Egitto.
In Cardiac Arrest, l’artista sudafricano Kendell Geers arrangia in forma di cuore dei manganelli di vetro, duplicati al centro della figura per formare delle croci: sono simboli fragili e potenti, violenti e protettivi. In cerca di equilibrio, come lo è da sempre la Giustizia, che si trasforma nei secoli ma non smette di cercare l’armonia. «Per chi è accusato è meglio muoversi che star fermi, perché quello che sta fermo può trovarsi su una bilancia ed essere pesato con tutti i suoi peccati», scrive Kafka ne Il processo. Alla Giustizia, invece, spetta il trono.
Condono è proprio quello che è: la concessione di un bel regalo. Storia di Paolo Fallai Corriere della Sera il 25 luglio 2023.
L’uso delle parole non è mai neutro. Alcune vengono penalizzate perché il significato che hanno assunto è considerato offensivo. Altre vengono in qualche modo oscurate, sostituite da perifrasi, perché la nuova definizione appare più elegante o moderna, oppure perché la loro chiarezza potrebbe essere considerata in qualche modo eccessiva. Pensiamo all’evoluzione da spazzino a «operatore ecologico». Il record è «provvisorio». Una delle locuzioni più interessanti da questo punto di vista è «lavoro interinale». Nobile origine per una espressione perfetta, altisonante e vagamente oscura, che deriva dall’espressione latina «ad interim». Sì, la stessa che usiamo quando, ad esempio, si dimette un ministro del governo (qualche volta succede) e il presidente del consiglio in attesa della nomina del successore, assume le deleghe e le sue competenze «ad interim». Che vuol dire semplicemente “provvisorio”. Ma vedete l’effetto che fa «lavoro interinale» in confronto a «lavoro provvisorio». Sempre di lavoro precario si tratta, ma vuoi mettere? Sempre da un verbo latino. Quindi ricapitolando, molte parole hanno una origine oscura, una etimologia incerta e sono figlie di quella fabbrica continuamente al lavoro che è ogni lingua. Quella che esaminiamo questa settimana, condono, ha invece un’origine semplicissima che esaurisce il suo significato. Deriva infatti da «condonare», composto da «con-» e «donare». Il significato non potrebbe essere più chiaro: «concedere un dono», fare un regalo, omaggiare. Con una definizione più precisa: liberare dall’obbligo di scontare una pena, di pagare una sanzione, di restituire un debito. Ridurre una pena. Per questo uno dei significati più importanti di questa parola è proprio giudiziario. L’articolo 174 del Codice Penale recita: «L’indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna». Mentre la grazia è decisa dal Presidente della Repubblica e riguarda un singolo individuo, l’indulto è un atto che riguarda tutti i condannati. È un provvedimento di clemenza adottato dal Parlamento con una maggioranza di due terzi. Ridurre i debiti, soprattutto fiscali. Ma il condono entra nel linguaggio corrente del nostro tempo soprattutto quando è associato alle tasse. Di condoni fiscali è piena la storia, come vedremo, e quella italiana non fa eccezione. Si tratta di un provvedimento approvato dal Parlamento che consente ai contribuenti che hanno un debito col Fisco di sanare la propria posizione pagando una cifra che viene stabilita. Sarebbe un provvedimento straordinario, ma bisognerebbe intendersi su cosa significa straordinario, vista la ordinaria regolarità con cui è stato adottato e che costringe anche noi a ritornare su questa parola. Una precisazione da brividi. È quella che definisce il condono «tombale»: viene usata quando a un contribuente è concesso di sanare completamente la sua posizione tributaria, ovvero regolarizzare in modo definitivo il suo rapporto con il fisco. Ma anche per il condono la preoccupazione di adottare locuzioni meno impegnative e possibilmente meno chiare, ha impegnato la fantasia e la creatività dei promotori. Un precedente imperiale. Il 9 agosto dell’anno 117, Adriano venne nominato imperatore alla morte del predecessore Traiano, che lo aveva opportunamente adottato, nominandolo di fatto successore. Adriano arrivò a Roma solo nel luglio del 118. Per ingraziarsi i sudditi condonò tutti i debiti per tasse non pagate. Condonò totalmente per l’Italia e in parte per le Province la tassa d’omaggio al nuovo imperatore (detta «aureum coronarium»). Per molti studiosi si tratta del più grande condono della storia. Il disastro edilizio. Esiste poi un terzo elemento che ha accompagnato la nostra storia recente: il condono edilizio. Questo provvedimento adottato dal Parlamento, permette al cittadino di sanare irregolarità nella costruzione o nella ristrutturazione di un edificio, pagando una cifra a sanatoria. Spesso evitando in questo modo le conseguenze della costruzione abusiva che secondo la legge arrivano fino alla sua demolizione. Uno per decennio. Secondo una ricostruzione pubblicata dal Corriere della Sera nel 2005, si conta un condono edilizio per decennio. «Si è cominciato nel 1973, governo di Mariano Rumor. Per replicare nel 1985, governo di Bettino Craxi. Una nuova sanatoria edilizia è stata poi fatta nel 1994, governo di Silvio Berlusconi. E si è quindi arrivati nel 2003 al quarto condono in trent’ anni, targato ancora Berlusconi». Il caso emblematico di Roma. Per avere un’idea dell’impatto sociale di questi condoni, riprendiamo alcune cifre sulla situazione nella Capitale pubblicate sempre sul Corriere della Sera nel luglio 2018 in un articolo del collega Andrea Arzilli, sono numeri che non hanno bisogno di spiegazioni. «Trentotto anni per smaltire l’ultimo condono. L’ultimo romano, che ha approfittato della legge 326 del 2003 per mettere in regola veranda o garage, si vedrà rilasciare il permesso in sanatoria nel 2056: a conti fatti dovrà pazientare in tutto 53 anni. Da nonno a nipote, insomma. Tutto questo se l’Ufficio condoni prosegue all’attuale velocità per lo smaltimento di pratiche (dal valore di un miliardo). Le domande arrivate in 33 anni al Comune sono 599.793 - record italiano dopo i tre condoni nazionali del 1985 (legge n. 74), del 1994 (n. 724) e del 2003 (n. 326). E al momento ne restano 190 mila in fase (permanente) di istruttoria: gli uffici riescono a lavorare appena 5 mila domande l’anno». Scriveva Giuseppe Prezzolini nel 1921. Nel suo «Codice della vita italiana» alcuni dei primi articoli sembrano eterni. Articolo 1: « I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi». Articolo 10: « L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi che non fanno nulla, spendono e se la godono». Articolo 16: «L’Italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno». Conclusione divagante. Vittima dei nuovi sbalzi climatici e delle antiche tradizioni estive, anche questa rubrica si «condona» alcune puntate agostane. Tornerà, come ogni condono che si rispetti, prestissimo: a settembre.
I Numeri.
Le Testimonianze.
Il reato che fa flop: su 5.418 processi solo 27 condanne. Stefano Zurlo il 19 Maggio 2023 su Il Giornale.
I dati sono impressionanti: "Nel 2017, 6.500 procedimenti finiti in nulla salvo che in 57 casi. Il 97% di assoluzioni". L'Anci: "Bisogna intervenire". Ma il Carroccio adesso frena.
I numeri non mentono. Nel 2017 in Italia sono stati avviati 6500 procedimenti per abuso d'ufficio. Ma solo 57 volte si è arrivati a una condanna definitiva. Una percentuale bassissima. Il dossier presentato ieri dall'ex ministro Enrico Costa in parlamento parla con le tabelle più che con i discorsi. L'abuso d'ufficio insomma non funziona e provoca danni maggiori di quelli che vorrebbe risolvere: migliaia di faldoni aperti dalle procure del Paese, ingenti spese legali, anni di attesa e poi quasi sempre la scoperta della non colpevolezza. Ma il prezzo che l'Italia paga è troppo alto: la cosiddetta paralisi della firma, anzitutto, che blocca delibere e atti amministrativi di cui nessuno si vuole prendere la responsabilità nel timore di denunce e indagini; poi le inchieste lentissime che tengono gli indagati nel limbo per periodi interminabili, costringendoli a pagare gli avvocati prima di arrivare ad una conclusione che, il 97 per cento delle volte, è di assoluzione.
Costa non ha dubbi, mostra le famigerate tabelle che certificano il fallimento dell'articolo 323 del codice penale e presenta una proposta di legge per abolire il reato che azzoppa i sindaci ma non tutela le legalità.
Le cifre sono appunto imbarazzanti: migliaia di procedimenti avviati ogni anno per arrivare a un pugno di condanne o patteggiamenti. E dunque il deputato di Azione chiede di eliminare dal nostro codice l'illecito penale sostituendolo con una sanzione amministrativa. Il tutto mentre in Commissione giustizia alla Camera si susseguono le audizioni degli esperti. L'idea prevalente è che si andrà ad una rimodulazione, questo il termine usato, del reato perché Giulia Bongiorno e la Lega non ne vogliono sapere di una eventuale cancellazione, dunque il Governo sta cercando una difficile mediazione fra le diverse anime della maggioranza, quella più sensibile alle garanzie e l'altra, più attenta alle pene.
Le opposizioni fanno la loro parte e lanciano l'allarme. «Dalle audizioni tenute in Commissione giustizia - affermano le deputate 5 Stelle Valentina D'Orso e Carla Giuliano - emerge che le proposte di legge del centrodestra non risolverebbero il problema della paura della firma ma al contrario colpirebbero la tutela della legalità e minerebbero i principi di rango costituzionale di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione».
Dall'altra parte il vicepresidente dell'Anci Stefano Locatelli lancia una sorta di appello perché in un modo o nell'altro si intervenga per dare uno scudo ai primi cittadini: «Oggi i sindaci sono sovraesposti, bisogna intervenire in questo settore come su altri. Solo in questo modo si potrà migliorare l'azione istituzionale e amministrativa dei primi cittadini e restituire agibilità, certezza e dignità ad un ruolo che negli anni è stato esposto ad imputazioni penali troppo spesso infondate».
Si ritorna dunque al dossier e alla fabbrica dei processi, dell'ansia e delle assoluzioni. I meccanismi vanno rivisti anche se l'ennesima riforma, in mancanza di un intervento drastico, potrebbe rivelarsi non risolutiva.
Nel 2021 si sono iniziati 5418 procedimenti, ma ancora una volta al filtro dell'udienza preliminare c'è stata la decimazione: 4465 si sono chiusi nella stanza del gup o sono finiti su un binario morto attraverso il rito abbreviato per «cause diverse dalla prescrizione», come precisato dal Ministero della giustizia.
Alla fine nello stesso anno si contano 27 condanne - nove davanti al gip e diciotto in dibattimento - e 35 patteggiamenti. Ha senso esercitare l'azione penale più di cinquemila volte per portare a casa risultati così modesti? O meglio, il gioco vale i pesi che carica sulle spalle degli amministratori? «Sull'abuso - spiega il vicepremier Matteo Salvini - stiamo lavorando con Nordio. Entro maggio la revisione arriverà in consiglio dei ministri». Il reato verrà alleggerito e circoscritto, chissà se basterà.
I numeri della vergogna. Quanto ci costano gli errori giudiziari: 547 errori e detenzioni ingiuste nel 2022 per 37 milioni di euro di risarcimenti. Angela Stella su L'Unità il 23 Maggio 2023
Resi noti da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di Errorigiudiziari.com, le nuove cifre sulle ingiuste detenzioni e errori giudiziari relativi al 2022, attraverso l’elaborazione dei dati acquisiti dal Ministero dell’Economia e della Giustizia. I “numeri della vergogna”, scrivono i due giornalisti, sono i seguenti: le vittime sia di ingiusta detenzione che di errori giudiziari dal 1991 al 31 dicembre 2022 sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno.
“Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 932 milioni 937 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 200 mila euro l’anno”. Rispetto al 2022 sono stati 547 i casi tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari (-25 rispetto all’anno precedente). In notevole crescita, invece, la spesa complessiva per indennizzi e risarcimenti: poco meno di 37 milioni e 330 mila euro, oltre 11 milioni e mezzo in più rispetto al 2021.
L’associazione mette in evidenza che nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 27 milioni 378 mila euro. Rispetto all’anno precedente, si assiste a un leggero calo dei casi di innocenti finiti in manette (-26), a fronte di una spesa che è aumentata invece di quasi 3 milioni di euro. Continua dunque la flessione già notata negli ultimi due anni. Ma, si sostiene, “è obiettivamente difficile immaginare che si tratti esclusivamente di un processo virtuoso del sistema”.
Assai più probabile per Lattanzi e Maimone, anzitutto, è “che la pandemia continui a far sentire i suoi effetti sull’attività giudiziaria a tutti i livelli, dunque anche sul lavoro delle Corti d’appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione”. Tuttavia “un discreto peso su questa tendenza al calo dei casi lo ha soprattutto quella tendenza restrittiva secondo cui lo Stato respinge la stragrande maggioranza delle domande presentate o tende comunque a liquidare importi sempre molto vicini ai minimi di legge”.
Infine, per quanto concerne le statistiche sugli errori giudiziari veri e propri, ossia quelli definiti, grazie a revisione, dopo che vi era stata una condanna definitiva, il presupposto di partenza dev’essere che la contabilità degli errori giudiziari parte in Italia dal 1991, per arrivare anch’essa fino al 31 dicembre 2022: il totale è di 222, con una media che sfiora i 7 l’anno. La spesa in risarcimenti è salita a 76.255.214 euro (pari a una media appena inferiore ai 2 milioni e 460 mila euro l’anno). Se invece consideriamo soltanto il 2022, da gennaio a dicembre gli errori giudiziari sono stati in tutto 8: uno in più rispetto all’anno precedente. Angela Stella
Il rapporto di errorigiudiziari.com: spesi più di 37 milioni in risarcimenti e indennizzi. Valentina Stella su Il Dubbio il 23 maggio 2023
Nel 2022 ci sono stati ben 547 casi tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari (-25 rispetto all’anno precedente). In notevole crescita, invece, la spesa complessiva per indennizzi e risarcimenti: poco meno di 37 milioni e 330 mila euro, oltre 11 milioni e mezzo in più rispetto al 2021. Sono queste le cifre aggiornate fornite da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di Errorigiudiziari.com, attraverso l’elaborazione dei dati acquisiti dal ministero dell’Economia e della Giustizia.
I due giornalisti li definiscono i “numeri della vergogna” soprattutto se li guardiamo in maniera complessiva dal 1991 al 31 dicembre 2022, durante i quali i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 932 milioni 937 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 200 mila euro l’anno.
Ma vediamo nel dettaglio i dati relativi allo scorso anno rispetto a quante persone sono state arrestate salvo poi essere assolte con sentenza definitiva (ingiusta detenzione) e quante quelle condannate e in seguito riconosciute innocenti dopo la revisione del processo (errore giudiziario). Si legge nel report di Errorigiudiziari.com che nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 27 milioni 378 mila euro. Rispetto all’anno precedente, si assiste a un leggero calo dei casi di innocenti finiti in manette (-26), a fronte di una spesa che è aumentata invece di quasi 3 milioni di euro. Continua dunque la flessione già notata negli ultimi due anni.
«Ma è obiettivamente difficile - commentano Maimone e Lattanzi - immaginare che si tratti esclusivamente di un processo virtuoso del sistema. Assai più probabile, anzitutto, che la pandemia continui a far sentire i suoi effetti sull’attività giudiziaria a tutti i livelli, dunque anche sul lavoro delle Corti d’Appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. Tuttavia un discreto peso su questa tendenza al calo dei casi lo ha soprattutto quella tendenza restrittiva (che abbiamo più volte segnalato) secondo cui lo Stato respinge la stragrande maggioranza delle domande presentate o tende comunque a liquidare importi sempre molto vicini ai minimi di legge».
Tra le ragioni per cui lo Stato respinge le domande troviamo: avvalersi della facoltà di non rispondere, nonostante sia un diritto riconosciuto per legge all’indagato, può essere un esempio di colpa grave che elimina il diritto all’indennizzo; avere frequentazioni poco raccomandabili; non essere stati pienamente collaborativi. Per quanto riguarda le statistiche sugli errori giudiziari veri e propri da gennaio a dicembre 2022 essi sono stati in tutto otto: uno in più rispetto all’anno precedente.
Per il secondo anno consecutivo il dato complessivo relativo agli errori giudiziari resta sotto la soglia psicologica di 10. Un occhio infine alla spesa totale in risarcimenti per errori giudiziari. Il 2022 ha visto schizzare clamorosamente questa voce di spesa: 9 milioni e 951 mila euro, oltre 7 volte in più rispetto allo scorso anno. Ma a questo proposito è corretto ricordare che i criteri di elaborazione dei risarcimenti sono molto più discrezionali e variabili rispetto a quelli fissati invece dalla legge per l’ingiusta detenzione. Come si calcola effettivamente il risarcimento per ingiusta detenzione? In realtà tale domanda non è di per sé corretta. Ce lo spiega senza l’associazione di Maimone e Lattanzi: «In caso di ingiusta detenzione, infatti, lo Stato stabilisce che nei confronti di chi l’ha subita debba essere versato un indennizzo – che tecnicamente è cosa diversa dal risarcimento – perché il danno è stato frutto di una legittima attività dell’autorità giudiziaria. Ecco perché, a differenza del risarcimento, viene determinato in base a calcoli precisi, sulla base di parametri di riferimento e con un tetto massimo».
Anzitutto, per quantificare l’importo da corrispondere in caso di ingiusta detenzione, la Corte d’Appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza o il decreto di archiviazione tiene conto di due criteri fondamentali: quantitativo, che si basa cioè sulla durata della custodia cautelare ingiustamente sofferta; qualitativo, che si fonda sulla valutazione caso per caso delle conseguenze negative derivate dalla privazione della libertà personale (per esempio i danni per la reputazione causati dalla pubblicazione sui media della notizia dell’arresto). «Il limite massimo di un indennizzo per ingiusta detenzione è fissato in 516.450,90 euro (tutti i tentativi di alzare questo tetto finora sono falliti)». In pratica ogni giorno di ingiusta detenzione vale 235,82 euro. L’ammontare di un singolo giorno trascorso agli arresti domiciliari viene invece fissato di solito nella metà: 117,91 euro.
E' il fenomeno più sottovalutato. Tre innocenti arrestati o condannati ogni giorno: gli errori giudiziari e i risarcimenti beffa dello Stato. Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone su Il Riformista il 11 Maggio 2023
Quando avrete finito di leggere questo articolo, dalle casse dell’Erario saranno usciti circa cinquecento euro per risarcimenti alle vittime di errori giudiziari. Al ritmo di 55 euro al minuto, lo Stato cerca di arginare il fenomeno dei propri cittadini arrestati o condannati da innocenti, versando loro somme di denaro il più delle volte risibili, sempre e comunque inadeguate per riparare la tragedia personale che hanno vissuto.
Il fenomeno degli errori giudiziari è il più sottovalutato, misconosciuto e trascurato problema della giustizia in Italia. Negli ultimi trent’anni ha colpito 30.231 persone, l’equivalente di un “tutto esaurito” in uno stadio di calcio di serie A come quello del Torino. Alla media di 975 casi l’anno, tutti gli anni, da un trentennio. Significa tre innocenti arrestati o condannati (e per questo risarciti dallo Stato) ogni giorno. Uno ogni otto ore.
Con tutto quello che ne consegue sia per le vittime dirette di questo scempio – sotto forma di perdita del lavoro, della reputazione, della dignità, degli affetti – sia per i familiari, condannati loro malgrado a subire l’ingiustizia. A fronte di questa emergenza, lo Stato sembra assistere imperterrito anche a un argomento che dovrebbe interessarlo ancor più direttamente, toccandolo nel portafoglio. Dal 1991 al 2021 dalle casse dell’Erario sono usciti poco meno di novecento milioni di euro in indennizzi e risarcimenti, circa 29 milioni di euro l’anno.
E il tassametro dell’ingiustizia continua a correre allo stesso ritmo. I magistrati obiettano: “Gli errori giudiziari veri e propri ogni dodici mesi si contano sulle dita di una mano”. È vero, i condannati con sentenza definitiva – e in seguito assolti dopo un processo di revisione (gli errori giudiziari in senso tecnico) -, sono in media sette all’anno. Ma poi c’è la cosiddetta “ingiusta detenzione”, che riguarda tutti quelli finiti in custodia cautelare salvo poi essere riconosciuti innocenti, e sono tanti, e sono troppi, citando Enzo Tortora. Costituiscono più del 99 per cento di quegli oltre trentamila di cui sopra. E riesce difficile non considerarli vittime di errori giudiziari solo perché non rientrano nella definizione di un codice. Un numero enorme di loro si è ritrovato con un’ordinanza di custodia cautelare sul groppone per colpa di sciatteria o superficialità investigativa, errori di interpretazione di intercettazioni, scambi di persona, dimenticanze e negligenze di ogni tipo. Se ne volete un campionario, non avete altro che da sfogliare le pagine di errorigiudiziari.com, l’archivio web che noi stessi abbiamo fondato ormai quasi vent’anni fa e che costituisce una casistica unica in Italia con i suoi oltre 870 casi di innocenti in manette.
Non tutti sono stati risarciti. Ogni anno solo il 25 per cento del totale delle istanze di riparazione per ingiusta detenzione viene accolto. Tutto il resto è respinto. Sulla base di un comma del codice di procedura penale la cui interpretazione è stata resa sempre più restrittiva, e anche in omaggio alla necessità per lo Stato di arginare la colossale spesa in risarcimenti.
Così, chi si vede respingere la domanda e sfumare i 235 euro e spiccioli per ciascun giorno di custodia cautelare in carcere (la metà in caso di domiciliari), finisce nell’esercito degli “innocenti invisibili” insieme con coloro che, usciti da una vicenda spesso lunga, non ne vogliono più sapere di aule giudiziarie e rinunciano a chiedere un indennizzo; e insieme a quelli che, avendo già speso somme altissime per difendersi, non hanno più risorse per permettersi di continuare il percorso che li porterebbe a un risarcimento. Se consideriamo tutti questi, arriveremmo ad almeno cinquantacinquemila innocenti, più o meno i residenti di una città come Trapani.
Finire arrestato o condannato da innocente può capitare a tutti. È successo al pastore sardo Melchiorre Contena, accusato di sequestro di persona e di omicidio di un imprenditore milanese. Scontò tutti e trenta gli anni di reclusione che gli erano stati inflitti: i giudici avevano dato credito alle dichiarazioni di un uomo che aveva 35 denunce sulle spalle per falsa testimonianza, simulazione di reato e furto. Contena entrò in carcere a 38 anni, ne uscì quando ne aveva 69 nel 2007. È il caso più grave mai registrato in Italia.
Secondo, ma solo per lunghezza della detenzione, fu quello di Giuseppe Gulotta. Con un interrogatorio violento fu costretto a confessare di aver partecipato all’omicidio di due carabinieri ad Alcamo Marina, vicino a Trapani. Era il gennaio 1976. Condannato all’ergastolo, ha ritrovato la libertà solo dopo aver scontato 22 anni di carcere. È stato scagionato, con un processo di revisione, grazie alle dichiarazioni di un carabiniere presente il giorno dell’arresto.
E poi c’è la surreale vicenda di Angelo Massaro, che ha passato 21 anni in una cella con l’accusa di omicidio per colpa di una consonante. In un’intercettazione una “S” diventa “T”, la parola “muers”, in dialetto tarantino oggetto ingombrante, diventa “muert”, cadavere. Un delitto mai dimostrato: mancavano il corpo, l’arma e il movente. Uno dei più gravi errori giudiziari italiani di sempre, raccontato nel recente docufilm “Peso Morto”, che abbiamo scritto e prodotto.
In cella con Massaro c’era un altro uomo accusato da innocente (dallo stesso pm) di un duplice omicidio, Domenico Morrone. Malgrado avesse un alibi confermato da più persone, fu condannato in base a testimonianze di persone che avevano motivi di rancore nei suoi confronti. Scontò 5.475 giorni in carcere, 15 anni. Fu scagionato completamente solo grazie alle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia.
Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone
Quarantacinquemila arresti nel 2022, uno su tre in carcere: azioni disciplinari verso i magistrati? Una sola, archiviata. Angela Stella su L'Unità il 26 Maggio 2023
Nell’anno 2022 sono state emesse 81.568 misure cautelari personali coercitive; di queste, 24.654 in carcere, oltre 500 in più rispetto al 2021 (erano 24.126). Diminuiscono invece i domiciliari senza braccialetto elettronico: nel 2022 sono stati 16.507 rispetto ai 18.036 del 2021. Ma crescono quelli con braccialetto: 3.357 nel 2022 rispetto ai 2.808 del 2021. Pertanto una misura cautelare coercitiva su tre emesse è quella carceraria (32%), mentre una misura cautelare coercitiva su quattro è quella degli arresti domiciliari (25%). Complessivamente sono state circa 45 mila le persone messe in custodia cautelare nel 2022.
Questi sono solo alcuni dei dati contenuti nelle 51 pagine della Relazione del Governo sullo stato di applicazione delle misure cautelari personali in Italia. La percentuale di risposta dei Tribunali (sezioni GIP e sezioni dibattimentali) interessati al monitoraggio dei dati dell’anno 2022 è stata dell’80%, con la precisazione che hanno risposto quasi tutti i 29 Tribunali distrettuali; i dati degli uffici non rispondenti sono stati stimati. Sette distretti, congiuntamente considerati, detengano più della metà del totale nazionale delle misure emesse. E sono: Roma (12%), Milano (10,6%), Napoli (9,5%), Torino (7,6%), Bologna (7,5%), Firenze (5,8%), Bari (5,8%). Un altro dato interessante mostra come i 3/4 circa delle misure vengano emessi dalle sezioni GIP, mentre solo il restante 1/4 venga emesso delle sezioni Dibattimentali. In particolare, per ciò che riguarda l’utilizzo della custodia cautelare in carcere, la differenza appare molto significativa: il GIP utilizza la misura carceraria con frequenza quasi doppia (34,7%) rispetto al giudice dibattimentale (17,6%.). Purtroppo, come sempre, seppur sollecitato, manca il dato percentuale rispetto alle richieste dei pubblici ministeri di misure cautelari e l’accoglimento da parte dei gip. Ad un certo punto si legge anche che rispetto alle misure coercitive emesse “9 misure su 10 sono state emesse in un procedimento che ha avuto poi come esito la sentenza di condanna”. Ma attenzione: quelli sono i definiti nel 2022 che hanno avuto misure nel 2022. Sono per la maggior parte patteggiamenti, direttissime e immediati. E gli altri? Che destino hanno avuto negli anni successivi?
Il secondo capitolo della Relazione è dedicato alla riparazione per ingiusta detenzione. I distretti più significativi quanto ad entità numerica di richieste sono quelli di Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Roma. Nel 2022 su 1.180 domande per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione, ne sono state respinte il 52% ed accolte 556 (irrevocabili 482). Record di accoglimenti nel distretto di Reggio Calabria (103). “Finalmente il ministero della Giustizia ha reso noti i dati ufficiali delle ordinanze di custodia cautelare emesse nel 2022 e delle somme sborsate dal Mef per le ingiuste detenzioni”, ha commentato il responsabile giustizia di Azione, l’onorevole Enrico Costa che li aveva sollecitati più volte. “Quanto ai pagamenti, lo Stato nel solo 2022 ha pagato 539 casi per un totale di 27.378.085 euro, di cui oltre 10 milioni solo nel distretto di Reggio Calabria”. Nella relazione c’è poi scritto che “il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione – così come, del resto, del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario di cui all’art. 643 c.p.p. – non possa essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto”. “Nel 2022 – chiede sarcasticamente Costa – quante iniziative disciplinari per emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale con negligenza grave e inescusabile? 1 (una). Esito? Non doversi procedere”, critica alla fine il parlamentare. Angela Stella
Indennizzi e risarcimenti: quanto vale ogni giorno di galera ingiusta. Angela Stella su L'Unità l'11 Giugno 2023
Il diritto per un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente è stato introdotto con il codice di procedura penale del 1988 ed è in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione dei diritti dell’uomo (cfr. art 5, comma 5, C.E.D.U.). La materia è regolata dagli articoli 314 e 315 del cpp, modificati nel tempo da quattro sentenze della Corte Costituzionale. Ma come si calcola effettivamente il risarcimento per ingiusta detenzione? Ce lo spiega senza l’associazione di Maimone e Lattanzi, Errorigiudiziari.com.
In realtà, domandarsi come si calcola il risarcimento, nel caso dell’ingiusta detenzione, non è di per sé corretto. “In caso di ingiusta detenzione, infatti, lo Stato stabilisce che nei confronti di chi l’ha subita debba essere versato un indennizzo – che tecnicamente è cosa diversa dal risarcimento – perché il danno è stato frutto di una legittima attività dell’autorità giudiziaria. Ecco perché, a differenza del risarcimento, viene determinato in base a calcoli precisi, sulla base di parametri di riferimento e con un tetto massimo”.
Anzitutto, per quantificare l’importo da corrispondere in caso di ingiusta detenzione, la Corte d’Appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza o il decreto di archiviazione tiene conto di due criteri fondamentali: quantitativo, che si basa cioè sulla durata della custodia cautelare ingiustamente sofferta; qualitativo, che si fonda sulla valutazione caso per caso delle conseguenze negative derivate dalla privazione della libertà personale (per esempio i danni per la reputazione causati dalla pubblicazione sui media della notizia dell’arresto). “Il limite massimo di un indennizzo per ingiusta detenzione è fissato in 516.450,90 euro (tutti i tentativi di alzare questo tetto finora sono falliti)”. In pratica ogni giorno di ingiusta detenzione vale 235,82 euro. L’ammontare di un singolo giorno trascorso agli arresti domiciliari viene invece fissato di solito nella metà: 117,91 euro.
Rimanendo nell’ambito degli assolti, ricordiamo che a gennaio dello scorso anno l’ex Ministro della Giustizia Marta Cartabia di concerto con l’ex Ministro dell’economia e delle finanze Daniele Franco emanarono un decreto che definisce finalmente i criteri e le modalità di erogazione del Fondo per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti. L’iniziativa è nata su impulso dell’onorevole di Azione Enrico Costa.
Si legge nel decreto che i soggetti che vi possono accedere sono quelli destinatari di una sentenza di assoluzione definitiva pronunciata perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, escluso il caso in cui quest’ultima pronuncia sia intervenuta a seguito della depenalizzazione dei fatti oggetto dell’imputazione.
Il rimborso è riconosciuto nel limite massimo di 10.500 euro, ripartito in tre quote annuali, a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. Il richiedente può presentare istanza di accesso al fondo esclusivamente tramite apposita piattaforma telematica accessibile dal sito giustizia.it.
Angela Stella 11 Giugno 2023
Il crac della giustizia. Innocenti in carcere, ogni anno mille detenuti vittime di malagiustizia. Quarant’anni fa l’arresto del celebre giornalista e presentatore. Un caso di “macelleria giudiziaria” che però ha insegnato ben poco se ogni anno, negli ultimi trenta, circa mille cittadini in Italia sono stati riconosciuti come vittime di malagiustizia. Angela Stella su L'Unità l'11 Giugno 2023
Quando si parla di Enzo Tortora si è soliti ricordare la sua vicenda processuale come un errore giudiziario. In realtà, tecnicamente, il noto presentatore ha subìto una ingiusta detenzione (è il caso di una persona privata della libertà personale salvo poi essere assolta con sentenza definitiva) ma non è stato vittima di un errore giudiziario (persona condannata con sentenza passata in giudicato e in seguito riconosciuta innocente dopo la revisione del processo).
Fatta questa premessa di ordine tecnico è chiaro che quella vicenda, che Giorgio Bocca definì “il più grande esempio di macelleria giudiziaria del nostro Paese”, possa naturalmente appellarsi con errore/orrore giudiziario perché si trattò di un processo che non sarebbe mai dovuto iniziare. Né Tortora né i suoi eredi ottennero mai un indennizzo per i giorni trascorsi tra carcere (210) e arresti domiciliari (61).
I NUMERI
Purtroppo Tortora è uno dei tanti finiti in carcere ingiustamente. Come evidenzia il sito dell’associazione Errorigiudiziari.com, fondata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, tra ingiuste detenzioni e errori giudiziari in senso stretto “dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 932 milioni 937 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 200 mila euro l’anno”. L’associazione mette in evidenza che nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 27 milioni 378 mila euro.
Rispetto all’anno precedente, si assiste a un leggero calo dei casi di innocenti finiti in manette (-26), a fronte di una spesa che è aumentata invece di quasi 3 milioni di euro. Continua dunque la flessione già notata negli ultimi due anni. Ma, si sostiene, “è obiettivamente difficile immaginare che si tratti esclusivamente di un processo virtuoso del sistema”. Assai più probabile per Lattanzi e Maimone, anzitutto, è “che la pandemia continui a far sentire i suoi effetti sull’attività giudiziaria a tutti i livelli, dunque anche sul lavoro delle Corti d’appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione”.
Tuttavia “un discreto peso su questa tendenza al calo dei casi lo ha soprattutto quella tendenza restrittiva secondo cui lo Stato respinge la stragrande maggioranza delle domande presentate o tende comunque a liquidare importi sempre molto vicini ai minimi di legge”. Nel 2022 per quanto concerne gli errori giudiziari da gennaio a dicembre sono stati in tutto 8: uno in più rispetto all’anno precedente.
LE STORIE
Ricordiamo alcune delle vicende più emblematiche, alcune tratte proprio dall’archivio di Errorigiudiziari.com. Giuseppe Gulotta ha trascorso 22 anni, ossia 8030 giorni, in carcere da innocente. Il suo è forse il più grande errore giudiziario della storia italiana. Tutto ha inizio il 27 gennaio 1976 quando due carabinieri – Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta – vengono trucidati mentre dormono nella caserma di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Giuseppe aveva poco più di diciotto anni, lavorava come muratore e non immaginava la tragedia che di lì a poco lo avrebbe travolto.
Uno dei principali indiziati per l’omicidio fa il suo nome. L’uomo fu posto in stato di fermo e, in assenza di un avvocato, venne sottoposto a torture e sevizie al punto da confessare un reato che non aveva commesso. Quando giunse finalmente davanti al magistrato, ritrattò la confessione ma ormai era troppo tardi. Nessuno gli credette. Dopo ben 8 processi, che ora lo assolsero ora lo condannarono, gli fu comminato l’ergastolo nel 1990. Ventidue anni dopo, il 13 febbraio 2012, Giuseppe, assistito dai legali Pardo Cellini e Baldassare Lauria, è stato assolto con formula piena, dopo la revisione del processo. I giudici hanno stabilito che la confessione venne estorta e gli venne riconosciuto un risarcimento di sei milioni e mezzo di euro.
Fu possibile riaprire caso grazie ad un ex brigadiere che raccontò come effettivamente erano andati i fatti: l’uomo che aveva accusato ingiustamente Gulotta subito dopo l’arresto venne portato presso una casermetta di campagna e sottoposto a torture terribili. Bendato, fu costretto a ingerire enormi quantitativi di acqua e sale, con l’ausilio di un imbuto mentre lo stesso veniva schiacciato fra due piani di legno. Subì anche scariche elettriche. Dopo arrivò la chiamata in correità per Gulotta.
Poi c’è Angelo Massaro, arrestato il 15 maggio del 1996 e accusato ingiustamente dell’omicidio del suo miglior amico, ha passato 21 anni in carcere. L’uomo finisce nel drammatico buio delle carceri a causa di una intercettazione telefonica trascritta male e interpretata peggio (una “t” al posto di una “s”): parlando con sua moglie, diceva che sarebbe rientrato tardi perché doveva trasportare “umuors”, che in dialetto tarantino fa riferimento ad un oggetto ingombrante, un “peso morto”, nel caso specifico un attrezzo per lavorare la terra.
Nella trascrizione diventerà “umuort”, il morto. E da quel momento resterà schiacciato da una mala giustizia. Quando è entrato in carcere aveva 29 anni, si era sposato da poco e aveva un bambino appena nato. Solo grazie alla revisione del processo è tornato un uomo libero. Ha fatto richiesta di risarcimento. Oggi la sua storia si può vedere raccontata nel documentario Peso morto (regia di Francesco Del Grosso, produzione esecutiva di Black Rock Film).
E che dire dell’incredibile storia di Giovanni De Luise, incensurato, condannato per uno scambio di persona? Nel 2004, il giovane napoletano, 22 anni, viene condannato in via definitiva a 22 anni di prigione come killer di Massimo Marino, mentre si stava svolgendo una faida a Scampia tra vari gruppi camorristici. Nonostante diversi pentiti abbiano detto che non era stato lui, non gli fu concessa la revisione in quanto le dichiarazioni dei pentiti erano “de relato”: i due cioè non avevano partecipato in prima persona all’omicidio. La svolta avvenne nel 2013 quando il vero assassino confessò il delitto. Ha fatto richiesta di risarcimento.
Luigi Vittorio Colitti non era neanche maggiorenne quando fu accusato di aver aiutato il nonno a uccidere il vicino di casa. Ha passato in carcere 14 mesi e sostenuto due processi, prima di essere prosciolto definitivamente. Per i mesi trascorsi ingiustamente carcere ha sviluppato, come ha accertato una perizia medica, “un disturbo post traumatico da stress di grado severo, attualmente in fase cronica”. Nonostante questo si è visto negare un risarcimento di 500 mila euro per l’ingiusta detenzione subita.
Raffaele Sollecito aveva 23 anni quando per lui si sono aperte le porte del carcere: era il 6 novembre 2007 e vi è rimasto fino al 3 ottobre 2011. Mancava una settimana alla laurea e invece la sua vita fu stravolta in un attimo: sbattuto in prima pagina insieme alla sua fidanzatina dell’epoca, Amanda Knox, venne dipinto come il mostro che aveva sgozzato la studentessa inglese Meredith Kercher per un gioco erotico finito male. Sei mesi di isolamento, quattro anni di carcere, cinque gradi di giudizio per determinare la sua completa estraneità ai fatti. Il 27 marzo 2015 la Corte di Cassazione lo assolve definitivamente “per non aver commesso il fatto”. Anche a Sollecito è stato negato il risarcimento perché secondo i giudici sarebbe stato lui ad indurre in errore gli investigatori.
Diego Olivieri, imprenditore di pellami, finisce in carcere incastrato dalle dichiarazioni di un pentito che lo accusa di narcotraffico in collaborazione con la mafia. Passa 12 mesi in cella al regime del 41 bis in attesa di giudizio, nella sezione di massima sicurezza con gli ergastolani. Dopo 5 anni, assolto con formula piena in tre diversi processi “perché il fatto non sussiste”. La Corte d’Appello di Roma ha respinto la richiesta di indennizzo, non ravvisando alcuna colpa grave nell’emissione del provvedimento cautelare. L’uomo si è rivolto alla Cedu.
Non possiamo dimenticare la storia di Daniele Barillà, condannato ingiustamente a 15 anni di carcere. Ha trascorso 7 anni e mezzo dietro le sbarre da innocente. La sua unica colpa è stata di avere una macchina identica a quella di un trafficante di cocaina che i carabinieri stavano pedinando. Barillà era finito in prigione nell’ambito dell’operazione “Pantera”, avvenuta nel febbraio del ‘92, in cui erano stati sequestrati 288 chili di cocaina, condotta dai carabinieri del Ros di Genova. Barillà fu arrestato mentre, alla guida di una Fiat Tipo rossa, viaggiava dietro una Fiat Uno di un boss milanese, sulla quale si trovavano 50 chili di cocaina che doveva essere trasportata a Nova Milanese. Ha ottenuto un risarcimento di circa 3 milioni di euro.
Più recente la storia di Marco Sorbara, Consigliere regionale della Valle d’Aosta, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa solo perché conosceva un presunto ndranghetista che è calabrese come lui. Quattro anni di processi, con oltre due anni e mezzo di custodia cautelare (214 giorni in carcere, di cui 45 in isolamento, e 695 ai domiciliari), prima di vedere acclarata la sua innocenza. Ha fatto richiesta di risarcimento. All’ultimo Salone internazionale del Libro di Torino ha riprodotto la cella dove ha trascorso l’isolamento, facendo trascorrere, a chi era interessato alla sua storia, 5 minuti all’interno senza telefonino per immaginare lontanamente cosa avesse passato.
Anthony Fusi Mantegazza, 23 anni, è stato assolto a marzo di quest’anno dall’accusa di aver stuprato, insieme ad un amico, una giovane sul treno della linea ferroviaria Milano-Varese la sera del 3 dicembre 2021. Ha trascorso in carcere 457 giorni da innocente.
Il tunisino Mohammed Nasreddine finisce in carcere con l’accusa di aver aggredito un connazionale in un centro d’accoglienza per impossessarsi di un telefonino. Ma il vero responsabile non era lui. 330 giorni in carcere risarciti con 75 mila euro.
Soprattutto i tifosi juventini ricorderanno la storia di Michele Padovano. Con i bianconeri vinse anche una Champions League. Nel maggio 2006 venne arrestato con l’accusa di essere un trafficante di droga. Nell’ottobre 2011 il pubblico ministero chiese per Padovano 24 anni di carcere: il successivo dicembre il tribunale lo condannò in primo grado alla pena di 8 anni e 8 mesi di reclusione, ridotti a 6 anni e 8 mesi in appello. La Cassazione annullò con rinvio. E poi è stato assolto definitivamente nell’appello bis quest’anno. È stato in carcere da innocente 90 giorni, 270 ai domiciliari.
Potremmo continuare a riempire pagine e pagine ma concludiamo con una domanda: naturalmente, perfezione pretenderebbe che l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione non si verificassero mai. Ciò molto probabilmente è umanamente e obiettivamente impossibile. Ma fin dove esso è fisiologico e poi comincia a divenire patologico? Qual è il confine entro cui si mantengono applicate le garanzie costituzionali? Da che punto in poi si trasforma in una stortura del sistema? Francesco Carnelutti, insigne giurista e accademico, una volta disse: “La sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario”. Molti magistrati non la penseranno così. Angela Stella 11 Giugno 2023
Assuefatti all’errore. Il caso Zuncheddu racconta la giustizia italiana più di un’enciclopedia. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 2 Dicembre 2023
L’allevatore sardo ha passato in carcere più di trent’anni per crimini che non ha commesso, a causa di accuse improbabili e di testimonianze quanto meno fragili. Oggi ancora non sappiamo se sia davvero innocente, ma nessuno dovrebbe essere condannato senza prove, eppure succede
Ora che la vicenda di Beniamino Zuncheddu pare procedere verso una soluzione di tardiva salvezza vale la pena di farne una ricognizione. Perché ora se ne parla sulla scorta degli ultimi sviluppi giudiziari del caso, ma sono antichi i fatti che dall’inizio lo contrassegnavano in modo tanto evidente quanto trascurato.
Zuncheddu era stato condannato alla pena dell’ergastolo, e ha passato in carcere più di trent’anni, per essere stato riconosciuto responsabile dell’omicidio di tre persone e del tentato omicidio di un’altra, nel 1991, in un ovile sulle montagne di Sinnai (Cagliari).
Se non appariva proprio un altro caso Tortora è perché le prove contro questo pastore sardo erano anche più inconsistenti rispetto al ciarpame che l’accusa pubblica raccolse contro il conduttore televisivo, il «cinico mercante di morte» rammostrato in manette sulla scena piena di fotografi e giornalisti sapientemente organizzata dagli inquisitori.
Dopo molti anni (decenni) saltava fuori qualcosa che avrebbe dato speranza alle prospettive di revisione del processo, e cioè che la testimonianza dell’unico testimone (un sopravvissuto alla mattanza) sulla base della quale Zuncheddu era condannato sarebbe risultata improbabile. Ma la verosimile ingiustizia di questo caso era appunto evidente – o almeno se ne aveva grave indizio – ben prima delle scoperte (ci arriviamo immediatamente) che poi avrebbero militato per la revisione del processo e per un possibile annientamento della condanna.
Quella testimonianza, infatti, che era l’unica “prova” acquisita per appioppare l’ergastolo all’imputato, si era sviluppata in modo assai strano: con il presunto testimone oculare dell’eccidio che aveva in un primo momento riferito di non poter riconoscere l’assassino, perché aveva il viso mascherato da una calza, e poi, dopo più di un mese, riferiva invece di poterlo riconoscere e di averlo identificato in una certa fotografia. Già così – si ammetterà – la faccenda appariva di molto fragile portata probatoria; e già così – si ammetterà ancora – quella testimonianza era esposta a qualche legittimo dubbio di attendibilità.
Di fatto, la vicenda raccontava che in Italia è possibile rinchiudere qualcuno in prigione per tutta la vita perché qualcun altro dice di averlo riconosciuto dopo aver dichiarato, settimane prima, di non potere dir nulla circa l’identità dell’assassino perché questi aveva una calza sul viso ed era dunque irriconoscibile. Una giustizia abbastanza avventata, diciamo.
Solo che non bastava, e veniamo appunto alle successive emergenze (in realtà ormai risalenti a qualche anno addietro), che ulteriormente e forse definitivamente parevano destituire di credibilità quell’unica prova, quel percorso testimoniale già in origine ambiguo e auto-contraddittorio. Si trattava di questo: del fatto che il presunto testimone oculare avrebbe riconosciuto l’imputato in una fotografia che un poliziotto gli aveva fatto vedere “prima”, e in particolare nell’intervallo di tempo tra le sue dichiarazioni iniziali (quelle secondo cui non poteva riconoscere l’assassino, che aveva il viso mascherato dalla calza) e quelle successive, secondo cui sarebbe stato in grado di riconoscere l’autore del delitto. Un intervallo di tempo di trenta o quaranta giorni durante il quale il testimone era stato in commerci colloquiali con la polizia e, in particolare, con il poliziotto che, appunto, prima che fosse nuovamente ascoltato dai magistrati, aveva mostrato al testimone la fotografia di Zuncheddu.
La difesa ha argomentato che il poliziotto potrebbe aver fatto pressioni sul testimone: ma se pure questo non fosse stato cambierebbe poco, perché a compromettere l’affidabilità del presunto riconoscimento bastava quel fatto, il fatto che la fotografia fosse stata offerta diciamo così privatamente all’esame del teste.
Ma bastava? No, non bastava ancora. Perché emergeva ulteriormente che il testimone, che era sottoposto a intercettazione, in un colloquio con la moglie, appena successivo a un incontro con i magistrati, si lasciava andare a preoccupate considerazioni circa i dubbi degli inquirenti sull’attendibilità del riconoscimento e sul fatto che quella fotografia gli fosse stata messa sotto il naso già precedentemente, al di fuori e in violazione di ogni regola di indagine e processuale. Con la moglie – altro dettaglio emergente da quel dialogo – a sua volta preoccupata che il marito potesse aver detto qualcosa che desse materia buona per la revisione del processo. E per finire: il presunto testimone oculare che, messo alle strette da questi nuovi intendimenti della giustizia, non chiamava un amico, un parente o, come si immagina naturale per chiunque, il proprio avvocato ma, vedi la combinazione, il poliziotto con il quale aveva avuto occasione di intrattenersi nei giorni della sua resipiscenza e che gli aveva mostrato la fotografia di Beniamino Zuncheddu.
Non sappiamo se è innocente, come lui ha sempre sostenuto e come la sua difesa insisteva e insiste a voler dimostrare. Sappiamo che nessuno dovrebbe essere condannato senza prove, o in base a prove false, a stare in prigione neppure un giorno: figuriamoci tutta la vita. E sappiamo che invece può succedere. Sappiamo che invece succede.
Magistratura, lo scandalo è la malagiustizia: non le pagelle alle toghe. Libero Quotidiano il 02 dicembre 2023
Beniamino Zuncheddu, libero da pochi giorni, che voto avrebbe dato al magistrato che gli ha fatto passare 32 anni di carcere, per errore? La Corte di Appello di Roma, tre anni fa, aveva riconosciuto come legittima la richiesta dell’avvocato di Zuncheddu di procedere a una revisione del processo che lo aveva visto colpevole per l’uccisione di tre pastori in Sardegna. Anche per questi tre anni di ritardata liberazione il voto per i magistrati competenti potrebbe non essere altissimo. Parliamo di voti ai giudici non a caso. In questi giorni si è dato il via libera alla cosiddetta “pagella” del magistrato.
La norma, contenuta nella riforma Cartabia, richiedeva un decreto attuativo per diventare operativa. Quindi voti per tutti? Sì e no. La prima valutazione la potremo avere tra quattro anni, tanto è il tempo previsto dalla legge per compilare il primo giudizio. Palla lunga e attesa certa. Ma l’urgenza c’è tutta. Nel 2022, lo Stato ha dovuto pagare 27 milioni di euro per risarcire 539 casi di ingiusta detenzione. Mentre, per gli errori giudiziari dal 1991 al 2022, il costo totale per lo Stato è stato di oltre 76 milioni di euro.
ERRORI GIUDIZIARI
È come se ogni anno lo Stato pagasse un biglietto da circa 2,5 milioni di euro per gli errori giudiziari. Un biglietto molto scontato (i danni provocati per le sentenze sbagliate sono di molto più onerosi e comunque pagati in media dopo tre anni dal diritto acquisito), ma pur sempre indicatore di un problema serio, che riguarda l’efficienza e la credibilità del sistema giudiziario. E nello specifico la mancata valutazione dei magistrati che sbagliano. Usando i dati ufficiali del Ministero della Giustizia l’Aivm stima che negli ultimi anni ci siano stati 700mila procedimenti che hanno violato le normative esistenti.
Nel tempo della meritocrazia invocata ed esibita perché i magistrati dovrebbero essere sottratti a una valutazione rigorosa sulla loro efficienza e sulla qualità dell’amministrazione della giustizia? Scontata l’ostilità dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), che sembra trascurare il fatto che un terzo dei detenuti italiani è in attesa di giudizio, quindi innocenti a norma di Costituzione. Negli ultimi 25 anni oltre 26mila italiani hanno subito un periodo di ingiusta detenzione. Più di mille all’anno.
DURATA DEI PROCESSI
Da anni la Banca Mondiale e il Consiglio d’Europa mostrano dati impressionanti per l’Italia e ci dicono che tribunali inefficienti sono fra i fattori principali che rendono difficile fare impresa in Italia. Nell’ultima edizione del Rapporto della Banca Mondiale l’Italia si colloca al 122esimo posto su 190 paesi per la categoria “Tempo e costi delle controversie”. Il problema sono i tempi. Il Rapporto redatto dal Consiglio d’Europa ribadisce due cose molto chiare: la prima riguarda la durata media dei processi: 2.656 giorni peri tre gradi di giudizio, ossia sette anni e tre mesi. In Francia e Spagna i processi durano la metà (poco più di tre anni), in Germania circa un terzo (2 anni e 4 mesi). In Europa siamo all’ultimo posto dopo la Grecia. Per chiudere una causa civile, dunque, possono volerci in media fino a 15 anni. Responsabilità dei magistrati, della loro capacità di giudizio, della loro quantità di lavoro, o della organizzazione degli uffici giudiziari?
L’esperienza ci dice che ci sia di tutto un po’. Certamente non ci si può stupire se la malagiustizia (e le lentezze del sistema giudiziario) sia considerata una delle ragioni principali per cui l’Italia non viene ritenuto un Paese dove investire (o almeno non investirne quanto si potrebbe). Il principale ostacolo, rilevato dal 69% degli intervistati di una recente indagine Ey, è l’incertezza regolatoria, seguita per il 65% del campione da un eccessivo rischio di contenzioso per le imprese. Antonio Mastrapasqua Ex presidente dell’Inps
Il caso a Palermo. Assolto ma “dimenticato” per due anni ai domiciliari perché l’avvocato era morto: farà causa allo Stato. Carmine Di Niro su L'Unità l'1 Giugno 2023
Era stato assolto, eppure è rimasto per quasi due anni agli arresti domiciliari senza saperlo. Il motivo? L’avvocato che lo aveva assistito era deceduto.
È la storia che vede protagonista un 49enne sottoposto a misura cautelare il 25 settembre 2020 a Giardinello, in provincia di Palermo, per stalking. Il 19 maggio dell’anno seguente l’uomo viene assolto in primo grado per incapacità di intendere e volere e viene disposta la misura di sicurezza del ricovero in una struttura assistita, ma quel provvedimento non viene mai eseguito, anche dopo la conferma della sentenza in Appello il 20 ottobre 2021
Il 49enne, con qualche problema mentale, è rimasto ai domiciliari perché senza una difesa concreta ed effettiva a causa della morte dell’avvocato che lo aveva assistito in quella causa.
Sono stati i carabinieri, spiega l’Ansa che racconta la vicenda, a richiedere la nomina di un difensore di ufficio per cercare di aiutarlo, viste le condizioni disagiate in cui viveva il 49enne. Ad assisterlo quindi sono arrivati gli avvocati Rocco Chinnici, Luigi Varotta e Francesco Foraci.
“Ci siamo attivati per aiutare questa persona, dopo aver cercato di comprendere per quale titolo si trovasse sottoposto ancora sottoposto alla misura dei domiciliari – dicono i legali – Si tratta di una vicenda umana che evidenzia quanto sia importante il ruolo del difensore nel processo. Abbiamo ricostruito l’iter della posizione giuridica del soggetto con la collaborazione delle cancellerie e il pm ha immediatamente disposto la scarcerazione perché non vi era più alcun titolo che potesse giustificare il regime coercitivo al quale era sottoposto. L’uomo è tornato in libertà il 29 maggio quando in realtà doveva essere scarcerato il 19 maggio 2021. Si tratta di una detenzione di due anni sine titulo, e stiamo valutando le azioni giudiziarie da intraprendere nei confronti del Ministero della Giustizia per il risarcimento dei danni subiti“. Carmine Di Niro 1 Giugno 2023
Open to meraviglia, vi spiego perché non parlerò del mio processo. Matteo Renzi su Il Riformista il 12 Maggio 2023
Anche oggi mi presenterò in Tribunale, a Firenze, nell’ambito del “processo Open”. Cinque anni fa le prime indagini, quattro anni fa gli scandalosi sequestri show che furono poi annullati dalla Cassazione, tre anni fa il mio avviso di garanzia, due anni fa la richiesta di rinvio a giudizio, un anno fa l’inizio dell’udienza preliminare.
E io come sempre, come ogni cittadino, vado in Tribunale cancellando gli impegni politici per una inchiesta nata da un pregiudizio ideologico che sarà ricordato come uno dei tanti flop, più grave di altri per la straordinaria eco mediatica iniziale, anche se da quando la Cassazione ha demolito l’indagine dei PM nessuno ne parla più. Debbo ai lettori una spiegazione sul perché Il Riformista non seguirà questa udienza preliminare, né questo processo.
Lo scandalo Open non è quello degli organizzatori della Leopolda ma quello di una indagine così assurda da aver visto cinque sentenze di annullamento della Cassazione ancora prima dell’udienza preliminare. Cinque! Credo sia un record. Ma questo giornale non è il luogo della mia difesa. Mi difendo da solo: “Il Mostro” è stato un best seller, non ho mai rifiutato di rispondere ai giornalisti, ho denunciato i magistrati che ritenevo responsabili perché chi è stato Presidente del Consiglio ha l’obbligo di rispettare le istituzioni. E se ritiene che qualcuno sia in malafede ha il dovere di denunciarlo, non il diritto di farlo.
Il Riformista parlerà invece degli altri errori giudiziari, come abbiamo fatto anche ieri: quelli che riguardano i cittadini comuni, quelli di cui non parla nessuno. Il Riformista darà spazio ai magistrati bravi, quelli che devono far carriera indipendentemente dalla propria corrente. Il Riformista ospiterà il dibattito sul futuro della giustizia perché è un nodo nevralgico per la credibilità delle istituzioni ma anche per la tenuta della nostra economia.
Citando lo straordinario discorso di Enzo Tortora, io so di essere innocente e spero che lo siano anche i magistrati che mi indagano ingiustamente. Ma questo giornale non può servire per regolare i miei conti o per proclamare la mia sete di verità. Questo giornale è per tutti quelli che credono che la patria del Beccaria non possa essere affidata alla rabbia dei travagliati giustizialisti del nostro tempo, persone che vivono di rancore, odio, invidia sociale.
Questo giornale non si occupa del processo Open perché parla di tutto il resto. E chissà che il ministro Nordio non ci regali una riforma capace di farci tornare a credere in una giustizia giusta. Magari dalle vergognose indagini fiorentine nascerà una nuova consapevolezza nella magistratura italiana. Siamo pronti a farci sorprendere: Open to Meraviglia. Matteo Renzi
"C'è chi devasta la vita delle persone". L’intoccabile casta dei magistrati, sbagliano spesso e non pagano mai: “Ogni giorno tre innocenti in carcere”. Francesca Sabella su Il Riformista l’8 Febbraio 2023
Chi sbaglia, paga. Funziona così per chiunque eserciti una professione, è così per tutti tranne che per i magistrati. Gli intoccabili. Sbagliano? Certo. E anche tanto. Ma non pagano. E lo ha ricordato e detto bene Davide Faraone, deputato di Azione-Italia Viva, a Omnibus, La7. “Chiunque di noi, nello svolgimento della propria attività, quando sbaglia, paga. Non capisco perché questo non debba valere anche per i magistrati – ha affermato Faraone – Ogni anno mille persone, cioè tre al giorno, finiscono ingiustamente in carcere. A volte si suicidano perché non hanno la possibilità di far valere le loro ragioni. Per un uso distorto della legge sulla confisca dei beni ai mafiosi, molto spesso accade anche che una persona assolta sul piano penale subisca la confisca dei suoi beni – continua – La stragrande maggioranza dei magistrati fa benissimo il proprio lavoro ma c’è una piccola minoranza che, in collusione con certi settori dell’informazione e della politica, devasta la vita delle persone. E oltre ai detenuti innocenti, quegli errori li paghiamo noi tutti perché le ingiuste detenzioni costano ogni anno ai cittadini 870 milioni di euro. Questi soldi – conclude il deputato – dovrebbero pagarli i magistrati che sbagliano, non i cittadini con le loro tasse”.
Già… dovrebbero. In un mondo ideale se sbagli, paghi e in base al tuo sbaglio magari si decide se è il caso di continuare a svolgere quel lavoro. Un manager che fa fallire un’azienda o crea un grosso danno, si dimette. Per i magistrati non funziona così. Ma oggi il diritto in che modo regola la responsabilità dei magistrati? Oggi la legge dice che chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali.
In sostanza, non può citare direttamente il magistrato, ma lo Stato che se poi risarcirà effettivamente il cittadino si dovrà rifare obbligatoriamente sul magistrato. Il magistrato, però, il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio non può essere chiamato in causa ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dal secondo comma dell’art. 105 del codice di procedura civile. Tutto chiaro no? Il magistrato sbaglia? Non importa. Intoccabile. Di recente, il nostro Paese ha avuto l’occasione di cambiare questa assurdità con il Referendum Giustizia Giusta che si è arenato poi su una spiaggia di indifferenza e inesatta comunicazione, senza contare la levata di scudi dei magistrati che per un attimo hanno tremato.
Ebbene, se il sì al Referendum avesse trionfato il lavoro del magistrato sarebbe stato equiparato a tutte le altre professioni: i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. I magistrati, invece, non potendo essere chiamati a rispondere direttamente dei danni causati nell’esercizio delle funzioni, sono beneficiari di un privilegio immotivato rispetto agli altri pubblici funzionari e anche ai comuni cittadini. Inoltre, osservando le statistiche è evidente che qualcosa in questo sistema giudiziario non funziona come dovrebbe: dal 2010 al 2021 si contano 129 pronunzie tra i tribunali e la Cassazione, ma solo 8 condanne, di cui 3 nei tribunali e 5 in Cassazione, contro lo Stato (l’1,4%).
In tribunale, su 62 sentenze, ci sono state solo 3 condanne, in appello 11 sentenze e “zero” condanne, in Cassazione 23 sentenze e 5 condanne. Tra i distretti nei quali si iscrivono più cause spicca Perugia con 136 richieste in 11 anni, ma solo 6 sentenze emesse, di cui nessuna di condanna. Quindi il risultato è 136 a zero. Nessuna responsabilità mai riconosciuta, in ben 11 anni, in quel distretto. Capite? Non pagano mai. È una giustizia giusta, questa?
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Franco Coppi, la denuncia: "Strane cose nei palazzi di giustizia". Libero Quotidiano il 06 maggio 2023
"Nei palazzi di giustizia succedono cose stravaganti...": l'avvocato Franco Coppi si è raccontato in una lunga e intima intervista al Corriere della Sera. E parlando dell'ultima baruffa avuta con un magistrato, ha detto: "Un collega mi ha chiesto di affiancarlo in Cassazione per un processo che sembrava straperso. Quando ha cominciato a parlare, il presidente della sezione si è subito mostrato insofferente. Lo ha redarguito, gli ha detto che aveva già depositato 100 pagine. 'Non vorrà ripetere tutto daccapo', è sbuffato dichiarandosi seccato. Così il collega si è avvilito e in pratica ha rinunciato a parlare". Poi è toccato a lui: "Quando ho preso la parola mi ha detto: avvocato, io oggi ho 34 processi, la prego di fare in fretta. Gli ho risposto: beato lei che ne ha 34, io ne ho solo uno e non intendo rinunciare a una sola parola. Secondo me ha pensato: questo mi fa un esposto e alla fine sa cosa ha fatto? Ha annullato la sentenza con rinvio".
Qualcosa da dire, però, ce l'ha avuta anche sugli avvocati: "Non ci facciamo mancare nulla neanche noi. Le ho già raccontato del collega che fece un’arringa accorata contro la richiesta di ergastolo per il suo assistito?", ha chiesto alla giornalista del Corsera. Il riferimento è al legale che disse "il poveretto deve già sopportare di vivere senza i suoi genitori". "Ricordo ancora bene la faccia del presidente quando lo interruppe (ride). Gli disse: avvocato, ma i genitori li ha ammazzati lui! E quello: vabbè, sempre orfano è. Inarrivabile", ha raccontato ancora Coppi.
Tra i problemi più urgenti della giustizia italiana c'è, secondo lui, "la lunghezza abnorme dei processi; 7-9 anni di media è un tempo mostruoso". Ma non è tutto: "Poi ho la sensazione di una certa trasandatezza nel sistema Giustizia, come se ci fossimo tutti quanti un po’ abbassati di livello". Parlando del caso Avetrana e di Sabrina Misseri, l'avvocato 84enne ha confessato: "Prima ci scrivevamo una lettera a settimana, adesso all’improvviso tace. So che è in crisi e questo mi amareggia e mi preoccupa. Sono convintissimo dell’innocenza sua e di sua madre. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e abbiamo superato il primo controllo di ammissibilità. Ma i tempi sono lunghi. Lascerò il caso in eredità al mio studio...".
Un pensiero infine per l'avvocato Ghedini: "Povero Ghedini, era una persona perbene ed era diventato un amico; lui voleva molto bene a Berlusconi. Il suo cane mi riempie le giornate. Gli parlo, so che mi capisce. A Villa Borghese siamo diventati molto popolari".
L’avvocato Franco Coppi: «Sabrina Misseri mi scriveva una lettera a settimana. Mi fermano al parco per chiedermi consigli legali». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2023.
L’avvocato Franco Coppi: «Il cane che mi regalò Ghedini mi riempie le giornate. Tornando indietro forse farei il pittore»
È sabato pomeriggio e l’avvocato Franco Coppi stavolta non riceve a «casa sua», cioè in Cassazione. L’appuntamento è nel suo studio.
Nell’ascensore qualcuno ha scritto «Viva Lazio», se n’è accorto? «Figurarsi se un romanista come me non se ne accorge. Penso di far cambiare tutto, non basta cancellare la scritta per lavare l’offesa». Ride.
Ci ricorda la sua età?
«Ottantaquattro anni, nato a ottobre, Scorpione».
Ma lei è tipo da oroscopo?
«Eccerto! Solo che trovo inutile preoccuparsi prima di come andrà una giornata, e allora lo leggo il giorno dopo per sapere se ci ha azzeccato».
L’ultima baruffa con un magistrato?
«Una cosa recente. Un collega mi ha chiesto di affiancarlo in Cassazione per un processo che sembrava stra-perso. Quando ha cominciato a parlare, il presidente della sezione si è subito mostrato insofferente. Lo ha redarguito, gli ha detto che aveva già depositato 100 pagine. “Non vorrà ripetere tutto daccapo”, e sbuffato dichiarandosi seccato. Così il collega si è avvilito e in pratica ha rinunciato a parlare».
Ma poi è toccato a lei...
«Quando ho preso la parola mi ha detto: avvocato, io oggi ho 34 processi, la prego di fare in fretta. Gli ho risposto: beato lei che ne ha 34, io ne ho solo uno e non intendo rinunciare a una sola parola. Secondo me ha pensato: questo mi fa un esposto e alla fine sa cosa ha fatto? Ha annullato la sentenza con rinvio. Nei palazzi di giustizia succedono cose stravaganti...».
A quale aneddoto sta pensando?
«A una scenetta vissuta in Cassazione. Era un processo per reati sessuali. La presidente fa un appello alle parti; vi prego di usare toni soft, chiede, e di non impiegare parole che facciano riferimento a parti corporali. Mi sono chiesto: e cosa racconto se non posso parlare del corpo? Così quando è toccato a me ho detto: presidente, io mi adeguo, parlerò di problemi di dietro. C’è stato un momento di gelo, ho pensato: adesso mi accusa di oltraggio, e invece stava cercando di capire che cosa volessi dire, e quando l’ha capito ha esultato: bravo avvocato, bravo!».
Anche sugli avvocati ci sarebbe molto da dire...
«Vero. Non ci facciamo mancare nulla neanche noi. Le ho già raccontato del collega che fece un’arringa accorata contro la richiesta di ergastolo per il suo assistito?».
Quello che disse «il poveretto deve già sopportare di vivere senza i suoi genitori»?
«Proprio lui. Ricordo ancora bene la faccia del presidente quando lo interruppe (ride). Gli disse: avvocato, ma i genitori li ha ammazzati lui! E quello: vabbé, sempre orfano è. Inarrivabile...».
Ora un argomento serio. Qual è il problema più grave della giustizia, secondo lei?
«Fosse soltanto uno... Certamente la cosa che più salta agli occhi è la lunghezza abnorme dei processi; 7-9 anni di media è un tempo mostruoso. So che diventando vecchi si diventa laudator temporis acti ma quand’ero giovane andavo in udienza e sapevo che il processo avrebbe avuto una durata accettabile. Oggi capita che il pubblico ministero discuta a gennaio e la difesa a dicembre. Fissano udienze dopo un anno... E poi ho la sensazione di una certa trasandatezza, nel sistema Giustizia, come se ci fossimo tutti quanti un po’ abbassati di livello. E sa un’altra cosa?».
Cosa?
«È inutile parlare di separazione delle carriere. L’unica separazione utile è fra persone capaci e intelligenti e chi non lo è. Io penso che un modo per velocizzare tutto potrebbe essere una cosa che farà storcere il naso a molti colleghi, lo so già».
Che sarebbe?
«Restituire al giudice del dibattimento la conoscenza degli atti. Oggi esiste quest’idea sacra che il giudice debba arrivare vergine al dibattimento. Ma se uno è perbene e onesto intellettualmente può leggere gli atti e farsi un’idea prima del processo e poi, in aula, può anche cambiarla sentendo le parti».
Il caso Avetrana è sempre il suo cruccio? Ha ancora contatti con Sabrina Misseri?
«Prima ci scrivevamo una lettera a settimana, adesso all’improvviso tace. So che è in crisi e questo mi amareggia e mi preoccupa. Sono convintissimo dell’innocenza sua e di sua madre. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e abbiamo superato il primo controllo di ammissibilità. Ma i tempi sono lunghi. Lascerò il caso in eredità al mio studio...».
Non le crede nessuno se dice che vuole ritirarsi.
«Non è quello. Io mi emoziono ancora come il primo giorno all’idea che uno bussi al mio studio per chiedermi aiuto. Ma le ho già detto quanti anni ho... Faccia un po’ lei».
Sta parlando della morte?
«Beh, l’età non aiuta a tenere lontano il pensiero. Vero è che Andreotti sosteneva che i processi allungano la vita...».
In che senso?
«Diceva che i magistrati contavano sul fatto che lui morisse prima della sentenza, così avrebbero pronunciato estinto il reato per morte del reo. E allora lui se n’era fatto una questione di puntiglio: non muoio finché non finisce il processo, e così è stato».
E il cane che le regalò l’avvocato Ghedini?
«Povero Ghedini, era una persona perbene ed era diventato un amico; lui voleva molto bene a Berlusconi. Il suo cane mi riempie le giornate. Gli parlo, so che mi capisce. A Villa Borghese siamo diventati molto popolari».
Vi fermano per autografi?
«Non proprio. Ma ci conoscono, ci fermano. L’altro giorno un tizio mi ha detto: avvoca’, ho menato mi’ moglie, 20 giorni de prognosi salvo complicazioni. È grave? E io: beh, ha una certa gravità. Risposta: se me serve posso passà? Non l’ho più visto... La moglie l’avrà perdonato».
Se tornasse indietro rifarebbe l’avvocato?
«Io ho fatto l’avvocato per sbaglio. Ho scelto il penale perché mi sembrava meno avvocatura, non c’era da impicciarsi di società, cambiali e cose del genere. Ho cominciato 60 anni fa e all’epoca il cuore del processo era la Corte d’Assise, cioè l’uomo, con le sue passioni e i suoi sentimenti».
Ma non ha risposto: rifarebbe l’avvocato?
«Forse farei il pittore, che è la mia vecchia passione. Anche se devo dire che se veramente avessi avuto dentro il fuoco dell’arte me ne sarei fregato dell’avvocatura. Mentre studiavo Giurisprudenza andavo all’accademia e vivevo in mezzo ad aspiranti pittori come me, e le assicuro che una cena fra pittori mancati è esaltante».
Vi sentivate intellettuali?
«Più che altro ci divertivamo. In una serata tu potevi distruggere nientemeno che Michelangelo: “appena passabile come scultore eh... ma come pittore non me ne parlare”. Salvavi Raffaello, magari. Ma Picasso: “chi è Picasso? Chi lo conosce?” Forse non era la mia strada... Non so più chi ha detto che passiamo tutta la vita a diventare quello che siamo, io sono un avvocato. E va bene così».
Cronache private. La giustizia, come la verità, è in mano a uomini imperfetti. Valentina Parasecolo su L'Inkiesta il 10 Maggio 2023.
Il caso Rambaldi, un’indagine parallela a quella delle forze dell’ordine, l’interesse a intermittenza della stampa e segreti impronunciabili. L’Italia giovane e bella degli anni Sessanta vorrebbe lasciarsi alle spalle un passato che rimane in agguato nel buio nel primo romanzo di Valentina Parasecolo
Era passato quasi un anno dal giorno in cui Sergio era stato ucciso e seppellito sotto la sabbia di una spiaggia lacustre. Giovanni pensava a lui ogni giorno, mai gli era successo con una vittima delle storie che aveva coperto.
Caso Rambaldi. La Cassazione ha accolto il ricorso dei legali di Sacchi, riconoscendo l’insufficienza delle motivazioni contenute nel mandato di cattura. Nel capo di imputazione il giudice istruttore Curzio Monaldi ha combinato un pasticcio perché i «sufficienti indizi di colpevolezza» alla base della propria decisione non erano affatto elencati. Una svista non da poco, che getta il sospetto dell’inadeguatezza su questo magistrato silenzioso, che pure da mesi lavora a testa bassa sull’omicidio del piccolo Sergio.
Giovanni gettò il mozzicone di sigaretta a terra e scosse la testa, pensando allo sbaglio grossolano di Monaldi. Sempre di più quella storia gli appariva come una sequenza di istinti, irrazionalità, scelte emotive ed errori.
Se n’era convinto a forza di coprire omicidi e scandali. Diversamente dall’idea che hanno molti lettori, di giornali e di libri, diversamente da quello che lui stesso aveva pensato per tutta la vita, il male quasi mai è il frutto di un’attenta elaborazione, il piano di un’intelligenza malevola. E quasi mai la soluzione della giustizia, l’equilibrio finale del bene, è una conquista logica e lineare fondata su una causalità perfetta.
La citrullaggine, la leggerezza, talvolta l’inerzia del conformismo muovono il mondo anche nei suoi fatti più crudeli. Lo aveva sentito dire anche all’osteria a Ferso… «Quasi sempre i fattacci avvengono per stupidità!» Il tentativo di ricondurli alla ragione, attraverso i tribunali, non doveva far credere che a prevalere fosse sempre il limpido procedere del senno. La giustizia, come la verità, era in mano comunque a uomini imperfetti.
Era sabato notte. Chi non aveva il turno o la moglie a casa scendeva alla fiaschetteria. La fiaschetteria era a pochi passi da piazza Duse, il salotto silenzioso dell’alta borghesia, alla quale – nella redazione – appartenevano solo il direttore e pochi altri, quasi tutti legati all’editore. Il locale, bohémien e un filo chiassoso, era tollerato dai residenti solo perché si trovava ai margini del quartiere. E poi si lasciava frequentare da qualche intellettuale, comprese alcune firme prestigiose della Pagina e di Tempi moderni, la cui sede da qualche anno dava sui giardini di via Palestro.
L’aria fresca di un’estate pronta a concedere un po’ di ferie spingeva i giornalisti più audaci a concludere la giornata facendo serata alla Sala Venezia o al Basso. Giovanni non si sentiva affatto audace, voleva solo un amaro e poi camminare lentamente verso casa. Con un bicchiere pieno in mano si accomodò quindi su una sedia isolata rispetto al resto dei tavoli festanti, all’aperto, fuori dalla fiaschetteria.
Molina gli si avvicinò: «Hai letto la breve di domani su Rambaldi?»
«Sì, era tua? Non c’era la firma.»
«Sì, giusto due righe per aggiornare…» Milano, pochi mesi dopo la strage di piazza Fontana, era un susseguirsi di scioperi e proteste. Poco spazio per la nera nazionale, anche nel rotocalco. «Che disastro Monaldi… Allierini, il pubblico ministero, è certo che il delitto sia a sfondo sessuale.» Stavano scadendo i termini di carcerazione anche per Lauri e per Madia. «Vedrai… Se non trovano buone prove quelli tornano in libertà e magari ci restano.» Lo diceva con una punta di amarezza, come a lasciar intendere che del caso in fondo gli importasse davvero.
«Secondo te ci rimandano a Ferso?»
«No, no. Almeno non per ora. Non interessa…» fece lui guardando verso l’arco della Società Buonarroti, colonne d’Ercole del quartiere.
Stavano arrivando due giovani donne, studentesse universitarie amiche di Molina.
Il giornalista respirò a pieni polmoni come a voler accogliere il profumo di quel momento, per ricordarlo. Con una figlia ormai alle medie, una separazione in corso e un patrimonio di citazioni da migliaia di libri letti, pareva navigato e insieme refrattario a coinvolgimenti emotivi troppo intensi: dava l’idea di saper bene cosa volesse dire godersela.
«Tu, caro Pitorsi, come diceva Giovanni Verga, “hai avvelenato la festa della giovinezza esagerando e complicando i piaceri dell’amore”, e così ti prendi i dolori che ne sono il risultato. Ma hai quanto? Venticinque anni?…»
«Trenta. Quasi.»
«E allora fai ancora festa, che a forza di far festa ti passa la voglia di avvelenarla!»
Giovanni quella voglia l’aveva vista svanire negli ultimi anni; si era appena rinvigorita dopo l’estate trascorsa a Ferso. Gli pareva di poter essere finalmente lineare. Ma com’era finita? Con la certezza che Dora andasse solo dimenticata, che fosse persa per sempre.
Quindi, per quanto lo riguardava, ogni giro di danza sarebbe stato solo accidentale. Non erano più i tempi dei corteggiamenti, dei complimenti, degli amoreggiamenti operosamente ricercati. Quelli dai quali poi scappare in modo rocambolesco o vigliacco. Non erano più i tempi in cui si potevano avere insieme una promessa sposa a casa, un’amante al lavoro e una di cui innamorarsi in Maremma. Non ne aveva più la forza, anche se non aveva neppure trent’anni. […]
Che carine che erano le studentesse… Una, Barbara – sì, forse si chiamava Barbara –, cercava di coinvolgere Giovanni con fare sinceramente incuriosito: «Quando hai iniziato a fare il fotografo?», «Ti piace?», «Qual è il tuo scatto migliore?» Era un accidente, Barbara? Un accenno di amore non cercato che gli stava di nuovo piombando addosso? Giovanni voleva lasciarsi andare ma, men- tre rispondeva alla raffica di piccole domande col suo solito stile laconico, sentiva addosso lo sguardo di Imma.
Se fai un’altra festa di lacrime questa volta la paghi. Non voleva rischiare di incrociare il suo volto, lo evitava come fosse quello della Medusa. Eppure, se le avesse dato le spalle avrebbe provato il fastidio di una coltellata invisibile, alla schiena.
Pensando di poter vincere l’aria da sortilegio che la donna aveva portato davanti alla fiaschetteria, Giovanni prese per mano Barbara e, tenendo nell’altra l’ultimo drink, si avviò verso il parco come per sottrarsi allo sguar- do altrui. Era l’unico sforzo che era disposto a fare per accogliere il nuovo incontro.
«Dove vivi?»
«A Porta Ticinese.»
Stava dalla parte opposta rispetto a casa sua, ma ora che l’aveva allontanata dall’amica e dal gruppo provava un senso di colpa a lasciarla sola nella notte milanese.
«Ti accompagno io… Ma andiamo piano che, come vedi, so’ zoppo…»
«Che ti è successo?»
Avrebbe dovuto raccontarle dell’incidente da tombarolo, ma non aveva voglia di addentrarsi in storie bizzarre con una sconosciuta: «Incidente sul lavoro, durante un servizio.»
Lei lo guardava incuriosita: nella misteriosa e frettolosa ritrosia ad approfondire c’era il principio di una fascinazione. La ragazza studiava Lettere, veniva da Novara, le piaceva disegnare. «Perché non sei fidanzato?»
Quello che Giovanni non aveva chiaro era che la festa della giovinezza l’avvelenano anche le ragazze quando invece di tirarsi indietro di fronte a una possibile complicazione cedono rovinosamente alla sua seduzione. Per questo quando lui rispose: «Barbara, sono un disgraziato», credendo di destare con la franchezza una qualche saggia ritrosia, quella replicò altrettanto francamente: «Be’, a me piacciono i disgraziati.»
E lui se ne stupì, come ogni volta. […]
Da “Cronache private” di Valentina Parasecolo, Marsilio, 496 pagine, 21 euro.
L'orrore giudiziario. Il caso Tortora non ha insegnato nulla, il libro della figlia Gaia: tre errori al giorno e i giudici promossi. Annalisa De Simone su Il Riformista il 5 Maggio 2023
È un libro di cui si è discusso, ma di cui mi auguro si parli ancora tanto, quello di Gaia Tortora: ‘Testa alta, e avanti’ (Mondadori). La storia della sua famiglia si apre con lei a quattordici anni, il giorno dell’esame di terza media, lei che cammina verso scuola ancora ignara di come le forze dell’ordine abbiano fatto irruzione all’hotel Plaza e arrestato suo padre. Nonostante un collasso cardiaco, Enzo Tortora verrà trattenuto in caserma fino a mezzogiorno.
Ammanettato e scortato da due agenti, sarà poi fatto uscire di fronte alla folla di giornalisti e condotto, nel susseguirsi dei flash, su un’auto d’ordinanza ferma sul lato opposto della strada. Direzione: Regina Coeli. Fino al giorno in cui non verranno concessi gli arresti domiciliari per motivi di salute, nel gennaio del ’84, Tortora viene interrogato due volte, ma i pm Di Pietro e Di Persia non si convincono della sua innocenza. In più, man mano che varie testimonianze smontano le accuse di Pandico e Barra, a emergere saranno nuove dichiarazioni a carico dell’imputato. Nel 1984, grazie anche alla legge Cossiga e all’introduzione di sconti di pena per chiunque collabori con la giustizia, i pentiti arrivano a essere addirittura undici. Suo amaro commento: “La Nazione del pentitismo”.
L’esergo scelto da Gaia Tortora è tratto da “Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel: “Il terremoto portò via con sé anche gli ultimi resti della mia ingenuità e della mia innocenza”. Un terremoto figurato, il suo, non per questo uno strappo meno violento. Raccontare il dolore della bambina, prima, e della donna, poi, consente di inquadrare la vicenda sotto due diversi punti di vista, utili entrambi a capire: c’è il piano emotivo di chi sente, la quattordicenne, e allora si rinchiude nel silenzio o indossa un sorriso di circostanza, e c’è quello logico di chi pensa, l’adulta che disseppellisce i ricordi, e che ne trae una speranza. Per questo è un libro pieno di luce, il suo, nonostante il dolore, per quell’augurio di un principio di civiltà che Tortora invoca. Una giustizia che sia giusta. Il dolore resta, certo. Negli anni perde giri, decelera, ma è sempre pronto a tornare e a battere: “Allora l’organo-dolore si risveglia, comincia a pulsare. Il male che sento è identico a quello di allora”.
Ogni giorno tre innocenti finiscono in carcere per errore, più di mille cittadini l’anno. Lo sappiamo: titoli di giornale che additano i presunti colpevoli, seguiti, nemmeno sempre, da trafiletti nelle ultime pagine a segnalare l’errore. A volte quando va bene, troppo flebile rispetto al chiasso, dal silenzio si solleva una voce, come quella che all’epoca fu, insieme con Pannella, di Enzo Biagi: “Si ha l’impressione che, dopo aver messo le manette a Tortora, stiano cercando le ragioni del provvedimento”. Siamo al punto in cui, nel memoir, il passo si allunga dalla storia intima a quella collettiva. Fino a un monito: “Mi disgusta che lo Stato non si sia fatto in alcun modo carico di questo tragico errore giudiziario, così come che i giudici che l’hanno perseguitato non solo sono stati assolti in tutte le sedi deputate al loro giudizio, ma sono addirittura stati promossi”.
Nel peso di un dolore destinato a resistere e a rinnovarsi, ciò che colpisce è la misura con cui Tortora dà corpo alla speranza. Consapevole di quanto in ambito giudiziario sia difficile far sempre coincidere le due verità, quella storica e quella processuale, il suo augurio è che si intervenga per riformare un quadro ampiamente perfettibile, ma con l’aggiunta di una postilla: “Non per questo, io credo, possiamo permetterci di buttare tutto il sistema giù dalla torre”. Se il dolore non ha misura, il ragionamento sì, deve averne. D’altronde, ogni volta che si dirada la nebbia delle contrapposizioni ideologiche, da dietro la coltre a emergere è la stessa smania di semplificare. Ma così come non si contrappone alla categoria “magistrati” chi mette in guardia dalla furia del giustizialismo, in egual modo semplifica chi fa del garantismo una religione.
L’assoluto è di per sé riduttivo, non contestualizza e non articola e semmai, al contrario di qualsiasi logica, adatta l’assunto alle sue conclusioni. Quando Enzo Tortora, “instancabile nonostante il corpo affaticato”, promuove nel ‘87 il referendum radicale sulla responsabilità dei magistrati – che vede il trionfo del “sì” con l’80,5 per cento delle preferenze – non si scaglia contro un sistema, ma a favore di una libertà. Il rispetto del diritto da parte di tutti, nessuno escluso. È questo il lascito che sua figlia trasporta sulle pagine, mentre il dolore diventa una testimonianza, l’idea che la propria storia appartenga agli altri. Piccoli passi verso l’affermazione di un principio di umanità: lì dove la morale comune non può che coincidere con quella “politica”, lì dove a differenza di come la pensano i giacobini, un fine ultimo dell’agire umano non deve esistere, perché un bene supremo a cui sacrificare ogni cosa, e perfino una vita, non è ammissibile, perché il fine non giustifica il mezzo e perché dare battaglia non è mai giustizia, è giusto semmai un processo che risulti tale. Senza buttare giù il sistema dalla torre, ma con convinzione – è la solitudine che Federico Caffè addita al riformista, il quale: “preferisce il poco al tutto, e il realizzabile all’utopico”. A piccoli passi, nel gradualismo pragmatico della trasformazione. Ma pur sempre, come titola Tortora, a testa alta. Annalisa De Simone
Le prove di forza della magistratura. Perché Enzo Tortora non è stato un errore giudiziario: il modus operandi dei pm attuale anche oggi. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 5 Maggio 2023
Il caso Tortora non fu un errore giudiziario, evento deprecabile ma in qualche modo drammaticamente fisiologico nella dinamica del processo penale. Fu invece la difesa strenua e spregiudicata di una gravissima negligenza originaria, e con essa una tracotante prova di forza della magistratura italiana.
La Procura di Napoli, infatti, si era fatta bastare il laconico inserimento di “Tortora Enzo, fedelissimo su Milano” nell’elenco redatto dal principale collaboratore di giustizia dell’inchiesta, un tizio gravato da precedenti per gravi fatti di calunnia, per arrestare il più popolare presentatore televisivo del momento. Arresto che non fu preceduto da nessuna – ripeto: nessuna – verifica dell’accusa: non una indagine bancaria, non un pedinamento, non una intercettazione: nulla. Subito le manette all’Hotel Plaza, in diretta televisiva pressoché planetaria.
Quando la difesa riuscì a ricostruire, dal buio del proprio incredulo sgomento, la storia della richiesta alla trasmissione “Portobello” di restituzione dei centrini da tavolo realizzati da un detenuto, boriosamente “patrocinata” da quello squilibrato, e dunque il movente psichiatrico della calunnia, in quel preciso momento nasce il caso Tortora, tuttora il più indecente scandalo giudiziario della storia repubblicana. Una Procura della Repubblica così espostasi a livello mediatico non poteva ammettere quell’incredibile azzardo accusatorio, ammissione che avrebbe demolito (come d’altronde era giusto che fosse) l’intera inchiesta. Entrava in gioco la credibilità, la intangibilità e alla fine dei conti il potere di una corporazione del tutto indisponibile a mettersi in discussione, che infatti si strinse tetragona in difesa dei propri colleghi partenopei.
L’innocenza di Enzo Tortora avrebbe significato la “colpevolezza” della Procura di Napoli e la perdita di credibilità della intera magistratura italiana: inconcepibile, qui da noi. Ed ecco che, come d’incanto, si moltiplicano i pentiti disposti ad accusare Enzo, una quindicina tutti ospitati nella accogliente Caserma Pastrengo, liberi di concordare le proprie accuse, in speranzosa aspettativa -diranno molti anni dopo- di più favorevoli trattamenti detentivi. Ecco che il ritrovamento del nome e del numero di telefono del commerciante casertano Enzo Tortòna (perché anche il Fato ci mette del suo) nell’ agendina dell’amante di un boss della camorra resterà per molte settimane la “prova regina” (scriverà la stampa, portavoce spudorata di quella Procura) dell’affiliazione criminale di Tortora, che disperatamente chiedeva di verificare subito di chi altro potesse essere quel numero (senza prefisso!).
Ecco l’accorrere eccitato e frenetico di “testimoni” a caccia di una insperata e formidabile visibilità. Di qui la condanna annunciata, e uno scandalo interrotto solo da un collegio di Giudici di Appello straordinariamente coraggiosi, non disposti ad avallare ulteriormente una simile indecenza, poi seguiti dalla Cassazione. Ma non bastarono quelle due sentenze, e nemmeno la coraggiosa presa di posizione – che pochi ricordano – di Magistratura Democratica, che all’indomani della incredibile archiviazione della pratica disciplinare solo formalmente aperta a carico di quegli inquirenti, con una clamorosa conferenza stampa a Napoli prese le distanze con una tale forza da farne conseguire la crisi della Giunta di ANM allora in carica. Non solo nessuna censura disciplinare fu sollevata, ma anzi solennemente il CSM promosse con encomio (sissignore: con encomio) tutti i protagonisti di quella vergogna. Ecco perché quella di Enzo Tortora non è affatto la storia di un errore giudiziario: è invece la più impietosa rappresentazione di quale potere immenso e incontrastabile sia capace di esprimere in questo Paese la corporazione della Magistratura, soprattutto quella inquirente. Non una brutta pagina del passato, ma un monito dolorosamente attuale.
Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione CamerePenali Italiane
Antonio Giangrande: Il nostro cavallo di battaglia è l’istituzione del difensore civico giudiziario che possa operare con i poteri giudiziari, contro gli abusi e le omissioni dei magistrati e degli avvocati e degli apparati ministeriali a tutela dei cittadini. Sposiamo la causa e divulghiamo l’iniziativa concreta.
(ANSA il 10 giugno 2023) Dopo dieci condanne non andrà in carcere. Lo ha deciso il tribunale di Termini Imerese, giudice Claudia Camilleri, accogliendo la tesi dell'avvocato Francesco Paolo Sanfilippo difensore del termitano M. L., di 48 anni. Il tribunale ha rigettato l'istanza del pubblico ministero che ha chiesto la revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena. L'uomo, pluripregiudicato, è stato condannato con sentenza del 4 aprile 2022 dal tribunale di Termini Imerese, in composizione monocratica, a un anno di reclusione con il beneficio della pena sospesa, per reati commessi nel 2015.
Il giudice monocratico di allora, gli aveva concesso il beneficio nonostante l'uomo già ne avesse usufruito e nonostante avesse una lunga serie di precedenti condanne per detenzione di stupefacenti, furti, rapina , invasione di edifici. La procura ha proposto la revoca del beneficio e quindi ha chiesto di eseguire la pena di un anno di reclusione, visto che negli ultimi cinque anni l'uomo ha riportato un'altra sentenza definitiva di condanna a tre anni e dieci mesi di reclusione.
L'avvocato difensore, alla luce di un precedente della Cassazione del 2015, ha sottolineato prima un vizio procedimentale sostenendo che il pm anziché proporre incidente d'esecuzione avrebbe dovuto impugnare nei termini la sentenza con l'atto di appello. Inoltre la sentenza relativa la condanna di tre anni e dieci mesi di reclusione era divenuta definitiva prima della sentenza della quale si chiedeva la revoca della pena sospesa.
"In base al complesso meccanismo che disciplina le sequenze temporali tra le sentenze definitive nei casi di revoca del beneficio, la richiesta del pm non poteva essere accolta come ha confermato il giudice - afferma il legale - Sono molto soddisfatto dell'epilogo del procedimento, visto peraltro che il mio assistito già da tempo, per sua fortuna, ha cambiato stile di vita e da alcuni mesi ha finalmente trovato una seria e stabile occupazione lavorativa che sarà importantissima per il suo reinserimento sociale. Una carcerazione avrebbe inevitabilmente compromesso o comunque ritardato questo suo percorso di ravvedimento".
L’Iniquità. (ANSA il 10 febbraio 2023) - Nel 2006 fece un taccheggio per 5 euro e 20 centesimi in un supermercato di Firenze, rubò per un po' di cibo. Ora, 17 anni dopo, un uomo di 55 anni, senza fissa dimora, finisce in carcere a Bologna per espiare una condanna definitiva a 2 mesi.
La vicenda viene ricostruita stamani da Carlino e Nazione. A suo tempo, era il novembre del 2006, l'uomo venne bloccato e poi denunciato per il tentato furto di pochi alimenti che vennero pure recuperati. Gli venne riconosciuta l'attenuante della lieve entità, la procura di Firenze chiese il rinvio a giudizio, ci furono i processi con la condanna, anche in appello, a 2 mesi.
Quando la sentenza è diventata definitiva, nessuno però ha chiesto per lui una misura alternativa alla detenzione in carcere, richiesta che di solito fa il difensore, un legale d'ufficio in caso non ci sia l'avvocato di fiducia.
Due giorni fa i carabinieri hanno rintracciato il 55enne in una struttura di accoglienza per senza fissa dimora a Bologna e lo hanno portato al carcere di Dozza.
Cedu, troppi i casi e le decisioni ancora in attesa di esecuzione. Il Consiglio d’Europa “bacchetta” tutti i Paesi del Vecchio Continente: «Il rispetto delle sentenze è essenziale per lo Stato di diritto». In Italia 49 vicende “attenzionate”. Monica Russo su Il Dubbio il 7 aprile 2023
«Il rispetto delle sentenze dei tribunali è essenziale per lo Stato di diritto. Nel corso degli anni, i nostri Stati membri hanno compiuto progressi costanti nell'attuazione pratica delle sentenze della Corte europea, ma ora la Corte si occupa di un numero sempre maggiore di casi di crescente complessità. In tutta Europa, la convenzione sui diritti umani ha progressivamente cambiato in meglio la vita delle persone. Affinché questo impatto positivo continui, i nostri Stati membri devono dimostrare la volontà politica di attuare le sentenze in modo completo e coerente». A dirlo è il segretario generale del Consiglio d'Europa Marija Pejcinovic Buric, che ha esortato gli Stati membri a mostrare una maggiore volontà politica di attuare le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo e a migliorare la loro capacità di farlo.
Secondo l'ultimo rapporto annuale del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa sull'esecuzione delle sentenze della Cedu, nel 2022 sono stati trasferiti 1.459 nuovi casi dalla Corte europea al Comitato dei ministri, che ne supervisiona l'attuazione da parte degli Stati membri.
Per quanto riguarda l’Italia, nel 2022 il Comitato dei Ministri ha ricevuto dalla Corte europea 49 cause contro il nostro Paese per la supervisione della loro esecuzione, dieci in meno rispetto al 2021, mentre nel 2020 erano 28. Al 31 dicembre 2022, l'Italia aveva 187 cause pendenti ( contro le 170 del 2021 e le 184 del 2020), di cui 23 cause principali classificate con procedura rafforzata ( le stesse del 2021 e del 2020) e 35 cause principali classificate con procedura standard.
Dei principali casi sottoposti a procedura rafforzata, 13 sono pendenti da cinque anni o più. Allo stesso modo, 15 dei principali casi sottoposti a procedura standard sono pendenti da cinque anni o più ( rispetto ai 16 nel 2021 e ai 15 nel 2020). Il carico pendente include in particolare casi o gruppi di casi riguardanti questioni relative all'irriducibilità delle pene detentive a vita in assenza di cooperazione con le autorità giudiziarie, la mancata reazione delle autorità all'inquinamento atmosferico a scapito della salute della popolazione circostante, l'inefficace e ritardata gestione delle denunce di violenza domestica e il rispetto del diritto di visita dei genitori. Tra le nuove violazioni rilevate dalla Corte nel 2022, una di esse riguardava la detenzione di persone con problemi di salute mentale nelle carceri ordinarie e la mancanza di una capacità sufficiente negli istituti specializzati per ospitarle.
Nel corso del 2022, il Comitato dei Ministri ha esaminato e adottato decisioni in relazione a sei principali cause o gruppi di cause con procedura rafforzata. Il Comitato ha chiuso 32 casi, inclusi due casi principali sotto supervisione rafforzata e due casi principali sotto supervisione standard. Anche l'arretrato delle cause amministrative è stato ridotto. Più in generale, è stata migliorata l'efficacia del rimedio risarcitorio per procedimenti irragionevolmente lunghi (Legge Pinto) in quanto sono state garantite le risorse di bilancio necessarie e sono stati accelerati i procedimenti. In particolare, è stato possibile chiudere un gruppo di cause in procedura rafforzata riguardanti diverse carenze nel rimedio risarcitorio disponibile dal 2001 per le vittime di procedimenti giudiziari eccessivamente lunghi. Un caso di primo piano in rito ordinario è stato archiviato a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale italiana che ha dichiarato incostituzionale l'automatica attribuzione, alla nascita o all'atto dell'adozione, del cognome del padre. Un altro caso di primo piano, sul principio ne bis in idem, è stato archiviato sulla base dell'incorporazione da parte dei tribunali interni della pertinente giurisprudenza della Corte europea. Inoltre, 12 casi ripetuti sono stati archiviati perché non erano necessarie o possibili ulteriori misure individuali.
Le autorità hanno presentato un piano d'azione, 27 relazioni d'azione e 22 comunicazioni. I primi piani d'azione/ relazioni d'azione erano attesi in relazione a tre casi/ gruppi principali nonostante la scadenza del termine prorogato a tale riguardo. Si attendevano piani d'azione/rapporti d'azione aggiornati o comunicazioni contenenti ulteriori informazioni in relazione a 18 casi/ gruppi principali, in cui il termine fissato dal Comitato dei Ministri a tale riguardo è scaduto (cinque casi/ gruppi) o il feedback è stato inviato dal Dej prima del 1° gennaio 2022 (13 casi/ gruppi).
Nel 2022, infine, si è registrato l'integrale pagamento dell'equa soddisfazione concessa dal Tribunale in 23 cause, mentre si attendeva la conferma dell'integrale pagamento e/ o degli interessi moratori in 31 cause per le quali il termine indicato nella sentenza della Corte è decorso da più di sei mesi.
La lunga torsione del processo penale è il più vistoso disallineamento dell’ordinamento dello Stato. È stata una silente eversione che ha lasciato sempre (o quasi) intatta la forma - sia chiaro, quella è sempre stata apparentemente rispettata - ma che ha favorito il proliferare nelle prassi, nella costituzione delle carriere, nelle interlocuzioni del Deep State tra magistratura inquirente ed enti governativi della sicurezza che contraddice qualsivoglia separazione dei poteri e rappresenta la più potente minaccia all'autonomia della politica. Alberto Cisterna (magistrato) su Il Dubbio il 2 aprile 2023
La torsione del processo penale verso obiettivi securitari rappresenta, probabilmente, uno dei più vistosi disallineamenti dello ordinamento dello Stato rispetto ai principi enunciati dalla Costituzione. In verità, tutto il modo con cui si sono concretamente costruite le relazioni tra giudice e pubblico ministero, si sono intrecciati i rapporti tra procure della Repubblica e polizia giudiziaria, si sono alterate le correlazioni tra la pena e la sua espiazione, si sono allineati le interlocuzioni tra stampa e magistratura si colloca ai margini, se non fuori dal perimetro della Carta fondamentale e di tutti gli statuti internazionali di garanzia. Si è costruita una sorta di regime franco, di condizione anomica che nessuna legge riesce davvero a riportare all’ordine, di ginepraio che nessun intervento riesce a dipanare.
E’ stata una silente eversione, o almeno un’elusione, che ha lasciato sempre (o quasi) intatta la forma - sia chiaro, quella è sempre stata apparentemente rispettata - ma che ha favorito il proliferare di un sottobosco nelle prassi, nella costruzione delle carriere, nelle interlocuzioni del deep state tra magistratura inquirente ed enti governativi della sicurezza che contraddice qualsivoglia separazione dei poteri e rappresenta, a ogni effetto, la più potente minaccia all’autonomia della politica e alla sua indipendenza dagli altri poteri della Repubblica. Una provocazione? Sicuro, ma necessaria visti i decenni in cui si è sempre recitato il mantra di una cittadella delle toghe assediata dalla politica e minacciata nelle sue guarentigie. Ma o la riflessione collettiva ribalta i piani d’analisi e tenta almeno di percorrere sentieri perigliosi e inesplorati, o altrimenti ci si arrende alla constatazione che la spada di Brenno è sulla bilancia e, quindi, “vae victis”. Guarda caso: una spada e una bilancia, la metafora millenaria della giustizia, scolpita in ogni anfratto giudiziario dell’occidente.
Nei giorni scorsi, prima, Giorgio Spangher e, poi, Giovanni Fiandaca hanno da par loro analizzato sulle pagine del Dubbio i contorcimenti del processo e del diritto penale che da circa quaranta anni affliggono la giustizia italiana, in nome di perenni stati d’eccezione, rendendola un Moloch aggressivo e, talvolta, pericoloso. Luciano Violante, in un’intervista di un paio d’anni or sono, ha ricapitolato efficacemente i termini politici e istituzionali di questa condizione accusando il potere giudiziario di essere divenuto un «potere di governo». Una frase che pesa come un macigno e che, quindi, merita ancora oggi alcune ulteriori considerazioni: ogni riflessione sul processo penale, e in generale sugli statuti di irrogazione delle sanzioni (misure di prevenzione e misure interdittive antimafia incluse) non dovrebbe prescindere dalla considerazione che proprio la giurisdizione – e non certo da sola - ha elaborato negli anni una propria Weltanschauung, una propria precisa visione e rappresentazione del mondo, che vive e si nutre di interviste, di libri, di convegni, di relazioni ufficiali, di un’immane pubblicistica, di serie televisive di successo; tutto questo plesso culturale e ideologico - nelle declinazioni ben evidenziate da Spangher e Fiandaca) - vive e si espande in modo del tutto autosufficiente, ossia senza la necessità che la politica abbia saputo far altro che assecondarne la traiettoria e assoggettarvisi; sino a idolatrare i medesimi totem e ad ammiccare ai sommi sacerdoti officianti i riti di quella ideologia. questo sedime ha generato una precisa antropologia criminale, ha agevolato la lettura della stessa storia repubblicana, ha spalancato la strada a una interpretazione delle relazioni politiche, sociali, finanziarie sostanzialmente totalitaria, ossia poco o per nulla incline a tollerare obiezioni o eccezioni e a marchiare il dissenso come una sorta di eresia o di strisciante collaborazionismo con il nemico.
Tutto questo è stato ricapitolato dal compianto Filippo Sgubbi in un pamphlet di ineguagliabile nitore: «Il diritto penale totale» (Il Mulino, 2019); un caposaldo esegetico alla cui lettura occorre necessariamente rinviare. una cultura egemone, quindi, esattamente nel senso gramsciano del termine, provvista di una straordinaria capacità espansiva e in grado di aggredire e metabolizzare qualunque declinazione della vita pubblica dall’economia alla scuola, dal lavoro allo sport, dalla sanità all’arte, dalla politica alla agricoltura, indicati tutti come potenziali o reali luoghi del contagio mafioso da sottoporre a controllo; per giungere a stigmatizzare finanche i capisaldi della cultura nazionale con le polemiche durissime che ancora lambiscono la figura di Leonardo Sciascia dopo il profetico articolo sui professionisti dell’antimafia. partita dagli angusti anfratti della mafia e da una lettura regionalistica, se non localistica, di quella drammatica realtà, la decodifica del mondo è divenuta la Stele di Rosetta con cui poter decifrare le oscure trame delle organizzazioni criminali e della politica, interpretare il reticolo dei poteri occulti, rileggere la stessa storia del paese nei suoi paurosi e, spesso, colpevoli vuoti di verità.
Non esiste settore della vita della nazione che possa e, quindi, non debba nel ministero sacerdotale che discende dal “controllo di legalità” – sottrarsi al crivello dell’indagine penale; l’inquisitio generalis è prima che un modello d’indagine onnivoro, un paradigma culturale, una vocazione intellettuale che muove e sollecita settori cospicui della giustizia penale e, si badi bene, il più delle volte in assoluta buona fede; ovvero nell’assoluta convinzione che occorra bonificare, se non purificare, la società dai mali che l’affliggono e che, per attendere a questo compito immane, sia necessario «sorvegliare e punire», prendendo a prestito la famosa endiadi di Foucault. né è estranea al consolidarsi - anzi alla stessa originaria, rapida legittimazione di questa impostazione - la mera trasposizione dal versante della denuncia politica a quello giudiziario della “questione morale” additata da Enrico Berlinguer nella celebre intervista rilasciata ad Alfredo Reichlin, sull’Unità, il 7 dicembre 1980; se è vero, come era vero, che i «partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia», la condivisione dell’analisi imponeva una coerente chiamata alle armi della magistratura, già impegnata contro terrorismo e mafia in quegli anni, per dare risposta al grido di dolore della parte migliore del paese. questa cultura interventista è divenuta la precondizione, lo strumento della precomprensione delle prove e degli indizi e del loro peso dimostrativo, la forza trainante che giustifica finanche le opzioni più discutibili e controverse, come quella sull’ergastolo ostativo che ha a proprio fondamento non la realtà concreta del trattamento penitenziario, ma l’affermazione totalitaria di un modello antropologico sottratto a qualunque discussione e imposto come indefettibile; nessuno è davvero in grado di poter affermare che solo il pentimento attesti l’abbandono di un’organizzazione criminale, almeno che questa prova non sia sostituita da un sintagma inespugnabile, dalla presunzione invincibile che non esista la mafia, ma esista la mafiosità come stimmate incancellabili dell’anima.
E così, dopo le sanguinose battaglie per abbandonare la visione ottocentesca e del primo novecento della mafia come mero atteggiamento interiore, per sconfiggere la visione antropologica di Giuseppe Pitrè («Usi, costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano», 1889), il pendolo della storia è tornato indietro e non mancano provvedimenti di irrogazione del regime speciale di 41-bis o di applicazione della sorveglianza speciale o di applicazione di un’interdittiva antimafia in cui non spiri, nell’ideologia e nell’impostazione sociologica che li giustifica, la convinzione, condivisa con Pitrè, che «anche senza conoscere la persona di cui si serve ed a cui si affida, il solo muover degli occhi e delle labbra, mezza parola basta perché egli si faccia intendere, e possa andar sicuro della riparazione dell’offesa o, per lo meno, della rivincita». suggestioni, deduzioni, stereotipi, massime d’esperienza, decodifiche unilaterali sono il sostrato profondo, il collante ideologico delle torsioni che Spangher e Fiandaca hanno, non da ora, sempre denunciato e stigmatizzato, con l’aggiunta che una cultura giudiziaria così sedimentata corre il rischio della sclerosi o dell’ischemia, ossia il pericolo di perdere di vista le attuali e moderne connotazioni dell’avversario e di smarrirne la prossemica criminale; in fondo le celebrazioni, gli anniversari, le commemorazioni si atteggiano quasi sempre a rievocazioni prive di un aggiornamento di quei capoversi interpretativi della realtà che pur sono stati indispensabili prima del 1982 per dare ingresso al reato di associazione mafiosa nel codice penale.
Le parole del senatore Scarpinato nel dibattito sulla fiducia, ma anche passaggi non secondari dell’intervento del presidente Meloni sulla mafia, si muovono nell’alveo di stereotipi culturali consolidati, ma non riqualificati; e, quindi, privi di concreti e riscontrabili elementi di verifica che sono indispensabili al fine essenziale di stabilire quale sia l’opzione strategica migliore per rintracciare un nemico scomparso da almeno un decennio dagli orizzonti delle indagini penali. L’ortodossia e il conformismo culturale sono, al momento, la minaccia più grave nel contrasto ai fenomeni criminali organizzati di qualunque spese; la dilatazione del doppio binario (pena/misure di prevenzione) verso fattispecie sideralmente lontane dalla mafia (persino lo stalking), non rappresenta la dimostrazione dell’espansione inevitabile di uno strumentario ritenuto efficiente, quanto la prova della preoccupante incapacità di procedere a elaborazioni alternative, alla costruzione di modelli di investigazione che sappiano davvero leggere il moderno poliformismo della minaccia criminale per poterlo intercettare in modo non velleitario; in fondo la debacle giudiziaria di “Mafia Capitale” dovrebbe pararsi a monito; rapidamente riposta nello scantinato della storia giudiziaria per la sua ingombrante e imbarazzante miscellanea di modelli sociologici inadeguati, presupposizioni sfocate e scoppiettanti campagne mediatiche, si dovrebbe - invece - ergere a riprova dell’insufficienza dei canoni interpretativi applicati e dell’inadeguatezza di approcci meramente e meccanicamente trasposti in un punto di caduta lontano dal loro perimetro di elaborazione. e, giunti a questo punto, la parabola espositiva volge necessariamente al termine, ma si non può chiudere senza evocare gli scenari melmosi e mefitici, i miasmi del potere raccontati da “Il Sistema”; in quelle pagine (e nelle molte, molte altre non scritte e che mai si scriveranno) v’è il riflesso che quell’egemonia ha esercitato sulla costruzione delle carriere in magistratura, v’è la prova del triangolo d’oro tra pubblici ministeri disinvolti/polizia giudiziaria compiacente/giornalisti embedded nel carrozzone giudiziario; v’è la dimostrazione che un approccio al contrasto alla criminalità, concepito in modo geniale e profetico e a costo della vita, si sia trasformato in uno strumento di potere anzi, come diceva Violante, di governo della società, in una clava da far roteare sulle teste più o meno coronate dell’establishment e non solo.
Le paradis perdu... Le garanzie processuali tra logiche autoritarie e istanze efficientiste. Giorgio Spangher su Il Dubbio il 27 marzo 2023
Gli attori della giurisdizione, ispirati da una logica che potremmo definire, a volte, proprietaria della stessa, nella volontà di gestire i percorsi processuali, dettano l'agenda delle riforme mascherate da esigenze di funzionalità degli uffici
Giorgio Spangher (EMERITO DI PROCEDURA PENALE ALLA SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA)
Credo sia difficile delineare – anche solo parzialmente – la direttrice lungo la quale si è venuto evolvendo il sistema della giustizia penale, anche se lo si volesse limitare al processo penale. Ciò non significa che, seppure con i riferiti limiti, qualche riflessione non possa essere sviluppata. È dato acquisito che la bonifica del codice di procedura penale avviata dalla Corte costituzionale si sia in qualche modo arenata con il dispiegarsi del fenomeno terroristico di matrice domestica. In quel tempo è chiaramente emersa la consapevolezza che significativi risultati in termine di accertamento di responsabilità potevano ottenersi non tanto con l’inasprimento delle pene e la creazione di nuove ipotesi criminose (o di aggravamento circostanziato di quelle esistenti) quanto attraverso lo strumento del processo. È la c.d. stagione dell’emergenza, alla quale deve riconoscersi (o attribuirsi) il fatto di essere stata l’incubatrice delle modifiche sostanziali, ma soprattutto processuali, relativamente ai reati di criminalità organizzata. Nascono e si sviluppano in questa stagione – dello stragismo e del terrorismo – le espressioni “lotta”, “contrasto” e “fenomeni criminali”.
Inevitabilmente il processo subisce una “torsione” finalistica. Certamente vengono ridefinite le ipotesi delittuose, man mano che i fatti criminali evidenziano significative manifestazioni fattuali, ma è il processo, rimodulato nei suoi sviluppi e nei suoi strumenti, ad assumere rilievo. È inevitabile che la tenuta democratica del Paese, e la stessa tenuta delle istituzioni, siano messe a dura prova da una criminalità così strutturata se anche lo Stato, la magistratura, gli organi investigativi, l’intelligence, operando in sinergia, non affrontano con la legalità (le leggi del Parlamento) le diffuse e radicate questioni criminali che rischiano di minare la stessa sopravvivenza del Paese. È inevitabile che, fermi i confini invalidabili tracciati dalla Corte costituzionale, spetti al Parlamento affrontare l’emergenza con leggi che mettono in tensione princìpi e garanzie. Democrazia e diritti, processo e criminalità. Su questo elemento, in qualche modo fisiologico del rapporto tra criminalità e giustizia penale si è inserito, spesso molto al di là del dato “fisiologico”, un elemento finalistico: l’azione di lotta e di contrasto, tesa non già al solo accertamento, ma per così dire finalizzata a piegare il processo al risultato di argine, non già al reato, ma al fenomeno, in una dimensione che, collegando i due elementi oggettivo e soggettivo, altera la natura e l’essenza del processo penale, strumento di verifica di responsabilità e di esistenza del fatto delittuoso. Certo il processo, nato per verificare fatti isolati, spesso oggetto di semplice accertamento di responsabilità, si deve misurare con la struttura del reato che trascende l’individuo per collocarlo nella dimensione associativa, nonché nell’espansione territoriale dei fatti che supera gli ambiti ristretti delle competenze storicamente ritagliate per una diversa tipologia di reati. Tutto ciò non poteva lasciare indifferente la politica, il parlamento, la legge.
Della predisposizione di questo strumentario, votato all’acquisizione di questo arsenale (ancorché non sacro ma egualmente funzionale) si è impadronita la politica, una larga parte della politica, mossa da esigenze securitarie, definite anche sovraniste e populiste, in quanto originate e alimentate dal cortocircuito tra politica (parte della società) e popolo (parte di esso) che lo ha progressivamente esteso e ne fa fatto una prospettazione sempre più ampia. In altri termini, il meccanismo ha progressivamente contagiato larghi settori della fenomenologia criminale, in una dimensione non rispettosa del principio di proporzionalità. Non sono mancate lungo questo percorso che ha attraversato la fine e l’inizio di questo secolo anche delle controspinte, evidenziatesi da interventi sulla Costituzione (art. 111 Cost.), sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale, con varietà di effetti che non hanno alterato, tuttavia, il non marginale retrogusto di sapore autoritario della nostra legislazione e della sua interpretazione giurisprudenziale. È facile attribuire a queste situazioni – vere o comunque di non agevole quantificazione - la responsabilità di una progressiva attenuazione delle garanzie processuali dell’imputato, accentuata dallo spostamento del baricentro del processo nella fase investigativa delle indagini preliminari e da un progressivo rafforzamento del ruolo della polizia giudiziaria e del pubblico ministero non adeguatamente bilanciato da un significativo potere di controllo e di garanzia del giudice delle indagini preliminari che troppo spesso asseconda la procura avallandone acriticamente le iniziative. Sarebbe, tuttavia, riduttivo in contesti così complessi, attribuire solo a questo elemento la matrice del progressivo indebolimento dell’impianto garantista, al di là del vulnus di sistema determinato dalle notissime decisioni della Corte costituzionale del 1992, figlie della ricordata stagione. In altri termini, non sono solo le spinte e le propensioni riferite a incidere sul sistema delle garanzie, ma altre visioni della funzione delle regole finiscono per intaccare erodendole quelle forme consolidate di tutela dei diritti non solo individuali, ma che pur sotto questa dimensione incidono su aspetti di garanzia più ampi. Il riferimento è alle istanze sempre più accentuate tese alla semplificazione, all’economicità, alla compressione temporale, alla dimensione sostanzialistica, alla smaterializzazione in una dimensione ispirata ad una logica di funzionalità della macchina giudiziaria.
Gli attori della giurisdizione, ispirati da una logica che potremmo definire, a volte, proprietaria della stessa, nella volontà di gestire i percorsi processuali, dettano l’agenda delle riforme mascherate da esigenze di funzionalità degli uffici attraverso azioni organizzative che non sono mai solo tali, essendovi sottese scelte processuali valoriali; governata dalla giurisprudenza c.d. creativa, finiscono per modellare il processo in termini di efficienza, pur nell’affermata esigenza, ritenuta però in qualche modo subvalente, delle garanzie. Invero, non è un elemento inedito al quale sono funzionali istituti come le sanatorie, la mera irregolarità, il raggiungimento dello scopo, gli oneri a carico delle parti private, la natura ordinatoria dei termini, la sanzione di inammissibilità.
Sono tutte occasioni per adeguare il rito, come – ecco il riferimento al virus – nel caso dell’emergenza epidemiologica, colta come occasione per adeguare i comportamenti alle mutate situazioni ambientali, per poi trasformare le eccezioni, destinate alla temporaneità, in regole permanenti. Al rispetto formale delle regole, si affianca una interpretazione meno rigorosa, sfocata che tende a fare del giudice il codificatore delle regole attraverso la prassi e i comportamenti formalmente non irrituali spesso delineati attraverso correzioni attuate anche con la softlaw (normativa secondaria). La logica si attua anche attraverso percorsi processuali acognitivi e induzioni a comportamenti che pongono alternative da “soave inquisizione” suggerendo adesioni vantaggiose a fronte di incerti esiti processuali. La logica dell’accertamento investigativo, del resto, non si innesta in una fase a forte connotazione garantista, come era alle origini del modello accusatorio, ma in un percorso ibrido con accentuati recuperi del materiale d’accusa e da marcati interventi del giudicante. C’è sicuramente diversità tra una consapevole – ancorché agevolata – accettazione delle proprie responsabilità, alla quale non è estranea anche una funzione rieducativa, ed una scelta indotta da molteplici fattori condizionanti (economici, sociali), oltre a quelli più strettamente processuali.
Inevitabilmente, l’accentuazione dell’autoritarismo favorisce logiche ispirate a deformare il processo dei suoi connotati storici per collocarlo in una dimensione efficientista, spesso ispirata ad altri modelli processuali dalle cui impostazioni siamo lontano per la forte diversità dei contesti storici, politici e strutturali di quelle giurisdizioni. Entro questa tenaglia – da un lato pulsioni autoritarie e dall’altro propensioni efficientiste, anche variamente combinate tra loro - si snatura il senso “classico” e “storico” del processo penale che spesso smarrisce la propria essenza. Per un verso, in relazione alle emergenze criminali (o presunte tali) si accentuano le spinte repressive; dall’altro, per la criminalità a medio-bassa intensità si pregiudica la sua natura sostanziale-qualitativa che le è propria, considerati i valori in gioco, per approdare a una burocratico-quantitativa di impostazione quasi aziendalista che dovrebbe esserle estranea sempre considerati i beni coinvolti.
Quel sostituto procuratore che valuta “un tanto al chilo”. Ecco un caso indicativo di come ormai l'udienza di Appello sia stata svalutata sacrificando il principio dell'oralità e, a quanto pare, anche della specificità della trattazione dei motivi d'Appello. Il Dubbio il 23 marzo 2023
Buonasera,
sono l'Avv. Ottavio De Stefani del foro di Roma e volevo segnalare un pessimo episodio di gestione dei procedimenti da parte di singoli magistrati della Procura Generale presso la Corte d'Appello di Roma che, sempre a mio parere, è molto indicativo di come ormai l'udienza di Appello sia stata svalutata sacrificando il principio dell'oralità e, a quanto pare, anche della specificità della trattazione dei motivi d'Appello.
In data odierna (22 marzo 2023, ndr) ricevevo sul mio indirizzo pec le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale relativamente al mio procedimento che verrà trattato (cartolarmente) all'udienza del 30 marzo p.v.. Tali conclusioni oltre ad essere oltremodo ridotte e assolutamente estranee ai motivi di appello da me addotti, andrebbero ad applicarsi "in blocco" a ben cinque procedimenti previsti per la medesima udienza con tanto di numeri di r.g. e nomi degli imputati ben in vista. In pratica è stata presa una conclusione buona "per tutte le stagioni" in quanto del tutto a-specifica, a-tecnica ed anonima, applicandola a più procedimenti (evidentemente ammessi al grado successivo di giudizio) che tra loro non hanno nulla in comune avendo ognuno sicuramente motivi diversi e richieste diverse. Si lamenta così un esercizio del tutto sbrigativo ed impersonale dell'attività del Sostituto Procuratore Generale che tra l'altro nelle richieste in questione conclude per la conferma della sentenza impugnata, qualunque essa sia non essendo questa singolarmente identificata né è dato sapere se fosse a conoscenza del contenuto della stessa, ovvero "la declaratoria di estinzione del reato ove si valuti l'avvenuto decorso dei relativi termini tenuto conto di eventuali periodi di sospensione".
Le richieste sopra citate sono talmente incongruenti tra loro, infatti il mio assistito non rientra in alcun modo nel secondo gruppo essendo stato arrestato e giudicato per questo procedimento nell'anno 2022, che è più che difficile sostenere che vi sia stato effettivo studio della questione e analisi dei motivi della difesa; sembra quasi che si sia operato al buio per sbrigare la questione e consumare il minor tempo e impegno possibile nell'esercitare le proprie funzioni. Ritengo che il danneggiato principale sia il sistema giustizia in senso sostanziale e soprattutto l'imputato, il cui processo merita un'analisi personalizzata delle sue ragioni che possono pure essere confutate in giudizio ma comunque meritano almeno l'attenzione del requirente e non formulazioni di conclusioni valide "un tanto al chilo", tanto più nel mio caso in cui si trattava di soggetto detenuto.
Saluti,
Avv. Ottavio De Stefani
«Indagato, affidati al giudice e non dovrai pagare l’avvocato». La clamorosa vicenda a Roma, raccontata dal blog “Terzultimafermata” su Il Dubbio il 19 febbraio 2023
Indagato, affidati al giudice e non dovrai pagare l’avvocato». A segnalare la clamorosa storia è l’avvocato Riccardo Radi, sul blog “Terzultimafermata”. «Alle volte si pensa di aver visto tutto ma proprio tutto e si scopre che c’è sempre qualcosa che ti può sorprendere.
Al tribunale di Roma c’è un Gip che tra gli avvisi riportati nell’avviso di fissazione dell’udienza ha pensato bene di inserire anche questa frase: “avvisa la persona indagata che è suo diritto non partecipare all’udienza come sopra fissata, è doveroso per legge per il giudice in relazione alla stessa, ove non dia mandato ad un Difensore di fiducia, nominare e citare per l’udienza (come viene fatto con il presente atto) un Difensore d’ufficio che per legge (art. 31 disp. Att. c.p.p.) ha diritto di chiedere una retribuzione alla persona indagata che ha difeso e per la quale sia comparso all’udienza sopra indicata.
La persona indagata che, come suo diritto, non voglia comparire all’udienza e voglia limitarsi ad attendere la decisione del Giudice senza trovarsi nella condizione di dover retribuire il Difensore d’ufficio, contatti quindi il Difensore come sopra nominatole e lo inviti espressamente e formalmente, a mezzo Posta Elettronica Certificata o racc. A.R. o in altro documentato modo, a non comparire all’udienza fissata ed in generale a non svolgere alcuna attività difensiva”.
E dunque oltre agli avvisi di rito abbiamo l’avviso assai irrituale di tener lontano il difensore dal procedimento e – si badi bene – il giudice consiglia non solo di farlo ma anche di “documentarlo” che male non fa.
Della serie: il difensore ti chiede solo soldi … lassalo perde, poi non dire che non ti avevo avvisato».
A reagire è l’Associazione nazionale difensori d’ufficio, con un comunicato con il quale ha espresso «massimo disappunto e profonda preoccupazione per tale abominio giuridico che, di fatto, ritiene trascurabile e non necessaria la difesa tecnica nel procedimento penale. Tanto al fine di ribadire la fondamentale importanza della figura del Difensore d’Ufficio, ultimo baluardo del giusto processo e garante dei diritti dei cittadini»
Errori, amnesie e “dritte” fuori luogo del giudice che vuol tagliare noi avvocati. Sui social non si placa l’indignazione per l’avviso con cui un magistrato del Tribunale di Roma elargisce (cattivi) consigli agli indagati su come sottrarsi al pagamento del difensore d’ufficio. Ma qui un autorevole rappresentante della Camera penale capitolina mette a nudo tutte le amnesie della toga che ha firmato il documento. Giuseppe Belcastro su Il Dubbio
Alcuni giorni addietro, il tam tam dei social si concentra su un singolare avviso che un giudice del Tribunale di Roma ha formulato nel dare notizia a un indagato della fissazione di una udienza camerale. Conviene intanto evitare equivoci e darne contezza integrale:
“(Il giudice) avvisa le persone indagate che se è loro diritto non partecipare all’udienza come sopra fissata, è doveroso per legge per il Giudice, in relazione alla stessa, ove non diano mandato ad un Difensore di fiducia, nominare loro e citare per l’udienza (come viene fatto con il presente atto) un difensore d’ufficio che per legge (art. 31 disp. att. c.p.p.) ha diritto di chiedere una retribuzione alla persona indagata che ha difeso e per la quale sia comparso nell’udienza sopra indicata. La persona indagata che, come suo diritto, non voglia comparire all’udienza e voglia limitarsi ad attendere la decisione del Giudice senza trovarsi nella condizione di dover retribuire il Difensore d’ufficio, contatti quindi il Difensore d’ufficio come sopra nominatole e lo inviti espressamente e formalmente, a mezzo Posta Elettronica Certificata o racc. A.R. o in altro documentato modo, a non comparire all’udienza fissata ed in generale a non svolgere alcuna attività difensiva”.
La notizia – è sin troppo evidente – ha dignità per esser commentata, tanto che, nel volgere di poche ore, lo fanno tutti. Tranne l’associazione dei panettieri (non è mia, ma di un’amica).
Come spesso accade nelle cose mediatiche, il circo si autoalimenta, dando anche la stura ad un gioco massimalista a chi la dice più grossa, a chi si indigna di più, a chi propone mezzi cruenti di repressione (ma di cosa?) e persino a chi rivendica nervosamente la primazia temporale della diffusione, lamentando che non gliene si dia credito (ingrati che sono gli avvocati!).
Insomma, a riflessioni più o meno attente, ma ragionate, se ne affiancano di anacronistiche, che se ti azzardi a non condividerle sei un cameriere in livrea, un servo della gleba planetaria. Qualche giorno è passato da quando la notizia è uscita, ma la polemica non si placa (quella buona e quella cialtrona); può essere allora utile provare a dire un paio di cose. Anzi tre.
Primo.
Non si dice a un indagato che è suo diritto non partecipare all’udienza. Gli si dice semmai, all’opposto, che è suo diritto (e non dovere) farlo: nel sistema utilitarista della giustizia penale (e dell’agire umano) il diritto di fare una cosa implica il suo contrario e solo se intendi polarizzare l’attenzione sull’assenza inverti la logica dell’argomento. Un po’ alla Nanni Moretti.
Secondo.
Il difensore d’ufficio che si ha l’obbligo di nominare – anche se, sembra di capire, un po’ di malavoglia – ha diritto ad essere retribuito non solo se partecipa all’udienza alla quale non lo si vorrebbe, ma pure se “soltanto” esamina il caso, vede il fascicolo, colloquia con il cliente. Avvertirlo nei termini usati, dunque, servirà solo ad accrescere la possibilità di lasciare il giudice da solo in aula a decidere, non ad altro.
Terzo.
Non sta bene dire all’indagato che può limitarsi ad attendere la decisione del giudice senza spiegargli che, in un sistema accusatorio, il tasso di correttezza di quella decisione è sempre direttamente proporzionale al conflitto dialettico tra accusa e difesa (sì, sempre: anche quando il difensore dice sciocchezze). Facciamoglielo allora completo quest’avviso.
E siccome una cosa tira l’altra, dico pure la quarta.
Se è vero che l’avviso accende (e meno male) il red alert posizionato sulla Toga, perché invade uno spazio sacro tra l’avvocato e l’assistito, come pure quello posizionato nella tasca dell’indagato, che non vorrà spender quattrini per un difensore di ufficio che assimila ancora a quello consegnato alla storia dai luoghi comuni, è vero pure che di scene pietose in aula, ad opera di difensori d’ufficio improvvisati e arrivati a piazzale Clodio di passaggio provenendo direttamente da via Lepanto, ne abbiamo viste tutti; con buona pace degli sforzi profusi dall’Unione delle Camere Penali Italiane e dalla Camera Penale di Roma per la formazione.
Ecco, invece di indignarci e gridare soltanto, proviamo a capire le ragioni culturali di un avviso così. Poi, se proprio ne abbiamo voglia, proclamiamo l’astensione a oltranza.
LA REPLICA DEL GIUDICE DOPO LA DENUNCIA DI DUE AVVOCATI. «Non ho mai negato il diritto di difesa a quei legali: potevo solo rinviare l’udienza... ». L’intervento del giudice Toblò al Dubbio: «Non essendo titolare del fascicolo, mi era precluso qualsiasi provvedimento che potesse orientare l’esito della causa» Simone Tablò (giudice del tribunale di Roma) su Il Dubbio il 5 marzo 2023
Spettabile Redazione, con riferimento all’articolo apparso sul Dubbio in data 16 maggio 2022, dal titolo “Così il tribunale ci ha negato il diritto di difesa in presenza”, desidero precisare quanto segue.
Premetto che sono venuto a conoscenza dello scritto in esame qualche tempo fa, ma solo oggi ho trovato il tempo di scrivere. Mi scuso, quindi, per la mancanza di tempestività.
Il giudice in questione sono io. Ciò posto, segnalo, anzitutto, che non ero titolare della causa alla quale si fa riferimento nell’articolo, ma ero in mera sostituzione, atteso che il ruolo apparteneva ad un magistrato temporaneamente applicato al Ministero, da quanto mi risulta. Di tale circostanza i difensori erano - o avrebbero dovuto essere ben consapevoli, essendo stato espressamente indicato nei miei provvedimenti.
Non essendo, dunque, titolare del fascicolo, mi era precluso qualsiasi provvedimento che potesse orientare l’esito della causa. Anche di questo i difensori erano - o avrebbero dovuto essere - a conoscenza. In ogni caso, ricordo di avere rappresentato la mia qualità di mero sostituto.
Ne deriva l’assoluta inutilità di una trattazione in presenza, dal momento che il mio provvedimento - ancorché la questione da esaminare potesse rivestire una particolare delicatezza non sarebbe stato diverso da un semplice rinvio per i medesimi incombenti, come ho effettivamente disposto. Mi sfugge, quindi, la ragione per la quale avrei dovuto scomodare gli avvocati costringendoli a recarsi in tribunale, dal momento che non avrei potuto agire diversamente da come ho agito.
Per completezza aggiungo che, in precedenza, sempre in relazione a procedimenti nei quali ero mero sostituto, avendo rinviato per i medesmi incombenti alla presenza dei difensori, la grandissima parte di questi ultimi si sono lamentati - oggettivamente a ragione - dell’assoluta inutilità di procedere ad una trattazione in presenza per ottenere un mero rinvio.
Il tutto, poi, senza considerare che, sulla scia delle misure dirette a contenere il rischio pandemico, le indicazioni dei capi degli uffici giudiziari sconsigliavano - a quell’epoca - la presenza degli operatori del diritto (avvocati, magistrati, personale amministrativo) ove non strettamente necessario.
Per inciso, voglio anche sottolineare che le cause a me assegnate vengono tutte trattate in presenza, proprio in quanto ritengo che la trattazione cartolare non sia rispondente alle esigenze di una difesa adeguata. Di più. Gli avvocati che hanno sollevato il rilievo di cui all’articolo de Il Dubbio, hanno chiesto al sottoscritto di assegnare il procedimento ad altro giudice.
Non mi permetto di esprimere valutazioni su tale istanza, ma ritengo, ad occhio, che ogni avvocato sappia perfettamente che l’assegnazione dei procedimenti sia prerogativa del capo dell’ufficio o, quanto meno, della sezione.
Ora, al di là delle doverose delucidazioni da me fornite, ciò che mi ha più colpito non sono stati i rilievi, ma le modalità con le quali la vicenda è stata rappresentata. Ho sbagliato tante volte, anche come giudice, e mi sono sempre assunto la responsabilità dei miei errori. Sono, tuttavia, costretto a rilevare che nessuno si è curato di interpellarmi per verificare se vi fossero dei motivi alla base del mio agire. L’impressione - non voglio accusare nessuno - è che vi sia una vaga tendenza al “sensazionalismo”, forse un po’ figlia dei nostri tempi.
Ritengo, però, che sia doveroso sempre instaurare un contraddittorio, anche elementare, soprattutto se l’articolo proviene da un giornale che del rispetto del contraddittorio e delle ragioni di tutte le parti fa la propria bandiera.
Personalmente, nel mio lavoro non ho mai chiuso la bocca a nessuno e ho sempre cercato, prima di tutto, di ascoltare ciò che i difensori dicevano, dato che il significato proprio del termine “udienza” è proprio questo: “luogo in cui si ascolta”.
Rimango a disposizione per eventuali chiarimenti che si dovessero rendere necessari. Con il massimo rispetto.
«Il pm non cerchi più le prove a favore dell’indagato...» L’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi: «Io non ho mai visto un pubblico ministero che ti interrompe per dirti che ha fatto delle indagini e integra la tesi difensiva». Gennaro Grimolizzi su Il dubbio il 17 febbraio 2023.
L’avvocato Giuseppe Benedetto è autore del libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere” (ed. Rubbettino, pp. 134, euro 16). Il presidente della “Fondazione Einaudi” pone all’attenzione dei lettori un tema di strettissima attualità, al centro dell’agenda politica, e da sempre oggetto di un’attenta analisi da parte di Carlo Nordio, che firma la prefazione, ben prima che l’ex magistrato diventasse ministro della Giustizia. «Le idee sulla separazione delle carriere del ministro Nordio – dice al Dubbio Giuseppe Benedetto -, al di là di quanto scrive nel mio libro, sono nette e chiare da sempre. Una riforma di questo genere, però, passa più che dal governo dal Parlamento. Il timore del pantano parlamentare, comunque, è forte».
Avvocato Benedetto, il suo libro è un manifesto a sostegno della separazione delle carriere?
È una deduzione logica e cronologica. Cronologica perché facciamo una ricostruzione storica della vicenda. Partiamo dal Codice di procedura penale riformato nel 1989 e dalla susseguente riforma costituzionale di dieci anni dopo. Nel libro si sostiene che sono state due riforme che hanno introdotto cambiamenti profondi nel nostro sistema processuale e costituzionale, ma mancano dell’ultimo tassello: il giudice terzo.
Questo non è effettivamente terzo se non c’è una reale separazione della magistratura inquirente da quella giudicante. È un passaggio non di poco conto. La deduzione logica si basa sul fatto che abbiamo cercato di dimostrare alcune tesi non con argomenti da politique politicienne, ma con argomenti politici nel migliore senso del termine, perché la politica alta ci appartiene, anche come Fondazione Einaudi. Ma, soprattutto, con argomenti che evidenziano che il sistema odierno non regge e ci pone al di fuori dalle liberal- democrazie occidentali, sia quelle europee che quelle anglosassoni.
Il Parlamento si sta muovendo. Alla Camera sono state presentate delle proposte di legge per separare giudici e pm. Il Terzo Polo, la Lega e Forza Italia vanno nella stessa direzione. Al momento è assente su questo fronte Fratelli d’Italia. Il legislatore è più determinato rispetto al passato? Il traguardo della separazione è alla portata?
Non me la sento di dire che il traguardo è alla portata. Sarei troppo ottimista. Lo stesso presidente della Commissione Affari Costituzionali ha detto martedì che, se tutto va ve bene, ci vorrebbero almeno due anni e mezzo. In politica due anni e mezzo sono due vite e mezza. Il fatto, però, che ci si muova è positivo. Io ho paura del pantano parlamentare, ma ovviamente bisognerà passare dal Parlamento. Ci potrebbe però essere una alternativa.
A cosa si riferisce?
Il Parlamento potrebbe tenere conto di alcune indicazioni della Fondazione Einaudi: una rapida Assemblea Costituente per rivedere complessivamente la seconda parte della Costituzione. Potrebbe esserci in questo caso una riforma complessiva della giustizia. Siccome si è avviato l’iter parlamentare, mi hanno già chiesto in Parlamento di intervenire in audizione. Porterò le tesi della Fondazione Einaudi. Spero che anche Fratelli d’Italia e il Pd possano fare una riflessione sul tema. Dei quattro progetti presentati sulla separazione delle carriere tre sono esattamente la riproduzione di quello che la Fondazione Einaudi e l’Unione Camere penali hanno presentato sei anni fa, raccogliendo oltre 60mila firme. È un disegno di legge costituzionale, come ricorda l’avvocato Migliucci, nell’introduzione al mio libro. L’altra proposta di Forza Italia si discosta di poco da quanto suggeriamo. Spero che non si avviino varie forme di ostruzionismo da parte di potenti forze politiche e della società presenti nel nostro paese.
Pochi giorni fa lei ha sostenuto che il pm deve sostenere l'accusa nel nostro sistema processuale non ricercare le prove a favore dell'indagato. Una proposta concreta, ben più di una provocazione, per mettere mano al nostro sistema giudiziario?
È una provocazione. Io non ho mai visto un pubblico ministero che ti interrompe per dirti che ha fatto delle indagini e integra la tesi difensiva. Se poi vogliamo passare dal momento empirico alla teoria, questo è un retaggio classico del sistema inquisitorio. Con il sistema accusatorio le cose vanno diversamente. Dunque, non giriamo attorno al problema. La mia provocazione è stata fatta alla luce del sole, alla presenza del sottosegretario alla Giustizia Ostellari, il quale ha apprezzato la mia proposta, dando incarico agli uffici preposti per una serie di approfondimenti. A partire dai casi di pm che hanno agito per ricercare prove a sostegno dell’indagato.
Nel suo libro lei dimostra un amore profondo per la toga. Quanto è cambiata la professione forense negli ultimi vent'anni?
La professione forense è completamente cambiata già rispetto a pochi anni fa. Possiamo fare un semplice esempio, prendendo in considerazione la fase antecedente al Covid e quella successiva alla pandemia. Nel post Covid ho difficoltà a relazionarmi con i sistemi informatici che oggi reggono anche il penale. Ma questo è solo un aspetto. I giovani che si avviano alla professione sono favoriti su questo fronte. È come quando la mia generazione ha iniziato la professione con il nuovo Codice di procedura penale. Ai colleghi che si affacciano alla professione consiglio di utilizzare il “metodo laico”, quello del dubbio. Leonardo Sciascia, lo scrivo pure nel mio libro, lo richiama chiaramente.
INGIUSTIZIA – Quelle vittime sempre dimenticate. Redazione su L’Identità il 15 Febbraio 2023.
DI ELISABETTA ALDROVANDI
Il Festival di Sanremo è finito. E, polemiche a parte, che hanno occupato la scena più degli artisti e delle canzoni, è passato sotto tono il monologo di Francesca Fagnani, dedicato ai giovani detenuti e alla necessità di adottare strumenti che prevengano e impediscano di avviarsi verso la strada della criminalità. Un intervento pregevole. E pienamente condivisibile. Un giovane che inizia a delinquere difficilmente ha la possibilità di raddrizzarsi uscendo dal tunnel dell’illegalità, che spesso lo porta, in un’escalation inesorabile, a commettere reati sempre più gravi. D’altronde, siamo affetti da una specie di imprinting sociale e culturale, prettamente italiano: non si è brave persone se non si prova pietà e comprensione per i detenuti, i quali vanno capiti, aiutati, sostenuti, perché sì, avranno anche sbagliato, però uno Stato di diritto deve garantire massima tutela e rispetto della dignità a tutti, pure a chi ha commesso crimini efferati. Giusto. Tuttavia, non può passare inosservato che manca un tassello. Quello dell’attenzione alle vittime. Se c’è uno stupratore, da qualche parte ci sarà una donna violentata. Se c’è un assassino, da qualche parte ci sarà una persona uccisa. Eppure, l’attenzione mediatica e la curiosità, a volte morbosa, è rivolta soltanto per l’autore del reato. La sofferenza della vittima interessa per il lasso di tempo necessario e sufficiente a suscitare empatia e sdegno per quanto ha subito, dopo di che lo sguardo si trasferisce su chi è stato capace di tanta crudeltà ed efferatezza. E lì, si scatenano indagini psicologiche, deduzioni basate più su sensazioni emotive che sul raziocinio, perché noi italiani siamo tutti allenatori della nazionale di calcio, virologi o investigatori, a seconda delle circostanze, capaci di elevarci a opinionisti tuttologi senza la benché minima base di cognizione di causa sull’argomento trattato. Piacciono i criminali perché piace il male, piace addentrarsi nelle pieghe più oscure e marce dell’animo umano, per vivere per interposta persona ciò che non si sarebbe mai capaci di fare, ma che se fatto da altri rende quell’altro un essere tanto spregevole quanto irresistibile. Questa fascinazione, invece, non appartiene alla vittima, perché il suo dolore pone di fronte all’impotenza consolatoria, e perché, sotto sotto, se una donna è stata violentata o un anziano truffato, in qualche modo è complice del reato subìto: chissà com’era vestita al momento dell’aggressione, tutti sanno che non bisogna dare fiducia a sconosciuti che chiedono soldi. Si è tutti più intelligenti, fino a quando la disgrazia non piomba addosso con la sua portata devastatrice. Sarebbe un compito doveroso, invece, riequilibrare i ruoli: smetterla di considerare chi commette reati come il frutto bacato di una società ingiusta, che si ritrova quasi costretto a violare la legge perché più sfortunato degli altri. E iniziare a dare il giusto peso a ciò che sembra dimenticato: il libero arbitrio. Perché, a fronte di milioni di persone che nascono e vivono in realtà disagiate, moltissimi sono coloro che decidono di vivere nel rispetto della legge. Adeguarsi alle regole sociali, così come violarle, è una scelta. Responsabilizzare appieno l’autore di un reato è fondamentale non solo per prevenire la criminalità, ma per determinare la giusta pena e dare piena attuazione alla funzione rieducativa della pena. Finché si cercheranno giustificazioni esterne, sarà assai difficile che chi delinque prenda piena coscienza del disvalore di quanto fatto, e assai facile che finisca col sentirsi vittima di quella società in cui egli stesso ha, per primo, prodotto vittime. Che restano confinate nel dimenticatoio, perché dopo un po’ il dolore inconsolabile stanca. E la ricerca di giustizia viene scambiata per desiderio di vendetta.
Se proprio la Giustizia è ingiusta. Redazione su L’Identità l’8 Febbraio 2023
DI ELISABETTA ALDROVANDI
Quando si parla di “mala Giustizia”, il pensiero corre a casi in cui si viene accusati di un reato e poi prosciolti, o quando si è rinviati a giudizio, processati e assolti. La giustizia, in realtà, non funziona male se indaga sull’accertamento di un reato, e la persona sottoposta alle indagini si difende, anche pagando l’assistenza legale.
Funziona male se adotta erroneamente provvedimenti che limitano la libertà personale, o se condanna in via definitiva per un reato che, solo in sèguito a revisione, si scopre non essere stato commesso, o non costituire un illecito penale, o per gli altri motivi in base ai quali si può essere assolti in base alla legge. Si tratta di errori che costano a chi li subisce e a chi li commette. Lo Stato, infatti, paga per riparare a questi sbagli. E i soldi provengono dalle nostre tasse.
Quante sono le persone vittime di ingiusta detenzione? Nel periodo tra il 1992 e il 31 dicembre 2021, si sono registrati 30.017 casi, ossia, mediamente, circa 1000 persone poste in custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari all’anno. Il tutto, per una spesa superiore a 819 milioni e 272 mila euro, con una media di 27 milioni e 309.240 all’anno. A questi, vanno aggiunti quelli condannati erroneamente: anche in questo caso, i numeri sono impietosi. Dal 1991 al 31 dicembre 2021 sono state 30.231 le persone condannate per sbaglio, con una spesa per lo Stato di 895 milioni 308.275 euro, ossia 28 milioni e 880 mila euro all’anno. Nel 2021, complice la pandemia che ha sollecitato provvedimenti di scarcerazione per evitare il sovraffollamento carcerario, c’è stata una considerevole flessione di questi numeri, e gli indennizzi sono diminuiti di circa tre milioni di euro rispetto alla media. Ma si tratta comunque di cifre molto alte, che fanno a pugni con il generalizzato senso di ingiustizia che pervade la numerosa platea delle vittime di reato. Come è possibile sbagliare così spesso nelle condanne e al contempo condonare pene anche gravi a pericolosi criminali? È raro, infatti, che una persona vittima di un furto in casa o di un’aggressione, per non parlare dei familiari delle vittime di omicidio, dichiari soddisfazione in merito alla sentenza di condanna inflitta al colpevole. E questo, perché si ritiene la pena sproporzionata per difetto rispetto alla gravità del fatto commesso, perché non si ottiene nessun risarcimento, e perché in fase processuale e di esecuzione della pena il condannato può beneficiare di tutta una serie di riti alternativi e sconti che, a volte, vanificano la pena prevista dal codice penale. Il contrasto, dunque, tra i molteplici casi di mala giustizia, e gli altrettanto numerosi casi di una giustizia incapace di garantire un’effettiva riabilitazione e un concreto reinserimento post condanna, rende il quadro di un sistema giudiziario caratterizzato da elementi disfunzionali che richiedono correttivi urgenti e adeguati. Innanzitutto, servono maggiori risorse e investimenti, in termini di assunzione e formazione di personale, di acquisto di apparecchiature e strumenti efficienti, e di predisposizione di strutture in cui la giustizia possa essere esercitata nel rispetto dell’elevata funzione che le compete. Celebrare udienze in tribunali fatiscenti, svolgere il proprio lavoro in uffici vetusti coi muri scrostati o trattenere i detenuti in celle troppo piccole e senza acqua calda sconfessa il messaggio più importante: ossia, che per lo Stato il corretto esercizio della giustizia, dalla fase della denuncia a quella processuale per finire con l’esecuzione della condanna, sia un aspetto fondamentale di una società civile. Perché la forma è sostanza. Anche quando ci si deve difendere da un’accusa o scontare una pena, o si deve far valere un diritto.
Antonio Giangrande. DELITTI DI STATO ED OMERTA’ MEDIATICA.
Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.
Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.
C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.
O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).
O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.
Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.
Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.
Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».
Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.
Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.
E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.
PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.
Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive Filippo Vendemmiati su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto, “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere, rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza: l’inchiesta giornalistica, quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco, da omissioni complicità.. Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni inadempienti nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime, costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime, sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.
Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.
Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.
Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.
Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.
La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.
Morì d’infarto durante l’ arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.
L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.
Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.
Antonio Giangrande: Editoriale. Parliamo un po’ della Giustizia italiana. La Giustizia dei paradossi.
Le maldicenze dicono che gli italiani sono un popolo di corrotti e corruttori e, tuttavia, scelgono di essere giustizialisti e di stare dalla parte dei Magistrati.
L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Sui media la Giustizia ha sempre un posto in primo piano nella loro personale scaletta, ma non sempre sono sinceri.
Parliamo del premier Matteo Renzi che, in occasione del 25 aprile 2016, celebra la "liberazione" dai pm con una lunga intervista a Repubblica. Il nocciolo del suo pensiero è tutto raccolto in poche frasi: "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l'opposto di ciò che serve all'Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano. Adesso la priorità è che si velocizzino i tempi della giustizia".
Poi, invece, si legge che sono stati denunciati i pm del caso Renzi: "Omesse indagini sulle spese pazze". Depositata l'accusa contro i pm che hanno archiviato il caso delle spese di Renzi: "Non hanno voluto indagare", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/01/2016, su “Il Giornale”.
Parliamo del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che parla, tra le altre cose, di riforma della Prescrizione. Andrea Orlando. Primo guardasigilli non laureato che nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive Federico Altea su “Elzeviro” il 27 febbraio 2014. Quaranticinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro. Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un giurista serio che conosca e riformi completamente il sistema penale e civile e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema giuridico. Una persona che abbia le competenze per riformare il sistema penitenziario. Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Da questo c’è da desumere che possa pendere dalle labbra degli esperti e tecnici interessati.
Parliamo delle toghe. Diceva Piero Calamandrei: “L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri”. “I magistrati - diceva ancora Calamandrei - sono come i maiali. Se ne tocchi, uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione". Il giudice rappresenta il funzionario dello Stato, vincitore di concorso all’italiana, cui è attribuito impropriamente il Potere dello iuris dicere. Ossia di porre la parola fine ad una controversia, di attribuire ad uno dei contendenti il bene della vita conteso nel processo giurisdizionale, di iniziare e/o far finire i giorni della vita di un cittadino in una struttura penitenziaria. Il giudice è per sé stesso “un’Autorità”: ossia un Pubblico Ufficiale. L’avvocato, invece, non lo è. La considerazione è così banale, tanto è ovvia. L’avvocato è solo un esercente un servizio di pubblica necessità, divenuto tale in virtù di un criticato esame di abilitazione.
Il processo non può essere mai giusto, come definito in Costituzione, se nulla si può fare contro un magistrato ingiusto giudicato e giustificato dai colleghi, ovvero se in udienza penale l’avvocato si scontra contro le tesi dell’inquirente/requirente collega del giudicante.
La magistratura in Italia: ordine o potere? Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. Questo al tempo della rivoluzione francese. Poi il diritto, per fortuna, si è evoluto. In Italia la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere dello Stato (Potere, nel vero senso della parola), infatti per poter parlare tecnicamente di Potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio. Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo). In effetti l’art. 1 della Costituzione, nei principi fondamentali, recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Per rendere chiaro il concetto è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale. A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli difensori – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di Potere. Difatti il Titolo Quarto della Carta costituzionale riporta scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost.: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…”. Di questo, però, la sinistra politica non se ne capacita, continuando ad usare il termine Potere riferito alla magistratura, smentendo i loro stessi padri costituenti. Se fino alla fine degli anni Ottanta, quando vi erano veri politici a rappresentare il popolo, questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica, ovvero quando la politica ha usato l’arma giudiziaria per arrivare al potere – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo: un vero colpo di Stato. Non possiamo dimenticarci quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista, giacobina e corporativa racchiusa nelle parole “resistere, resistere, resistere…”! E poi i magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. E che dire, poi, di alcune sentenze della Corte di Cassazione? Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse, se non addirittura inventarsi nuove norme, come per esempio "il concorso esterno nell'associazione mafiosa": un reato che non esiste tra le leggi. Per non parlare, poi, della mancata applicazione della legge, come quella della rimessione del processo in altri fori per legittimo sospetto di parzialità. Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma si smentisce perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono delle vere e proprie correnti. Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? E poi, per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? E perché, questi stessi, i più animosi tra le toghe, inducono i politici a loro vicini ad adottare leggi giustizialiste ad uso e consumo della corporazione? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica, arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie?
Parliamo infine delle vittime della malagiustizia. Si parla poco, ma comunque se ne parla, inascoltati, del problema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, così come della lungaggine dei processi. Così come si discute poco, ma si discute, inascoltati, del problema dei risarcimenti del danno e degli indennizzi, pian piano negati. Delle vittime della malagiustizia si parla di un ammontare di 5 milioni dal 1945. Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. Queste vittime della malagiustizia li vedi, come forsennati, a raccontare perpetuamente sui social network, inascoltati, le loro misere storie. Sono tanti, come detto 5 milioni negli ultimi 60 anni. Poi ci sono i parenti e gli affini da aggiungere a loro. Un numero smisurato: da plebiscito. Solo che poi si constata che in effetti nulla cambia, anzi si evolve, con ipocrisia e demagogia, al peggio, spinti dai media giustizialisti che incutono timore con delle parole d’ordine: “Insicurezza ed impunità. Tutti dentro e si butta la chiave”. Allora vien da chiedersi con un intercalare che rende l’idea: “Ma queste vittime dell’ingiustizia a chi cazzo votano, se vogliono avere ristoro? Sarebbe il colmo se votassero, da masochisti, proprio i politici giustizialisti che nelle piazze gridano: onestà, onestà, onestà…consapevoli di essere italiani, o che votassero i politici giustizialisti che, proni e timorosi, si offrono ai magistrati. Quei magistrati che ingiustamente hanno condannato o hanno arrestato le vittime innocenti, spinti dalla folla inneggiante e plaudente, disinformata dai media amici delle toghe! Sarebbe altresì il colmo se le vittime innocenti votassero quei politici che stando al potere non hanno saputo nemmeno salvare se stessi dall’ingiusta gogna.
Se così fosse, allora, cioè, si fosse dato un voto sbagliato a destra, così come a sinistra, con questo editoriale di che stiamo parlando?
Cultura della legalità e incultura della giustizia. A che serve tutta la retorica sulla promozione della legalità se le istituzioni e gli stessi cittadini non sono educati al senso di giustizia?
Michele Finizio su Basilicata24.it il 23 Maggio 2023
Si spendono fiumi di parole sulla legalità, ossia sul rispetto della legge e delle regole della buona convivenza civile. Le istituzioni e la politica, secondo questo continuo vociare, dovrebbero essere baluardo della legalità. Sarebbe il dettato normativo, ossia la Legge, a definire i confini di ciò che è legale e di ciò che non lo è. Diamo tutto per buono. Tuttavia c’è un problema: la Giustizia. Sappiamo che non sempre ciò che la legge dello Stato definisce legale, è giusto. E sappiamo perciò che esiste una differenza tra legalità e giustizia. Se il concetto di giustizia non ha un valore assoluto, ma è mutevole nel tempo e nello spazio anche in relazione al modello di società e alla cultura che lo informa, anche il concetto di legalità risente di una rappresentazione socialmente e culturalmente costruita. Dunque che significa educare alla legalità? Che significa promuovere la cultura della legalità? Fondamentalmente dovrebbe voler dire educare le persone al rispetto per i diritti degli altri e ai valori che ci consentono di agire secondo bontà, verità e giustizia.
E questo potrebbe essere un compito della famiglia, della scuola e di tutte le agenzie educative informali. Ma educare con la parola non basta, occorre l’esempio degli insegnanti, dei genitori, di tutti coloro che hanno un peso educativo nei confronti dei bambini e degli adolescenti.
In seguito però saranno i protagonisti della vita pubblica, vale a dire coloro che hanno un ruolo nelle istituzioni, soprattutto nelle istituzioni politiche e giudiziarie, a dare l’esempio. E dovranno darlo soprattutto quando salgono sui pulpiti della “promozione della cultura della legalità”. E qui molte volte casca l’asino. Può un politico con ruoli istituzionali parlare di legalità se egli stesso è protagonista di vicende illegali? Se egli stesso manipola concorsi pubblici, raccomanda incapaci nei posti chiave, accumula consenso con metodi molto discutibili? Può un magistrato parlare di legalità se egli stesso non applica la legge? Se egli stesso manipola fascicoli giudiziari o favorisce qualcuno a danno di qualcun altro? Non direi. Tuttavia il problema non riguarda soltanto i singoli esponenti delle istituzioni, quanto le istituzioni nella loro funzione generale. La credibilità è un requisito fondamentale. Può un sistema giudiziario fondato sulla casta, che agisce nel quadro di reciproche coperture tra giudici, pubblici ministeri, avvocati, cancellieri, essere credibile e affidabile? Può un sistema politico fondato sull’autoreferenzialità, continuamente esposto a fenomeni corruttivi, ossessionato dal consenso a tutti i costi, essere credibile? Può essere credibile un sistema politico che usa le emergenze, i bisogni, la disperazione della gente come se fossero il bancomat del consenso? Può educarmi alla legalità una pubblica amministrazione che mi costringe a strade tortuose e “illegali” affinché io possa affermare un mio diritto?
Ecco, questa storia della legalità e della cultura della legalità forse ha un po’ stancato. Troppo esposta a lunghi periodi di retorica inconcludente. Il vero nodo invece è il senso di giustizia, formare le coscienze al senso di giustizia potrebbe essere la strada che ci libera dal pantano della retorica sulla legalità. La cultura della giustizia: giustizia sociale, giustizia del bene, giustizia implicita nei valori della solidarietà, del rispetto dei diritti degli altri e che – ripeto – ci aiutano ad agire secondo bontà, verità e a rendere appunto giustizia.
Falcone e Borsellino amavano la giustizia, non solo nel senso scontato di rispetto della legge, ma nel significato profondo che la distingue dal male. La mafia è ingiusta perché compie azioni che nulla hanno a che fare con il bene, con il rispetto dei diritti degli altri. Perché rappresenta una cultura del male, perché è un sistema predatorio totalizzante, perché uccide, minaccia e si fa Stato. E’ una piovra che mette il sonnifero alla vita democratica. Questi due grandi magistrati nel loro lavoro sono stati spesso frenati, ostacolati, criticati dal sistema politico e giudiziario, grazie anche all’uso strumentale del principio di legalità. Falcone e Borsellino dovevano fermare l’ingiustizia mafiosa e aprire spazi enormi per l’affermazione della Giustizia, non solo quella giudiziaria, ma quella implicita nell’origine della parola latina iustum, che significa “giusto”. La loro intima passione, senza la quale non avrebbero fatto quello che hanno fatto, era quella di rendere giustizia, nel quadro di una virtù squisitamente sociale. Le norme, le procedure, le gerarchie di allora rappresentavano la legalità e quella legalità non sempre ha aiutato i due magistrati. Quella legalità nel tempo e grazie a loro è cambiata, perché la legalità è relativa. Il punto è che la nozione di giustizia è stata estromessa, almeno in teoria, dal campo della “scienza del diritto”. Si continua a non capire che esiste una questione della giustizia isolata, allontanata, dalla sfera giuridica.
La giustizia, rendere giustizia, essere giusti, lottare contro le ingiustizie piccole e grandi, combattere il male per affermare il bene, rispettare i diritti delle persone, sono questi i principi laici che andrebbero radicati in tutte le istituzioni politiche, giudiziarie, culturali. E’ l’unico modo per ricordare degnamente Falcone e Borsellino, i ragazzi della scorta e tutti i morti per la giustizia. Chiunque abbia letto le storie, le biografie di questi uomini e donne, chiunque abbia ascoltato le loro parole nei momenti più drammatici, sa che non erano banalmente tutori e difensori della legalità, ma erano difensori e promotori di giustizia, erano dei giusti. Ecco, promuovere la cultura dei giusti, di coloro che agiscono per rendere giustizia, è prioritario in questi tempi di sonnambulismo sociale e di ipocrisia delle istituzioni.
Normale ingiustizia. Il caso Tortora non è una anomalia, ma il vero volto della giustizia italiana. Carmelo Palma e Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 19 Aprile 2023.
Al di là delle strumentalizzazioni politiche, la vicenda del celebre conduttore televisivo non è da considerarsi un’eccezione, ma il sintomo delle problematiche storiche del sistema giudiziario di questo paese
Il cosiddetto “caso Tortora” non è mai stato famigerato per quel che fu, cioè il trionfo di un’idea e di una pratica della giurisdizione tutt’altro che minoritarie e desuete, ma per quel che non fu mai: l’episodica e tuttavia correggibile aberrazione di un corso giudiziario altrimenti retto e consono a un’amministrazione dopotutto sana.
L’assoluzione di Tortora e il quasi unanime riconoscimento della sua innocenza – non senza che in primo grado al “cinico mercante di morte” si appioppassero dieci anni di galera – fu salutato, dopo un vero sabba colpevolista, come un benefico ritorno alla normalità, dopo un momento di increscioso, ma circoscritto, impazzimento del sistema.
Invece, il “caso Tortora” riguardava ed esprimeva proprio la normalità quotidiana della giustizia italiana e della tanto celebrata cultura della giurisdizione che sarebbe posta a garantirne l’affidabilità.
La macellazione civile e processuale di quella “persona perbene” era e continua a essere deplorata appunto perché sacrificava un “gentiluomo”, e la giustizia che infieriva su di lui ha sempre rappresentato e continua a rappresentare nella narrativa corrente la manifestazione di una specie di cattiveria ingiustificata, il raptus imprevedibile in un comportamento solitamente a modo.
La realtà è che il caso Tortora discende come un frutto perfettamente naturale dai lombi della giustizia italiana, ma la versione accreditata – comoda innanzitutto per quella giustizia – è che quella vicenda denunciasse tutt’al più la generazione di una stortura, un’escrescenza malformata recisa infine, per quanto tardivamente, con il riconoscimento dell’innocenza del malcapitato.
Ed è, questa, una versione su cui si accomoda anche certa schiatta “liberale”, l’interfaccia del galantuomismo che ripesca il caso Tortora a dimostrazione del fatto che, insomma, certi abusi bisogna denunciarli, fermo restando che però, sempre insomma, garantismo mica vuol dire farsi prendere in giro dalle zingare che si fanno ingravidare per scampare il gabbio, e perché, insomma al quadrato, certi abusi sono abusi se riguardano le persone perbene, quale Tortora era e fu riconosciuto e non se riguardano le persone permale, i presunti ladri di una “razza” di ladri, i presunti mafiosi con la faccia da mafiosi, i presunti assassini di cui non può presumersi, se non per compromissione o complicità, altra disposizione che al sangue e al delitto.
Il caso Tortora è così diventato a destra la scriminante di un garantismo razzista e classista, la sacra icona periodica del retequattrismo collettivo e del giustizialismo a geometria variabile.
Ma il “vero” caso Tortora è indigesto, per così dire, a destra e a manca, proprio perché esso rappresentò il profilo genuino e duraturo, non quello provvisoriamente trasfigurato dal male, della giustizia di questo Paese.
Un profilo sostanzialmente unitario e trasversale alle destre e alle sinistre pro tempore, tutte convinte che il sistema penale adempia a una specifica funzione sociale e sia, come la guerra, la prosecuzione della politica con altri mezzi. E quindi debba rispettare una logica di guerra: degli amici e dei nemici, dei buoni e dei cattivi.
Il “liberale” che oggi rievoca il caso Tortora mentre abbuona ai propri ranghi l’evocazione della ruspa e il precetto meloniano “garantisti nel processo e giustizialisti nella pena” non fa altro che reiterare quella contraffazione, con Enzo Tortora ucciso da un tragico errore anziché in esecuzione del protocollo del rastrellamento e inquisitorio ben rivendicato prima, durante e dopo il suo sacrificio dalla giustizia di questo Paese.
La grandezza di Leonardo Sciascia? Trasformare le vittime anonime della giustizia in carne viva e sangue...
"Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la Giustizia". E' il bellissimo libro curato da Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto. Gaetano Pecorella Il Dubbio il 13 aprile 2023
Questo straordinario libro - Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia a cura di Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto - è sul pensiero di Leonardo Sciascia, ma va al di là di Leonardo Sciascia: è un libro sul dolore umano che sempre si collega all’amministrazione della giustizia, e, più in generale, all’esercizio del potere. E’ un libro sulla responsabilità di decidere sulla sorte di un uomo; sui collaboratori sempre creduti, perché «il far nome di sodali, di complici è sempre stato dai giudici inteso come un passar dalla loro parte» ; sulla pena di morte e su un “piccolo” giudice che ebbe la forza di opporsi, in epoca fascista, alla sua applicazione, come scrive Insolera, sul rapporto tra Verità e Potere, sul potere giudiziario privo di responsabilità; sulle miserie del sistema giudiziario, e sul “terribile” e pur “necessario” mestiere del giudicare; è, infine, un libro sull’errore giudiziario che si riassume nelle parole di Sciascia: «Per come va l’ingranaggio, potrebbero essere tutti innocenti».
A ben vedere tutto ciò non ha in sé nulla di nuovo, per lo meno a partire da Voltaire e dall’illuminismo, da Beccaria e dai fratelli Verri. Allora qual è, qual è stata, la grandezza di Sciascia che emerge dalle pagine delle “Ispezioni della terribilità”? La risposta che mi sento di dare è che Sciascia ha trasformato le parole dei giuristi in carne e sangue di coloro che sono stati vittime della ferocia dei giudici.
Il volume nasce dal felice incontro tra l’Associazione amici di Leonardo Sciascia e l’Unione delle camere penali, impegnate tra il settembre del 2020 e il giugno 2021 in una serie di Letture ‘sciasciane’. Si parte dall’assunto che il volto feroce della giustizia non appartiene ad epoche remote, ma è realtà presente.
«Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia». Il passaggio è tratto da «La strega e il capitano», in cui Sciascia ricostruisce scrupolosamente la condanna al rogo di Caterina Medici (nel 1617 a Milano) fantesca nella casa del senatore Luigi Melzi, considerata responsabile dei suoi strani dolori di stomaco e per questo bruciata. La rievoca Salvatore Scuto ponendo la eterna questione del «rapporto tra il senso assoluto della giustizia e la realizzazione che di essa fanno le leggi».
L’idea base del volume è questa: Sciascia è insieme “testo” e “pretesto”. Testo perché si commentano frasi sulla giustizia penale tolte dai suoi lavori di narrativa, frasi di efficacia straordinaria per la loro forza comunicativa. Pretesto, perché parlare di Sciascia è parlare di giustizia, quella intesa come potere, come macchina violenta che chiunque può stritolare nei suoi ingranaggi, con gli interventi di penalisti, di costituzionalisti, di intellettuali d’altra cultura e infine di avvocati.
Paolo Borgna ragiona su una frase de il “Contesto”, romanzo sull’errore del giudicare, in cui un personaggio dice: “Sì, ero innocente. Ma che vuol dire essere innocente, quando si cade nell’ingranaggio? Nientevuol dire, glielo assicuro”.
Sciascia, per Vincenzo Maiello, ha il merito di introdurre nel lessico civile vocaboli e concetti che identificano un paradigma di giustizia penale conforme allo Stato di diritto, costruito sulla inviolabilità dei diritti umani.
Paolo Ferrua muove dall’affermazione di Sciascia: «Il potere di giudicare i propri simili non può e non deve essere vissuto come potere», per poi ricostruire la lenta, ma costante distruzione del processo accusatorio da parte dei giudici per riacquisire tutto quel potere che era stato sostituito dalla logica della ragione e dalla dialettica.
Emanuele Fragasso ricorda, a conclusione del suo intervento, le parole con cui si chiude “Porte aperte”: «sono parole di incoraggiamento verso l’uomo, a condizione che questi sia risoluto a combattere per la sua libertà e per l’umanità che è presente in ogni uomo».
Ogni intervento meriterebbe di essere ricordato ben più ampiamente di quanto si è fatto sin ora: tuttavia, ognuno di essi è talmente ricco di riflessioni, di citazioni di Sciascia, di osservazioni giuridiche e non giuridiche, che appare un’opera impossibile.
In chiusura vorrei toccare un aspetto di Sciascia che mi ha particolarmente colpito. Gli scritti contenuti in questo libro danno anche un quadro delle contraddizioni, forse irrisolvibili, che animano il mondo della giustizia. Sciascia ha investigato, ma la realtà è talmente complessa che alcune domande sono rimaste senza risposta, perché nel difendere un principio si finisce per oscurarne, o sottovalutarne un altro. Anche in questo sta la grandezza di Sciascia: non ci ha presentato una soluzione di tutti i problemi, un mondo della giustizia perfetto, nel quale si trova sempre una risposta giusta. Sciascia ha lasciato, a chi lo avrebbe letto, una eredità di grandi dubbi, di nodi inestricabili: ne cito un paio.
Il rapporto tra la giustizia e il popolo. Sciascia ha scritto che il popolo deve vigilare su come i giudici amministrano il loro potere; ha individuato però nella ricerca del consenso popolare gli eccessi di non pochi magistrati. Ciò è accaduto in passato, e accade oggi: “mani pulite” ha reso le Procure dei soggetti politici, ha creato un consenso popolare dando ai magistrati un ruolo di “difensori dell’onestà”, a prescindere dalla colpevolezza degli imputati.
Il rapporto tra giustizia e legge scritta. Sciascia censura quei giudici che si fanno essi stessi creatori del diritto piegando le norme ai propri fini. Nello stesso tempo, però, descrive il giudice di Porte aperte come un uomo che ha forzato la legge per non applicarla, visto che in quel caso prevedeva la pena di morte. In quali casi il giudice può piegare la legge alla sua coscienza?
Infine, un’ultima domanda: c’è un mezzo per avere una giustizia meno crudele, o la giustizia per governare non può essere diversa da ciò che è? Sciascia non lo dice, ma con la sua lotta per il diritto ha testimoniato che conta soltanto continuare a credere che sia possibile.
Errori giudiziari e controversi indennizzi per l'ingiusta detenzione.
Raffaele Sollecito e Giuseppe Gulotta. Quando la giustizia è strabica, permalosa e vendicativa.
Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano della malagiustizia e della ingiustizia, in generale, e del delitto di Perugia, in particolare.
Giustizia carogna, scrive Fabrizio Boschi il 31 gennaio 2017 su "Il Giornale”. Nel febbraio 2012 ci provò un deputato di Forza Italia, Daniele Galli: presentò una proposta di legge per obbligare lo Stato a rifondere le spese legali del cittadino che viene imputato in un processo penale e ne esce assolto con formula piena. Non venne mai nemmeno discussa. Eppure affrontava una delle peggiori ingiustizie italiane.
Raffaele Sollecito, in seguito alla sua definitiva assoluzione, ha deciso di chiedere solo l’indennizzo per ingiusta detenzione, scartando l’idea di chiedere anche il risarcimento danni per responsabilità civile dei magistrati, consigliato dalla magnanimità ed accondiscendenza dei suoi legali verso i magistrati di Perugia.
"Nelle prossime settimane valuteremo eventuali istanze relative all'ingiusta detenzione". Lo ha detto uno dei legali di Raffaele Sollecito all’Agi il 30 marzo 2015, Giulia Bongiorno, spiegando che eventuali azioni di "risarcimento e responsabilità civile non saranno alimentati da sentimenti di vendetta che non sono presenti nell'animo di Sollecito". Quanto alla responsabilità civile dei magistrati inquirenti, "quello della responsabilità civile dei magistrati è un istituto serio che non va esercitato con spirito di vendetta – ha aggiunto il legale - e allo stato non ci sono iniziative di questo genere".
Ciononostante la bontà d’animo di Raffaele Sollecito viene presa a pesci in faccia.
Raffaele Sollecito non deve essere risarcito per i quasi quattro anni di ingiusta detenzione subiti dopo essere stato coinvolto nell’indagine l’omicidio di Meredith Kercher, delitto per il quale è stato definitivamente assolto insieme ad Amanda Knox. A stabilirlo è stata la Corte d’appello di Firenze l’11 febbraio 2017 che ha respinto la richiesta di indennizzo ritenendo che il giovane abbia «concorso a causarla» rendendo «in particolare nelle fasi iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura francamente menzognere». Il giovane arrestato assieme ad Amanda Knox e poi assolto per l’omicidio a Perugia di Meredith Kercher, aveva chiesto 516mila euro di indennizzo per i 4 anni dietro le sbarre.
Alla richiesta di risarcimento si erano opposti la procura generale di Firenze e il ministero delle Finanze. Nella richiesta di risarcimento i legali di Sollecito avevano richiamato la motivazione della sentenza della Cassazione nelle pagine in cui venivano criticate le indagini secondo la Suprema Corte mal condotte dagli inquirenti e dalla procura di Perugia. In primo grado, nel 2009, Raffaele Sollecito e l’americana Amanda Knox erano stati condannati dalla Corte d’Assise di Perugia a 25 anni e 26 anni di carcere per omicidio. Nel 2011 vennero poi assolti e scarcerati dalla Corte d’Assise d’appello dal reato di omicidio (alla Knox fu confermata la condanna a tre anni per calunnia). Nel 2013 la Corte di Cassazione annullò poi l’assoluzione e rinviò gli atti alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze che condannò (2014) Sollecito a 25 anni e Knox a 28 anni e 6 mesi. Infine, il 27 marzo 2015, il verdetto assolutorio della Cassazione.
Prima dei commenti ci sono i numeri. Sconcertanti, scrive Alessandro Fulloni il 31 12 2016 su "Il Corriere della Sera”. Il dato complessivo lascia senza parole. Il risarcimento complessivo versato alle vittime della «mala-giustizia» ammonta a 630 milioni di euro. Indennizzi previsti dall’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, introdotto con il codice di procedura penale del 1988, ma i primi pagamenti – spiegano dal Ministero – sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in 24 anni, dunque, circa 24 mila persone sono state vittima di errore giudiziario o di ingiusta detenzione. L’errore giudiziario vero e proprio è il caso in cui un presunto colpevole, magari condannato in giudicato, viene finalmente scagionato dalle accuse perché viene identificato il vero autore del reato. Situazioni che sono circa il 10 per cento del totale. Il resto è alla voce di chi in carcere non dovrebbe starci: custodie cautelari oltre i termini, per accuse che magari decadono davanti al Gip o al Riesame. In questo caso sono previsti indennizzi, richiesti «automaticamente» - usiamo questo termine perché la prassi è divenuta inevitabile - dagli avvocati che si accorgono dell’ingiusta detenzione. Il Guardasigilli ha fissato una tabella, per questi risarcimenti: 270 euro per ogni giorno ingiustamente trascorso in gattabuia e 135 ai domiciliari. Indennizzi comunque in calo: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47. Mentre nel 2004 furono 56. Ridimensionamento - in linea con una sorta di «spendig review» - che viene dall’orientamento della Cassazione che applica in maniera restrittiva un codicillo per cui se l’imputato ha in qualche modo concorso all’esito della sentenza a lui sfavorevole - poniamo facendo scena muta all’interrogatorio - non viene rimborsato. In termini assoluti e relativi, gli errori giudiziari si concentrano soprattutto a Napoli: 144 casi nel 2015 con 3,7 milioni di euro di indennizzi. A Roma 106 casi (2 milioni). Bari: 105 casi (3,4 milioni). Palermo: 80 casi (2,4 milioni). La situazione pare migliorare al Nord: per Torino e Milano rispettivamente 26 e 52 casi per 500 mila e 995 mila euro di indennizzi. Alla detenzione si accompagna il processo, che può durare anni. Quando l’errore subito viene accertato, la vita ormai è cambiata per sempre. C’è chi riesce a rialzarsi, magari realizzando un obiettivo rimasto per tanto tempo inespresso. E chi resta imbrigliato nell’abbandono dei familiari, nella perdita del lavoro, nella necessità di tirare a campare con la pensione.
Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che dà conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.
Ma veniamo al caso "Sollecito".
I rischi della difesa, scrive Ugo Ruffolo il 12 febbraio 2017 su"Quotidiano.net". La decisione sembra salomonica: Sollecito, assolto per il rotto della cuffia, viene liberato ma non risarcito per la ingiusta pregressa detenzione. Quattro anni, per i quali chiede 500.000 euro. Sollecito dovrebbe ringraziare il cielo di essere libero e non forzare la mano, per non fare impazzire i colpevolisti. Ma Salomone non abita nei codici. I quali sarebbero un sistema binario. O tutto, o niente. Se sei assolto, non importa come, la ingiusta detenzione ti deve essere risarcita. C’è però l’articolo 314 del c.p.c., il quale prevede una sorta di concorso di colpa del danneggiato, che neutralizzerebbe la sua pretesa al risarcimento. Come dire: se sei assolto, ma per difenderti hai mentito o ti sei contraddetto, allora sei tu ad aver depistato polizia e giudici, o ad aver complicato il loro lavoro. Se ti hanno prima condannato e poi assolto, e dunque se hai fatto quattro anni di carcere ingiustamente, la colpa è anche tua; e questo ti impedirebbe di chiedere il risarcimento (come dire: un po’ te la sei voluta). Sembrerebbe giusto, almeno in linea di principio. Ma sorge il problema che, assolto in penale l’imputato, in sede civile viene processata la sua linea difensiva, ai fini di accordargli o meno risarcimento da ingiusta detenzione. In altri termini ciascuno è libero di difendersi come crede, anche depistando o mentendo (potrebbe essere talora funzionale alla difesa nel caso concreto). Ma chi sceglie questa linea si espone al rischio di vedersi poi rifiutato il risarcimento. È quanto obbietta a Sollecito l’ordinanza della Corte d’Appello, ricostruendo quella storia processuale come costellata di depistaggi, imprecisioni, contraddizioni e menzogne. Che talora Sollecito aveva ammesso, giustificandosi con l’essere stato, al tempo, “confuso”. I suoi avvocati annunciano ricorso in Cassazione, per contestare come erronea quella ricostruzione processuale. Dovrebbero avere, credo, scarsa possibilità di vittoria. Salomone, così, rientrerebbe dalla finestra ed i colpevolisti eviterebbero di impazzire. Ma quel che turba, è un processo che si riavvolta su se stesso, cannibalizzandosi: processo del processo del processo (e anche, processo nel processo nel processo). Come riflesso fra due specchi all’infinito.
Sollecito, no ai risarcimenti. Non è abbastanza innocente. La Corte d'appello di Firenze nega 500mila euro per 4 anni di cella: «Troppi silenzi e menzogne», scrive Annalisa Chirico, Domenica 12/02/2017, su "Il Giornale". Per la giustizia italiana puoi essere innocente e, a un tempo, colpevole. La Corte d'appello di Firenze ha rigettato la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione avanzata da Raffaele Sollecito. Il dispositivo, pubblicato dal sito web finoaprovacontraria.it, s'inserisce nel solco della cosiddetta giurisprudenza sul concorso di colpa. In sostanza, il cittadino che, ancorché assolto, abbia contribuito con dolo o colpa grave a indurre in errore inquirenti e magistrati, vede ridimensionato il proprio diritto a ottenere un risarcimento per la detenzione ingiustamente inflitta. Nel caso di Sollecito, quattro anni di carcere e un'assoluzione definitiva, questo diritto si annulla, si polverizza, nessun risarcimento, non un euro, niente. Per i giudici della terza sezione penale, «le dichiarazioni contraddittorie o false e i successivi mancati chiarimenti» da parte del giovane laureatosi ingegnere dietro le sbarre avrebbero contribuito all'applicazione e al mantenimento della misura cautelare. Ma quali sarebbero le dichiarazioni «menzognere»? «Io non mi sono mai sottratto agli interrogatori - commenta al Giornale il protagonista, suo malgrado, dell'ennesimo colpo di scena in un'odissea giudiziaria durata quasi dieci anni Ho letto la decisione, sono sbigottito. Avverto l'eco della sentenza di condanna, forse sono affezionati agli errori giudiziari». Sollecito è scosso, non se l'aspettava. «Credevo di aver vissuto le pagine più nere della giustizia italiana. Devo prendere atto che la mia durissima detenzione sarebbe giustificata». Nelle ore successive al ritrovamento del cadavere di Meredith Kercher, la studentessa inglese barbaramente uccisa nell'appartamento di via della Pergola nel 2007, Sollecito risponde alle domande di chi indaga, cerca di ricostruire nel dettaglio gli spostamenti suoi e di Amanda, la ragazza americana che frequenta da una settimana, prova a fissare gli orari di ingresso e uscita dal suo appartamento perugino, se Amanda si sia mai assentata nel corso della notte, se il padre gli abbia telefonato dalla Puglia verso l'ora di cena o prima di andare a dormire, Raffaele non si sottrae ma fatica a ricordare con esattezza, si contraddice, giustifica l'imprecisione ammettendo di aver fumato qualche canna come fanno gli universitari di mezzo mondo, nel corso dell'interrogatorio di garanzia dinanzi al gip dichiara: «Ho detto delle cazzate perché io ero agitato, ero spaventato e avevo paura. Posso dire che io non ricordo esattamente quando Amanda è uscita, se è uscita non ricordo». Ma c'è di più. Nell'ordinanza di 12 pagine, si legge che il silenzio mantenuto dall'indagato dopo l'interrogatorio di garanzia Sollecito fu tenuto per sei mesi in isolamento avrebbe contribuito a indurre in errore i giudici. In altre parole, l'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, frutto di una valutazione della difesa in via prudenziale, diventa indizio di un'innocenza a metà: Sollecito è ancora sotto processo. Per spazzare via ogni dubbio, si afferma che la stessa sentenza di assoluzione emessa dalla Cassazione avrebbe rinvenuto «un elemento di forte sospetto a carico del Sollecito» a causa delle dichiarazioni contraddittorie. Non vi è traccia invece delle censure espresse dai supremi giudici sull'operato dei pm: «clamorose défaillance o amnesie investigative e colpevoli omissioni di attività di indagine», scrivono gli ermellini. Per l'omicidio della Kercher un cittadino ivoriano sconta una condanna definitiva a sedici anni di carcere. Ormai la cultura del sospetto ha inghiottito quella del diritto, è la stessa che fa dire candidamente al presidente dell'Anm Davigo che pure gli innocenti sono colpevoli.
Innocenti di serie B, scrive Claudio Romiti il 14 febbraio 2017 su “L’Opinione. Destando un certo scalpore, soprattutto tra quei cittadini avvertiti che credono in una visione garantista della giustizia, la Corte d’Appello di Firenze ha negato qualunque risarcimento a Raffaele Sollecito per l’ingiusta detenzione. Quattro interminabili anni passati dietro le sbarre che, per una persona vittima di una ricostruzione dei fatti a dir poco surreale, devono essere sembrati un inferno. Così come un inferno, che in alcuni aspetti continua a sussistere per il giovane ingegnere informatico pugliese, è stato il lunghissimo iter processuale, fortemente inquinato da un forte pregiudizio mediatico che ancora oggi fa sentire i suoi effetti presso una parte dell’opinione pubblica disposta a bersi qualunque pozione colpevolista. In estrema sintesi i giudici di Firenze hanno stabilito, bontà loro, che il comportamento iniziale del Sollecito, considerato eccessivamente ambiguo e, in alcuni casi, menzognero, avrebbe indotto gli inquirenti perugini in errore, convincendo questi ultimi - aggiungo io - a mettere in piedi un castello di accuse fondato sul nulla, visto che nella stanza del delitto non furono ritrovate tracce dei due fidanzatini dell’epoca, contrariamente alle decine e decine di evidenze schiaccianti a carico di Rudy Guede. Quest’ultimo, considerato ancora oggi da molti analfabeti funzionali di questo disgraziato Paese solo un capro espiatorio dell’atroce delitto di Perugia, vittima dei soliti poteri forti capitanati dalla Cia, fino a coinvolgere la longa manus di Donald Trump, il quale in passato si era interessato del caso.
Sta di fatto che Raffaele Sollecito, pur essendo scampato ad uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia italiana, viene considerato oggi, negandogli alcun risarcimento, un innocente dimezzato. Un mezzo colpevole che avrebbe cagionato le sue disgrazie per non aver fornito in modo chiaro le ragioni della sua innocenza. Tant’è che persino il silenzio mantenuto dall’imputato dopo l’interrogatorio di garanzia, come sottolinea Annalisa Chirico sul “Il Giornale”, avrebbe indotto i giudici nell’errore. “In altre parole - commenta la stessa Chirico - l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, frutto di una valutazione della difesa in via prudenziale, diventa indizio di una innocenza a metà”. E se la decisione di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande degli inquirenti viene valutata in questo modo, ciò significa che nelle nostre aule giudiziarie ancora aleggia quell’idea molto medievale dell’inversione della prova. In un evoluto sistema giudiziario, al contrario, spetta sempre all’accusa dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio la colpevolezza di qualunque imputato. E se questo non accade, proprio perché siamo tutti innocenti fino a prova contraria, le conseguenze fisiche, morali e finanziarie di una accusa caduta nel nulla non possono ricadere sulla testa di chi l’ha pesantemente subìta. Da questo punto di vista, dopo l’annuncio del ricorso in Cassazione presentato dall’avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno, dobbiamo sempre sperare, al pari del mugnaio di Potsdam, che ci sia sempre un giudice a Berlino.
Ma quale è il comportamento contestato a Raffaele Sollecito?
Si legge il 11 Febbraio 2017 su “Il Tempo”. "Credevo di aver vissuto le pagine più nere della Giustizia Italiana, ma nonostante la Cassazione mi ha dichiarato innocente, devo prendere atto che la mia durissima detenzione sarebbe giustificata. Ripeto, la Cassazione aveva sottolineato l'esistenza di gravissime omissioni in questo processo e di defaillance investigative". Così Sollecito - assolto dall'accusa di aver partecipato all'omicidio di Meredith Kercher - commenta sul suo profilo Facebook. "Riprendono in toto la sentenza di condanna di Firenze, piena di errori fattuali ingiustificabili - scrive ancora Sollecito - Adesso questi giudici non tengono minimamente conto di sentenze in cui è acclarato il clima di violenza durante gli interrogatori. Non mi sono mai sottratto ad un interrogatorio e dire che non mi hanno ascoltato è soltanto una scusa, visto che ho fatto mille dichiarazioni spontanee". Per l'avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno, la decisione della Corte d'appello di Firenze «si caratterizza per una serie consistente di errori. Basterebbe pensare che esclude il diritto al risarcimento sulla base delle dichiarazioni che avrebbe reso Sollecito e dimentica che esistono delle sentenze in cui è stato attestato che addirittura, nell'ambito della questura, furono fatte pressioni e violenze alla Knox e Sollecito proprio nel momento in cui rendevano queste dichiarazioni». «Non c'è un solo cenno sulla situazione in questura - aggiunge il legale - Inoltre, l'ordinanza dimentica che le dichiarazioni non possono in nessun modo aver inciso sull'ingiusta detenzione perché non sono state citate come decisive nei provvedimenti restrittivi in cui si faceva invece riferimento ad altri elementi. Infine, in sede di dibattimentale, Sollecito non ha reso alcun esame quindi non si vede come le sue dichiarazioni possano aver causato il diniego di libertà in quella fase. È una sentenza - conclude il legale - che verrà immediatamente impugnata in Cassazione».
Insomma, la Corte di Appello di Firenze, volutamente e corporativamente non ha tenuto conto del clima di violenza e coercizione psicologica che sollecito ha subito nelle fasi in cui gli si contesta un atteggiamento omissivo e non collaborativo.
In ogni modo. Se a Firenze a Sollecito si contesta un comportamento in cui abbia «concorso a causarla» (l'illegittima detenzione), rendendo «in particolare nelle fasi iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura francamente menzognere», come se non fosse nel suo sacrosanto diritto di difesa farlo, ancor più motivato, plausibile e condivisibile sarebbe stato il diniego alla richiesta dell'indennizzo di fronte ad una vera e propria confessione.
Invece si dimostra che in Italia chi esercita impropriamente un potere, pur essendo solo un Ordine Giudiziario, ha sempre l'ultima parola per rivalersi da fallimenti pregressi.
Giuseppe Gulotta, risarcito con 6,5 milioni di euro dopo 22 anni in carcere da innocente. Il muratore di Certaldo (Firenze) è stato condannato nel 1976 per duplice omicidio e assolto nel 2012. La Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto l'indennizzo. L'avvocato aveva chiesto 56 milioni di euro, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 14 aprile 2016. Sei milioni e mezzo di euro di risarcimento per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. La corte d’appello di Reggio Calabria ha stabilito l’indennizzo per Giuseppe Gulotta, il muratore di Certaldo (Firenze) accusato di aver ucciso due carabinieri e poi assolto nel 2012. La richiesta di Gulotta, attraverso il legale Pardo Cellini, ammontava a 56 milioni di euro. “Stiamo valutando un ricorso in Cassazione”, ha spiegato l’avvocato. “Se da un lato siamo soddisfatti perché con la decisione dei giudici di Reggio Calabria finisce questo lungo percorso, dall’altro non ci soddisfa che sia stato riconosciuto un indennizzo e non un risarcimento”. “Per trentasei anni sono stato un assassino”, aveva raccontato in un libro del 2013 lo stesso Gulotta, “dopo che mi hanno costretto a firmare una confessione con le botte, puntandomi una pistola in faccia, torturandomi per una notte intera. Mi sono autoaccusato: era l’unico modo per farli smettere”. Nel 1976, a 18 anni, Gulotta fu condannato per il duplice omicidio di Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella caserma Alkmar di Alcamo Marina, in provincia di Trapani.
In carcere in Toscana da innocente, crea una fondazione per le vittime degli errori giudiziari. Giuseppe Gulotta fu condannato per l'omicidio di due carabinieri. Dopo 40 anni ha ricevuto i 6,5 milioni di indennizzo dallo Stato, scrive Franca Selvatici il 17 gennaio 2017 su "La Repubblica". È arrivato finalmente l'indennizzo dello Stato per Giuseppe Gulotta e per la sua vita devastata da un tragico errore giudiziario. In tutto 6 milioni e mezzo di euro, che dopo anni di carcere, di disperazione e di difficoltà economiche permetteranno all'ex ergastolano, accusato ingiustamente dell'atroce esecuzione di due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, trucidati il 26 gennaio 1976 nella piccola caserma di Alcamo Marina, di assicurare un po' di agiatezza alla moglie Michela e ai figli e di aiutare chi, come lui, è finito in carcere innocente. Giuseppe Gulotta, nato il 7 agosto 1957, aveva poco più di 18 anni quando finì nel "tritacarne di Stato". Chiamato in causa con altri da un giovane che, dopo essere stato trovato in possesso di armi, fu torturato, costretto a ingoiare acqua, sale e olio di ricino e a subire scosse elettriche ai testicoli, anche lui fu incatenato, circondato da "un branco di lupi", picchiato, insultato, umiliato e torturato, finché - come ha raccontato nel libro Alkamar scritto con Nicola Biondo e pubblicato da Chiarelette - "sporco di sangue, lacrime, bava e pipì" - non ha firmato una confessione che, seppure ritrattata il giorno successivo, gli ha distrutto la vita. Il 13 febbraio 1976 fu arrestato e dopo ben nove processi il 19 settembre 1990 fu condannato definitivamente all'ergastolo. Scarcerato nel 1978 per decorrenza dei termini della custodia cautelare, era stato allontanato dalla Sicilia. I genitori lo mandarono in Toscana, a Certaldo, e qui - fra un processo e l'altro - Giuseppe ha conosciuto Michela, sua moglie, che gli ha dato la forza di resistere nei 15 anni trascorsi in carcere. Nel 2005 ha ottenuto la semilibertà. Sarebbe comunque rimasto un "mostro" assassino se nel 2007 un ex carabiniere non avesse deciso di raccontare le torture a cui aveva assistito. Da allora Giuseppe - assistito dagli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini - ha intrapreso l'impervio percorso della revisione del processo. Il 13 febbraio 2016 - esattamente 40 anni dopo il suo arresto - è stato riconosciuto innocente e assolto con formula piena dalla corte di appello di Reggio Calabria. Quattro anni più tardi, il 12 aprile 2016, dopo altre estenuanti battaglie gli è stato definitivamente riconosciuto l'indennizzo di 6 milioni e mezzo a titolo di riparazione dell'errore giudiziario. Anche gli altri tre giovani condannati come lui sono usciti assolti dal processo di revisione, incluso Giovanni Mandalà, morto in carcere disperato nel 1998. Per i suoi familiari lo Stato si appresta a versare un indennizzo record, il più alto mai riconosciuto in Italia: 6 milioni e 600 mila euro.
Ecco come la giustizia in Italia sia strabica. A Firenze il silenzio vale il diniego all’indennizzo; a Reggio Calabria una confessione di colpevolezza vale una elargizione del medesimo.
Carceri piene di meridionali: indole criminale o povertà? Antigone ha affrontato un argomento delicato: l'associazione tra le regioni meridionali e la criminalità. Analizzando con profondità questi dati ,evidenzia la necessità di considerare i fattori socio-economici prima di trarre conclusioni affrettate. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 31 agosto 2023
Calabresi, campani, pugliesi e siciliani sono dei criminali per indole? L'Associazione Antigone ha affrontato una interessante argomentazione partendo dal dato che – se visto superficialmente – suggerisce che le persone del Sud siano più inclini al crimine rispetto ai cittadini delle altre regioni italiane. Tuttavia, un'analisi più approfondita di questi dati rivela un quadro più complesso e sottolinea l'importanza di considerare fattori socio-economici e contestuali prima di trarre conclusioni affrettate.
La riflessione dell'Associazione Antigone parte dal seguente dato: al 30 giugno 2023, il 45,2% delle persone detenute in Italia proviene dalle regioni di Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Questo dato sembrerebbe suggerire una maggiore propensione al crimine in queste aree. Eppure fa emergere che il carcere è spesso un riflesso dell'emarginazione sociale, della povertà e di altri fattori strutturali. Un punto chiave per contestualizzare i dati carcerari è la correlazione tra povertà e tasso di criminalità. Secondo il ministero dell'Economia e delle Finanze, nel 2020 Calabria, Campania, Puglia e Sicilia si trovavano tra gli ultimi sei posti in termini di reddito medio. Questo legame tra bassi redditi e criminalità è un tema ampiamente riconosciuto dagli esperti di criminologia.
È quindi fondamentale capire che il carcere non riflette solo l'attività criminale in senso stretto. È un luogo in cui si concentrano le conseguenze dell'emarginazione sociale, delle disuguaglianze e della mancanza di opportunità. Molti detenuti provengono da contesti di svantaggio socio-economico, e la loro presenza in carcere è spesso la risultante di una serie di fattori, tra cui mancanza di accesso all'istruzione, disoccupazione e limitate opportunità di riscatto sociale. L'analisi dell'Associazione Antigone sottolinea giustamente che la questione meridionale è prima di tutto una questione sociale. Le politiche mirate al miglioramento del welfare e delle opportunità di lavoro sono essenziali per affrontare le radici della criminalità. Una visione più approfondita del quadro complessivo rivela che calabresi, campani, pugliesi e siciliani non sono necessariamente più inclini al crimine, ma spesso affrontano sfide socio-economiche più grandi rispetto ad altre regioni.
La riflessione dell'Associazione Antigone, che suggerisce un'associazione tra le regioni meridionali e la criminalità, richiede una valutazione critica dei dati e del contesto circostante. La detenzione in carcere è un riflesso complesso di fattori sociali ed economici, e attribuire una predisposizione al crimine a specifiche regioni non tiene conto della natura multifattoriale del problema. È fondamentale affrontare la questione del carcere e della criminalità con una prospettiva più ampia che includa il contesto socio-economico e la necessità di politiche volte al miglioramento delle condizioni di vita e delle opportunità nelle regioni emarginate.
Una analisi che fa il paio con l’ultima relazione al Parlamento da parte del Garante nazionale delle persone private della libertà. Alla presentazione a Montecitorio, il presidente Mauro Palma, evidenziando la tendenza all'aumento del numero di individui detenuti per pene estremamente lievi, ha messo in luce un punto critico: il mancato accesso a misure alternative alla detenzione nei confronti di questi ristretti. Questo problema sembra essere associato a una marginalità sociale che dovrebbe essere affrontata con soluzioni più mirate. Invece di mandare persone con pene brevi in carcere, sarebbe stato necessario trovare risposte che riducessero l'esposizione al rischio di recidiva. La relazione del Garante ha sottolineato come la povertà sia uno dei principali fattori che contribuiscono all'assenza di accesso a misure di comunità e di alternative alla detenzione.
La "questione giovanile". Stupri a Caivano e Palermo: per salvare il Sud meno retorica e musei antimafia. Violenze, bullismo, aggressioni: la gioventù sotto il Garigliano risente di politiche educative fallimentari, di cui il giustizialismo è il perfetto simbolo. Alberto Cisterna su L'Unità il 29 Agosto 2023
C’è nei fatti orribili di Palermo e Caivano qualcosa che si colloca oltre l’evidenza di un rapporto sempre più malato e deteriorato tra adolescenza e sessualità. È chiaro che questa è la chiave di interpretazione più diretta, e anche più semplice, per comprendere l’aggressione in branco di vittime inermi.
Tuttavia la giungla dei social, l’affievolimento delle relazioni parentali (con genitori, talvolta, ancora più dispersi e disorientagli dei figli nella costruzione di stabili punti di riferimento emotivi e sentimentali) non può bastare per spiegare perché anche il Sud d’Italia sia sempre più di frequente attraversato da fenomeni di aggressione a sfondo sessuale da parte di gang di ragazzini alla ricerca di crude conferme delle proprie devianze educative. Il Mezzogiorno del paese, soprattutto le regioni un tempo largamente controllate dalla criminalità mafiosa, necessitano urgentemente di un potente intervento pubblico che prenda in esame proprio la formazione delle giovani generazioni, i loro destini educativi e lavorativi.
In gran parte la “questione giovanile” al Sud può dirsi archiviata e dichiarata fallita dal clamoroso, incessante esodo dei ragazzi verso i poli universitari e le sedi lavorative del Nord e, in modo massiccio, del resto d’Europa. Ad andar via da due decenni ormai sono i giovani di tutte le classi sociali, alla disperata ricerca di un futuro che al Sud promette solo assistenzialismo, clientelismo, redditi di cittadinanza e bassa qualità dell’istruzione e del lavoro.
È una sfida, ripetesi in gran parte persa e di cui sono un doloroso riscontro il crollo dei mercati immobiliari nelle città meridionali, la rarefazione delle iscrizioni universitarie disseminate (per ragioni clientelari) in un pulviscolo di micro facoltà con un numero di docenti sproporzionato rispetto a quello degli studenti, il fallimento dei bonus immobiliari che solo l’insipienza di un ceto politico accecato dal giustizialismo ha potuto dirottare verso gli immobili “regolari” dei ricchi potentati, anziché verso la bonifica delle tante Beirut dell’incompiute dell’abusivismo edilizio. Un territorio devastato in cui, per la prima volta, la cronaca giudiziaria è cronaca di giustizia minorile.
Una svolta probabilmente inattesa per fronteggiare la quale si assiste ancora alla riedizione della patetica politica di allontanare bambini e ragazzi dalle famiglie in odor di mafia, mentre nelle nuove banlieue, assediate dallo spaccio a tappeto delle droghe, le genie si contaminano, i rampolli dei boss bullizzano e violentano insieme ai figli del nuovo proletariato assistito e marginalizzato. Palermo e Caivano, come le risse di strada a Catania o a Reggio Calabria, gli scontri coltello alla mano nei vicoli di Bari o di Napoli ci consegnano un quadro imprevisto e in parte incontrollabile con gli strumenti oggi a disposizione dello Stato.
Avviata alla vittoria la battaglia contro le mafie – messe all’angolo da una repressione capillare e senza tregua – le istituzioni scoprono tragicamente che l’assistenzialismo demagogico ha solo inseminato e fatto da volano a una generazione di adolescenti e di ragazzi vocati alla violenza, disincantati verso la scuola, privi di fiducia per l’avvenire che predano la società e danno la caccia ai più deboli, spesso fragili coetanee, se non bambine. Come agnelli in mezzo ai lupi i più esili soccombono, scompaiono, fuggono quando possono, abbandonando le macerie di una società che ha smarrito ogni condiviso progetto sociale, ogni prospettiva di crescita collettiva per affidarsi a una primordiale legge della giungla.
I predatori si aggirano nelle strade, nelle scuole, nei bar abbandonati a sé stessi, capaci di commettere ogni genere di gesto violento, ogni tipo di sopraffazione. C’è l’urgenza di una profonda riconversione anche degli apparati di polizia e giudiziari dello Stato nel Mezzogiorno d’Italia. Commissioni parlamentari e regionali, comitati, associazioni e tutto il variegato mondo che si occupa (e solo talvolta si preoccupa) della condizione giovanile al Sud pongano attenzione al rafforzamento delle istituzioni incaricate di prevenire e anche reprimere le devianze giovanili e lo Stato (con il suo ormai vacillante e sbrindellato Pnrr) destini fondi veri a questo scopo.
Si lascino pure marcire i beni di mafia (simulacri di macerie di cui la società spesso non sa che farsi, con il rischio di alimentare il solito assistenzialismo antimafia di una certa politica che dispensa stipendi e sistemazioni per quieto vivere) e si destinino quei fondi al rafforzamento delle politiche educative e scolastiche al Sud. Il Mezzogiorno non ha bisogno di retorici musei delle mafie, ma di gesti concreti che tentino almeno di evitare un’ecatombe generazionale. Forse si sono strappati i figli alle grinfie insanguinate delle cosche per lasciarli soccombere nella disperazione delle gang.
Alberto Cisterna 29 Agosto 2023
Non solo Caivano. Dal Nord al Sud: ecco i fortini dei clan che devono cadere. Periferie di Palermo, Torino, Foggia e pure Aosta: le zone dove le forze dell'ordine non entrano sono note ma adesso si promette un giro di vite Il ruolo delle mafie, delle baby gang e dei trapper. Massimo Malpica l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
Dal Nord al Sud, da Est a Ovest. Non c'è solo Caivano tra le zone franche alle quali Giorgia Meloni ha dichiarato guerra. Ogni angolo del Bel Paese ha le sue piazze di spaccio, i suoi angoli dove fervono attività illecite alla luce del sole, le sue strade dove si muore ammazzati nonostante lo Stato. Su tutto, ovviamente, c'è spesso il cappello delle mafie italiane - sia quando giocano in casa sia quando proiettano i propri interessi in territori un tempo vergini, come prova la crescente presenza della ndrangheta in Valle d'Aosta e delle organizzazioni criminali straniere. Del tutto intenzionate a mantenere questi pezzi di Italia fuori dalla portata delle forze dell'ordine e della legge.
Luoghi dove tutto è gestito in proprio da chi si è assicurato il controllo del territorio. Come accade nella borgata di Ciaculli, periferia Sud-Est di Palermo, famosa per il suo pregiato mandarino tardivo. Qui lo Stato è assente, in tutti i sensi: un singolo autobus collega il quartiere alla città. La mafia invece qui è stata di casa da tempi remoti: è del 1963 la «strage di Ciaculli», quando un'Alfa Romeo Giulietta ripiena di tritolo esplose uccidendo sette carabinieri. Anche se ora la borgata ospita il «giardino della memoria», dedicato alle vittime di mafia, appena un anno fa un blitz antimafia ha rivelato che qui le cosche si occupavano di governare tutto: oltre a spacciare droga, infatti, vendevano mascherine (rubate) durante l'emergenza Covid, imponevano la propria intermediazione ben retribuita nelle compravendite immobiliari del quartiere, e rivendevano anche l'acqua agli agricoltori della Conca d'oro per irrigare i campi, naturalmente dopo averla rubata agli acquedotti pubblici.
Anche la «quarta mafia», la «società foggiana» in forte ascesa, sa controllare il «proprio» territorio. Se il capoluogo è insanguinato da anni dagli omicidi della guerra tra clan, le sue piazze di spaccio sono spesso inaccessibili e «invisibili» per lo Stato. Pochi mesi fa, solo il lavoro di due agenti sotto copertura ha permesso di scoprire le decine di locali blindatissimi dedicati allo smercio degli stupefacenti nella vicina San Severo. Dove la droga veniva venduta in quartieri dai nomi eloquenti come «Fort Apache» - anche in «coffee-shop» dove i clienti potevano consumarla in loco, senza alcun timore che le forze dell'ordine potessero interrompere la «festa». Che, ovviamente, continua indisturbata altrove. Il tutto per non citare i «ghetti dei migranti» nella Daunia, vittime del caporalato e stipati in queste baraccopoli dove, parola della Dia, «è persistente una situazione di diffusa illegalità, caratterizzata da una costante commissione di delitti di varia natura, talvolta di estrema gravità».
E non c'è solo il Sud, non c'è solo la mafia. Anche la Dia ha sollevato l'allarme per le baby gang, per i comportamenti criminali messi in atto da ragazzi che spesso imitano i comportamenti dei boss e agiscono convinti che il branco garantisca l'impunità, come anche la storia di Caivano conferma. Di zone così, però, ce ne sono ovunque. Anche a Nord, a Torino, Borgo Vittoria. Quartiere settentrionale segnato da risse, furti e appunto dalle violenze delle baby gang, che anche l'ultima relazione della Dia indica come particolarmente attive «in Lombardia e Piemonte». Qui abitano, in un gruppo di case popolari considerate «off limits» per la polizia, anche alcuni dei minori arrestati per aver lanciato, a gennaio scorso, una bici elettrica su Mauro Glorioso, ragazzo palermitano finito in coma per quell'aggressione, e che non hanno mai nemmeno chiesto scusa per il folle gesto.
Ma sono tanti altri i luoghi dove lo Stato è ancora assente. Se davvero non devono esistere zone franche, come dice la premier, in queste aree la legalità dovrà rimettere piede. Per fermare gli orrori e l'omertà di Caivano, ma anche le gang di salvadoregni, di aspiranti baby-camorristi, di trapper italiani, lo spaccio e gli agguati a colpi di pistola in pieno giorno, in Sicilia come in Brianza, e gli affari di una ndrangheta sempre più radicata in tutto il Paese.
Cos’è la giustizia riparativa applicata per la prima volta in Italia per Davide Fontana, il killer di Carol Maltesi. Redazione su L'Unità il 22 Settembre 2023
Per la prima volta in Italia potrebbe venire applica in Italia la giustizia riparativa per un caso di omicidio. Ad essere ammesso, con la richiesta accolta dalla corte d’Assise di Busto Arsizio, è il bancario e foodblogger Davide Fontana, il 44enne condannato a 30 anni di reclusione per l’omicidio di Carol Maltesi, giovane mamma 26enne ammazzata e poi fatta a pezzi a Rescaldina, nel Milanese, l’11 gennaio 2022, con i resti dispersi e ritrovati mesi dopo tra le montagne di Borno (Brescia).
La giustizia riparativa non è però una alternativa all’iter penale né incide sul piano civilistico, non è uno sconto di pena nei confronti del condannato: si tratta di un percorso che permetterà a Fontana di lavorare e seguire un percorso di aiuto psicologico per comprendere quanto fatto e “riparare” appunto davanti alle parti offese e soprattutto alla società.
La scelta della corte d’Assise ha scatenato polemiche. Sia la Procura che le parti civili, ovvero i genitori e l’ex marito di Carol Maltesi, si erano opposte. “Il mio assistito e tutti i famigliari di Carol Maltesi non vogliono in alcun modo incontrare Davide Fontana”, ha spiegato l’avvocato di parte civile Manuela Scalia, che assiste Fabio Maltesi, padre di Carol. Il parere della vittima (o dei suoi familiari) però non è vincolante, il giudice lo acquisisce ma poi deve valutare due condizioni di legge per dare il suo via libera alla richiesta: “che lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede”, e “che non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti”.
Come spiega il Corriere della Sera, al momento non è certo che Fontana possa effettivamente vedersi applicata la misura: per ora è stata autorizzata dai giudici di Busto Arsizio solamente la sottoposizione della sua richiesta a uno dei centri previsti dalla legge e finanziati in Lombardia dalla Regione. Il giudice, di fronte alla richiesta della persona interessata, anche se non condannata in via definitiva o ancora in attesa di processo, può solo decidere se questa può essere inviata a uno dei Centri previsti dalla legge: saranno poi i mediatori specializzati di queste strutture a valutare se il programma di “recupero” è fattibile e quale contenuto si debba provare.
L’istituto della giustizia riparativa è stato introdotto nel 2021 dalla riforma della giustizia firmata dall’ex Guardasigilli Marta Cartabia ed è entrato in vigore lo scorso 30 giugno, anche se in realtà forme di giustizia “riparative” sono già sperimentate in Italia da diversi anni.
La legge non pone preclusioni sul tipo o sulla gravità di reato commesso ma in generale, soprattutto per i piccoli reati, l’istituto più comune è quello della mediazione attraverso l’incontro diretto tra autore del reato e vittima (o suoi familiari). Non sarà il caso di Davide Fontana e i familiari di Carol Maltesi, che hanno già fatto sapere di non essere intenzionati ad incontrare il bancario condannato a 30 anni di reclusione.
La giustizia riparativa non si limita, come già accennato, ad una mediazione con le sole parte offese (come possono esseri i familiari di Carol Maltesi) ma anche con la “società”. In questo concetto rientrano per esempio, spiega il Corriere della Sera, anche le persone che conoscevano la vittima, associazioni rappresentative degli interessi colpiti dal reato, anche rappresentanti di enti pubblici e autorità o “chiunque vi abbia interesse”, spiega la legge introdotta dall’ex ministro della Giustizia Cartabia.
La finalità è infatti quella di far sì che il reo riconosca l’impatto che il male commesso ha avuto non solo sulla vittima ma sulla collettività, impegnandosi in visibili forme di riparazione a favore di quest’ultima. Redazione - 22 Settembre 2023
Imputati assolti, raddoppiato il fondo rimborso spese legali. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2023
Equitalia Giustizia procederà all’istruttoria delle istanze individuate dal Ministero e visualizzate nella Sezione “Gestione istanze imputati assolti” del portale LGS-Liquidazione Spese di Giustizia, per verificare la correttezza e la regolarità della documentazione
Quasi raddoppiato il fondo per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti in via definitiva con formula piena. Con la legge di bilancio 2023 (art. 1, comma 862/b, L. 29 dicembre 2022, n. 197), la dotazione passa da 8 a 15 milioni di euro. Sarà Equitalia Giustizia Spa a gestire l’istruttoria delle istanze di rimborso presentate dagli imputati nei processi penali in cui sono intervenute sentenze irrevocabili di assoluzione perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso o perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato.
È quanto prevede una convenzione prevista dal Decreto Interministeriale Giustizia-Mef del 20 dicembre 2021 e firmata per il Ministero dal Capo di Gabinetto, Alberto Rizzo, e per Equitalia Giustizia dall’Amministratore Delegato, Paolo Bernardini.
In attuazione dell’accordo, Equitalia Giustizia procederà all’istruttoria delle istanze individuate dal Ministero e visualizzate nella Sezione “Gestione istanze imputati assolti” del portale LGS-Liquidazione Spese di Giustizia, per verificare la correttezza e la regolarità della documentazione. La convenzione ha carattere sperimentale, con facoltà di rinegoziazione nel secondo semestre del 2024, alla luce della consistenza delle istanze pervenute nel biennio 2022-2023.
Un’altra convenzione tra Ministero della Giustizia ed Equitalia regola il primo popolamento dell’Albo dei gestori della crisi d’impresa, soggetti incaricati dall’autorità giudiziaria delle funzioni di controllo delle procedure previste dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Ad Equitalia Giustizia Spa sarà affidata la valutazione delle domande di iscrizione, processando le istanze pervenute tramite il portale “Albo dei gestori della crisi d’impresa”. La scadenza della convenzione è fissata al 30 settembre 2023. Redazione CdG 1947
Obbligo fondamentale. Nessuno Stato può esimersi dal rispettare e garantire i diritti umani per tutti i cittadini. Louis Henkin su L’Inkiesta il 23 Gennaio 2023.
In “Diritti dell’uomo” (Treccani), Louis Henkin spiega che quell’insieme di principi morali a capo del il rapporto tra le persone e la società non sono una questione di carità o di amore e non possono dipendere dall’arbitrio di un singolo governo: spettano a ciascun individuo, indipendentemente da razza, sesso, convinzioni politiche o religiose
L’espressione “diritti umani” viene talvolta usata colloquialmente per designare in modo generico i principi di “giustizia” o i valori connessi alla “società buona”. Talvolta, il termine è usato come sinonimo di “democrazia”. A rigore, tuttavia, l’idea dei diritti umani non è sinonimo di tali valori, anche se presenta importanti affinità con essi. In senso proprio, essa afferma che ogni essere umano ha certi specifici “diritti” o legittime rivendicazioni nei confronti della società in cui vive.
La società deve rispettare e tutelare la vita dell’individuo, la sua integrità fisica e la sua proprietà, oltre a determinate libertà e immunità e ad altri diritti civili o politici. La società deve anche perseguire la soddisfazione dei bisogni fondamentali degli individui e la realizzazione di altri diritti economici e sociali. Le nazioni del mondo si sono formalmente impegnate al rispetto dei diritti umani con la Carta delle Nazioni Unite, e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale dell’Onu nel dicembre del 1948, presenta un catalogo autoritativo delle libertà, delle immunità e dei diritti riconosciuti come diritti umani nella seconda metà del xx secolo.
I diritti umani derivano da alcuni principi condivisi relativi ai diritti e alle obbligazioni morali tra gli individui; la società è tenuta a garantire che tali diritti siano rispettati e goduti effettivamente dai cittadini, e che siano inoltre rispettati e applicati dai governi e dai funzionari dello Stato. Il fatto che i diritti umani assurgano al rango di diritti significa che essi non sono una questione di carità o di amore, e non possono dipendere dall’arbitrio dello Stato o del governo; essi spettano a ciascun individuo, e ciascun individuo li ha, “di diritto”.
La loro natura giuridica impone alla società di approntare leggi e istituzioni, o altri strumenti affinché gli individui possano effettivamente esercitarli. Il fatto che si tratti di diritti umani, a sua volta, comporta che essi riguardano ogni essere umano in quanto tale, indipendentemente da qualsiasi altra sua qualità o caratteristica, quali la razza, il colore, il sesso, la lingua, le convinzioni politiche, religiose o di altro tipo, la nazionalità o l’estrazione sociale, la ricchezza personale, la nascita, la cittadinanza, e via dicendo (anche se uno Stato è tenuto a garantire alcuni di questi diritti solo ai suoi cittadini, ad esempio il diritto di libero accesso al paese o il diritto di voto). Infine, il fatto che questi diritti siano qualificati come diritti umani implica che si tratta di diritti universali, che devono essere riconosciuti all’individuo in ogni società indipendentemente dalla maggiore o minore disponibilità di risorse, dal livello di sviluppo politico, sociale o economico, dal sistema politico o economico, dalla confessione religiosa o dalle convinzioni ideologiche (anche se la capacità di uno Stato di realizzare i diritti economici e sociali può essere condizionata dalla disponibilità delle risorse).
Secondo la concezione dominante, l’obbligo della società di rispettare e garantire i diritti umani non ha carattere assoluto. I diritti umani sono prima facie diritti, e la maggior parte dei diritti, se non tutti, devono piegarsi di fronte al diritto concorrente degli altri individui, o, spesso, alle esigenze o all’interesse comune della società. I diritti umani però non si piegano facilmente alle esigenze del bene comune e alla volontà della maggioranza; alcuni di essi sono fondamentali e possono essere compressi solo dinanzi a imprescindibili ragioni di interesse pubblico.
Uno Stato può prendere dei provvedimenti in deroga al suo obbligo di rispettare e garantire la maggior parte dei diritti (ma non tutti) solo quando un’emergenza pubblica minacci la vita della nazione, e nei limiti strettamente necessari. Nella teoria politica moderna, l’idea dei diritti è in contrasto con alcune concezioni di stampo utilitaristico, secondo le quali il principio guida di una buona società è la realizzazione del massimo benessere per il maggior numero di persone o la massimizzazione della felicità.
L’idea dei diritti umani è stata messa in discussione in particolar modo dai sostenitori del comunitarismo e da alcune correnti del socialismo, secondo le quali l’enfasi data ai diritti umani si rivela egoistica e atomistica, favorisce la divisione sociale ed è contraria alla democrazia e al benessere generale.
L’idea dei diritti umani contrasta anche con alcuni elementi presenti nelle religioni tradizionali, per le quali si tratta di un’idea laica e antropocentrica, e per alcuni suoi contenuti (la libertà religiosa, o l’eguaglianza tra uomo e donna) incompatibile con le loro leggi. Secondo l’ideologia dei diritti umani, tuttavia, il rispetto di ogni individuo rappresenta una condizione essenziale per una comunità fondata sul diritto e pienamente realizzata: ogni singolo individuo ha un suo preciso valore, e non può perdere la propria individualità in nome di un’astratta felicità complessiva o di un altrettanto astratto bene comune.
Sia che una società accetti lo Stato liberale e la libertà di iniziativa economica, sia che aderisca a una qualche forma di socialismo o a un’altra ideologia di stampo comunitario (laica o teocratica), la sua scelta ideologica non la esime dall’obbligo fondamentale di rispettare e garantire a ciascun individuo quelle libertà e quei diritti che sono indispensabili per una vita dignitosa.
Non esiste una giustificazione filosofica universalmente condivisa dell’idea di diritti umani. Nel XVII e nel XVIII secolo, molti sostenitori dei diritti umani li considerano come diritti “naturali”, inerenti all’essere umano in quanto tale. Altri, invece, accettano l’idea di diritti umani in quanto rispecchia le concezioni morali condivise dalla nostra epoca.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo afferma che «il riconoscimento dell’intrinseca dignità e dei diritti eguali e inalienabili di ogni membro del genere umano è il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Naturalmente, la particolare giustificazione filosofica da cui trae origine l’idea dei diritti ne ha modellato il contenuto. Il giusnaturalismo è stato associato a certe concezioni aventi a oggetto le caratteristiche minime dello “Stato liberale”, secondo le quali esso ha il compito di tutelare il diritto “negativo” di ogni individuo alla vita, alla libertà e alla proprietà. Questi diritti fondamentali hanno trovato una più precisa espressione e un ulteriore ampliamento a seguito dello sviluppo delle idee liberali e democratiche, e della crescente diffusione dei governi parlamentari e del suffragio universale.
L’idea dei diritti si è inoltre arricchita di nuove dimensioni con l’aggiunta di diritti “positivi” a determinati benefici economici e sociali, in risposta ai processi di modernizzazione, industrializzazione e urbanizzazione, all’avvento del Welfare State e al crescente richiamo esercitato da varie forme di socialismo. Il contenuto dei diritti venne ampliato e istituzionalmente definito dopo la seconda guerra mondiale.
La Dichiarazione universale, che proclama i diritti ritenuti essenziali alla “dignità umana”, include sia diritti civili e politici sia diritti economici e sociali (i primi vengono abitualmente definiti quali diritti “negativi”, benché alcuni di essi richiedano anche un’organizzazione globale e misure concrete da parte della società: ad esempio, per realizzare un’equa amministrazione della giustizia penale o un sistema politico democratico. I diritti economici e sociali, viceversa, sono considerati generalmente come diritti “positivi”, ma secondo la definizione corrente essi includono anche diritti “negativi”, quali la libertà di scegliere il proprio lavoro o di costituire associazioni sindacali). La Dichiarazione elenca i seguenti diritti: il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona; la libertà dalla schiavitù e dalla servitù; dalla tortura e da trattamenti o punizioni crudeli, inumani e degradanti; il diritto a essere riconosciuto come persona di fronte alla legge; all’eguaglianza di fronte alla legge e all’eguale protezione di ogni individuo da parte della legge; il diritto a una tutela giuridica in caso di violazione dei diritti fondamentali; il diritto a non subire arresto, detenzione ed esilio arbitrari; il diritto a un processo pubblico ed equo per gli imputati di un reato, il diritto alla difesa, alla presunzione d’innocenza, e a non essere condannati in base a leggi penali retroattive; il diritto alla riservatezza, ossia la libertà da ingerenze arbitrarie nella sfera privata (famiglia, corrispondenza, casa ecc.) e alla tutela giuridica contro tali ingerenze; la libertà di movimento e di residenza all’interno di un paese e il diritto di poter uscire da qualsiasi nazione e quello di tornare nel proprio paese d’origine; il diritto d’asilo; il diritto ad avere una nazionalità, a non esserne arbitrariamente privati e a cambiarla; il diritto di sposarsi e di formare una famiglia; il diritto all’eguaglianza tra uomo e donna nel matrimonio e nello scioglimento del matrimonio; il diritto alla proprietà e a non esserne arbitrariamente privati; alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; alla libertà di opinione, di espressione, di associazione (e non associazione). La Dichiarazione afferma inoltre che la volontà del popolo deve essere il fondamento dell’autorità del governo e che ogni persona ha diritto a prendere parte al governo e ad avere eguale accesso ai pubblici uffici.
La Dichiarazione comprende al suo interno anche diritti economici e sociali: il diritto alla sicurezza sociale; il diritto al lavoro, alla libera scelta di un impiego e alla tutela contro la disoccupazione; il diritto a una retribuzione equa e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto; il diritto di associazione sindacale; il diritto al riposo e al tempo libero; il diritto a un tenore di vita atto a garantire la salute e il benessere dell’individuo e della sua famiglia inclusi alimenti, vestiario, abitazione e assistenza medica; il diritto all’istruzione, che a livello elementare deve essere gratuita e obbligatoria; il diritto di partecipare liberamente alla vita culturale. I diritti elencati dalla Dichiarazione non sono soggetti a distinzione di «razza, colore, sesso, lingua, religione, opinioni politiche, religiose e di altro tipo, nazionalità e origine sociale, proprietà, nascita o altra condizione personale» (art. 2). Ogni individuo ha diritto a un «ordine sociale e internazionale» in cui questi diritti e queste libertà possano essere realizzati (art. 28). La Dichiarazione non specifica eventuali limitazioni di tali diritti. L’articolo 29, tuttavia, afferma che ciascun individuo «ha dei doveri nei confronti della comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità».
Inoltre, aggiunge: “Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto solo a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della moralità, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica».
Da “Diritti dell’uomo” (Treccani), di Louis Henkin, 280 pagine, 13 euro
Sabino Cassese su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.
Occorre porre rapidamente rimedio alle principali disfunzioni. E l’ordine giudiziario non sarà veramente indipendente finché occuperà i vertici del ministero, perché indipendenza comporta separatezza dal potere esecutivo
Se i problemi della giustizia continuano ad essere trattati come ai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini (e dei Neri e dei Bianchi), non vi sono vie di uscita. Vediamo quali sono i problemi, uno per uno, e quale giudizio dare sulla situazione e sulle proposte.
1) Lo stato della giustizia.
Al termine del terzo trimestre dell’anno scorso, erano pendenti complessivamente 4 milioni e 400 mila cause civili e penali. La situazione dell’arretrato è migliorata nell’ultimo decennio, ma è egualmente grave: è da maglia nera nell’area del Consiglio d’Europa, secondo i dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia. Perché un giudizio di primo grado, civile o penale, venga concluso è necessario, in media, un tempo tre volte superiore a quello europeo; in appello il tempo è sei volte superiore per un giudizio civile e dieci volte superiore per un giudizio penale; in Cassazione è nove volte superiore per un giudizio civile e due volte superiore per un giudizio penale. Se questi sono i dati, si può dire che la giustizia non abbia bisogno di una riforma profonda?
2) L’opera della ministra Marta Cartabia.
Ha avviato e realizzato la creazione dell’ufficio per il processo, ha avviato, con due apposite deleghe, seguite dai decreti delegati, la riforma dei processi civili e penali, ha affrontato la questione della separazione delle carriere, delle porte girevoli tra politica e magistratura, dell’ordinamento giudiziario e dell’elezione del Csm. Si è discusso a lungo, animatamente e con ingiustificato allarmismo, nei giorni scorsi, della questione dell’ampliamento dei processi a querela di parte per i reati minori. E si è rilevato che non dovevano esservi inclusi i reati contro la persona e il patrimonio, quando aggravati dal metodo mafioso (un problema, peraltro, che già si poneva per qualsiasi reato procedibile a querela da quando esiste l’aggravante mafiosa, cioè dagli anni Novanta). Il governo in carica ha preparato un correttivo, esteso a un altro problema che addirittura esiste dal 1930 e che riguarda tutti reati procedibili a querela: non si può eseguire un arresto in flagranza se è assente o irreperibile la vittima e non può quindi essere presentata una querela. Si può negare che mai era stato fatto tanto, nella direzione giusta, in così poco tempo, e che il giudizio positivo sull’intero disegno di riforma — assai esteso — non può esser diminuito dalla correzione operata, limitata ad aspetti molto circoscritti e peraltro prevista dalla stessa legge di delega, che dava al governo il potere di correggere i decreti delegati?
3) La disciplina delle intercettazioni.
I dati del Ministero della Giustizia dicono che nel 2021 sono state 95 mila, tre volte quelle che si fanno in Francia e più di trenta volte quelle che si fanno nel Regno Unito, due Paesi che hanno ora più di 8 milioni di abitanti rispetto all’Italia (ma meno infiltrazioni mafiose di quelle del nostro Paese). Il costo annuale, in Italia, è di 200 milioni, e ogni Procura faceva fino a ieri per conto suo, tanto che un decreto interministeriale del 6 ottobre dell’anno scorso ha dovuto definire in maniera uniforme prestazioni, obblighi dei fornitori, garanzie di durata, comunicazioni amministrative, procedure di fatturazione, controlli e monitoraggio. Sulle intercettazioni la questione è se debbano essere uno strumento generale o (come oggi avviene) limitato a taluni reati particolarmente gravi; se possano essere estese a procedimenti penali o persone diverse da quelle per cui le intercettazioni sono autorizzate dal giudice; se debbano coinvolgere anche i reati connessi; se e in quali limiti debbano essere rese pubbliche. Alcuni limiti sono stati disposti due anni fa con la riforma del ministro Orlando, ma sembrano insufficienti. Lo dimostra la pubblicità data a una conversazione intercettata in Veneto qualche giorno fa, tra persone non indagate. Come si può negare che il rispetto della libertà e della vita privata delle persone richieda norme più stringenti, limitate strettamente a particolari reati, alle sole persone indagate e con rigido rispetto della riservatezza, come dispone espressamente anche la Costituzione? Tanto più che le intercettazioni non possono esser considerate mezzo esclusivo di prova e che la pubblicità che in modi diversi finiscono per avere inquina il dibattito pubblico e si presta ad usi politici di parte.
4) La giustizia nello spazio pubblico.
Rispetto all’immagine tradizionale del magistrato appartato, silenzioso, che parla con le sentenze, rispettato nella società, l’attuale immagine pubblica del magistrato (quale si evince dal comportamento di quelli più chiassosi) è molto diversa: loquace, battagliero, onnipresente, sindacalizzato, circondato da crescente sfiducia. Il pubblico ha l’impressione che la magistratura costituisca un corpo che prende parte alla politica dei partiti, quindi non imparziale: vede magistrati in servizio attivo impegnati nella preparazione delle leggi, ai vertici del corpo esecutivo della giustizia (il ministero), operanti in regioni ed enti locali con funzioni amministrative. E tutto questo mentre più di 4 milioni di controversie attendono un giudizio. Qualche volta, il magistrato-procuratore appare come un giustiziere pronto a comprimere quelle libertà di cui dovrebbe essere il difensore istituzionale. La stessa circostanza che la giustizia sia divenuta uno dei principali problemi politico-partitici segnala un’anomalia del sistema, perché dalla giustizia ci si aspetta un passo diverso rispetto a quello della politica, in quanto essa è legittimata dal diritto, non dal voto. Si ha, quindi, l’impressione che i magistrati che stanno sulla ribalta stiano facendo un danno a sé stessi, al proprio ruolo e alla categoria alla quale appartengono, perdendo autorevolezza, apparendo meno imparziali e distruggendo quell’immagine di terzietà e quel patrimonio di fiducia che la magistratura deve assolutamente conservare.
5) Che cosa è urgente fare.
Se questa è la situazione della giustizia, occorre porre rapidamente rimedio alle principali disfunzioni. L’ordine giudiziario non sarà veramente indipendente finché occuperà i vertici del ministero, perché indipendenza comporta separatezza dal potere esecutivo. In secondo luogo, una giustizia che arriva in ritardo — generando nel processo penale elevati tassi di prescrizione dei reati — è necessariamente ingiusta e quindi occorre misurare la performance e aumentare la produttività, anche attraverso la digitalizzazione su cui ha puntato la recente riforma, ciò che si può fare senza interferire con la piena indipendenza. In terzo luogo, occorre creare un archivio e un osservatorio delle migliori pratiche (che vi sono e sono facilmente identificabili), perché tutti vi si ispirino. Infine, ci si dovrebbe rendere conto che magistrati combattenti, anche negli studi televisivi e sui giornali, finiscono per essere (o per essere considerati) magistrati di parte.
La Costituzione si preoccupa di assicurare l’indipendenza dell’ordine giudiziario da invasioni esterne. È accaduto il contrario: l’affermarsi di magistrati combattenti, organizzati in associazioni che ritengono l’ordine giudiziario un corpo separato dotato di autogoverno, salvo partecipare all’attività legislativa e amministrativa, e quindi scavalcare la separazione dei poteri, ha finito per creare una politicizzazione endogena del corpo.
Giustizia, si dica no alle «pezze a colore». Purtroppo nel linguaggio popolare siamo già «alle pezze». L’esempio del bravo sarto di Bitonto. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Gennaio 2023
Ah! Il destino delle parole! Ve n’è di quelle predestinate a soccorrere gli uomini facitori di Storia: parole maiuscole e fatali che sembrano progettate nella evoluzione semantica per essere pronunciate, scritte, lette per tracciare solchi, disegnare confini, lanciare proclami, fondare imperi, appiccare rivoluzioni. Vi sono parole minuscole, poi, nate per essere coccolate nel
domestico, balbettate in cucina, mercanteggiate nei tinelli, pronunciate nella intimità del quotidiano. Parole e nomi che andrebbero lasciati in pace. “Pezza” è una di questi e, con le sue varianti come il vernacolare “pezza a colore”, si rivela preziosa nel lessico esplicito ed efficace del popolo. Il mio amico Filippo Tatulli, uomo retto e cordiale, mastro sartore di Bitonto, era un bravo tagliatore come tutti i veri sarti hanno da essere e cucitore e rifinitore provetto. Le impalcature dei suoi pantaloni e delle sue giacche e con tasche grandi e minuscole e “comode” di spalle e ascelle erano un capolavoro di accuratezza: tutte le cuciture e le imbottiture erano firmate da una mano abile e instancabile che sapeva armonizzare impunture e crini, sete e garze di sostegno con le stoffe che egli stesso sapeva scegliere e consigliare. Con delicatezza di costumi e naturalezza colloquiale di eufemismi sapeva abilmente rendere veniali difetti organici e forme goffe o imperfette del corpo del committente.
Era ammirevole la sua dimestichezza con la lingua dei suoi colleghi albionici: la contaminazione tra il suo bitontino e l’inglese di
Bond Street era irresistibile soprattutto quando accompagnava, con dimostrativi dialettali, termini inglesi: “cuss Prinz of Galles è perfetto per voi”. Il fatto che si rivolgesse a me, poco più che adolescente con il “voi” fece sorridere mio padre con compunto rispetto. Solo davanti al rammendo, al rinaccio o alla riparazione, Mastro Filippo si asteneva categoricamente e si ritraeva rispettoso di un’altra arte, anzi di un artigianato umile: quello della “pezza a colore”. Mastro Filippo non si sarebbe mai compromesso con il “mettere le pezze” che era, ed è, altro mestiere, rispettabile, s’intende, ma altro, rispetto al suo. Che riposi in pace nel paradiso dei sarti. Ma la “pezza” non ci lascia requie e ci sorprende nella cronaca non solo spicciola, nella cronaca autorevole della politica. Da tempo! Ricordo niente meno che l’allora presidente del Consiglio dei ministri, Cavaliere Berlusconi, nel discorso di commiato che aveva tenuto prima di sorteggiare una delle sue nove ville per recarsi in ferie, affermò che, quanto al problema della Giustizia in Italia, bisognava “metterci una pezza”. Credo che si ostini ancora su questa linea politica di tipo molto artigianale. Il picaresco linguaggio popolare commenterebbe: “Siamo alle pezze”.
Mastro Filippo si asteneva e il premier pensava al rinaccio, al rammendo, alla toppa, insomma. Vediamo cosa può aver voluto dire.
La parola “pezza”, umile finché si vuole, ha, tuttavia, una storia antica. Già dal latino parlato preleviamo il calco celtico “pettìa” che stava per pezzo di tessuto in genere. Nel medioevo lo troviamo usato nel significato odierno di pezzo di tessuto, o altro, usato per riparare qualcosa di rotto da cui nasce il modo di dire dei politici rudi e sbrigativi “mettere una pezza” che vuol dire aggiustare alla meno peggio con la variante “rappezzare”. Metafora trattativista. Almeno che non si voglia alludere alle pezze d’appoggio, francesismo commercialistico che significava documento giustificativo. Non credo che in politichese figuri questo atteggiamento etico: sotto sotto, in un inconscio artigianale, forse si allude alle “pezze da piedi” che erano le spregevoli sostitute delle calze dei soldati negli eserciti poveri o dei poveri eserciti di mendicanti. Pare che certi rappresentanti italiani nel consesso europeo, tentino di sfuggire le aule di tribunale, ma spero che non pretendano di farla franca e di avvilire l’immagine del nostro Paese con l’uso di un’altra pezza: quella “a colore”.
È espressione idiomatica conosciuta in tutto il meridione: “pezza a colore”. Un modo truffaldino da cui rifuggiva l’onesto artigiano Filippo di simulare, imbrogliare, di trovare un sotterfugio per camuffare piuttosto che per riparare. Le “pezze a colore” sono dei trucchi volgari per nascondere le malefatte o sbrigarsela dopo una gaffe. La nostra generazione ha conosciuto l’arte umile e paziente delle rammendatrici che trovavano fili di lana, scampoli tessili, pezze, appunto, somiglianti nel colore e nella trama al tessuto delle nostre giacche, esemplari unici, per coprire la magagna, la consunzione o lo strappo, ma quella era abilità sopraffina. Però al di fuori della sartoria, mettere pezze non sta bene, non serve, alla lunga, non paga.
Alcuni sarti erano pronti e abilissimi a rivoltarti la giacca quando un verso era allo stremo, ma quelli onesti come Mastro Filippo
avrebbero sfuggito la metafora: “Rivoltare la giacchetta” era impensabile per lui. Era stato, ed era, socialista. Quando ha lasciato il suo banco, le sue forbici e le sue oneste pezze di stoffa era ancora convinto che i politici, soprattutto i socialisti, dovessero essere onesti. Sempre.
L'odissea di una ragazza per una casa presa in affitto. Giudice ricusato che viene giudicato dal proprio collega di Tribunale: è giustizia questa? La rubrica “Giustizia in-civile” di Andrea Viola, avvocato e consigliere comunale. Perché una Giustizia civile che funziona, non solo aiuta il cittadino a sentirsi tutelato e protetto, ma crea le condizioni basilari per il funzionamento di ogni comparto economico-produttivo. Andrea Viola su Il Riformista il 25 Giugno 2023
La Rubrica Giustizia in-Civile continua a suscitare numerose segnalazioni ed è sempre più evidente la grande voglia, da parte dei cittadini, di intervenire e far sentire la propria voce e le proprie esperienze dirette. Dopo l’ultimo articolo sono state tante le email di giovani mamme con segnalazioni di vario genere legate anche alla questione e gestione dei Servizi sociali riguardo soprattutto i minori che vengono coinvolti spesso nelle separazioni e divorzi.
Un settore molto articolato e complesso che affronteremo appositamente.
Il caso che oggi affronteremo riguarda una semplice causa civile ordinaria che ha avuto ed ha risvolti molto particolari sino a toccare comportamenti “anomali” del Giudice. Veniamo a noi. Una ragazza da molto tempo abita in un immobile preso in affitto. Ha sempre pagato a chi si professava proprietario.
Dopo svariati anni, un terzo soggetto afferma di essere il vero proprietario dell’immobile. Dopo le prime diatribe informali il presunto nuovo proprietario chiama in causa la ragazza in affitto chiedendo che l’immobile fosse liberato poiché occupato senza titolo e chiedendo i relativi danni. La difesa della ragazza chiede una apposita CTU (consulenza tecnica d’ufficio) al fine di vagliare la reale documentazione, essendo non certa la reale proprietà dell’immobile.
Il tutto anche in considerazione della documentazione che la ragazza deposita. Dopo alcune udienze e dopo le richieste istruttorie sopra richiamate il Giudice decide di non accogliere la CTU.
Quindi niente perizia per verificare la documentazione e nessuna possibilità di reale difesa. A questo punto la difesa della ragazza fa apposita istanza per insistere sull’ammissione della CTU. Nulla.
A questo punto si apre una questione più spinosa e delicata. Il Giudice in questione era stata ricusata dall’intero Consiglio dell’Ordine per questioni accadute all’intero del Foro. Alcune circostanze non rendevano sereno il rapporto di lavoro fra avvocati di detto foro e il Giudice in questione. Insomma una brutta vicenda finita su vari giornali. Per detti motivi la difesa della ragazza, vista la poca serenità del Giudice, chiedeva la ricusazione per ragioni di evidente incompatibilità ambientale ed aggiungeva altre varie motivazioni in diritto.
Senza dilungarci troppo sulle questione prettamente giuridiche e tecniche, la causa veniva sospesa in attesa del giudizio sulla ricusazione.
Domanda: Secondo Voi chi decide su ricusazione del Giudice in Tribunale?
Risposta semplice: gli stessi Giudici dello stesso Tribunale. Esito abbastanza scontato. Ma qui arriva il bello. Il Giudice per difendersi e scrivere le proprie memorie si sente legittimata a cercare liberamente in altri fascicoli di cause non sue. Ossia, entra negli atti di cause affidate ad altri Giudici e cerca, non si capisce come, documenti o fatti che possano essere usati a sua difesa. Nel merito richiama una presunta diversità di comportamento dell’avvocato della ragazza, il quale avrebbe chiesto in altro giudizio simile la semplice astensione di un altro Giudice e non la ricusazione come accaduto con la causa principale.
Insomma, roba da cinema e degna di Paesi non certi governati dal diritto. Capite bene che questo fatto ha suscitato molta preoccupazione e una marea di domande che sono state poi fatte al CSM. E anche qui il solito problema. Da chi è composto il CSM? Un cane che si morde la coda senza però una fine. Ma non è finita, mentre si cercheranno di capire gli esiti degli esposti al CSM la causa va avanti con un ulteriore recente colpo di scena.
Dal nulla la controparte chiede che le varie cause fatte contro inquilini simili alla ragazza vengano riunite. Cause che erano in fasi diverse e giuridicamente diverse. Bene, secondo voi a chi è stata affidata la scelta per l’eventuale riunione della causa oggetto di ricusazione e quella che originariamente era affidata ad altro Giudice? (quella per cui il Giudice ricusato si era sentita legittimata a rovistare).
E si sempre lo stesso Giudice. Quindi, riepilogando il tutto. Un Giudice ricusato che viene giudicato dal proprio collega di Tribunale e che per giunta si attribuisce anche la riunione di altro fascicolo illegittimamente già visionato.
Ecco, ora serenamente la ragazza dovrebbe aspettare la decisione. E’ giustizia questa? Si può lavorare in queste condizioni? Come si può rimanere tranquilli davanti a certi comportamenti? Questo un caso reale che un cittadino sta affrontando e che al momento ancora non ha avuto una fine. E intanto il tempo passa, le spese aumentano e l’incertezza e la fiducia verso la giustizia scende.
Andrea Viola. Andrea Viola, Avvocato, Consigliere Comunale Golfo Aranci, Coordinatore Regionale Sardegna Italia Viva; Conduttore Rubrica Vivacemente Italia su Radio Leopolda
Correggiamo la storia distorta dalle indagini di mafia e di Tangentopoli. La sentenza della Cassazione sulla Trattativa segna la fine della pretesa della magistratura di essere protagonista nelle vicende sociali e politiche. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 7 maggio 2023
La recente sentenza sulla trattativa tra lo Stato e la mafia non ha avuto un adeguato commento dalla grande stampa eppure si tratta di una decisione della Cassazione eclatante e fondamentale per la storia civile, politica e umana del nostro Paese.
È una sentenza che non può soltanto essere pubblicata nel Massimario e dare lustro a magistrati che hanno dimostrato la loro serena indipendenza come prevista dall’art. 104 della Costituzione, ma deve avere conseguenze nella valutazione attenta da parte della cultura giuridica e del mondo giudiziario. Come è noto la Cassazione ha stabilito che il fatto “trattativa” non è stato commesso e non costituisce reato; e quando un “fatto” non è reato e non è stato compiuto il processo penale non ha consistenza.
Viene da dar ragione a chi si pone la domanda perché è stato intentato un processo lungo venti anni che ha costruito una storia che non esiste. La magistratura non può inquinare le vicende della storia con cronache non vere che incidono fortemente sul tessuto sociale e sulla convivenza dei cittadini.
Perché è iniziato questo processo e tanti altri che hanno avuto meno clamore e che hanno interessato leader politici come Nicola Mancino e Calogero Mannino, campioni assoluti più di tanti altri della legalità repubblicana, come tanti esponenti dell’amministrazione dello Stato, delle forze di polizia, della struttura intima dello Stato?! È una domanda che ogni cittadino si pone.
Al di là di sospetti particolari e specifici la risposta ingenua che possiamo dare è che una certa magistratura voleva essere protagonista nello scrivere la storia del nostro Paese, nel far diventare protagonista fuori misura l’antimafia nella sua dissennata esasperazione di ritenere che tutto il mondo è mafia e che la politica è inquietante deviando dai fondamentali canoni della ricerca della prova e della razionalità delle decisioni.
La sentenza dunque segna la fine della pretesa della magistratura essere protagonista nelle vicende sociali e politiche, capace di far trionfare il bene sul male e di esprimere un modello etico di riferimento completo e complessivo di tutta la società, come tutore della moralità. Questa fase è iniziata negli anni 90 con le indagini giudiziarie di Tangentopoli e con le indagini giudiziarie nei confronti di Andreotti, Mannino del giudice Carnevale che non dobbiamo dimenticare, che hanno portato a sentenze clamorose di assoluzione perché il fatto non è stato riscontrato, con valutazioni severe, contenute nelle sentenze che bisognerebbe ogni tanto rileggere, nei confronti dei pubblici ministeri.
In una di queste sentenze della Cassazione è stato scritto che le modalità di indagine giudiziaria utilizzate per quel processo debbono essere di monito per “come non si deve fare un processo”! Ho scritto varie volte che tutte le formule di condanna o di assoluzione restano coerenti nell’ambito del processo penale escluso quella del “fatto che non esiste” o del fatto che non è stato compiuto, che dà una responsabilità in più a chi ha iniziato l’azione penale e non si è reso conto che non c’era il “fatto” o che il fatto non era reato e non è stato compiuto.
Come non rendersi conto di questo?! Se si vuole riformare il ruolo del magistrato e adeguarlo ai tempi si deve ancor più esaltare la sua indipendenza che non si può non collegare a una responsabilità.
La indipendenza non determina irresponsabilità e una esasperata “autonomia” porta alla chiusura e alla “casta” incontrollata. L’autonomia, bisogna ormai riconoscerlo, è un istituto dell’aciern regime che i costituenti mutuarono perché dovevano prevedere una vera e propria separatezza della magistratura rispetto al governo e alle altre istituzioni segnare una forte discontinuità rispetto al regime fascista! Il costituzionalismo moderno non può non porsi questo problema, che riconosco è molto arduo e complesso, ma è un problema che ha bisogno di essere risolto.
La riforma della magistratura è soprattutto di natura costituzionale ed è la premessa per le altre riforme che sono state indicate dal ministro Nordio che portano alla distinzione istituzionale tra pm e giudice, a una composizione diversa del Csm, per evitare che vi sia la prevalenza del giudiziario sul Parlamento, sul governo e quindi sulla politica.
Si deve sviluppare un grande dibattito su queste questioni, perché la magistratura vuol conservare inopinatamente il suo anomalo potere, la sua funzione di supplenza e questo non è coerente con la nostra Costituzione.
Nell’ultimo numero della rivista Questione giustizia, organo ufficiale della corrente magistratura democratica, il direttore scrive: “In moltissimi casi della vita sociale ed economica – scrive Nello Rossi – è il giudiziario ad intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall'inerzia della politica… e quindi c’è bisogno di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone… all'affermazione di diritti dolorosi come quelli relativi al fine vita; alle soluzioni offerte sul terreno dell'eguaglianza di genere; alla protezione di diritti umani fondamentali come nel caso dei migranti; alle azioni a tutela dei risparmiatori e delle finanze pubbliche in contesti finanziari sempre più complicati e vorticosi; agli interventi sulla condizione dei lavoratori marginali, come i rider o i lavoratori della logistica… il magistrato non può pensare di essere un semplice passacarte, un freddo tutore dell'ordinamento giudiziario, ma deve rivendicare il suo ruolo speciale nella società, anche a costo di allargare il perimetro delle proprie prerogative… La Costituzione non indica più una direttrice di marcia univoca nel cui solco il giudiziario possa identificare una sua funzione unitaria, storica…!” Questo scritto è in coerenza con quanto scritto nel lontano 1983 sulla stessa rivista che io ho ricordato molte volte in questi anni, dal pubblico ministero Gherardo Colombo.
“La mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica da parte degli apparati cui lo svolgimento di questa funzione spetta istituzionalmente e costituzionalmente, ha indotto come conseguenza un fenomeno che riguarda direttamente la magistratura. Il controllo giurisdizionale, tradizionalmente e istituzionalmente diretto alla composizione dei conflitti e all'accertamento di comportamenti devianti di singoli, si è via via trasformato per una molteplice serie di motivi, che hanno complessivamente portato al risultato di modificarne la natura...”
“È stata devoluta alla magistratura una serie di compiti che non sono suoi propri e che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale. In tema di terrorismo, ad esempio, tutto il complesso fenomeno, di chiarissima natura politica, è stato affrontato a livello giudiziario e risolto - per quanto si è potuto attraverso strumenti utilizzati dalla magistratura.
Quello del terrorismo è uno dei tanti settori nei quali si è verificata l'imposizione alla magistratura di un'attività di supplenza da parte di altri apparati dello Stato… non mancano altri campi, più o meno estesi e più o meno evidenti, in cui sono state scaricate sulla magistratura responsabilità che spetterebbero, in linea di principio, ad altri organi o settori dello Stato. Ciò ha portato necessariamente l'ordine giudiziario ad invadere, perché richiesto, sfere di intervento istituzionalmente riservate ad altri. È successo, inoltre, che gli spazi lasciati liberi dalla mancanza o dalla più o meno grave insufficienza della opposizione politica siano stati essi pure, ed essi pure necessariamente, occupati dall'intervento giudiziario”.
È molto significativo come vi sia una costante in parti della magistratura di costruire un protagonismo istituzionale fuori dal dettato della Costituzione, ed è incomprensibile questa ostinazione di costruire una magistratura – politica. So bene che la colpa è della politica ma è la classe dirigente non solo la politica che deve avere consapevolezza e allarmarsi. L’evoluzione del ruolo della funzione della magistratura non può avvenire in queste forme perché costituirebbe un vulnus per la democrazia.
La distinzione dei poteri non è superata perché dall’epoca di Montesquieu sono passati tanti anni, ma è l’anima dello stato di diritto, dell’equilibrio tra i poteri perché nessuno deve prevalere sull’altro e ogni potere deve essere fedele alle sue rigorose competenze.
La sentenza della Cassazione vogliamo sperare chiude questo lungo periodo di “supplenza”, ristabilisce la consistenza dei fatti e cancella una distorta e mendace cronaca di tutti questi anni per la quale abbiamo patito tutti e hanno patito i personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel nostro Paese opposto a quello che le sciagurate iniziative giudiziarie hanno voluto indicare. È arrivato davvero il momento di correggere la storia distorta che le indagini di Tangentopoli e quelle contro la mafia hanno fittiziamente costruito, e ristabilire un rapporto virtuoso tra la società e le istituzioni, tra la società e la politica.
Mele marce tra le toghe. Il Csm resta muto sui casi della Puglia. Domenico Ferrara il 7 Maggio 2023 su Il Giornale.
Chissà se qualcuno avrà sussurrato all'orecchio del vice presidente del Csm Fabio Pinelli per dirgli che alla procura di Bari c'è un problema non da poco.
Chissà se qualcuno avrà sussurrato all'orecchio del vice presidente del Csm Fabio Pinelli per dirgli che alla procura di Bari c'è un problema non da poco. Anzi, due. Con nomi precisi: Michele Ruggiero e Alessandro Donato Pesce, sostituti procuratori della Repubblica ancora in servizio nonostante una condanna definitiva in Cassazione per violenza privata rispettivamente a sei mesi e a quattro mesi di reclusione. Dal 30 gennaio, giorno della sentenza, al Csm nessuno ha mosso un dito per aprire un procedimento disciplinare, tanto che i due continuano a esercitare le loro funzioni come se nulla fosse. L'altro ieri, il tour del nuovo vicepresidente del Csm ha fatto tappa in Puglia, proprio a Bari, precisamente alla Corte d'Appello. Ed è inverosimile credere che nessuno gli abbia posto la questione. «È il momento di riportare il Csm alle sue funzioni costituzionali, cioè quelle di amministrazione della giurisdizione e di garanzia dell'autonomia dell'indipendenza della magistratura». Oltre a ciò, esiste però da tempo anche un problema di credibilità. E sapere che due toghe - condannate per violenza su alcuni testi - continuino a condurre indagini su altre non è sicuramente un buon viatico per migliorare la credibilità del sistema giudiziario. Le condotte illecite di Ruggiero e Pesce risalgono a quando entrambi lavoravano alla procura di Trani, altra città in cui, l'altro ieri, si è recato Pinelli. Che, dalla corte d'Appello della cittadina pugliese, ha dichiarato: «Sono qui per un abbraccio a chi sul territorio ha vissuto un periodo difficilissimo. Qui c'è stata una rigenerazione, ed uscire dalla situazione in cui si trovava Trani è il segnale migliore che potessimo ricevere (...). I magistrati tornino ad essere un riferimento fondamentale nel sistema Paese, così che il cittadino torni a credere nella magistratura e nella giustizia». Sintomatico che lo abbia detto proprio a Trani, la cui procura, fino a poco tempo fa, si poteva considerare senza timore di smentite la più chiacchierata. Lì è stato capo della procura Carlo Maria Capristo, rinviato a giudizio pochi mesi fa per corruzione in atti giudiziari. Lì l'ex presidente del Tribunale Filippo Bortone è stato indagato per falso e truffa ai danni dello Stato. Lì gli ex pm Antonio Savasta e Luigi Scimè insieme all'ex gip Michele Nardi sono imputati e accusati di aver pilotato sentenze e azioni giudiziarie. Lì sono state svolte inchieste flop, alcune delle quali hanno portato all'arresto di persone innocenti, come Luigi Riserbato, ex sindaco di Trani, inquisito e poi, dopo otto anni di inferno, assolto per non aver commesso il fatto. Insomma, ci vogliono dei segnali per cambiare l'opinione che i cittadini hanno della magistratura.
Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 3 maggio 2023.
Nell’intestardirsi a sottovalutare le prove su Vincenzo Armanna e Piero Amara potenzialmente favorevoli alle difese nel processo Eni-Nigeria, nel contempo valorizzando invece quelle che potevano ad esempio riverberarsi sul presidente dei giudici Marco Tremolada, ad avviso del CG-Consiglio Giudiziario di Milano il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale è stato non imparziale.
Ma questa sua condotta (mai tenuta all’oscuro del suo capo Francesco Greco) è stata — valuta il Consiglio Giudiziario — un caso isolato in una prestigiosa carriera. E si è verificata solo in quel processo complesso, anche per le frizioni col pm Paolo Storari che informalmente aveva additato a lui e ai capi quelle prove diversamente valutate, sicché si può ritenere nel complesso che non abbia intaccato in De Pasquale i requisiti di imparzialità ed equilibrio richiesti dalla legge: così il CG ieri ha argomentato in 13 sì, 1 no e 2 astenuti l’ok al primo quadriennio 2017/2021 del 65enne vice della Procura, e quindi il parere positivo alla sua conferma per altri 4 anni sino al 2025.
Per allora è improbabile siano scongelati l’iter del procedimento disciplinare e dell’incompatibilità ambientale che Procura Generale di Cassazione e Csm hanno sospeso in attesa dell’esito definitivo (dunque tra almeno 2/3 anni) del processo penale bresciano a De Pasquale per rifiuto d’atti d’ufficio. […] L’Ordine degli Avvocati non ha svolto osservazioni, ma «apprezzamenti per l’attenzione di De Pasquale alle esigenze dei legali».
De Pasquale, il giudice nasconde le prove? Ma non paga. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 05 maggio 2023
L’Intelligenza Artificiale andrebbe definitivamente testata sottoponendole il caso del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, caso incomprensibile alle menti umane normo dotate ma perlomeno capace di sollevare spruzzate di buon umore che rasentano l’umanissima risata. Non è chiaro peraltro dove questa Intelligenza artificiale potrebbe recuperare i file di memoria trentennale che consentirebbero di farsi un quadro d’insieme del personaggio: dunque, nell’attesa, tocca procedere col caro vecchio archivio miseramente umano. Intanto la notizia, perché ce n’è una: Fabio De Pasquale è stato «assolto» dal Consiglio giudiziario di Milano per il caso «Vincenzo Armanna-Piero Amara» (processo Eni-Nigeria) secondo il quale il magistrato non avrebbe minimamente considerato le prove favorevoli alle difese, nel contempo valorizzando invece quelle che potevano riverberarsi sul presidente dei giudici Marco Tremolada.
E già par di sentire la replica: tanto il Consiglio giudiziario non conta un tubo. Ma infatti è qui la prima prova che l’Intelligenza artificiale dovrebbe affrontare: spiegare la funzione dei Consigli giudiziari nella giustizia italiana, dare un senso a questi micro-Csm di provincia che esprimono «pareri» che in pratica si rivelano soltanto delle pagelline e affabili carezze tra colleghi. Il secondo mistero che l’IA dovrebbe porsi è come mai la notizia della «assoluzione» di De Pasquale sia stata miseramente bruciata dal Corriere della Sera di ieri: un misero colonnino a pagina 21 scritto dal povero Luigi Ferrarella.
LA CONFERMA - Forse l’ha pensato anche il Corriere, che il Consiglio giudiziario non conta un tubo; e forse l’ha pensato anche l’Ordine degli avvocati di Milano, che secondo il Consiglio giudiziario non ha svolto osservazioni ma «apprezzamenti per l’attenzione di De Pasquale alle e qualcosa vorrà dire.
Comunque sia, c’è un dettaglio: Fabio De Pasquale (col collega Sergio Spadaro) verrà comunque processato a Brescia per la stessa questione, dicasi «rifiuto d’atti d’ufficio» in relazione appunto al processo Eni-Nigeria. La procura di Brescia aveva iscritto i due magistrati nel registro degli indagati nel marzo del 2021 e aveva sostenuto che De Pasquale e Spadaro avessero deliberatamente deciso di non depositare alcune prove ritenute favorevoli agli imputati: tanto che anche nelle motivazioni della sentenza che aveva assolto gli amministratori Eni (Paolo Scaroni e Claudio Descalzi) si definiva come «incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che reca straordinari elementi a favore degli imputati».
Questo «documento» peraltro era un video: non è che ci fosse troppo da interpretare.
Ma torniamo al nostro extra-mondo chiamato Consiglio giudiziario di Milano. E leggiamo: «Ad avviso del Consiglio, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale è stato non imparziale. Ma questa sua condotta (mai tenuta all’oscuro del suo capo Francesco Greco) è stata un caso isolato in una prestigiosa carriera».
E qui, al Palazzaccio, le risate rischiano seriamente di sgretolare i cornicioni. Quanto è successo, insomma, «si può ritenere che non abbia intaccato in De Pasquale i requisiti di imparzialità ed equilibrio richiesti dalla legge». Ecco i limiti dell’Intelligenza Artificiale: non sa, non ricorda, non ride. Comunque il consiglio ha votato 13 sì, un no e due 2 astenuti e ha dato parere positivo alla sua conferma per altri quattro anni sino al 2025: per quella data è possibile che il processo bresciano e il procedimento disciplinare non abbiano neppure avuto inizio, e il Consiglio giudiziario, per ora, non vuole perciò spingersi oltre o esprimersi su un a faccenduola come il «pool esteri» che l’ex capo della Procura Francesco Greco aveva creato apposta per De Pasquale. Altre uscite di De Pasquale vengono definite come una «uscita infelice di un carattere aspro».
Fine: con l’Intelligenza artificiale, di fronte a Fabio De Pasquale, arresa alle espressioni «prestigiosa carriera» nonché «imparzialità ed equilibrio».
Senza che sia a conoscenza delle ragioni per cui il magistrato non ebbe mai particolare stima da parte del Pool di Mani pulite. Senza poter ricordare l’accusa d’aver indotto al suicidio Gabriele CaglIari (1993) rimangiandosi la promessa di una scarcerazione che il manager attendeva da mesi, quando ossia fu prosciolto da un indagine ministeriale in cui pure gli ispettori annotarono che «Il dott. De Pasquale, con espressioni non consone, ha tenuto dei comportamenti certamente discutibili (...) soprattutto per avere promesso a un indagato che era in carcere da oltre centotrenta giorni, di età avanzata e in condizione di grave prostrazione psichica, che avrebbe espresso parere favorevole (...) e di avere invece assunto una posizione negativa senza però interrogare nuovamente lo stesso indagato, impedendogli, così, di fatto, di potersi ulteriormente difendere. È mancato quel massimo di prudenza, misura e serietà che deve sempre richiedersi quando si esercita il potere di incidere sulla libertà altrui».
I FONDI NERI - Cagliari si poi ammazzò soffocandosi con un sacchetto di plastica. L’Intelligenza Artificiale non sa che De Pasquale mise d’accordo l’intero Parlamento come capitò a margine di un’inchiesta sui fondi neri Assolombarda, stesso periodo: l’intero emiciclo- sinistre e forcaioli compresi - respinsero le richieste di autorizzazione a procedere per Altissimo e Sterpa (liberali) e per Del Pennino e Pellicanò (repubblicani) chieste da un De Pasquale il cui intento fu giudicato «persecutorio» dall’intero arco costituzionale.
L’Intelligenza Artificiale dovrebbe anche apprendere che De Pasquale fu pure il pm della chiassosa indagine sul regista Giorgio Strehler (il pm chiese la pena massima, ma Strehler fu assolto con formula piena) e che lo fu anche di un’altra chiassosissima indagine sui fondi Cee, roba con percentuali di assoluzione mostruose.
Presunta legittimità. Il problema della giustizia italiana non è nelle (poche o molte) mele marce tra i togati. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 4 Maggio 2023
Le storture della magistratura non sono dovute al numero di mariuoli tra i suoi rappresentanti, ma al fatto che un potere giudiziario deviato si sia ormai costituito in una realtà eversiva assolta da qualsiasi controllo
Non si correggono in modo efficace, e in realtà in nessun modo, le storture della giurisdizione di questo Paese se si continua a credere e a far credere che esse si producano episodicamente per responsabilità di qualche arbitrio individuale, insomma per la presenza dei pochi frutti marci che basta individuare e rimuovere per restituire al bigoncio giudiziario l’incontaminazione naturale.
Per quest’idea, il problema della giustizia italiana ammonta al numero di mariuoli togati che tocca registrare, e il problema si risolve appunto prevenendo quando si può e sanzionando quando si deve quei fenomeni di singolare malversazione.
Ma non sta nella presenza né nel lavorìo di quelle personali scostumatezze il problema della nostra giustizia, che è invece costituzionale e non pesca affatto nell’occasionale bacino di illecito in cui effettivamente può sguazzare qualche rappresentante del potere giudiziario.
Il problema è altrove: è nella ormai avvenuta costituzione della magistratura in una agenzia di potere deviato, una realtà assolta da qualsiasi controllo e ormai stabilmente interposta tra i poteri legittimi che essa sottopone alla propria interferenza, alla propria minaccia, al proprio ricatto, in buona sostanza al proprio tentativo di sostituirvisi nell’ostentazione delle braccia allargate davanti alle inefficienze e ai ritardi del sistema democratico e rappresentativo.
Il fatto che questo costituzionalizzarsi del carattere sostanzialmente eversivo del potere giudiziario non coinvolga gli intendimenti della maggioranza dei magistrati non dice proprio nulla, giusto come non prova niente la circostanza che le finalità golpiste siano estranee al reggimento assoldato per attuarle.
È nel profilo presunto legittimo del potere giudiziario il problema della giustizia italiana: non nello sfregio di qualche arbitrio impomatato, facile da giustificare e anzi capace di nobilitarlo come una cicatrice sulla purezza di un viso incolpevole.
È nella pretesa legittimità del potere giudiziario deviato il disastro della giustizia di questo Paese: non nelle deviazioni da mattinale.
Tracolla la fiducia nelle toghe. "Ora gli italiani hanno paura". Francesco Curridori il 24 Gennaio 2023 su Il Giornale.
I sondaggisti: dal 2010 ad oggi consenso dimezzato. E nel Paese cresce la richiesta di riformare i processi
Lo scontro politico divampa attorno al tema della giustizia e le varie forze politiche si dividono di nuovo tra garantisti e manettari. I sondaggisti, invece, sono concordi su un dato incontrovertibile: gli italiani non credono più nella magistratura.
«Nel 1998, a cinque anni dalla morte di Falcone e Borsellino, la fiducia nella magistratura era all'88%, nel 2010 scende al 66% e nel 2022 tracolla al 33%», afferma Carlo Buttaroni, fondatore dell'Istituto Tecné. «Vent'anni fa il giudizio era eccellente, ma poi è andato scendendo e si è passati da un 70% a circa il 40%. La gente ha più paura», gli ha eco Renato Mannheimer. Non si discosta molto da queste percentuali neppure Antonio Noto: «Nel 1993, durante Tangentopoli, - dice - la fiducia era al 77%, mentre oggi di ferma al 43%». Una conferma del tonfo del sentiment degli italiani per quanto riguarda il nostro sistema giudiziario arriva anche da Alessandro Amadori: «Nel 2010 il consenso era intorno al 60%, mentre oggi - rivela - si è praticamente dimezzato». A riportare in auge il tema della giustizia, in queste settimane, non sono state solo le prese di posizione del ministro Carlo Nordio, ma anche la cattura di Matteo Messina Denaro che ha portato ad accrescere la fiducia nei confronti delle forze dell'ordine. Ma non solo. «Il giudizio cambia quando si parla dei magistrati esposti nella lotta alla criminalità organizzata perché vengono visti come degli eroi. E, anzi, si ha l'idea che la macchina della giustizia sia contro di loro», spiega Buttaroni. Sulle intercettazioni, invece, gli italiani si dividono: «C'è una larga prevalenza di cittadini che le ritiene necessarie per quanto riguarda i reati di mafia, terrorismo e corruzione, ma sottolinea il fondatore di Tecné - una grandissima maggioranza pensa che vi sia un abuso». Secondo Maurizio Pessato di Swg, su questo tema c'è ancora tanta confusione e «una larga parte dell'opinione pubblica non capisce su cosa si sta discutendo». Dagli esperti, poi, arriva un monito chiaro: la giustizia è percepita come importante nella misura in cui vengono perseguiti i reati e se i processi sono rapidi. «Insomma, la riforma del Csm non premia e non punisce nessuna forza politica», sintetizza Amadori. Detto ciò, la riforma della giustizia, da sempre una bandiera di Forza Italia, viene vista da tutti come necessaria. «Se all'inizio sembrava che servisse solo a Berlusconi, ora nel Paese è cresciuta l'esigenza di riformare la giustizia», spiega Buttaroni, convinto che questa battaglia contribuisce in maniera determinante a rafforzare la credibilità di Forza Italia: «Alla lunga, può valere uno o due punti percentuali». Il centrosinistra, al contrario, appare «come se parlasse una lingua che i cittadini sono capiscono e - aggiunge Buttaroni - sembra arroccato alla difesa di una corporazione». Anche il ministro Nordio sembra godere di una notevole stima degli italiani. «La sua immagine è sempre stata buona, partiva da un buon capitale di consenso perché come pm aveva operato bene. Al momento, ha un consenso superiore al 40%», dice Amadori. In linea generale, l'impressione è che il governo abbia ancora il consenso di chi l'ha votato e potrebbe trarre vantaggio da un'eventuale legge di riforma complessiva del sistema giudiziario. «Chi riuscirà a portare a casa una riforma che migliori l'efficienza della giustizia e l'agibilità dei magistrati che lottano contro la criminalità otterrà sicuramente un consenso che si misurerà nell'arco di mesi o anni perché contribuirà a migliorare il sistema Paese», profetizza Buttaroni. Un'opinione condivisa anche da Pessato che dice: «Quando si concludono delle riforme c'è sempre un aspetto positivo perché il governo dimostra di aver fatto qualcosa, ma ammonisce - la giustizia è un tema spinoso e le baruffe non aiutano. Anzi, non fanno bene soprattutto al governo».
"La fiducia nei giudici è crollata". "Ma i pm anti-mafia sono eroi". Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo chiesto ai sondaggisti Renato Mannheimer e Carlo Buttaroni cosa pensano gli italiani della magistratura italiana. Francesco Curridori il 24 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Il tema giustizia torna ad alimentare lo scontro politico. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo chiesto ai sondaggisti Renato Mannheimer e Carlo Buttaroni cosa ne pensano gli italiani.
Che giudizio danno gli italiani della magistratura?
Mannheimer: “Vent’anni fa era un giudizio eccellente ed era stimata da tutti, poi è andata scendendo e, adesso, gli italiani non hanno grande fiducia nella magistratura. Si è passati da un 70% a circa il 40% di oggi e la gente ha più paura. Detto ciò, questo non è un giudizio sull’intera magistratura che, per la maggior parte, è composta di persone eccellenti, ma è il sentiment generale del Paese”.
Buttaroni: “In questo momento non è un tema molto sentito. Quando si parla del funzionamento della giustizia i giudizi non sono più positivi. Nel 1998, a cinque anni dalla morte di Falcone e Borsellino, la fiducia nella magistratura era all'88%, nel 2010 scende al 66% e nel 2022 tracolla al 33%. Il giudizio cambia quando si parla dei magistrati esposti nella lotta alla criminalità organizzata perché vengono visti come degli eroi. E, anzi, si ha l’idea che la macchina della giustizia sia contro di loro”.
Dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, qual è la percezione sulle intercettazioni?
Mannheimer: “Non saprei dirlo, di certo è cresciuta la stima nei confronti delle forze di polizia. Le intercettazioni sono un tema complicato e non so se la gente ha colto la vera problematica, ma non ho rilevazioni successive alla cattura”.
Buttaroni: “C’è una larga prevalenza di cittadini che ritiene che le intercettazioni siano necessarie per quanto riguarda i reati di mafia, terrorismo e corruzione, ma una grandissima maggioranza pensa che vi sia un abuso”.
Il ministro Carlo Nordio gode di un buon gradimento tra gli italiani?
Mannheimer: “Sostanzialmente gode di un buon gradimento, come tutto il governo”.
Buttaroni: “Sì, gode di un 44% di consenso. È uno dei giudizi più alti tra i ministri”.
Nello scontro tra magistratura e politica, chi ne esce peggio?
Mannheimer: “Il popolo italiano perché sarebbe necessario un funzionamento armonioso sia della magistratura sia della politica. Così, invece, chi ci va di mezzo sono gli italiani”.
Buttaroni: “Dipende su quale piano si gioca lo scontro. Sull’efficienza della macchina giudiziaria parte in vantaggio la politica perché c’è la percezione che la giustizia non funzioni, soprattutto per quanto riguarda la delinquenza diffusa. Alcuni singoli magistrati, invece, ribadisco godono di una certa stima”.
Tutto questo dibattito attorno alla giustizia, quali forze politiche premia e quali penalizza?
Mannheimer: “La maggior parte dell’elettorato di ciascuna forza politica sia convinto di aver ragione e il dibattito sulla giustizia non sposta voti”.
Buttaroni: “In questo momento il centrosinistra è fuori dal dibattito che interessa ai cittadini ed è come se parlasse una lingua che i cittadini sono capiscono, mentre il centrodestra, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, ha incassato un premio di credibilità. Poi, il centrodestra è anche l’area politica che più di tutte ha insistito in questi anni per una riforma della giustizia, dalla separazione delle carriere in poi. Il centrosinistra, invece, è sembrato arroccato alla difesa di una corporazione”.
Taglia…Taglia, si rimane con le pezze al culo.
Nel 1996, agli inizi del mio praticantato forese avevo chiaro il mio futuro. Potevo districarmi a pochi chilometri di distanza da casa mia presso giudici di Pace, Tribunali monocratici e collegiali e Tar con minime spese tra:
Ricorsi in opposizione a sanzioni amministrative,
Ricorsi su sinistri stradali,
Cause di ogni sorta.
Tutti gli avvocati lavoravano, anche quelli col gratuito patrocinio, e tutti potevano chiedere giustizia.
Poi hanno deciso che la giustizia era lenta ed onerosa.
Hanno dato la colpa al numero eccessivo di avvocati forieri di litigiosità. Hanno limitato l’accesso all’avvocatura: tutto come prima.
Hanno dato la colpa all’eccessive cause. Hanno elevato gli importi delle iscrizioni a ruolo, hanno eliminato molte competenze, hanno riformato la risarcibilità dei sinistri stradali e inserito la figura del mediatore: tutto come prima.
Hanno dato la colpa a troppe sedi decentrate dei Tribunali e giudici di Pace. Hanno tagliato le sedi dei Tribunali e dei Giudici di Pace: tutto come prima.
Hanno detto che vi erano pochi operatori giudiziari. Hanno inserito l’ufficio del processo: tutto come prima
Hanno dato la colpa al gratuito patrocinio. Hanno limitato l’accesso con norme farraginose e ostacolato il pagamento agli avvocati, che, di conseguenza, vi hanno rinunciato: tutto come prima.
Oggi ci troviamo con i supposti stessi problemi di lentezza, ma con rinuncia alle cause e con meno avvocati.
Che la cura sia stata peggio della malattia dispensata da medicastri improvvisati?
Gli esodati della giustizia: l'avvocato è un lusso per 3 milioni di famiglie. Maria Sorbi il 19 Novembre 2023 su Il Giornale.
Troppo ricchi per il patrocinio gratuito ma troppo poveri per pagare le parcelle. Allo studio una norma per estendere il beneficio: "Almeno uno su 5 rinuncia al tribunale"
Fanno fatica a tirare la fine del mese, rimandano l’apparecchio dei denti per i figli, non vanno in vacanza. Figuriamoci se si possono permettere le parcelle dell’avvocato. Le famiglie che traballano e campano con un’entrata mensile di 1.100 euro sono 3 milioni e tra queste almeno 600mila rischiano di dover rinunciare a difendersi, anche quando hanno subìto un torto grave. Sono troppo ricchi per poter accedere al patrocinio gratuito (che viene concesso a chi ha un reddito lordo di 12.838 euro) ma troppo poveri per permettersi un’azione legale, o almeno per anticiparne le spese vive che - in cause con risarcimenti fra i 52mila e i 260mila euro - possono arrivare a 5mila euro, tra bolli, perizie e notifiche.
Tra gli esodati della giustizia ci sono persone che hanno avuto infortuni gravi sul lavoro ma che non osano intentare una causa contro il capo, pazienti vittime di errori medici che non hanno i mezzi per andar contro i big della sanità o delle assicurazioni, famiglie che trovano più conveniente tacere e convivere con avvilimento e torti subiti. Perché la giustizia diventa un lusso e quel diritto a difendersi, definito «inviolabile» nella Costituzione, resta lettera morta.
Per dare una risposta a questa «zona grigia» della giustizia, è in corso d’opera una modifica sulla legge, innanzitutto per rivedere i parametri del patrocinio gratuito e rendere i tribunali realmente «uguali per tutti». A promuovere il nuovo provvedimento è Chiara Tacchi, studio Tacchi & Tosini di Gallarate, autrice del libro «La giustizia degli ultimi», che ha già preso contatti con la Commissione giustizia in Parlamento. Ad appoggiarla è anche l’associazione degli avvocati Pro Bono, presieduta da Giovanni Carotenuto, che già da tempo si sta occupando di importare la cultura dell’avvocatura pro bono in Italia, a supporto dei fragili: «Abbiamo già redatto le linee guida per la gestione del pro bono in team misti di avvocati e giuristi d’impresa e ci rifacciamo al modello anglosassone dove gli studi legali che si prestano all’assistenza legale senza parcella sono molti». In Italia ce ne sono una cinquantina e si spera aumentino perché nessuno rimanga senza giustizia. Al momento lo Stato rimborsa con 20 milioni di euro gli avvocati che prestano patrocinio gratuito ma si ipotizza anche di rivedere questa cifra per poter ampliare la buona pratica. Di questo e altri aspetti si discuterà il 22 novembre a Milano in occasione della sesta edizione dell’Italy Pro bono day.
«È intollerabile pensare ci siano persone che non si sentano legittimate a difendere i propri diritti. Vogliamo che la difesa sia accessibile e inclusiva» spiega Chiara Tacchi. L’occasione per avviare la riflessione che presto si tradurrà in legge è la presentazione del suo libro a Book city (Milano): una raccolta di casi seguiti in questi anni che testimoniano quanto la vita di una persona possa stabilizzarsi e cambiare se viene appagato il suo diritto alla giustizia. Un elemento fondamentale perché in Italia l’accesso al pro bono funzioni è il volontariato.
Le associazioni vicine alle famiglie in difficoltà (o potenziale difficoltà), se ben preparate, possono essere il tramite giusto per mettere in contatto clienti e avvocati e promuovere la cultura di una giustizia realmente accessibile.
«L’emergenza dei diritti riguarda non più solo gli ultimi, ma i penultimi - sostiene Alessandro Pezzoni, servizio Grave emarginazione di Caritas - Sono quelle famiglie a cui basta un problema di lavoro per crollare. Metterle in grado di far fronte a un’ingiustizia è garanzia di equità sociale». E di democrazia.
Il decreto del Guardasigilli. La legge ascondo Nordio: se sei povero non puoi difenderti. Il ministro impone nuovi limiti di lunghezza degli atti: ottantamila caratteri per cause inferiori a 500mila euro. Al di sopra, uno fa quello che gli pare. Iuri Maria Prado su L'Unità il 17 Agosto 2023
Con un decreto dell’altro giorno il ministro Nordio ha emesso un regolamento che stabilisce fino a che punto e in quale misura i cittadini possono far valere i propri diritti per iscritto: massimo ottantamila caratteri, ma proprio quando si tratta di inquadrare la causa, insomma all’inizio, quando bisogna spiegare al giudice di che cosa si tratta.
Per le fasi successive del processo, penitenza a scalare, cinquantamila, diecimila. E cara grazia. Dove mai possa reperirsi un argomento decente per considerare giustificata e costituzionale una simile follia, che calpesta la libertà del cittadino di difendersi a proprio giudizio, senza un giudice o un ministro con il potere di sorvegliarne le eventuali verbosità, è un mistero. E ad attenuare il carattere smaccatamente autoritario e dirigista della misura non sta certo la previsione che consente di spiegare al giudice che lo spazio non basta, e ne occorre di più perché la faccenda è complessa: che in pratica è l’implorazione con cui il suddito chiede al sovrano di potersi difendere compiutamente, e quello valuta, vede un po’ come gli gira, chissà che non si tratti di qualcuno che pensa di poter annoiare il tribunale con troppe pagine su inutili fregnacce.
Ma il gioiello eminente nel castone di questa giustizia a frasi predeterminate è quest’altro: che quel contingentamento del diritto di difendersi e di esporre le proprie ragioni mica è indiscriminato, nossignori, vale solo per le cause di valore inferiore ai cinquecentomila euro. Al di sopra, uno fa quello che gli pare, sbatte sul tavolo del giudice diecimila pagine di fesserie in colletto bianco e quello zitto, perché la tutela di un dritto milionario non vorrai davvero restringerla agli ottantamila caratteri. L’idea che un’ingiustizia enorme, bisognosa di un contrasto difensivo abbondante, possa riferirsi anche a un caso apparentemente minuto, non sfiora i redattori di questi spropositi normativi.
Se un pensionato deve difendere dalla predazione illegittima di una multinazionale il proprio diritto su un orto di qualche metro quadrato, di poche migliaia di euro di valore, è giusto che si becchi il bavaglio di Stato, che scriva poco e non rompa le scatole. Se invece la causa è “ricca”, liberi tutti. Il fatto che poi queste limitazioni riguardino non solo le difese dei cittadini, ma anche gli atti dei magistrati, insomma le sentenze, non è segno di equanimità legislativa ma: è solo l’altra faccia di un’idea di giurisdizione “a punti”, a slide, a crocette; l’idea che la giustizia, per essere efficiente, debba ridursi a un’attività compilativa di formulari, uno, due, ics, la giustizia-totocalcio nell’attesa che l’intelligenza artificiale consenta al magistrato di dedicarsi alle cose importanti, cioè gli stipendi e le ferie e i convegni contro la politica corrotta, altro che queste balle dei diritti dei cittadini.
Non cito neppure, anche se non è un dettaglio, il palese svilimento che questa bella novità rappresenta per il ruolo dell’avvocato, ridotto a un questuante da educare ai riti della giustizia a difesa calmierata. Lasciamo perdere questo profilo della questione, che pure c’è. Quel che allarma è il ricasco, appunto, sulle libertà e sui diritti del cittadino, che se non ha cause a sei zeri da far valere è esposto al riduttore ministeriale che gli taglia la richiesta di giustizia, e buonanotte al principio costituzionale secondo cui la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del processo. Diventa un diritto a numeratore di caratteri, diciamo.
Iuri Maria Prado 17 Agosto 2023
Dagospia il 25 Gennaio 2023. NON SORPRENDIAMOCI DELLA LENTEZZA DELLA GIUSTIZIA ITALIANA: I TRIBUNALI STANNO CON LE PEZZE AL CULO!
Estratto da ilrestodelcarlino.it il 25 Gennaio 2023.
E ’l’Italia delle grandi contraddizioni. Si discute dei grandi temi della Giustizia, delle riforme […] e poi vengono a galla situazioni paradossali come quella di Bologna. Manca personale e nessuno può rispondere al telefono quindi è costretto, a giorni fissi, a doverlo fare il presidente del Tribunale di sorveglianza.
Attenzione, questo è un organismo fondamentale: vigila sugli istituti penitenziari e valuta le richieste di misure alternative e le richieste di permessi dei detenuti. […] Se a scuola manca un professore si manda un supplente. Possibile che sia così difficile rimpiazzare qualche impiegato? […]
Il presidente facente funzione, Manuela Mirandola, ha fatto di necessità virtù. Risponderà al telefono ogni mercoledì dalle 11,30 alle 12,30. Un’ora, dunque, "salvo impedimenti", avverte la nota del Tribunale. […] Anche la direttrice amministrativa, Romana Quaranta, si trasforma in centralinista: ogni lunedì dalle 9,30 alle 12,30. […]
Magistratura. Ci costano 800 milioni di risarcimenti per le loro lungaggini. Luca Fazzo il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.
C'erano rimasti in cinquemila, fregati dal fallimento dei Viaggi del Ventaglio, marchio storico delle vacanze tuttocompreso, andato gambe all'aria nel lontano 2010: gente che aveva già pagato albergo e club, e che non era riuscita neanche a decollare. E i soldi? I malcapitati avevano provato senza grandi speranze a chiederli al curatore fallimentare. Invece li riavranno: ma dallo Stato. Il motivo? A tredici anni di distanza dal crac, la procedura fallimentare di alcune società della galassia è ancora aperta, per altre si è chiusa nei mesi scorsi: tredici anni di durata. Certo, procedura complicata, tragicamente rallentata dall'assassinio del giudice delegato Fernando Ciampi nel 2005. Ma tredici anni sono comunque una infinità. Così i creditori hanno fatto causa allo Stato, in massa, sommergendo di decreti ingiuntivi il ministero della Giustizia, come prevede la legge sulla «irragionevole durata dei processi», la cosiddetta legge Pinto. E stanno ottenendo a spese della collettività i soldi che la macchina della giustizia non è stata in grado di recuperare in un tempo decente.
Il «caso del Ventaglio» da mesi toglie i sonni all'Avvocatura dello Stato di Milano, chiamata a fronteggiare i ricorsi in massa dei vacanzieri, organizzati da avvocati specialisti: i ricorsi arrivano per blocchi, in ordine alfabetico. Quasi sempre non resta che pagare, perché ogni ricorso costa allo Stato altre valanghe di quattrini. Il paradosso è che se la procedura fallimentare si fosse chiusa nei tempi previsti dalla legge, probabilmente i vacanzieri non avrebbero visto un euro, perché i loro crediti sarebbero finiti in coda alla lista. Invece è andata a finire che il risarcimento lo hanno avuto dalla collettività.
Un caso eccezionale? Purtroppo no. Anzi. La lentezza cronica della giustizia italiana dissangua implacabilmente, ogni anno, le casse del ministero di via Arenula. A ogni inizio di anno, dal ministero vengono già inviate alle corti d'appello i soldi destinati ai risarcimenti - considerati ineluttabili - causati dai processi lumaca. Il numero degli italiani che fanno causa allo Stato per venire indennizzati per l'attesa infinita di una sentenza è impressionante. Bastino, ad esempio, i dati della Corte d'appello di Milano, che pure è tra le più veloci del paese. Negli ultimi tre anni sono stati emesse 1.892 decreti ingiuntivi (il record nel 2021, con 837 decreti) che hanno costretto lo Stato a versare quasi 13,8 milioni di euro, cui vanno aggiunti 1,3 milioni di spese legali.
Se si confrontano i dati milanesi con quelli nazionali, c'è da mettersi le mani nei capelli. Nello stesso triennio 2020/2022 il totale nazionale dei risarcimenti è di 266.861.606 euro, una voragine nei conti pubblici. Dal ministero non viene fornito il dato diviso per territorio, ma è di pubblico dominio che le situazioni più incredibili sono concentrate nel Mezzogiorno, ma comunque, ognuna per la sua parte, tutte le sedi giudiziarie d'Italia contribuiscono - sforando di anni il limite della «ragionevole durata» - al disastro contabile che un addetto ai lavori definisce «l'ecobonus della giustizia». Il totale complessivo a partire dal 2015 assomma alla cifra astronomica di 781.481.594 euro, in continua crescita. Di questo passo, il traguardo del miliardo di euro è a portata di mano.
Si parla di giustizia civile, quella che a più riprese è finita nel mirino dell'Europa, e i cui tempi lunghi sono da sempre considerati un grosso ostacolo agli investimenti stranieri nel nostro paese. I magistrati dicono da sempre che i termini della legge Pinto sono troppo stretti, e che per esempio i sei anni di durata di una procedura fallimentare sono - in casi appena un po' complessi - impraticabili. Ma sta di fatto che a gonfiare il totale dei risarcimenti fino a ridosso degli ottocento milioni di euro contribuiscono cause di ogni genere, di cui solo una parte può giustificare tempi lunghi. Di riforme se ne sono annunciate a ripetizione, l'ultima che affidava al cosiddetto «ufficio del processo» l'accelerazione dei tempi non sta dando i risultati sperati. E il test di produttività per i magistrati continua a essere un'utopia.
La storia di un genitore malato. Uno sfratto, un calvario: tempi biblici, escamotage e sgomberi coatti, così i prezzi delle case aumentano. La nuova rubrica “Giustizia in-civile” di Andrea Viola, avvocato e consigliere comunale. Perché una Giustizia civile che funziona, non solo aiuta il cittadino a sentirsi tutelato e protetto, ma crea le condizioni basilari per il funzionamento di ogni comparto economico-produttivo. Andrea Viola su Il Riformista l'11 Giugno 2023
Nel ringraziarvi per tutte le segnalazioni ricevute e nel constatare che anche l’ultimo articolo, sulle problematiche relative alla Magistratura Onoraria, ha suscitato grande dibattito e interesse è utile oggi affrontare un tema sempre più attuale e concreto, ossia la procedura di sfratto.
Per capire l’entità del problema è doveroso ricordare qualche numero fornito dal Ministero dell’Interno.
Dal 2002 al 2021 su tutta la penisola, sono stati eseguiti con l’ufficiale giudiziario 519.243 sfratti. Un dato che se comparato ai casi già dichiarati esecutivi (ossia da mettere in esecuzione) è molto preoccupante. Sono, infatti, 1.091.065 gli sfratti esecutivi: 29.068 (2,66%) per necessità del locatore, 150.687 (13,81%) per finita locazione e la stragrande maggioranza, 911.310 (83,52%), per morosità e altro. In generale le richieste di esecuzione, in 20 anni, superano quota 2 milioni.
Numeri enormi che incidono pesantemente sulla tenuta socio-economica del nostro Paese. Da una parte i giusti interessi e la tutela dei diritti dei proprietari di casa e dall’altra la tutela di chi ha necessità di una abitazione. In mezzo però la necessità di una giustizia che sia rapida ed incisiva su temi fondamentali come questi per cui si discute.
I tempi e soprattutto la procedura per ottenere uno sfratto non sono del tutto veloci e pratici.
Per prima cosa esistono due grandi temi, ossia l’occupazione di un immobile senza alcun titolo ed occupazione di un immobile con regolare contratto. A seconda dei casi le procedure sono diverse. Accade spesso che nella pratica molti cittadini diano in locazione un immobile senza un regolare contratto registrato o addirittura senza alcun contratto.
Le conseguenze pratiche sono molteplici e senza entrare troppo nei vari tecnicismi è utile evidenziare che un’eventuale sfratto per morosità o cessata locazione può essere fatto con la procedura apposita e più snella solo nel caso in cui ci sia un regolare contratto di locazione.
Diversamente dovrà essere intrapresa una causa ordinaria con tempi e costi più gravosi. Il tutto con i vari risvolti che ogni causa specifica può avere. Ma fermiamoci ad un caso concreto recentemente accaduto. Un proprietario di un immobile si rivolge al proprio avvocato perché vuole ottenere lo sfratto per morosità persistente da parte di colui che ha preso la casa in locazione. Bene, prima cosa da fare è preparare un atto denominato: intimazione di sfratto per morosità.
Nel caso in esame, il proprietario cercava di ottenere un pagamento dei canoni già ampiamente scaduti attraverso un semplice decreto ingiuntivo. Non voleva sfrattare l’inquilino ma ottenere almeno un titolo esecutivo per i canoni scaduti. Il tutto anche perché la persona in locazione otteneva agevolazioni pubbliche proprio per avere la possibilità di pagare i canoni di locazione. Purtroppo, però i soldi non venivano utilizzati per il reale scopo e il proprietario non riceveva mai il proprio affitto. Bene, la richiesta di decreto ingiuntivo veniva fatta nel gennaio 2021.
Di solito la procedura per ottenere il decreto è di poche settimane. Nel caso di specie il cittadino otteneva il provvedimento solo a giugno 2021 dopo numerosi solleciti anche al CSM. Per metterlo in esecuzione ci vollero ovviamente altri mesi ma purtroppo senza alcuna possibilità di reale incisività. Anche perché nel frattempo la persona in affitto aveva ben nascosto il proprio eventuale capitale aggredibile.
A questo punto, persi soldi a settembre 2021 il proprietario di casa decide di passare almeno allo sfratto. E quindi altre spese e altro iter per ottenere almeno la liberazione del proprio appartamento. E qui inizia l’iter e la cosiddetta farsa. Alla prima udienza fissata a novembre l’inquilino cosa fa? Chiede il fantomatico termine di grazia, ossia la possibilità prevista dalla legge di sanare il debito entro un termine di 90 giorni. Ossia, quasi sempre una colossale presa in giro. Ed, infatti, nella successiva udienza del marzo 2022 l’inquilino neanche si presentava e ovviamente non aveva saldato il debito.
E da qui inizia la fase dell’esecuzione, o meglio la vera tribolazione. Dopo tutta la fase per ottenere il provvedimento esecutivo si inizia l’iter più problematico, ossia quello dello sgombero coatto. Perché è sempre più raro che l’inquilino vada via spontaneamente dall’immobile, soprattutto se questo ha bambini a suo carico. Per di più, questo tema meriterà altri approfondimenti, esiste l’ulteriore carenza di organico degli Ufficiali Giudiziari, ossia coloro che hanno il compito di mettere in esecuzione lo sfratto. Nel caso che stiamo raccontando venivano fatti vari tentativi ma l’inquilino si faceva trovare con il bambino e con problemi di salute.
Insomma, per farla breve, alla fine solo grazie all’intervento dei Servizi Sociali del Comune si è riusciti a sgomberare l’appartamento dopo tre anni. Questo sicuramente non è il caso peggiore ma nella fattispecie il proprietario di casa aveva una esigenza impellente, la propria salute. Infatti, il proprietario aveva appena scoperto di aver una malattia incurabile e voleva a tutti i costi risolvere ogni questione per lasciare alla propria unica figlia ogni cosa risolta.
Questa cara persona ci ha lasciato qualche giorno fa e poco prima per fortuna era riuscita a risolvere la questione giudiziale. Ecco immaginatevi quanti risvolti può avere una giustizia in-civile, non solo interessi economici ma anche semplicemente umani e di buon senso. Il tutto ben ricordando che se poi gli affitti delle case aumentano a dismisura un motivo deve essere anche ricercato in questa poca efficienza da parte del sistema giudiziario.
Andrea Viola, Avvocato, Consigliere Comunale Golfo Aranci, Coordinatore Regionale Sardegna Italia Viva; Conduttore Rubrica Vivacemente Italia su Radio Leopolda
Tempi che non funzionano. Giustizia in-civile, il viaggio nei Tribunali italiani tra costi, disagi e danni causati ai cittadini.
La nuova rubrica “Giustizia in-civile” di Andrea Viola, avvocato e consigliere comunale. Perché una Giustizia civile che funziona, non solo aiuta il cittadino a sentirsi tutelato e protetto, ma crea le condizioni basilari per il funzionamento di ogni comparto economico-produttivo. Andrea Viola su Il Riformista il 28 Maggio 2023
Inizieremo oggi una rubrica settimanale che ci vedrà in viaggio per i Tribunali italiani e nello specifico nel settore civile. Un mondo, forse poco conosciuto, che è però fondamentale per il sistema socio-economico del nostro Paese. Una Giustizia civile che funziona, non solo aiuta il cittadino a sentirsi tutelato e protetto, ma crea le condizioni basilari per il funzionamento di ogni comparto economico-produttivo.
Di conseguenza anche chi vuole investire in Italia guarderà principalmente i dati e l’efficienza dei nostri Tribunali. Racconteremo, altresì, la Geografia Giudiziaria dell’Italia e la sua evoluzione (o involuzione, lo scopriremo nel racconto) degli ultimi anni con la cancellazione di 220 Sedi Distaccate dei Tribunali avvenuta con la Riforma del 2012.
Una Geografia Giudiziaria che ha sempre disegnato e raffigurato anche le nostre abitudini e i nostri modi di vivere. Anche su questo faremo appositi interventi. Naturalmente il settore della giustizia civile prevede non solo la competenza dei Tribunali ma anche dei Giudici di Pace, altro grande argomento che si affronterà. Insomma, mettetevi comodi per iniziare un percorso insieme verso la realtà quotidiana di chi gravita per un motivo o per un altro nei meandri della Giustizia Civile Italiana. Naturalmente sono ben accette le vostre segnalazioni a: avvandreaviola@tiscali.it
Prima di raccontarvi uno dei tanti casi di giustizia in-civile è doveroso rammentare che anche il semplice accesso ad una causa ha delle preventive spese cosiddette vive, ossia necessarie per iscrivere la vertenza a ruolo presso il Tribunale. I costi, oltre alla normale parcella dell’Avvocato, stabilita da dei parametri Ministeriali, sono aumentati proporzionalmente negli anni.
Con l’ultimo aumento del 2022, ad esempio il costo fisso per incardinare una semplice causa ordinaria di valore da 26 a 52 mila euro è di 518 euro per il solo acquisto del cosiddetto “contributo unificato” oltre a 27 euro di semplice marca da bollo.
Per l’appello di una causa sempre di detto valore il contributo unificato arriva a 777 euro. Per arrivare in Cassazione ci vogliono 1.036 euro. Anche in questo caso, ci sono tabelle e scaglioni che influiscono sui costi. Dati che servono a far riflettere su come il semplice accesso alla Giustizia non sia del tutto economico e agevole.
Tanti aspetti che vedremo di volta in volta. Ora passiamo ad un caso concreto ed emblematico. Un cittadino che vede leso un proprio diritto ha diversi mezzi per tutelarsi. Una volta consultato un Avvocato si apriranno varie ipotesi. Nel caso di specie un cittadino si è rivolto al Tribunale perché lamentava di essere stato spogliato violentemente e clandestinamente del suo possesso su un bene immobile. In questo caso si può azionare una causa denominata “cautelare”, ossia con un rito semplificato e che dovrebbe essere più veloce.
La causa che raccontiamo veniva iscritta a gennaio 2020. Veniva assegnata ad un Giudice il quale fissava per la comparizione delle parti l’udienza a settembre 2020. Nelle more il Giudice veniva sostituito ad aprile da altro Giudice. Per l’udienza di settembre 2020 la controparte si costituiva regolarmente. L’udienza veniva trattata tramite note scritte e non in presenza.
Il Giudice non si accorgeva della regolare costituzione della controparte, la quale asseriva che il ricorrente non aveva mai avuto il possesso della porzione di terreno oggetto di causa, è disponeva la reintegra nel possesso del ricorrente sul falso presupposto della contumacia della parte convenuta.
A seguito di ciò, la parte convenuta proponeva apposita e formale istanza al Giudice per l’evidente errore. Il Giudice, invece di prenderne atto, fissava udienza da remoto lasciando in essere la reintegra nel possesso. Nonostante le prove allegate e l’evidente errore, il Giudice confermava reintegra e fissava nuova udienza ad aprile 2021 per l’escussione dei sommari informatori.
I sommari informatori delle parti venivano sentiti non dal Giudice titolare della causa ma dal G.O.T, ossia un Giudice Onorario (di solito un Avvocato di altro foro e di cui ci occuperemo più avanti)
Dopo altri rinvii, la causa ritornava al Giudice precedente per altre udienze non necessarie.A gennaio 2023, dopo ben tre anni, la causa cambiava nuovamente Giudice per arrivare a sentenza a fine marzo.
Naturalmente l’ultimo Giudice non conoscendo la causa, non avendo mai sentito direttamente i testimoni e non avendo lui istruito le prove ha emanato un provvedimento completamente falsato.
Per questo motivo la parte convenuta ha proposto reclamo, e seppur i termini anche per questa procedura dovrebbero essere veloci, l’udienza ad oggi non è stata ancora fissata. Ecco questo il primo esempio di giustizia in-civile. Oltre tre anni per un “primo grado” di una causa cautelare che nella norma dovrebbe essere risolta in pochi mesi. Da ciò si possono capire i disagi, i danni causati ai cittadini e tutte le conseguenze che una causa non trattata con celerità e soprattutto secondo il codice di rito comporta. Alla prossima settimana.
Andrea Viola. Andrea Viola, Avvocato, Consigliere Comunale Golfo Aranci, Coordinatore Regionale Sardegna Italia Viva; Conduttore Rubrica Vivacemente Italia su Radio Leopolda
Il nutricidio di 'Ciccio': ecco l'ultimo (assurdo) giallo nel modenese. Il caso della nutria "Ciccio" è ancora aperto, e noi ci domandiamo se sia davvero il caso di scriverne oppure no. Davide Bartoccini il 9 maggio 2023 su su Il Giornale.
Nell’anniversario dell’assassinio di Aldo Moro, mentre i vertici dello Stato depongono corone di fiori alla memoria in Via Caetani, a pochi passi alla storica sede del Partito comunista in Via delle Botteghe oscure, io leggo di nutrie. Uno, due, tre articoli con titoli da cronaca nera, e poi foto delle radiografie del roditore spirato, i post social dell'opinione pubblica che si divide, gli animalisti che gridano allo scandalo sulla scia del caso orsa JJ4 che è "innocente" e quindi già paragonata a Dreyfus. (Sebbene qui ci sia poco da scherzare, perché un morto c'è stato davvero).
Così leggo. Eccome. Mi immagino lettore di quotidiani per informazione e non mestiere. Mi rendo complice e mi appassiono al caso irrisolto della nutria “Ciccio”, freddata con due colpi di pistola in luglio, mentre si aggirava nel modenese. Due colpi di pistola per Ciccio la nutria. Un’esecuzione in piena regola, un fatto efferato ragion per cui il caso non va chiuso. Allora immagino la scientifica con le tute bianche e le mascherine che fa rilevazioni; e un ispettore ribelle, c'è sempre un ispettore ribelle alla Rocco Schiavone, che non da retta ai superiori, che osserva crucciato il bosco con le mani che affondano in un trench rigorosamente color glauco, la tendenza di questa primavera secondo gli armocromisti del potere. Con la sigaretta in bocca e un monito per i fotografi e la stampa, dice loro: “Ma quando avete trovato tutto questo tempo da perdere?”.
Poco defilato, poggiato a un pino, c’è anche un prete che non si fa mai gli affari suoi e si sente Hercule Poirot. Forse aveva legami con lo Ior, forse ha già un’idea dei mandanti del nutricidio di Ciccio: il Mossad? I servizi segreti francesi, i servizi deviati? Sapeva qualcosa dell’affaire Mattei? Era collegata alla sparizione di Mauro De Mauro che si dice avesse scoperto qualcosa sull'assassinio di Pasolini? Quando abbiamo trovato tutto questo tempo da perdere in Italia. Chissà quando, il momento preciso in cui qualcosa si è incrinato e tutto è scivolato verso il punto basso dal quale sto battendo anche io su questi tasti. Chissà. Intanto la Divisione investigazioni generali e operazioni speciali di Milano, più nota semplicemente con l'acronimo di Digos, avrà chiuso il suo fascicolo sulle rose distrutte dal cantante Blanco sul palco del festival di Sanremo? Chissà se qualcuno oggi ha posato una rosa dove hanno trovato morto il giovane giornalista Peppino Impastato, il 9 maggio di quarantacinque anni fa.
Mettendo da parte per un istante l'ironia, il cinismo, la delusione per i tempi e per la cattiveria degli uomini, che non sono né meglio né peggio delle bestie, per non rifilare al lettore l'ennesima frase fatta. Dovremmo dire in vero che il contribuente si augura sempre che lo Stato sia impegnato notte e giorno nel mantenimento dello status quo che garantisce prosperità e benessere nella placida garanzia delle pubblica sicurezza. Sperando, sempre, che ci sia una scala di priorità ben ponderata. Qualcosa che è ben diverso dal semplice benaltrismo col quale vengono bollati certi pensieri. In assenza di altre più impellenti e più gravose priorità, occuparsi dell'identificazione di uno squilibrato che gira armato e spara due colpi di pistola di ridotto calibro ad un animale indifeso com'è una povera nutria, può essere quindi concepibile. Del resto non si può oggettivamente dare torto a quanto affermano gli emissari dell'associazione animalista Lav: "Chiediamo al pubblico ministero di svolgere accurate indagini per identificare il colpevole di questa morte. Non è tollerabile che chi si macchia di maltrattamento o addirittura uccisione di un animale mite e inoffensivo come una nutria rimanga impunito". In un mondo privo di incombenze sarebbe più che giusto.
Se nel Modenese dunque, a Castelnuovo Rangone per essere precisi, non ci sono abbastanza investigazioni e casi irrisolti da consentire ulteriori indagini sul nutriticidio, ben venga. Vuol dire che è un habitat tranquillo, almeno per l’uomo. Perché complice del giornalismo in caduta libera sì, ma almeno con un poco di morale spicciola. Perché del resto come sosteneva Indro Montanelli, noi cinici "siamo tutti moralisti, e spietati per giunta".
Estratto dell’articolo di Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 9 maggio 2023.
Evidentemente al tribunale di Modena hanno risolto qualsivoglia problema di giustizia. I processi lumaca, gli arretrati da sfoltire, i faldoni pendenti, i tempi infiniti per una sentenza, la carenza di personale. Va tutto liscio come l’olio, a Modena. Tutto spedito. Al punto che adesso parte (anzi, ri-parte) il procedimento per la morte di Ciccio, una nutria che è stata ritrovata agonizzante (e poi, appunto, è morta) dentro un parco di Castelnuovo Ragone, nella provincia.
Faceva parte di una colonia che doveva essere solo sterilizzata e, invece, qualche delinquente le ha sparato dei pallini con una pistola ad aria compressa. E uno è finito nel collo, un altro è finito nella scatola cranica e lei, Ciccio, è finita al camposanto «in condizioni gravissime e in preda a problemi neurologici che le impedivano di nuotare e di mangiare» (prima, però, è passata per le aule del palazzo di giustizia e per il tavolo di un qualche studio medico-legale che le ha fatto una radiografia, sennò col piffero che i pallini saltavano fuori). […]
Brutta storia, crudele, di quelle che ti fan vergognare perché la bestia, alla fine, è l’uomo: ma con tutto quel che succede al giorno d’oggi, signora mia. Eppure no. Altolà. Contrordine del gip: sulla-morte-di-Ciccio-si-va-fino-in-fondo. Costi quel che costi (e quando di mezzo ci sono corti, perizie e avvocati conta sempre parecchio: però non è neanche una questione di portafoglio, è il principio che conta).
A ricorrere contro l’archiviazione è la Lav, la Lega anti-vivisezione, che pure fa un lavoro nobilissimo perché difendere gli animali mica è uno scherzo: si è trattato di «un atto umano intollerabile per il quale avevamo depositato una denuncia di uccisione con l’aggravante del maltrattamento». Adesso resta solo da indagare. Con quel faldone aperto e i poliziotti della questura che dovranno scartabellare pagine e pagine di tabulati telefonici e ore e ore di filmati delle telecamere di video-sorveglianza della zona: «Non importa con quale strumenti, ma si deve capire chi è stato», continua la Lav. Giustizia per Ciccio, insomma.
[…] Però, allora, giustizia pure per tutti gli altri: per chi sono anni che attende un pronunciamento in una causa civile, per chi si è sentito dire col colpo di martelletto udienza-rinviata-al-2025, per chi magari è in gattabuia aspettando di provare la sua innocenza. […]
I tempi biblici dei processi, la grande ingiustizia della nostra giustizia. La legge è uguale per tutti, sta scritto nei luoghi in cui si esercita la presunta giustizia, ma la legge diviene fortemente diseguale se per la sua applicazione occorre un tempo irragionevole. Salvatore Rossi su La Gazzetta del Mezzogiorno l’8 Gennaio 2023.
La lunghezza spropositata dei procedimenti nelle aule giudiziarie italiane è una piaga che ci tormenta da decenni. Un giudizio penale o una causa civile che durano anni e anni sono la prima ragione d’ingiustizia in quello che dovrebbe essere il sistema di giustizia a cui i cittadini si rivolgono.
La legge è uguale per tutti, sta scritto nei luoghi in cui si esercita la presunta giustizia, ma la legge diviene fortemente diseguale se per la sua applicazione occorre un tempo irragionevole, perché da ciò alcuni beneficiano: chi deve risarcire un danno, o chi spera nella prescrizione di un reato che ha commesso; altri ci perdono: chi aspetta un risarcimento, o chi vede frustrato il suo desiderio che i crimini vengano puniti.
Tuttavia non vi sono conseguenze negative solo per l’etica pubblica e la convivenza civile: ve ne sono di nefaste anche per l’economia, dunque per il benessere materiale dei cittadini. Negli scorsi trent’anni molti studi empirici in tutto il mondo hanno dimostrato in modo inoppugnabile come l’efficienza della macchina per la produzione di giustizia in un paese ne possa favorire lo sviluppo economico, meglio garantendovi ad esempio i diritti di proprietà e la tutela dei contratti. Allora è più agevole il finanziamento delle imprese, queste sono più inclini a fare investimenti, il paese ha una più alta capacità di competere con altri sistemi nazionali, è più spiccata l’attrattività per investitori esteri.
Come si misura l’efficienza della giustizia? Non è per niente facile.
Ragionando da economisti, occorre innanzitutto distinguere l’offerta dalla domanda. Concentriamo la nostra analisi sulla giustizia civile, di immediata rilevanza ai fini dello sviluppo economico. L’indicatore quantitativo principe dell’offerta di giustizia, cioè della funzionalità dei tribunali, è appunto la durata dei processi. La domanda di giustizia, ovvero la litigiosità della cittadinanza, può essere misurata dal numero di nuovi processi iniziati nell’arco di tempo prescelto, di solito un anno. Una ricerca recente di economisti della Banca d’Italia (Cugno, Giacomelli, Malgieri, Mocetti, Palumbo) mette in fila questi e molti altri dati, ormai disponibili, ma li corregge per tenere conto della complessità della materia trattata: un processo su una intricatissima vicenda che coinvolge due grandi società multinazionali è diverso da una lite di condominio ed è naturale che implichi ad esempio durate diverse.
Emerge la conferma di un fatto drammatico, notorio ma che si tende a dimenticare: se l’Italia nel suo complesso è agli ultimi posti al mondo quanto a efficienza della giustizia, il Sud d’Italia sprofonda letteralmente. Nel periodo 2015-2019 la durata media dei processi civili ordinari, corretta per tener conto della loro diversa complessità, è stata di 700 giorni nel Centro-Nord, di 1.100 nel Sud. Non sono dati da paese avanzato. La litigiosità al Sud è pure maggiore che al Centro-Nord: in quegli anni sono stati iscritti nei tribunali del Sud quasi 40 nuovi procedimenti l’anno per 1.000 abitanti, contro i 29 del Centro-Nord (dati pure corretti).
Sempre nella ricerca citata vengono stimati il numero di giudici e il numero di impiegati amministrativi dei tribunali, ponendoli in rapporto al numero corretto di nuovi procedimenti. Sorpresa delle sorprese: al Sud i rapporti sono entrambi maggiori che al Centro-Nord (con la sola eccezione, pensate un po’?, della Puglia, che risulta essere sguarnita di magistrati rispetto al resto d’Italia).
Se ne deduce, pur riconoscendo qualche recente progresso, che l’organizzazione della «fabbrica» della giustizia in Italia, e ancor più al Sud, è ancora intrinsecamente inefficiente, nel senso che – a parità di costi – i servizi prodotti sono da noi di quantità e qualità inferiore ad altri paesi. Quali le cause? La irrazionalità della rete degli uffici (troppo frammentata e squilibrata geograficamente), la disorganizzazione interna di questi, il tuttora scarso uso delle tecnologie digitali, la bassa produttività media dei giudici.
L’alta litigiosità italiana, e quella altissima del Sud, può avere cause antropologico-culturali, attinenti alla dotazione di «capitale sociale». Ma vi possono essere altre spiegazioni, empiricamente verificate in numerosi studi.
Ad esempio, il calcolo opportunistico: anziché pagare un creditore mi faccio chiamare in giudizio, l’inefficienza del sistema farà sì che alla fine il creditore, stremato dall’attesa, accetterà una transazione e mi farà uno sconto. Oppure, l’alto numero di avvocati e gli incentivi perversi insiti nella struttura dei loro compensi, legati al tempo più che al risultato. Oppure ancora, l’inquinamento normativo: norme mal scritte e continuamente cambiate. Infine, le erratiche oscillazioni della giurisprudenza, soprattutto di quella della Corte di cassazione.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza impegna il nostro paese a ridurre del 40 per cento la durata dei processi civili entro il 2026. È il minimo che si possa desiderare. Occorre attuare il Piano pienamente e col puntuale rispetto dei tempi, puntando anche a un riequilibrio territoriale.
Perché la giustizia italiana è lenta e malfunzionante? Raffaele De Luca su L'Indipendente il 23 Gennaio 2023.
In Italia le condizioni carcerarie, ormai da tempo, non sono delle migliori: dal sovraffollamento all’interno delle strutture ai tanti suicidi commessi, i problemi che caratterizzano gli istituti penitenziari del nostro Paese sono diversi. Se da un lato, però, gli stessi meritano di essere analizzati nel dettaglio così da comprendere l’entità del fenomeno, dall’altro per capire quali sono le criticità di fondo che contribuiscono a creare tali condizioni c’è bisogno di effettuare un’analisi approfondita delle falle del nostro sistema giudiziario e legislativo. È evidente, infatti, che buona parte dei problemi relativi alle condizioni carcerarie siano anche a monte, essendo diverse le criticità che caratterizzano da un lato i palazzi di giustizia e dall’altro l’ordinamento giuridico in termini di configurazione di determinate azioni in fattispecie di reato, che la legge espressamente punisce con sanzioni di tipo penale come appunto la detenzione.
I punti critici del sistema giudiziario
Per quanto concerne le problematiche che caratterizzano il sistema giudiziario, innanzitutto non si può non citare un rapporto della Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (CEPEJ), pubblicato lo scorso 5 ottobre 2022 e contenente dati e analisi sul funzionamento dei sistemi giudiziari di 44 Stati europei e di 3 Stati non situati in Europa (Israele, Kazakistan e Marocco), con il fine di misurare l’efficienza e la qualità degli stessi. Ebbene, dal rapporto emerge un sistema giudiziario pieno zeppo di punti critici per l’Italia, che tra un basso numero di magistrati, un alto numero di avvocati ed un elevato numero di giorni necessari per far sì che la giustizia faccia il suo corso non gode di certo di una situazione idilliaca. “L’Italia è caratterizzata da un elevato numero di avvocati”, si legge nel rapporto, in cui viene precisato che il nostro è il “Paese con il maggior numero di avvocati in valore assoluto (235.964, pari al 18% del numero totale di avvocati negli Stati e negli enti del Consiglio d’Europa)” e che il numero di avvocati ogni 100.000 abitanti è “quasi tre volte superiore” alla media dei paesi del Consiglio d’Europa. Nonostante ciò, però, “il numero di giudici ogni 100.000 abitanti (12) è inferiore alla media dei paesi del Consiglio d’Europa, così come il numero del personale giudiziario (36) e il numero dei pubblici ministeri (4)”, mentre i giudici di pace non vengono conteggiati non essendo considerati come dei “giudici professionisti”: una scelta del resto comprensibile, trattandosi di magistrati onorari che esercitano la professione a titolo temporaneo e che si occupano di un numero limitato di casi (i fatti lievi e di semplice valutazione). Volendo farsi un’idea più precisa della differenza tra i numeri italiani e quelli di altri paesi europei, però, bisogna specificare che i giudici italiani sono precisamente 11,9 ogni 100.000 abitanti e che molti paesi hanno numeri superiori di oltre 2 o 3 volte: in Germania, ad esempio, vi sono 25 giudici ogni 100.000 abitanti, mentre in Grecia ce ne sono 36 ed in Croazia 40,7. I pubblici ministeri, invece, in Italia sono esattamente 3,8 ogni 100.000 abitanti: un numero basso se paragonato a quello della Grecia (7 ogni 100.000 abitanti) o della Finlandia (7 ogni 100.000 abitanti) ed irrisorio se confrontato con quelli di nazioni come l’Ungheria (19 ogni 100.000 abitanti) o la Lituania (23 ogni 100.000 abitanti).
Insomma, il succo del discorso è il seguente: in Italia ci sono molti avvocati ma pochi giudici, e la logica conseguenza è che i tempi della giustizia risultano essere alquanto lenti. Per arrivare all’emissione di una sentenza di primo grado nelle cause penali, infatti, nel nostro Paese bisogna attendere mediamente 498 giorni, mentre per le sentenze di secondo grado i giorni che passano sono 1.167 e per quelle di terzo grado 237. Numeri evidentemente non positivi per il Belpaese, che si pone così largamente al di sopra dello standard europeo: mediamente, infatti, in Europa servono 149 giorni per l’emanazione di una sentenza penale di primo grado, 121 giorni per quella di una sentenza di secondo grado e 120 giorni per l’emissione di una sentenza di terzo grado. Non sarà un caso, dunque, se all’interno del rapporto si legge che “anche se la durata complessiva dei procedimenti è diminuita costantemente dal 2012 al 2018”, il problema principale relativo alla “efficienza giudiziaria in Italia rimane l’eccessiva lunghezza dei procedimenti”. Certo, bisogna tenere conto del fatto che nel 2020 (l’anno al quale sono aggiornati i dati del rapporto) a causa della pandemia e della chiusura temporanea dei tribunali la loro efficienza “si è indebolita rispetto agli anni precedenti”, motivo per cui la situazione dovrebbe “migliorare una volta che l’emergenza sanitaria si sarà stabilizzata”. Tuttavia ciò non significa ovviamente che la situazione relativa alla lentezza dei processi non possa dirsi preoccupante, visto che anche negli anni precedenti (in cui appunto non vi era l’attenuante della pandemia) seppur la situazione fosse in progressivo miglioramento l’Italia si poneva al di sotto della media europea: nel 2018, infatti, in Europa bisognava aspettare mediamente 122 giorni per le sentenze penali di primo grado, 104 per quelle di secondo grado e 114 per quelle di terzo grado, mentre nel nostro Paese dovevano rispettivamente passare 361, 850 e 156 giorni.
Volendo infine comprendere in che modo i procedimenti arretrati impattino sul sistema giudiziario italiano, bisogna rifarsi alla relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021 a firma del primo presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio. Secondo quanto sottolineato all’interno del rapporto, infatti, “a livello nazionale, in tutti gli uffici giudiziari giudicanti e requirenti, il numero dei procedimenti penali nei confronti di autori noti pendenti al 30 giugno 2021 era di 2.540.674 unità”: un numero che inevitabilmente incide sulla lentezza dei processi, essendo evidentemente elevato nonostante una lieve inversione di tendenza. Il numero, infatti, è “in decremento (-3,8 %) rispetto alle 2.640.616 unità del 30 giugno 2020”, il che conferma una “costante, seppure lieve, flessione delle pendenze che negli ultimi tre anni sono diminuite di circa 130.000 procedimenti (-5% circa) anche grazie alla riduzione delle nuove iscrizioni che, al di là del periodo di maggiore virulenza della pandemia (2020) che ha indubbiamente inciso sulle attività criminali, sono comunque stabilmente in calo”. Del resto, a quanto pare il miglioramento non si può certo attribuire ad una migliore produttività dei processi, intendendo con tale termine il numero di procedimenti definiti, il cui valore assoluto è “sostanzialmente stabile nell’ultimo biennio (oltre 2.300.000 procedimenti all’anno)”.
L’eccessivo utilizzo della custodia cautelare
Tra i problemi derivanti dal basso numero di magistrati, oltre che la lentezza dei processi c’è con ogni probabilità anche quello dell’eccessivo utilizzo della custodia cautelare. Nel fornire alcune indicazioni sul modo in cui gli Stati membri dovrebbero garantire i diritti procedurali degli indagati e degli imputati soggetti a custodia cautelare nonché migliorare le condizioni di detenzione, la Commissione europea ha infatti recentemente riportato una serie di dati da cui emerge che il ricorso alla custodia cautelare – che dovrebbe essere una “misura di ultima istanza” – viene effettuato in maniera massiccia in Italia. Relativamente alla “percentuale di detenuti in custodia cautelare sul totale della popolazione carceraria”, infatti, stando ai dati del 31 gennaio 2021 il nostro Paese si colloca tra i 7 Stati membri in cui “si registra un tasso molto elevato”, grazie ad una percentuale di detenuti che non stanno scontando una pena definitiva pari al 31,5% della popolazione carceraria.
Il Belpaese, però, si distingue in senso negativo anche per quanto concerne la durata media della custodia cautelare, essendo inserito tra i paesi in cui la misura viene applicata per più tempo. Mediamente infatti – stando ai dati relativi al 2020 – in Italia la custodia cautelare dura 6,5 mesi, il che fa sì che solo la Slovenia (12,9 mesi), l’Ungheria (12,3 mesi), la Grecia (11,5 mesi) ed il Portogallo (11 mesi) si pongano al di sopra del nostro paese, mentre la Bulgaria (6,5 mesi) è quinta a pari merito con il Belpaese. Certo, va precisato che mancano i numeri di alcuni Stati membri non avendo determinati paesi “fornito cifre in merito”, ma essendo appunto questi i dati a disposizione ci si deve rifare per forza di cose a tale analisi per farsi un’idea sulla durata della custodia cautelare in Italia. Ben consapevoli che la classifica potrebbe essere diversa se venissero aggiunti i numeri dei paesi mancanti, ad oggi bisogna dunque prendere atto del fatto che il Belpaese si collochi tra gli Stati membri messi peggio. Ad ogni modo, però, il fatto che in Italia i tempi siano più lunghi di quelli di molti altri paesi lo si può dedurre anche dal rapporto SPACE del Consiglio d’Europa, secondo cui la durata media della detenzione per coloro che non stanno scontando una pena definitiva nel 2020 era di 4,5 mesi in tutti i paesi dello stesso. Un dato che lascia poche giustificazioni all’Italia ed ai suoi 6,5 mesi, essendo il numero dei paesi rappresentati molto più elevato di quelli appartenenti all’Unione europea: il Consiglio d’Europa, infatti, è un’organizzazione internazionale estranea all’Unione europea e di cui fanno parte in totale 46 Stati, tra cui anche i 27 dell’UE.
Le problematiche legate alle fattispecie di reato
Una volta analizzati i problemi legati al sistema giudiziario, bisogna porre la lente di ingrandimento sulle criticità tipiche del sistema legislativo in ottica fattispecie di reato, che la legge espressamente punisce con sanzioni di tipo penale quali appunto la detenzione in carcere. Tra le tante fattispecie di reato esistenti in Italia, ve ne sono alcune che contribuiscono in maniera importante al riempimento delle carceri, tra le quali troviamo però sia condotte lesive o violente che altre non violente. Come riportato dal Ministero della Giustizia, infatti, nella top 3 dei reati che hanno causato la detenzione nel 2021 troviamo i reati contro il patrimonio (come il furto) che hanno prodotto 31.009 detenuti, contro la persona (come l’omicidio) che ne hanno generati 23.611 e quelli in materia di stupefacenti (come lo spaccio) responsabili di 18.942 detenuti. Proprio questi ultimi meritano di essere analizzati nel dettaglio, contribuendo ad incrementare in maniera importante il numero dei presenti in carcere pur non trattandosi spesso di condotte particolarmente allarmanti dal punto di vista sociale. Il Testo Unico sugli stupefacenti (D.P.R n.309 del 1990) fa infatti sì che circa il “30% dei detenuti entri in carcere per detenzione o piccolo spaccio”: a sottolinearlo è l’ultima edizione del Libro Bianco sulle droghe, un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico, definito come il “principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri”.
Nello specifico, al suo interno si legge che “10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 sono causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo Unico” – il quale punisce la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope – e che tali numeri costituiscono precisamente il “28,3% degli ingressi in carcere”. Molte delle persone che ogni anno entrano negli istituti penitenziari per la violazione dell’art. 73, inoltre, a quanto pare vi restano, visto che la percentuale dei presenti per droghe è pari al 34,88% del totale. Certo, “sui 54.134 detenuti in carcere al 31 dicembre 2021 si registra un leggero calo dei presenti a causa del solo art. 73 del Testo Unico (spaccio)”, il quale determina 11.885 presenze, mentre sono “in aumento quelli in associazione con l’art. 74 (associazione per traffico illecito di droghe)” così come coloro che sono detenuti “esclusivamente per l’art. 74”: rispettivamente 5.971 e 1.028 persone. Nonostante ciò, però, l’impatto dell’art. 73 è comunque indubbio: basti pensare che “senza detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati ‘tossicodipendenti’ non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane”. Proprio i dati sugli ingressi e sulle presenze di questi ultimi, infatti, “si confermano drammatici”, visto che ad essere definito tossicodipendente è il “35,85% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31/12/2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti ‘certificati'”: si tratta del “28,16% del totale”, cifra che rappresenta uno storico “record percentuale”. Da menzionare, infine, le conseguenze sulla giustizia del Testo Unico sugli stupefacenti, con le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’art. 73 e 74 che “sono rispettivamente 186.517 e 45.142”. “In totale 231.659 fascicoli per droghe intasano i tribunali italiani”, viene dunque precisato nel rapporto, in cui viene specificato altresì che – probabilmente anche per il rallentamento dovuto alla pandemia – tale dato “si mantiene ai massimi da 16 anni a questa parte”.
I profili di illegalità del sistema penitenziario
Detto ciò, le condizioni carcerarie in Italia non solo come accennato non sono delle migliori, ma sembrano anche essere dubbie dal punto di vista giuridico. A tal proposito, innanzitutto non si può non citare la cosiddetta “sentenza Torreggiani” con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) – un organo giurisdizionale internazionale – nel 2013 aveva condannato il Belpaese proprio a causa del sovraffollamento delle carceri. La sentenza, arrivata in seguito a sette ricorsi depositati da altrettanti detenuti dei penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza ed aventi ad oggetto le pessime condizioni con cui lamentavano di aver fatto i conti in carcere, aveva infatti non solo riconosciuto loro il diritto al risarcimento per i danni morali ma aveva anche giudicato incompatibile la situazione carceraria italiana con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti). Oltre a ritenere sostanzialmente inaccettabili le condizioni carcerarie dei ricorrenti, la Corte aveva infatti constatato che il sovraffollamento carcerario in Italia non riguardasse “esclusivamente i casi dei ricorrenti”, definendolo come un problema di carattere “strutturale e sistemico”.
A quanto pare, però, a distanza di quasi 10 anni dalla sentenza le condizioni carcerarie continuano ad essere estremamente critiche: basterà ricordare che – come sottolineato nell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione – a fine Marzo 2021 i detenuti nelle nostre carceri erano 54.609. “Il tasso di affollamento ufficiale medio era del 107,4%”, afferma in tal senso Antigone, sottolineando però che “entrambi questi aggettivi, ufficiale e medio, vanno tenuti ben presenti”. Da un lato, infatti, l’associazione precisa che “nei fatti, a causa di piccoli o grandi lavori di manutenzione, la capienza reale degli istituti è spesso inferiore a quella ufficiale”, e dall’altro specifica che “in alcune regioni il tasso di affollamento medio è decisamente più alto (Puglia: 134,5%, Lombardia: 129,9%) mentre alcuni istituti presentano tassi di affollamento analoghi a quelli che si registravano al tempo della condanna dell’Italia da parte della CEDU”. Per rendere l’idea, “a fine marzo l’affollamento a Varese era del 164%, a Bergamo e a Busto Arsizio del 165%”, mentre “a Brescia ‘Canton Monbello’ addirittura del 185%”.
Come se non bastasse, però, le condizioni carcerarie non solo sembrano essere tuttora in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma anche con la nostra stessa Costituzione. Quest’ultima, infatti, all’art. 27 sancisce non solo che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” ma anche che esse “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un fine che però risulta difficilmente perseguibile in virtù degli attuali dati, dai quali oltre al sovraffollamento emergono anche 57 suicidi verificatisi tra i detenuti e che potrebbero in parte essere una conseguenza dei disagi e delle problematiche a cui gli stessi sono sottoposti. Antigone fa sapere – in virtù delle visite effettuate in 96 istituti penitenziari nel 2021 – che tra le altre cose in diverse strutture ci sono ancora delle celle non dotate di doccia, di un riscaldamento adeguato e di acqua calda, mentre in più di un terzo delle carceri i detenuti non hanno accesso settimanalmente alla palestra o al campo sportivo e nel 17% degli istituti visitati ci sono sezioni che non hanno spazi per la socialità. Considerando che, come sottolineato da Antigone, la capacità della detenzione di influire positivamente sul percorso trattamentale della persona “dipende anche dalle caratteristiche degli spazi comuni”, non si può non porre l’attenzione sul fatto che tali ambienti sembrino poco adatti alla rieducazione, cui le pene dovrebbero tendere secondo la Costituzione. Del resto, però, il fatto che le pene non assolvano appieno a tale compito pare essere dimostrato anche dal numero di carcerazioni precedenti: al 31 dicembre 2021, in Italia solo il 38% dei detenuti era alla prima carcerazione, mentre il restante 62% in carcere c’era già stato almeno una volta. Numeri, questi ultimi, che mostrano chiaramente una diffusa tendenza a commettere nuovi reati da parte dei detenuti. [di Raffaele De Luca]
Il sondaggio sulla giustizia? Tutto da cambiare: cosa pensano gli italiani. Arnaldo Ferrari Nasi su Libero Quotidiano il 19 dicembre 2022
Il tema della giustizia è unificante per il centrodestra, da quando il centrodestra esiste. Il tema della giustizia è altrettanto sentito dai cittadini, al di là del fatto che votino partiti di centrodestra o di centrosinistra; al di là che al governo del Paese vi sia il centrodestra o il centrosinistra, ovvero che la questione sia o non sia al centro del dibattito politico e che, quindi, sia o non sia ripresa ed amplificata dai media.
Lo si comprende bene, anche, quando due campioni - ciascuno di 1.000 intervistati, statisticamente identici, rappresentativi degli italiani adulti - interrogati in momenti e contesti diversi, alla stessa domanda, sulla necessità di attuare una significativa riforma della giustizia in Italia, danno esattamente la stessa risposta. A gennaio di quest'anno, ovvero con Mario Draghi al governo; il tema del Pnrr e della futura ripresa al centro dell'agenda; la guerra in Ucraina non scoppiata; il prezzo dell'energia non impazzito; ecco, in quella situazione l'81% degli intervistati rispondeva di essere d'accordo con l'affermazione: «Il sistema della giustizia ha bisogno di una profonda riforma per farlo funzionare meglio di ora». Oggi, alla stessa domanda, risponde la stessa percentuale di persone: l'80% - solo che al governo ora c'è Giorgia Meloni e di riordino della giustizia se ne parla eccome. Ma non solo: anche di finanziaria, di immigrazione, di famiglia ed altri temi, quasi tutti diversi di quelli trattati ad inizio anno.
Con percentuali medie di questo livello, parliamo di quattro italiani su cinque, non si colgono certo grandi differenze nei diversi sottogruppi, sia sociali che politici; vale comunque la pena sottolineare che la questione non è marcatamente di centrodestra, visto l'84% dell'elettorato del Pd, l'83% di Sinistra Italiana/Verdi e, come ci si poteva aspettare, il 91% del Terzo Polo.
Più in generale, il problema pare essere che gli italiani hanno sempre avuto poca fiducia nel sistema giudiziario italiano. Per lo meno, questo rileva AnalisiPolitica da quando, oltre quindici anni fa, ha iniziato la propria attività. Riportiamo qui solo alcuni dati, rilevati ad intervalli di circa cinque anni, per dimostrare come l'indice di fiducia, al di là di alcune momentanee variazioni, sia rimasto costantemente sotto la metà. Di più, da un regolare 47% rilevato nel 2007, 2013, 2017, negli ultimi anni si è constatato un certo calo, che proprio in questi giorni è sceso al valore del 39%. Otto punti percentuali non sono pochi, quando si valutano tematiche così importanti nel vissuto delle persone, sulle quali le opinioni sono chiare e solide, ovvero poco suscettibili alla variabilità dovuta alle contingenze. Questo dato ha un nome ed un cognome, ha un tratto distintivo, ed è, purtroppo, più sociale che politico: sono i giovani, che dal 49% del 2017 passano al 35% di quest' anno; e il Sud, che dal 50% passa al 34%. Le due anime più fragili del Paese.
Daniela Fassini per “Avvenire” il 15 Dicembre 2022.
Potrebbe essere solo un appunto personale oppure, più in generale, un'indicazione per la Chiesa e per il suo impegno "sociale". Certo è che quello che ha scritto la Procura di Modena nella richiesta di archiviazione della vicenda legata alle minacce ricevute da don Mattia Ferrari, il cappellano di "Mediterranea saving humans", è destinato a far rumore.
Gli attacchi al sacerdote, ai giornalisti e a chi si occupa di salvare i migranti dal mare e di denunciare per davvero il traffico indisturbato che avviene nel Mediterraneo condotti da un personaggio conosciuto come il "portavoce della mafia libica" sono considerati irrilevanti e degni di archiviazione in quanto le minacce (per il pm semplicemente «le frasi») indirizzate al cappellano e agli altri bersagli non «presentano profili di rilievo penale». Una posizione che, al di là del merito della questione, lascia perplessi i legali che difendono don Mattia. E chiunque scorra le carte.
Don Mattia è da tempo sotto "radiosorveglianza" decisa dal Comitato provinciale per la sicurezza dei cittadini, proprio sulla base di quelle minacce. Una decisione che per la Procura non avrebbe senso in quanto il sacerdote non sarebbe nel mirino di nessuna mafia libica. Le «frasi» scagliategli contro sarebbero «prive di rilevanza penale da chiunque esse provengano».
Nel testo in cui propone l'archiviazione il pm non cita mai l'account dal quale sono arrivate e che, come attestano inchieste giornalistiche e atti parlamentari, sarebbe invece «un portavoce della mafia libica legato ai servizi segreti di diversi Paesi».
Quell'account infatti, sottolineano le fonti vicine a chi subisce minacce, pubblica continuamente materiale per conto della mafia libica e periodicamente anche foto "top secret" di velivoli militari europei e di apparati italiani.
Don Mattia, oltre a essere cappellano della Ong "Mediterranea Saving Humans", è molto impegnato in un'azione pastorale e umanitaria a difesa delle persone migranti, in particolare di quelle che vengono soccorse nel Mediterraneo. Una missione, come si sa, tipicamente diffusa tra chi, all'interno della Chiesa, si occupa degli ultimi e dei più fragili. Ed è proprio per questo suo impegno che si sono accesi su di lui riflettori anche assai ostili. In particolare da parte del già citato account Twitter da cui, appunto, sono partite tutte le minacce.
A leggere la richiesta di archiviazione depositata a Modena è come se il magistrato avesse in un certo senso negato l'esistenza del legame tra l'account da cui sono partite le minacce e la mafia libica. E questo nonostante che un viceministro dell'Interno, l'allora in carica Carlo Sibilia, rispondendo a interrogazioni parlamentari avesse sottolineato la realtà e la gravità del fatto.
Ma c'è di più. A preoccupare i legali che difendono don Ferrari, ci sarebbe una sorta di "appunto" rivolto all'operato umanitario del sacerdote e non solo a quello. Nel documento della Procura si sottolinea, infatti, che «se il prete esercita in questo modo, diverso dal magistero tradizionale », deve in un certo senso aspettarsi reazione contrarie e fra queste di essere bersagliato.
Nello specifico, in un passaggio del testo, il pubblico ministero si mostra indulgente con chi usa i social network per aggredire e calunniare, suggerendo che l'esposizione sui social network naturalmente provoca reazioni, specie se «come già evidenziato chi porta il suo impegno umanitario (e latamente politico) sul terreno dei social o comunque del pubblico palco - ben diverso dagli ambiti tradizionali - riservati e silenziosi - di estrinsecazione del mandato pastorale - e lo faccia propalando le sue opere con toni legittimamente decisi e netti».
Per il pm, insomma, un sacerdote che prende posizione accanto ai poveri e agli ultimi non è abbastanza "discreto" ed è troppo "pubblico" e anche un po', seppure in senso lato, "politico" e deve aspettarsi e, in fondo, subire reazioni. In altre parole, chi si occupa di diritti umani e si dedica all'impegno umanitario non deve sorprendersi se poi finisce nel mirino, anche se è un prete.
Anzi, forse, proprio perché è un prete. Come se essere sacerdote significasse dire Messa, amministrare i sacramenti e stare in silenzio. « La richiesta d'archiviazione è molto grave perché suggerisce che le condotte di minaccia e diffamazione online non debbano essere perseguite, ma siano coperte da una sorta di impunità », sottolinea l'avvocato di don Mattia, Francesca Cancellaro, dello studio legale Gamberini e associati.
E annuncia: « Noi sappiamo, invece, quanto sia pericolosa questa opacità e quanto intimidatori possano essere i messaggi che vengono veicolati. Per questo presenteremo opposizione alla richiesta di archiviazione: per chiedere al Gip che finalmente si indaghi su questi preoccupanti episodi, consentendo a don Mattia di esprimersi liberamente in sostegno delle persone migranti e del dovere di soccorrerle».
L’Istituto dell’Insabbiamento.
Paolo Frosina per ilfattoquotidiano.it il 9 giugno 2023.
Ha lasciato nei cassetti fascicoli delicatissimi per stalking, sequestro di persona e – in più casi – violenze sessuali su minori, dimenticandoli per nove, dieci o addirittura 17 anni, “oltre ogni ragionevole termine di durata delle indagini preliminari”. Così i reati sono tutti caduti in prescrizione, “arrecando un indebito vantaggio” agli indagati e “un ingiusto danno” alle presunte vittime.
Con queste accuse la Procura generale della Cassazione ha sottoposto (di nuovo) a processo disciplinare Alessia Sinatra, pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e a lungo membro del pool dedicato ai reati contro le fasce deboli. Sinatra è nota a livello nazionale per aver subito una molestia sessuale dall’ex procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo: invece di denunciarlo, però, per “vendicarsi” si era rivolta in privato al capo della sua corrente, Luca Palamara, chiedendogli di boicottare la corsa del collega “porco” al vertice della Procura di Roma.
Per questo, a febbraio scorso, il Consiglio superiore della magistratura le ha inflitto la sanzione simbolica della censura. Criticando la decisione, il suo avvocato aveva parlato di “grave arretramento nella difesa delle vittime di abusi”. Pochissimo tempo dopo, la pm torna davanti alla Sezione disciplinare di palazzo dei Marescialli per rispondere di violazione dei “doveri di diligenza e laboriosità”, violazione di legge “determinata da negligenza inescusabile” e “grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” proprio in relazione a procedimenti per abusi.
Gli episodi contestati sono sei, di cui uno coperto da omissis. Il primo, il più grave, riguarda una segnalazione di violenze in famiglia ai danni di tre fratellini, arrivata sulla scrivania di Sinatra nel lontanissimo giugno 2003 e firmata dal “Gruppo operativo interistituzionale contro l’abuso e il maltrattamento all’infanzia” del Comune di Palermo. I minori coinvolti, sentiti nei mesi successivi, raccontano gli abusi con “dichiarazioni univoche e coincidenti“, “ritenute dal consulente (una psicologa infantile, ndr) nel complesso attendibili”. Eppure la pm non iscrive notizie di reato e si dimentica il fascicolo per ben sette anni, fino al 5 novembre 2010, quando iscrive l’ipotesi di atti sessuali con minorenni.
Ma “impropriamente” l’accusa resta a carico di ignoti, “nonostante la completa identificazione” dello zio e della zia, “soggetti indicati dalle vittime quali autori degli abusi, sin dal 9 ottobre 2003”. La vicenda però è ancora lontanissima dal concludersi: da quel momento passano “ulteriori dieci anni“, trascorsi i quali Sinatra “si limitava a richiedere l’archiviazione in data 26 maggio 2020, dopo più di 16 anni di totale inerzia investigativa, nonostante la assoluta rilevanza dei fatti denunciati in danno di minori in condizioni di grave disagio”, scrive il pg della Cassazione.
A quel punto la prescrizione dei presunti abusi è scattata da tempo e il gip può soltanto archiviare. Ma lo fa con motivazioni durissime: “Dagli atti emergono fatti di inaudita gravità, sussumibili quantomeno nell’ipotesi aggravata di cui all’articolo 609-quinquies del codice penale (corruzione di minorenne, ndr) e comunque assolutamente meritevoli di ulteriori approfondimenti“, scrive. E invece – rimarca – le testimonianze dei fratellini “non potranno mai più trovare sfogo in un processo penale per essere state di fatto “archiviate” dalla Procura”, poiché il fascicolo è stato “trasmesso a questo ufficio dopo 17 anni di totale inattività, quando il tempo ha ormai “cancellato” il reato ma non certo il dolore di quei ragazzini“.
Su segnalazione del presidente della sezione gip, allora, il procuratore capo trasmette gli atti a Caltanissetta, dove la pm finisce imputata per rifiuto di atti d’ufficio e chiede di essere giudicata con rito abbreviato. Il gip nisseno archivia anche in questo caso l’accusa per prescrizione, ma scrive che la collega “ha deliberatamente, e senza alcuna plausibile giustificazione, deciso di “lasciare in disparte” la pratica, accettando tutti i conseguenti rischi, tra cui quello che, nelle more, il reato si prescrivesse”.
La sentenza non è stata impugnata ed è diventata definitiva lo scorso 14 aprile. Per giustificare l’incredibile ritardo, Sinatra nel 2020 inviava all’allora procuratore Franco Lo Voi una relazione in cui affermava di aver valutato le dichiarazioni dei minori come inattendibili, dimenticandosi poi di chiedere l’archiviazione a causa dell’eccessivo carico di lavoro, e che, ad ogni modo, si era trattato di un episodio isolato nell’arco della sua lunga carriera.
A leggere l’atto di accusa della Cassazione, però, si scopre che le cose non stanno affatto così: la pm è incolpata di almeno quattro condotte analoghe. La prima: aver omesso per nove anni, dal 2011 al 2020, “qualsivoglia doveroso approfondimento” su una denuncia di stalking nei confronti di un padre pregiudicato, accusato di minacciare i figli di sei e 11 anni, nonostante i ripetuti solleciti.
La seconda: aver chiesto soltanto il 30 novembre del 2020, “quando ormai il reato risultava già estinto per intervenuta prescrizione”, il rinvio a giudizio per un uomo imputato di violenza sulla nipote 14enne, reato segnalato dalla Questura il 18 ottobre del 2010, “nonostante la assoluta rilevanza dei fatti denunciati” e “le dichiarazioni rese dalla ragazza ritenute dal consulente nel complesso attendibili”.
La terza: non aver svolto “alcuna attività di indagine con conseguente scadenza dei termini massimi della misura cautelare” disposta nei confronti di un uomo imputato di violenza sessuale e sequestro di persona. L’ultima accusa, infine, è di aver omesso, per circa sei anni, “di adottare qualsivoglia determinazione” in merito a un fascicolo in cui un sacerdote era indagato per abusi sessuali e maltrattamenti nei confronti di un 13enne, nonostante le indagini avessero permesso “la ricostruzione in dettaglio degli accadimenti a riscontro di quanto denunciato dai genitori”. L’udienza disciplinare al Csm è stata fissata al 14 novembre.
Procedibilità a querela, ecco le 10 fake news sulla legge Cartabia. L’allarmismo, alimentato anche dagli addetti ai lavori, non favorisce la giusta informazione. Gian Luigi Gatta, Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Milano, Vice presidente della Scuola Superiore della Magistratura, su Il Dubbio il 4 giugno 2023
Sei mesi dopo l’entrata in vigore della riforma Cartabia, non sono ancora cessate le polemiche sull’estensione del regime di procedibilità a querela ad alcuni reati contro la persona e contro il patrimonio, come le lesioni lievi, la violenza privata e il furto.
Toni ingiustificatamente allarmistici, anche da parte di addetti ai lavori, non contribuiscono a una corretta informazione.
Mettiamo in fila, allora, alcune verità nascoste.
Primo. Stiamo parlando di reati che, per quanto possano essere “odiosi” ( gran parte dei reati lo sono), non sono gravi. Per legge- delega, infatti, l’estensione della procedibilità a querela ha riguardato solo reati puniti con pena edittale detentiva non superiore nel minimo a due anni; lo stesso limite di pena che consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Qualche esempio. Pena minima per la violenza privata ( ad es., per chi impedisce ad altri di posteggiare l’auto in un parcheggio condominiale)? Quindici giorni di reclusione. Per le lesioni personali lievi? Sei mesi. Per il sequestro di persona semplice come quello di chi, sospettato di furto in un negozio, viene trattenuto per alcuni minuti in uno stanzino in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine)? Sei mesi.
Secondo. Di norma anche per quei reati la procedibilità d’ufficio resta ferma nelle ipotesi più gravi/ aggravate.
Terzo. La procedibilità d’ufficio è fatta salva quando la vittima è incapace per età o per infermità e non è pertanto nelle condizioni di scegliere, liberamente, se presentare querela o meno.
Quarto. La querela, specie quando è presentata personalmente non richiede particolari formalità, tanto è vero che la polizia giudiziaria si è già attrezzata modificando i propri verbali precompilati, facendo ora riferimento alla volontà di querelare, cioè di perseguire il reato.
Quinto. Checché ne dicano a Venezia ( è toccato leggere pure questo), la querela per furto può benissimo essere presentata anche da un turista straniero; se poi non dovesse partecipare al processo, una volta citato come testimone, non è vero che la mancata comparizione comporterebbe sempre la remissione tacita della querela, che è prevista solo in caso di mancata comparizione senza giustificato motivo: l’impossibilità di sostenere un viaggio molto lungo ben può integrarlo. Per non dire poi della possibilità di un esame testimoniale a distanza. Sesto. Nessun dato empirico viene portato per giustificare gli allarmi. Né è prova il fatto che il governo Meloni, che dispone di dati e informazioni del ministero dell’Interno e del ministero della Giustizia, non ha ravvisato la necessità e urgenza di intervenire a gennaio con un decreto- legge. È intervenuto sul tema della procedibilità sei mesi dopo l’entrata in vigore della riforma Cartabia con la legge 60/ 2023, pubblicata ieri. Una legge che integra la riforma Cartabia senza sconfessarla, anzi. Opportuni aggiustamenti, non possibili con lo strumento della legge delega Cartabia, prevedono ora la procedibilità d’ufficio in presenza delle aggravanti del metodo mafioso e della finalità di terrorismo, e danno al querelante 48 ore di tempo per presentare la querela, ai fini dell’arresto obbligatorio in flagranza. Si sono così risolti problemi che preesistevano alla riforma Cartabia.
Settimo. Ripristinare il regime di procedibilità d’ufficio non assicurerebbe una maggior tutela delle
vittime ed effettività del sistema. Quanti, dopo avere denunciato un furto, quando era procedibile d’ufficio, hanno poi avuto notizia di un seguito della loro denuncia? Non molti. Quante denunce per furto restano a carico di ignoti e archiviate? Moltissime. Non è meglio procedere solo quando vi è una manifestazione di volontà della persona offesa e smettere di procedere quando e se interviene un risarcimento del danno? O è meglio continuare ad affastellare verbali e fascicoli che polizia giudiziaria, pubblici ministeri e giudici non riescono a gestire e sono destinati in molti casi all’archiviazione, alla prescrizione o ad una declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto?
Ottavo. Gli allarmismi drogano il dibattito pubblico, rischiano di innescare reazioni populistico- repressive simboliche e ineffettive e, soprattutto, mettono in ombra l’obiettivo Pnrr più importante per la giustizia penale: la riduzione del 25% dei tempi medi del processo entro il 2026. La riforma Cartabia è intervenuta sulla procedibilità a querela perché questa misura promette effetti di riduzione del carico giudiziario sia per la diminuzione delle notizie di reato ( mancate querele), sia per la definizione anticipata dei procedimenti conseguente alla remissione della querela e/ o a condotte riparatorie. Il monitoraggio della Direzione Generale di Statistica del Ministero della Giustizia evidenzia nel 2022 una riduzione del disposition time, rispetto al 2019, del 20% in Cassazione, del 10% in appello e del 6% in primo grado. Segno tangibile che il lavoro di tutti gli attori coinvolti, in vista dell’entrata in vigore della riforma Cartabia ( si pensi anche solo alla prospettiva della improcedibilità in appello e in cassazione) sta già dando ottimi risultati. E’ su questa via che bisogna proseguire: non su quella di disfattistiche polemiche, che fanno solo male al Paese. Nono. Per mettere una pietra tombale sulle polemiche servirebbero dati. Quante scarcerazioni per reati resi procedibili a querela ci sono state, dopo l’entrata in vigore della riforma? Quali erano prima della riforma e quali sono i tassi di archiviazione/ prescrizione/ condanna per i reati stessi? Quante sono, ad oggi, le definizioni del procedimento per remissione della querela o per estinzione del reato per condotte riparatorie? Che incidenza hanno sul disposition time? Se vogliamo elevare il tono e la qualità del dibattito, dobbiamo spostare il discorso su questi e analoghi dati. Altrimenti la giustizia penale rischia di diventare argomento da bar.
Decimo. La legge delega Cartabia, compresa la parte sulla procedibilità a querela, è stata approvata dalla vasta e variegata maggioranza che sosteneva il governo Draghi. Mancava solo il voto di Fratelli d’Italia, allora all’opposizione. Ora, però, quel partito di maggioranza ha votato il “correttivo” Nordio ( la legge 60 del 2023) che non sconfessa affatto le scelte del Governo Draghi. Il Ministro e deputato di Fratelli d’Italia così scriveva, il 27 gennaio, nella relazione del disegno della legge poi approvata: «Si ritiene di confermare ( l’intervento realizzato con la riforma Cartabia, nda) in quanto, nell’ambito degli impegni assunti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è opportuno favorire tali effetti deflativi» . È proprio opportuno, e necessario.
Pestaggi a Viterbo, ecco perché pm e procuratore rischiano il processo. Il 29 giugno il gip di Perugia deciderà sul caso aperto dopo gli esposti dei familiari di Sharaf al Csm e alla Procura generale per rifiuto e omissioni di atti d'ufficio in seguito alle presunte violenze del 2018 al "Mammagialla". Damiano Aliprandi Il Dubbio il 25 maggio 2023
Dovranno affrontante l’udienza preliminare a seguito della richiesta di rinvio a giudizio per rifiuto di atto d’ufficio. Secondo la procura di Perugia, il procuratore capo Paolo Auriemma e la pm Eliana Dolce della procura di Viterbo avrebbero chiuso un occhio a seguito delle denunce e segnalazioni soprattutto da parte del garante regionale dei detenuti Stefano Anastasìa sui pestaggi avvenuti nel 2018 al carcere di Mammagialla. Su Il Dubbio abbiamo più volte ha riportato eventi tragici che si sarebbero verificati all’interno del carcere “duro” di Viterbo. Due storie su tutte. Quella di Hassan Sharaf, cittadino egiziano di 21 anni, che il 23 luglio del 2018 si è tolto la vita impiccandosi nella cella di isolamento dove si trovava da due ore. Il 9 settembre, neanche due mesi dopo, sarebbe tornato in libertà. Invece non ha retto la pressione di quel luogo. Il ragazzo, durante la visita di una delegazione del garante regionale dei detenuti, mostrò all'avvocata Simona Filippi alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima. Il Garante Anastasia ha presentato un esposto sulla vicenda di Hassan, sottolineando che il ragazzo aveva riferito di avere «molta paura di morire».
L'altra vicenda emblematica è quella di Giuseppe De Felice che ha denunciato di essere stato massacrato di botte da dieci agenti con il volto coperto, che hanno utilizzato anche una mazza per picchiarlo. Portato in infermeria per qualche ora nessuna si è occupato di lui. Un racconto constatato ancora una volta dal Garante dei detenuti e dal consigliere regionale del Lazio di + Europa, Alessandro Capriccioli, e amplificato dalle parole della moglie del 31enne, che si è rivolta a Rita Bernardini del Partito Radicale. Racconto portato per la prima volta alla luce dalle pagine di questo giornale. Ma Giuseppe e Hassan erano solo la punta dell'iceberg di una violenza quotidiana e sistematica, secondo quanto emerge dalle numerose lettere arrivate nel 2018 ad Antigone. Tanto che il garante Stefano Anastasia non esitò a parlare del Mammagialla di Viterbo come di un carcere punito, in un Paese “dove il carcere punitivo non esiste”. A pensare che nel 2019, l’allora sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, in risposta a una interpellanza di Riccardo Magi di + Europa, rispose che la Procura stava compiendo accertamenti su tutti i casi elencati e ha sottolineato che l’allora ministro della Giustizia, dopo la pubblicazione dell’articolo de Il Dubbio sui presunti pestaggi, avrebbe subito attivato il Dap per effettuare l’ispezione necessaria previo il nulla osta dell’autorità giudiziaria. Ma essendoci una indagine in corso, ancora non era stato possibile. Da sottolineare che, per quanto riguarda il presunto pestaggio di Giuseppe De Felice, il pm di Viterbo Stefano D’Arma ha chiesto il rinvio a giudizio nel 2020.
Ma ritorniamo alla notizia odierna. Tutto parte quando il Pubblico ministero Gennaro Iannarone ha emesso una richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Paolo Auriemma ed Eliana Dolce, entrambi accusati di un reato previsto dall'articolo 328 del codice penale italiano. I due imputati, rispettivamente Procuratore e della Repubblica e Sostituto presso la Procura della Repubblica di Viterbo, sono stati indagati a seguito degli esposti dei familiari di Sharaf al Csm e alla Procura generale, da cui anche l’avocazione a Roma del procedimento principale sulla morte del ragazzo.
L'accusa mossa nei confronti di Paolo Auriemma riguarda il suo ruolo di pubblico ufficiale in qualità di Procuratore della Repubblica di Viterbo. L'imputazione specifica che, l’ 11 agosto 2018, Auriemma avrebbe indebitamente rifiutato l'iscrizione nel registro delle notizie di reato riguardanti una segnalazione presentata dal Garante. Nonostante emergessero specifiche notizie di reato, Auriemma avrebbe registrato il caso come “fatti non costituenti notizia di reato” solo il 20 settembre 2021, omettendo di compiere le necessarie indagini sulle presunte violenze subite dai detenuti presso la Casa di Reclusione Mammagialla di Viterbo.
Analogamente, Eliana Dolce, in qualità di Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Viterbo, è accusata dello stesso reato. Secondo l'accusa, Dolce avrebbe indebitamente rifiutato di iscrivere nel registro delle notizie di reato le informazioni provenienti dalla denuncia presentata dal Garante per i detenuti del Lazio. Nonostante le specifiche notizie di reato emerse dalla denuncia, Dolce avrebbe mantenuto il procedimento registrato come ' fatti non costituenti notizia di reato' nel registro mod. 45 dall’ 11 agosto 2018 al 20 settembre 2021. Inoltre, Dolce è stata anche accusata di aver omesso di compiere le necessarie indagini sulle dichiarazioni dei detenuti riguardo alle presunte percosse e violenze subite, non presentando alcuna richiesta di archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Nel procedimento, la persona offesa risulta essere anche il ministero della Giustizia, il quale è stato citato per comparire con lo scopo di esercitare la facoltà di costituirsi parte civile per richiedere il risarcimento del danno. Le prove acquisite nel procedimento includono anche le comunicazioni di notizia di reato relative alla querela sporta dai famigliari di Hassan Sharaf, il ragazzo egiziano che presentò lividi di presunti pestaggi e che poi fu ritrovato suicida. Questa querela è stata presentata dall'avvocato di fiducia Michele Andreano del Foro di Roma e allegata agli atti del procedimento. Inoltre, come già detto, un altro elemento di prova rilevante è rappresentato dall'esposto presentato dal Garante delle persone private della libertà della regione Lazio. Tale esposto ha portato all'apertura del procedimento penale nei confronti di Paolo Auriemma ed Eliana Dolce, in quanto riportava le dichiarazioni di diversi detenuti della Casa di Reclusione Mammagialla di Viterbo che avevano denunciato di aver subito percosse e violenze. L'esposto del Garante dei detenuti costituisce quindi una testimonianza fondamentale per la prosecuzione del procedimento.
Ora i due imputati togati dovranno affrontare l’udienza preliminare fissata per il 29 giugno prossimo presso il Gip del Tribunale di Perugia. L'udienza preliminare rappresenta una fase fondamentale del processo penale, durante la quale il giudice valuterà le prove e gli argomenti presentati dalle parti coinvolte per decidere se rinviare il caso a giudizio o archiviarlo. Sarà quindi l'occasione in cui l'accusa e la difesa potranno esporre le proprie argomentazioni e fornire le prove a supporto delle rispettive posizioni.
"Almeno 35 toghe in fuga per evitare la disciplinare. Adesso il capo Anm lasci". Stefano Zurlo il 16 Aprile 2021 su il Giornale.
La corrente Articolo 101 contro Santalucia: "Insabbiati i nomi dei coinvolti nelle chat"
Accuse sempre più pesanti e alla fine una sola parola: dimissioni. Articolo 101, la lista che sta scombinando la geografia delle correnti, insiste: il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia deve lasciare l'incarico. I quattro componenti del comitato direttivo centrale - terminologia un po' vintage, ma quella è dell'Anm - hanno firmato nei giorni scorsi un documento durissimo. Una pagina senza sconti per denunciare il tentativo dei vertici dell'Anm di «insabbiare» le questioni drammatiche poste dal caso Palamara. Ora Maria Angioni, oggi giudice del lavoro ma a suo tempo il pm che cercò di far luce sulla scomparsa della piccola Denise, e Andrea Reale, gip a Ragusa, escono allo scoperto, rispondendo alle domande dell'Adnkronos.
«Basta con l'ipocrisia - attacca Reale - due anni fa il presidente della repubblica ci ha invitato a voltare pagina, ma qui si torna indietro. Ci sono magistrati che rivestono ancora ruoli apicali pur essendo direttamente coinvolti nei gravi fatti resi pubblici».
I fatti, naturalmente, sono quelli raccontati da Luca Palamara e Alessandro Sallusti nel libro Il sistema. La lottizzazione che arriva fin dentro il Csm e poi gli accordi e gli scambi di favori e poltrone fra le diverse correnti che penalizzano la competenza e premiano l'appartenenza alla cordata giusta.
Da mesi i quattro giudici di Articolo 101, che ci tiene a definirsi solo una lista in contrapposizione alle altre sigle storiche, chiedevano a Santalucia di bussare al gip di Perugia per recuperare le carte dell'intrigo. Ma l'Anm, questa è la critica acuminata, avrebbe temporeggiato inspiegabilmente a lungo e ha infine recuperato quei faldoni solo dopo molte insistenze. Anzi, come ha svelato al Giornale Giuliano Castiglia, membro del quartetto e gip a Palermo, qualcosa è arrivato ai magistrati di Articolo 101 coperto da omissis. Tagli decisi da Santalucia e non dal gip di Perugia che ha rimandato tutto senza sbianchettare nemmeno una sillaba.
«Il presidente Santalucia - rincara la dose Angioni - omissando quegli atti ha sbagliato. E quegli omissis riguardavano un fatto politicamente grave, cioè il fatto che molti magistrati coinvolti nelle chat di Palamara si stanno dimettendo per sottrarsi in questo modo al procedimento disciplinare interno. Questo tema non è mai stato portato al cdc, il nostro parlamentino. E il nostro parlamentino può bloccare le dimissioni». Invece, sarebbe in corso un vero e proprio esodo. «Sono almeno 35 - chiarisce Angioni che nei giorni scorsi ha ripercorso l'inchiesta su Denise al programma Ore14 di Rai2 - i colleghi che hanno lasciato l'Anm». A quanto pare, alla chetichella. .
Insomma, per i quattro - oltre a Castiglia, Angioni e Reale, Ida Moretti - ci sarebbe la volontà di insabbiare una storia che sta provocando sconcerto e sporca l'immagine dell'Anm. «Santalucia - riprende Reale - ha tradito la nostra fiducia. Per noi è difficile continuare in questo modo. Ma lo ha voluto lui».
La strada di una possibile ricomposizione pare sbarrata. E Articolo 101 va avanti per la sua strada. In particolare, come Castiglia ha spiegato al Giornale, il grimaldello per far saltare il correntismo dovrebbe essere l'introduzione del sorteggio per l'accesso al Csm. Un'eresia per gran parte dei leader storici dell'Anm. Ma i tempi cambiano. E oggi una minoranza agguerrita conduce una battaglia che solo qualche anno fa sarebbe stata impensabile, anzi lunare, nel mondo delle toghe.
L'insabbiamento di Magistratopoli. Magistratopoli, tutto insabbiato: paga solo Palamara, i Pm non ammettono le loro colpe. Alberto Cisterna su Il Riformista il 24 Settembre 2020
La parabola associativa di Luca Palamara si è conclusa con un voto plebiscitario. L’Assemblea plenaria delle toghe ha confermato l’espulsione del proprio ex presidente più illustre e famoso con 111 voti a favore e uno solo contro. Nulla di inatteso. In questi giorni la decapitazione associativa della toga era stata data come inevitabile e a nulla è, infatti, servito il discorso – dicono a braccio – con cui il dottor Palamara ha tentato di convincere i propri colleghi a ribaltare il voto. Un giudizio, quello invocato innanzi alla base associativa della magistratura italiana, che tuttavia in principio non doveva essere apparso come inutile o scontato all’ex presidente il quale, fino a un certo punto, avrà anche pensato che le toghe fossero disposte a riconoscere – addirittura collettivamente e pubblicamente – la condizione della magistratura italiana e delle carriere dentro di essa.
Non sapremo mai in quale momento questa speranza è svanita e quando si è fatta strada la lucida consapevolezza che nessuno avrebbe potuto fargli scampare la ghigliottina associativa. Non sapremo mai quando gli ultimi tentativi di chiamare alla conta i propri fedelissimi e proni clientes di un tempo (il voto assembleare era aperto a tutti i circa 9.000 iscritti all’Anm) sono andati incontro a un fallimento totale e quando il dottor Palamara si è reso conto del terribile vuoto e della sua completa solitudine tra le fila, prima in larga misura inneggianti e plaudenti, della magistratura italiana.
La parabola umana è identica a tante altre e per questo non sarebbe il caso di spargere troppe lacrime sul corpo nudo del re deposto. Se non fosse. Se non fosse per quel voto solitario e anonimo che, in una arena totalmente ostile, si è espresso contro quella espulsione in un rigurgito non sapremo mai, ancora una volta, se di amicizia o di riconoscenza o di semplice solidarietà umana. Un voto contro 111. Poco, troppo poco alla luce del vasto consenso che circondava Palamara prima di commettere l’errore di impicciarsi di una nomina pesante senza aver capito che aveva impugnato il coltello dalla parte della lama. Molto, tuttavia, se si pensa a ciò che quel voto porta con sé; se si ragiona sulla possibilità che tanti voltagabbana e tanti muti spettatori di questa vicenda hanno di identificarsi in quel singolo voto che li scagiona e ne alleggerisce le colpe. Un voto contro, dietro e dentro il quale ciascuno potrà cercare la propria giustificazione e rivestire la propria indulgente assoluzione.
Appare chiaro che il dottor Palamara non ci pensava proprio a portare sul banco degli imputati il sistema i cui riti ha officiato al massimo livello, sperava piuttosto che il sistema – seduto sullo scranno del giudice – l’avrebbe perdonato e si sarebbe mostrato indulgente. Si era illuso che il sistema ammettesse spudoratamente la propria esistenza e si consegnasse, così, alla furia riformatrice dei propri detrattori. Quindi è vero, a occhio e croce, che la toga espulsa non voleva e non vuole alcuna Norimberga o alcuna purga collettiva, la cornice resta forse più modesta: appellandosi al voto segreto dei propri pari c’era la speranza che i tanti anni di militanza e di esercizio massiccio del potere generassero un moto di vicinanza, se non di riconoscenza. Quanto bastava per una riabilitazione politica prima di un giudizio disciplinare ampiamente in salita e sin troppo scontato nei suoi esiti stando a quel che si legge ogni giorno. Perso il giudizio politico, compromesso quello disciplinare, resta l’ultima istanza del processo penale a Perugia.
Un circuito interamente in mano alle toghe italiane con i propri difetti, ma anche con i propri grandi meriti, per fortuna del dottor Palamara. I magistrati di Perugia hanno coraggiosamente scoperchiato il pentolone ribollente e putrido del carrierismo e degli agguati che troppe volte ne hanno macchiato le sorti. In aula non ci sarà il sistema, ma come nella caverna di Platone se ne scorgeranno le ombre. Poco, ma meglio di niente. Alberto Cisterna
Magistratopoli e i suoi scandali. Palamaragate, il Gip chiede ai Pm di Firenze di non insabbiare la fuga di notizie. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Aprile 2021
“Sussiste senza dubbio” il reato di rivelazione del segreto, gli autori sono stati dei “pubblici ufficiali” e la Procura deve compiere gli “opportuni approfondimenti investigativi” per individuare “i responsabili della indebita propalazione”. È quanto scrive Sara Farini, gip del Tribunale di Firenze, a proposito della fuga di notizie relativa all’indagine di Perugia, rispondendo a una nota dei pm della locale Procura. A distanza di quasi due anni dai fatti, dunque, siamo ancora a questo punto: da Erode a Pilato. I fatti sono stranoti.
Il 29 maggio 2019, Repubblica, Corriere e Messaggero pubblicarono la notizia dell’indagine della Procura umbra, gestione Luigi De Ficchy, a carico dell’ex zar delle nomine. “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, scrisse Repubblica; “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”, il Corriere; “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”, il Messaggero. Gli articoli erano tutti molto dettagliati. Il pezzo di Repubblica, in particolare, riportava alcuni elementi che erano emersi grazie alle intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. Ad esempio, i colloqui fra quest’ultimo e Cosimo Ferri, deputato allora del Pd ed esponente di spicco della corrente di destra delle toghe, Magistratura indipendente, relativi alla nomina del successore di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma.
Il Corriere, invece, non era bene informato come Repubblica, limitandosi a scrivere che la Procura di Perugia aveva notiziato il Consiglio superiore delle magistratura dell’indagine nei confronti di Palamara, ricordando poi che l’ex presidente dell’Anm aveva fatto domanda per diventare aggiunto a Roma. Il giorno dopo, il 30 maggio, Palamara venne perquisito all’alba dal Gico della guardia di finanza. Insieme a lui erano indagati anche l’allora togato del Csm Luigi Spina e il pm romano Stefano Rocco Fava. Il Corriere in edicola quella mattina, recuperando il parziale buco del giorno prima, dava la notizia dei motivi della perquisizione, informando i lettori anche che Palamara negli ultimi mesi era stato costantemente “monitorato” duranti i suoi incontri notturni. Da allora Corriere e Repubblica iniziarono una campagna pancia a terra pubblicando per giorni stralci di intercettazioni ambientali che riguardano anche la sfera privata di Palamara, non trascurando i consiglieri del Csm che avevano partecipato al dopo cena all’hotel Champagne e che poi furono costretti alle dimissioni. Un romanzo a puntate.
Il risultato fu che la nomina del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, a procuratore di Roma, votata in Commissione per gli incarichi direttivi del Csm il precedente 23 marzo e pronta per andare in plenum in quei giorni, saltò, per poi essere definitivamente annullata nelle settimane successive. Vale la pena di ricordare che al Csm vennero, fino alla chiusura delle indagini di Perugia avvenuta il 20 aprile 2020, trasmessi pochissimi atti. Nonostante ciò, il 5 luglio 2019 il Corriere riportò alcuni passi degli interrogatori di Palamara avvenuti il 30 e il 31 maggio davanti ai pm di Perugia. E lo stesso fece Repubblica. Un filone investigativo, poi, finì in tempo reale sui giornali, con le dichiarazioni di alcuni imprenditori che avevano effettuati dei lavori edili, frutto di una presunta corruzione, per un’amica di Palamara. Gli imprenditori erano stati interrogati a giugno del 2019 mentre erano sottoposti ad intercettazione telefonica. Uno di loro verrà risentito a luglio, modificando la testimonianza in modo da renderla più aderente a quanto riportato dai giornali.
La Procura di Perugia ha sempre sottolineato che gli atti d’indagine non fossero “ostensibili” per il segreto istruttorio. Il 26 luglio 2019 il pm di Perugia Mario Formisano, titolare del fascicolo insieme alla collega Gemma Miliani, come riportato dalla Verità, affermerà che le fughe di notizie avevano “rovinato l’inchiesta”. Palamara, pur essendo la rivelazione del segreto procedibile d’ufficio, ha presentato lo scorso novembre un esposto alla Procura di Firenze, competente per i reati commessi dai magistrati umbri, chiedendo di svolgere accertamenti. Fra le richieste, il sequestro dei telefoni e l’acquisizione dei tabulati telefonici nei confronti dei “soggetti interessati” alla fuga di notizie: “giornalisti, operatori di polizia, ecc”.
Il gip Farini, con una nota del 27 gennaio scorso, ha respinto, come richiesto dalla Procura, le istanze di Palamara, evidenziando però che non risultano essere mai stati compiuti atti d’indagine per i soggetti “che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete”. Da qui, dunque, l’invito alla Procura a “circoscrivere” la platea di questi soggetti e ad effettuare gli “opportuni approfondimenti investigativi”. La tempistica gioca, ovviamente, a favore degli autori della fuga di notizie: dopo due anni i tabulati vengono cancellati per legge dai gestori telefonici. Il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, come si ricorderà, è attualmente sotto disciplinare al Csm per presunte molestie nei confronti della pm antimafia Alessia Sinatra. Paolo Comi
Accusò due ex procuratori di insabbiare le sue denunce, assolto Arnone. Gerlando Cardinale il 07 ottobre 2022 su agrigentonotizie.it.
Secondo il gup di Caltanissetta l'ex consigliere comunale non commise alcuna calunnia nei confronti dei magistrati Renato Di Natale e Luigi Patronaggio: scagionata dalle stessa accusa anche il suo legale Daniela Principato
Accusarono gli ex procuratori di Agrigento, Renato Di Natale, e Luigi Patronaggio di avere insabbiato alcune indagini, in particolare nei confronti di due poliziotti che avrebbero commesso degli abusi in occasione di una conferenza stampa che era stata indetta in uno studio legale: secondo il gup del tribunale di Caltanissetta, David Salvucci, Giuseppe Arnone e l'avvocato Daniela Principato non commisero il reato di calunnia.
La vicenda per la quale sono finiti a processo scaturisce dal contenuto di un'istanza di avocazione, firmata il 31 ottobre del 2019 e indirizzata alla procura generale di Palermo, con cui Arnone e il suo legale lamentavano l'inattività della procura di Agrigento in relazione ad alcune querele presentate dall'ex consigliere comunale e accusavano l'ufficio di avere insabbiato le denunce a carico dei poliziotti Giovanni Giudice e Maria Volpe accusati da Arnone di avere commesso, 4 anni prima, alcuni abusi per impedirgli di svolgere una conferenza stampa nel suo studio legale.
Secondo i pm di Caltanissetta Dario Bonanno, Stefano Striino e Simona Russo gli imputati avevano accusato i due magistrati "falsamente con la consapevolezza della loro innocenza e al solo scopo di farli finire a processo". La pena richiesta nei confronti di Arnone era di 3 anni e 4 mesi di reclusione; 2 anni per l'avvocato Principato. Alla requisitoria dei pm ha replicato l'avvocato Giulia Gaipa, difensore dei due imputati. Il giudice ha, quindi, deciso l'assoluzione.
Diritto e giustizia. I tanti gradi di giudizio e l’istituto dell’insabbiamento di Antonio Giangrande venerdì 18 luglio 2014
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma che, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al giudizio perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti. A chi è privo di qualunque conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che, a livello scolastico, viene diviso nei fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato. Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato. A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale. La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire.
Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato. Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria. Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, o che non ci sono macchine, o di attendere in linea, o di aspettare che qualcuno arrivi.. Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato.. Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando.. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico. Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione. Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate. In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici.
A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto..Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”. Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate. Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani. Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto.
Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano».
Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio». Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne?
Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini. Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada o in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato. Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
L’UPP: l’Ufficio per il Processo.
A regime dovevano essere assunti 16mila giovani neolaureati. Ufficio del processo, il flop costoso della riforma Cartabia: arretrato-beffa, invece di diminuire sta aumentando. Paolo Pandolfini su Il Riformista l’1 Agosto 2023
Doveva essere la panacea per gli atavici problemi della giustizia italiana, ad iniziare dalla lentezza dei processi, ed invece si sta rivelando uno dei flop più clamorosi e costosi degli ultimi anni. Stiamo parlando dell’Ufficio del processo, la task force che avrebbe dovuto affiancare i giudici per agevolarli nella scrittura delle sentenze così da abbattere l’arretrato e permettere all’Italia di ottenere gli agognati fondi del Pnrr.
A regime dovevano essere assunti, con contratto a termine di tre anni ed uno stipendio netto di circa 1700 euro al mese, ben 16mila giovani neolaureati. Numeri mai raggiunti a causa di defezioni continue. Alla fine dell’anno scorso, ad esempio, i componenti dell’Ufficio del processo erano 11mila. Adesso sono poco più di 9mila. Ma il loro numero è destinato a scendere nei prossimi mesi.
Che l’Ufficio del processo non avrebbe funzionato lo ricorda l’ex componente laico del Consiglio superiore della magistratura Stefano Cavanna, avvocato d’impresa e molto vicino all’attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. “Era il 2021 e fummo chiamati a via Arenula dove fu illustrato al Comitato paritetico sull’organizzazione degli uffici, di cui facevo parte come componente della Settima commissione del Csm, la soluzione che il Ministero aveva individuato per abbattere l’arretrato nei tribunali”, sottolinea Cavanna.
“Il piano – prosegue – era incentrato sull’assunzione di questi 16mila neolaureati, non solo in giurisprudenza ma anche in economia, informatica e scienza politiche, che avrebbero dovuto aiutare i magistrati a ‘scrivere il fatto della sentenza’ e che avrebbero ‘drogato la macchina’ per tre anni e poi sarebbero stati mandati a casa”.
“Io strabuzzai gli occhi, insieme agli altri presenti, e chiesi: ‘Scusate, non pensate che sia un po’ difficile che un neolaureato in economia (ricordando come ero io neo laureato in giurisprudenza con 110 e lode ma privo di qualsiasi idea concreta di cosa significasse lavorare) possa scrivere adeguatamente ‘il fatto di una sentenza’ considerando che la ricostruzione del fatto, come insegnavano i grandi avvocati, è certamente la parte centrale e più importante della decisione? E poi, chi formerà questi ragazzi per poi doverli licenziare dopo meno di tre anni? Non pensate che sarà difficoltoso il reclutamento nel Nord Italia dove già il fenomeno è presente drammaticamente per il personale amministrativo pur riferendoci a lavoro a tempo indeterminato?’ Chiesi poi se qualcuno avesse pensato al rischio di rivendicazioni sindacali, secondo me giuste, al termine del periodo di impiego previsto”, aggiunge Cavanna. “Non ci fu data alcuna risposta soddisfacente e l’Ufficio del processo passò anche se il Csm aveva espresso criticità al riguardo”, conclude laconicamente l’ex laico del Csm.
La conseguenza di quella scelta frettolosa ha costretto la settimana scorsa il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto ad annunciare che il target della riduzione del 65 percento delle cause pendenti entro il 31 dicembre dell’anno prossimo, concordato con Bruxelles, sarà impossibile da raggiungere. Anzi, in ben 45 tribunali – fra cui i più importanti del Paese, Bologna, Milano, Roma, Napoli – l’arretrato invece di diminuire starebbe addirittura aumentando. Una beffa.
Eppure il Piano era chiaro: la lentezza processi, ritenuta “eccessiva”, deve “essere maggiormente contenuta con interventi di riforma processuale e ordinamentale”. “A questi fini – si poteva leggere nella nota inviata alla Commissione europea – è necessario potenziare le risorse umane e le dotazioni strumentali e tecnologiche dell’intero sistema giudiziario”.
Il “fattore tempo” doveva però essere affrontato tramite riforme tecnico-processuali, e quindi a costo zero. Le risorse stanziate per il comparto giustizia furono così destinate esclusivamente alla creazione dell’Ufficio per il processo da intendersi come “un team di personale qualificato di supporto, per agevolare il giudice nelle attività preparatorie del giudizio”, quali “ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti”. Niente di specifico venne dedicato, invece, alla digitalizzazione dei tribunali.
A distanza di due anni aver puntato tutto sull’Ufficio del processo si è rivelato allora fallimentare. L’attività del giudice ordinario, esame del fatto, applicazione del diritto, motivazione dei provvedimenti, non è quella del giudice della Corte costituzionale, da dove veniva la ministra Marta Cartabia, la prima fautrice dell’Ufficio del processo.
Alla Consulta il giudice può anche fare il supervisore dei suoi assistenti di studio a cui delegare tronconi della propria attività (a un componente dello staff l’istruttoria, a un altro la ricerca giuridica, a un altro ancora la scrittura della bozza del provvedimento) per poi compiere egli la sintesi finale. Nei tribunali è diverso. Anche perché i ritmi di lavoro non sono confrontabili.
“L’ufficio del processo? Io preferisco chiamarlo ‘ufficio del paggetto’, dove i suoi componenti vanno a fare le fotocopie per i magistrati”, aveva detto lo scorso anno, quando era all’opposizione, Andrea Delmastro, attuale sottosegretario alla Giustizia e plenipotenziario di Giorgia Meloni a via Arenula.
Toccherà ora a Carlo Nordio riscrivere il Piano. Una nuova grana per il ministro della Giustizia di cui nessuno sentiva certamente il bisogno in questo momento. Paolo Pandolfini
Le scoperture sono circa del 40%. Dialogo con l’ufficio del processo: il bilancio resta negativo non per colpa dell’entusiasmo dei laureati. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 3 Agosto 2023
Pubblichiamo integralmente la lettera ricevuta dal Coordinamento Nazionale Funzionari Ufficio per il Processo. Lettera alla quale rispondiamo volentieri.
L’altro Ieri sul vostro giornale abbiamo letto un articolo dal titolo ‘Ufficio del processo. Un flop costoso. Altro che fattore tempo’ che riporterebbe notizie non del tutto precise ed esatte su di noi funzionari addetti all’Ufficio per il processo che – ricordiamo – siamo stati assunti nell’ambito del progetto PNRR solo 1 anno e 5 mesi fa, con concorso pubblico per prova scritta e titoli (quindi funzionari con competenze professionali e curricula di rilievo).
Innanzitutto, non siamo mai stati – come erroneamente riportato sul ‘Riformista’ – 11.000 unità, in quanto finora sono stati reclutati 8.250 addetti UPP. Attualmente siamo rimasti meno di 6.000 funzionari in tutto il paese (in seguito a dimissioni dovute al passaggio di molti addetti presso altre amministrazioni per posizioni a tempo indeterminato). Nell’articolo si farebbe, inoltre, confusione anche sulla specifica attività lavorativa che svolgiamo a supporto dei magistrati. È necessario precisare che i Funzionari addetti UPP non scrivono le sentenze: questo è e rimane compito esclusivo dei magistrati. Noi siamo solo di ausilio nell’elaborazione di tutti quei provvedimenti necessari durante l’iter processuale, nella ricerca di precedenti giurisprudenziali, così snellendo l’enorme mole di lavoro gravante sui magistrati ed agevolando la fase decisoria, sia sul piano quantitativo che sul piano qualitativo; ed i colleghi con profilo non giuridico sono impegnati in preziosa attività di raccolta dati, elaborazione statistica sui flussi e monitoraggio. Il lavoro svolto da un anno e mezzo è stato apprezzato anche dai vertici dell’ANM, come dimostrano in numerosi comunicati, articoli ed interventi pubblici dei suoi componenti. Sorprende leggere che i risultati del nostro lavoro (ossia quelli incidenti sulla riduzione dell’arretrato) si pretende possano manifestarsi solo dopo 1 anno e 5 mesi. Qualsiasi persona esperta di dati vi direbbe che i benefici del nostro lavoro si vedranno nel medio e lungo periodo; ed in ogni caso i dati sviluppati dal Ministero e dai Distretti sono confortanti e con il segno positivo. Nonostante un futuro incerto, tutti quanti noi stiamo facendo dall’inizio, ossia dal mese di febbraio 2022, e continueremo a fare il nostro lavoro con dedizione, passione e tanta voglia di fare. Non ci fermeranno le inutili e infondate critiche di chi non vuole vederci, effettivamente, all’opera.
Da ultimo vi è da dire che abbiamo constatato con piacere come l’attuale Sottosegretario alla Giustizia, On. Delmastro (evidentemente dopo aver visto i dati positivi del nostro lavoro) ha risposto pochi giorni fa ad un’interrogazione parlamentare sull’Ufficio per il processo, apprezzando il nostro lavoro a tal punto da prospettare una nostra stabilizzazione. Nel ringraziarla per la sua attenzione rimaniamo a disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento le possa servire al fine di comprendere al meglio il ruolo, le mansioni e le finalità della nostra figura professionale al servizio della Giustizia.
Cordiali saluti,
il ‘Direttivo del Coordinamento nazionale Funzionari Ufficio per il processo’
Presidente Dott.ssa Lisa Caramanno
Consiglieri
Dott.ssa Daniela Acri
Dott. Gaetano Coccoli
Dott. Raffaele Pugliese
Dott.ssa Maria Santoro
Dott.ssa Olga Trombetti
Dott. Pierfrancesco Vanadia
Ringraziandovi per il contributo di conoscenza, mi permetto di sottolineare che nell’articolo in questione nessuno ha scritto che coloro che compongono l’ufficio del processo debbano scrivere le sentenze al posto del giudice. I compiti del “team di personale qualificato di supporto per agevolare il giudice nelle attività preparatorie del giudizio” sono stati ben specificati: “ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti”.
Fatta questa premessa e considerato che i primi addetti sono arrivati negli uffici giudiziari a febbraio dello scorso anno, il bilancio di questa esperienza non può però certamente essere positivo. Ovviamente non per colpa dei diretti interessati, per la maggior parte giovani laureati, preparati, e con molto entusiasmo.
Innanzitutto i numeri: rispetto alle previsioni iniziali, le scoperture sono circa del 40% con inevitabili ripercussioni sulla attività da svolgere.
E poi la temporaneità della struttura. Cosa accadrà quando essa sarà ridimensionata? Sicuramente un peggioramento delle performance del sistema giustizia che si vuole rendere invece virtuoso. Faccio infine mie le considerazioni del presidente della Corte d’Appello di Milano Giuseppe Ondei sull’ufficio del processo in occasione dell’ultima inaugurazione dell’Anno giudiziario: “Se non si vuole ‘appaltare’ la gestione della Giustizia a persone che non hanno superato il concorso per diventare magistrati non è possibile aspettarsi un aumento della produttività dei giudici superiore al 15/20 percento, limite oltre il quale il controllo del giudice sull’attività dell’addetto non può più garantire un livello sufficiente di qualità e farebbe assomigliare l’ufficio per il processo al cigno di Leda: bellissimo in apparenza ma chi c’è dentro è tutto da scoprire”.
Paolo Pandolfini
Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.
Come si diventa CTU? Consulente Tecnico d’Ufficio del Tribunale: come iscriversi all’albo. Da Consulenti-tecnici.it.
Come si diventa CTU, come si comincia la carriera di Consulente Tecnico d’Ufficio del tribunale? Quali sono i primi passi da fare per poter operare come CTU?
Consulente Tecnico ADMIN CT.It Maggio 21, 2020
Parliamo di:
1. Come si diventa CTU, come fare il Consulente Tecnico d’Ufficio del tribunale?
2. Chi può richiedere l’iscrizione albo dei Consulenti Tecnici d’Ufficio del tribunale?
3. Quali sono le modalità da seguire una volta saputo come diventare CTU?
4. Quanto costa diventare Consulente Tecnico D’ufficio del Tribunale?
5. Quanto guadagna un CTU?
Come si diventa CTU, come fare il Consulente Tecnico d’Ufficio del tribunale?
Quali sono i primi passi da fare per poter operare come CTU?
Prima di saper come fare il Consulente Tecnico d’Ufficio del tribunale e del giudice non si può considerare una professione a se stante anche se sempre più spesso molti professionisti si possono dedicarsi a tale attività in maniera prevalente.
Con l’aumentare della complessità della società e delle conoscenze scientifiche e tecniche è aumentata anche la necessità dei Giudici di avvalersi di competenze esterne non possedute da loro stessi che vengono dunque demandate ai Consulenti Tecnici o Periti. Di conseguenza sempre più spesso i professionisti già operanti in altri settori si interessano su come si diventa CTU per ampliare gli orizzonti della professione che già svolgono consapevoli che nel prossimo futuro è molto probabile che si registrerà un ulteriore crescita della richiesta di CTU in settori sempre più specialistici.
Per i CTU non è possibile essere iscritti ad un albo CTU di un Tribunale diverso rispetto a quello competente del proprio comune di residenza o del proprio domicilio professionale (non è neppure consentito essere iscritti in più albi CTU ndr).
Gli iscritti all’Albo dei Consulenti del Giudice sono obbligati a comunicare rapidamente all’ufficio competente la eventuale cessazione dell’attività professionale ed il cambiamento dell’indirizzo, della PEC e del numero telefonico.
Chi può richiedere l’iscrizione albo dei Consulenti Tecnici d’Ufficio del tribunale?
Quali sono i requisiti che deve possedere il CTU per iscriversi all’albo? Quali Requisiti servono per l’iscrizione all’albo dei CTU?
Quest’ultima è la principale domanda che molti professionisti aspiranti Consulenti Tecnici d’Ufficio si chiedono per entrare a far parte del relativo Albo d’Iscrizione.
Ecco dunque come si diventa CTU e chi può iscriversi all’Albo dei Consulenti Tecnici d’Ufficio:
possesso di diploma o di laurea (anche se per talune consulenze molto specialistiche può valere una comprovata esperienza);
chiunque abbia competenza specifica in un determinato ambito tecnico purché iscritto al relativo Collegio o Ordine Professionale da almeno tre anni;
il professionista che abbia la preparazione e i titoli idonei ad effettuare l’attività di consulente, tecnico che dovrà sostanzialmente autocertificare;
non è necessario certificare la competenza specifica del CTU con corsi o specializzati forense pur essendo fortemente consigliata per via della delicatezza del ruolo che si dovrà coprire.
Numerosi sono i corsi dedicati alla formazione per i CTU, ma pur non essendo un requisito cogente è bene sapere che il CTU ricopre il ruolo di pubblico ufficiale nell’ambito dello svolgimento dell’incarico ricevuto dal Giudice, con tutte le responsabilità civili e penali che ne conseguono.
Per quanto possa apparire complesso, il lavoro del CTU consente al professionista di esprimere e mettere in pratica le competenze tecniche acquisite nel tempo a cui è bene che affianchi anche competenze forensi e di diritto civile e penale ode evitare di incappare in sanzioni e/o richieste risarcitorie.
Tramite un corso su come diventare CTU, si può apprende il modus operandi, nonché si impara ad utilizzare gli strumenti del mestiere, tra cui ad esempio le procedure del Processo Civile Telematico, come si redigono i verbali delle operazioni peritali, come si redige un perizia corretta in veste di CTU, ecc.. (di tutto questo parleremo anche nel nostro blog e nel forum dedicato ai CTU). Conoscenze che prepareranno il ‘mezzo’ per utilizzare correttamente in ambito forense le capacità tecniche e le conoscenze professionali che già possiedi.
N.B.: Gli aspiranti CTU appartenenti a categorie non sono organizzate in ordini o collegi professionali, devono effettuare l’iscrizione all’albo dei Periti e degli Esperti tenuto dalla Camera di Commercio
Come si diventa CTU del Tribunale?
Quali sono le modalità da seguire una volta saputo come diventare CTU?
L’iscrizione nell’Albo dei Consulenti Tecnici o Periti del Giudice può essere richiesta mediante domanda da presentarsi al Presidente del Tribunale, nella cui circoscrizione risiede l’aspirante risiede o dove ha il domicilio professionale.
La domanda deve contenere la dichiarazione di iscrizione all’ordine professionale o alla Camera di Commercio, l’indicazione della Categoria e delle specialità prescelte.
È bene inserire anche una molto concisa descrizione delle attività svolte in cui si è specializzati, non più di una cinquantina di parole.
Per le categorie non previste dagli ordini professionali è necessaria la previa iscrizione nell’albo dei Periti e degli Esperti, tenuto dalla Camera di Commercio.
Il modello per l’iscrizione all’albo dei CTU è bene scaricarlo direttamente dal sito del Tribunale a cui si dovrà consegnare.
Per alcuni Tribunali è possibile che prevedano che la domanda per l’iscrizione all’albo dei CTU debba essere inoltrata online.
Al termine della procedura di iscrizione online, il candidato dovrà stampare la domanda generata dal programma, regolarizzandola con l’apposizione di una marca da bollo da € 16, provvedendo a depositarla in Tribunale presso l’Ufficio Volontaria Giurisdizione (la domanda va presentata unitamente a: fotocopia del documento di identità e del codice fiscale; curriculum vitae firmato con l’indicazione della propria mail/posta elettronica certificata PEC che è fondamentale; titoli e documenti vari per dimostrare la speciale competenza tecnica e l’esperienza professionale acquisita ndr).
Quanto costa diventare Consulente Tecnico D’ufficio del Tribunale?
In questa breve guida su come si diventa CTU, non poteva mancate l’argomento dei costi per diventare CTU.
Fortunatamente possiamo dire che l’iscrizione all’Albo dei CTU non prevede alcuna tassazione o quota d’iscrizione annuale, al contrario di quanto avviene per i Collegi ed Ordini professionali.
Per quanto riguarda gli aspetti economici essi sono relativi alla sola procedura di prima iscrizione dobbiamo che contemplano: una marca da bollo da 16,00 euro da allegare all’istanza di iscrizione, dopo di che, solo in caso di accoglimento della domanda di iscrizione all’albo dei CTO o dei PERITI, bisognerà effettuare il pagamento dell’importo di 168,00 euro da effettuarsi mediante bollettino postale sul c.c. n. 8003, intestato all’Agenzia delle Entrate- Centro Operativo di Pescara- tasse di concessione governative (il mancato pagamento della tassa preclude l’effettiva iscrizione all’albo dei consulenti tecnici ndr).
Quanto guadagna un CTU?
Essendo una opportunità di lavoro da affiancare alla propria professione è chiaro che l’argomento su quanto guadagna un CTU non può che interessare molti, tuttavia la risposta non è semplice e comunque è da considerarsi molto variabile in quanto il guadagno del CTU, oltre ad essere legato al numero di incarichi ricevuti è anche fortemente dipendente dal tipo di incarico che riceve, dal valore economico delle cause in cui è richiesto il suo parere tecnico e di conseguenza tutto di pende da quanto è bravo il CTU nello svolgimento della sua professione o comunque di come riesce ad interagire con i suoi committenti ovvero i Giudici.
Va anche detto che molti bravi CTU vengono spesso incaricati da parte dei committenti privati quali Consulente Tecnico di Parte esperto.
Periti e consulenti tecnici e iscrizione all'albo. Da Giustizia.it. Il consulente tecnico d’ufficio (C.T.U) è la figura professionale, prevista dall’ordinamento, dal quale il giudice o la parte può farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo.
In materia penale si dice consulente tecnico il consulente di parte, mentre l’esperto nominato dal giudice si dice perito.
Presso i tribunali è istituito l’albo dei consulenti tecnici in materia civile e quello dei periti in materia penale.
Ai CTU e ai periti spetta un compenso. La liquidazione è effettuata con decreto di pagamento, motivato, del magistrato che procede.
L’albo dei consulenti tecnici del giudice è istituito presso ogni tribunale.
Se il giudice ha bisogno di particolari accertamenti, può farsi assistere da esperti, consulenti tecnici in ambito civile e periti in ambito penale, iscritti all’albo.
L'albo è tenuto dal presidente del tribunale e tutte le decisioni relative all'ammissione all'albo sono prese da un comitato da lui presieduto e composto dal procuratore della Repubblica e da un professionista iscritto nell'albo professionale, designato dal Consiglio dell'ordine o dal collegio della categoria a cui appartiene chi richiede l'iscrizione.
Albo dei consulenti tecnici d’ufficio in materia civile
L’albo è tenuto dal presidente del tribunale e tutte le decisioni relative all'ammissione sono prese da un comitato da lui presieduto e composto dal procuratore della Repubblica e da un professionista iscritto nell'albo professionale, designato dal Consiglio dell'ordine o dal collegio della categoria a cui appartiene chi richiede l'iscrizione.
L’albo dei CTU è diviso in categorie e vi sono sempre comprese la categoria medico-chirurgica, industriale, commerciale, agricola, bancaria, assicurativa.
Ogni quattro anni il comitato procede ad una revisione dell’albo per eliminare i consulenti per i quali è venuto meno uno dei requisiti previsti per l’iscrizione o è intervenuto un impedimento a esercitare l’ufficio.
Per ottenere l’iscrizione è necessario essere in possesso di una speciale competenza tecnica in una determinata materia, essere di condotta morale specchiata ed essere iscritti nelle rispettive associazioni professionali.
Non si può essere iscritti in più di un albo.
I giudici che hanno sede nella circoscrizione di un determinato tribunale devono normalmente affidare gli incarichi ai CTU iscritti nell’albo dello stesso tribunale.
Il giudice però, trattandosi di un ausilio tecnico per il quale è fondamentale il rapporto fiduciario, ha la facoltà di nominare anche esperti non compresi nell'albo del tribunale, o persona non iscritta in alcun albo, ma deve motivare la scelta.
Albo dei periti in materia penale
L’albo è tenuto dal presidente del tribunale e tutte le decisioni relative all'ammissione sono prese da un comitato da lui presieduto e composto dal procuratore della Repubblica, dal presidente del consiglio dell’ordine forense, dal presidente dell’ordine o del collegio a cui appartiene la categoria di esperti o da loro delegati. Il comitato decide sulle richieste di iscrizione e di cancellazione.
L’albo è diviso in categorie. Sono sempre previste le categorie di esperti in medicina legale, psichiatria, contabilità, ingegneria e relative specialità, infortunistica del traffico e della circolazione stradale, balistica, chimica, analisi e comparazione della grafia.
Il comitato provvede alla revisione dell’albo ogni due anni. A seguito della revisione vengono cancellati gli iscritti per i quali è venuto meno uno dei requisiti previsti per l’iscrizione (art. 69 norme att. cpp) o è sorto un impedimento a esercitare l’ufficio di perito.
PERITO FONICO TRASCRITTORE IN AMBITO FORENSE
Periti e consulenti tecnici
(Norme att. coord. e trans. c.p.p. art. 69)
Il nuovo Codice di Procedura Penale all’articolo 221 prevede che il Giudice nomini il perito scegliendolo tra iscritti negli appositi Albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina. Dalla nuova normativa emerge l’esigenza che le indagini peritali vengano svolte da persone fornite di particolare competenze iscritte in Albi che ricalchino quelli dei consulenti tecnici, idonei a soddisfare il reperimento di esperti ai quali affidare gli incarichi.
Capo VI
Perizia
Art. 220.
Oggetto della perizia.
1. La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche.
2. Salvo quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche.
Art. 221.
Nomina del perito.
1. Il giudice nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina. Quando la perizia è dichiarata nulla, il giudice cura, ove possibile, che il nuovo incarico sia affidato ad altro perito.
2. Il giudice affida l'espletamento della perizia a più persone quando le indagini e le valutazioni risultano di notevole complessità ovvero richiedono distinte conoscenze in differenti discipline.
3. Il perito ha l'obbligo di prestare il suo ufficio, salvo che ricorra uno dei motivi di astensione previsti dall'articolo 36.
Art. 222.
Incapacità e incompatibilità del perito.
1. Non può prestare ufficio di perito, a pena di nullità:
a) il minorenne, l'interdetto, l'inabilitato e chi è affetto da infermità di mente;
b) chi è interdetto anche temporaneamente dai pubblici uffici ovvero è interdetto o sospeso dall'esercizio di una professione o di un'arte ;
c) chi è sottoposto a misure di sicurezza personali o a misure di prevenzione;
d) chi non può essere assunto come testimone o ha facoltà di astenersi dal testimoniare o chi è chiamato a prestare ufficio di testimone o di interprete;
e) chi è stato nominato consulente tecnico nello stesso procedimento o in un procedimento connesso.
Art. 223.
Astensione e ricusazione del perito.
1. Quando esiste un motivo di astensione, il perito ha l'obbligo di dichiararlo.
2. Il perito può essere ricusato dalle parti nei casi previsti dall'articolo 36 a eccezione di quello previsto dal comma 1 lettera h) del medesimo articolo.
3. La dichiarazione di astensione o di ricusazione può essere presentata fino a che non siano esaurite le formalità di conferimento dell'incarico e, quando si tratti di motivi sopravvenuti ovvero conosciuti successivamente, prima che il perito abbia dato il proprio parere.
4. Sulla dichiarazione di astensione o di ricusazione decide, con ordinanza, il giudice che ha disposto la perizia.
5. Si osservano, in quanto applicabili, le norme sulla ricusazione del giudice.
Art. 224.
Provvedimenti del giudice.
1. Il giudice dispone anche di ufficio la perizia con ordinanza motivata, contenente la nomina del perito, la sommaria enunciazione dell'oggetto delle indagini, l'indicazione del giorno, dell'ora e del luogo fissati per la comparizione del perito.
2. Il giudice dispone la citazione del perito e dà gli opportuni provvedimenti per la comparizione delle persone sottoposte all'esame del perito. Adotta tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l'esecuzione delle operazioni peritali.
Art. 224-bis.
Provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale. (1)
1. Quando si procede per delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione nel massimo a tre anni e negli altri casi espressamente previsti dalla legge, se per l’esecuzione della perizia è necessario compiere atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA accertamenti medici, e non vi è il consenso della persona da sottoporre all’esame del perito, il giudice, anche d’ufficio, ne dispone con ordinanza motivata l’esecuzione coattiva, se essa risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti.
2. Oltre a quanto disposto dall’articolo 224, l’ordinanza di cui al comma 1 contiene a pena di nullità:
a) le generalità della persona da sottoporre all’esame e quanto altro valga ad identificarla;
b) l’indicazione del reato per cui si procede, con la descrizione sommaria del fatto;
c) l’indicazione specifica del prelievo o dell’accertamento da effettuare e delle ragioni che lo rendono assolutamente indispensabile per la prova dei fatti;
d) l’avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore o da persona di fiducia;
e) l’avviso che, in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento, potrà essere ordinato l’accompagnamento coattivo ai sensi del comma 6;
f) l’indicazione del luogo, del giorno, e dell’ora stabiliti per il compimento dell’atto e delle modalità di compimento.
3. L’ordinanza di cui al comma 1 è notificata all’interessato, all’imputato e al suo difensore nonché alla persona offesa almeno tre giorni prima di quello stabilito per l’esecuzione delle operazioni peritali.
4. Non possono in alcun modo essere disposte operazioni che contrastano con espressi divieti posti dalla legge o che possono mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute della persona o del nascituro, ovvero che, secondo la scienza medica, possono provocare sofferenze di non lieve entità.
5. Le operazioni peritali sono comunque eseguite nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto. In ogni caso, a parità di risultato, sono prescelte le tecniche meno invasive.
6. Qualora la persona invitata a presentarsi per i fini di cui al comma 1 non compare senza addurre un legittimo impedimento, il giudice può disporre che sia accompagnata, anche coattivamente, nel luogo, nel giorno e nell’ora stabiliti. Se, pur comparendo, rifiuta di prestare il proprio consenso agli accertamenti, il giudice dispone che siano eseguiti coattivamente. L’uso di mezzi di coercizione fisica è consentito per il solo tempo strettamente necessario all’esecuzione del prelievo o dell’accertamento. Si applicano le disposizioni dell’articolo 132, comma 2.
7. L’atto è nullo se la persona sottoposta al prelievo o agli accertamenti non è assistita dal difensore nominato.
(1) Articolo inserito dall’art. 24 della L. 30 giugno 2009, n. 85
Art. 225.
Nomina del consulente tecnico.
1. Disposta la perizia, il pubblico ministero e le parti private hanno facoltà di nominare propri consulenti tecnici in numero non superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti.
2. Le parti private, nei casi e alle condizioni previste dalla legge sul patrocinio statale dei non abbienti, hanno diritto di farsi assistere da un consulente tecnico a spese dello Stato.
3. Non può essere nominato consulente tecnico chi si trova nelle condizioni indicate nell'articolo 222 comma 1 lettere a), b), c), d).
Art. 226.
Conferimento dell'incarico.
1. Il giudice, accertate le generalità del perito, gli chiede se si trova in una delle condizioni previste dagli articoli 222 e 223, lo avverte degli obblighi e delle responsabilità previste dalla legge penale e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: «consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo nello svolgimento dell'incarico, mi impegno ad adempiere al mio ufficio senza altro scopo che quello di far conoscere la verità e a mantenere il segreto su tutte le operazioni peritali».
2. Il giudice formula quindi i quesiti, sentiti il perito, i consulenti tecnici, il pubblico ministero e i difensori presenti.
Art. 227.
Relazione peritale.
1. Concluse le formalità di conferimento dell'incarico, il perito procede immediatamente ai necessari accertamenti e risponde ai quesiti con parere raccolto nel verbale.
2. Se, per la complessità dei quesiti, il perito non ritiene di poter dare immediata risposta, può chiedere un termine al giudice.
3. Quando non ritiene di concedere il termine, il giudice provvede alla sostituzione del perito; altrimenti fissa la data, non oltre novanta giorni, nella quale il perito stesso dovrà rispondere ai quesiti e dispone perché ne venga data comunicazione alle parti e ai consulenti tecnici.
4. Quando risultano necessari accertamenti di particolare complessità, il termine può essere prorogato dal giudice, su richiesta motivata del perito, anche più volte per periodi non superiori a trenta giorni. In ogni caso, il termine per la risposta ai quesiti, anche se prorogato, non può superare i sei mesi.
5. Qualora sia indispensabile illustrare con note scritte il parere, il perito può chiedere al giudice di essere autorizzato a presentare, nel termine stabilito a norma dei commi 3 e 4, relazione scritta.
Art. 228.
Attività del perito.
1. Il perito procede alle operazioni necessarie per rispondere ai quesiti. A tal fine può essere autorizzato dal giudice a prendere visione degli atti, dei documenti e delle cose prodotti dalle parti dei quali la legge prevede l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento.
2. Il perito può essere inoltre autorizzato ad assistere all'esame delle parti e all'assunzione di prove nonché a servirsi di ausiliari di sua fiducia per lo svolgimento di attività materiali non implicanti apprezzamenti e valutazioni.
3. Qualora, ai fini dello svolgimento dell'incarico, il perito richieda notizie all'imputato, alla persona offesa o ad altre persone, gli elementi in tal modo acquisiti possono essere utilizzati solo ai fini dell'accertamento peritale.
4. Quando le operazioni peritali si svolgono senza la presenza del giudice e sorgono questioni relative ai poteri del perito e ai limiti dell'incarico, la decisione è rimessa al giudice, senza che ciò importi sospensione delle operazioni stesse.
Art. 229.
Comunicazioni relative alle operazioni peritali.
1. Il perito indica il giorno, l'ora e il luogo in cui inizierà le operazioni peritali e il giudice ne fa dare atto nel verbale.
2. Della eventuale continuazione delle operazioni peritali il perito dà comunicazione senza formalità alle parti presenti.
Art. 230.
Attività dei consulenti tecnici.
1. I consulenti tecnici possono assistere al conferimento dell'incarico al perito e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve, delle quali è fatta menzione nel verbale.
2. Essi possono partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve, delle quali deve darsi atto nella relazione.
3. Se sono nominati dopo l'esaurimento delle operazioni peritali, i consulenti tecnici possono esaminare le relazioni e richiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa e il luogo oggetto della perizia.
4. La nomina dei consulenti tecnici e lo svolgimento della loro attività non può ritardare l'esecuzione della perizia e il compimento delle altre attività processuali.
Art. 231.
Sostituzione del perito.
1. Il perito può essere sostituito se non fornisce il proprio parere nel termine fissato o se la richiesta di proroga non è accolta ovvero se svolge negligentemente l'incarico affidatogli.
2. Il giudice, sentito il perito, provvede con ordinanza alla sua sostituzione, salvo che il ritardo o l'inadempimento sia dipeso da cause a lui non imputabili. Copia dell'ordinanza è trasmessa all'ordine o al collegio cui appartiene il perito.
3. Il perito sostituito, dopo essere stato citato a comparire per discolparsi, può essere condannato dal giudice al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da euro 154 a euro 1.549.
4. Il perito è altresì sostituito quando è accolta la dichiarazione di astensione o di ricusazione.
5. Il perito sostituito deve mettere immediatamente a disposizione del giudice la documentazione e i risultati delle operazioni peritali già compiute.
Art. 232.
Liquidazione del compenso al perito.
1. Il compenso al perito è liquidato con decreto del giudice che ha disposto la perizia, secondo le norme delle leggi speciali.
Art. 233.
Consulenza tecnica fuori dei casi di perizia.
1. Quando non è stata disposta perizia, ciascuna parte può nominare, in numero non superiore a due, propri consulenti tecnici. Questi possono esporre al giudice il proprio parere, anche presentando memorie a norma dell'articolo 121.
1-bis. Il giudice, a richiesta del difensore, può autorizzare il consulente tecnico di una parte privata ad esaminare le cose sequestrate nel luogo in cui esse si trovano, ad intervenire alle ispezioni, ovvero ad esaminare l'oggetto delle ispezioni alle quali il consulente non è intervenuto. Prima dell'esercizio dell'azione penale l'autorizzazione è disposta dal pubblico ministero a richiesta del difensore. Contro il decreto che respinge la richiesta il difensore può proporre opposizione al giudice, che provvede nelle forme di cui all'articolo 127.
1-ter. L'autorità giudiziaria impartisce le prescrizioni necessarie per la conservazione dello stato originario delle cose e dei luoghi e per il rispetto delle persone.
2. Qualora, successivamente alla nomina del consulente tecnico, sia disposta perizia, ai consulenti tecnici già nominati sono riconosciuti i diritti e le facoltà previsti dall'articolo 230, salvo il limite previsto dall'articolo 225 comma 1.
3. Si applica la disposizione dell'articolo 225 comma 3.
TRASCRIZIONE REGISTRAZIONI
L’attività di trascrizione consiste nel trasformare/convertire un file audio in testo (spesso nota anche come “sbobinatura”) ed è l’attività principale svolta dal Perito Trascrittore.
Il trascrittore può lavorare a diversi procedimenti giudiziari, sia in ambito civile che penale sia per scopi extragiudiziari (ad esempio per la stesura di Verbali di Consigli); di norma viene richiesta la trascrizione di file audio, conversazioni provenienti da intercettazione telematica, ambientale o video.
Perizia di Trascrizionedalchecco.it/
Attività di perizia fonica di trascrizione forense di intercettazioni telefoniche e ambientali, registrazioni digitali o analogiche, interrogatori o testimonianze, file audio e sbobinature nastri per fini di giustizia, dibattimentali o come consulenza tecnica di parte, eventualmente per indagine difensiva.
Le perizie di trascrizione giudiziaria di file audio possono essere realizzate anche in caso di registrazioni con rumori, disturbi e fruscii che rendano difficile la comprensione del parlato, a patto in genere che il rapporto segnale/rumore non sia inferiore ai 10dB, soglia che conferisce attendibilità alla comprensione percettiva. In caso di rapporto segnale/rumore SNR inferiore ai 10 dB, la perizia di trascrizione non potrà essere considerata attendibile e in fase di analisi del caso e preventivo gratuito del costo si consiglierà al cliente di non procedere con l’attività o d’integrarla con un’attività di pulizia della registrazione da disturbi e fruscii se il segnale è comunque intellegibile.
Le trascrizioni di registrazioni – o fonotrascrizioni – vengono spesso richieste in casi di concorrenza sleale, violazione di patti di non concorrenza, dipendente infedele, coniuge infedele, licenziamenti per giusta causa o impugnabili, incidenti aerei o navali nei quali sono state campionate le tracce radio, etc…
Nel caso in cui venisse richiesta trascrizione audio registrato tramite cellulare o smartphone, sia ambientali sia di telefonate in particolare se a fini giudiziari, si suggerisce di eseguire un’acquisizione forense della registrazione dal telefonino prima di procedere alla trascrizione del file. La copia forense della sorgente della registrazione audio (telefonino, registratore digitale, analogico, pendrive USB, microspia o cimice con MicroSD, etc…) avvalora la perizia di trascrizione integrandola con la catena di conservazione dei reperti ed è utile in particolare quando la trascrizione verrà utilizzata come prova giudiziaria in Tribunale o Procura, ad esempio per sporgere denuncia o querela.
La verbalizzazione delle parole e delle frasi pronunciate nelle registrazioni da parte del perito trascrittore forense che opera per la Procura o il Tribunale ma anche per Avvocati, privati o Aziende può avvenire anche in caso di parlato dialettale o in lingua straniera (es. inglese, francese, rumeno, albanese, russo, tedesco, etc…). In tal caso verranno coinvolti nella trascrizione di registrazione in dialetto o lingua straniera collaboratori fidati periti trascrittori della zona d’interesse, esperti nei dialetti o nelle lingue da trascrivere, per poter conferire maggiore attendibilità al riconoscimento del parlato.
Se richiesto, verrà eseguita a pagamento da parte di periti fonici trascrizione giurata e asseverata in Tribunale dei file audio forniti con la registrazione da trascrivere, che si tratti di telefonata o intercettazione audio ambientale, previa verifica di fattibilità, costi e tempi di realizzazione. Le trascrizioni giurate e asseverate prevedono un’integrazione di costo che comprende il costo delle marche da bollo da apporre sulla perizia oltre al tempo necessario al professionista perito trascrittore per eseguire di persona il giuramento e l’asseverazione in Tribunale. Precisiamo che anche la perizia non asseverata contenente sbobinatura di registrazione è comunque utilizzabile in ambito giudiziario e legalmente utilizzabile in Tribunale in cause civili e penali.
Non viene utilizzato nessun tipo di trascrizione automatica o software di trascrizione e sbobinatura da parte del perito fonico trascrittore: il costo per la fonotrascrizione audio delle parole e delle frasi pronunciate viene utilizzato interamente per il personale esperto e i periti fonici che eseguono l’attività di sbobinamento del testo presente nelle conversazioni, nelle intercettazioni ambientali o telefoniche.
Al perito fonico forense può essere richiesta la trascrizione vocale di video e tracce audio contenute in filmati o registrazioni eseguite con videocamera o fotocamera, anche con videocamere di sorveglianza se è stata abilitata la registrazione audio ambientale. Per la trascrizione audio da video valgono le stesse condizioni e gli stessi prezzi di quella vocale da registrazione contenente registrazioni, intercettazioni telefoniche o ambientali. Anche in questo caso è consentito l’utilizzo delle trascrizioni in Procura o Tribunale, nel processo civile o penale, anche in via stragiudiziale.
Non è possibile stilare un listino prezzi e tariffe per l’attività di trascrizione forense di registrazione e digitalizzazione dei testi da parte del perito fonico trascrittore, anche se per fornire un costo di massima per le trascrizioni foniche, si può considerare per file audio di qualità media un prezzo di € 20 a cartella di 25 righe per 60 caratteri, considerando che in una registrazione audio di un’ora mediamente è possibile trascrivere il parlato riversandolo in una settantina di cartelle.
Per avere un preventivo gratuito di stima dei costi per le trascrizioni delle registrazioni suggeriamo di contattarci. Potete però farvi un’idea del costo di una perizia di trascrizione, considerando una spesa che oscilla tra € 15 ed € 30 + IVA al minuto, in base alla qualità della registrazione da convertire e sbobinare in testo scritto e al numero di voci parlanti nella conversazione, sia essa telefonica o ambientale.
Il costo minimo per la perizia trascrittiva senza asseverazione/giuramento in Tribunale è di € 800 + IVA, anche se per pochi minuti di audio. La perizia di trascrizione giurata e asseverata in Tribunale da parte del perito fonico forense ha un costo maggiore, come illustrato sopra, dovuto all’integrazione di € 400 + IVA oltre alle marche da bollo (€ 16,00 ogni 4 pagine, € 3,84 per la richiesta asseveramento ed € 0,62 per ogni eventuale allegato).
Nel caso in cui la qualità del parlato non fosse buona e quindi si dimostrasse necessario un filtraggio con pulizia della registrazione da disturbi o fruscii, oppure se nel file si sentono più di due voci parlanti o se le parole sono in dialetto o lingua straniera, il costo della trascrizione audio da parte del perito fonico trascrittore verrà integrato con il costo dell’attività di pulizia della traccia audio che verrà preventivato in base alla qualità del suono, al volume delle voci, le tariffe d’ingaggio di un nativo/esperto della lingua o del dialetto utilizzati nel parlato. Anche in questo caso, otterrete gratis da parte dell’esperto fonico un preventivo per la trascrizione, previo invio allo Studio della registrazione o di un campione significativo su cui eseguire una pre-analisi del suono, del rapporto segnale/rumore e del parlato.
Dea Center sas - Salice Salentino (Lecce) è un Istituto di formazione professionale accreditato dalla Regione Puglia con D.D. 210 del 28-03-2013.
Tecnico dei Servizi Giudiziari, Attestato di Qualifica Professionale.
Corso di formazione per l'acquisizione della certificazione di Tecnico dell'Analisi e Trascrizione di Segnali Fonici e di Gestione della Perizia di Trascrizione in Ambito Forense, svolto presso Dea Center sas (Organismo di Formazione Professionale riconosciuto da Regione Puglia e Provincia di Lecce).
Modulo di studio:
Stenotipia computerizzata
Diritto
Diritto Penale e Procedura Penale
Igiene e Sicurezza sul lavoro
Ragioneria
Psicologia
Comunicazione interpersonale
Trascrizione di segnali fonetici
Grammatica italiana
Linguistica Forense
Analisi linguistica del parlato
Criminologia
Semantica
Dialettologia italiana
Fonetica e Fonologia
Informatica
Stage.
La figura del “Perito Fonico Forense”
Oggi l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche ed ambientali è uno degli strumenti più efficaci a disposizione degli investigatori. Eppure, mentre si investono capitali nel miglioramento della tecnologia delle intercettazioni, nulla si fa per aumentare la professionalità di chi le intercettazioni le trascrive e le analizza, alla ricerca degli elementi di prova contenuti nei dialoghi registrati.
Non esiste infatti un albo dei periti fonici forensi e non esiste un percorso universitario atto a formare una figura professionale specifica dalle competenze certe. Inoltre i periti fonici, il cui operato è così importante per gli esiti dei processi, vengono sottopagati dallo Stato, con un compenso di circa 4 euro lordi l’ora.
Le trascrizioni delle intercettazioni: una terra senza regole e garanzie. Da filodiritto.com 8 Maggio 2020
Gran Bazar
L’uso delle intercettazioni nel campo delle indagini è lo strumento tecnico più diffuso di ricerca della prova. Molteplici sono le sentenze che si basano sugli esiti delle intercettazioni e delle perizie foniche. La magistratura, inquirente e giudicante, indica le intercettazioni quale strumento imprescindibile per la lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione ed ai reati dei colletti bianchi.
Ma quali metodologie vengono seguite dai periti trascrittori, al fine di garantire la genuinità e la corrispondenza dell’elaborato alla realtà registrata? Alla domanda non c’è risposta, in quanto i Tribunali italiani procedono in ordine sparso senza una regola comune.
In primo luogo, si dovrebbe regolamentare la categoria dei periti o dei tecnici e le regole che governano la loro nomina.
Il secondo aspetto, forse più importante è l’assenza di protocolli scientifici da impiegare nelle aule di Tribunale per garantire una procedura di valutazione conforme ai risultati trascrittivi delle registrazioni sia nell’ambito di identificazione del parlatore e sia nell’ambito delle semplici trascrizioni di conversazioni.
La frequentazione delle aule del Tribunale di Roma ci porta ad affermare che si procede in ordine sparso in merito all’identificazione del parlatore, ci sono magistrati che nel conferire l’incarico peritale richiedono di utilizzare un preciso metodo ed altri, la maggioranza, lasciano piena libertà di scelta al Consulente o al Perito.
Gli errori giudiziari sono dietro l’angolo, quando si procede senza una base scientifica comprovata e senza accertarsi che la tecnica utilizzata sia replicabile a testata.
Senza voler fare strumentali polemiche si riportano due casi giudiziari: nell’estate del 2010 la Procura della Repubblica di Milano - DDA richiese ed ottenne 160 ordinanze di custodia cautelare, nell’inchiesta contro la ndrangheta “Infinito”.
Tra gli arrestati, anche l’ex direttore della Asl di Pavia e un assessore comunale al commercio. L’accusa è di aver versato 2.000 euro per l’acquisto di voti alle elezioni comunali di Pavia.
L’ordinanza di custodia cautelare si basa sulle intercettazioni telefoniche, la stampa riporta virgolettate le frasi captate, tra le quali: “ho comprato i due voti” e “rischiamo un po’ troppo”.
In realtà, le espressioni corrette risultanti da una nuova perizia trascrittiva, disposta in dibattimento, risulteranno essere: “ho contato i suoi voti” e “adesso chiamo Luca Tronconi”.
In buona sostanza, dallo stesso testo fonico sono derivate due “trascrizioni integrali” diametralmente opposte ai fini giudiziari.
La vicenda si conclude con la sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, emessa dal Tribunale di Pavia del 12 ottobre 2011.
Negli Stati Uniti la celebre sentenza Daubert nel 1993 ha segnato uno spartiacque e da allora il Giudice "prima di accettare un lavoro peritale, deve accertare che la teoria o la tecnica utilizzata sia replicabile a testata, che la stessa teoria o tecnica sia stata pubblicata e accettata da ricercatori del settore e che l’errore potenziale venga chiaramente riportato e che la tecnica utilizzata sia accettata dalla comunità scientifica" Luciano Romito, La competenza linguistica nelle perizie di trascrizione e di identificazione del parlatore.
La comparazione fonetica necessita di un protocollo metodologico comune, il quale abbia una base di consenso larga e scientifica.
I Giudici e gli avvocati e in primis i periti fonici devono comprendere che la fonetica e la linguistica forense sono delle scienze da inserire nella criminalistica.
I periti fonici devono uniformarsi ai criteri scientifici e il Giudicante e gli avvocati devono pretendere ed esseri consapevoli della necessità di utilizzare parametri e regole univoche sui dati da estrapolare, sulle metodologie di estrapolazione delle misure, sulla statistica da utilizzare ed infine sulla formulazione delle risposte da fornire.
Tali raccomandazioni sarebbero ancora più impellenti per la Polizia Giudiziaria, un caso emblematico passato sotto silenzio riguarda le trascrizioni di una intercettazione ambientale operata, all’interno di un Bar di Messina, da alcuni ispettori della DIA.
Nel corso del processo, emerse che quanto trascritto non corrispondeva minimamente a quanto registrato nella bobina depositata in atti. I Giudici stabilirono che le trascrizioni non avrebbero dovuto essere effettuate data la cattiva qualità del sonoro, che non permetteva di verificare quanto registrato.
Anche nell’ambito delle semplici trascrizioni di conversazioni captate, la maggioranza dei giudici richiede la trascrizione direttamente in lingua italiana lasciando che l’incaricato effettui una doppia traduzione dialetto-italiano e orale-scritto ed una personale interpretazione dell’eloquio e quindi dei fatti.
Sono tanti gli innocenti che hanno visto la loro vita segnata dagli errori nelle individuazioni fonetiche o nelle trascrizioni delle intercettazioni, sono molteplici i casi accertati dal sito ErroriGiudiziari.com ove sono registrate circa 800 storie di vittime di mala giustizia.
Appare sempre più impellente, stante l’inerzia del Legislatore, che gli addetti ai lavori prendano coscienza della necessità di attrezzarsi culturalmente e scientificamente al fine di poter interpretare sia i dati che i risultati di una comparazione fonica o di qualunque altra analisi effettuata sulla voce in ambito forense.
Nell’ambito delle attività di studio ed analisi della Commissione di Linguistica e processo, della Camera penale di Roma, abbiamo redatto un questionario che stiamo diffondendo a tutti i trascrittori e periti del Tribunale di Roma.
Le risposte al questionario ci permetteranno di tracciare, per la prima volta in Italia, una statistica precisa sulle competenze e le metodologie utilizzate sul campo delle trascrizioni.
Al fine di redigere un protocollo scientifico per uniformare le metodiche trascrittive, onde eliminare gli errori che costano la libertà a centinaia di persone.
INTERCETTAZIONI di USKY EMILIA AUDINO.
Quando il perito è al soldo dei clan. La brutta storia delle trascrizioni infedeli su La Repubblica il 23 aprile 2013
Il delicato ruolo dei tecnici incaricati di riportare i colloqui delle persone indagate può alterare i risultati di un'inchiesta. Un danno ingente per l'economia della Giustizia. Le pressioni della criminalità sugli onorari non sempre all'altezza della professionalità richiesta
Per anni è stata una persona di fiducia della Procura di Palmi, Roberto Crocitta. Era il fidato perito trascrittore incaricato di ascoltare e poi trascrivere le intercettazioni dei procedimenti penali che riguardavano le cosche di 'Ndrangheta più note della Piana di Gioia Tauro: i Pesce, i Bellocco, i Gallico. Fino all'8 gennaio di quest'anno, data del suo arresto per favoreggiamento aggravato. Sul tavolo della Procura le indagini della polizia giudiziaria che ha analizzato le trascrizioni di Crocitta, ora agli arresti domiciliari in attesa del processo, e le ha trovate difformi dalle intercettazioni originali. E le diversità andavano tutte a vantaggio delle difese degli imputati per associazione mafiosa e reati connessi. Piccole e sapienti modifiche, come il cambio di una consonante, andavano a modificare il significato di una frase: "così li prendevamo tutti e due in una volta..." diventava "così li prendevano tutti e due in una volta...". In questo modo veniva ostacolata la contestazione di un capo di imputazione grave. Il diavolo è nei particolari, si sa.
Cronaca giudiziaria di provincia o spia di un allarme più generale su certi risparmi nella giustizia? In questo caso si è arrivati a un arresto. Ma cosa succede quando chi deve controllare non controlla? Quale trafila fanno le intercettazioni prima di arrivare in tribunale come fonte di prova? Dopo aver parlato per anni di "intercettazioni sì e intercettazioni no", si può passare alla domanda successiva: chi le trascrive? quante volte le stesse intercettazioni vengono trascritte? e soprattutto come si controlla la fedeltà di un'intercettazione?
La domanda non è peregrina per diverse ragioni. La prima è che le intercettazioni telefoniche e ambientali, e quindi le loro trascrizioni, costituiscono le fondamenta di molti procedimenti penali, soprattutto in terra di clan, ma non solo. Una parola trascritta bene o trascritta male può ribaltare un'ipotesi d'accusa, può fare la differenza tra condanna o assoluzione. La seconda è che esistono diverse figure che hanno il compito istituzionale di trascrivere la stessa intercettazione, producendo anche trascrizioni difformi tra loro. E questo significa una cosa sola: il problema della fedeltà all'originale esiste, come ha valutato anche la Corte di Cassazione, seconda sezione penale, con la sentenza del 6 luglio 2011, prevedendo che il supporto fonico delle intercettazioni debba essere dato alla difesa prima del processo. Pena "l'illegittima compressione del diritto di difesa". La terza è che se le trascrizioni finiscono sulla stampa, è lecito chiedersi quale versione arrivi alla pubblicazione e come si possa vigilare sulla sua fedeltà. Anche in questo caso, le trascrizioni infedeli possono azzerare la credibilità pubblica di una persona.
Ecco come funziona: le intercettazioni, tutte necessariamente e preventivamente autorizzate dall'autorità giudiziaria, vengono trascritte in fase di indagine dalla polizia giudiziaria che poi le consegna ai magistrati competenti. In una seconda fase, preliminare al processo, le stesse intercettazioni vengono affidate dal giudice terzo a un perito che le trascrive per suo conto (CTU), mentre i pubblici ministeri e gli avvocati della difesa affidano, ciascuno, gli stessi supporti fonici originali ai propri periti di parte (CTP). In conclusione si avranno 4 versioni della stessa intercettazione.
Se allora l'atto della trascrizione non è una questione secondaria, chi sceglie i periti trascrittori e sulla base di quale criterio? In Italia non esiste una professione riconosciuta di perito trascrittore in ambito forense, non esiste un albo. Mentre i periti scelti in ambito forense per consulenze di vario genere, devono essere scelti dai magistrati all'interno dei diversi albi professionali, nel caso del perito che trascrive non è richiesta alcuna specifica preparazione. Questa lacuna che conseguenze ha? La prima è che il trattamento economico è a dir poco modesto.
Per il Testo Unico 115/2002 : "gli onorari sono commisurati al tempo impiegato e vengono determinati in base alle vacazioni. La vacazione (cioè l'unità di tempo) e? di due ore". L'onorario della vacazione e? di € 8,15. Ma la legge dice anche un'altra cosa: un giudice non può commissionare più di 4 vacazioni al giorno. In sintesi: lavorando 8 ore si prende in media 32 euro a giornata, cioè intorno ai 4 euro/l'ora lordi. Una miseria in rapporto alla delicatezza del compito. "Soprattutto se si immagina che il compenso è soggetto alla discrezionalità del magistrato che può decurtarne una parte e che i soldi arriveranno dalla Corte d'Appello anche dopo 2 o 3 anni dalla consegna del lavoro", racconta Francesco Cellini, perito trascrittore da oltre vent'anni. "Lo faccio perché ci credo", aggiunge un altro perito che ascolta le intercettazioni in inglese, francese e spagnolo per conto della Procura di Reggio Calabria, "ma economicamente è un suicidio".
E non è tanto una questione sindacale. Il punto è: quanto ci costa la possibilità di avere persone in ruoli chiave che siano facilmente corruttibili? Quanto ci costa in termini sociali oltre che economici? Secondo le indagini Roberto Crocitta sarebbe stato corrotto per una cifra inferiore ai 500 euro. Per carità, la corruzione è corruzione. Ma l'amministrazione della Giustizia non dovrebbe considerare che per quanto semplici, lavori delicati come questo, andrebbero retribuiti in modo congruo? Solo un compenso corrispondente alla responsabilità assunta, pensava il legislatore, mette al riparo da tentazioni di corruzione.
Estratto dell’articolo di Fulvio Fiano per il "Corriere della Sera" il 22 febbraio 2023.
La falla nell’ufficio intercettazioni della procura di Roma si allarga fino a contare sei indagati su un totale di quattordici funzionari (poliziotti, carabinieri e finanzieri) addetti all’ascolto delle conversazioni e sbobinatura dei brogliacci. La «talpa» dell’aspirante avvocata Camilla Marianera non era quindi la sola a far uscire informazioni riservate e, contando anche i cinque dipendenti di altri uffici giudiziari perquisiti e i due arresti (oltre alla 27enne, il suo fidanzato Jacopo De Vivo), ecco che il caso assume sempre più i contorni di un preoccupante sistema illecito.
[…] le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo si indirizzano ora su due fronti. Quello sui possibili legami tra i vari uffici coinvolti e quello sul numero di inchieste, recenti o meno recenti, nelle quali sono ravvisabili, almeno in teoria, gli effetti di quanto sta emergendo dal fascicolo dei pm […]
Sul primo punto, insieme ad alcuni indizi, è proprio il funzionamento di questi uffici a far ipotizzare che le richieste di Marianera arrivassero alla talpa con la triangolazione e la complicità di altri funzionari. Questi, nel loro ruolo, legittimavano, almeno formalmente, una procedura altrimenti illecita. Sullo stesso binario, ma con percorso inverso, avrebbero poi viaggiato le notizie che dall’ufficio intercettazioni arrivavano alla 27enne e da lei, tramite il fidanzato, ai soggetti interessati.
Questa accortezza spiegherebbe anche la difficoltà ad identificare finora il principale referente di Marianera nell’ufficio intercettazioni. E giustificherebbe le regalie da poche decine di euro che la stessa praticante era solita fare alle cancellerie della corte d’Appello, del tribunale di Sorveglianza e di quella per la convalida dei sequestri. […] Che il sistema fosse consolidato da almeno due anni (una decina di soggetti si sarebbero rivolti a Marianera tramite De Vivo) lo dicono poi anche alcune anomalie, emerse nel corso di altre indagini: intercettati che improvvisamente smettono di parlare, indagati sotto osservazione che senza motivo cambiano abitudini, microspie trovate a colpo sicuro da soggetti sotto inchiesta che fino a quel momento non sembravano averne sentore. Come se, appunto, qualcuno li avesse informati. […]
Estratto dell’articolo di Andrea Ossino per "la Repubblica - Edizione Roma" il 22 febbraio 2023.
Un’aspirante penalista arrestata insieme al suo fidanzato, cinque dipendenti del tribunale perquisiti e altri sei funzionari dell’ufficio intercettazioni interno alla procura indagati.
Il coinvolgimento di ben tredici persone finite al centro dell’inchiesta sulla fuga di notizie dalla cittadella giudiziaria di piazzale Clodio rivela una voragine nel sistema con cui gli investigatori proteggono le indagini più delicate […]
Già da tempo si sospettava che qualcosa non tornasse. Vecchie e nuove inchieste mostrano tratti anomali e sinistri. Indagati intercettati per mesi che improvvisamente smettono di parlare al telefono, persone pedinate che di colpo non incontrano più nessuno, feroci boss che sanno esattamente dove è piazzata una cimice davanti la loro abitazione e macchine fatte repentinamente bonificare. Ci sono aspetti oscuri che, alla luce dell’indagine sulla talpa in procura, adesso appaiono inquietanti.
Al momento l’enorme falla sulla segretezza è stata sigillata […] Il problema tuttavia non è ancora stato risolto. La talpa, o le talpe, sono ancora in circolazione e presumibilmente lavorano davanti allo stesso computer da cui estraevano informazioni per poi rivelarle agli indagati o a chi era disposto a pagare tra le 300 e le 700 euro, stando a quanto dice Camilla Marianera in un’intercettazione in cui spiega al cliente Luca Giampà, marito di Mafalda Casamonica, di riuscire ad avere notizie direttamente " dall’ufficio dove sbobinano le intercettazioni", dove "trovi la gente con le cuffie".
Il sistema di intercettazioni, in procura, è sostanzialmente dislocato in due diversi uffici.
[…] ci lavorano 14 persone. Sono poliziotti, carabinieri e finanzieri che poi si interfacciano con il personale amministrativo. Tra queste 14 persone 6 nomi sono finiti sul registro degli indagati, sospettati di aver rivelato segreti d’ufficio.
[…] Tra loro, probabilmente, c’è chi, secondo Marianera, sarebbe stato in grado di dirle se un indagato aveva un "gps sotto la macchina", o se era stato "predisposto ocp (servizio di pedinamento ndr) su via, sotto casa" o ancora se "c’ha il telefono sotto controllo".
Notizie importanti rivelate a una ragazza di 29 anni. Se una praticante che non aveva neanche superato l’esame da avvocato è riuscita ad ottenere informazioni così delicate, quanti criminali ben più strutturati saranno venuti a conoscenza di segreti d’indagine? Quanti procedimenti potrebbero essere state danneggiati da una talpa che è ancora in servizio? […]
Rinascita-Scott, denuncia shock di Gratteri: “Perito trascrittore beccato a parlare al bar con imputato ai domiciliari”. Colpo di scena al termine dell'udienza in aula bunker, il capo della Dda: "I periti hanno chiesto la proroga di 24 mesi per la mole di lavoro, ma poi hanno preso altri incarichi dagli avvocati del processo". Tutto filmato dalle telecamere o ricostruito dai post su Facebook. Antonio Capria il 29 Giugno 2021 su catanzaroinforma.it
Un perito incaricato di effettuare le trascrizioni nel processo Rinascita-Scott beccato a conversare al tavolino del bar di fronte all’aula bunker con un imputato agli arresti domiciliari. Tutto ripreso e registrato dalle telecamere di sorveglianza installate in tutta l’area. A denunciarlo il procuratore capo della distrettuale antimafia Nicola Gratteri, arrivato a sorpresa in aula al termine della lunga udienza di oggi.
Il procuratore chiede al collegio di intervenire, ed ecco il colpo di scena. In quasi un quarto d’ora di intervento ricostruisce l’enorme mole di lavoro affidata inizialmente a tre periti trascrittori, poi a cinque: “Il 14 settembre del 2020 nell’aula bunker di Roma abbiamo depositato un elenco di 535 pagine di richieste di intercettazioni telefoniche, di trascrizioni, e un secondo elenco di 83 pagine recanti i progressivi del processo Imponimento. Il 9 novembre 2020 il gup Paris ha conferito l’incarico a tre periti: Vercillo, Nardone, Puccio, per procedere alle trascrizioni di tutte le intercettazioni indicate nei due elenchi, e autorizzava la nomina di due ausiliari per ciascun perito. All’udienza del 3 dicembre 2020 ero presente e mi sono permesso di dire al gup Paris “non basteranno 10 periti”, ma non sono stato ascoltato. Un’intercettazione ambientale di un’ora ci si impiega un giorno per trascriverla”. Il 26 novembre i periti ricevono l’elenco, il 3 dicembre la procura avanza la richiesta di un terzo elenco di 55 pagine, l’8 gennaio con una per il collegio peritale chiede al gup una proroga di 24 mesi “in considerazione della gravità dell’incarico che doveva svolgere”, che il gup rifiuta, autorizzando 38 assistenti.
“Il 23 febbraio 2021 – ricostruisce Gratteri – producevamo un elenco riepilogativo delle trascrizioni secondo un ordine prioritario. In quello stesso giorno incarico veniva esteso da 3 a 5 periti, includendo la dottoressa Morabito e il dottore Scullari. Il 1 giugno 2021 rileviamo che il collegio peritale non stava seguendo l’ordine che il tribunale aveva fissato su richiesta della procura”. Poi la rivelazione clamorosa: “Il primo giugno il pm (Annamaria Frustaci ndr) notava che il perito Nardone era seduto al tavolino del bar con il detenuto agli arresti domiciliari Mario Artusa in violazione delle prescrizioni afferenti al regime detentivo dell’Artusa. All’arrivo della dottoressa Frustaci il perito si sollevava di scatto e scappava, si allontanava velocemente mentre Artusa si dirigeva all’interno del bar. Fermato dal pm il perito non forniva alcuna giustificazione per questa conversazione con il detenuto. Un perito del tribunale era seduto al bar col detenuto, cioè con quello al quale doveva fare la trascrizione. Da alcuni accertamenti fatti dai rilievi di videosorveglianza emergeva questo episodio”.
“Da altri accertamenti – ha aggiunto Gratteri – emergeva che i periti, dopo avere richiesto la proroga di ben 24 mesi per adempiere all’incarico, assumevano altri incarichi, sebbene in altri procedimenti, dai difensori degli stessi imputati cautelati nel processo Rinascita-Scott. Quindi, sono venuti qui i periti a dire che hanno bisogno di 24 mesi perché erano troppe le intercettazioni e non ce la facevano a trascriverle, però assumono incarichi da avvocati che difendono imputati in questo processo”.
“Il 4 giugno del 2021 dalla consultazione di Facebook, la pg accertava un post pubblicato da tale Antonello Elia, in cui si notava una fotografia scattata all’interno dei corridoi della procura di Catanzaro. Il post recava il commento: “La collaborazione tra professionisti garantisce la giusta soluzione. Buon weekend”. La foto ritrae chiaramente Elia Antonio Francesco, l’avvocato De Nicolò Gigliotti Antonietta, difensore dell’imputato D’Urso Onofrio, Vercillo Walter, perito trascrittore delle intercettazioni incaricato dal Tribunale di Vibo Valentia. Ripercorrendo a ritroso, sempre nello stesso profilo Facebook, si potevano rilevare altri ulteriori post: 20 maggio 2021, si vedono in fotografia ci sono Elia Antonio Francesco Walter Vercillo recante ‘il lavoro è passione, impegno e tanti sacrifici, 25 anni di professione’. Il 2 aprile 2021 viene pubblicata una fotografia in cui si riconoscono Antonio Elia, l’avvocato Vincenzo Belvedere, difensori entrambi di Orazio Lo Bianco e Pietro Giamborino, imputati nel processo in corso di svolgimento, nonché nuovamente Walter Vercillo recante lo scritto ‘Grazie all’avvocato Enzo Belvedere per averci scelto come consulenti informatici forensi. Il successo si costruisce con obbiettivi e sacrifici’. Il 25 febbraio 2021 viene pubblicata una fotografia in cui si riconoscono Elia Antonio, Walter Vercillo all’interno dell’aula bunker di Lamezia Terme recante: ‘Passione e lavoro, consulenti forensi presso l’aula bunker di Lamezia Terme’. In quella data, da una relazione di servizio fatta dalla dottoressa Frustaci, si evince che Antonello Elia era presente in aula e si avvicinava alla stessa dottoressa per consegnarle un biglietto da visita dello studio Vercillo per eventuali consulenze di parte. Cioè quelli che non avevano tempo per fare le trascrizioni di Rinascita Scott”.
Alla luce di quanto denunciato Gratteri ha quindi chiesto al Tribunale di Vibo “un’integrazione del collegio peritale, nominando 15-20 periti; di fissare un termine finale per l’esecuzione dell’incarico e il deposito della perizia trascritta e al contempo di istituire un termine mensile per i depositi parziali delle trascrizioni; di chiedere chiarimenti al collegio peritale”. Tra questi verificare con Nardoni quali fossero le ragioni del colloquio con il detenuto agli arresti domiciliari in violazione delle prescrizioni, verificare con Vercillo la natura degli incarichi ricevuti in altri procedimenti da difensori di imputati nel processo Rinascita-Scott, come si evince dai post su Facebook, per valutare se si tratti di procedimenti connessi o collegati a Rinascita-Scott. Gratteri ha chiesto di verificare anche per quale motivo i periti dopo aver chiesto una proroga di 24 mesi hanno accettato altri incarichi, e se i periti siano in grado di ottemperare al mandato ricevuto in tempi compatibili con i termini di custodia cautelare degli imputati.
Il Tribunale collegiale presieduto da Brigida Cavasino ha affermato che aveva già in mente di aumentare il numero dei periti e il prossimo 5 luglio i periti saranno chiamati a chiarire le vicende che li riguardano.
Prestazione occasionale - Cos'è una prestazione occasionale? Da Sumup.com.
Una prestazione occasionale consiste in una collaborazione saltuaria limitata nel tempo e nei guadagni che se ne possono trarre.
Una prestazione occasionale consiste in una fornitura di un servizio saltuaria che non supera i 30 giorni con lo stesso committente e i guadagni di 5.000 euro netti nello stesso anno solare.
Come si riconosce una prestazione occasionale?
Una prestazione si definisce occasionale se:
Non è abituale o continuativa
Non è professionale
Non è coordinata
Per rispettare il requisito dell'occasionalità, infatti, non è possibile che tu promuova la tua attività con un sito internet, come un e-commerce, o in altre forme.
Queste condizioni farebbero dedurre che si tratta di un'attività abituale, coordinata e continuativa.
Come si registra una prestazione occasionale?
Chi effettua una prestazione occasionale è tenuto ad emettere un'apposita ricevuta che contenga:
I dati delle due parti
Il numero del documento e la data di emissione
I guadagni percepiti
La ritenuta d'acconto
Il totale da pagare
Per tutte le prestazioni di importo maggiore di 77,47 euro è necessario allegare una marca da bollo di 2 euro che può essere assolta in via cartacea o virtuale.
Tutti gli anticipi sulle imposte ottenuti attraverso la ritenuta d'acconto possono essere rimborsati con la presentazione della dichiarazione dei redditi che attesta le entrate.
Nel caso in cui il committente sia estero, la ritenuta non va applicata perchè il soggetto estero non può essere sostituto d'imposta ma si incassano solo i compensi lordi.
Che succede se superi il limite?
Se superi uno dei limiti imposti per la natura della prestazione occasionale, sarà necessario registrarsi come professionista per continuare a lavorare aprendo partita IVA e una posizione alla Gestione Separata INPS.
Dovrai inoltre pagare i contributi della quota superiore alla soglia dei 5.000 euro.
Da questo momento in poi, essendo titolare di partita IVA, puoi emettere regolari fatture per certificare i servizi prestati o i beni venduti.
Se lavori con un'azienda questo si traduce in un contratto di collaborazione a progetto.
Prestazioni occasionali e Jobs Act
Il Jobs Act ha abolito i contratti a progetto e le collaborazioni occasionali, è possibile dunque scegliere solo due tipi di contratti:
Lavoro occasionale accessorio
Lavoro autonomo occasionale
Tutti i contratti precedentemente inquadrati come prestazioni occasionali o parasubordinati rientrano nelle relazioni di subordinazione se durano nel tempo, riguardano le caratteristiche del collaboratore che non può essere facilmente sostituito e vengono gestite dal committente.
Apertura partita IVA e iscrizione Gestione separata INPS. Da aiti.org AITI - Associazione Italiana Traduttori e interpreti
Apertura partita IVA
Come previsto dall’art.35 DPR 633/72 ai fini IVA i soggetti che intraprendono nel territorio dello Stato l’esercizio di un’impresa, arte o professione hanno l’obbligo di presentare entro 30 giorni una dichiarazione di inizio attività (modello AA9/12).
Il modello AA9/12 deve essere presentato in duplice esemplare direttamente (o tramite persona delegata) a un qualsiasi ufficio dell’Agenzia delle Entrate.
Il modello può anche essere inviato in unico esemplare a mezzo servizio postale, mediante raccomandata, allegando copia fotostatica di un documento di identificazione del dichiarante (le dichiarazioni si considerano presentate nel giorno in cui risultano spedite). Infine la comunicazione di inizio attività può essere trasmessa in via telematica direttamente dal contribuente o tramite i soggetti incaricati alla trasmissione telematica (Commercialista).
Prestare particolare attenzione al Quadro B se si intende aderire a un regime fiscale agevolato (es. regime forfetario) e al Quadro I se si intende manifestare la volontà di effettuare operazioni intracomunitarie al fine di ottenere l’inclusione nell’Archivio VIES.
Anche nell’ipotesi di un’eventuale variazione dei dati indicati nella dichiarazione iniziale o nel caso di cessazione dell’attività deve essere presentata, entro 30 giorni, un’apposita denuncia.
Il codice ATECO 2007 da indicare nel modello AA9/12 è il 743000 traduzione e interpretariato.
I liberi professionisti non devono essere iscritti alla CCIAA.
Istruzioni per il modello AA9/12.
Iscrizione Gestione Separata INPS
La L.335/95 (art.2 c.26) ha previsto l’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata Inps dei liberi professionisti privi di una Cassa di previdenza.
L’iscrizione deve essere effettuata o tramite consegna diretta del modulo GS-COD SC04 presso gli sportelli INPS oppure tramite invio per posta raccomandata o con invio telematico attraverso il sito www.inps.it. (previa iscrizione ai servizi online dell'INPS).
In generale, la base imponibile previdenziale è pari all’imponibile fiscale, così come risulta dalla dichiarazione dei redditi è quindi definita per differenza fra i compensi percepiti e le spese sostenute.
Per alcuni regimi agevolati, il calcolo dell'imponibile previdenziale può essere leggermente diverso.
Il contributo alla Gestione Separata è calcolato applicando alla base imponibile le aliquote vigenti nell’anno di riferimento (aliquote per il 2017: 25,72% per i soggetti privi di altra tutela previdenziale obbligatoria, 24% per i soggetti assicurati presso altre forme previdenziali obbligatorie o titolari di pensione).
Il contributo è interamente a carico del professionista, che tuttavia ha facoltà di addebitare al cliente in fattura, a titolo di rivalsa, un’aliquota pari al 4% dei compensi lordi. L’esercizio di tale facoltà ha rilevanza solo nei rapporti fra il professionista ed il cliente ed è del tutto ininfluente ai fini del versamento alla Gestione Separata, poiché a quest’ultimo dovrà provvedere sempre e comunque il professionista e per l’intero importo.
Il versamento del contributo avviene con lo stesso meccanismo di acconto e saldo e con le stesse scadenze previste dal fisco per i versamenti IRPEF.
Modello di fattura per traduttori e interpreti. Da Sumup.com.
Se lavori come traduttore o interprete in modo continuativo e organizzato, la tua attività non ha i requisiti per qualificarsi come prestazione occasionale.
Devi dunque aprire partita IVA con il codice ATECO 743000 "traduzione e interpretariato" come libero professionista e alla Gestione Separata INPS poiché non esiste una cassa professionale per questa categoria di lavoratori.
Cosa inserire nel modello di fattura?
Il tuo modello di fattura deve includere gli elementi obbligatori come:
I dati completi tuoi e del tuo cliente
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La rivalsa
Il totale
Il riferimento legislativo "Professione esercitata ai sensi della legge n. 4 del 14 gennaio 2013 (G.U. n. 22 del 26/1/2013)"
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Infine, se emetti fattura a clienti stranieri puoi cambiare la lingua del documento dalle opzioni appena sotto le linee di fattura e quando imposti un Paese diverso dall'Italia nelle informazioni del cliente. In questo modo, l'aliquota IVA verrà automaticamente predisposta per il reverse charge.
Tribunali – Procure – Pubbliche Amministrazioni – Consigli di Amministrazione – Case Circondariali – Ecc.
Tecnico dei Servizi Giudiziari (Tecnico dell’analisi e trascrizione di segnali fonici e di gestione della perizia di trascrizione in ambito forense).
TECNICI DEI SERVIZI GIUDIZIARI
funzione in un contesto di lavoro:
Questa figura possiede una strutturata conoscenza della disciplina normativa di settore, tale da consentire di esercitare funzioni ausiliarie del giudice e del pubblico ministero presso gli uffici giudiziari
competenze associate alla funzione:
I tecnici dei servizi giudiziari curano gli aspetti amministrativi ed esecutivi delle decisioni delle corti di giustizia; organizzano il materiale documentario e probatorio e documentano lo svolgimento dei processi, riportando a verbale testimonianze, interventi delle parti e decisioni.
sbocchi professionali:
cancelliere, segretario giudiziario, ufficiale giudiziario, vice cancelliere
Il perito trascrittore nelle intercettazioni giudiziarie
Di Michelangelo Di Stefano
Esperto in tecniche investigative e forensi avanzate
Pubblicato il 11/03/2014
L’analisi peritale che riguarda la trascrizione di un reperto fonico giudiziario proveniente da intercettazioni telefoniche ed ambientali presupporrebbe, in astratto, una serie di conoscenze di base utili, se non indispensabili, al fine di poter rappresentare e descrivere al giudice, ed alle parti, le risultanze del quesito in precedenza formulato all’esperto.
Va da sé che il perito debba avere un bagaglio professionale più ampio e complesso rispetto all’ordinaria esperienza maturata nel settore delle investigazioni o, più nello specifico, quale “operatore addetto alle intercettazioni”, così da consentire a questi valutazioni più ampie rispetto alla prassi consuetudinaria, ove necessario documentando con considerazioni scientifiche il contenuto delle proprie argomentazioni.
L’operatore della polizia giudiziaria, infatti, svolge ordinariamente l’attività di intercettazione senza aver effettuato corsi di formazione dedicati alle operazioni di ascolto e trascrizione delle intercettazioni, salvo il requisito giuridico dello status quale Ufficiale di Polizia Giudiziaria, o Agente per i casi previsti in deroga dalla norma.[1]
Sommario
1. Le figure del perito e del consulente nel codice di procedura penale
2. Le difficoltà trascrittive
3. L’analisi etnolinguistica
4. La traduzione del reperto
5. La cognitive phonetics
6. L’affidamento d’incarico
7. Le competenze scientifiche del perito
1. Le figure del perito e del consulente nel codice di procedura penale
Ciò premesso, quantomeno in teoria, un perito interessato alla trascrizione[2] , al fine di assolvere al compito affidato dal giudice attraverso il conferimento dell’incarico, dovrebbe avere conoscenza almeno parziale di alcune elementari nozioni di base che saranno descritte di seguito.
Competenza che, analogamente, dovrebbero avere i consulenti tecnici delle parti i quali, una volta disposta la perizia[5], potranno fornire un apporto scientifico utile al giudice per la formulazione dei quesiti.
Proprio questo ultimo aspetto, cioè il “quesito”, alle volte non trova analitico compendio nell’affidamento dell’incarico, in taluni casi conferito con il sintetico richiamo alla norma che prevede la “trascrizione integrale delle registrazioni”, senza considerare le tante criticità che caratterizzano, ad esempio, le intercettazioni tra presenti, quelle supportate dalla video ripresa, o le tantissime interazioni comunicative ricche di espressioni gergali e varietà dialettali.
Attività trascrittiva, questa, compendiata all’art. 268, comma 7 c.p.p. secondo le forme, i modi e le garanzie previsti per l’espletamento delle perizie prevedendo, altresì, nel giudizio di appello alcune eccezionali ipotesi di nuovo ascolto delle intercettazioni, regolato dall’art. 603 c.p.p. .
Trascrizione che potrebbe essere conferita al perito anche in forma parziale senza che ciò implichi alcuna nullità.
Ed è qui che la scientificità della prova nel dibattimento vede il contraltare delle parti, allorquando ammessa la perizia nel dibattimento, è a queste concessa la facoltà di presentare, anche senza citazione, i propri consulenti.
Sotto il profilo tecnico giuridico, l’esame dei periti e dei consulenti[14] avviene secondo le regole fissate per i testimoni[15], con la facoltà di consultare documenti, note scritte e pubblicazioni, che possono essere acquisite anche d’ufficio.
Netto distinguo riguarda la “formula di giuramento” del testimone rispetto a quella osservata dal perito, laddove il primo con la propria deposizione si impegna “a dire tutta la verità ed a non nascondere nulla di quanto a (personale) conoscenza”[16], mentre il secondo, con lo “svolgimento dell’incarico”, si impegna ad adempiere al proprio “ufficio senza altro scopo che quello di far conoscere la verità e a mantenere il segreto su tutte le operazioni peritali”[17].
Negli ultimi anni, anche grazie alla maggiore fruibilità dei dati attraverso il processo di digitalizzazione, si è assistito ad un ricorso esponenziale delle intercettazioni di comunicazioni e, da qui, l’esigenza del giudice di attingere sempre più frequentemente all’istituto ex art. 268, comma 7 c.p.p., con la consegna ai periti di una mole impressionante di reperti fonici da “sbobinare”[18].
Ciò ha determinato, gioco forza, la conseguente compressione di talune tematiche di approfondimento tecnico scientifiche che sarebbero demandabili a pochi esperti qualificati con esigenze temporali per l’evasione del quesito che mal si coniugherebbero, probabilmente, con la scansione temporale del protocollo dibattimentale, così rimandando l’attività peritale ad una mera operazione “trascrittiva” di routine.
Criticità che alle volte ha determinato questioni dibattimentali a dir poco grottesche, con “periti” oberati di plichi contenenti i reperti, escussi in aula sul perché abbiano dimenticato decine di reperti fonici su una nave traghetto.[19]
Al conferimento dell’incarico conseguono, poi, gli accertamenti tecnici del perito che, solitamente, per la complessità del lavoro, si troverà impossibilitato a dare al giudice una immediata risposta con la relazione peritale, chiedendo a questi un termine.[20]
A dette criticità si vanno poi ad aggiungere gli aspetti squisitamente venali, che concernono l’ “onorario commisurato al tempo” [21] ed al numero di “vacazioni” giornaliere che il perito potrà prestare.[22]
2. Le difficoltà trascrittive
Solo sporadicamente è presente in questa fase una evidenza tecnico peritale all’attenzione del giudice, concernente la difficoltà trascrittiva, che potrebbe comprendere criticità foniche dovute alle problematiche acustiche di acquisizione e rilancio del reperto, fonetiche determinate dalla estrazione geolinguistica dei parlanti, sociolinguistiche concernenti l’interpretazione di tratti extralinguistici delle interazioni oggetto di disamina, soffermandosi il perito, piuttosto, sulla consistenza complessiva di reperti da esaminare, quantificata nel numero di “progressivi”[23] presenti per singolo RIT[24], spesso senza considerare, ancora, il “peso specifico” di ogni singolo reperto, cioè la sua durata temporale, la sua complessiva intellegibilità, la necessità di procedere ad una preliminare trascrizione letterale nella lingua parlata dai conversanti, ecc.
L’attività peritale segue, ancora, con la frequente richiesta di poter nominare “ausiliari di fiducia per lo svolgimento di attività materiali non implicanti apprezzamenti o valutazioni”[25], con la facoltà da parte dei consulenti tecnici di “partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve, delle quali deve dare atto nella relazione”[26] o, qualora nominati dopo l’esaurimento delle operazioni peritali, di “esaminare le relazioni e richiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa e il luogo oggetto della perizia”.[27]
E’ questo uno degli aspetti maggiormente significativi nel contesto dell’attività trascrittivo-peritale ed inteso a descrivere le varie fasi operative nel corso della rappresentazione scritta di un reperto fonico giudiziario, sia esso telefonico che ambientale.
Non saranno, in questa sede, ulteriormente sviscerate le competenze tecniche del perito[28] fonico[29] che, in determinati contesti potrà essere chiamato dal giudice a manipolare un reperto per migliorarne l’intellegibilità, o analizzare i profili biometrici al fine per identificare un parlatore[30], la cui disamina rientra in un contesto scientifico ancor più complesso, soffermandoci piuttosto sui tanti aspetti che riguardano la trascrizione di un parlato caratterizzato da etnolinguismi.
3. L’analisi etnolinguistica
I momenti di analisi andrebbero, ove possibile, integralmente distinti, partendo da una prima trascrizione dialettale del reperto, per poi procedere ad una traduzione letterale del testo, ancora corroborandone i contenuti con una descrizione esplicativa di tutte quelle espressioni gergali che, in un determinato contesto, assumono una significatività unica, e da ultimo, fornire una complessiva interpretazione semantica del reperto nel suo complesso.
L’operatore, così come il perito, deve essere abile[31] nel trasferire, dal parlato allo scritto, quanto assunto dalle captazioni, cercando di non alterare il contenuto semantico della sintesi trascritta[32], ivi mantenendo un linguaggio asettico e poco burocratico.
E’ evidente che la trascrizione[33] e la successiva traduzione di reperti acquisiti da parlanti dialettofoni, ed ove sono presenti espressioni gergali[34], deve essere effettuata non semplicemente da operatori che hanno esperienza nello specifico settore investigativo, ma che abbiano adeguata conoscenza etnolinguistica di quello specifico contesto geografico[35].
Si vedrà avanti, infatti, quanto siano importanti alcuni item linguistici[36] che caratterizzano la parlata di una determinata comunità linguistica[37].
Inoltre, la forma dialettale negli ambienti criminali, sostituendosi all’italiano standard, in una miscellanea tra status e funzione all’interno dell’interazione comunicativa, presupporrebbe la rappresentazione dell’enunciato attraverso una transcodifica asettica del segnale acustico all’attenzione della parte richiedente, e quindi cristallizzato nella trascrizione attraverso la forma dialettofona originaria.
Necessariamente, in una seconda fase dovrebbe essere effettuata la traduzione della stessa trascrizione vernacolare in italiano standard, interpretando, ove possibile, i tanti aspetti gergali, le frequenti metafore del luogo, i detti e le espressioni proverbiali, le parlate identificative di ristrette comunità linguistiche, nonchè i particolarissimi significati semantici di alcuni lessemi che, nel calabrese ad esempio, hanno origini etimologiche dal greco, latino, francese, tedesco, arabo e spagnolo[38].
Trattando le problematiche dialettofone secondo un approccio della sociologia del linguaggio, va operata una preliminare precisazione riguardo lo status come potenziale (o de jure) e la funzione come attuazione (o de facto) della lingua[39].
Si tratta di due concetti fortemente interrelati tra loro e che delineano, all’interno di un sistema linguistico, i rapporti esistenti nel sistema con i parlanti, anche in relazione alla collocazione di costoro all’interno della società, ma “anche con l’organizzazione della vita sociale e l’articolazione socio-politica ed amministrativa di una comunità”[40], divenendo la risultante incrociata di un insieme di variabili e dimensioni sociali.
La cromaticità dei due concetti in esame, lo status e la funzione, se nel sistema linguistico generale trovano netta differenziazione, assumeranno diversa tonalità con una commistione dei ruoli qualora il modello sociolingiustico di riferimento sia il pianeta della criminalità organizzata.
Se per status si intende “ciò che con esso si può fare, dal punto di vista pratico, legale, culturale, economico, politico e sociale” e per funzione, invece, “ciò che effettivamente con un certo sistema linguistico viene fatto, ciò a cui un sistema linguistico serve in una società”[41], è possibile osservare che nell’emisfero criminale, e ‘ndranghetistico in particolare, lo status di lingua ufficiale è assolto dal dialetto calabrese, che allo stesso tempo lì assolve anche alla funzione ufficiale[42], educazionale[43], tecnica[44] ed internazionale[45].
Quanto appena riassunto è di particolare importanza nel presente contesto di analisi in quanto parlare di “funzione tecnica” della lingua dialettale implica in un àmbito di studio giuridico e forense l’indispensabilità di cristallizzare il reperto fornito nella sua genuina intierezza semantica, difficilmente “traducibile” letteralmente nella lingua italiana, la cui trasposizione è da intendersi non tanto una traduzione letterale, quanto una interpretazione del trascrittore.
4. La traduzione del reperto
Alla luce di quanto appena riassunto, il compito degli interpreti e dei traduttori (perché in tal caso non si può parlare semplicemente di trascrittore), avranno il compito di comprendere il testo per poi renderlo -quale forma di interpretazione soggettiva- in italiano quale traduzione semantica.
Sotto il profilo della giurisprudenza, l’esigenza di distinguere in due momenti operativi la trascrizione di reperti fonici in forma dialettale trova riscontro, come compendiato tra l’altro in alcune pronunce della Suprema Corte[46], attraverso una prima “riproduzione integrale degli elementi fonetici raccolti nella registrazione”, ed una successiva fase di “vera e propria traduzione in lingua italiana”[47].
Detto obiettivo dovrà essere raggiunto attraverso una prodromica transcodifica asettica del segnale acustico, cioè di quanto “viene detto/fatto”[48] nella situazione comunicativa intercettata, all’attenzione del P.M. per una successiva valutazione autonoma dell’A.G., abbinando poi l’interpretazione soggettiva abbinata alla traduzione semantica dei tratti dialettali e gergali nonché di trascrizione dei tratti soprasegmentali.[49]
Una corretta rappresentazione sarebbe quella dell’alfabeto fonetico internazionale IPA[50], che permette di rappresentare graficamente, per iscritto, la forma fonica di qualsiasi enunciato, in quanto i simboli fonetici dell’alfabeto consentono di trascrivere consonanti, vocali e caratteristiche prosodiche come intensità, durata e altezza tonale.
Si tratta, in verità di uno strumento di compendio trascrittivo di solito inintellegibile ai giudici e quindi inutilizzabile se non è interpretata da un tecnico,[51] conseguentemente suggerendo all’operatore l’abbinamento al testo trascrittivo di note specificative di richiamo ove andrà annotato quell’aspetto prosodico utile a chiarificare il contesto.[52]
Per detta ragione, nelle pagine che seguono saranno richiamati alcuni esempi di pronuncia dialettale, trascrivendo letteralmente la parlata, senza fare ricorso alla rappresentazione fonetica IPA.
5. La cognitive phonetics
Alla luce di quanto complessivamente esposto in queste pagine, particolarmente attagliate sono da ritenersi le “raccomandazioni” attraverso la cognitive phonetics di Helen Fracer[53]:
HELEN FRASER[54]
1. La trascrizione di materiale sonoro di bassa qualità non dev‘ essere affidata a chi ha, o potrebbe avere, un interesse nell'interpretarne il contenuto.
2. Quando la trascrizione potrebbe essere contestata, la trascrizione deve essere affidata a persona con esperienze linguistiche fonetiche.
3. Quando vi sono dubbi su una particolare parola o frase della trascrizione, questi non possono essere risolti sulla base della sola analisi acustica ma richiedono di esaminare il contesto con attente analisi linguistiche fonetiche da parte di esperti.
4. In una trascrizione di materiale di bassa qualità il trascrittore deve indicare il livello di confidenza e le possibili interpretazioni alternative per ciascuna parte del trascritto.
5. Quando il livello di confidenza è molto basso, ad esempio quando la registrazione è sia di bassa qualità sia molto corta, o la parola contestata risulta isolata o anche se la qualità complessiva non è uniformemente bassa ma sono presenti inconsistenze nella registrazione, è opportuno dichiarare il materiale audio non trascrivibile.
6. Nessuna trascrizione dovrebbe essere presentata ad una giuria prima che la sua attendibilità sia stata controllata da un esperto adeguatamente qualificato nella fonetica e nella linguistica.
7. In generale l’indizio “trascrizione” di una registrazione di bassa qualità non è sufficiente a supportare da solo una condanna; si tratta di indizi che si usano solo insieme ad altre evidenze.
Così come assolutamente attagliato è il “decalogo” del “gruppo di lavoro presso la Polizia Scientifica”:
Decalogo[55]
Gruppo di lavoro presso la Polizia scientifica
1. I tempi necessari alla trascrizione sono in funzione della qualità del segnale, oltre che alla durata dello stesso ( si riportino i dati sulla qualità).
2. Consegnare, con la trascrizione, una relazione che riguardi la qualità del segnale, le modalità utilizzate per l’eventuale trattamento dello stesso (es:filtraggio) e tutte le informazioni disponibili.
3. Trascrivere nella stessa lingua o dialetto che si ascolta, eventualmente fornendo una interpretazione in italiano.
4 . La lingua o dialetto deve essere nota al trascrittore.
5. Dichiarare, nella relazione, le informazioni utilizzate per la trascrizione dei nomi.
6. Inserire una legenda con la descrizione della simbologia adottata per segnalare le principali caratteristiche sovra segmentali, tratti incomprensibili, dubbi ed altro.
7. Temporizzare accuratamente l’intera trascrizione, con quantificazione delle pause e dei tratti incomprensibili. Segnalare e descrivere i fenomeni acustici ambientali.
8. Procedere alla trascrizione solo se la qualità del segnale supera i requisiti minimi di accettabilità.
9. Segnalare nella trascrizione quando sono presenti inconsistenze linguistiche nel messaggio.
10. Descrivere le procedure di trattamento del segnale (tra cui il filtraggio) per renderle esattamente riproducibili.
Gli approfondimenti fin qui trattati, in astratto best pratices alla base di qualsiasi perizia trascrittiva etno-linguistica risultante da una intercettazione, concernono tematiche demandate a tecnici qualificati, presupponendo adeguate risorse temporali per l’evasione del quesito; tempistiche che non sempre collimano con le esigenze di sintesi fissate dal dibattimento, gioco forza svilendo il compito peritale.
La necessità di una perizia sarebbe quella di “svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche”[56], che vanno ben oltre la documentazione delle operazioni di intercettazione attraverso i c.d. “brogliacci” di ascolto e le relative “trascrizioni” a cura della p.g.
La relativa utilizzabilità di queste ultime nel dibattimento, si è già detto, secondo una parte della giurisprudenza, è consentita ai fini della pronuncia della sentenza, fermo il diritto delle parti di chiedere la trascrizione mediante perizia.
Dette trascrizioni della p.g. debbono distinguersi dai c.d. brogliacci, consistenti nella sommaria trascrizione delle conversazioni intercettate, effettuata ai sensi dell’art. 268, comma 2 c.p.p. nei verbali delle operazioni, in nessun caso utilizzabili ai fini della decisione[57]; altro orientamento giurisprudenziale prevede, al contrario, l’ utilizzabilità anche dei soli brogliacci[58].
Come descritto, però, in queste pagine, il trascrittore ( sia esso un operatore della polizia giudiziaria o un perito) che analizza un reperto fonico dialettale – a prescindere dalle tante problematiche di disturbo, di interpretazione nella complicata interazione focalizzata “faccia a faccia”, o della traduzione a cui andrà incontro – si troverà soventemente a dover investigare attraverso livelli di analisi sempre più ampi[59]; spesso confrontandosi con uno spettro di indagine sempre più complesso e caratterizzato da code swiching e miscellanee di varietà linguistiche, come nel caso della lingua standard della ‘ndrangheta che è il dialetto calabrese, e reggino nel particolare.
Il trascrittore, dovrà, quindi, addentrarsi in uno scenario complesso con cui dovrà ripetutamente confrontarsi, partendo, ad esempio, dal fonema /k/, alla sillaba /ka/, al morfema “can-“, alla parola “cane”, al sintagma “il cane”, fino alla frase “il cane abbaia”, in un contesto etno-linguistico ove “cani” significa generalmente “cane”, ma dove “ccàni” è un deittico che significa certamente “qui”; e dove, ancora, nell’analisi lessicale di uno specifico contesto comunicativo situazionale, l’inciso “chìddu è nu cani ” potrà assumere una significatività semantica diversa rispetto alla descrizione dell’animale domestico, anche e, soprattutto, laddove la comunità di parlanti sia adusa a frequenti richiami gergali.
6. L’affidamento d’incarico
L’affidamento di un incarico peritale, come spesso avviene “intuitu personae” in ragione di pregressi rapporti fiduciari e per qualsivoglia meccanismo di scelta che non assuma quale parametro principale di riferimento quello della certificata competenza, potrebbe conseguentemente determinare l’evasione di un quesito peritale parziale, alle volte oggetto di criticità e pesanti distorsioni; cioè di un approfondimento non squisitamente tecnico scientifico o caratterizzato da “particolare competenza nella specifica disciplina”[60], ma genericamente pragmatico, che si impernierebbe probabilmente sulla scorta di pregresse, forse ordinarie o residuali, esperienze nel settore delle intercettazioni o, ancor peggio, delle semplici trascrizioni.
“[…] Molti operatori della legge ritengono che trascrivere una conversazione sia un'opera di ordinaria amministrazione – rimarca Andrea Paoloni – che chiunque abbia un po' di tempo e pazienza può svolgere facilmente; salvo poi stupirsi quando in Tribunale il contenuto della trascrizione viene contestato, l'ascolto in aula non chiarisce i dubbi sollevati dalle parti e i consulenti chiamati in soccorso non riescono a risolvere in modo definitivo il problema loro demandato.
Perché tanti dubbi di interpretazione?
Non esiste un mezzo sicuro che consenta di provare che il parlante ha pronunciato una determinata parola, ad esempio sbancato e non una molto simile, come sbiancato o stancato?
È vero che le conversazioni ambientali, quelle ottenute con la cimice, sono più difficile da trascrivere?
Si può con un opportuno filtraggio, trasformare un mormorio incomprensibile una voce chiara di così incerto significato?
Chiunque abbia provato a mettere su carta una lezione universitaria, registrata poggiando sulla cattedra, in bella evidenza, un registratore cassette, si è reso certamente conto di quanto sia faticoso, spesso impossibile, trasformare il parlato in un testo chiaro e comprensibile. Anche se la lezione è stata accuratamente preparata nell'esposizione sono frequenti i cambi d’argomento, i salti di livello sia stilistico sia linguistico; l’esposizione non procede sempre modo scorrevole, a causa della costruzione spontanea degli enunciati e questo si manifesta in false partenze, pause, esitazioni.
A volte l'oratore fa riferimento ad immagini, ad esempio una formula sulla lavagna, non presenti nella registrazione, per cui il discorso diventa completamente comprensibile solo utilizzando l’ informazione esterna al segnale.
Quando il contributo informativo esterno al segnale non è disponibile il segnale è destinato a non essere pienamente compreso.
Inoltre la comunicazione verbale è molto rapida e tende a favorire fenomeni di riduzione vocalica e consonantica rendendo inintelligibili alcune parole.
Mancano spesso chiari schemi enunciativi come quelli che caratterizzano la lingua scritta, sostituiti da costruzioni più libere che richiedono spesso l'applicazione di regole grammaticali diverse da quelle della grammatica tradizionale. Durante l'esposizione poi si possono verificare rumori di varia natura che possono mascherare più o meno completamente alcuni tratti di parlato.
Quando poi si passa dalla trascrizione di una lezione o di una conferenza alla trascrizione di un’intercettazione sorgono problemi assai maggiori, problemi che sono diversi, per vari aspetti, secondo che si tratti di conversazione telefonica o piuttosto di intercettazione ambientale.
Nel caso della conversazione telefonica gli interlocutori comunicano tra loro con il solo ausilio della voce e pertanto hanno cura di non fare riferimento ad oggetti invisibili, o se necessario fornirne una descrizione, hanno cura di pronunciare con attenzione nomi e toponimi, a regolare il volume della voce in modo che l’interlocutore (e di conseguenza il trascrittore) li possa sentire.
Nella registrazione ambientale tutto questo non avviene. Il parlante si rivolge ad una persona presente (e quindi può indicare cose e persone) e parla con il livello necessario a farsi capire dal suo interlocutore, non certo dal microfono [Paoloni 1996].
Quando difesa e accusa non concordano nella trascrizione in atti è difficile arrivare ad una soluzione.
Organizzare in aula un ascolto che abbia la pretesa di qualità è a nostro avviso un'impresa disperata per la pessima acustica alle aule di giustizia per la scarsa qualità degli apparati tecnici disponibili e la difficoltà di ottenere una sufficiente concentrazione degli astanti.
Far comprendere ai magistrati i limiti intrinseci di una trascrizione, perché riferisca in parte da quella di altri consulenti, perché dopo tanto tempo non si sia ancora giunti alla stesura definitiva è tutt'altro che semplice.
Una possibile soluzione è quella di predisporre un set di misure oggettive che, analogamente a quanto avviene per le impronte digitali, possa fornire un indicatore di quando la trascrizione è fattibile e quando non è possibile operare [Paoloni, Zavattaro 2009].
Bisogna anche ricordare agli operatori di giustizia che non è possibile ripristinare informazioni perdute: se il segnale è ridotto ad un semplice mormorio niente riuscirà a trasformarlo in una voce chiaramente intelligibile […]”[61].
7. Le competenze scientifiche del perito
Il perito, in buona sostanza, dovrebbe o, più correttamente, deve avere una seppur minima cognizione scientifica così da poter operare un’ organizzazione, selezione ed una campionatura di tipo sistemico e tecnico del reperto fonico esaminato; un bagaglio tecnico che gli consenta di argomentare l’inciso “incomprensibile”, andando ben oltre il commento dell’operatore di polizia che sul brogliaccio aveva annotato “forti rumori” poi trascrivendo, con la postilla “fonetico”, una serie di logatomi privi di alcun significato.
Essere, cioè, in grado di esporre il significato di un fenomeno additivo o convolutivo di disturbo che ha compromesso in tutto od in parte l’intellegibilità del reperto, come quello generato dalla portante di una radio frequenza o dall’eccessiva amplificazione di un vettore di trasmissione GSM; ed essere in grado, ancora, di migliorare la comprensibilità del documento fonico analizzato, dando atto delle procedure seguite per attenuarne i disturbi, dei s.w. e dei players utilizzati, delle bande di frequenza campionate o annullate.
Ed attento nel rilevare la presenza di frammenti fonici di rilievo investigativo, come ad esempio tra gli squilli di una telefonata, quando l’utente è in attesa di connettersi con il telefono chiamato:
Dovrebbe essere nelle condizioni, ancora, di rappresentare al giudice ed alle parti il perché di alcune distorsioni riguardanti la mancata, o erronea, trascrizione da parte di terzi trascrittori di alcuni frammenti del lessico tradotto, trascritto o interpretato, eventualmente rilevandone ipotesi dolose o colpose; quindi ben addentro non solo alle dinamiche di analisi della lingua, ma anche in possesso di adeguata cognizione etno-linguistica di tipo forense.
Quindi poter argomentare, ad esempio, che ci/tro/la[62] e tri/to/lu[63], così come ho contato e ho comprato[64], possono essere frammenti fonici grossolanamente confusi nell’ascolto di un reperto, trattandosi di parole brevi aventi lo stesso numero di sillabe e recanti più punti di assonanza fonica.
Per altro verso dovrebbe essere pronto ad evidenziare che l’enunciazione di un parlato avviene in uno spazio fonico virtuale ( seppur scientificamente calcolabile) che non consente scusanti interpretative, ed al cui riguardo non sarà possibile richiamare abbagli trascrittivi laddove sia assente la benché minima assonanza fonica, analogica, miraggio acustico[65] o pareidolia.
Ciò in quanto l’enunciato correttamente ascoltato in un normale contesto fonico, risulta essere formato da tanti “mattoni preconfezionati” che hanno costruito la complessiva forma fonica, cosicchè, ad esempio, “peppimazzafèrru”[67] ( pep/pi/maz/za/fer/ru), difficilmente potrà essere, colposamente o negligentemente, confuso e trascritto con una minuscola parola bisillaba non assonante come chìd/du[68]:
pep/pi/maz/za/fer/ru
chìd/du
Ed in tal caso il perito, rilevata la macroscopicità della distorsione, dovrebbe essere altrettanto in grado, a domanda, di effettuare uno screening più ampio delle intercettazioni erroneamente trascritte, così da rilevare se la ricorrenza dello stesso report sia stata sistematicamente distorta, omessa, o mal interpretata, e da qui dedurre un quadro probabilistico e scientifico più definito.
Analisi più approfondita che l’ esperto dovrebbe essere in grado di documentare, eventualmente, anche attraverso una griglia sperimentale di ricerca[69], campionando le difformità e le distorsioni di più ascoltatori, ad esempio attraverso il loro bagaglio culturale e professionale, le loro pregresse esperienze di ascolto, la loro provenienza etnolinguistica, il loro stato emozionale, e così via.
Rappresentazioni tecniche che – lo vedremo diffusamente poco più avanti affrontando il dialetto reggino - dovranno trovare esplicitazione attraverso le tante espressioni gergali come quella, ad esempio, ricorrente ogni qual volta le ‘ndrine, ricevuta sotto banco la soffiata di un’operazione delle forze dell’ordine, segnaleranno agli altri sodali la previsione di una “rrumuràta”[70].
Interpretazioni gergali che, conseguentemente, devono presupporre anche una conoscenza di base della criminalistica di contesto, così da poter dare “voce” semantica a logatomiapprentemente insignificanti come “i stàcchi”[71], “i nìgri”[72], “i càstani”[73], “i tiradrittu”[74], “i ti màngiu”[75], “i manìgghja”[76] ed ancora “u ballerìnu”, “giù la maschera”[77], “nanu feroci”, “u pacciu”, “cavallino”[78], “u sciòrbu”, “i ficarèddi”, “Totò scupetta”, “ddù nasi”, “i paddèchi”[79], tutta una sfilza di nomignoli attraverso cui è possibile individuare l’appartenenza criminale di un soggetto o la sua stessa identificazione non equivocabile, ed ancora “’ncavallàtu”[80], “tùfa”[81], “a molla”[82] o, ad ultimo esempio “mismùzzu” e “mastròssu”, indicanti una serie di gerghi che non fanno certo parte dello slang usato dai giovani reggini davanti un panino da Mc Donald.
Proiezioni etnografiche che serviranno all’esperto, una volta tradotto il lessico peritato, per spiegare al giudice che “quatràru” significa ragazzo in quanto si tratta di un’ espressione dialettale della provincia reggina, con origine etimologica latina dalla parola quaternarius, cioè bambino di quattro anni;
che “tamàrru” è un cafone, il cui termine deriva dallo spagnolo tammâr, significante mercante di datteri, zotico;
o che, attraverso il termine papariàri, il mafioso si rifà ad un’accezione spagnola, papelonàr, che significa appuntopavoneggiarsi;
e quando intimidisce una persona dandole un buffettùni, si tratterà allora di un ceffone, dal francese bufeton, schiaffone;
così come il suo tipico atteggiarsi da spaccùni, che è proveniente dal tedesco spachen, rivolto a descrivere un soggetto gradasso.
Abilità del perito che troverà riscontro, da ultimo, rappresentando al giudice – a mò di esempio - l’esistenza di un’arma nel bel bezzo della situazione comunicativa, descrivendone i dettagli come se fosse stato presente in quella scena.
Un caso da manuale:
F: Oh! Oh Peppe.
P: Ah?
F: Senti un attimo.
(File multimediale estrapolato dal perito)
P: Dimmi?
F: Senti …
(Il B. F. si allontana dalla cornetta telefonica, si avvicina alla fonte audio, esistente nell’ambiente, che trasmette musica, e quindi, in sovrapposizione all’audio, si sente un rumore metallico tipico del così detto scarrellamento di un’arma, atto che permette di armare una pistola semiautomatica n.d.r.).
P: Che cos’è? Una musica...
F: (ride) Hai sentito?
P: No, non si sente.
F: E aspetta.
P: Aspetta un attimo che sento bene.
F: Ferma un attimo … Ascolta! (ritorna al telefono) Hai ascoltato?
P: Vai, vai.
(File multimediale estrapolato dal perito)
(Si percepisce nuovamente, ed in maniera più chiara, il rumore metallico tipico già fatto poco prima, ovvero quello dell’armare una pistola semiautomatica n.d.r.).
P: Che musica era? Ah?
F: Hai ascoltato? (ride) […].
Ultima precisazione concerne la disponibilità da parte del perito delle trascrizioni integrali o dei brogliacci di ascolto redatti dalla polizia giudiziaria, e la possibilità che gli stessi, una volta visionati e/o comparati, possano essere fuorvianti condizionando l’autonoma interpretazione trascrittiva peritale del reperto analizzato.[84]
Si tratta di distorsioni che, alle volte, potrebbero trovare giustificazione pragmatica nella necessità di alleggerire la mole di lavoro del perito attraverso speditive operazioni di “copia/incolla” dai files della P.G. e consistenti, piuttosto che in una rivisitazione o in una trascrizione ex novo dei reperti già esitati dalla polizia giudiziaria, nel mero “ricalco”trascrittivo, con la ridondanza di imperfezioni grammaticali e di punteggiatura.
Il risultato finale sarà, in tal caso, di scarsa qualità tecnico scientifica e di incerta valenza comparativa, determinando, da ultimo, un inutile dispendio di economie processuali[85], a scapito delle complessive esigenze di accertamento della verità.
Per approfondimenti:
Documenti Illegali e Procedura di Distruzione dei Dati Personali Illecitamente Conseguiti, di Tabasco Giuseppe, Cedam, 2013.
(Altalex, 26 febbraio 2014. Articolo di Michelangelo Di Stefano)
________________
[1] In deroga alla norma il legislatore (D.L. 13 maggio 1991 n. 152, Modifiche alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni,Art. 13), per i delitti di criminalità organizzata, ha conferito facoltà al pubblico ministero ed agli ufficiali di polizia giudiziaria di farsi coadiuvare nelle operazioni di intercettazione da agenti di polizia giudiziaria.
[2] Ovvero quando è necessario svolgere indagini o o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche (cfr. art. 220 Cpp), anche con l’affidamento peritale a più persone quando le indagini e le valutazioni risultano di notevole complessità ovvero richiedono distinte conoscenze in diverse discipline (cfr. art. 221, comma 2 Cpp).
[3] Art. 226 Cpp, conferimento dell'incarico.1. Il giudice, accertate le generalità del perito, gli chiede se si trova in una delle condizioni previste dagli articoli 222 e 223, lo avverte degli obblighi e delle responsabilità previste dalla legge penale e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: «consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo nello svolgimento dell'incarico, mi impegno ad adempiere al mio ufficio senza altro scopo che quello di far conoscere la verità e a mantenere il segreto su tutte le operazioni peritali».2. Il giudice formula quindi i quesiti, sentiti il perito, i consulenti tecnici, il pubblico ministero e i difensori presenti.
[4] Art. 220 Cpp, oggetto della perizia.1. La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche.2. Salvo quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche.
[5] Art. 224 Cpp, provvedimenti del giudice.1. Il giudice dispone anche di ufficio la perizia con ordinanza motivata, contenente la nomina del perito, la sommaria enunciazione dell'oggetto delle indagini, l'indicazione del giorno, dell'ora e del luogo fissati per la comparizione del perito.2. Il giudice dispone la citazione del perito e dà gli opportuni provvedimenti per la comparizione delle persone sottoposte all'esame del perito. Adotta tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l'esecuzione delle operazioni peritali.
[6] Art. 226 Cpp, cit.
[7] A. Gaito, A. Bargi, Codice di Procedura Penale annotato con la giurisprudenza, UTET Giuridica editore, Torino (2007), pag. 820: “[…] in tema di intercettazione, captazione e registrazione di colloqui telefonici o tra presenti, ovvero di flussi di comunicazioni informatici o telematici, una volta concluso il subprocedimento di ascolto, selezione e acquisizione delle conversazioni e dei flussi con l’esecuzione delle conseguenti operazioni di trascrizione o di stampa, secondo le regole dettate dall’art. 268 c.p.p., on è consentito, salvo eccezionali ipotesi che, per quanto riguarda il giudizio di appello, sono regolate dal’art. 603 c.p.p., chiedere un nuovo ascolto delle conversazioni o una nuova presa di cognizione dei flussi informatici (Cass. Pen., Sez. U. 21.6.00, Primavera, CP, 2001, 69). La richiesta di ritrascrizione delle intercettazioni ambientali, prospettando un problema di reiterazione del mezzo istruttorio, solleva una questione di merito, la cui valutazione compete esclusivamente al giudice territoriale e non può essere esaminata dal giudice di legittimità se la motivazione sia, sul punto, esente da vizi logici e giuridici. (Cass. Pen., Sez. VI, 15.10.98, Mercadante, CED Cass. 213566). L’omissione dell’informazione di garanzia, funzionale alla nomina, e quindi alla partecipazione del difensore di fiducia alla perizia di trascrizione delle intercettazioni telefoniche da eseguirsi nella fase delle indagini preliminari dà luogo a nullità di ordine generale, a regime intermedi, inquadrabile nell’art. 178, lett. C), c.p.p., che deve essere rilevata o dedotta tempestivamente, a pena di decadenza ( Cass. Pen., Sez. V, 22.1.98, Esposito, GP, 1999, III, 361). Non è causa di nullità delle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche la mancata sottoscrizione, in ciascuna pagina del verbale, del perito trascrittore. (Cass. Pen., Sez. I, 2.11.95, Marino, CED Cass 203491)[…]”.
[8] “Il giudice dispone la trascrizione integrale delle registrazioni ovvero la stampa in forma intellegibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche da acquisire, osservando le forme, i modi e le garanzie previsti per l'espletamento delle perizie. Le trascrizioni o le stampe sono inserite nel fascicolo per il dibattimento”.
[9]Art. 603. Rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. 1. Quando una parte, nell'atto di appello o nei motivi presentati a norma dell'articolo 585 comma 4, ha chiesto la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o l'assunzione di nuove prove, il giudice se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale.2. Se le nuove prove sono sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall'articolo 495 comma 1.3. La rinnovazione dell'istruzione dibattimentale è disposta di ufficio se il giudice la ritiene assolutamente necessaria.4. Il giudice dispone, altresì, la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale quando l'imputato, contumace in primo grado, ne fa richiesta e prova di non essere potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore o per non avere avuto conoscenza del decreto di citazione, sempre che in tal caso il fatto non sia dovuto a sua colpa, ovvero, quando l'atto di citazione per il giudizio di primo grado è stato notificato mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli articoli 159, 161 comma 4 e 169, non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento.5. Il giudice provvede con ordinanza, nel contraddittorio delle parti.6. Alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, disposta a norma dei commi precedenti, si procede immediatamente. In caso di impossibilità, il dibattimento è sospeso per un termine non superiore a dieci giorni.
[10]Ibidem: l’incarico peritale che limiti ad una parte soltanto del contenuto delle intercettazioni telefoniche la relativa trascrizione non è affetto da alcuna nullità, sia perché la nullità non è prevista né può farsi discendere dalla previsione di cui all’art.268, comma settimo c.p.p., sia perché ciò si rileva ai fini del diritto di difesa è che nell’espletamento della trascrizione, siano osservate esatte forme di garanzie previste per la perizia, dato che in caso di perizia disposta in dibattimento, la facoltà di nomina di propri consulenti, nella speditezza del modo di cui all’art. 152 disp. Att. C.p.p., consente all’imputato di svolgere osservazioni circa la rilevanza delle registrazioni non trascritte e di provvedere esso stesso, per il tramite del suo consulente, a far trascrivere quanto altro possa interessargli, potendo comunque estrarre copia delle trascrizioni e far eseguire la trasposizione delle registrazioni su nastro magnetico. (Cass. Pen., Sez. VI, 5.10.94, Celone, CED Cass. 201854).
[11] Art. 508 Cpp, provvedimenti conseguenti all'ammissione della perizia nel dibattimento. 1. Se il giudice, di ufficio o su richiesta di parte, dispone una perizia, il perito è immediatamente citato a comparire e deve esporre il suo parere nello stesso dibattimento. Quando non è possibile provvedere in tale modo, il giudice pronuncia ordinanza con la quale, se è necessario, sospende il dibattimento e fissa la data della nuova udienza nel termine massimo di sessanta giorni.2. Con l'ordinanza il giudice designa un componente del collegio per l'esercizio dei poteri previsti dall'articolo 228.3. Nella nuova udienza il perito risponde ai quesiti ed è esaminato a norma dell'articolo 501.
[12]Art. 152 Att. Cpp, facoltà delle parti nel caso di perizia disposta nel dibattimento. 1. Quando il giudice ha disposto la citazione del perito a norma dell'articolo 508 comma 1 del codice, le parti hanno facoltà di presentare al dibattimento, anche senza citazione, i propri consulenti tecnici a norma dell'articolo 225 del codice.
[13]Art. 225 Cpp, nomina del consulente tecnico. 1. Disposta la perizia, il pubblico ministero e le parti private hanno facoltà di nominare propri consulenti tecnici in numero non superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti.2. Le parti private, nei casi e alle condizioni previste dalla legge sul patrocinio statale dei non abbienti, hanno diritto di farsi assistere da un consulente tecnico a spese dello Stato.3. Non può essere nominato consulente tecnico chi si trova nelle condizioni indicate nell'articolo 222 comma 1 lettere a), b), c), d).
[14] Art. 501 Cpp, esame dei periti e dei consulenti tecnici. 1. Per l'esame dei periti e dei consulenti tecnici si osservano le disposizioni sull'esame dei testimoni, in quanto applicabili.2. Il perito e il consulente tecnico hanno in ogni caso facoltà di consultare documenti, note scritte e pubblicazioni, che possono essere acquisite anche di ufficio.
[15] Art. 497 Cpp, atti preliminari all'esame dei testimoni. 1. I testimoni sono esaminati l'uno dopo l'altro nell'ordine prescelto dalle parti che li hanno indicati.2. Prima che l'esame abbia inizio, il presidente avverte il testimone dell'obbligo di dire la verità. Salvo che si tratti di persona minore degli anni quattordici, il presidente avverte altresì il testimone delle responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». Lo invita quindi a fornire le proprie generalità.3. L'osservanza delle disposizioni del comma 2 è prescritta a pena di nullità.
[16] Art. 497, comma 2 Cpp.
[17] Art. 226 Cpp.
[18] Con detta accezione, da ritenersi un prestito linguistico dal dizionario analogico, si intende ovviamente l’estrapolazione del dato che ormai avviene esclusivamente su supporto digitale.
[19] Il corriere della Calabria, Processo Meta, i plichi con le intercettazioni rinvenuti su un traghetto.La rivelazione del pm Lombardo. Si tratta di conversazioni non ancora trascritte. La presidente Grasso: «Molto grave», di Alessia Candito, pubblicato il 18 ottobre 2013: “ […] REGGIO CALABRIA «Sono stati rinvenuti quattro plichi delle intercettazioni di questo processo su una nave traghetto che viaggiava verso Messina». È in apertura dell'odierna udienza del processo Meta, che il pubblico ministero Giuseppe Lombardo ha chiesto la parola per segnalare una circostanza che ha definito quanto meno «incresciosa»: «Il ros di Reggio Calabria è stato contattato dal personale delle navi traghetto, che hanno rinvenuto su un divanetto quattro plichi, fortunatamente quasi integri, relativi alle intercettazioni non ancora trascritte di questo processo». Stando a quanto riferisce il pm, che ha immediatamente disposto i dovuti accertamenti, martedì scorso il perito cui era stata affidata la trascrizione delle intercettazioni avrebbe dimenticato i delicatissimi pacchi durante la traversata. «Fortunatamente - ha sottolineato Lombardo - tre dei plichi sono totalmente integri, mentre un quarto risulta aperto ma il supporto sembra non esser stato toccato». Un episodio inquietante che - afferma il pm - «dimostra che quelle intercettazioni non sono ancora state trascritte nonostante l'incarico sia stato affidato mesi e mesi fa», ma dimostra anche il «rischio a cui è stato esposto questo processo. Quelle intercettazioni sono originali, se fossero state perse non ci sarebbe stato modo di recuperarle». La presidente Grasso, visibilmente allarmata, ha disposto l'immediata verifica dell'integrità del materiale. «È una cosa molto grave e molto seria su cui bisogna disporre tutti i necessari accertamenti» […]”.
[20] Art. 227, comma 4 Cpp. relazione peritale.1. Concluse le formalità di conferimento dell'incarico, il perito procede immediatamente ai necessari accertamenti e risponde ai quesiti con parere raccolto nel verbale.2. Se, per la complessità dei quesiti, il perito non ritiene di poter dare immediata risposta, può chiedere un termine al giudice.3. Quando non ritiene di concedere il termine, il giudice provvede alla sostituzione del perito; altrimenti fissa la data, non oltre novanta giorni, nella quale il perito stesso dovrà rispondere ai quesiti e dispone perché ne venga data comunicazione alle parti e ai consulenti tecnici.4. Quando risultano necessari accertamenti di particolare complessità, il termine può essere prorogato dal giudice, su richiesta motivata del perito, anche più volte per periodi non superiori a trenta giorni. In ogni caso, il termine per la risposta ai quesiti, anche se prorogato, non può superare i sei mesi.5. Qualora sia indispensabile illustrare con note scritte il parere, il perito può chiedere al giudice di essere autorizzato a presentare, nel termine stabilito a norma dei commi 3 e 4, relazione scritta.
[21] D.P.R. n. 115/2002 (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia”) Art. 4 - Onorari commisurati al tempo.
Per le prestazioni non previste nelle tabelle e per le quali non sia applicabile l'articolo precedente gli onorari sono commisurati al tempo impiegato e vengono determinati in base alle vacazioni. La vacazione è di due ore. L'onorario per la prima vacazione è di € 5,16 (L.10.000) e per ciascuna delle successive è di € 2,58 (L.5.000).L'onorario per la vacazione può essere raddoppiato quando per il compimento delle operazioni è fissato un termine non superiore a cinque giorni; può essere aumentato fino alla metà quando è fissato un termine non superiore a quindici giorni. L'onorario per la vacazione non si divide che per metà; trascorsa un'ora e un quarto è dovuto interamente. Il giudice non può liquidare più di quattro vacazioni al giorno per ciascun incarico.
Questa limitazione non si applica agli incarichi che vengono espletati alla presenza dell'autorità giudiziaria, per i quali deve farsi risultare dagli atti e dal verbale di udienza il numero delle vacazioni. Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 455 del regio decreto 23 maggio 1924, n. 827, il magistrato è tenuto, sotto la sua personale responsabilità, a calcolare il numero delle vacazioni da liquidare con rigoroso riferimento al numero delle ore che siano state strettamente necessarie per l'espletamento dell'incarico, indipendentemente dal termine assegnato per il deposito della relazione o traduzione. Note: 1 Misure portate, rispettivamente, a L.18.000 e a L.10.000 dall'art. 1, D.P.R. 27 luglio 1988, n. 352 e, successivamente rideterminate nella misura di L.24.732 per la prima vacazione e di L.13.740 per ciascuna delle vacazioni successive, dall'articolo unico, D.M. 5 dicembre 1997, e infine dal D.M. 30.05.2002 che prescrive: Gli onorari di cui all'art. 4 della legge 8 luglio 1980, n. 319, sono rideterminati nella misura di € 14,68 per la prima vacazione e di € 8,15 per ciascuna delle vacazioni successive.”
[22] Si veda anche il Decreto Ministeriale 30 Maggio 2002: “Adeguamento dei compensi spettanti ai periti, consulenti, tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite su disposizione dell'autorità giudiziaria in materia civile e penale”. Detto D.M., oltre ad aggiornare gli onorari di vacazione, rinnova e rivede le Tabelle degli onorari da riconoscere ai periti e consulenti nominati dall'autorità giudiziaria precedentemente previste dalla L. 8 luglio 1980 n° 319 e dal D.P.R. 14 novembre 1983, n. 820.
[23] Progressivo, seguito da un numero, è il termine utilizzato nel gergo giuridico investigativo per identificare un determinato reperto fonico.
[24]Con l’acronimo RIT si intende il numero identificativo del registro delle intercettazioni autorizzate dalla Procura e comprendente le singole captazioni per utenza telefonica o postazione ambientale o audio/video.
[25]Art. 228 comma 2 Cpp.
[26] Art. 230 Cpp, attività dei consulenti tecnici. 1. I consulenti tecnici possono assistere al conferimento dell'incarico al perito e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve, delle quali è fatta menzione nel verbale.2. Essi possono partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve, delle quali deve darsi atto nella relazione.3. Se sono nominati dopo l'esaurimento delle operazioni peritali, i consulenti tecnici possono esaminare le relazioni e richiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa e il luogo oggetto della perizia.4. La nomina dei consulenti tecnici e lo svolgimento della loro attività non può ritardare l'esecuzione della perizia e il compimento delle altre attività processuali).
[27] Art. 230, comma 3 Cpp.
[28] L’attività peritale in ambito penale è compendiata al Libro III Prove – Titolo II Mezzi di prova - Capo VI Perizia Cpp, artt. da 220 a 233.
[29]A. Paoloni, Le indagini foniche, Fondazione Ugo Boldoni, Roma: “[…] I compiti che un fonetico forense è chiamato a svolgere nell'ambito di un processo penale sono numerosi, tra questi il più frequente è relativo alla trascrizione delle intercettazioni telefoniche o ambientali. Sempre in questo ambito vi è la trascrizione delle cosiddette “disputedutterances” ossia delle frasi di difficile comprensione per le quali vengono proposte dalle parti interpretazioni diverse [Paoloni 2006]. Altro tema molto significativo è quello dell'identificazione del parlante, che comprende, oltre al riconoscimento propriamente detto, anche la preparazione di un confronto all'americana tra più voci e, in assenza di un sospettato, la caratterizzazione del parlante anonimo. Altri compiti spesso richiesti sono il filtraggio del segnale vocale o comunque il miglioramento della qualità di un segnale degradato e la verifica dell’autenticità di un segnale per escludere che sia il risultato di una manipolazione. Infine segnaliamo il tema dell'analisi di un segnale audio per identificare quale sia la sorgente di un rumore o suono che intervenga nel corso di una registrazione. Questo elenco di compiti, alcuni certamente di competenza del linguista, altri più adatti ad un esperto di ingegneria del suono, non rappresentano certamente tutti gli incarichi che possono essere di volta in volta assegnati nell'ambito di questo la tematica [Hollien 1990]. Tra i compiti sopra elencati ci limiteremo, nel presente lavoro, ad alcuni cenni sul problema della trascrizione delle intercettazioni per approfondire il tema della identificazione del parlante[Braun 1995]. Riteniamo utile rappresentare che l'elenco delle richieste appena presentato non fa altro che dettagliare quello che la Corte in generale chiede quando una registrazione sonora è al centro di un dibattito processuale. La Corte infatti chiede: che venga esclusa ogni possibile manipolazione del segnale; che ne venga trascritto correttamente il contenuto, mettendo in chiaro eventuali termini gergali o dialettali ed eventuali frasi in lingua diversa dall'italiano; che vengano identificate le voci dei parlanti; che siano identificati i singoli suoni che via via si ascoltano; ecc. Ciascuno dei precedenti punti di interesse della Corte richiede un lavoro non semplice, a volte impossibile da svolgere con sufficiente attendibilità. Le difficoltà dell'esperto incontra nel rispondere alle richieste della Corte sono nella maggior parte dei casi dovuti alla scarsa qualità del materiale all'audio reso disponibile. Per lo più le intercettazioni sono relative a comunicazioni tra telefoni cellulari, che fanno uso di una codifica (GSM) a tasso variabile con caratteristiche di banda passante e dinamica molto limitate, inferiori nettamente a quelle della telefonia fissa (cosiddetta terrestre). Un'altra importante percentuale di segnali intercettati, oltre a essere trasmessi con la stessa codifica GSM, provengono da intercettazioni ambientali, dove l'aleatorietà della distanza tra la sorgente e microfono e la presenza di numerosi rumori di fondo, origina una qualità ancora inferiore a quella ottenibile nella situazione precedente e spesso tale da non consentire non solo la corretta identificazione delle voci e dei suoni, ma addirittura la corretta comprensione delle parole dando origine a dispute giustificate sulla trascrizione del segnale reso disponibile. Riteniamo che da questa premessa sia possibile comprendere quanto sia arduo il compito di chi voglia rispondere, almeno in parte, a quelle che sono le esigenze manifestate dai Magistrati […]”.
[30]www.acsss.it, Nuove indagini computerizzate sulle voci paranormali, di D. GULLA’ e G. LENZI : “[…] La metodologia di riconoscimento di un parlatore, o meglio, il confronto tra una voce ignota (solitamente d’origine telefonica o da intercettazione ambientale) e la voce di un parlatore noto, anch’essa acquisita tramite una registrazione, nacque nel 1937, relativamente al procedimento contro il presunto sequestratore del figlio del trasvolatore atlantico Lindberg: era condotta, al tempo, mediante la sola prova uditiva. Successivamente, mediante il prelievo del cosiddetto Saggio Fonico, fu introdotto il metodo di L. Kersta, del 1962, con successive evoluzioni, consistente nell'analizzare una traccia grafica, detta sonagramma, eseguita da apparecchi quale il Sonagraph della ditta KAY Elemetrics, o analoghe metodologie di analisi implementate su calcolatore con scheda di acquisizione, come utilizzate nella perizia in questione. La traccia rappresenta un grafico tridimensionale riportante nell'ascissa (asse orizzontale) il tempo, nell'ordinata (asse verticale) la frequenza, e come terza dimensione, rappresentata come maggiore o minore annerimento della carta, l'energia su scala logaritmica del segnale contenuto entro una banda di frequenza pari a 300 Hz, centrata sulla frequenza indicata dall'ordinata ( atti del XV° Convegno Internazionale del “MOVIMENTO DELLA SPERANZA”!, Cattolica, 21 - 23 Settembre 2001).[…]”.
[31] R. Simone, La terza fase, Editore Laterza, Bari (2000), pag. 15: “[…] nella scrittura, ben più che nel parlato, si intrecciano abilità di basso e di alto livello. Chi scrive deve controllare, ad esempio l’ortografia, gli accordi tra le parole, la punteggiatura, e una varietà di altri aspetti di dettaglio, che contribuiscono molto a fare di un testo scritto un testo di buona qualità. Ad un livello più alto deve controllare dimensioni più astratte e elaborate, come la scelta degli argomenti, il loro montaggio, la lingua con cui esprimerli, e così via. L’aspetto incomodo di questa distinzione è che normalmente le abilità di basso livello interferiscono sulle altre, disturbandole e facendo da barriera alla piena padronanza di quelle ad alto livello, e impiegando l’attenzione dello scrivente in modo esclusivo[…]”.
[32]B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Editore Einaudi, Torino ( 2001), pag. 429: “[…]Per discorso riportato si intendono i vari modi [discorso diretto; discorso indiretto; discorso, o stile, indiretto libero, detto anche semi-indiretto; discorso semi-diretto, propri odi stili informali o negligenti; discorso diretto libero, prevalentemente letterario] in cui si possono citare enunciati prodotti o da produrre in un atto di enunciazione diverso da quello che dà luogo alla citazione. Qualificazioni equivalenti a riportato sono, riferito, citato, riprodotto; tutte devono essere intese come neutre rispetto ai modi della citazione/riproduzione. La riproduzione o rappresentazione di un discorso è un evento linguistico distinto dalla produzione originale del medesimo[…]”.
[33] P. Bellucci, A onor del vero. Fondamenti di linguistica giudiziaria, Editore UTET, Torino (2002), pag. 106: “[…] il verbalizzante si trova a dover compiere operazioni complesse, quasi sempre con competenze linguistiche inadeguate. Si comprende bene, allora come e perché quell’italiano burocratico formulaico – così ridicolo e fuorviante agli occhi di chi è linguisticamente abile – diventi l’unica àncora disponibile per chi abile non è, per chi non possiede <<un uso ricco e vario della lingua, per chi scelte non ha per superare il proprio parlato popolare e regionale ( e talvolta anche una marcata abitudine alla dialettofonia), per chi non ha avuto una sicura e prolungata educazione alla lingua scritta[…]”.
[34]A. Paoloni, D. Zavattaro, Intercettazioni telefoniche e ambientali, Centro Scientifico Editore, Torino (2007), pag. 138: “[…] Un altro fattore che pone l’ennesima difficoltà al trascrittore è il problema dell’interpretazione, comprensione ed eventuale traduzione della produzione di parlanti dialettofoni e gergali […]”.
[35] Ibidem: “[…] Il trascrittore ideale dovrebbe possedere nel proprio bagaglio culturale, oltre ovviamente a un buon udito e una specifica esperienza in questo compito, conoscenze relative a: […] il modo di parlare, ovvero lo specifico idioma delle persone di cui si sta trascrivendo la conversazione […] Per conoscere da vicino il gergo –intendendo con questo termine il particolare idioletto utilizzato dai parlanti di cui si opera la verbalizzazione – si dovrebbe far parte dello stesso ambito linguistico, anche se ciò non sarebbe comunque sufficiente a garantire la conoscenza fonetica e le modalità di trasposizione adeguate […]”.
[36] Secondo G. Berruto si intendono item linguistici “i singoli pezzetti di linguaggio ai quali alcune asserzioni sociolinguistiche debbono far riferimento, quando non sono più possibili asserzioni globali”.
[37] D. Hymes, Verso un’etnografia della comunicazione: l’analisi degli eventi comunicativi, in P. Giglioli, Linguaggio e società, Editore il Mulino Bologna (1972), pag. 65.
[38]G.Rohlfs, Studi e ricerche su lingue e dialetti d’Italia, Firenze (1972); J. C. Eustace, Classical tour throughItaly, Vol. III, London, (1814); D. Rodà, La lingua mozzata . Gli ultimi grecanici della vallata dell’Amendolea, Keleidon Editore, Reggio Calabria (2006); E. Lear , Diario di un viaggio a piedi: Reggio Calabria e la sua provincia, Parallelo 38 (1973); C. Lombroso, Tre mesi in Calabria, in “Rivista contemporanea”(1863), pag. 11.
[39] G. Berruto, Fondamenti di sociolinguistica, Editori Laterza, Roma (2003), pag.170.
[40]Ibidem.
[41]Ibidem.
[42] Il dialetto è la lingua parlata all’interno del modello giuridico normativo e regola le interazioni tra gli amministrati del pianeta ‘ndrangheta.
[43] Il dialetto è il modello linguistico adoperato nell’istruzione degli associati e di quanti orbitano nel sistema a vario titolo.
[44] Le espressioni dialettali e gergali sono dettagli tecnici, spesso di difficile esplicitazione semantica nella lingua italiana.
[45] L’internazionalizzazione del modello ‘ndrangheta, tra contesti globali e glocali, trova esplicitazione nelle tantissime risultanze processuali.
[46]Cass. Pen., 1 sez., 24 aprile 1982, n. 805. Pres. Fasani, est. Picininni; Cass. Pen., 1 sez., 19 luglio 1988, n. 8193. Pres. Carnevale, est. Serianni.
[47] Cfr. atti del convegno “Utilizzabilità dell’intercettazione per la trascrizione del parlato”, cit.
[48] P. Bellucci, A onor del vero. Fondamenti di linguistica giudiziaria, cit., pag. 65: “[...] Un fondato garantismo esige […] (che l’operazione di trascrizione) si configuri come riproduzione, il più fedele possibile, di « ciò che viene detto/fatto » e sia tesa ad assicurare che l’interpretazione resti di competenza degli operatori del diritto, e non di chi ricava dalla registrazione sonora un testo scritto. Il prodotto finale non deve essere un esempio di bello scrivere bensì uno strumento di accertamento della verità e il perseguimento di questo obiettivo implica competenze alte e varie. L’onestà è un prerequisito, ma da sola in questo caso porta poco lontano. Le operazioni di sbobinatura e trasformazione del ‘parlato’ in ‘scritto’ sono tecnicamente complesse e tutt’altro che neutre, come i linguisti vanno dimostrando da anni, senza però riuscire a far penetrare, e radicare, i loro risultati nella cultura diffusa. Queste difficoltà sono reali perfino quando il parlato è chiaro e la registrazione buona – come sa chiunque abbia provato a sbobinare una conversazione – e crescono in modo esponenziale con l’ingresso di variabili di disturbo o di complicazione (pur escludendo a priori ogni intento di manipolazione).
[49]Sociologia della comunicazione quale strumento d’indagine”, cit.:”[…] Ciò in quanto la situazione comunicativa viene spesso acquisita in forma esclusivamente dialettale, con frequenti code swiching, salti linguistici, cambi d’argomento, sott’intesi ed espressioni gergali. La sua documentazione, a prescindere da possibili precisazioni extralinguistiche sulla cinesica, mimica e postura, non trova, solitamente, adeguata rappresentazione paraverbale, in quanto difficilmente la trasposizione, dal parlato allo scritto, di una conversazione di interesse giudiziario reca anche dettagli di tipo prosodico, come l’enfasi, le pause, il ritmo, l’intonazione, o ancora quei microtremori significativi di una situazione di distress tra i conversanti […]”.
[50] International Phonetic Alphabet.
[51]Ibidem.
[52] Ad esempio: ore 13.42 il parlante “A” con timbro di voce elevato intimorisce il parlante “B” profferendo: “ se parli ti finisce male”.
[53]www.helenfraser.com.au, pubblicazioni di Helen Fraser: manuscript. Teaching teachers to teach /r/ and /l/ to Japanese learners of English: An integrated approach; Fraser, Helen. 2011. Speaking and listening in the multicultural university: A reflective case study. Journal of Academic Language and Learning. 5(1) A110-128; Fraser, Helen. 2011. Phonetics and phonology. In Routledge Handbook of Applied Linguistics, ed. James Simpson. New York: Routledge; Fraser, Helen. in press. Speaking of speech: Developing metalanguage for effective communication about pronunciation between English language teachers and learners. In Proceedings of the International Conference on English Pronunciation: Issues and Practices, Chambéry, France 3–5 June 2009, ed. Alice Henderson. Chambéry: Université de Savoie; Fraser, Helen. 2010. Teaching suprasegmentals like the stars. Speak Out! (IATEFL) 43; Fraser, Helen. 2010. Transcripts in the legal system. In Expert Evidence (Chapter 100), eds. Ian Freckelton and Hugh Selby. Sydney: Thomson Reuters; Fraser, Helen. 2010. Cognitive Phonology as a tool for teaching pronunciation. In Fostering Language Teaching Efficiency through Cognitive Linguistics, eds. Sabine De Knop, Frank Boers and Teun De Rycker. Berlin: Mouton de Gruyter; Fraser, Helen. 2009. The role of 'educated native speakers' in providing language analysis for the determination of the origin of asylum seekers. International Journal of Speech Language and the Law 16:113-138; Fraser, Helen, and Andrea Schalley. 2009. Communicating about communication: Intercultural communication as a factor in interdiscplinary collaboration. Australian Journal of LInguistics (part of a special issue on Conceptualising Communication) 29:135-155; Fraser, Helen. 2009. Pronunciation as categorization: The role of contrast in teaching English /r/ and /l/. In Studies in Applied Linguistics and Language Learning, eds. AhmarMahboob and Caroline Lipovsky, 289-306. Newcastle upon Tyne: Cambridge Scholars Publishing; Buckland, Corinne, and Helen Fraser. 2008. Phonological literacy for teachers: Preparing teachers for the challenge of a balanced approach to literacy education. Australian Journal of Language and Literacy 31:59-73; Fraser, Helen. 2008. Pronouncing on the right side of the brain. Teacher Trainer Journal 22; Fraser, Helen. 2007. Categories and Concepts in Phonology: Theory and Practice. In Mental States. Vol.2: Language and Cognitive Structure (Papers from the International Language and Cognition Conference Sept 2004), eds. Andrea Schalley and Drew Khlentzos. Amsterdam: Benjamins; Fraser, Helen. 2006. Phonological Concepts and Concept Formation: Metatheory, Theory and Application. International Journal of English Studies 6:55-75; Fraser, Helen. 2006. Helping teachers help students with pronunciation. Prospect: A journal of Australian TESOL 21:80-94; Hannam, Rachel, Helen Fraser, and Brian Byrne. 2006. The sbelling of sdops: Preliterate Children's Spelling of Stops After /s/. Reading and Writing: An Interdisciplinary Journal; Fraser, Helen. 2004. Constraining abstractness: Phonological representation in the light of color terms. Cognitive Linguistics 15:239-288; Fraser, Helen. 2003. Issues in Transcription: Factors affecting the reliability of transcripts as evidence in legal cases. International Journal of Speech Language and the Law 10:203-226; Fraser, Helen. 2004. Teaching Pronunciation: A guide for teachers of English as a second language (CD-ROM, updated). Canberra: Commonwealth of Australia, Department of Education Training and Youth Affairs.Available from the authorFraser, Helen. 2001. Teaching Pronunciation: A handbook for teachers and trainers. Sydney: TAFE NSW Access Division; Fraser, Helen. 2000. Tips for teaching pronunciation: Recording students' voices. ATESOL Journal (Canberra, ACT); Fraser, Helen. 2000. Coordinating improvements in pronunciation teaching for adult learners of English as a second language. Canberra: Commonwealth of Australia, Department of Education Training and Youth Affairs (Available from the author); Fraser, Helen. 1997. Dictionary pronunciation guides for English. International Journal of Lexicography 10:181-208; Fraser, Helen. 1996. Guy-dance with pro-nun-see-ay-shun. English Today 12:28-37; Fraser, H. 1996. Identifying Taped Voices – What phonetic science can and can't do. Policing Issues and Practices Journal 4:39-43; Fraser, Helen. 1992. The Subject of Speech Perception: An analysis of the philosophical foundations of the information-processing model of cognition. (Chapter 3) London: Macmillan.
[54] Fonte: atti del convegno “Utilizzabilità dell’intercettazione per la trascrizione del parlato”, Camera Penale di Roma, intervento di Andrea Paoloni, cit.
[55]Fonte: ibidem
[56] Art. 220 c.p.p.
[57] Cassazione, Sez. IV, 28 settembre 2004, n. 47891, Mauro, rv 230569 - Sez. I, 13 luglio 1995, n. 9820, Pappalardo, rv 202464.
[58] Cassazione, Sez.VI, 26 novembre 2002, Brozzu, rv 226148.
[59] G. Berruto, Corso elementare di linguistica generale, UTET Editore, Torino (1997), pag. 84.
[60] Art. 221 c.p.p.
[61] A. Paoloni, Le indagini foniche, cit.
[62] Cetrioli.
[63] Tritolo.
[64] www.ilpost.it, Il caso delle intercettazioni sbagliate a Pavia. La difesa ha dimostrato la scorrettezza di una serie di trascrizioni degli audio che avevano portato all'accusa di corruzione elettorale, pubblicato il 15 novembre 2011: “[…]Luigi Ferrarella racconta sul Corriere della Sera di oggi la storia di un supposto caso di corruzione elettorale a Pavia, falsato da diversi errori nelle trascrizioni delle intercettazioni, dove «ho contato i suoi voti» è diventato «ho comprato i suoi voti», per esempio. L’innocua frase «adesso chiamo Luca Tronconi» è diventata, chissà come, «rischiamo un po’ troppo» . E sempre nella trascrizione delle intercettazioni fatta dal perito del Tribunale di Pavia su un caso di supposta corruzione elettorale di ‘ndrangheta, «ho contato i suoi voti» è stato malinteso in un ben più compromettente «ho comprato i due voti». L’aplomb dei giudici le chiama «qualche differenza di non poco conto tra quanto riportato dal perito del Tribunale e quanto sostenuto dal consulente della difesa»: «discrepanze» risolte dai giudici Beretta-Riganti-Balduzzi solo con l’«ascolto diretto» dell’audio, fino a concludere che «l’interpretazione decisamente più corretta» è «quella della difesa». E ora con questo motivano, oltre che con un mancato accertamento anagrafico da parte degli inquirenti, l’assoluzione il 12 ottobre dall’accusa di voto di scambio dell’ex direttore sanitario dell’Asl di Pavia, Carlo Chiriaco, e dell’ex assessore comunale Pdl al Commercio, Pietro Trivi, nel blitz «Infinito» istruito nel 2010 dal procuratore aggiunto milanese Ilda Boccassini e dai pm Alessandra Dolci e Paolo Storari. Mentre a Milano è in corso il processo principale a Chiriaco per concorso esterno in associazione mafiosa, a Pavia la Dda milanese chiedeva 2 anni per lui e Trivi accusati d’aver dato 2.000 euro il 20 maggio 2009 a un infermiere e sindacalista dell’ospedale San Matteo «per ottenere il suo voto e quello di altri soggetti non identificati» nelle comunali a Pavia del giugno 2009», con l’aggravante d’aver con ciò favorito la ‘ndrangheta. I due replicavano d’aver solo finanziato un attivista per la campagna elettorale, e l’infermiere (pur spiegando d’aver fatto un po’ la cresta) lo confermava […]”.
[65] www.archiviostorico.corriere.it, Intercettazioni sbagliate La Cassazione non assolve gli agenti, di Luigi Ferrarella, pubblicato il 5 giugno 2012, Corriere della Sera, pag. 25: “[…]Il processo Le trascrizioni nel 2005 portarono all' arresto di un giudice di Messina poi risultato innocente.
MILANO - È illogico dichiarare il non luogo a procedere nei confronti di 5 poliziotti e un perito fonico nel presupposto che «una allucinazione acustica collettiva» abbia potuto coinvolgere 6 persone su un' intercettazione che dura mezz' ora: la Cassazione annulla la sentenza con la quale il Tribunale di Lecco il 14 luglio 2011 ha sposato la tesi del «miraggio» acustico e quindi prosciolto un vicequestore, 4 agenti della Dia di Messina e un perito della Procura generale di Reggio Calabria che nel 2005 e 2006, nel trascrivere conversazioni captate al bar Grillo di Messina il 23 luglio 2001 e nello studio di un commercialista, attestarono dettagliati contenuti (su traffici di armi, procedure fallimentari «aggiustate» e persino l' omicidio del docente universitario Matteo Bottari) che determinarono l' arresto di costruttori, di un sottosegretario al Tesoro e anche di un presidente di sezione del Tribunale civile di Messina, Giuseppe Savoca. L' asserito contenuto delle intercettazioni si era però poi rivelato talmente fantasioso da imporre, nel prosieguo della maxi-inchiesta «Gioco d' azzardo», subito l' archiviazione di quasi tutti gli indagati, compreso il magistrato reintegrato in servizio e risarcito con 250.000 euro per due mesi di ingiusta detenzione ai domiciliari. Savoca, rimarcando l' abissale differenza tra ciò che (non) si sente e ciò che risulta trascritto, denunciò agenti e perito per falso ideologico e calunnia. Ma nel 2011 il giudice lecchese Gianmarco De Vincenzi ritenne di non ordinare il processo perché, in assenza di dati per pensare a «un complotto» tra pm-poliziotti-periti, «l' assoluta inintelligibilità e complessiva aleatorietà del materiale acustico» non significa a suo avviso che «rumori, fonemi e brandelli estrapolabili dalla registrazione possono essere classificati come radicalmente non udibili», ma solo che sono «aperti a percezioni di carattere comprensibilmente soggettivo» nel quadro di «una relatività interpretativa». Ora però la sesta sezione della Cassazione (presidente Agrò, relatore Aprile) giudica «inaccettabile la coincidenza di una "allucinazione acustica collettiva" riguardante ben 6 persone», e «illogico» che il gup sorvoli sul fatto che di un «materiale sonoro intrascrivibile» gli indagati abbiano «al contrario stilato una lunga e articolata trascrizione zeppa di nomi, cognomi, luoghi e riferimenti a reati gravissimi», persino «attribuendo ciascuna frase a singoli dialoganti». L' udienza preliminare dovrà essere rifatta […]”.
[66] G. Berruto, Corso elementare di linguistica generale, cit. pag. 43.
[67] Peppe Mazzaferro.
[68] Quello.
[69] P. Corbetta, Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Il Mulino editore, Bologna (1999).
[70] Cioè forte rumore, clamore.
[71] Si tratta dell’appellativo con cui vengono indicati i componenti della cosca “Romeo la Minore” di San Luca-Bovalino.
[72] Un ceppo criminale di Platì, facente capo alla famiglia Barbaro.
[73] Un secondo ceppo criminale dei platioti aventi lo stesso cognome del precedente.
[74] I sodali di Giuseppe Morabito della cosca di Africo.
[75] I componenti della ‘ndrina dei Labate del quartiere Gebbione a Reggio Calabria.
[76] La famiglia mafiosa degli Ierinò di Gioiosa Jonica.
[77]Zema Carmelo,
[78] Lombardo Giuseppe,
[79] La famiglia Caridi del quartiere San Giorgio Extra di Reggio Calabria.
[80] Armato.
[81] Pistola.
[82] Il coltello a serramanico.
[83] Decreto nr. 4259/09 R.G.D.D.A. e nr. 1615/09 R.I.T.D.D.A., Procura della Repubblica di Palmi, trascrizione del perito incaricato dal Tribunale.
[84] A. Gaito, A. Bargi, Codice di Procedura Penale annotato con la giurisprudenza, cit. pag. 820: “[…]qualora a seguito di intercettazione di comunicazione tra presenti venga disposta perizia con cui siano trascritte le comunicazioni intercettate e registrate e qualora il perito sia stato nella disponibilità dei brogliacci delle intercettazioni redatti dalla polizia giudiziaria ex art. 268 Cpp che non avrebbero dovuto essere allegati al fascicolo dibattimentale, è da escludere, in mancanza di previsione normativa, l’inutilizzabilità della detta perizia ovvero l’irritualità della stessa, se da nessun elemento del processo è dato dedurre che il perito sia stato fuorviato dalla conoscenza dei brogliacci. (Cass. Pen., Sez. I, 23.3.94, Pulito, GP, 1996, III, 363) […]”.
[85] Si rammenta, ancora una volta, che per una parte della giurisprudenza sono utilizzabili per la decisione le trascrizioni delle conversazioni effettuate dalla polizia giudiziaria (Cassazione, Sez. IV, 28 settembre 2004, n. 47891, Mauro, rv 230569 - Sez. I, 13 luglio 1995, n. 9820, Pappalardo, rv 202464) e che altro orientamento giurisprudenziale attribuisce anche ai brogliacci l’utilizzabilità per la decisione (Cassazione, Sez.VI, 26 novembre 2002, Brozzu, rv 226148).
Verso lo sciopero generale: in piazza anche fonici, stenotipisti e trascrittori degli uffici giudiziari. Redazione Palermo Today il 15 dicembre 2021
Si occupano del servizio di documentazione degli atti processuali e, tra Palermo e Termini Imerese, sono 50 dipendenti: “Siamo i fantasmi dei Tribunali. Chiediamo il riconoscimento della categoria”
I fonici, stenotipisti e trascrittori forensi dei Tribunali di Palermo e di Termini Imerese, che si occupano del delicato compito della registrazione, trascrizione e stenotipia delle udienze di carattere penale, tra cui gli atti dei processi per mafia, domani saranno in piazza. I 50 dipendenti degli uffici giudiziari aderiscono allo sciopero generale. Parteciperanno alla manifestazione con slogan e striscioni, e la vignetta con i fantasmi disegnata da Vauro, per dare visibilità alle loro istanze, ovvero chiedere il riconoscimento del loro ruolo professionale e un contratto specifico per la loro categoria.
Rivendicazioni che negli ultimi tre anni sono state sollecitate più volte all'indirizzo del ministero della Giustizia, con relative richieste di incontro, rimaste senza risposta. Il servizio di documentazione degli atti processuali è stato svolto per oltre venti anni e fino al 2017, da diverse aziende che applicavano diversi Ccnl, spesso “contratti pirata” e senza tutele.
Nel 2017 è subentrato il consorzio Ciclat, che ha dato la gestione alle aziende Nuovi Orizzonti, Ricina e Verbatim, con cui Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltrasporti hanno avviato un confronto che si è concluso con il riconoscimento del contratto nazionale per i servizi di pulizia e servizi integrati/ Multiservizi. L'attuale appalto è in proroga fino a giugno 2022. Nel frattempo si parla di un concorso per tremila operatori con mansioni corrispondenti a quelle degli impiegati nei servizi di documentazione degli atti processuali.
E la preoccupazione sul mantenimento della continuità occupazionale delle lavoratrici e dei lavoratori del settore è tornata alta. “A Palermo, così come negli altri territori, nelle ultime assemblee, con il voto della maggioranza, lavoratori e lavoratrici hanno ritenuto opportuno condividere e rendere condivisibili dei punti fondamentali per gli interessi del comparto, al di là delle superiori ragioni sociali contro la manovra del governo per cui domani si scende insieme in piazza”, dichiarano il segretario generale Filcams Cgil Palermo Giuseppe Aiello e il segretario Filcams Cgil Palermo Manlio Mandalari che segue il settore.
“Temiamo che le assunzioni possano soppiantare questo servizio. Nel bando - aggiungono Aiello e Mandalari - non è prevista né una prelazione né un titolo che possa in qualche modo tutelare i lavoratori attualmente occupati. I lavoratori hanno anche il contratto integrativo scaduto. Il rinnovo del contratto di secondo livello è importante perché l'integrativo regolamenta alcuni aspetti fondamentali, a partire dai livelli di inquadramento e dall'organizzazione del lavoro ed è lo strumento per arrivare al riconoscimento della categoria perché definisce le peculiarità di questa tipologia professionale”.
“Siamo molto preoccupati per le conseguenze negative e inaccettabili che il possibile concorso potrebbe avere sul nostro lavoro – aggiunge Emanuele Bongiorno, fonico e trascrittore part time, Rsa della Filcams Cgil per Palermo e Termini - Il ministero, nell'eventualità di indizione del concorso, chiediamo tenga conto del servizio che abbiamo finora svolto e riconosca il diritto di prelazione e ogni realizzabile preferenza riguardo ai requisiti di accesso. Ora molti ritengono che il Multiservizi non possa essere per sempre il nostro Ccnl. Per noi dal 2017 rappresenta la base normativa di riferimento e oggi è lo scudo contro la vecchia precarietà, è il contratto contro la paura, contro il terrore del cambio-appalto, è il contratto collettivo nazionale del coraggio”.
Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori Data Entry: prova scritta entro giugno. Elena Bucci il 17/05/22 su leggioggi.it.
Ssecondo quanto riportato profilo Facebook ufficiale del Ministero della Giustizia, i candidati alla procedura selettiva per l’assunzione di 5410 unità a tempo determinato, di cui 3000 Operatori Data Entry, svolgeranno la prova scritta entro giugno.
Nei prossimi paragrafi tutte le informazioni utili riguardo la prova scritta e il programma d’esame. Di seguito il Manuale per la preparazione della prova.
Nuove opportunità di lavoro per personale diplomato e laureato con il concorso Ministero Giustizia, finalizzato all’assunzione di un totale di 5410 figure professionali al fine di rafforzare l’amministrazione giudiziaria, tra cui spiccano anche i 3000 posti di Operatore Data Entry.
I bandi sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 1 aprile 2022, e prevedono l’assunzione di:
1660 unità di personale non dirigenziale dell’area funzionale terza, fascia economica F1;
750 unità di personale non dirigenziale dell’area funzionale seconda, fascia economica F2;
3000 unità di Operatore Data Entry, personale non dirigenziale dell’area funzionale seconda, fascia economica F1.
Nello specifico, il Ministero ha messo a concorso 3000 posti per il profilo professionale di Operatore Data Entry con contratto a 36 mesi, a cui si accede con qualunque diploma di istruzione secondaria di secondo grado.
Concorso Ministero Giustizia 2022, 5410 diplomati e laureati: bando in Gazzetta
Nei prossimi paragrafi vediamo tutti i requisiti richiesti per accedere a questo ruolo, come partecipare alla procedura concorsuale le prove d’esame previste dal bando.
Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: requisiti
Per avere accesso alla procedura concorsuale indetta dal Ministero della Giustizia, i candidati devono essere in possesso dei seguenti requisiti alla data di scadenza del bando:
cittadinanza italiana o di uno Stato membro dell’Unione Europea;
età maggiore a 18 anni;
idoneità fisica allo svolgimento delle funzioni;
qualità morali e di condotta;
godimento dei diritti civili e politici;
non essere stati esclusi dall’elettorato politico attivo;
non essere stati destituiti o dispensati dall’impiego presso una pubblica amministrazione per persistente insufficiente rendimento;
non essere stati dichiarati decaduti o licenziati da un impiego statale;
non aver riportato condanne penali, passate in giudicato, per reati che comportano l’interdizione dai pubblici uffici;
per i candidati di sesso maschile, posizione regolare nei riguardi degli obblighi di leva secondo la vigente normativa italiana.
Inoltre, come si legge nel bando, per il profilo di Operatore Data Entry, è richiesto agli aspiranti candidati il possesso del diploma di istruzione secondaria di secondo grado che consenta l’iscrizione ad una facoltà universitaria.
Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: come partecipare
La domanda deve essere compilata attraverso il Sistema pubblico di identità digitale (SPID), compilando il modulo elettronico sul sistema « Step-one 2019», raggiungibile dalla rete internet all’indirizzo ripam.cloud.
La procedura per iscriversi ai concorsi rimarrà attiva fino alle ore 14 del giorno 28 aprile 2022.
Ministero Giustizia, 5410 assunzioni: istruzioni per fare domanda
Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: prove
La prova scritta, unica per tutti i profili e per tutti i codici di concorso, consiste in un test di 40 quesiti a risposta multipla che deve essere risolto nell’arco di 60 minuti.
La prova si intende superata con il punteggio minimo di 21/30 e, nel caso del profilo professionale di Operatore Data Entry, è volta a verificare la conoscenza delle seguenti materie:
Elementi di informatica;
Elementi di diritto pubblico;
Lingua inglese.
A ciascuna risposta sarà attribuito il seguente punteggio:
risposta esatta: + 0,75 punti;
mancata risposta: 0 punti;
risposta sbagliata: – 0,375 punti.
Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: come prepararsi
Per la preparazione della prova scritta del concorso per 3000 Operatori Data Entry, consigliamo il seguente volume, completo di un utile simulatore di quiz su tutte le materie oggetto della prova scritta, per allenarsi in vista della prova:
Concorso 5410 posti Ministero della Giustizia 3000 Operatori Data Entry – Prova scritta
Luigi Tramontano, Luciano Manelli, Maggioli Editore
Il manuale presenta in maniera chiara e approfondita tutte le materie richieste per la preparazione alla prova scritta:
– Elementi di Diritto pubblico;
– Elementi di Informatica;
– Lingua inglese (quiz).
Segnaliamo anche il Corso intensivo di Diritto Pubblico, a cura del professor Luigi Tramontano, che aiuterà i candidati nella preparazione alla prova scritta unica, un test di 40 domande a risposta multipla da risolvere in 60 minuti su Diritto pubblico, Elementi di Informatica e Lingua inglese.
Il corso sarà strutturato in 18 lezioni: in ogni lezione il docente illustrerà gli elementi principali di ogni argomento, fornendo, con l’ausilio di mappe concettuali, le chiavi per una rapida ed efficace memorizzazione della materia.
Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: valutazione titoli
La valutazione dei titoli verrà effettuata sulla base dei titoli dichiarati dai candidati al momento della domanda di ammissione al concorso. Tale fase concorsuale prevede l’attribuzione dei seguenti punteggi:
fino a 6 punti per il voto di diploma
fino a 6 punti per il voto di laurea.
Qualora il diploma sia stato conseguito non oltre 7 anni prima del termine ultimo per la presentazione della domanda, i punteggi previsti sono raddoppiati.
Concorso Ministero Giustizia, 3000 Operatori: sedi
La procedura concorsuale indetta dal Ministero della Giustizia è su scala nazionale, e le assunzioni dei 3mila Operatori Data Entry saranno a tempo determinato.
Gli aspiranti candidati potranno indicare la sede durante la compilazione della propria domanda di ammissione. I posti sono così suddivisi:
Corte di cassazione e amministrazione centrale: 132;
Ancona: 71;
Bari 112;
Bologna: 162;
Brescia: 97;
Cagliari: 101;
Caltanissetta: 51;
Campobasso: 45;
Catania: 117;
Catanzaro: 116;
Firenze: 156;
Genova: 92;
L’Aquila: 87;
Lecce: 101;
Messina: 57;
Milano: 229;
Napoli: 290;
Palermo: 126;
Perugia: 50;
Potenza: 51;
Reggio Calabria: 82;
Roma: 244;
Salerno: 76;
Torino: 159;
Trieste: 59;
Venezia: 137.
Sindacati: dalla parte dei lavoratori? Non vogliono il concorso “Operatori Data Entry” del Ministero della Giustizia”.
Concorso, peraltro, che discrimina i vecchi diplomati da oltre 7 anni, dai nuovi diplomati.
Il Fonico-Trascrittore-Stenotipista per i sindacati è meglio sfruttato e schiavizzato?
Anche Marcell Jacobs corre i 100 metri in meno di un minuto, ma non vuol dire che lo fanno tutti.
Per convenzione di corso: 15 minuti di audio valgono 150 minuti di trascrizione.
Per le aziende-cooperative: 80 minuti di audio valgono 150 minuti di trascrizione.
11 pagine di trascrizione in un’ora, composte da 1500 caratteri a pagina, come previsto dagli accordi capestro con la complicità dei sindacati, è per i Jacobs di turno, senza contare gli adempimenti di scarico del sonoro e invio del testo trascritto, con le formalità del caso (Pec e Firma Elettronica).
1 pagina per loro vale dai 0,95 a 1,10 euro. Non è questione di velocità di dita sulla tastiera. Il Fonico-Trascrittore-Stenotipista è formato professionalmente in varie materie che va dalla grammatica al diritto, dalla criminologia all’informatica, ecc. Questo perché si deve trascrivere correttamente quello che si sente, secondo grammatica e sintassi e secondo uno stile appropriato, tanto che gli è permesso, anche e solo, correggere gli strafalcioni dei Magistrati, ma non quelli degli Avvocati o degli altri interventi in udienza (Periti, Consulenti Tecnici, Imputati, Testimoni).
Ed è egli stesso sottoposto al giudizio soggettivo del correttore di bozze, che spesso esula dalle direttive del manuale.
Questo è. Altrimenti, sì, basterebbe un semplice programma di trascrizione simultanea.
Inoltre, le aziende impiegatizie, impongono, oltre al cottimo, la collaborazione con partita Iva: perché, in questo modo, non licenziano e non riconoscono i diritti di tutela (ferie, maternità, Trattamento di fine Rapporto, ecc.). E, in più, impediscono la concorrenza del collaboratore autonomo.
Il Fonico-Trascrittore-Stenotipista, quando è assunto come dipendente, lo è, preferibilmente, a tempo determinato e con contratto di addetto alle pulizie. Naturalmente, il tempo indeterminato e per i Jacobs di turno.
Si deve tener conto che normalmente un’ora audio si trascrive dalle tre alle 5 ore e si materializzano in 11-12 pagine. Ergo 12 euro circa al trascrittore.
D’altro canto il Fonico-Trascrittore autonomo guadagna Euro: 40,00 circa per ora audio.
D’altro canto lo stenotipista autonomo guadagna Euro: 80,00 per ora audio.
Poi c’è il risvolto della medaglia. Gli stenotipisti assunti con concorso pubblico (truccato o truccabile) sono pagati meglio del re di Spagna; al Senato, Busta paga da 290 mila euro annui; alla Regione Sicilia Busta paga da 235 mila euro all’anno.
E poi, c’è da dire, che le imprese si guardano bene dal diffondere e far sapere la normativa sulla sicurezza del lavoro al videoterminale.
Lavoro al videoterminale e sicurezza: definizione, rischio e normativa. Da: corsisicurezza.it
I personal computer al giorno d'oggi costituiscono un elemento di fondamentale utilità in molti ambienti lavorativi. Anche se nell'immaginario comune si tende ad immaginare l'operatore che si serve del pc all'interno di un ufficio, è possibile che anche siti produttivi ne facciano uso per espletare al meglio le funzioni di controllo, per non parlare di chi lo utilizza nelle attività di progettazione. In questi casi, siamo in presenza di lavoro al videoterminale o VDT, un particolare tipo di attività da cui derivano rischi specifici e che, perciò, viene normata e disciplinata dal D.lgs 81/08 e dall'INAIL. Scopriamone di più.
Lavoro al videoterminale: definizione
Per lavoro al videoterminale si intende lo svolgimento di un'attività lavorativa che comporta appunto l'utilizzo di attrezzature munite di videoterminali. Il D.lgs 81/08 all'articolo 173 fornisce tre definizioni importanti per contestualizzare al meglio questo tipo di attività, rispondendo alle seguenti domande:
Cos'è un videoterminale?
uno schermo alfanumerico o grafico a prescindere dal tipo di procedimento di visualizzazione utilizzato;
Cosa si intende per posto di lavoro al VDT?
l'insieme che comprende le attrezzature munite di videoterminale, eventualmente con tastiera ovvero altro sistema di immissione dati, incluso il mouse, il software per l'interfaccia uomo-macchina, gli accessori opzionali, le apparecchiature connesse, comprendenti l'unità a dischi, il telefono, il modem, la stampante, il supporto per i documenti, la sedia, il piano di lavoro, nonché l'ambiente di lavoro immediatamente circostante;
Chi sono i lavoratori addetti al videoterminale?
I lavoratori che utilizzano attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale, per 20 ore settimanali
Lavoro al videoterminale: cosa comporta
Il lavoro al videoterminale comporta dei rischi specifici per la salute dei lavoratori come:
rischi occhi e vista;
rischi derivanti da problemi posturali;
rischi derivanti dall'affaticamento fisico o mentale;
rischi derivanti alle condizioni ergonomiche;
rischi derivanti dalle condizioni di igiene ambientale.
Tali rischi non dipendono soltanto dal VDT ma sono generati da tutti gli elementi che costituiscono l'ambiente in cui il videoterminalista si trova, ovvero:
componenti del VDT come schermo, tastiera ed eventuali altre periferiche;
caratteristiche dei software utilizzati;
caratteristiche della postazione, ovvero scrivania e seduta;
caratteristiche dell'ambiente, come illuminazione, microclima, presenza di rumore, areazione;
Lavoro al videoterminale: normativa
La normativa di riferimento è il D.Lgs 9 aprile 2008 n°81, Titolo VII "ATTREZZATURE MUNITE DI VIDEOTERMINALI" che, nei suoi 3 capi, definisce il rischio specifico fornendo:
Disposizioni generali;
Obblighi per datori di lavoro, dirigenti e preposti;
Sanzioni;
Tuttavia anche l'Inail definisce delle linee guida per il corretto utilizzo dei videoterminali e per la sicurezza degli operatori. Di seguito le disposizioni principali.
Quali sono gli obblighi del datore di lavoro?
All'atto della valutazione di tutti i rischi il datore di lavoro, ai sensi dell'articolo 174 del D.lgs 81/08 deve:
analizzare le postazioni di lavoro valutando la possibile presenza dei rischi derivati dal lavoro al Videoterminale elencati in precedenza;
adottare misure per ovviare ai rischi riscontrati tenendo conto della combinazione dell'incidenza degli stessi;
organizzare e predisporre posti di lavoro in conformità ai requisiti minimi di cui all'allegato XXXIV;
Postazione di lavoro videoterminale
Molti sono i dubbi postazione di lavoro: come devono stare le gambe, qual è la distanza corretta tra monitor e occhi, qual è l'altezza ottimale del sedile sono solo alcune delle domande più frequenti.
In risposta, ecco quali sono le direttive per allestire una postazione di lavoro VDT sicura:
regolare il sedile ad un'altezza che consente il mantenimento delle gambe a 90° e i piedi ben appoggiati;
regolare lo schienale in modo da sostenere l'intera zona lombare;
posizionare la tastiera in modo da lasciare uno spazio per appoggiare gli avambracci di almeno 15 cm;
Mantenere gli avambracci poggiati durante la digitazione;
Mantenere una distanza di circa 50-70 cm tra il videoterminale e gli occhi;
Regolare il monitor in modo che sia un po' più in basso dell'altezza occhi;
Regolare luminosità, colore e contrasto dello schermo;
Regolare le tende in modo da controllare la luce naturale;
porre gli schermi a 90° rispetto alle finestre;
Qual è la corretta distribuzione delle pause durante il lavoro al videoterminale?
Per quanto riguarda pause ed interruzioni, per legge il lavoratore ha diritto a 15 minuti di pausa ogni 120 minuti di applicazione continua al videoterminale, nei quali non sono compresi i tempi di attesa per lo spegnimento o l'accensione del pc. La pausa è considerata parte integrante dell'orario e assorbe anche l'intervallo di 10 minuti in causa di orario giornaliero superiore alle 6 ore previsto dal D.Lgs 66 del 2003.
Lavoro al videoterminale e sorveglianza sanitaria
La sorveglianza sanitaria è obbligatoria per i videoterminalisti che lavorano al pc almeno 20 ore medie alla settimana.
In questi casi, è necessario sottoporre a visita medica gli operatori prima che inizino a lavorare al VDT, effettuando un controllo della vista e degli occhi per determinare l'idoneità allo svolgimento della mansione. Le successive visite mediche e controlli devono avvenire con periodicità diverse a seconda dell'età del soggetto:
Lavoratore con meno di 50 anni
Visita e controllo della funzionalità visiva ogni 5 anni
Lavoratore con più di 50 anni
Visita e controllo della funzionalità visiva ogni 2 anni
La visita sarà svolta ogni 2 anni anche per soggetti con una idoneità con prescrizioni o limitazioni. Oltre ai controlli periodici ogni lavoratore può richiedere di effettuare una visita medica di accertamenti qualora manifesti disturbi ricollegabili al lavoro al VDT.
Fonici, trascrittori e stenotipisti, i Sindacati scrivono ancora alla Ministra della Giustizia e chiedono risposte concrete per la tutela occupazionale e per il riconoscimento contrattuale di lavoratrici e lavoratori, attraverso i quali è garantito lo svolgimento dei processi, in particolare di quelli penali. Da fisascat.it il 7 dicembre 2021
Roma, 7 dicembre 2021 - “Siamo nuovamente a sottoporre la situazione nella quale si trovano le circa 1.500 lavoratrici e lavoratori impiegati nell’appalto del Ministero della Giustizia per il servizio di documentazione degli atti processuali”, inizia così la nota che le organizzazioni sindacali Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltrasporti hanno inviato alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia, per chiedere un incontro urgente, vista la continua assenza di risposte.
“Il servizio di documentazione degli atti processuali è stato svolto, per oltre venti anni e fino al 2017, da una miriade di aziende che, su tutto il territorio nazionale, applicavano diversi Contratti Nazionali, spesso contratti pirata e senza tutele” spiegano i 3 sindacati, “attività svolte dalle lavoratrici e dai lavoratori nella precarietà e senza la giusta valorizzazione delle loro professionalità.”
A seguito della diffusione della notizia di un possibile “concorso Operatori Data Entry Ministero della Giustizia” per l’assunzione di 3000 operatori con mansioni perfettamente corrispondenti a quelle degli impiegati nel servizio di documentazione degli atti processuali, sono sorte grandi preoccupazioni circa le conseguenze negative e inaccettabili che tale percorso potrebbe avere sul mantenimento della continuità occupazionale delle lavoratrici e dei lavoratori dell’appalto.
L’assenza di risposte concrete da parte del Ministero della Giustizia e di tutti i Ministri che si sono succeduti, le incertezze legate agli esiti della gara di appalto, il timore di un ritorno a contratti di lavoro governati dalle irregolarità e le difficoltà quotidiane di lavoratrici e lavoratori che svolgono un’attività fondamentale per assicurare la Giustizia nel nostro Paese, ma che fino ad oggi non hanno ottenuto le risposte ed il riconoscimento contrattuale corretto, stanno creando un clima di sempre maggiori rabbia e tensione.
Per questo, Filcams, Fisascat e Uiltrasporti chiedono risposte concrete per la tutela occupazionale e per il riconoscimento contrattuale di lavoratrici e lavoratori, attraverso i quali è garantito lo svolgimento dei processi, in particolare di quelli penali.
Ricina, Nuovi Orizzonti, Verbatim, appalto fonici-trascrittori, aggiornamenti trattativa CIA 19/03/2018
Roma, 20 marzo 2018 su filcams.cgil.it
TESTO UNITARIO
Il 19 u. s. si è svolto il programmato incontro di trattativa per la definizione del Contratto Integrativo Pluriaziendale (CIP).
Nei giorni antecedenti la trattativa le imprese hanno anticipato una bozza di testo del contratto, con tutte le materie trattate, su cui procedere nel confronto.
Nel merito dell’incontro, sulla base dei testi predisposti, le Organizzazioni Sindacali hanno rappresentato alcuni aspetti che non coglievano in pieno quanto trattato nel corso dei diversi incontri e nello specifico hanno evidenziato quanto segue:
·Premessa e sfera di applicazione la bozza coglie gli aspetti di massima delle condizioni per cui si è inteso definire un Contratto Integrativo ma si è posto all’attenzione delle controparti che va ampliata, esplicitando meglio le volontà politiche e di merito contrattuale che hanno portato le Parti a definire il CIP. Le imprese hanno confermato che non c’è preclusione in tal senso e attendono dalle OO. SS. la presentazione delle modifiche da apporre.
·Classificazione il testo consegnato ha colto pienamente le considerazioni fatte fino ad ora e correttamente definito la classificazione nella cornice delle declaratorie del Contratto Nazionale, salvo inserire alcune osservazioni da riportare in premessa all’articolo.
·Scatti di anzianità viene esteso il riconoscimento dell’istituto degli scatti di anzianità biennali anche agli operai.
·Reperibilità/Trasferte la formulazione proposta per la reperibilità ha raccolto quanto discusso e le imprese hanno proposto € 13,00 per ogni turno di reperibilità dal lunedì al venerdì e € 25,00 per ogni turno di reperibilità nei giorni considerati festivi, ivi compreso il sabato, fermo restando che in caso di prestazione lavorativa tutte le ore lavorate verranno riconosciute con le dovute maggiorazioni di lavoro supplementare/straordinario, festivo, ecc.. Rispetto al testo elaborato le Organizzazioni Sindacali hanno fatto rilevare che mancano alcune definizioni importanti quali: le motivazioni che determinano il ricorso all’istituto della reperibilità; la durata del turno; le modalità di determinazione e il numero di lavoratori che compongono i contingenti. Le stesse Organizzazioni Sindacali hanno sottolineato che, senza tali indicazioni, è complicato comprendere la congruità del valore economico proposto come indennità. Sulle questioni poste le aziende si sono riservate di dare una risposta complessiva nel proseguo del confronto.
·Mentre sul tema delle trasferte è stato previsto il rimborso a piè di lista delle spese vive sostenute dal dipendente definendo anche le modalità per chiedere i rimborsi. Quanto presentato è stato accolto, però vede la necessità di definire meglio il tempo di viaggio e come lo stesso viene considerato ai fini del raggiungimento dell’orario giornaliero di lavoro. Inoltre si è evidenziato che mancano alcuni riferimenti per la determinazione del mezzo di trasporto da utilizzare.
·Telelavoro/Lavoro Agile il testo consegnato prevede uno specifico articolo in materia, visto che i lavoratori che fanno le trascrizioni non operano in sede aziendale. Le OO. SS. hanno posto l’accento sul fatto che la legislazione in materia di lavoro agile, prevede che il lavoratore svolga la propria attività in parte in sede aziendale ed in parte in un qualsiasi altro luogo da lui stesso designato. Visto che all’interno delle aziende vi sono diverse figure professionali che fanno trascrizioni, è stato evidenziato che nel lavoro agile può essere ascritto chi fa stenotipia e i fonici che fanno anche i trascrittori, in quanto parte del lavoro si svolge presso il tribunale (che si può considerare alla stregua della sede aziendale) ed in parte da altro luogo. Diversamente per la figura del trascrittore il riferimento può essere solo l’istituto del telelavoro, dato che gli operatori lavorano esclusivamente da casa propria o altro luogo da loro designato. Alla luce delle considerazioni fatte le controparti hanno colto l’impostazione data dalle Organizzazioni Sindacali e quindi la necessità di rivedere il testo presentato.
·Mensilità Aggiuntive le imprese hanno proposto di inserire nel CIP la possibilità del lavoratore di optare per la liquidazione del rateo mensile della tredicesima e della quattordicesima. In merito a tale condizione le OO. SS. hanno riconfermato quanto reiterato più volte circa l’indisponibilità a sottoscrivere alcun testo che modifichi quanto previsto dal CCNL in materia. Altresì è stato ribadito che rimane una prerogativa del lavoratore eventualmente farne richiesta e che questa sia accolta dall’azienda.
·Produttività la proposta contenuta nella bozza di Contratto Integrativo prevede il riconoscimento del salario variabile sul parametro della produttività per i trascrittori, gli stenotipisti e i fonici-trascrittori, per una resa superiore alle 11 pagine ad ora composte da 1500 caratteri. A fronte della maggior produzione le imprese sono disponibili a riconoscere € 0,95 per ogni pagina aggiuntiva. Il salario premiale che verrebbe erogato si avvarrebbe della decontribuzione e defiscalizzazione prevista dalla normativa in materia e assoggettato all’aliquota unica del 10%. Rispetto all’impostazione presentata le Organizzazioni Sindacali hanno dato un giudizio positivo, ma è stato chiesto che venga previsto un premio di salario variabile anche per i fonici. La discussione è stata piuttosto accesa, in quanto le imprese hanno sostenuto che per il lavoro svolto dai fonici non vi è un parametro che possa misurare la produttività. Sull’obiezione sollevata dalle aziende, le OO. SS. hanno fatto rilevare che non è possibile estromettere una parte consistente di lavoratori dalla redistribuzione di salario variabile e hanno proposto diversi indici basati su elementi di qualità su cui erogare quote di salario premiale. Soprattutto perché il lavoro svolto dai fonici è fondamentale per ottemperare al servizio oggetto dell’appalto e anche alla possibilità da parte dei trascrittori di produrre quantitativamente e qualitativamente in misura maggiore.
·Sulla base delle osservazioni effettuate, le imprese hanno raccolto la richiesta delle Organizzazioni Sindacali e si sono riservate di valutare quali indicatori, tra quelli suggeriti, poter assumere per l’erogazione del salario variabile anche ai fonici.
In ultimo il confronto si è concentrato sul tema dell’orario di lavoro dei part time e la necessità da parte delle imprese di definire regimi di flessibilità stante la particolarità del servizio svolto.
Fermo restando che il piano della discussione è stato ripreso dalle considerazioni già illustrate nella precedente circolare del 19.12.2017, le OO. SS. hanno nuovamente ribadito che trattandosi di lavoratori part time, la diversa modulazione degli orari può intervenire solo con l’applicazione delle clausole elastiche.
Di fatto il ricorso a regimi di orario diversificati rispetto al part time orizzontale, oggi previsto nei contratti individuali di lavoro, è legato principalmente alle figure dei fonici essendo strettamente correlati all’andamento sviluppo delle udienze.
Infatti la non costanza e predeterminabilità della durata delle udienze ha prodotto nei mesi passati una gestione degli orari dei fonici molto flessibile a cui le aziende, in modo unilaterale, hanno proceduto all’accantonamento di una parte di ore supplementari per compensare le ore di mancato lavoro, oppure completare l’orario settimanale con il ricorso a ferie e permessi o addirittura con la decurtazione della retribuzione.
Inoltre le Organizzazioni Sindacali hanno chiesto conferma alle imprese della condivisione che i cosiddetti “periodi feriali” di chiusura o quasi totale azzeramento dei processi non debba dar luogo a periodi di sospensione a zero ore del personale.
Le aziende hanno confermato che non vi è la volontà di ridurre i contratti individuali di lavoro per i mesi in cui viene sospesa l’attività dei tribunali, ma che è necessario prevedere meccanismi di gestione oraria che permettano di compensare le ore di non lavoro nei suddetti periodi.
A seguito di quanto sopra le Organizzazioni Sindacali, in merito al raggiungimento del parametro orario settimanale nella gestione ordinaria del lavoro, hanno confermato che l’orario di lavoro non può essere gestito giornalmente, in funzione della durata dell’assise processuale, sia che si tratti di ricorrere a prestazioni supplementari per il prolungarsi delle udienze, sia che si tratti di mancato raggiungimento del parametro contrattuale individuale di lavoro per la brevità delle udienze stesse.
Pur nella consapevolezza che le suddette situazioni creano un’esigenza di articolare l’orario di lavoro in termini più rispondenti all’andamento dei processi, le OO.SS. hanno sottolineato che eventuali soluzioni da applicare devono rispettare il dettato contrattuale e normativo di riferimento dei part time.
Stante quanto sopra e nella condizione di non andare in deroga ai dispositivi legislativi, né di proseguire nella gestione unilaterale di sistemi di flessibilità da parte delle aziende, per cui si è arrivati a non retribuire le ore di supplementare ma di accantonarle, le Organizzazioni Sindacali hanno avanzato una proposta articolata su diversi punti:
1) constato che il regime orario del part time orizzontale risulta essere poco rispondente alle esigenze organizzative del servizio di fonia, prevedere di ricorrere al part time ciclico o misto che permette di commisurare l’orario di lavoro per il raggiungimento del parametro mensile del part time, evitando decurtazioni retributive per effetto del mancato raggiungimento dell’orario settimanale attraverso la compensazione con le settimane in cui si supera il parametro settimanale stesso. Conseguentemente il lavoro supplementare si determina per le ore di lavoro effettuate oltre l’orario mensile.
2) per rendere possibile la retribuzione nei cosiddetti “periodi feriali” (chiusura estiva e chiusura natalizia dei tribunali), che ammontano a circa 2,5 mesi di attività ridotta al minimo, deve essere definita l’usufruizione dei 22 giorni di ferie, contrattualmente previste, per un intero mese collocato nel periodo estivo. Fermo restando che al lavoratore rimarrebbero a disposizione i 9 giorni di permessi (ROL ed ex festività soppresse) da godere secondo le proprie esigenze nel corso dell’anno. A seguito della programmazione delle ferie come sopra descritto, i residui “periodi feriali” da compensare ammonterebbero a circa 3,5 settimane tenuto conto che nel corso delle stesse vanno garantiti dei presidi al fine di permettere lo svolgimento di attività processuali d’urgenza.
3) al fine di non esaurire anche i permessi individuali, per coprire i “periodi feriali” è stato proposto costituire una sorta di “cassetto” dove accantonare le ore di lavoro supplementare, svolto nei mesi di attività ordinaria, e liquidare mensilmente la sola maggiorazione del 28%. Le ore da inserire nel “cassetto” sarebbero quelle strettamente necessarie a permettere la compensazione delle 3,5 settimane come sopra definite. Dato che nel corso delle settimane citate devono essere garantiti i presidi, le stesse sono ridotte proporzionalmente alla presenza al lavoro in tali periodi. Quando il lavoratore ha raggiunto il monte ore di “cassetto”, tutte le restanti ore di supplementare che superano la quota definita verranno liquidate nel mese di prestazione.
4) nei primi mesi dell’anno successivo, prevedibilmente a febbraio, qualora vi fossero residui di ore nel “cassetto” le stesse devono essere liquidate e da gennaio il lavoratore ricomincia a riempire il “cassetto”, salvo che non espliciti la richiesta di utilizzare il residuo per la copertura del “periodo feriale” del nuovo anno e conseguentemente gli occorrerebbero meno ore supplementari da accantonare nello stesso.
Sulla suddetta proposta le aziende hanno inizialmente posto un rifiuto e confermato la volontà di ricorrere al sistema di flessibilità da loro avanzato, poi nel proseguo della discussione hanno dichiarato un interesse a quanto illustrato fermo restando che le ore messe a “cassetto” non dessero luogo ad alcuna maggiorazione, visto che le ore così definite permettono l’erogazione della retribuzione in periodi piuttosto lunghi di non attività e a fronte di un esborso per quattro settimane di ferie ricadenti in un intervallo di non incasso, stante il blocco sostanziale delle attività dei tribunali.
Rispetto a quanto sostenuto dalle imprese, le Organizzazioni Sindacali hanno confermato che le maggiorazioni contrattuali devono essere riconosciute perché trattasi di applicazione delle clausole elastiche e non di regime di flessibilità.
Dopo tutti gli approfondimenti del caso le imprese hanno accolto la proposta delle OO. SS. impegnandosi a predisporre un testo sulla base di quanto discusso.
A fronte della necessità di affrontare ancora diverse questioni per giungere alla definizione del CIP, di inserire nella bozza di testo presentata le modifiche discusse nell’incontro del 19 u. s. ed altresì per l’esigenza espressa dalle Organizzazioni Sindacali di effettuare le assemblee coi lavoratori per presentare la sintesi a cui è giunta la trattativa e ricevere il mandato a chiudere il Contratto Integrativo, le Parti hanno condiviso di aggiornare il confronto al 28.03.2018.
Dato quanto fin qui illustrato, pur comprendendo le difficoltà legate alla ristrettezza dei tempi, le strutture territoriali sono invitate a convocare urgentemente le assemblee sindacali dei lavoratori occupati negli appalti di fono-trascrizione degli atti documentali del Ministero di Giustizia e dare ritorno alle strutture nazionali dell’esisto delle stesse entro il prossimo 28 marzo 2018.
Nuovi Orizzonti, Ricina, Verbatim, appalto fonici-trascrittori, circolare Ipotesi CIA 31/07/2018
Roma 03.08.2018 su filcams.cgil.it.
Il 30 e 31 u. s. si è svolta la trattativa per la definizione del Contratto Integrativo Interaziendale giungendo alla definizione dell’ipotesi di accordo.
Dopo gli incontri tenutisi a giugno e ai primi di luglio, dove ricordiamo era già stata sottoscritta la prima parte dell’articolato contrattuale sui temi decorrenza e durata, Classificazione e Part Time, nelle due ultime giornate di confronto si è proceduto agli approfondimenti sulle tematiche non ancora definite e ad integrare alcuni aspetti della premessa, della stessa classificazione migliorando ulteriormente i profili professionali.
In merito alla premessa è stato espressamente previsto l’invio di una lettera congiunta tra le OO. SS. e le imprese per la trasmissione del testo dell’accordo raggiunto al Ministero della Giustizia e al Ministero del Lavoro, al fine di per avere pieno riconoscimento dei trattamenti contrattuali definiti e utili per la determinazione del costo del lavoro per le future gare di appalto, soprattutto per eliminare il ricorso a gare che pagano sulla base dei caratteri trascritti, definendo di fatto un lavoro a cottimo.
Mentre nell’articolato relativo alla classificazione sono state completate le definizioni dei profili professionali del capoarea A) inquadrato al IV livello e capoarea B) inquadrato al V livello.
Sul part time è stata accolta in via definitiva la proposta indicata dalle OO. SS. di rideterminare i contratti su base mensilizzata – ex part time ciclico – regolando gli orari con l’applicazione delle clausole flessibili, così da evitare che il mancato completamento dell’orario settimanale dia luogo alla compensazione con ROL o ferie o ad ore non retribuite come accaduto nei mesi scorsi.
Rispetto agli articoli ancora in discussione sono stati raggiunti i seguenti contenuti:
·Orario di Lavoro dato che l’attività lavorativa svolta per i tribunali è direttamente condizionata dall’operatività degli stessi e che il Ministero di Giustizia dispone i c. d. “periodi feriali” per periodi compresi tra fine luglio ad inizio di settembre, nonché durante le festività natalizie, mantenendo un presidio solo per le udienze urgenti, si è reso necessario trovare regimi di orario rispondenti a “chiusure” dei tribunali – corrispondenti a circa 55 giorni di calendario – per evitare di ricorrere a riduzioni dei contratti individuali, nonché sospensioni senza decorrenza della retribuzione in corrispondenza di tali periodi.
Per far fronte alla suddetta condizione, utilizzando gli istituti contrattuali già previsti, si è definito un meccanismo sperimentale denominato “Sistema di Regolamentazione delle Risorse”, di seguito “SRR”, che incrocia la programmazione delle ferie e dei Rol e la gestione del ricorso alle ore supplementari unitamente alle clausole elastiche.
Il tema si è affrontato in quanto la maggior parte della platea dei lavoratori ha contratti a part time e, diversamente dai lavoratori a full time, il CCNL non prevede il ricorso all’orario multiperiodale.
E’ da sottolineare che i lavoratori prevalentemente coinvolti sull’applicazione del sistema orario individuato sono i fonici, che non eseguono anche lavori di trascrizione, e una parte dei trascrittori/stenotipisti qualora non vi fossero verbali arretrati da smaltire.
Il punto in discussione ha richiesto vari approfondimenti per evitare di derogare dai contenuti CCNL e a fronte delle imprese che hanno lamentato l’onerosità di mantenere la retribuzione in periodi di non lavoro, pur rappresentando la volontà di non arrivare alla decurtazione del salario e dei contratti individuali.
Per tali ragioni si è definito che nei c. d. “periodi feriali” verranno programmate le ferie e i Rol consecutivamente, superando i limiti di programmazione previsti dal CCNL.
Dato che è stato accertato che gli istituti contrattuali citati non sono sufficienti a completare i “periodi feriali”, durante l’anno – che verrà conteggiato dal 1 ottobre al 30 settembre dell’anno successivo – verranno inserite nel “SRR” 70 ore (riferite al contratto a tempo pieno e riparametrate per il part time).
Al raggiungimento delle 70 ore concorreranno le ore supplementari/straordinarie lavorate nell’arco annuale sopra citato, con liquidazione delle maggiorazioni previste dal CCNL nel mese di effettuazione e il pagamento differito dell’ora di lavoro al momento di utilizzo.
Tutte le ore supplementari/straordinarie oltre le 70 del “SRR” verranno retribuite complessivamente con la retribuzione del mese in cui sono state effettuate, salvo diversa disposizione personale del lavoratore che volesse destinarle per il conteggio del “SRR” dell’anno successivo.
Dato il carattere sperimentale del “Sistema di Regolamentazione delle Risorse” nell’accordo sono stati previsti momenti di verifica per valutare il funzionamento dello stesso.
Inoltre si è prevista una clausola transitoria che recupera le ore supplementari/straordinarie accantonate unilateralmente dalle imprese nei mesi scorsi che parteciperanno, unitamente alle ferie e ai permessi, a dare continuità retributiva durante il “periodo feriale” corrente, qualora le ferie e i Rol non fossero sufficienti, oppure potranno concorrere alle 70 ore di “SRR” che si dovranno maturare a far data dal 01.10.2018.
·Reperibilità/Trasferte nella formulazione raggiunta l’istituto della reperibilità verrà attivato nei cosiddetti “periodi feriali” per un importo pari a € 13,00 per ogni turno, esonerando dagli stessi turni di reperibilità i lavoratori in ferie e/o in fruizione di Rol. Mentre verranno riconosciuti € 25,00 per ogni turno di reperibilità nei giorni considerati festivi, ivi compreso il sabato.
In caso di prestazione lavorativa durante la reperibilità tutte le ore lavorate verranno riconosciute con le dovute maggiorazioni di lavoro supplementare/straordinario, festivo, ecc., ed ogni prestazione non potrà essere inferiore alle tre ore compreso il pagamento delle ore di viaggio. Rispetto alle richieste avanzate dalle imprese si sono ridotti i turni di reperibilità e le settimane di reperibilità durante i “periodi feriali” saranno di fatto lavorative. Mentre sul tema delle trasferte è stato previsto il rimborso a piè di lista di tutte le spese vive sostenute dal dipendente, definendo anche le modalità per chiedere i rimborsi, nonché una diaria giornaliera aggiuntiva pari a € 15,49 per ogni giorno di trasferta, migliorando complessivamente quanto previsto dal CCNL.
·Telelavoro/Lavoro Agile il Contratto integrativo ha regolamentato entrambe le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, che per la specificità del settore, rispondono sia alle esigenze aziendali, sia alle esigenze dei lavoratori.
Per quanto attiene il Lavoro Agile, l’istituto contrattuale verrà prevalentemente applicato per le figure dei fonici-trascrittori, per gli stenotipisti che eseguono anche attività di trascrizione e per tutte quelle figure plurimansione per la parte dei servizi che possono essere svolti anche al di fuori delle sedi dei tribunali o aziendali.
Mentre i trascrittori rientreranno nell’istituto contrattuale del Telelavoro regolarizzando attraverso il Contratto integrativo in modo chiaro ed esaustivo il lavoro svolto dalla propria abitazione di detti lavoratori e normando tutti gli aspetti previsti per legge e demandati alla contrattazione.
Uno dei punti qualificanti e nello stesso tempo non pienamente soddisfacente è il riconoscimento del rimborso spese per l’utenza di internet. Nell’accordo definito è stato sancito il principio che al lavoratore spetta un rimborso spese, che però non copre l’intero canone sostenuto in quanto ad uso promiscuo, pari a € 5,00, altresì la cifra definita sarà rivedibile a far data dal 01.01.2019.
Inoltre era stato richiesto anche il riconoscimento di un valore una tantum al mese per i lavoratori che hanno messo a disposizione la propria attrezzatura hardware e software ma le imprese non hanno accolto la richiesta prevedendo che le stesse si fanno carico di fornire l’intera strumentazione, fermo restando condizione di miglior favore già in essere. Altri risultati importanti sono stati raggiunti con la previsione del diritto alla disconnessione rispetto ai periodi al di fuori degli orari di lavoro prestabiliti e le pause previste dalla normativa sulla salute e sicurezza.
·Indennità individuale per servizi di trascrizione con la normazione di tale indennità è stato superato il concetto del lavoro a cottimo, in quanto chi svolge attività di trascrizione verrà retribuito secondo le previsioni contrattuali e riceverà un riconoscimento per aver svolto maggior lavoro attraverso detta indennità.
Rispetto a quanto proposto dalle aziende l’importo riconosciuto ammonta a € 1,10, per la produzione eccedente le 11 pagine ad ora, inteso che ciascuna pagina è composta da 1500 caratteri in formato PDF come da capitolato. Data la definizione contrattuale collettiva raggiunta sarà applicata a tutti i lavoratori che svolgono servizi di trascrizione superando anche contenuti differenti definiti nei contratti individuali di lavoro.
·Premio di salario variabile le Organizzazioni Sindacali fin dall’avvio della trattiva hanno chiesto per tutte le figure impegnate sui servizi oggetto dell’appalto il riconoscimento di un premio di salario variabile che premiasse i miglioramenti e l’efficientamento delle attività svolte creando un plusvalore da redistribuire in quota parte tra i lavoratori. Le imprese hanno sempre ribadito che le condizioni per poter trattare in tal senso non vi erano in quanto l’appalto è stato acquisito a distanza di tre anni da quando hanno partecipato alla gara di appalto ed inoltre la base su cui è stato costruito il capitolato difficilmente poteva dare plusvalore. A fronte dell’insistenza e per non gravare ulteriormente sull’equilibrio economico/normativo del Contratto integrativo raggiunto, si sono comunque resi disponibili a riprendere il tema nei prossimi mesi, anche al fine di approfondire tutti gli aspetti legati a tale istituto contrattuale.
·Armonizzazione visto le novità e le modifiche introdotte dalla definizione del Contratto integrativo le parti hanno definito il percorso con cui armonizzare le condizioni attuali con i contenuti dello stesso CIA attraverso l’integrazione dei contratti individuali di lavoro, visto che si dovrà rivedere tutti gli inquadramenti, le corrispondenze retributive ed altre voci, e ciò richiederà la predisposizione di apposita modulistica e sottoscrizione della stessa.
I nuovi istituti contrattuali decorreranno a far data dal 01.07.2018, ma vista la concomitanza con il periodo di ferie, sicuramente vi sarà qualche ritardo nell’applicazione effettiva che verrà recuperata attraverso il riconoscimento degli arretrati.
Fermo restando i contenuti di merito dell’ipotesi di Contratto Integrativo definito, lo stesso afferma finalmente una vera e propria regolamentazione di un settore finora poco conosciuto nonostante le importanti e delicate attività di verbalizzazione degli atti dibattimentali dei processi penali, a cui contribuiscono con il proprio lavoro, impegno e responsabilità circa 1500 operatori che finora non hanno mai avuto la possibilità di avere riconosciuto pienamente la propria professionalità.
Fondamentale è stato il ruolo svolto dalle Rappresentanti Sindacali Aziendali in tutto il corso del confronto avendo apportato il loro profondo dato di conoscenza dei servizi di fonia, trascrizione e stenotipia, nonché del funzionamento della macchina dei tribunali e dell’organizzazione necessaria a rispondere alle esigenze degli stessi.
L’ipotesi di accordo raggiunto dovrà essere sottoposta alla consultazione delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso le assemblee sindacali da tenersi entro il 20 settembre 2018 e si allega alla presente il verbale di consultazione da trasmettere entro tale data alla struttura nazionale.
P.Filcams CGIL Nazionale
Elisa Camellini
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Lavorare come trascrittore freelance - Copywriting: guida completa di Carmine Roca il 21 Gennaio 2021
Oggi lavorare come trascrittore freelance, anche da casa, non è insolito o complicato come fo era fino a qualche tempo fa. Grazie a Internet e ai computer portatili, puoi operare ovunque tu sia e guadagnare bene. Si tratta di una strada affascinante ma sicuramente non esente da insidie. Eppure, le opportunità non mancano.
Del resto, per molte aziende diventa una pratica sempre più abituale e conveniente esternalizzare alcuni lavori piuttosto che assumere direttamente del personale. Oggigiorno, il lavoro di trascrizione è uno dei lavori più esternalizzati su Internet.
Ti basta un Pc portatile, una connessione Internet decente ed una buona velocità di digitazione per cominciare a trascrivere dei file. Come ogni altro lavoro, ovviamente c’è bisogno di impegno, passione e pazienza. Durante questo percorso, potresti renderti conto di essere maggiormente portato a trascrivere contenuti relativi ad uno specifico argomento. Ben venga! Soprattutto in ambiti molto delicati e ricchi di tecnicismi, un’azienda potrebbe preferire affidarsi ad uno specialista piuttosto che ad un trascrittore generico.
Indice
Cosa fa un trascrittore
Come si approccia ad una trascrizione
Competenze per lavorare come trascrittore
Pro e contro del lavoro di trascrizione
Quanto guadagna un trascrittore e quanto costa una trascrizione
Come fare per ottenere nuovi clienti?
Come gestire a livello fiscale il lavoro di trascrittore?
Qual è l’attrezzatura necessaria?
Lavorare come trascrittore ottimizzando la produttività: alcuni consigli
Cosa fa un trascrittore
Un trascrittore è un dattilografo professionista che ascolta file audio registrati o dal vivo e li converte in formato testo. Può offrire i suoi servizi all’industria della trascrizione medica e legale ma anche ad altri settori merceologici.
Come si approccia ad una trascrizione
La trascrizione richiede accuratezza, discrezione, riservatezza e la capacità di lavorare in modo rapido ed efficiente rispettando le scadenze e producendo trascrizioni della massima qualità. Il tuo lavoro deve essere preciso e soddisfare gli standard più elevati. Se ti piace l’attenzione ai dettagli e hai il desiderio di soddisfare o superare le aspettative dei tuoi clienti, il lavoro di trascrittore potrebbe fare al caso tuo!
La trascrizione implica l’ascolto di audio (o video) registrato e la digitazione di ciò che si sente parola per parola. I file audio possono essere di varie tipologie ed includere sondaggi, interviste, riunioni, telefonate, ecc.
Esistono diversi tipi di lavori di trascrizione:
Generale;
Per ricerche di mercato;
Medica;
Legale;
In tempo reale.
Di solito, non è richiesta grande esperienza per trascrivere un file legato ad un argomento non molto complesso. Per aree di trascrizione più specifiche, come la trascrizione medica o la trascrizione legale, è necessaria esperienza e formazione. Tuttavia, i trascrittori medici e i trascrittori legali sono anche coloro che, in genere, guadagnano di più.
Competenze per lavorare come trascrittore
Un trascrittore di successo deve possedere una serie di qualità tra cui:
Grande attenzione ai dettagli;
Velocità di digitazione di almeno 60/70 parole al minuto;
Buone capacità di scrittura;
Conoscenza approfondita della punteggiatura e, in generale, della grammatica e della sintattica italiana o della lingua di cui ti occuperai;
Discrezione (potresti ritrovarti a trascrivere materiale molto delicato);
Competenze informatiche (programmi di elaborazione testi, in primis);
Capacità di ascolto;
Gestione del tempo (le scadenze vanno rispettate, dunque devi lavorare in modo rapido ma efficiente).
Pro e contro del lavoro di trascrizione
Per aiutarti a capire se puoi ottenere soddisfazioni e buoni risultati dall’attività di trascrittore, analizziamo i vantaggi e gli svantaggi relativi a questa professione.
Tra i vantaggi va annoverata la flessibilità dell’orario di lavoro. Come detto, il trascrittore può lavorare da casa o da qualunque altra location. A chi non piacerebbe? Inoltre, trascrivere può essere piacevole ed appagante sotto il profilo professionale.
Ci sono, però, degli aspetti non del tutto positivi che possono rendere meno piacevole ed agevole il lavoro di trascrittore. Ad esempio, potresti ritrovarti a sbobinare un audio di scarsa qualità, difficilmente comprensibile, con i parlanti che si accavallano o che utilizzano espressioni ed inflessioni dialettali a te non familiari.
In queste situazioni, il processo di trascrizione sarà più lungo e alcuni potrebbero trovarlo stressante. Il lavoro potrebbe non essere sempre disponibile ma questo è un problema che accomuna tutti i liberi professionisti. Potresti ritrovarti ad essere pieno di trascrizioni da fare in determinati periodi e del tutto sprovvisto di lavori in altri momenti.
Infine, soprattutto nella fase iniziale, potresti essere più lento nell’eseguire una trascrizione. Tranquillo, nulla di cui preoccuparti. Facendo tanta pratica sicuramente riuscirai a diventare più veloce nel lavoro.
Quanto guadagna un trascrittore e quanto costa una trascrizione
Siamo realistici, non diventerai milionario attraverso il lavoro di trascrizione. Tuttavia, non mancano le opportunità per ottenere buoni guadagni, soprattutto se quello del trascrittore viene svolto come lavoro secondario, magari insieme ad un altro più remunerativo.
La paga di un trascrittore si basa quasi sempre sulla lunghezza del file audio che il trascrittore deve sbobinare. Di conseguenza, raggiungere una veloce capacità di digitazione è importante! Non c’è un prezzario prestabilito per le attività di trascrizione. Orientativamente, la trascrizione letterale di un file audio parte da un minimo di € 0,50 per un file audio di 1 minuto.
Chiaramente, in presenza di file audio legati ad argomenti tecnici molto complessi, si può arrivare anche a richiedere fino a circa € 2,00 per ogni minuto di file audio da trascrivere. Pensiamo, ad esempio, alle trascrizioni dei dialoghi di film e serie televisive.
Per raggiungere buoni risultati, il tuo tempo di trascrizione non dovrà eccedere più di tre o quattro volte la lunghezza dell’audio. Ad esempio, per una file audio di 30 minuti, dovresti impiegare tra i 90 ed i 120 minuti per ultimare la trascrizione. Spesso, la capacità di ottenere buoni risultati economici può dipendere anche e soprattutto dalla velocità con cui porti a termine il lavoro. Per la serie, più veloce sei a digitare, maggiori saranno i lavori che potrai acquisire e più alti saranno anche i tuoi guadagni.
Come fare per ottenere nuovi clienti?
In primo luogo, ti consiglio di cominciare a fare tanta pratica, trascrivendo qualunque materiale tu possa ritenere interessante. Questo è un trucchetto che ti può aiutare a creare un piccolo portfolio di lavori, anche se non ti sono stati commissionati da nessuno. Il mio suggerimento è di sfruttare al massimo sia le opportunità del digitale sia le conoscenze offline, soprattutto in ambienti legali e giuridici nei quali c’è una più elevata attenzione rispetto alla figura del trascrittore.
Nei contesti digitali potresti, per esempio, mettere in mostra le tue capacità sugli account social media oppure cercare in giro per il web i recapiti di professionisti che potrebbero aver bisogno di trascrizioni. Al di fuori del mondo virtuale, potresti semplicemente preparare dei biglietti da visita da distribuire negli studi professionali della tua città.
Come gestire a livello fiscale il lavoro di trascrittore?
Ti conviene porre questo quesito ad un commercialista. Nel caso in cui il tuo sia un lavoro secondario con guadagni non molto alti, potresti anche lavorare con le ritenute d’acconto, evitando l’apertura di una Partita Iva. Nel caso in cui tu abbia intenzione di offrire anche altri servizi di scrittura (proofreading, ghostwriting, copywriting, content writing, blogging) allora non potrai fare a meno di aprire la Partita Iva.
Qual è l’attrezzatura necessaria?
Oltre ad un computer affidabile (sta a te scegliere tra laptop, desktop o entrambi), avrai bisogno di una comoda scrivania e di una sedia che ti consenta di tollerare senza troppi sforzi lunghe sessioni di lavoro.
È inoltre necessario installare app che aiutino a pulire la qualità del suono dei file. Infine, Express Scribe è un programma che ti può aiutare davvero molto. Questo software, infatti, facilita il lavoro di trascrizione in quanto è impostato in modo tale da consentire l’ascolto e la digitazione simultanea sulla stessa finestra.
Lavorare come trascrittore ottimizzando la produttività: alcuni consigli
Un trascrittore generalmente si imbatte in file dal contenuto più o meno tecnico. Per far sì che il lavoro di trascrizione sia efficace, è necessario svolgere molte ricerche, soprattutto se non si ha familiarità con quel settore.
Lavorare da casa può essere una gran bella opportunità ma presenta anche molti rischi. Le distrazioni possono essere davvero tante: dalla presenza di altre persone in casa, allo smartphone che suona di continuo così come i social media. L’organizzazione del lavoro, di conseguenza, assume un’importanza capitale.
Ti consiglio di cominciare stabilendo con precisione l’orario di inizio e di fine della tua giornata lavorativa. Avere un piano di lavoro aumenta la produttività. Cerca di definire anche il tempo da dedicare alle pause. Per esempio, un quarto d’ora di relax ogni ora piena di lavoro potrebbe essere un’idea per recuperare energie e, allo stesso tempo, non distaccarti per troppi minuti dal lavoro.
Uno strumento consigliato per lavorare come trascrittore freelance ottimizzando la produttività è un software di time management. Questi programmi ti aiutano a tenere traccia del tempo che dedichi a diverse attività. Possono, ad esempio, avvisarti quando sei troppo distratto dai social media o quando il tuo computer è inattivo per diversi minuti.
Magari, all’inizio ti sembrerà strano dover utilizzare un programma per mantenere alta la concentrazione a lavoro. Pian piano, però, ti ci abituerai e la tua efficienza non potrà che migliorare giorno dopo giorno.
Carmine Roca. Sono un Copywriter Freelance e Consulente SEO. Aiuto le aziende a raggiungere i loro target attraverso testi di qualità, sia sui canali digitali che tradizionali, ma soprattutto sui motori di ricerca.
Listino prezzi per Servizi di Stenotipia. Stenotipisti Professionisti Italiani
Libera Associazione Stenotipisti Professionisti Italiani
Listino Prezzi Anno 2013
Listino prezzi per Servizi di Stenotipia Elettronica Real Time e Trascrizioni audio redatto dalla Libera Associazione
Premessa Carissimi colleghi, affinchè il nostro lavoro di Stenotipisti Professionisti abbia il giusto riconoscimento economico proponiamo un listino prezzi valido per l'anno 2013.
PREGHIAMO TUTTI GLI ADERENTI ALL'ASSOCIAZIONE E A QUANTI SI OCCUPANO DI TRASCRIZIONI DI APPLICARE LE TARIFFE RIPORTATE IN SEGUITO E SOPRATTUTTO DI NON PARTECIPARE A BANDI; GARE; TRATTATIVE O COTTIMI FIDUCIARI CHE, PER IMPORTO, SI DISCOSTINO DALLE TARIFFE STABILITE.
Tipo Servizio Reso |
Costo |
Stenotipia Real Time - Diritto fisso di chiamata o intervento - comprensivo di trasferta e di noleggio apparecchiature - |
Euro: 50,00
|
Stenotipia Real-Time indipendentemente dal personale impiegato |
Euro: 170,00 per ora di servizio* |
Trascrizioni audio su supporto fornito dal cliente a mezzo Stenotipia Elettronica |
Euro: 80,00 per ora audio** |
Costo minimo fatturabile per Stenotipia, Trascrizioni su supporto fornito dal cliente per audio inferiore a 2 ore |
Euro: 200,00 |
Servizio di Registrazione/Amplificazione audio con fornitura di apparecchiature proprie |
Euro: 400,00 |
Diritto di chiamata comprensivo di trasferta |
Euro: 50,00 |
Noleggio; montaggio/smontaggio attrezzature ed assistenza tecnica |
Euro: 400,00 |
Servizio di trasmissione dati con proprio sito od predisposizione/uso di pagine apposite e riservate |
Euro: 250,00 Annuali |
*A partire dall'ora stabilita del cliente. Tutte le pause od interruzioni sono da intendersi come servizio integralmente reso. Le frazioni di ora sono sempre computate in minuti. Unicamente per la 1° ora i minuti sono rapportati all'ora intera.
** Le frazioni di ora sono sempre computate in minuti.
Lavoro più pagato in Italia: lo stenografo. Da economia-italia.com il 24 Novembre 2019
Tra i lavori dipendenti che si possono trovare in Italia, uno dei lavori più pagati é sicuramente quello dello stenografo parlamentare.
Si pensi che chi lo stenografo nella Regione Sicilia viene a prendere qualcosa come 235 mila euro all’anno, quasi 20 mila euro al mese, 631 euro al giorno… lorde.
Si consideri che il Capo dello Stato italiano prende circa 240 mila euro all’anno , il Presidente degli Stati Uniti Obama – la figura politica più importante del mondo – prende 316 mila euro all’anno lorde, circa 26 mila euro al mese lordi.
Lavori più pagati
Queste cifre sono venute di dominio pubblico e alla ribalta in qualche giornale, perché la Regione Sicilia in questi giorni ha deciso di dare un ‘taglio netto’ a questi stipendi altissimi: gli stenografi della Regione Sicilia si dovranno accontentare di ‘appena’ 204 mila euro lordi all’anno, in pratica dovranno cercare di andare avanti con soli 17 mila euro al mese: ce la faranno?
Difficile abituarsi a prendere meno soldi e fare lo stesso lavoro, in molti dei Nostri lettori lo sanno, perché anche a Loro è successo.
Fare lo stesso orario di lavoro per meno soldi é squalificante.
Nonostante si tratti di quello che Noi crediamo di essere lo stipendio più alto in Italia ( come lavoro dipendente, escludendo i ruoli dirigenziali) infatti, sono comunque diritti acquisiti e giustamente questi lavoratori ora protestano per il taglio di stipendi.
Lavori più pagati
Va inoltre aggiunto che il costo della vita in Sicilia é particolarmente basso rispetto ad altri regioni italiane, proprio per questo uno stipendio di 20 mila euro preso abitando in questa bella regione, vale come uno stipendio da 40 o 50 mila euro a Milano.
Come posso farmi assumere da stenografo?
Bisogna essere cittadino italiano
Bisogna aver conseguito una laurea ( anche breve di 3 anni)
Bisogna essere maggiorenni e non aver superato i 35 anni
Votazione di scuola secondaria di almeno 54/60 oppure di 90/100
Votazione titolo di studio universitario non inferiore a 90/110
Bisogna vincere il concorso, quindi meglio se si conosce ‘qualche amico’ ( quest’ultimo è un requisito non ufficiale, ma ufficioso)
Se andiamo a vedere il Bilancio della Regione Sicilia, questo ha un buco di 1,6 miliardi di euro. Il capo della Regione Crocetta, che sembrava voler spaccare il mondo, sta varando il 3° Governo in 3 anni e l’Assessorato al Bilancio viene praticamente commissariato dal Governo centrale di Roma, in quanto altrimenti, queste persone si mangerebbero tutto…
Come al solito, nelle amministrazioni pubbliche c’é chi guadagna tantissimo – in modo del tutto sproporzionato a lavori simili di altre aziende – tanto poi alla fine paga il contribuente italiano: il risultato é che aumentano le tasse, i consumi si deprimono e la disoccupazione aumenta.
E’ questo uno dei modi con cui stiamo distruggendo la Nostra economia, in modo democratico, visibile e praticamente scientifico.
Lo stenografo del Senato come il re di Spagna. Busta paga da 290 mila euro. Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella il 4 gennaio 2012 su Il Corriere della Sera.
A fine carriera stipendi quadruplicati. Ai commessi fino a 160 mila euro
Può un senatore guadagnare la metà del suo barbiere di Palazzo Madama, come lamentano quei parlamentari che per ribattere ai cittadini furenti contro i mancati tagli dicono di prendere intorno ai 5 mila euro? No. Infatti non è così. Il gioco è sempre quello: citare solo l'«indennità». Senza i rimborsi, le diarie, le voci e i benefit aggiuntivi. Con i quali il «netto» in busta paga quasi quasi triplica.
Sono settimane che va avanti il tormentone. Di qua la busta paga complessiva portata in tivù dal dipietrista alla prima legislatura Francesco Barbato, che tra stipendio e diarie e soldi da girare al portaborse ha mostrato di avere oltre 12.000 euro netti al mese. Di là l'insistenza sulla sola «indennità». E la tesi che le altre voci non vanno calcolate, tanto più che diversi (230 contro 400, alla Camera) hanno fatto sul serio un contratto ai collaboratori e moltissimi girano parte dei soldi al partito. Una scelta spesso dovuta ma comunque legittima e perfino nobile: ma è giusto caricarla sul groppo dei cittadini in aggiunta ai rimborsi elettorali e alle spese per i «gruppi»? Non sarebbe più opportuno e più fruttuoso nel rapporto con l'opinione pubblica mostrare la busta paga reale, che dopo una serie di tagli è davvero più bassa di quella da 14.500 euro divulgata nel 2006 dal rifondarolo Gennaro Migliore?
Non ha molto senso, questa sfida da una parte e dall'altra centrata tutta su quanto prendono deputati e senatori. Peggio: rischia di distrarre l'attenzione, alimentando il peggiore qualunquismo, dal cuore del problema. Cioè il costo d'insieme di una politica bulimica: il costo dei 52 palazzi del Palazzo, il costo delle burocrazie, il costo degli apparati, il costo delle Regioni, delle province, di troppi enti intermedi, delle società miste, di mille altri rivoli di spesa che servono ad alimentare un sistema autoreferenziale.
Dice tutto il confronto con le buste paga distribuite, ad esempio, al Senato. Dove le professionalità di eccellenza dei dipendenti, che da sempre raccolgono elogi trasversali da tutti i senatori di destra e sinistra, neoborbonici o padani, sono state pagate fino a toccare eccessi unici al mondo. Tanto da spingere certi parlamentari (disposti ad attaccare Monti, Berlusconi, Bersani o addirittura il Papa ma mai i commessi da cui sono quotidianamente coccolati) ad ammiccare: «Siamo semmai gli unici, qui, a non essere strapagati».
Il questore leghista Paolo Franco lo dice senza tanti giri di parole: «Il contratto dei dipendenti di palazzo Madama è fenomenale. Consente progressioni di carriera inimmaginabili. Ed è evidente che contratti del genere non se ne dovranno più fare. Bisogna cambiare tutto». Come può reggere un sistema in cui uno stenografo arriva a guadagnare quanto il re di Spagna? Sembra impossibile, ma è così. Senza il taglio del 10% imposto per tre anni da Giulio Tremonti per i redditi oltre i 150 mila euro, uno stenografo al massimo livello retributivo arriverebbe a sfiorare uno stipendio lordo di 290 mila euro. Solo 2mila meno di quanto lo Stato spagnolo dà a Juan Carlos di Borbone, 50 mila più di quanto, sempre al lordo, guadagna Giorgio Napolitano come presidente della Repubblica: 239.181 euro.
Per carità, non «ruba» niente. Esattamente come Ermanna Cossio che conquistò il record mondiale delle baby-pensioni lasciando il posto da bidella a 29 anni col 94% dell'ultimo stipendio, anche quello stenografo ha diritto di dire: le regole non le ho fatte io. Giusto. Ma certo sono regole che nell'arco della carriera permettono ai dipendenti di Palazzo Madama, grazie ad assurdi automatismi, di arrivare a quadruplicare in termini reali la busta paga. E consentono oggi retribuzioni stratosferiche rispetto al resto del paese cui vengono chiesti pesanti sacrifici.
Al lordo delle tasse e dei tagli tremontiani, un commesso o un barbiere possono arrivare a 160 mila euro, un coadiutore a 192 mila, un segretario a 256 mila, un consigliere a 417mila. E non basta: allo stipendio possono aggiungere anche le indennità. Alla Camera un capo commesso ha diritto a un supplemento mensile di 652 euro lordi che salgono a 718 al Senato. Un consigliere capo servizio di Montecitorio a una integrazione di 2.101, contro i 1.762 euro del collega di palazzo Madama. Per non dire dei livelli cosiddetti «apicali». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai rapporti col Parlamento Antonio Malaschini, quando era segretario generale del Senato, guadagnava al lordo nel 2007, secondo l'Espresso, 485 mila euro l'anno. Arricchito successivamente da un aumento di 60 mila che spappolò ogni record precedente per quella carica. Va da sé che la pensione dovrebbe essere proporzionale. E dunque, secondo le tabelle, non inferiore ai 500 mila lordi l'anno.
È uno dei nodi: retribuzioni così alte, grazie a meccanismi favorevolissimi di calcolo, si riflettono in pensioni non meno spettacolari. Basti ricordare che gli assunti prima del '98 possono ancora ritirarsi dal lavoro (con penalizzazioni tutto sommato accettabili) a 53 anni. Esempio? Un consigliere parlamentare di quell'età assunto a 27 anni e forte del riscatto di 4 anni di laurea ha accumulato un'anzianità contributiva teorica di 38 anni. Di conseguenza può andare in pensione con 300 mila euro lordi l'anno, pari all'85% dell'ultima retribuzione. Se poi decide di tirare avanti fino all'età di Matusalemme (che qui sono 60 anni) allora può portare a casa addirittura il 90%: più di 370 mila euro sul massimo di 417 mila.
Funziona più o meno così anche per i gradi inferiori. A 53 anni un commesso è in grado di ritirarsi dal lavoro con un assegno previdenziale di 113 mila euro l'anno che, se resta fino al 60º compleanno, può superare i 140 mila. Con un risultato paradossale: il vitalizio di un senatore che abbia accumulato il massimo dei contributi non potrà raggiungere quei livelli mai. E tutto ciò succede ancora oggi, mentre il decreto salva Italia fa lievitare l'età pensionabile dei cittadini normali e restringere parallelamente gli assegni col passaggio al contributivo «pro rata» per tutti. Intendiamoci: sarebbe ingiusto dire che le Camere non abbiano fatto nulla. A dicembre il consiglio di presidenza del Senato, ad esempio, ha deciso che anche per i dipendenti in servizio si dovrà applicare il sistema del contributivo «pro rata». Ma come spiega Franco, è una decisione che per diventare operativa dovrà superare lo scoglio di una trattativa fra l'amministrazione e le sigle sindacali, che a palazzo Madama sono, per meno di mille dipendenti, addirittura una decina. Il confronto non si annuncia facile. Anche nel 2008, dopo mesi di polemiche sui costi, pareva essere passato un giro di vite, sostenuto dal questore Gianni Nieddu. Ma appena cambiò la maggioranza, quella nuova non se la sentì di andare allo scontro.
E tutto si arenò nei veti sindacali. Stavolta, poi, la trattativa ha contorni ancora più divertenti. Controparte dei sindacati è infatti la vicepresidente del Senato Rosy Mauro, esponente della Lega Nord, partito fortemente contrario alla riforma delle pensioni e sindacalista a sua volta: è presidente, in carica, del Sinpa, il sindacato del Carroccio. Nel frattempo, chi esce ha la strada lastricata d'oro. Il consigliere parlamentare «X» (alla larga dalle questioni personali, ma parliamo di un caso con nome e cognome) ha lasciato il Senato a luglio del 2010 a 58 anni. Da allora, finché non è entrato in vigore il contributo triennale di solidarietà per i maxi assegni previdenziali, palazzo Madama gli ha pagato una pensione di 25.500 euro lordi al mese: venticinquemilacinquecento.
Per 15 mensilità l'anno. Spalmandoli sulle 13 mensilità dei cittadini comuni 29.423 euro a tagliando. Da umiliare perfino l'ex parlamentare Giuseppe Vegas, oggi presidente della Consob, che da ex funzionario del Senato, sarebbe in pensione con 20 mila. Neppure il commesso «Y», assunto a suo tempo con la terza media, si può lamentare: ritiratosi nello stesso luglio 2010, sempre a 58 anni, ha diritto (salvo tagli tremontiani) a 9.300 euro lordi al mese. Per quindici. Vale a dire che porta a casa complessivamente oltre 20mila euro in più dello stipendio massimo dei 21 collaboratori più stretti di Barak Obama.
Sono cifre che la dicono lunga su dove si annidino i privilegi di un sistema impazzito sul quale sarebbe stato doveroso intervenire «prima» (prima!) di toccare le buste paga dei pensionati Inps. I bilanci di Camera e Senato del resto parlano chiaro. Nel 2010 la retribuzione media dei 1.737 dipendenti di Montecitorio, dall'ultimo dei commessi al segretario generale, era di 131.585 euro: 3,6 volte la paga media di uno statale (36.135 euro) e 3,4 volte quella di un collega (38.952 euro) della britannica House of Commons. E parliamo, sia chiaro, di retribuzione: non di costo del lavoro. Se consideriamo anche i contributi, il costo medio di ogni dipendente della Camera schizza a 163.307 euro. Quello dei 962 dipendenti del Senato a 169.550. E non basta ancora. Perché nel bilancio del Senato c'è anche una voce relativa al personale «non dipendente», che comprende consulenti delle commissioni e collaboratori vari, ma soprattutto gli addetti a non meglio precisate «segreterie particolari». Con una spesa che anche nel 2011, a dispetto dei tagli annunciati, è salita da 13 milioni 520 mila a 14 milioni 990 mila euro. Con un aumento, mentre il Pil pro capite affondava, del 10,87%: oltre il triplo dell'inflazione.
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella il 4 gennaio 2012 su Il Corriere della Sera.
Le indagini investigative difensive.
Se la verità, e l’innocenza, emergono a distanza di anni solo grazie alle indagini investigative. Il titolo VI bis del codice di procedura penale disciplina la possibilità del difensore di svolgere indagini per cercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito. Nel 2001 le indagini difensive degli avvocati Giorgio e Auleta hanno riaperto il caso di Massimo Pisano e della sua amante, accusati di avere assassinato la moglie di lui. Valentina Stella su Il Dubbio il 30 gennaio 2023.
Le indagini svolte dal difensore per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito sono disciplinate nel titolo VI bis del codice di procedura penale. Vediamo alcuni casi che ci restituisce la cronaca in cui esse sono servite per scagionare o sono risultate inutili per provare la presunta innocenza di una persona.
DOPO 5 ANNI SCAGIONATO IL MARITO DI CINZIA BRUNO
La mattina del 4 agosto 1993 Cinzia Bruno, moglie di Massimo Pisano, dopo aver telefonato alle 8.30 circa in ufficio per ottenere un giorno di permesso, chiedendo alle sue colleghe di non comunicarlo al marito, si reca a Riano (RM) a casa di Silvana Agresta, che sospettava essere l'amante del marito, con la quale ingaggia una zuffa violenta. Una coppia di vicini di casa dell'Agresta sente una voce femminile lamentarsi, ripetutamente, intorno alle 12. Il cadavere di Cinzia, sgozzato ed oltraggiato verrà ritrovato sul greto del Tevere il pomeriggio del 6 agosto. Al termine del processo di primo grado il marito della donna e la sua amante vennero condannati all’ergastolo, nonostante Massimo avesse un alibi, il lavoro, nel quale tuttavia gli inquirenti ritennero ci fosse un buco di un’ora.
La sentenza viene confermata dalla Cassazione nel 1996. Dovranno passare cinque anni perché la verità emerga: nel febbraio 2001 la Corte d’appello di Perugia accoglie la revisione e assolve l’uomo. All’ora del delitto, verso le 12 del 4 agosto 1993, viene accertato finalmente che lui era al lavoro, come aveva sempre sostenuto. Si è potuti giungere a liberare un innocente dal carcere grazie alle indagini difensive dei suoi avvocati Stefano Giorgio e Barbara Auleta: gli elementi di prova già acquisiti furono valutati congiuntamente alle prove nuove assunte nel giudizio di revisione (esame del fratello della co-imputata Aniello Agresta, consulenza tossicologica, deposizione del geometra Giammattei).
OMICIDIO VOLONTARIO: INNOCENTE DOPO 4 ANNI DI CARCERE
Nel processo “Iscaro – Saburo” a carico della mafia garganica, grazie alle indagini difensive svolte dall’avvocato. Michele Vaira, è stato possibile dimostrare l’alibi di Ivan La Fratta, accusato di omicidio volontario. “Dopo quattro anni di carcere - si legge sul sito del legale - e con una Procura che ha colpevolmente omesso di raccogliere prove a favore dell’accusato (come prevede il codice di procedura penale), grazie alle indagini difensive è stata accertata la sua innocenza e risarcito per l’ingiusta detenzione”. “Quella notte - gli raccontò il ragazzo - ero con amici. C’era una ragazza. Si ricorderà di noi. Abbiamo dormito in un hotel sul lungomare, non ricordo quale” a Rimini.
Grazie all’aiuto di una investigatrice privata fu trovato l’albergo, rintracciata la ragazza e con l’analisi dettagliata della sim del ragazzo si è dimostrato che era lontano dal luogo del delitto.
MOLISE: NON CI FU QUELLA CENA TRA EX PM, GIORNALISTA E GOVERNATORE
A giugno dello scorso anno l’ex pm di Campobasso Fabio Papa (oggi a Chieti) e la giornalista molisana Manuela Petescia sono stati assolti dall’accusa di tentata concussione ed estorsione ai danni dell’ex presidente della Regione Molise Paolo di Laura Frattura, nonché violazione di segreto d’ufficio, abuso e falso.
Secondo la Procura i due nel corso di una cena organizzata in casa del magistrato “nell’autunno 2013” avevano organizzato questo ricatto: o si mette mano alla legge sui fondi alle tv e si finanzia Telemolise oppure “finisci a pezzi nell’indagine su Biocom, condotta dal pm Fabio Papa, in cui il governatore Paolo di laura Frattura era coinvolto”, ricorda il Fatto Quotidiano. Le indagini difensive, anche grazie all’uso delle celle telefoniche, hanno permesso poi di acclarare che in realtà quella cena a quattro non c’era mai stata.
UN 46ENNE ASSOLTO DALL’ACCUSA DI VIOLENZA SESSUALE
A.D.G, 46enne di Surbo, all’esito di un processo discusso con il rito abbreviato in cui rischiava sei anni di reclusione per stalking, lesioni e violenza sessuale, è stato riconosciuto responsabile dei primi due reati e assolto da quello più grave. Il legale dell’uomo, l’avvocato Enrico Gargiulo, aveva svolto delle indagini difensive, raccogliendo alcune testimonianze che avrebbero minato la credibilità della vittima.
490MILA EURO DI RISARCIMENTO DOPO LA REVISIONE DEL PROCESSO
Finì ingiustamente detenuto in carcere per una rapina violenta, ma 11 anni dopo i fatti lo Stato si trova a risarcirlo di 490.000 euro all'esito di una revisione del processo presso la corte di appello di Genova che ha stabilito che aveva un alibi. La vicenda riguarda un muratore tunisino, ora 43enne, che venne condannato per rapina aggravata a 4 anni e 8 mesi di cui scontò tre anni e mezzo in carcere.
L'accusa, viene ricostruito, riguardava un fatto nella notte del 7 settembre 2011 alla stazione di Viareggio (Lucca), una rapina dove rimase accusato - e poi imputato nei processi - per via della testimonianza di un uomo assalito di notte da due giovani con ascia e coltello che disse di averlo riconosciuto come autore dell'aggressione. Gli avevano rapinato il portafoglio con 100 euro.
Il tunisino Mounir Knani, titolare di una ditta edile artigianale, entrò così in una trafila processuale e venne condannato dal tribunale di Lucca il 30 maggio 2012 e dalla corte di Appello a Firenze il 27 giugno 2014. Venne recluso, ma le indagini difensive del suo avvocato,
Stefano Gambini, dimostrarono che l'uomo la notte della rapina era in casa dove c'erano la fidanzata italiana, poi diventata moglie, la figlia di lei e un'altra donna, tunisina, che peraltro indicava come colpevole della rapina il suo ex fidanzato. In base a queste testimonianze la Cassazione ha disposto la revisione del processo. Davanti alla corte di Appello di Genova il tunisino è stato assolto “per non aver commesso il fatto”. Fatta la domanda di riparazione, per l'indennizzo da ingiusta detenzione, il 28 ottobre scorso è diventata definitiva l'ordinanza della corte di Appello di Genova del 14 marzo 2022 che quantifica 235,82 euro per ogni giorno di ingiusta detenzione in carcere e 117,91 euro per ogni giorno ai domiciliari - totale 305.850,54 euro - cui vengono aggiunti i mancati guadagni per non aver potuto lavorare.
14 ANNI, È 100MILA EURO DI SPESE LEGALI PER ESSERE ASSOLTO
«Tra spese legali, consulenze e indagini difensive il mio processo, durato ben 14 anni, è costato almeno 100mila euro, una cifra enorme»: a raccontare al Riformista la sua esperienza e i costi della giustizia che di giusto ha poco e niente è l’avvocato Ugo de Flaviis, processato ed assolto dall’accusa di disastro colposo a seguito di una violenta alluvione nel Nocerino che, nell’ottobre del 2007 quando lui era assessore all’Ambiente, provocò la rottura degli argini nella zona di Merighi, vicenda per la quale la Procura aveva chiesto un anno di reclusione e che invece si è risolta con l’assoluzione piena. “Il mio processo avrebbe richiesto la presenza di tecnici specializzati e invece le indagini furono affidate a un sottoufficiale dei carabinieri che non aveva alcuna competenza in materia – racconta de Flaviis – Ho dovuto richiedere una consulenza a un professore ordinario di ingegneria idraulica, il costo? 10mila euro”, ha spiegato.
GARLASCO: LE INVESTIGAZIONI NON RIUSCIRONO A FAR RIAPRIRE IL CASO
Nel famoso caso dell’omicidio di Garlasco, per cui Alberto Stasi è stato condannato in via definitiva a sedici anni per la morte della sua fidanzata Chiara Poggi, la mamma del ragazzo non si è mai arresa nel dimostrare l’innocenza del figlio e nel 2016, tramite i suoi avvocati, affidò ad una agenzia di investigazione il compito di scovare qualche elemento sfuggito o sottovalutato dagli inquirenti. Ed ecco spuntare il nome di Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara, a cui è stato prelevato a sua insaputa il Dna da una bottiglietta d'acqua e da un cucchiaino e comparato da un genetista con quello rinvenuto sotto le unghie della vittima. Il tutto finì in un nulla di fatto e Sempio venne ritenuto completamente estraneo alla vicenda.
CASO RAGUSA: LEGALI DEL MARITO FARANNO RICORSO IN CASSAZIONE
A dicembre 2022 La terza sezione penale della Corte d’Appello di Genova ha giudicato inammissibile la richiesta di Antonio Logli di revisione della sentenza di condanna a 20 anni, confermata in Cassazione a luglio 2019, per la morte della moglie Roberta Ragusa, il cui corpo non è mai stato trovato. La decisione è arrivata dopo che i legali dell'uomo avevano richiesto la riapertura del processo sulla base di nuovi elementi emersi dalle indagini difensive, ossia un “nuovo testimone chiave capace di mettere in discussione l’intero impianto accusatorio”. I legali hanno annunciato ricorso in Cassazione.
Criminologia, specializzazione sempre più preziosa in camp
«Così possiamo aiutare i legali a trovare prove favorevoli ai loro assistiti».
Parla Luciano Tommaso Ponzi (Federpol): «L'obiettivo è fare in modo che difensori e investigatori privati facciano matching per individuare i punti di forza utili ad entrambi». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 30 gennaio 2023.
In Italia sono presenti circa duemila investigatori privati autorizzati che coordinano diverse decine di migliaia di operatori. Un piccolo esercito che difende con sempre maggiore convinzione la propria dignità professionale. Federpol, presieduta da Luciano Tommaso Ponzi, è l’associazione di categoria più rappresentativa che riunisce un migliaio di investigatori privati.
L’associazione è stata fondata nel 1957 dal questore Giuseppe Dosi, famoso per aver seguito il “caso del mostro di Roma”, per aver salvato il museo di via Tasso a Roma e per aver coniato il termine “Interpol”. «Il protocollo di intesa sottoscritto con la Scuola superiore dell’avvocatura – afferma Ponzi - è una tappa fondamentale, attraverso la quale si svolgerà una comune attività di formazione con protagonisti gli avvocati e gli investigatori privati. Una collaborazione significativa per un reciproco arricchimento del bagaglio delle competenze».
Dottor Ponzi, la collaborazione tra l’avvocatura istituzionale e Federpol segna una tappa molto significativa. Quali sono i punti di contatto tra l’attività forense e quella delle investigazioni?
Le due professioni si intrecciano per forza di cose, per la loro stessa natura. Entrambe sono d’ausilio per la ricerca della verità e della giustizia. Per la verità processuale, prima di ogni cosa. Il protocollo di intesa con l’avvocatura deriva dalla sensibilità mostrata dal Cnf, che ha ascoltato l’appello della Federpol credendo nella sinergia comune. I punti di contatto sono numerosi. L’obiettivo è fare in modo che sia l’avvocato del libero Foro che l’investigatore privato facciano matching, si incontrino per relazionarsi con l’individuazione dei punti di forza comuni ad entrambe le professioni. L’investigatore ricerca delle evidenze in favore dell’avvocato, che in sede dibattimentale, ma non solo lì, lavora per trovare delle prove a favore del suo assistito.
L’avvocato, secondo lei, deve conoscere anche delle tecniche di investigazione, tenendo sempre conto degli ambiti di lavoro che lo riguardano?
Sicuramente è utile e con il protocollo di intesa firmato di recente con il Consiglio nazionale forense andremo anche a sviluppare dei corsi di formazione ben precisi. Un aspetto però è bene evidenziare. Talvolta l’investigatore privato vuole fare l’avvocato e l’avvocato, spesso, vuole vestire i panni dell’investigatore, dedicandosi a qualche attività extra. Ognuno ha il suo ruolo e le sue competenze. A proposito di queste ultime è giusto che siano sviluppate sempre di più.
Dunque, il modello dell’avvocato alla Perry Mason, osannato dal cinema e dalla televisione, è lontano anni luce dalla nostra realtà?
Certo. Stiamo parlando di una figura cinematografica collocata in un determinato contesto, quello statunitense. Come dicevo, ognuno ha le proprie competenze e specializzazioni, e in base alla realtà di riferimento considero positive le collaborazioni all’interno degli studi legali. Più un professionista è specializzato, più il risultato sarà migliore.
Il lavoro dell’investigatore privato ha subito dei cambiamenti nel corso degli anni?
La normativa che regola l’attività degli investigatori privati risale ad un Regio decreto del 1931 e sottolinea non un’autorizzazione, ma un divieto. L’articolo 134 infatti vieta a chiunque la raccolta di informazioni per conto di privati o enti senza l’apposita licenza. Nel corso degli anni abbiamo assistito ad una evoluzione. Con il dopoguerra, a partire dal 1946 iniziano i primi cambiamenti. Con il boom economico le cose sono cambiate ulteriormente e la nostra attività ha incominciato a riguardare non solo la sfera privata dei cittadini, ma anche le attività delle aziende. La riforma penale di una ventina di anni fa ha avuto, sotto certi aspetti, anche delle ripercussioni sul ruolo dell’investigatore privato. Fatto sta che il nostro è un lavoro molto delicato e nell’opinione pubblica alcuni elementi non vengono percepiti adeguatamente.
A cosa si riferisce?
Per l’avvocato in alcuni casi è stato costruito e diffuso lo stereotipo legato alla figura di Perry Mason, mentre per l’investigatore privato è stato affiancato il cliché del faccendiere, di un soggetto borderline che si mette al servizio del miglior offerente. Sono stereotipi creati anche da certa cinematografia. Va scardinata questa visione, così come l’approccio superficiale di alcuni media e di certe trasmissioni televisive. Per esempio, sul caso Totti-Blasi non sono mancate delle mistificazioni con dichiarazioni da parte di alcuni esperti non certo lusinghiere sulla nostra attività. Strumentalizzazioni e notizie fuorvianti che dimostrano la poca voglia da parte degli organi di informazione di fare chiarezza sul nostro lavoro. Gli investigatori privati sono i primi a rispettare la legge.
La dinastia Ponzi, alla quella lei appartiene, ha dato un contributo considerevole per far sviluppare e conoscere in Italia un lavoro difficile. La figura dell’investigatore privato conserva ancora il suo fascino?
Occorre premettere che il nostro lavoro è radicalmente cambiato. Gli anni della “Dolce vita” hanno scandito una fase molto importante per la nostra professione. È stata l’epoca migliore anche se prevalentemente rivolta alle questioni private, al jet set di quel periodo, collocato tra anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Prima erano pochissimi gli investigatori privati, non che adesso ce ne siano tanti. Gli strumenti che venivano utilizzati erano davvero all’avanguardia e a disposizione di pochi. Oggi la tecnologia facilita molto il lavoro quotidiano. Ieri come oggi, però, non si può prescindere da alcune precise caratteristiche e attitudini richieste: intuito, tatto e spirito di sacrificio.
Perry Mason, quando l’avvocato diventa un eroe del popolo. Il celeberrimo protagonista della serie Cbs è stato il simbolo del difensore detective vicino ai più deboli, che si batte, anche con mezzi discutibili, contro l'America giustizialista. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 30 gennaio 2023.
Nel 2018 in una cittadina del Texas un uomo è stato arrestato per esercizio abusivo della professione di avvocato, Sulla porta del suo ufficio aveva fatto iscrivere una targhetta con un nome fittizio: Perry Mason.
Sembra una boutade ma è tutto vero, il penalista nato dalla penna di Erle Stanley Gardner e poi reso celebre dalla serie Cbs interpretata dal magnetico Raymon Burr è talmente radicato nell’immaginario popolare d’oltreoceano da diventare l’antonomasia dell’avvocato difensore, anche per un truffatore mitomane incallito.
Non era evidente all’inizio del secolo scorso, quando i penalisti statunitensi occupavano il gradino più basso nella scala dell’avvocatura, poco più che dei paria. Nell’America iperproduttiva del capitalismo trionfante scintillava infatti la figura dei nuovi avvocati d’affari (corporate law attorneys), generalmente di cultura conservatrice che regolavano contenziosi milionari per conto delle grandi compagnie (law firm), associandosi in studi potentissimi nei piani alti dei grattacieli di New York, Chicago, Boston e gonfiando a dismisura il proprio portafoglio. Il consulente finanziario sostituisce il vecchio difensore, il criminal lawyer caduto in disgrazia, costretto a d assistere dei poveri cristi quasi mai in grado di pagare la parcella.
Le cose cambiano verso la metà degli anni Venti quando il Paese è attraversato da un’ondata criminale, è l’epoca dei grandi gangster e del proibizionismo e gli americani iniziano a interessarsi con morbosità alla cronaca nera che riempie le prime pagine dei quotidiani e dei nascenti tabloid, E c’è un avvocato progressista di Chicago, vicino ai sindacati, detestato dalla destra religiosa e fieramente abolizionista che conquista improvvisamente la ribalta mediatica. Si chiama Clarence Darrow ed è il difensore di Nathan Leopold Jr. e Richard Loeb, figli di due influenti famiglie accusati del rapimento e dell'uccisione del quattordicenne Robert 'Bobby' Franks. Il ragazzino peraltro è stato orrendamente mutilato e gettato ancora vivo nell’acido. Un caso raccapricciante che scuote l’opinione pubblica ma che allo stesso tempo permette a Darrow di battersi sotto la luce dei riflettori contro la pena di morte.
Le sue brillanti arringhe seguite dalle radio nazionali convincono la giuria a commutare l’esecuzione in ergastolo e ne fanno una star dei nuovi, modernissimi mezzi di comunicazione di massa. Fisico statuario, ironia tagliente e accento della working class, Darrow è l’esatto opposto dell’avocato d’affari elitario dell’east coast, e in più è bravissimo e vittorioso. Con lui si impone la figura del difensore dei deboli e del raddizzatore di torti in lotta contro un sistema classista e giustizialista: i penalisti ritornano ad acquisire prestigio.
È anche grazie alla visibilità di professionisti come Darrow e più avanti . F. Lee Bailey e Jonnie Cochran che gli avvocati difensori diventano un mito popolare.
Fino alla consacrazione della serie Perry Mason andata in onda per la prima volta nel 1954. Il successo e della serie, scritta e diretta con canoni cinematografici più che da telefilm, è enorme, Lo schema con cui scorrono gli episodi è ripetitivo ma efficace: c’è un prologo in cui viene presentato un crimine, l’arresto di un innocente, l’entrata in scena di Mason che prima investiga e poi difende in tribunale il suo cliente smascherando il vero colpevole, quasi sempre presente in aula. Un climax di “ricerca della verità” disseminato di ostacoli che verrà ripreso da tante moderne serie tv come ad esempio il Dottor House.
Certo, la giustizia con cui ha a che fare il nostro eroe è per lo più immaginaria e in molti hanno fatto notare quanto sia inverosimile e anche poco garantista difendere soltanto degli “innocenti”. O quanto poco credibili le confessioni dei rei che “crollano” incalzati da Mason, confessioni che non in teoria non dovrebbero avere alcun valore giuridico. E poi ci sono i metodi sbrigativi, spesso al limite della deontologia, con cui Mason viene a capo dei casi più intricati perché “il fine giustifica i mezzi”.
Ma si tratta di critiche spuntate che pretendono la congruenza un prodotto di finzione e di intrattenimento con la realtà, la trama di una storia inventata con il codice di procedura penale.
Il valore della serie Perry Mason non risiede certo nella verosimiglianza o nella fedeltà delle sceneggiature al funzionamento delle leggi; l’avvocato difensore qui assomiglia più a un supereroe della Marvel dotato di poteri straordinari, un deus ex machina che protegge i cittadini dal giustizialismo ipertrofico del sistema penale americano con i suoi procuratori sceriffi, le sue giurie influenzabili e piene di pregiudizi, le sue carceri infernali dove i detenuti vengono sepolti senza possibilità di riabilitazione.
I Criminologi.
Le figure accessorie e necessarie: consulenti mediatici ed avvocati di ufficio.
La Strage di Erba, il delitto di Avetrana e gli altri casi di cronaca. Cosa accomuna i casi giudiziari forieri di dubbi sulla colpevolezza dei condannati?
La strategia difensiva. La presenza dei consulenti mediatici. La nomina di avvocati di ufficio. La loro sudditanza ai Pubblici Ministeri.
Picozzi, Meluzzi, Bruzzone. Le Iene. Due Pesi e due Misure. Perché le Iene per Olindo Romano e Rosa Bazzi credono nella manipolazione delle loro testimonianze e la stessa cosa non vale per Michele Misseri?
Da Le Iene del 23 febbraio 2019. Le Iene entrano in possesso di un documento inedito, dal contenuto clamoroso e che tutti hanno cercato e avrebbero voluto pubblicare in questi anni. È un video girato due mesi dopo la stage, in cui Olindo Romano racconta i particolari della strage al criminologo Massimo Picozzi, allora consulente del difensore d'ufficio. Il filmato, mai pubblicato prima d'ora e mai entrato a processo, aggiunge nuovi fondati dubbi sulla colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi per la “Strage di Erba”. Il video viene girato circa un mese dopo che i due coniugi si autoaccusano del delitto, a un mese esatto dal massacro, avvenuto l'11 dicembre del 2006. Il contenuto delle confessioni è carico di incredibili inesattezze ed errori grossolani nella ricostruzione della dinamica. Rosa e Olindo sbagliano o non ricordano. Tra le altre cose: l’orario della strage; il fatto che non ci fosse illuminazione; l’ordine e la dinamica di aggressione delle vittime, in pratica chi avrebbe ucciso chi; le armi del delitto utilizzate; il loro abbigliamento; la loro via di fuga. Oggi Le Iene sono in grado di aggiungere un nuovo tassello nella ricostruzione degli eventi, questa volta con un nuovo e prezioso documento, fino ad oggi rimasto assolutamente inedito per la televisione. Olindo Romano ha accettato di rendere pubblico, esclusivamente attraverso il nostro programma, (vedi lettera di Olindo Romano in fondo all'articolo) i filmati realizzati due mesi dopo la strage dal criminologo Massimo Picozzi, che incaricato dal difensore d’ufficio Pietro Troiano, dovevano servire a dimostrare l’infermità mentale dei due coniugi e, pertanto, ottenere la loro non punibilità.
Il criminologo Picozzi “intervista” Rosa e Olindo nel corso di tre incontri ciascuno avvenuti tra febbraio e aprile 2007. Da questi incontri all'epoca viene fuori solo il più noto di questi filmati: quello dove Rosa Bazzi racconta, tra le lacrime, il movente e la dinamica dell’efferato pluriomicidio. Un filmato che non sarà considerato una prova valida dai Giudici, ma che comunque verrà proiettato in aula al processo e diffuso da ogni televisione, rafforzando in tutti la convinzione di avere di fronte una spietata assassina. Eppure anche in quel racconto, registrato diverse settimane dopo la confessione davanti ai pubblici ministeri, non mancano le enormi inesattezze e le assolute incongruenze. I contenuti del filmato inedito di Olindo Romano, sono ancora più clamorosi. Perché confrontati con il racconto di Rosa, ma soprattutto con la dinamica certificata dalle sentenze, rendono i dubbi sulla loro reale colpevolezza ancora più forti. Quello che all’epoca dei fatti era il difensore d’ufficio dei coniugi, l’avvocato Pietro Troiano, non sa che le prove in mano alla Procura sono meno solide di quello che sembra. La perizia del Ris di Parma che stabilisce con assoluta certezza che nessuna traccia di Rosa e Olindo è presente sulla scena del crimine e che nessuna traccia delle vittime è presente in casa dei due, verrà infatti depositata molto più avanti. Per questo motivo l’avvocato Troiano avrebbe deciso la strategia difensiva che puntava ad ottenere l’infermità mentale. Da qui il suggerimento, a Rosa e Olindo, di essere molto convincenti davanti all’obbiettivo della telecamera del criminologo Massimo Picozzi.
PICOZZI E RAMPONI. Da Le Iene il 30 aprile 2019. “Lui mi faceva le domande e mi spiegava quello che avevo da dire…mi spiegava “perché guarda Rosy, che vai contro o vai a fare, fai questo fai quello, devi dire così devi fare così, quando è il momento ti devi agitare, cioè muovi le braccia così, muovi le braccia così”. “Lui” è il criminologo Massimo Picozzi, all'epoca consulente della difesa, e la donna a cui avrebbe dato dei suggerimenti nel raccontare disperata i dettagli della strage di Erba, è proprio lei: Rosa Bazzi. Sarebbe la nuova tesi che la donna, condannata insieme al marito all’ergastolo per la strage dell’11 dicembre 2006 che costò la vita a 4 persone, 3 donne e un bambino, farebbe dal carcere di Bollate, dove è reclusa da 12 anni, nell’intervista esclusiva concessa a Le Iene, della quale vedrete un nuovo capitolo martedì a partire dalle 21.10 su Italia 1. Quel video ha un'importanza strategica sugli sviluppi della strage di Erba, perché finito nelle mani dei pm e poi di una trasmissione tv: nato come strumento voluto dalla difesa, una volta reso pubblico convinse tutta Italia che Rosa Bazzi fosse colpevole, molto tempo prima che fosse effettivamente condannata. Riguardo ai colloqui psichiatrici video registrati con Massimo Picozzi la detenuta racconta ad Antonino Monteleone particolari difficili da credere, perché se fossero veri, consentirebbero di vedere quel video sotto un’altra prospettiva. “Lui aveva spento la telecamera… mi aveva detto come muovere le mani come agitarmi, cioè… tutte queste cose. questo me l’aveva detto Picozzi”. E ci sarebbe un altro punto di questa vicenda che coinvolgerebbe ancora al consulente la difesa dei coniugi Romano, sempre riguardo a questi video- appunti per una perizia psichiatrica a Rosa e Olindo. Non solo il video in cui Rosa racconta la strage tra le lacrime finirà nelle mani della pubblica accusa, senza che venga depositata alcuna perizia psichiatrica, unica finalità per la quale erano stati realizzate quelle riprese. Ma buona parte dei contenuti del video di Rosa e anche di quello di Olindo, che non è mai stato depositato in Procura, sarebbero finiti non si sa come in un libro scritto dal giornalista Pino Corrias e pubblicato prima ancora che il processo a marito e moglie cominciasse. E questo denunciano i nuovi avvocati difensori di Rosa e Olindo, sarebbe una cosa molto grave. Chi fece vedere, abusivamente, i video al giornalista Corrias? Nel libro “Vicini da Morire”, oltre al contenuto trascritto di quei colloqui tra i detenuti e Massimo Picozzi, troviamo virgolettati attribuiti sia all’avvocato difensore Troiano, sia allo stesso consulente Picozzi, che compare anche tra i ringraziamenti dell’autore: loro, i componenti del collegio difensivo, erano gli unici che all'epoca sarebbero stati in possesso di quei video. E lo stesso Corrias, sentito in aula, ha raccontato: “ho visto un video, che è stato registrato in sede di perizia psichiatrica da Massimo Picozzi”. Quando però gli viene chiesto chi gli abbia mandato quei video e se fosse stato Picozzi, Corrias preferisce non rivelare la sua fonte. Antonino Monteleone decide allora di andare a sentire proprio il professor Picozzi per capire cosa ne pensa e qual è la sua versione dei fatti. “Professore una cosa molto importante, che quando Olindo e Rosa ritrattarono, lei consegnò tutto il materiale… ma in realtà il materiale presenta dei tagli, lei ha nella sua disponibilità il materiale?”, gli chiede la Iena. Ma Picozzi non ha intenzione di rispondere, neanche alla seconda domanda di Monteleone: “L’altra cosa che volevo chiederle è come mai Rosa chiede se era andata bene o era andata male in testa e in coda a dei tagli e delle dissolvenze che ci sono nel filmato…”. Niente, ancora nessuna risposta. E quando gli chiediamo come sia possibile che il giornalista e autore del libro Pino Corrias abbia visto il video di Olindo, tanto da contenerne alcuni estratti, Massimo Picozzi resta in silenzio, guardando fisso nel vuoto.
Consulenti, dopo Bruzzone arrivano Meluzzi e Picozzi, scrive il 17 novembre 2010 La Repubblica. Criminologi e psichiatri della tv irrompono in truppa nel caso Sarah Scazzi. Pronti a sfidarsi a colpi di perizie per decifrare le pieghe del delitto. Questa volta sono i legali della famiglia Scazzi a calare gli assi della tv. Come consulenti di parte, infatti, sono stati nominati Massimo Picozzi e Alessandro Meluzzi, volti noti del piccolo schermo oltre che professionisti dall' impressionante curriculum. Il criminologo Picozzi sarà già in aula venerdì per prendere parte all' incidente probatorio in cui Michele Misseri dovrà dire la sua definitiva verità sull' omicidio di Sarah. La deposizione di zio Michele sarà raccolta nella cappella del carcere di Taranto in cui è rinchiuso. Misseri parlerà sotto gli occhi di Sabrina, la figlia che ha incastrato, bollandola come assassina. Ma a scrutarlo ci sarà anche Massimo Picozzi che siederà al fianco degli avvocati di parte civile Walter Biscotti e Nicodemo Gentile. Tra i banchi della difesa prenderà posto, invece, la criminologa Roberta Bruzzone, volto abitualmente accomodato sulle poltrone di Porta a Porta. Proprio lei ha fatto da apripista alla carica degli esperti della tv. Il legale di Misseri l'ha scelta come consulente. Venerdì scorso c'era anche lei in carcere, quando zio Michele ha deciso di vuotare il sacco, inchiodando Sabrinae sfilandosi di dosso i panni di assassino. La sua presenza nei delicati frangenti in cui l'inchiesta virava per l'ennesima volta, è stata ferocemente contestata dalla difesa al Riesame. Eccezioni procedurali, ovviamente, e che poi si tratti anche di un volto della tv è accessorio, anche se ormai è pacifico che le telecamere si siano conquistate da tempo un posto in prima fila nella tragica vicenda di Avetrana. E in questo tourbillon che ha trasformato l'omicidio di una ragazzina in un permanente horror show, vittime e colpevoli fanno la loro parte. Aveva cominciato Sabrina. Davanti a obiettivi e microfoni aveva versato lacrime su quella cugina scomparsa. Per oltre 42 giorni era stata protagonista. La sua breve carriera televisiva è finita dietro le sbarre. E la sua ultima immagine immortalata dalle telecamere è quella di una donna che nasconde il volto mentre viene condotta all'interrogatorio decisivo per il suo arresto. Ora è il turno di Claudio, il fratello di Sarah. Vuole fare strada in tv. Si sente portato e per questo ha contattato Lele Mora, ottenendo un secco rifiuto. "Gli ho chiesto se avesse in mente qualcosa per me. Non mi dispiacerebbe la televisione. Mi ha detto che non vado bene, non sono fatto per la tv» - ha rivelato Claudio Scazzi al settimanale Oggi. Lui, però, non si è perso d' animo e ha bussato alle porte di altre agenzie di spettacolo. In serata ha diffuso una nota in cui smentisce tutto. Senza parole.
La criminologa Roberta Sacchi: “Io, presa di mira perchè non colpevolista sul delitto di Avetrana”. Cronaca Vera il 15 Gennaio 2023 su Fronte del Blog
A Cronaca Vera parla la criminologa Roberta Sacchi, che per i suoi dubbi sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano nel delitto di Sarah Scazzi, venne violentemente attaccata sui social
L’autore del libro “Il delitto di Avetrana- Perché Sabrina Misseri e Cosima Serrano sono innocenti”, ovvero il giallista Rino Casazza, l’ha intervistata per il nostro settimanale
Roberta Sacchi, i suoi dubbi sul delitto di Avetrana sono oggi rilanciati dal libro di Rino Casazza. Clicca sulla copertina e vai all’inchiesta
Affermata psicologa forense e criminologa, Roberta Sacchi è divenuta un volto televisivo per la sua partecipazione a trasmissioni di true crime. Nel 2014 ha vissuto una spiacevole esperienza a causa dei reiterati, scomposti attacchi – addirittura con minacce di violenza fisica- sui propri profili social, mail e sul telefono a causa degli interventi sul piccolo schermo sul giallo di Avetrana.
L’esperta era stata presa di mira per aver espresso forti dubbi sulla responsabilità nell’omicidio di Sarah Scazzi di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, poi condannate in via definitiva. Secondo il suo parere il delitto era da attribuirsi unicamente all’altro famigliare coinvolto in quel caso giudiziario, Michele Misseri.
L’incresciosa disavventura ha avuto un’appendice con un procedimento disciplinare a carico della Sacchi in relazione alla supposta incauta ipotesi da lei avanzata, con argomenti seri fondati sulle sue conoscenze professionali, che alla base del comportamento criminale di Michele Misseri potesse esserci un disturbo neurologico. L’azione disciplinare si è poi conclusa in modo a lei favorevole. Ma da allora, cautelativamente, ha evitato di pronunciarsi sulla vicenda della morte della giovane Scazzi in tv e sui social.
Le teorie della Sacchi tornano di attualità ora che, per iniziativa dei legali delle due donne, in carcere con la pena dell’ergastolo, è in discussione un ricorso presso la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che potrebbe portare a una revisione del processo, rimettendo in discussione la verità giudiziaria. Roberta Sacchi ha accettato di tornare a parlare con noi dell’argomento.
Ci vuoi raccontare che cosa ti è successo e qual è la tua posizione sul delitto di Avetrana?
Otto anni fa eravamo nel pieno dell’iter processuale per l’omicidio di Sarah Scazzi. Nei dibattiti televisivi io ero una dei pochi, se non l’unica, a rompere il compatto schieramento colpevolista nei confronti di Sabrina e Cosima, essendo convinta, come sono tutt’ora, che la povera Sarah sia stata uccisa dallo zio Michele – reo confesso ma non creduto dagli inquirenti e poi dai giudici – per reazione inconsulta al rifiuto di un approccio sessuale da parte della ragazzina.
Intendendomi particolarmente di psicologia del ricordo, sostenevo che uno dei principali elementi a favore della falsità della confessione dell’uomo, ovvero che fosse incapace di ricostruire in modo completo e preciso l’azione omicida, in realtà era circostanza nient’affatto insolita in autori di delitti similari. In un clima in cui l’opinione pubblica aveva il pollice verso nei confronti delle due imputate, questo ha scatenato contro di me l’avversione del popolo dei social con una valanga di commenti negativi preconcetti e contumelie. Eppure mi ero limitata a riferire il risultato di studi specifici su casi reali.
Cioè?
Quando una persona commette un omicidio d’impulso è, evidentemente, in stato di forte stress emotivo. Questo implica che non rammenti per filo e per segno gli atti compiuti, ma li ricordi a sprazzi. Questo è quello che è accaduto a Michele Misseri, anche a prescindere dalla questione se egli sia o meno affetto da una malattia psichiatrica, su cui non è stato mai compiuto un accertamento medico-specialistico. Tutto il caso di Avetrana, comunque, chiama in causa la problematica, ben conosciuta in psicologia, dell’alterazione involontaria dei ricordi.
Che cosa intendi?
La soluzione giudiziaria sul delitto di Sarah Scazzi si basa tutta su testimonianze, in particolare su quella, controversa, di un fioraio di Avetrana che avrebbe visto le condannate costringere la vittima a salire sulla loro auto per poi evidentemente ucciderla, se il fatto è reale. Però questo testimone ha sempre sostenuto – continua a farlo anche adesso – di aver visto l’episodio in sogno. Ciò gli è valsa un incriminazione per falso, sorte toccata a molte altre persone che hanno fornito deposizioni su circostanze decisive non collimanti con l’impianto accusatorio.
D’ altro canto alcune altre persone, risentite a distanza di tempo, hanno ritenuto di rettificare quanto inizialmente riferito rendendolo compatibile con la tesi dell’accusa. In realtà, come dimostrano gli studi sperimentali, la memoria umana non fotografa in modo obiettivo gli avvenimenti, ma li filtra attraverso la sensibilità e l’esperienza individuale. Ad esempio è acclarato che le donne abbiano una percezione dei colori molto più sofisticata, per cui ricordano meglio questo dettaglio.
Comunque, in generale, bisogna sempre tener conto che qualora si riscontrino inesattezze o discordanze nelle versioni dei testimoni, non significa che dietro ci sia malizia o dolo, ma ciò può avvenire in buona fede per la soggettività dei ricordi, in misura maggiore quanto più passa del tempo dal fatto ricordato.
Roberta Bruzzone, la criminologa da fiction che difende Misseri, scrive Benedetta Sangirardi Sabato 13 novembre 2010 su affaritaliani.it. Una criminologa da fiction. Trentasette anni, bionda, alta, bella. Chi l'ha vista circolare tra Taranto e Avetrana, da quando è consulente della difesa di Michele Misseri assicura: "E' rifatta, dalla testa ai piedi. Le labbra sicuramente". Chrurgia o no, Roberta Bruzzone non è passata inosservata tra i protagonisti del delitto di Avetrana. Anche perché, appena un mese fa, in un'intervista a La 7, parlando dell'arresto dello zio di Sarah, aveva detto: "E' un pedofilo assassino", salvo poi entrare a far parte della sua difesa qualche giorno dopo. E aveva continuato: "Questo tipo di soggetti difficilmente hanno ingresso a quell'età nella vita criminale. C'è da indagare in modo più approfondito nella vita di questa persona e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti". Psicologa (iscritta all’albo degli psicologi della Liguria) e Criminologa, Perfezionata in Psicologia e Psicopatologia Forense, Perfezionata in Scienze Forensi, esperta in Psicologia Investigativa, Analisi della scena del crimine, Criminalistica e Criminal Profiling. Il curriculum ce l'ha, e non solo per quel che riguarda lo studio e la carriera. Internet è tappezzato di sue immagini modello book fotografico, in cui sembra più un'attrice del telefilm "Ris - Delitti imperfetti" che una criminologa con tanto di esperienza sul campo. E già, perchè nessuno se la ricorda, ma la Bruzzone ha fatto anche parte della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, nella strage di Erba. La sua formazione viene dagli Usa. Ha conseguito in USA il titolo di E.C.S. - Evidence Collector Specialist (esperto di ricerca e repertamento tracce sulla scena del crimine certificato dall'American Institute of Applied Sciences) con gli standards statunitensi della Sirchie Fingerprint Laboratories. E’ esperta - si legge nel suo curriculum - di tecniche di analisi, valutazione e diagnosi di abuso nei confronti di minori e nell’ambito della violenza sulle donne. Aiuta anche le donne e le vittime di violenza. E' consulente tecnico di Telefono Rosa nell’ambito di casi di violenza domestica, violenza sessuale, di stalking e di omicidio. Ha maturato numerose esperienze formative in Italia e all’estero, tra cui un periodo di training in USA presso l’University of California nella sede di San Francisco. E' membro del comitato scientifico della Polizia Postale e delle Comunicazioni. Svolge attività di docenza in vari corsi di perfezionamento e master universitari di numerose Università italiane. Ma non è tutto. La bionda acclamata da diversi blog per la sua bellezza è anche docente universitario, Presidente dell'Accademia Internazionale di Scienze Forensi, membro dell'International Association of Crime Analysts, Direttore Scientifico de “La Caramella buona Onlus” (associazione di volontariato contro la pedocriminalità). E poi è conduttrice tv, la sua, forse, vera inclinazione. Autrice e conduttrice del Programma TV "La scena del crimine" su un'emittente locale romana e del programma "Donne mortali" su Sky. Insomma, la signora Bruzzone sa il fatto suo. Ed è entrata a gamba tesa nel delitto forse più seguito di tutti i tempi, togliendo spazio ai legali vari, da Vito Russo a Daniele Galoppa. D'altra parte lei non si concede troppo alle tv, come invece fanno gli avvocati e tutti gli altri protagonisti di questa vicenda. Lei resta in disparte, parla quando lo ritiene necessario, mostra la sua bellezza anche un po' provocante. E difende Michele Misseri, assicurando che è una persona dolce "che ha molto a cuore sua figlia Sabrina". Anche se fino a un mese fa era uno sporco pedofilo.
La criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone inizialmente fu consulente della difesa di Michele Misseri, poi lasciò l’incarico per divergenze con la linea difensiva. L’uomo si autoaccusò dell'omicidio della piccola Sarah Scazzi e accusò la criminologa e il suo primo avvocato, Daniele Galoppa, di averlo indotto a incolpare la figlia Sabrina del delitto, motivo per cui la Bruzzone accusò di calunnia Misseri.
CONSULENTI PENTITI E RICREDUTI.
Consulenti, dopo Bruzzone arrivano Meluzzi e Picozzi, scrive “La Repubblica”. Criminologi e psichiatri della tv irrompono in truppa nel caso Sarah Scazzi. Pronti a sfidarsi a colpi di perizie per decifrare le pieghe del delitto. Questa volta sono i legali della famiglia Scazzi a calare gli assi della tv. Come consulenti di parte, infatti, sono stati nominati Massimo Picozzi e Alessandro Meluzzi, volti noti del piccolo schermo oltre che professionisti dall' impressionante curriculum. Il criminologo Picozzi sarà già in aula venerdì per prendere parte all'incidente probatorio in cui Michele Misseri dovrà dire la sua definitiva verità sull'omicidio di Sarah. La deposizione di zio Michele sarà raccolta nella cappella del carcere di Taranto in cui è rinchiuso. Misseri parlerà sotto gli occhi di Sabrina, la figlia che ha incastrato, bollandola come assassina. Ma a scrutarlo ci sarà anche Massimo Picozzi che siederà al fianco degli avvocati di parte civile Walter Biscotti e Nicodemo Gentile. Tra i banchi della difesa prenderà posto, invece, la criminologa Roberta Bruzzone, volto abitualmente accomodato sulle poltrone di Porta a Porta. Proprio lei ha fatto da apripista alla carica degli esperti della tv. Il legale di Misseri l'ha scelta come consulente. Venerdì scorso c'era anche lei in carcere, quando zio Michele ha deciso di vuotare il sacco, inchiodando Sabrina e sfilandosi di dosso i panni di assassino. La sua presenza nei delicati frangenti in cui l' inchiesta virava per l'ennesima volta, è stata ferocemente contestata dalla difesa al Riesame. Eccezioni procedurali, ovviamente, e che poi si tratti anche di un volto della tv è accessorio, anche se ormai è pacifico che le telecamere si siano conquistate da tempo un posto in prima fila nella tragica vicenda di Avetrana. E in questo tourbillon che ha trasformato l'omicidio di una ragazzina in un permanente horror show, vittime e colpevoli fanno la loro parte. Aveva cominciato Sabrina. Davanti a obiettivi e microfoni aveva versato lacrime su quella cugina scomparsa. Per oltre 42 giorni era stata protagonista. La sua breve carriera televisiva è finita dietro le sbarre. E la sua ultima immagine immortalata dalle telecamere è quella di una donna che nasconde il volto mentre viene condotta all'interrogatorio decisivo per il suo arresto. Ora è il turno di Claudio, il fratello di Sarah. Vuole fare strada in tv. Si sente portato e per questo ha contattato Lele Mora, ottenendo un secco rifiuto. "Gli ho chiesto se avesse in mente qualcosa per me. Non mi dispiacerebbe la televisione. Mi ha detto che non vado bene, non sono fatto per la tv» - ha rivelato Claudio Scazzi al settimanale Oggi. Lui, però, non si è perso d' animo e ha bussato alle porte di altre agenzie di spettacolo. In serata ha diffuso una nota in cui smentisce tutto. Senza parole.
I criminologi che abbiamo in Italia non sono sufficienti, scrive Gallito De La Rocas. Il progresso scientifico e tecnologico, insieme al benessere delle future generazioni del nostro paese, sono seriamente a rischio per la mancanza di criminologi. Meluzzi, Bruzzone, Picozzi, tutti misteriosamente muniti di un cognome con doppia Z, mistero sul quale sta già indagando Giacobbo, insieme ad un’equipe di scienziati delle migliori università, non sono sufficienti. Giacobbo ha inoltre intrapreso una ricerca, che partendo dagli scritti di nostradamus, punta a svelare le recondite ragioni per cui Frizzi, Crozza, Gualazzi, e Pruzzo non si siano anch’essi votati alla criminologia. In un solo colpo Meluzzi, Picozzi, Bruzzone erano, pochi giorni addietro, ospiti nella trasmissione di Nuzzi, anch’egli munito di doppia Z nel cognome. Deve trattarsi di un requisito minimo. Ebbene Confindustria, avrebbe commissionato uno studio ad un importante centro di ricerca, che ha evidenziato una scarsezza di figure criminologiche. Ma quali ingegneri, fisici, matematici, chimici e scienziati d’ogni sorta, che se baciati dalla fortuna vanno a lavorare in banca a programmare processi bancari! Non sono certo queste le figure che possono rilanciare l’economia del nostro paese. A cosa possono servire delle figure tristi e noiose come gli ingegneri! Sono dunque necessari molti più criminologi, che se a sufficienza, potrebbero presidiare adeguatamente le trasmissioni tv, dove ogni genere di giallo viene minuziosamente sviscerato, disegnati profili caratteriali, avanzate ipotesi geniali, ipotizzati moventi reconditi, con lo stile irresistibilmente sinistro del criminologo in penombra, che piace tanto ai telespettatori. Ma quali ingegneri e scienziati. Quelli prendiamoli indiani, che, se va male, costano un decimo.
E proprio Alessandro Meluzzi ha avuto uno scrupolo di coscienza ed ha abbandonato la sua consulenza a favore della famiglia di Sarah Scazzi, perché secondo lui Michele Misseri è un depistatore e Sabrina è innocente ed il processo si basa su ipotesi infondate. Sabrina Misseri e Cosima Serrano condannate all'ergastolo. Era già tutto previsto...
Michele Misseri si è proclamato un’altra volta unico colpevole della morte della nipote Sarah Scazzi. È successo al processo a Taranto in cui l’uomo è stato convocato a deporre. Tra le lacrime ha ripreso ancora una volta la sua tesi, quella di uno scatto nervoso che lo ha portato a strozzare Sarah con una corda. Una confessione che ha mandato sulle furie il suo avvocato difensore, che si è dimesso immediatamente dal suo incarico per manifesta incompatibilità tra le tesi della difesa e le parole di Misseri. Per Alessandro Meluzzi contattato dal ilsussidiario.net, Michele Misseri non è altro che un depistatore, un mentitore che vuole allontanare la verità dei fatti. Non solo: «Anche Sabrina è innocente, questo processo è tutto da rifare perché tutte da rifare sono le indagini, non esiste uno straccio di indizio che possa incastrare la figlia di Misseri. Gli scenari e le persone coinvolte sono altri».
Roberta Bruzzone, dalla macchina della
verità al caso Scazzi. Un altro volto noto della criminologia italiana, Roberta
Bruzzone, arriva invece dall’edizione di Buona Domenica di Costanzo, dove
sottoponeva i vip ospiti alla “macchina della verità”, esperienza poi ripetuta
nel reality game La Talpa 3 condotto da Paola Perego.
La notorietà le è arrivata con la conduzione de La scena del crimine sul
canale 877 di Sky e Donne mortali su Real Time. Già consulente per la
strage di Erba, è stato il caso di Avetrana ad aver consacrato la psicologa e
criminologa ligure, che all’indomani del delitto sedeva in tivù ad analizzare i
profili dei vari protagonisti, definendo Michele Misseri «pedofilo e assassino»,
salvo poi vedersi affidato il ruolo di consulente della difesa proprio
dell'uomo. In seguito fu chiamata a testimoniare contro Michele, dichiarando che
lui, durante un colloquio in carcere, accusò dell'omicidio sua figlia Sabrina.
Di rimando, Misseri ha poi accusato la psicologa e il suo legale di aver fatto
pressioni perché accusasse la ragazza. È proprio durante il polverone del caso
Avetrana che Aldo Grasso scrisse che Bruzzone «entra ed esce dalle carceri e
dagli studi televisivi come fossero la stessa cosa, non distingue la realtà
dalla rappresentazione». Dalla scena del crimine alla Tv,
il doppio lavoro della criminologa. È nata una stella, si chiama Roberta
Bruzzone, ora è anche la consulente di Michele Misseri, scrive Aldo Grasso su
“Il Corriere della Sera”. È nata una stella, si chiama Roberta Bruzzone, viaggia
sulla quarantina, finta bionda, sguardo magnetico, uno spiccato accento ligure.
Su Facebook piace a 1.007 persone (qualcuna in più da quando è stato scritto
questo pezzo), vanta un fan club. Da giorni è balzata agli onori della cronaca
per i suoi ripetuti interventi sul giallo di Avetrana, quello della povera Sarah
Scazzi. Ospite assidua dei talk, che come belve feroci si sono buttati sulla
preda, aveva sostenuto la tesi di un secondo livello non ancora emerso. Così, in
quattro e quattr'otto, è stata nominata consulente di parte dello zio di Sarah
e, intervistata da Monica Maggioni, ha descritto il suo cliente come una persona
con un «legame solidissimo con la sua famiglia» e che per questo «ha risentito
molto sul piano emotivo di tutto quello che è successo». Dalla sua biografia
ufficiale veniamo a sapere che è autrice e conduttrice del programma La
scena del crimine, alla sua terza edizione sull'emittente Gbr-Teleroma 56
(canale 877 di Sky) e di Donne mortali, giunto alla sua seconda edizione, su
Discovery Real Time (canale 118 di Sky). È inoltre consulente scientifico di
numerosi programmi che trattano tematiche relative a fatti criminali. Insomma,
nel giro di poco tempo, la finta bionda ha soppiantato i colleghi criminologi
arruolati come star televisive, tipo Massimo Picozzi, Francesco Bruno e tanti
altri. Per non parlare di psicologi, magistrati, tuttologi. Negli ultimi anni,
grazie ai salotti di Bruno Vespa e di Matrix, il criminologo è diventato un
personaggio tv: lo abbiamo visto all'opera, infervorato e dottorale, nel «Novi
Ligure show», nel «Cogne Show», nell'«Erba show», nel «Garlasco show» e in tanti
altri spettacoli. Spesso in una situazione imbarazzante, perché coinvolto
direttamente o indirettamente nel caso. Diciamo anche che per alcuni di loro la
tv è diventata un'ottima vetrina per dare lustro alla loro attività, a scapito
forse di ogni deontologia professionale. Ma il caso Bruzzone ci fa fare un
ulteriore passo in avanti: il mattino è in tribunale ad assistere il suo
cliente, il pomeriggio nell'etere a spiegare quello che è stato detto e fatto.
Entra ed esce dalle carceri e dagli studi televisivi come fossero la stessa
cosa. Del resto si dice esperta di ricostruzioni di 3D della scena del crimine e
ama farsi fotografare con un berrettino dell'Fbi. Insomma, per lei, realtà e
rappresentazione sembrano la stessa cosa.
Massimo Picozzi, lo psichiatra milanese esperto di criminologia. Prima della bionda criminologa c’era stato, comunque, anche Massimo Picozzi, ospite pressoché fisso di trasmissioni come Porta a Porta e Matrix, Delitti su History Channel, Chi l’ha visto? e Quarto Grado, e pure voce fissa di Csi Milano, in onda durante il programma 105 Friends di Radio 105. Picozzi, psichiatra e criminologo milanese, è stato coinvolto nei processi per il delitto di Cogne, per quello di Novi Ligure, la strage di Erba, Michele Profeta e gli omicidi delle Bestie di Satana ed è stato chiamato come consulente per il processo sull'omicidio di suor Maria Laura Mainetti a Chiavenna.
Roberta Bruzzone: "Io, il crimine e la Tv". La psicologa forense: "Al male non ci si abitua mai. Ballando? Una boccata d'ossigeno". Luca La Mantia, In Terris 5 maggio 2019. "Considero questa professione, per certi versi, una vera e propria missione che lascia solo briciole alla vita 'fuori dal campo di battaglia'. Anche perché il mio lavoro di certo non facilita lo sviluppo di fiducia nei confronti del genere umano...". Roberta Bruzzone il male lo conosce bene. Nella sua attività di criminologa investigativa e psicologa forense si è occupata di casi complessi, spinosi. Due su tutti: la strage di Erba e il delitto di Avetrana. Storie nere, come il colore che la vediamo spesso indossare nelle ospitate televisive o che ha scelto per lo sfondo del suo sito personale. Ma quale vocazione porta a scegliere un mestiere che ti fa entrare nei meandri più oscuri della psiche umana? Come si affrontano tensioni e scene raccapriccianti? Lo ha raccontato a In Terris.
Come ha scoperto la passione per la psicologia? C'è sempre stata o si è trattato di un incontro casuale?
"La scelta è avvenuta in maniera molto naturale perché rappresentava la sintesi perfetta dei miei interessi sin da bambina. Ero infatti attratta da eventi e situazioni che meritavano un spiegazione e quindi ero molto curiosa e determinata soprattutto quando si trattava di fare luce su situazioni poco chiare o, addirittura, misteriose. Ho semplicemente assecondato una predisposizione naturale in me e, un passo dopo l'altro, ho compreso che la psicologia, la criminologia e le scienze forensi sarebbero diventati i pilastri della mia vita professionale. Lo studio e l'impegno hanno fatto il resto. Del resto l'unico modo di raggiungere un obiettivo nella vita è avercelo chiaro".
Serie tv come 'Lie to me' stanno portando alla ribalta il ruolo dello psicologo e del criminologo in ambito giudiziario. Le capita mai di confrontarsi con la pretesa di risposte immediate, frutto di una certa cultura massmediatica?
"Si, purtroppo molto spesso c'è un'aspettativa quasi 'magica' di avere risposte o soluzioni rapidissime ma questo genere di lavoro, soprattutto quello che riguarda l'analisi della scena del crimine e dei vari reperti impone tempi che certo non hanno nulla a che fare con quelli mostrati nelle serie televisive di grande successo. Occorrono tempo, occorre calma e precisione. Per far bene questo lavoro, vista la posta in gioco, serve pazienza, da parte dei committenti e dell'opinione pubblica".
Lei deve spesso confrontarsi con delitti efferati, frutto di menti deliranti. Riesce sempre a mantenere un certo distacco professionale o qualcosa, in termini di emozioni negative, finisce per portarselo a casa?
"Non ci si abitua mai a confrontarsi con il peggio del peggio che gli esseri umani sono in grado di fare ai loro simili, per questo occorre attrezzarsi emotivamente per evitare di essere fagocitati da tali atrocità. E' molto difficile staccare la spina fino in fondo rispetto ai vari casi di cui mi occupo. Dopo ormai 20 di attività ho però imparato a convivere con questo genere di complessità".
Da tempo frequenta i più importanti talk show televisivi. Come si raccontano le dinamiche complesse di cui si occupa al grande pubblico?
"Bisogna farlo con onestà intellettuale e rappresentare tutte le informazioni disponibili. Purtroppo non tutti i talk show dedicati ai fatti di cronaca nera sono all'altezza di un compito così delicato e complesso. E i risultati si vedono, anche in termini di ascolti. Il pubblico vuole interlocutori credibili e affidabili, altrimenti cambia canale".
Lei ha partecipato, in qualità di consulente tecnico di parte, al processo sul delitto di Avetrana. Si è trattato di un caso di cronaca nera che ha fatto emergere in modo prepotente il lato oscuro di una parte della provincia italiana, fatto di maldicenze, invidie, gelosie e lancinanti divisioni familiari. Che clima c'era in aula?
"Le indagini, prima, e il processo, poi, sono stati durissimi, senza esclusione di colpi come si suol dire in questi casi. Omertà e menzogne di ogni genere l'hanno fatta da padrone e ci hanno reso la vita davvero difficile ma non ci hanno impedito di ottenere verità e giustizia per la piccola Sarah (Scazzi ndr)".
Il racconto mediatico di quella vicenda è stato oggetto di critiche e di severi interventi da parte di Agcom e Ordine dei giornalisti. Ora che conosce bene il mondo della televisione si sarà fatta un'idea se siano stati commessi errori o meno...
"Non è a me che deve fare questa domanda. Io ho fatto il mio lavoro e piuttosto bene direi...viste le condanne".
Una criminologa come arriva a "Ballando con le stelle" e, soprattutto, cosa fa?
"Mi proposero di partecipare come concorrente ma rifiutai per tutta una serie di ragioni. Poi Milly Carlucci mi propose il ruolo di profiler per valutare la performance dei vari concorrenti, come si rapportavano alla gara e come gestivano lo stress che il programma genera a profusione. 'Ballando' è un programma costruito per 'svelare' gli aspetti più interessanti e controversi della personalità dei vari concorrenti, quindi la cosa mi ha subito catturato ragion per cui ho accettato l'offerta. Ed eccomi qui alla terza mia edizione che è stata premiata da ascolti stellari".
Si tratta di un'esperienza che, in un certo senso, alleggerisce il carico di tensioni proprie del suo lavoro?
"E' la mia boccata di ossigeno. Un po' di sano divertimento non guasta nemmeno per una criminologa dalla scorza dura come me".
Roberta Bruzzone, la criminologa che spiega i delitti in tv. La passione per la moto e i due matrimoni. Storia di Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 30 giugno 2023.
Gli studi Invece che avere paura dell’uomo nero, io lo andavo a cercare. Roberta Bruzzone si può raccontare in queste poche parole. Nata a Finale Ligure, il 1º luglio 1973 è oggi un personaggio televisivo, opinionista, criminologa e psicologa forense italiana. Laureata in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Torino con tesi in ambito criminologico e il massimo dei voti. Perfeziona gli studi con la specializzazione in Psicopatologia Forense presso l’Università di Genova. La sua formazione nel campo della criminologia prosegue poi all’estero e negli Stati Uniti. Una competenza profonda per la quale oggi viene chiamata spesso come esperta nei diversi casi di crimine e viene ospitata in televisione per dare il suo punto di vista. Carattere forte, modi diretti è molto amata dal pubblico. Si è conquistata stima e apprezzamento sul campo, combattendo i cliché di chi la voleva solo bella, bionda e sexy. Curiosità familiari e passioni (la moto prima di tutte)Due curiosità legate alla sua famiglia. Roberta ha due fratelli gemelli più piccoli di lei, Andrea e Federica. Durante un bagnetto, stava per annegarli mentre li lavava. Per fortuna intervenne a salvarli la nonna Angelina. La nonna a cui lei era legatissima e che morì nel 2004 e che Bruzzone considera uno dei momenti peggiori che ha dovuto affrontare sino ad ora. Quanto alle passioni Roberta ne nutre una smisurata per le moto. Quando finisce di lavorare, per scaricare ogni tensione, di solito monta in sella al suo bolide per fare un giro. Pare che abbia ereditato dal padre questa passione per i motori. Tante presenze in tvPsicologa forense Bruzzone è divenuta nota principalmente per il suo coinvolgimento nelle indagini sul delitto di Avetrana, quando le fu affidato il ruolo di consulente della difesa di Michele Misseri. In precedenza, la Bruzzone era stata consulente per altri casi di cronaca nera, fra cui la strage di Erba. A inizio carriera è stata autrice e conduttrice della trasmissione «La scena del crimine», andata in onda sulla rete locale GBR – Teleroma 56, nonché conduttrice di «Donne mortali», andata in onda per tre edizioni sull’emittente Real Time. Ma certo il grande successo e la popolarità sono arrivate con le numerose ospitate a «Porta a porta» dove ha mostrato tutta la sua competenza. Ora ha un suo spazio a «La vita in diretta»La parodia non gradita Nel 2015, Maria De Filippi aveva invitato l’attrice comica , ad «Amici» , Virginia Raffaele la quale aveva proposto la parodia di Roberta Bruzzone. La criminologa non l’aveva presa tanto bene definendola «offensiva e maschilista, denigra il mio lavoro». Aggiungendo: «Non è per la parodia, perché i più importanti e noti personaggi sono stati oggetto di parodie, quindi in un certo senso, avrei potuto trovarlo anche lusinghiero, ma ciò che mi ha offeso profondamente è stato il taglio che questa volta la Raffaele ha dato al mio personaggio. Mi dipinge come una poco di buono insinuando che se ho riscosso successo professionale è perché ho concesso i miei “favori” a chi mi ha ospitato in trasmissione. Ecco, questo lo trovo veramente disdicevole ed offensivo; per di più da una donna questa performance che si allinea a quei cliché che appartengono al più becero maschilismo non me la sarei mai aspettata». Aveva deciso dunque di passare alle vie legali e di querelare la Raffaele, ma poi pare abbia desistito. Lo stesso Vespa le avrebbe consigliato di non procedere. E bene ha fatto Bruzzone a non querelare: ne avrebbe perso in simpatia e popolarità. La parodia può anche essere sgradevole, ma va accettata sempre.«Favole da incubo»Gli stereotipi sessisti c’erano una volta e, purtroppo, ci sono ancora. Questo è quanto emerge delle storie, raccontate con linguaggio diretto e asciutto, di uno dei libri scritti da Roberta Bruzzone: «Favole da incubo», dieci casi di femminicidio – avvenuti in Italia negli ultimi anni – nei quali i principali preconcetti culturali e sociali hanno avuto un’influenza determinante. Emerge che la letteratura per l’infanzia, può rappresentare l’involontario mezzo di trasmissione culturale di stereotipi di genere che, se interiorizzati, diventano veri e propri modelli sbagliati su cui si formano le identita dei più piccoli. Molte fiabe, infatti, contribuiscono a riprodurre modelli sociali tradizionali falsati: le donne, spesso sembrano essere ostaggio di una narrazione che le vuole miti, dolci, remissive e – proiettate nella sola dimensione domestica – addirittura incapaci di badare a loro stesse. E in attesa perenne del principeSuper giudice a «Ballando con le stelle» Non solo crimini. Roberta Bruzzone ha voluto diversificare un po’ le sue presenze in televisione, accettando l’invito di Milly Carlucci di entrare nel cast fisso come giudice a latere. Nel 2022, all’inizio del programma danzante, Bruzzone ha scritto un post: «Cari amici, vi confermo che ho deciso di porre termine alla mia ‘avventura’ professionale nel programma Ballando con le Stelle nonostante la produzione mi abbia chiesto di confermare la mia presenza anche nella edizione che sta per cominciare. Ho preferito fare un passo indietro perché gli innumerevoli impegni di lavoro che mi attendono mi impediscono di garantire la mia presenza il sabato sera su Rai1. Questa temporanea incursione nel mondo del puro intrattenimento è stata molto interessante sotto il profilo professionale, mi ha arricchito e mi ha permesso di veicolare messaggi importanti»Il primo matrimonio e il divorzio (sereno)Massimiliano Cristiano è stato il primo marito di Roberta Bruzzone. I due si sono sposati nel 2011 ma nel 2015 hanno deciso di separarsi. Nonostante la fine del loro matrimonio, i due sono rimasti in buoni rapporti. Il giorno in cui hanno ottenuto il divorzio, la criminologa ha postato sui social uno scatto insieme all’ex marito, mentre brindavano alla separazione: «Stiamo brindando al nostro divorzio appena definito, con rispetto e amicizia, le nostre strade si sono divise ma resta un grande affetto per il percorso che abbiamo fatto insieme».Il secondo matrimonio con Massimo Marino Roberta Bruzzone il 30 giugno 2017 ha sposato Massimo Marino, funzionario di polizia. Il matrimonio è stato celebrato con rito civile sulla spiaggia di Fregene, visto che entrambi hanno un precedente matrimonio alle spalle. La Bruzzone e Marino hanno stretto il loro legame attraverso il lavoro e, durante una cena, è scattata la scintilla. “Sposo l’uomo più incredibile che abbia mai incontrato, l’unico che abbia mai amato davvero e senza limiti”, ha scritto sui social la criminologa alla vigilia delle nozze.La storia d’amore tra Roberta Bruzzone e Massimo Marino è stata tutt’altro che facile. Per lavoro, infatti, Marino ha trascorso due anni all’ambasciata italiana di Kabul: “È stato un fidanzamento tosto, in grado di mettere alla prova i sentimenti in profondità, non solo per la distanza. Per la prima volta sento di avere accanto un uomo del quale sono davvero profondamente orgogliosa”. La criminologa e il marito sono più uniti che mai, come ha racconto la Bruzzone a Caterina Balivo durante una puntata di “Vieni da me”: “Noi facciamo tutto insieme. Lui è una persona estremamente protettiva. La mia è una posizione un po’ particolare, quindi mi accompagna spesso anche negli eventi pubblici ed è molto attento che non mi succeda niente”. Roberta Bruzzone ha poi rivelato il momento del colpo di fulmine: «Ci siamo innamorati davanti a una grigliata. Siamo persone concrete, di sostanza, mi colpì molto la sua abilità». «Abbiamo preso l’impegno di non portare il lavoro a casa», ha aggiunto la criminologa. Infine, Massimo Marino ha spiegato: «La parte dolce? Di fronte a un gatto… La cosa più romantica? Ne ho fatte tante di cose. La grigliata ad esempio (ride, ndr)»
7 Ottobre 2010 - La criminologa Bruzzone: "Misseri un pedofilo assassino". Ma poi cambia diagnosi!
Ed a proposito di credibilità.
Esattamente il 7 ottobre 2010 sul Tgla7, la dottoressa Bruzzone diceva, a proposito del Misseri: «Non credo francamente che questa vicenda sia nata quarantadue giorni fa. Non penso che il 26 agosto sia l'unico momento in cui questa persona soggetto ha avuto un interesse sessuale per un minore. Parliamo di un pedofilo assassino e questo tipo di soggetti difficilmente a quell'età ha il proprio ingresso nella vita criminale per cui purtroppo c'è da indagare in maniera molto più allargata nella vita di quest'uomo e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti...» Allorché la giornalista chiedeva alla dottoressa Bruzzone se secondo lei il Misseri avesse avuto dei complici, lei rispondeva testualmente che non lo riteneva proprio veritiero: «Penso che sia assolutamente probabile che questa persona abbia commesso tutto da sola. Non ci vedo nulla di impossibile per una persona soltanto... Ha fatto quello che ha fatto, ha abusato del corpo di questa giovane, poi ha atteso un tempo secondo me ragionevole tanto per muoversi probabilmente magari con il favore della notte, e portare poi il corpo là dove è stato ritrovato, celato in maniera estremamente accurata e difficilmente ritrovabile se non su indicazione dell'assassino, come poi effettivamente avvenuto.» Quando poi le è stato chiesto che pena meritava quest'uomo, ha risposto senza esitare: «In questo caso l'ergastolo penso sia impossibile non comminarlo... c'è piena consapevolezza, c'è lucidità... probabilmente sentiremo parlare ....forse un tentativo di stabilire una sorta di seminfermità, ma in questo caso ripeto è assolutamente escludibile sulla base di ciò che è stato fatto da quest'uomo sia durante la fase omicidiaria, sia nella fase successiva di occultamento del cadavere e ahimè nella fase che ha riguardato come sembra anche la fase della violenza sessuale...» A questo punto la giornalista chiedeva come difendersi da questi soggetti, visto che a dire della Bruzzone uno come il Misseri doveva essere già conosciuto come pedofilo. E a questo punto la Bruzzone è stata quanto mai categorica: «Denunciando! Facendo emergere il tutto! facendosi consigliare da professionisti, andando ai Centri Antiviolenza... Telefono Rosa.... Io collaboro con loro da anni e sono assolutamente un interlocutore preziosissimo per questi tipi di casi...». Immaginiamo cosa sarebbe successo se Sabina Misseri si fosse recata a Telefono Rosa e avesse denunciato che da mesi sapeva che il padre molestava Sarah e lei...Che giustizia avremmo avuto, ascoltando oggi le parole della criminologa dottoressa Bruzzone, che dice il contrario di tutto quanto affermato prima?
«La presentazione del libro di Nazareno Dinoi, sulla falsariga di un’altra colpevolista di fama. Roberta Bruzzone dalla sua esperienza sul delitto di Sarah Scazzi ha tratto un libro-dossier intitolato “Segreti di famiglia”, con co-autori Giuseppe Centonze e Filomena Cavallaro, fondatori del Gruppo Verità e Giustizia per Sarah. Le pagine dei giornali dedicate non solo alla cultura si occupano della notizia. Le rassegne di narrativa e saggistica si contendono la sua partecipazione, perché la notorietà la precede. Il libro racconta, dal punto di vista degli autori, l’omicidio della 15enne di Avetrana. La criminologa, la cui notorietà rinviene è aumentata considerevolmente proprio dalla sua partecipazione al caso di Avetrana con le sue comparsate in tv in programmi colpevolisti, ritiene che la sentenza emessa dalla corte d’assise di Taranto, presieduta da Cesarina Trunfio, sia il risultato di un ottimo lavoro condotto dalla magistratura. Quella Roberta Bruzzone che nel processo, dalla difesa di Sabrina Misseri, gli è stato contestato il plurimo status. Prima è stata consulente di Michele Misseri, chiamata proprio dall’avvocato di Michele. Assunta da Daniele Galoppa perché, convinto della colpevolezza di Sabrina, non crede al suo cliente. Galoppa che lo stesso Michele definisce amico di Pietro Argentino, pubblico ministero dell’accusa con Mariano Buccoliero. Poi la Bruzzone diventa testimone dell’accusa contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Poi ancora la criminologa diviene presunta persona offesa nel procedimento penale contro Michele Misseri per calunnia e diffamazione perché accusata da questo di averlo indotto ad incolpare la figlia per la morte di Sarah. Ad Avetrana i personaggi invitati hanno detto la loro su un tema che poco sanno, sulla vicenda della morte di Sarah Scazzi e sull’argomento giustizia in generale. In linea generale (ogni riferimento ad Avetrana è puramente casuale) il Titolo di giornalista, magistrato, amministratore pubblico non può abilitare costoro a buttare fango in ogni sede su Avetrana o a sparlare di cose di cui non si è informati. Non è il libro in sé che sputtana Avetrana, ma la condotta di tutte queste figure professionali indistinte perpetrata in questi anni e che mi fanno adottare una certa presa di posizione. Durante la presentazione è stato diffuso un video saluto di Filomena Rorro, giornalista inviata Rai nota per quello scambio di battute con Michele Misseri. “…Tu sei una cretina…..”. Anche Goffredo Buccini, inviato del Corriere della Sera ha inviato un messaggio all’autore ed ai presenti. Ad Avetrana prima dell’autore ha parlato il giovane sedicente scrittore avetranese, Salvatore Luigi Baldari e l’editore Pasquale Barbieri che ha passato la parola al vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia portatore dei saluti di tutta l’amministrazione. C’era anche il magistrato salentino, Salvatore Cosentino, sostituto procuratore della Repubblica di Locri, già pubblico ministero alla Procura di Taranto. Procura di Taranto ampiamente criticata proprio da me nei miei libri su Taranto e su Sarah Scazzi. Purtroppo per tutti loro io sono l’unico e solo testimone autoctono che può raccontare la verità, così come ho fatto con il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Libro che si può leggere anche gratuitamente. Quello che ho scritto l’ho riversato in video per testimoniare una realtà da non sminuire. Nè garantista, nè colpevolista, ma una verità che ridà onore prima di tutto ad Avetrana. Onore che certi avetranesi non meritano e fanno di tutto per infangare. Fa nulla che le manifestazioni pseudo culturali ad Avetrana non sono dedicate agli avetranesi che danno onore e lustro alla comunità. D'altronde Anche Gesù Cristo quando andava al suo paese era indicato come il figlio del falegname. Questi sono i limiti culturali di chi, arrogante, non ammette i propri limiti.»
ERGASTOLO PER SABRINA E COSIMA E SUCCESSO PER CHI RACCONTA LE LODI DEI MAGISTRATI DI TARANTO. CENSURA ASSOLUTA PER LE CONTRO VOCI.
Roberta Bruzzone dalla sua esperienza sul delitto di Sarah Scazzi ha tratto un libro-dossier intitolato “Segreti di famiglia”, con co-autori Giuseppe Centonze e Filomena Cavallaro, fondatori del Gruppo Verità e Giustizia per Sarah. Le pagine dei giornali dedicate non solo alla cultura si occupano della notizia. Le rassegne di narrativa e saggistica si contendono la sua partecipazione, perché la notorietà la precede. Il libro racconta, dal punto di vista degli autori, l’omicidio della 15enne di Avetrana. La criminologa, la cui notorietà rinviene o è aumentata considerevolmente proprio dalla sua partecipazione al caso di Avetrana con le sue comparsate in tv in programmi colpevolisti, ritiene che la sentenza emessa dalla corte d’assise di Taranto, presieduta da Cesarina Trunfio, sia il risultato di un ottimo lavoro condotto dalla magistratura. Quella Roberta Bruzzone che nel processo, dalla difesa di Sabrina Misseri, gli è stato contestato il plurimo status. Prima è stata consulente di Michele Misseri, chiamata proprio dall’avvocato di Michele. Assunta da Daniele Galoppa perché, convinto della colpevolezza di Sabrina, non crede al suo cliente. Galoppa che lo stesso Michele definisce amico di Pietro Argentino, pubblico ministero dell’accusa con Mariano Buccoliero. Poi la Bruzzone diventa testimone dell’accusa contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Poi ancora la criminologa diviene presunta persona offesa nel procedimento penale contro Michele Misseri per calunnia e diffamazione perché accusata da questo di averlo indotto ad incolpare la figlia per la morte di Sarah. Accusa grave ed incontestabile, quella della difesa di Sabrina, rivolta alla Bruzzone dall’avv. Nicola Marseglia, che mina l’imparzialità di giudizio della criminologa. Nonostante la sua partigianeria, appunto per la sua presa di posizione a favore dei magistrati di Taranto, tutta la stampa locale e nazionale parla del libro della Bruzzone e tutti gli incontri culturali la invitano a promuovere il suo libro.
Un libro diverso ed alternativo fondato sull’esperienza vissuta, ma non meno importante, invece, si contrappone a quello della Bruzzone fondato sul gineceo di via Deledda. L’indagine su Sarah Scazzi e sui misteri che ne hanno decretato la morte ad Avetrana è stata condotta con raffinatezza e certosina sapienza da un noto saggista: lo scrittore Antonio Giangrande. Il famoso scrittore sul web di 50 saggi d’inchiesta ha fatto di questo incredibile caso mediatico un libro-dossier senza faziosità, ma con alta competenza professionale giuridica e di comunicazione. Il libro racconta, atti e testimonianze alla mano, l’omicidio della 15enne di Avetrana in tutti i suoi dettagli, anche quelli più sconosciuti o tralasciati artatamente dai protagonisti della cronaca.
«Il libro racconta la verità storica conosciuta che va oltre la verità mediatica e giudiziaria, che tutti accettano senza remore, perché questa verità gli è stata inculcata dalla stampa, ma che non corrisponde alla verità storica – spiega Antonio Giangrande, autore del libro-dossier sul caso di Sarah Scazzi dal titolo “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Quello che non si osa dire.”, pubblicato su Amazon in Ebook, su Lulu in cartaceo e su Google libri.- Io racconto, sostenuto in questo da video pubblicati sui miei canali youtube, quello che da avetranese ho visto sin dal primo giorno, senza la mediazione della stampa. Io narro quel che ho visto e vissuto sulla pelle, tenendo conto del contesto ambientale ed istituzionale, locale e nazionale. Riporto il tutto senza peli sulla lingua, anzi sulla tastiera. Non sono stato mai influenzato, nei miei giudizi, da quei giornalisti che non hanno mai raccontato la verità: sia del processo, sia fuori dal processo. La mia è una verità scomoda che, specialmente le tv ed i giornali locali, non vogliono divulgare. Ma tant’è quella è: una verità incontestabile, che nessuna censura od omertà possono seppellire. Basta seguire le puntate registrate da “Un Giorno in Pretura” per rendersi conto di persona quale è la differenza tra quello che veramente è successo in aula e quanto, invece, hanno riportato i giornalisti durante le loro cronache d’udienza. E’ l’esempio di come si può stravolgere la realtà e come si può influenzare la gente. Con lo stesso spirito ho seguito vicende analoghe ed ho fatto un certo parallelismo. Ma io sono un testimone scomodo dei nostri tempi e tv e giornali stanno bene attenti a non parlare del mio libro, così come le rassegne culturali non approntano mai un contraddittorio tra autori con queste verità contrastanti. La mia conferenza stampa di presentazione del libro è andata deserta, quantunque avessi invitato stampa e tv nella sede dell’associazione nazionale antimafia di cui sono presidente. Giusto per dimostrare come la stampa locale si comporta contro coloro che osano sollevare legittime critiche sui magistrati tarantini. C’è da dire di più. Pur presentando con una luce diversa il paese di Avetrana, la stessa amministrazione comunale di Avetrana e gli stessi cittadini hanno ignorato l’evento della presentazione del libro e certo il libro non è presente nella locale biblioteca comunale. La stessa cosa è successa per un altro mio libro-dossier dal titolo “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”, in cui si mette a nudo la classe dirigente e giudiziaria di Taranto con tutte le malefatte commesse in tempi diversi. Nonostante tutto, però, il mio libro su Sarah sta avendo un discreto successo e la Verità si divulga. Non sono contro od a favore di alcuno, ma il mio libro stilla il dubbio che forse ci sono delle innocenti in carcere o, se non altro, se colpevoli, non vi è uno straccio di prova che convalidi la loro condanna.»
Intanto, a proposito dei libri scritti dalla Bruzzone ecco cosa dice di lei Marco Strano. Ordinanza Tribunale Milano copiatura del libro “chi è l’assassino: diario di una criminologa di Roberta Bruzzone. Con Ordinanza n. 19040/2012 del 19/12/2012 il Tribunale di Milano, decidendo sul ricorso proposto da Marco Strano nei confronti di Roberta Bruzzone circa la denunziata abusiva riproduzione di articoli scientifici, già pubblicati dal noto Criminologo della Polizia di Stato nella sua opera “Manuale di Criminologia Clinica” del 2003, ad un anno circa dalla pubblicazione del libro “Chi è l’assassino: diario di una criminologa” edito da Mondadori, ha accertato che per la sua realizzazione l’Autrice ha copiato parti di capitoli di libro e di articoli scientifici del ricorrente Marco Strano. Il Tribunale di Milano, nella sua Ordinanza infatti afferma che ..“si evidenzia l’identità o la forte somiglianza lessicale sia sintattica dei passi qui censurati rispetto quelli del ricorrente (Marco Strano)..”. Il Tribunale ha inoltre ritenuta non accettabile la difesa della Bruzzone riguardo il fatto che alcuni dei brani a me copiati contengono elementi scientifici già espressi in precedenza da altri con altre parole affermando infatti che “non si può negare che anche le modalità con le quali tali nozioni comunemente note sono state assemblate, rielaborate ed arricchite sembrano comunque frutto di una autonoma elaborazione creativa (di Marco Strano) come tale tutelabile…”, e pur ritenendo non sussistere l’urgenza di un sequestro cautelare, ha rimesso la questione alla causa di merito affinché il legittimo autore, Marco Strano, possa essere eventualmente risarcito per il danno subito. Secondo il Tribunale infatti “..manca la prova di una definitiva lesione degli interessi morali e patrimoniali del diritto d’autore che possano trovare un ristoro solo attraverso la tutela preventiva ed urgente e che non possano invece essere adeguatamente riparati anche attraverso la riparazione di natura patrimoniale. Allo stato appare dunque opportuna riservare ogni decisione alla fase di merito rigettando allo stato la domanda cautelare…” L’analisi condotta sulle parti copiate del libro, e segnalate alla Magistratura si è limitata fin qui all’analisi della prima parte introduttiva, su cui il Tribunale di Milano ha si è espresso con le parole “. Analisi che sembra in effetti suggerire un derivazione degli uni rispetto agli altri.” Attualmente è in corso la valutazione del resto del libro. Il criminologo Marco Strano ha stabilito che eventuali proventi ottenuti dal risarcimento richiesto a Roberta Bruzzone e alla Mondadori saranno devoluti in parte agli Orfani della Polizia di Stato e in parte ad Associazioni che si occupano della tutela delle donne.
Naturalmente della colpevolezza di Bossetti è pienamente convinta la Roberta Bruzzone, presenzialista su tutti i talk show dell’orrore.
PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?
La domanda è sorta spontanea al dr Antonio Giangrande che sulla vicenda di Avetrana ha scritto il libro ed il sequel “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana, Il resoconto di un Avetranese”. Questione importante, quella sollevata da Antonio Giangrande, in quanto se fondata, mette in una luce diversa il rapporto tra la stessa dr.ssa Bruzzone e Michele Misseri, suo accusatore.
Veniamo alla notizia censurata dai media.
La criminologa Roberta Bruzzone vittima di stalking, si legge su “ net1news” dal 12 gennaio 2015. “La criminologa e psicologa Roberta Bruzzone ha denunciato il suo ex fidanzato per stalking. Proprio grazie alla sua professione, la donna si è spesso occupata di vittime di molestie e persecuzioni e mai forse avrebbe pensato di vivere tutta quell’angoscia in prima persona. Roberta Bruzzone che conduce una trasmissione sul canale tematico del digitale terrestre “real time” è ormai un volto noto essendo spesso ospite nei salotti televisivi in qualità di esperta della materia. La donna è però entrata a far parte della folta schiera di vittime di molestie. A perseguitarla, l’ex fidanzato, appartenente alle forze dell’ordine che dopo una relazione durata cinque anni, chiusasi nel 2008 ha cominciato a tormentarla. Telefonate, sms, ma anche pedinamenti e agguati veri e propri: “E’ arrivato a puntarmi una pistola alla tempia – ha confessato la criminologa – è pericoloso”. La Bruzzone ha denunciato il suo ex per ben sette volte. L’uomo ha anche diffuso calunnie sul suo conto via internet. Ora pare le cose vadano meglio. Sulla questione ci sono degli aggiornamenti. A riferirle a Net1 News tramite raccomandata sono i legali dell’interessato, secondo cui la dottoressa Bruzzone per le sue dichiarazioni ai media è stata rinviata a giudizio per diffamazione aggravata: la prima udienza del processo è stata fissata per quest’anno. Al processo, sempre secondo quanto riferisce la raccomandata ricevuta, si costituiranno parte civile alcune associazioni a tutela delle donne.”
A quanto pare l’interessato, che sembra abbia presentato varie controquerele, si lamenta del fatto che il perseguitato è proprio lui e che ciò sia fatto per screditarlo dal punto di vista professionale, perché entrambi i soggetti svolgono la stessa professione, anche con comparsate in tv.
Visionando l’atto pubblico si anticipa già che il processo a carico della Bruzzone avrà vita breve. Non perché non sia fondata l’accusa, la cui fondatezza non mi attiene rilevare, ma per una questione tecnica. I tempi adottati per la fissazione della prima udienza e il fatto che vi è un errore di procedura da parte del Pm (non si è rilevato il possibile reato di calunnia continuato e comunque il reato di atti persecutori, stalking, e quindi si è saltata la fase dell’udienza preliminare) mi porta a pensare che la prescrizione sarà l’ordinario esito della vicenda italica. Comunque un Decreto di Citazione a Giudizio diretto presso un Tribunale Monocratico contiene già di per se il seme del dubbio sul carattere della persona incriminata. Sospetto insinuato proprio da un magistrato e per questo credibile, salvo enunciazione di assoluzione postuma.
A me non interessa la vicenda in sé. Sarà la magistratura, senza condizionamenti, a decidere quale sia la verità. E sarà, comunque, la persona offesa dalla diffamazione in oggetto a dire la sua anche sul comportamento di alcuni organi di stampa citati in querela. Il professionista, noto perché svolge la stessa professione della Bruzzone, non cerca pubblicità, anche se, per amor di verità, è citatissimo sul blog di Roberta Bruzzone. In questa sede una cosa, però, mi preme rilevare. Dove sono tutti quei giornalisti che per la Bruzzone si stracciano le vesti, riportando a piè sospinto su tutti i media ogni sua iniziativa, mentre questa notizia del suo rinvio a giudizio non è stata ripresa da alcuno? Che ciò possa inclinare la sua credibilità e minare l’assunto per il quale Michele Misseri non abbia avuto alcun condizionamento nell’accusare la figlia Sabrina?
Oltre tutto la dr.ssa Bruzzone non ha gli stessi trattamenti di riguardo in Fori giudiziari che non siano Taranto.
A scanso di facili querele si spiega il termine “di riguardo” usato, riportandoci alle dichiarazioni del 19 marzo 2013 fatte dall’avv. di Sabrina Misseri, Franco Coppi: «Come si può definire priva di riscontri la confessione di un uomo che fa trovare il cadavere e il telefonino della vittima?», ha detto ancora Coppi. «Le motivazioni della successiva ritrattazione - ha aggiunto - rivalutano la confessione di Misseri come unica verità. La confessione del 6 ottobre 2010 spiazza i pubblici ministeri che già si erano affezionati alla pista che porta a Sabrina Misseri. Mi chiedo se quel metodo di indagine non sia contrario allo spirito del codice di procedura penale. I mutamenti di versione da parte di Michele avvengono quasi sempre dopo sospensioni di interrogatorio e su richiesta del difensore, anche con qualche aiuto involontario di quest'ultimo». Esempio, ha detto Coppi, l'interrogatorio in carcere di Michele Misseri del 5 novembre 2010, in cui l'agricoltore accusa la figlia Sabrina del delitto, e «al quale non si comprende a quale titolo partecipa la criminologa Roberta Bruzzone quale consulente di parte». «Michele è scaltro - ha aggiunto - e coglie l'occasione per accusare la figlia. C'è stata un'opera di persuasione efficace nei suoi confronti. E poi perché non dice nulla su quello che per gli inquirenti sarebbe il vero movente dell'omicidio, non dice nulla sull'arrivo di Mariangela, sulla moglie, e non basta dire, come fanno i pubblici ministeri, che lui non sapeva nulla perché non era in casa al momento del delitto».
Ecco, quindi, che a proposito dei diversi trattamenti riservati a Roberta Bruzzone si cita Savona. A Savona il tanto atteso colpo a sorpresa della parte civile non è arrivato, scrive “Il Secolo XIX”. Anzi. L’irruzione nel processo per il delitto di Stella della notissima criminologa genovese Roberta Bruzzone, è stato bloccato sul nascere dal giudice delle udienze preliminari Emilio Fois che ha respinto l’istanza del legale di Andrea Macciò, ucciso con un colpo di fucile al cuore il 13 dicembre 2013 da Claudio Tognini, di un incidente probatorio per la verifica dello stato dei luoghi dove si è consumato il dramma. L’obiettivo della parte civile sarebbe stato quello di cercare tracce ematiche nella cucina di Alessio Scardino, il proprietario del fucile che ha sparato e dell’alloggio, per arrivare ad una nuova ricostruzione dei fatti. Se il pubblico ministero Chiara Venturi non si è opposta alla richiesta, ci ha pensato il giudice a rigettarla.
Vittima di stalking denuncia la criminologa Bruzzone. Marzia Schenetti, parte offesa a processo contro l'ex fidanzato, si è sentita diffamata da una lettera della nota criminologa ora agli atti della causa di Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Due donne contro, di cui una a dir poco famosa visto che è spesso ospite di Bruno Vespa nel suo programma televisivo “Porta a porta”. Stiamo parlando della criminologa 41enne Roberta Bruzzone che, a partire da febbraio, dovrà affrontare un processo (davanti al giudice di pace) per diffamazione, visto che è stata denunciata dall’imprenditrice toanese 48enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l’ex fidanzato Rodolfo “Rudy” Marconi che accusa di stalking. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell’udienza del 17 maggio 2013 che “esplode” questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all’Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E’ in quest’ambito che fra le due nascono delle frizioni, talmente poco edificanti da finire a carte bollate. In questo clima avvelenato “piomba” – nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking – una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo il capo d’imputazione in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano che viene definita “soggetto alquanto discutibile che ha mostrato, in una serie innumerevole di occasioni, la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze al solo scopo di danneggiare le persone verso cui nutre rancore”. Giudizi sulla Schenetti che diventano vere e proprie rasoiate: “Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato e complesso come la violenza sulle donne e sui minori, persona con problematiche personologiche incline a distorcere e mistificare la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettative di fama, successo e arricchimento personale o che, come nel caso della scrivente – rimarca la criminologa – avevano la colpa di metterla in secondo piano». Con l’ultimo deciso affondo: “Persone come la Schenetti rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza e che il Marconi è stato raggiunto da una serie di false accuse, costruite a tavolino allo scopo di poter permettere alla presunta vittima di sfruttare biecamente la sua condizione ed ottenere così visibilità mediatica”. La Schenetti, tramite l’avvocatessa Enrica Sassi, ha denunciato per diffamazione la criminologa e di recente il giudice di pace ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, fissando le date del processo. «In realtà la diffamata sono io – replica la nota criminologa – e ho denunciato la Schenetti in procura a Roma. Testimonierò nel processo e, atti alla mano, spiegherò come stanno veramente le cose. Quella lettera è il mio pensiero e ritengo di avere agito in buona fede».
La criminologa tv finisce a processo. Roberta Bruzzone imputata per diffamazione. Tra i testimoni anche il generale Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Lei: «La vera vittima sono io» di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. Dalle poltrone bianche di Bruno Vespa, alle aule del tribunale di Reggio. Roberta Bruzzone, 41 anni, la fascinosa criminologa forense, si trova ora catapultata nella prospettiva opposta: imputata per diffamazione nei confronti di una reggiana, presunta vittima di stalking. Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking, e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi, poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. Per questo è accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone — si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due donne, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Nella missiva, infatti, il personaggio tv ribadiva come la parte civile di quel processo fosse «incline a distorcere la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettavate di fama, successo e arricchimento personale». Non solo. Avrebbe anche aggiunto, nero su bianco, che i soggetti come lei «rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza». L’ipotesi di reato, dunque, è diffamazione. Il giudice di pace, mercoledì, ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, Emanuele Florindi, e ha fissato le date delle prossime udienze: 4, 11, 18 e 25 febbraio. Tra i testimoni della parte offesa, c’è poi un altro personaggio di spicco: il generale in congedo Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Ma la Bruzzone, combattiva più che mai, si difende: «Si tratta di un ricorso diretto al giudice di pace che non ha avuto nemmeno il vaglio del pm — incalza —. Lei mi accusa in maniera falsa e infondata ed è stata a sua volta querelata da me. Quella lettera era stata mandata in virtù di consulente esperta, chiamata dal suo avvocato. Da sempre porto avanti una battaglia contro le finte vittime di stalking e questo mi pare uno di quei casi». Promette, anche, che arriverà qui, a spiegare le sue ragioni: «Io verrò a Reggio e sarò sottoposta a esame, come ho richiesto: intendo dimostrare a tutti chi è questa donna: una persona a caccia di visibilità, che non ha ottenuto in altro modi». Una prima udienza davanti al giudice di pace di Reggio Emilia piena di tensioni, perché la nota criminologa 42enne Roberta Bruzzone ha subito inteso replicare per le rime all’accusa per diffamazione mossagli dall’imprenditrice toanese 49enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l'ex fidanzato Rodolfo "Rudy" Marconi che accusa di stalking, scrive Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell'udienza del 17 maggio 2013 che "esplode" questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all'Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E' in quest'ambito che fra le due nascono delle frizioni, poi "piomba" - nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking - una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo la procura in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano, da qui la denuncia ora sfociata nel processo. Ieri la criminologa ha dato battaglia solo davanti ai cronisti (verrà sentita in aula più avanti): «La Schenetti ha un problema di visibilità – dice la Bruzzone – che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile e io non mi fermerò davanti a niente, procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei. Io non credo che sia una vittima e continuerò a ripeterlo in ogni sede». L'imprenditrice – costituitesi parte civile tramite l’avvocatessa Enrica Sassi – è sta sentita in udienza: «Per me quella lettera fu una violenza tremenda, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me». Tanti i nervi scoperti e siamo solo alla prima “puntata”...
Tacchi alti, vestita di nero, trucco impeccabile e capello fluente, scrive di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. È iniziato così, non senza momenti di tensione e brusii di chi la vedeva nei corridoi, il processo per diffamazione che vede imputata Roberta Bruzzone, 42 anni, la fascinosa criminologa forense habituée delle poltrone bianche di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Ad accusarla è una donna reggiana, presunta vittima di persecuzioni (non ne riveliamo l’identità per proteggere la sua privacy). Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi (l’imputato), poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. La Bruzzone è dunque accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone – si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi (che rappresenta la parte offesa) e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Ieri la prima udienza, davanti al giudice di pace, con la testimonianza della presunta vittima. «Quella lettera per me fu una violenza tremenda – ha detto –. Non fu altro che un insieme di diffamazioni e calunnie, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Mi sono sentita colpita da una donna che si intrometteva con violenza in un procedimento di violenza che io stessa avevo subito». E ha aggiunto: «Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me. Ci siamo sentite una volta al telefono quando è entrata nell’associazione di cui io sono presidente e la Bruzzone mi ha detto di essere stata anche lei vittima di stalking. Io invece non le ho mai parlato della mia vicenda personale. Avrei voluto, ma non ne ho avuto il tempo. Poi ci siamo viste una volta a luglio del 2012 a Sinai (in provincia di Cagliari) durante un’iniziativa contro la violenza alle donne, in cui lei ha colto l’occasione per presentare il suo libro, senza citare la nostra associazione. Al termine del convegno le abbiamo chiesto di uscirne e lei lo ha fatto il giorno dopo». La Bruzzone, però, non ci sta. E a margine dell’udienza, chiosa: «Quella donna ha un problema di visibilità che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile. Io non mi fermerò davanti a niente e procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa che dirà contro di me. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei». Tutto rimandato alla settimana prossima, per i testimoni di parte civile.
Prossimamente scopriremo che credibilità ha Roberta Bruzzone, finta vittima di stalking che presto verrà processata... e non solo perché denunciata da un ufficiale di Polizia, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Contro Vento”. Non ho mai amato i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure amo quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire. Per questo preferisco contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa. Come me tanti altri si formano una propria idea in maniera autonoma, senza ascoltare i vari gossippari che si mostrano in video per convenienza professionale... quando non hanno un contratto a pagamento. Ma non tutti resistono alla tentazione, per cui c'è chi questi programmi li guarda. Addirittura c'è anche chi li ascolta e si infastidisce per le parole che sente. Ad esempio, giorni fa mi hanno informato di alcune frasi pronunciate in maniera troppo leggera e spensierata nella puntata di Porta a Porta trasmessa martedì 20 gennaio 2015. A pronunciarle il magistrato Simonetta Matone. Simonetta Matone in televisione non va con la toga da magistrato. Per cui figura essere un'opinionista con molta esperienza giuridica. Lei martedì 20 gennaio, forse non pensando al dopo, ha paragonato i gruppi facebook creati a favore degli imputati ai fanatici che inneggiano e osannano i terroristi, nel caso specifico a chi ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e tanti altri francesi. Quella parte della puntata trattava l'omicidio di Loris Stival, quindi i gruppi a cui si riferiva sono certamente quelli che sostengono "Veronica Panarello". Non contenta, ha reiterato il reato verbale facendo credere ai telespettatori che chi aderisce ai gruppi innocentisti e critica le indagini, su internet scrive a vanvera e senza sapere nulla perché degli atti non ha letto neppure una riga. Probabile che non se ne sia resa conto, ma ha praticamente affermato che nessuno ha il diritto di criticare i magistrati perché questi sono "unici, bravi belli e infallibili". Ora c'è da dire che, pur essendosi ritagliata un'enorme visibilità mediatica partecipando da tanti anni al programma presentato da Bruno Vespa, nella vita privata è un magistrato che lavora al ministero di Grazia e Giustizia. E dai dati si capisce il probabile motivo per cui difende i magistrati. Ma c'è anche da dire che in questi anni trascorsi di fronte alle telecamere, lei prima di tutti ha dato giudizi senza aver letto neppure una riga, seppur cercando di restare neutrale chiarendo ogni volta il punto, sui casi di cronaca nera trattati da Porta a Porta. E fa specie che si permetta di giudicare in pubblico chi ha democraticamente il suo stesso diritto di parlare ed esternare la propria idea. La speranza è che a mente fredda abbia compreso di avere un tantino esagerato e magari chieda scusa a chi non è d'accordo col pensiero di alcuni magistrati, a chi si è sentito chiamato in causa anche se critica in maniera civile e dopo essersi informato al meglio (naturalmente non deve scuse a chi i magistrati li offende). Questo perché non tutti i magistrati sono infallibili. D'altronde le richieste di risarcimento a causa di errori giudiziari, in Italia sono quasi tremila ogni anno, stanno a dimostrare la non infallibilità della giustizia. In ogni caso, a parte la svista di cui sopra, le opinioni di Simonetta Matone si possono accettare perché ha un passato davvero encomiabile e in materia giuridica è senz'altro molto ferrata. Meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai? Su quest'ultimo punto vedremo se sarà dello stesso avviso dopo i diversi processi che la attendono da qui in avanti. Ad esempio, il 15 dicembre 2015 dovrà presentarsi al tribunale di Tivoli per rispondere del reato previsto dall'articolo 595 - comma tre - del codice penale per aver messo in atto, con più azioni consecutive, un disegno criminoso fatto di calunnie e offese atte a colpire un ufficiale di Polizia. Udienza conclusa con un decreto di citazione diretta in giudizio di fronte al giudice monocratico di Tivoli il giorno 3 ottobre 2016. Proc. N. 5860/2011 RGNT mod. 21. Infatti le accuse di stalking presentate dalla Bruzzone contro un ufficiale di Polizia col quale aveva avuto una relazione fra il 2004 e il 2005, addirittura una ventina di denunce dal 2009 al 2014, si sono rivelate tutte infondate. Mentre le interviste rilasciate sulla vicenda dalla opinionista di Porta a Porta, in cui non lesinava particolari sul comportamento malato, parole sue, di chi la perseguitava (ma ora grazie ai magistrati sappiamo che nessuno in realtà la perseguitava), sono tuttora impresse negli archivi delle testate giornalistiche nazionali (Corriere della Sera in primis), su internet e in televisione, sulle registrazioni di Porta a Porta e di Uno Mattina. Insomma, chi la fa l'aspetti - verrebbe da pensare - perché la vita a volte può riservare sorprese. E la Bruzzone di sorprese ne avrà una in più, perché, dato che è ambasciatrice di Telefono Rosa, un'associazione che aiuta le donne vittime di violenza, e viste le denunce per stalking da lei presentate e rivelatesi infondate, in tribunale si troverà di fronte anche alcune associazioni in difesa della donna che hanno deciso di costituirsi parte civile perché "l'utilizzo strumentale" della denuncia per un reato grave come lo stalking contribuisce a rendere meno credibili le donne che subiscono realmente una violenza. Ma non è l'unica bega che la Bruzzone dovrà affrontare in tribunale, visto che è indagata anche dalla Procura di Reggio Emilia per un reato simile ( così come su riportato da di Benedetta Salsi su “Il resto del Carlino” e Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. La moglie di un vero stalker, oggi ancora nei guai perché accusato di truffa da un'altra sua ex, si è sentita descrivere dalla Bruzzone quale finta vittima incline a distorcere la realtà (in pratica ha difeso lo stalker poi condannato). In questo caso le date del processo sono ancora più vicine nel tempo (le udienze sono fissate per il 4 - 11 - 18 e 25 febbraio 2015). Altra bega, che risale al 2012 e che presto verrà dipanata dai giudici, è una citazione civile che riguarda lei ed alcuni suoi collaboratori (promossa dall’associazione Donne per la Sicurezza. Lei e loro su Facebook, con frasi razziste, (secondo quanto riporta il sito dell’associazione: “Mmmmm.. quanto costa affittare una russa per fare qualche foto e far finta di avere una vita ???? troppo divertenteeeee…” oppure ““ ..ci vuole stomaco per stare con un pezzo di merda così anche se solo per sghei e solo per 5 minuti…STRANO MA VEROOO”), hanno insultato per lungo tempo sia la modella di origine russa Natalia Murashkina, moglie del poliziotto che nel contempo la Bruzzone denunciava ingiustamente, sia le ragazze russe trattate come donne che si vendono a poco prezzo. Di questa vicenda si interessò alla fine del 2012 anche "La Pravda", un giornale russo letto da oltre cento milioni di persone. Senza parlare delle accuse mosse contro di lei da Michele Misseri, che afferma di essere stato convinto dalla Bruzzone ad inserire nel delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina (con prospettive davvero vantaggiose), affermazioni che se provate le costerebbero una condanna rilevante e la carriera, ciò che ancora nessuno ha capito, e immagino che al tribunale di Tivoli si cercherà anche di chiarire questo punto, è il motivo per cui la Bruzzone abbia innestato un movimento di denunce rivelatesi infondate condite da interviste mediaticamente rilevanti ma alla luce dei fatti false. O tutti ce l'hanno con lei, e francamente è difficile da credere, o è lei ad avere motivi che l'hanno spinta a screditare l'ufficiale di polizia e le altre persone. Che dietro ci sia qualcosa di importante? Su questo punto troviamo il dato certo che il poliziotto da lei accusato, nel 2009 - anno delle prime denunce di stalking - aveva avviato una campagna politico-sindacale per ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione. In pratica, aveva proposto di far acquistare i prodotti per le investigazioni scientifiche (alle forze di polizia) direttamente in America risparmiando così milioni di dollari di tasse e, soprattutto, di spese di mediazione ad aziende di import export.
Questo è l’articolo di riferimento. Csi all'italiana: paghiamo il doppio degli altri la polvere per le impronte digitali. La denuncia del sindacato di polizia: la Scientifica è costretta a risparmiare sulle indagini. La colpa è dei mediatori che fanno raddoppiare il costo delle attrezzature made in Usa, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci vuole preparazione scientifica, occhio addestrato, pazienza: ma l'analisi scientifica della scena di un crimine si basa anche sull'utilizzo di materiale tecnico avanzato e costoso. Chi non è rimasto allibito nel vedere in televisione la prontezza con cui i tecnici della Csi, la polizia scientifica statunitense, sfoderano ogni genere di diavolerie hit-tech? Non che le forze di polizia italiane abbiano granchè da invidiare a quelle a stelle e strisce, quanto a preparazione. Ma l'abbondanza di mezzi è una delle caratteristiche che, in questo e in altri campi, ci separa irrimediabilmente dall'America. E, secondo la denuncia del sindacato di polizia Consap, la situazione negli ultimi tempi si è ulteriormente aggravata. La carenza di mezzi è diventata cronica, al punto che spesso e volentieri - in particolare sulla scena di reati considerati «minori», come i furti in appartamento - la polizia evita di compiere tutti i rilievi necessari perchè l'ordine è quello di risparmiare su tutto: compresa la polverina necessaria a rilevare le impronte digitali. Colpa della crisi economica, sicuramente. Ma anche di una anomalia tutta italiana: la polvere per le impronte è di produzione Usa, tutte le polizie la comprano direttamente dai produttori oltreoceano, mentre la polizia italiana passa - chissà perchè - attraverso una società di mediazione. Il risultato, sostiene il Consap, è che paghiamo il prodotto il doppio degli altri. «Prodotti, come ad esempio le polveri per rilevare le impronte digitali o il famoso luminol per la ricerca del sangue umano, hanno costi abbastanza elevati e vengono prodotti da poche ditte al mondo. In particolare la Polizia di Stato e le altre forze di polizia italiane utilizzano in larga parte prodotti della Sirchie, azienda americana leader del mercato per qualità e affidabilità dei materiali commercializzati. In questo periodo di profonda crisi economica, i tagli di bilancio, oltre che a congelare gli stipendi dei poliziotti, stanno riducendo la possibilità di acquisire una quantità sufficiente di tali sostanze e di fatto i reparti specializzati di investigazioni scientifiche devono limitare il loro impiego solo ai casi più eclatanti, in pratica solo gli omicidi e qualche rapina. Sempre più spesso i cittadini che hanno subito reati definiti minori, come furti, danneggiamenti, non ricevono un intervento adeguato da parte degli investigatori che non dispongono di attrezzature sufficienti e che spesso sopperiscono, per amor proprio, con materiali acquistati di tasca loro o con mezzi di fortuna che poi spesso vengono contestati in sede di processo. La Consap, che da più di un anno sta monitorando e analizzando questo problema, ha potuto constatare che i prodotti per criminalistica non vengono acquistati dall'Amministrazione direttamente dall'azienda produttrice ma da una ditta concessionaria italiana. In pratica la Polizia di Stato paga i materiali da utilizzare sulla scena del crimine circa il doppio del loro prezzo di catalogo. Il problema è stato da tempo posto all'attenzione degli esperti di settore e di alcuni politici. E si è subito avuta la sensazione di aver toccato degli interessi economici rilevanti». Uno «spreco ingiustificato, che si ripercuote in maniera drammatica sulla sicurezza e sulla possibilità di ottenere giustizia da parte del cittadino».
E ciò che pare strano, è che la Bruzzone collabora con le aziende che controllano la maggioranza delle forniture di prodotti alle forze di polizia (la Sirchie e la Raset). C'è da chiedersi se non voglia dire nulla la sua presenza nel video pubblicitario presente sulla pagina "Chi siamo" del sito internet della Sirchie.
In seguito a questo articolo ci sono stati degli sviluppi.
"Alla dottoressa Roberta Bruzzone non piace la critica e con una strana Diffida mi inviata a pagarle 250.000 euro e a darle il nome di chi mi informa..., - scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando-Controvento”. . E' capitato anche a me. Come altri in questi anni anch'io ho ricevuto la Diffida dalla dottoressa Roberta Bruzzone. Una diffida strana in cui mi invita a pagarle - inviandoli allo studio del suo avvocato – ben 250.000 euro quale risarcimento per i gravissimi danni di immagine provocati da ciò che ho scritto in un articolo, in questo articolo, in cui, visto quanto aveva affermato a Porta a Porta, l'ho criticata. Articolo che ho completato con le notizie su una serie di processi in cui dovrà difendersi. Alla fine, dopo aver notato alcune stranezze, ho anche posto una domanda lecita che si sarebbe sciolta in acqua con una semplice e veloce risposta plausibile. Invece mi è arrivata una diffida. Strana. Ora, prima di entrare nel dettaglio e contestare pubblicamente tutte le parole del legale della Bruzzone, voglio premettere che la nostra legge è chiara e che per fare una diffida ci vogliono motivi validi. Motivi che non esistono se chi informa scrive notizie vere usando parole non offensive senza entrare nella sfera privata del personaggio di cui parla. Quindi, per quanto riguarda il diritto di cronaca si devono usare certe accortezze e ci si deve informare in maniera esaustiva. Qualcosa cambia quando chi scrive esercita il diritto di critica. Naturalmente non si può criticare un pinco pallino qualunque in un articolo destinato a più persone, specialmente se il pinco pallino a livello nazionale non lo conosce nessuno e vive e agisce in un ambiente ristretto. Al contrario, però, si può criticare quanto dice chi nel tempo è diventato un personaggio pubblico e in pubblico, o in programmi seguiti da milioni di telespettatori, esprime proprie opinioni e concetti. Concetti e opinioni che non tutti debbono per forza condividere e proprio per questo si possono criticare, perché - come ha stabilito anche il tribunale di Roma già nel 1992 - chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica. Dopo questa obbligatoria premessa, mi addentro nella diffida inviatami dal legale della dottoressa Bruzzone, avvocato Emanuele Florindi, per dimostrare quanto sia strana, assurda e priva di ogni fondamento. Il legale inizia col dire che nell'articolo ho scritto un numero impressionante di falsità. E non appena ho letto questa frase mi è spuntato un sorriso venendomi alla mente la storia del bue che chiamava cornuto l'asino. Questa la prima parte della diffida: Dott.ssa Roberta Bruzzone Vs Massimo Prati. <Gentile Sig. Prati, formulo la presente in nome e per conto della Dott.ssa Roberta Bruzzone, in relazione all'articolo da lei pubblicato su volandocontrovento.blogspot.it, per contestarne integralmente toni e contenuti. Nello specifico, non soltanto il suo articolo contiene un numero impressionante di falsità e di imprecisioni, ma risulta anche essere singolarmente contraddittorio: è davvero strano, infatti, che, mentre nelle prime righe del suo articolo Lei affermi di non amare "i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure [...] quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire", poi si presti a fare esattamente la stessa cosa mescolando artatamente giuste informazioni, velate menzogne e subdole insinuazioni volte a creare pregiudizio alla mia Assistita. Non mi risulta neppure che Lei abbia provveduto a "contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa", dato che ha proceduto a pubblicare il suo articolo basandosi su fonti unilaterali... a tal proposito, saremmo piuttosto interessati a conoscere l'identità di tali fonti, visto che sembrerebbero aver concorso con Lei ad un trattamento illecito di dati personali e di dati giudiziari il che, per un paladino dei diritti dell'imputato quale Lei si presenta, appare piuttosto singolare. Basandosi su tali "fonti" Lei ha, infatti, redatto un articolo falso, diffamatorio e gratuitamente offensivo nei confronti della mia Assistita, da Lei presentata come faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare e falsificare la realtà e collusa con le aziende che controllano le forniture di prodotti alle forze di polizia.> Alla faccia! Sarò mica malato a scrivere le cotante robacce notate dal legale...Non sono malato, non necessito di cure e quindi, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali rispondo punto per punto perché mi sono accorto che né la dottoressa né il suo avvocato paiono aver capito un articolo non diffamatorio in cui non ho assolutamente presentato Roberta Bruzzone quale persona faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare, a falsificare la realtà e collusa. E mi chiedo con quale spirito e pensiero l'abbiano letto. Partiamo dall'inizio. E' vero che non amo quelle trasmissioni in cui gli opinionisti sono chiaramente ostili alle difese e danno per certo quanto trapela dalle procure. Mi piace l'imparzialità e non credo che trasmissioni "unilaterali" siano da mandare in onda. E' vero che per scrivere sui fatti di cronaca nera non mi baso su quanto scrivono quei media e quei "gossippari" che diffondono notizie che a posteriori si rivelano inutili e tendenziose. Gli esempi sono migliaia. E' vero che le mie fonti principali sono le stesse dei giornalisti: avvocati, indagati, i loro familiari e anche periti e inquirenti. E' vero che per non lasciarmi influenzare dai pregiudizi baso i miei scritti soprattutto sugli atti ufficiali, che leggo più volte per non travisarli, e sulla logica. Mi sembra il minimo da fare quando si vuol scrivere di cronaca nera in maniera corretta e di un indagato, magari in custodia cautelare in carcere, che si dichiara innocente e rischia l'ergastolo. Detto questo, non credo sia difficile comprendere che l'inciso inserito a inizio articolo era generico e riferito ai casi di cronaca nera e non alla dottoressa Bruzzone. Infatti è quando scrivo di cronaca nera che contatto chi è parte della notizia. Quindi nessuna falsità inserita nella premessa dell'articolo, che era solo una premessa, per l'appunto, e nulla c'entra con quanto ho poi scritto sulla dottoressa che, a meno non commetta un omicidio (o non ne confessi uno già commesso) o non venga carcerata ingiustamente, al momento non è parte di alcun caso di cronaca nera. Detto anche che per scrivere di processi che devono ancora iniziare non si necessita di "fonti" particolari, se la notizia è vera, se l'udienza è fissata e se il capo d'accusa esiste che fonte serve?, mi chiedo per quale motivo dovrei divulgare le identità di chi mi informa e, soprattutto, perché dovrei farle conoscere all'avvocato Florindi. Un motivo lecito e valido non esiste. Inoltre, nessun trattamento illecito dei dati personali si può rilevare quando si parla di atti processuali non secretati riguardanti i maggiorenni (non sono io che divulga quanto è secretato dalle procure), dato che sono atti pubblici a disposizione di chiunque ne faccia richiesta. Come non esiste nessun trattamento illecito sulla privacy se si vengono a conoscere notizie sui personaggi pubblici parlando del più e del meno in un bar con un magistrato, un cancelliere o un avvocato che frequenta quel dato tribunale. Perché, vista la dimensione mediatica della dottoressa Bruzzone, vale sempre il dettame dei giudici. Loro e non io hanno stabilito che chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla propria dimensione pubblica. Per cui, pare proprio che nella premessa di falsità non ne abbia scritte. E per continuare a confutare la diffida inviatami, ci sarebbe da chiedersi da quale esternazione, presente nei quasi novecento articoli da me scritti e presenti sul blog, l'avvocato abbia capito che io sono "un paladino dei diritti dell'imputato". Mai ho scritto di essere un paladino e mai che difendo tutti gli imputati. Difendo i diritti di alcuni, questo è vero, ma lo faccio quando sono lesi in maniera per me evidente. Per cui, tanto per esemplificare e far capire meglio, critico i procuratori e i giudici quando un indagato che si dichiara innocente viene spedito in carcere ancor prima di indagini approfondite o di riscontri che provino le accuse formulate da terzi. Basti pensare a Sabrina Misseri (in custodia cautelare da quattro anni e mezzo) che nel volgere di poche ore finì in galera senza alcuna verifica sulle parole del padre - che quel 15 ottobre 2010 non era nelle migliori condizioni fisiche e mentali - e che ora è in carcere per motivi assai diversi da quelli che si sono usati per carcerarla. Forse l'avvocato Florindi neppure sa che Michele Misseri fu svegliato a notte fonda e portato ad Avetrana dalle guardie penitenziarie che lo presero in custodia quando ancora era buio pesto. Tanto che una volta giunte al paese furono costrette a "nascondersi", con l'imputato in auto, fra la vegetazione di contrada Urmo in attesa dell'arrivo dei procuratori. Questa è una notizia inedita, mai uscita sui media, e dimostra che mi informo nei modi giusti e nei luoghi giusti senza cercare lo scoop a tutti i costi. In pratica dovrebbe far capire, anche all'avvocato, che non sono uno dei tanti che copia-incolla per avere un maggior numero di entrate e guadagnare mostrando improvvisamente uno spot pubblicitario. Inoltre non scrivo articoli a favore di chiunque sia indagato, perché gli assassini veri li vorrei vedere in carcere per la vita... anche i reo-confessi se autori di delitti efferati. Per questo critico la legge che permette a chi confessa di ottenere troppi benefici e di uscire dal carcere in tempi rapidi. Ma la dottoressa Bruzzone, nonostante i processi che la attendono, non è in carcere e nemmeno ci andrà mai. Lei è libera di esternare le sue convinzioni in televisione e di andare dove vuole. Nessuno, giustamente, ha limitato la sua libertà. Quindi nessun suo diritto è da difendere. Stia pur certo l'avvocato che se venisse spedita in carcere prima ancora di essere indagata nella giusta maniera, che se contro di lei i gossippari parlassero solo in base a chi accusa, sarei io il primo a difenderla e a criticare i media per la mancanza di etica e professionalità. E ancora: in quale passaggio dell'articolo avrei descritto la dottoressa faziosa, forcaiola e quant'altro? Io, dopo aver criticato la dottoressa Simonetta Matone per aver paragonato chi scrive su facebook, nel particolare si parlava dei siti innocentisti che credono a Veronica Panarello, a chi incita i terroristi (citando Charlie Hebdo), scrissi: "meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai?" Dove sarebbero le falsità, visto che la dottoressa si contrappone chiaramente a chi cerca di difendere Veronica Panarello e lo dice apertamente al dottor Vespa, allo stesso avvocato Villardita e ai telespettatori? Se è vero, come è vero, che Veronica Panarello deve ancora subire il primo processo e si dichiara innocente, dire di fronte a milioni di persone che si hanno idee diametralmente opposte all'avvocato Villardita, quindi colpevoliste, non significa forse parlare senza imparzialità e, soprattutto, senza considerare la presunzione di innocenza? Non è forse vero che l'opinione della dottoressa è molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori? Vista la sua popolarità credo proprio che questo non si possa negare. Come non si può negare che nelle mie parole non si trovino frasi che sottintendano termini quali: "incompetente" (mai scritta e mai pensata una cosa del genere), "forcaiola" (non c'è nulla nell'articolo che porti a questo termine, visto che viene usato per situazioni molto più gravi), "razzista" (questa parola neppure se ampliamo al massimo il significato entrando sulla Treccani c'entra nulla con quanto ho scritto), "faziosa" (per essere faziosi bisogna sostenere con intransigenza e senza obiettività le proprie tesi, non limitarsi ad esprimere una opinione parlando con toni alti e molto colpevolisti). Non ho quindi scritto alcuna falsità e la mia critica ha basi più che fondate. Anche perché vale sempre la legge che dice: il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca perché nell'articolo non si parla di fatti ma si esprime un giudizio o, più genericamente, un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. Ora qui ribadisco che alla luce di quanto ho visto e ascoltato in registrazioni di Porta a Porta, la mia critica era più che obiettiva anche se per legge non necessitava di una obiettività approfondita. Quindi, ancora una volta mi chiedo per quale motivo l'avvocato Florindi mi abbia inviato una diffida. Comunque, tanto per finire, mi addentro anche nell'ultima accusa che mi fa, quella di aver dipinto la sua assistita come una persona propensa a mistificare la realtà e collusa con le aziende che "controllano le forniture alle forze di Polizia" (e tanto per far capire come son fatto, non per altro, mi sono chiesto subito cosa stessero a significare le parole - "controllano le forniture alle forze di Polizia" - scritte dall'avvocato). Nell'articolo mi chiedevo se la dottoressa Bruzzone considererà ancora infallibili i giudici e i procuratori dopo i processi che dovrà affrontare. Specialmente perché il rigetto di tutte le denunce da lei presentate contro un dirigente dell'UGL (Polizia di Stato) la dipingono come una falsa vittima di stalking che ha approfittato della sua posizione parlando ai media di reati mai subiti. E questo sarebbe veramente grave perché contribuirebbe a rendere meno credibili le tante vere vittime di stalking. E' per queste parole che per l'avvocato l'avrei dipinta come persona propensa a mistificare la realtà? Forse l'avvocato dimentica che non sono stato io a rigettare le denunce della dottoressa, ma i magistrati che hanno valutato le indagini partite in seguito a quelle denunce. Io mi sono limitato a riportare la notizia e a far qualche considerazione. Non è quindi a me che deve fare accuse, ma a chi ha svolto le indagini e a chi le ha valutate prima di rigettarle. Comunque, proprio a causa di quei rigetti mi chiedevo il motivo per cui, a partire dal 2009 (anno in cui uscì da una associazione di criminologi di cui il dirigente dell'UGL era presidente) avesse presentato una ventina di denunce, quelle poi rigettate, nei confronti del presidente stesso. E qui mi ero fermato. Ma dato che ora ne sto scrivendo, amplio l'informazione dicendo che le denunce coinvolsero altri membri del consiglio direttivo dell'associazione di cui fino a poco tempo prima lei stessa faceva parte. E che iniziò a presentarle dopo le richieste di spiegazioni su questioni economiche che la stessa associazione le poneva. Insomma, pur senza entrare nei dettagli, nell'articolo ponevo una domanda lecita a cui si poteva rispondere in maniera chiara così che, in maniera altrettanto chiara, avrei inserito la risposta a capo articolo dando spazio a una replica. Non era così complicato da fare. Anche perché nell'articolo di cui si discute non ho calcato la mano preferendo restar fuori da vicende ben più complesse che l'avvocato di certo conosce. Ma proseguiamo con la parte della diffida in cui è scritto: Se Lei, comportandosi da interlocutore corretto e scrupoloso ci avesse contattato, avremmo potuto produrLe pagine di osservazioni atte a smentire le informazioni in Suo possesso, dimostrando, ad esempio, che l'azione civile della sig.ra Natalia Murashkina (tra l'altro neppure Russa!) è pretestuosa, infondata e priva di riscontri (ci basti qui osservare che la pagina contestata risulta creata in data successiva ai fatti)... Mi fermo un attimo per un chiarimento e per dimostrare non che l'avvocato è male informato quando afferma che Natalia Murashkina non è neppure russa, perché pur se nata fuori dai confini è a tutti gli effetti russa e lui lo sa, ma per dirgli che gli sarà molto difficile convincere un giudice che non è reato scrivere parolacce e brutte offese su una donna russa nata fuori dai confini russi, mentre lo è scriverle su una donna russa nata a Mosca. Oltretutto l'avvocato sa per certo che in Russia i passaporti distinguono la nazionalità dalla cittadinanza. Motivo per cui si può essere di nazionalità russa anche se nati occasionalmente in altra nazione. In ogni caso, non erano né l'avvocato né la dottoressa che dovevo contattare per scrivere quelle quattro righe che riguardavano la vicenda di Natalia Murashkina, visto che al massimo avrebbero potuto fare una arringa difensiva (quella va indirizzata a un giudice e non a me) e non produrmi atti giudiziari in grado di contrastare il fatto che gli insulti, per il magistrato che porta avanti la causa ci furono. E a questo proposito oggi aggiungo una postilla che avevo evitato di inserire. Una informazione che potevo dare e non ho dato. E cioè che La Pravda nel suo articolo parlò di offese scritte anche da alcuni collaboratori della dottoressa. Particolare che avevo evitato di sottolineare perché mi pare non credibile (però ho chiesto e non risulta che la Pravda abbia ricevuto alcuna diffida), ma che oggi aggiungo per far capire quanto avessi scritto in maniera soft senza appesantire situazioni che invece paiono pesanti. A processo la pagina facebook risulterà essere successiva ai fatti? Meglio per la dottoressa e peggio per la Murashkina, che quando perderà la causa criticherò aspramente per aver denunciato il falso. Qui colgo l'occasione per aggiornare in maniera migliore la notizia e dire che la causa civile intentata da Natalia Murashkina è stata rigettata per vizio di forma. Non per altro. Naturalmente verrà ripresentata in appello senza alcun vizio. E naturalmente questo non inficia il procedimento penale - che si occupa degli stessi reati e ha un iter diverso - che continua per la sua strada. Andando avanti nella diffida si legge che il processo di Reggio Emilia ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile visto che dal dibattimento stanno emergendo dati ed informazioni in grado di confermare quando affermato dalla dott.ssa Bruzzone nel corso del processo a carico del presunto stalker (a proposito, lei non sosteneva a spada tratta la presunzione di innocenza?) che non risulta ancora condannato...No avvocato, non è proprio così che sta andando. Giusto per aggiornare anche questa notizia, le confermo che il processo di Reggio Emilia - in cui la dottoressa risponde di diffamazione - nella prossima udienza, fissata a maggio, vedrà sul banco dei testimoni - citati dal pubblico ministero - sia il Generale Luciano Garofano che lo stesso dirigente dell'UGL denunciato più volte dalla sua assistita. Inoltre, sempre in quel di Reggio Emilia, a causa di quanto la dottoressa ha dichiarato ai giornalisti all'uscita dall'aula dopo le prime udienze c'è la possibilità, neppure tanto remota, che si apra un secondo processo. Vedremo presto se ho sbagliato la diagnosi. In ogni caso il processo di Reggio Emilia non ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile, come ha scritto, e il signore che chiama presunto stalker è persona nota e prima della vicenda che ha visto coinvolta la dottoressa era già stato condannato sia per truffa (condanna definitiva) che per stalking (nel 2012 il pubblico ministero nella sua arringa lo definì uno "stalker seriale" e il giudice confermò le sue parole condannandolo). Motivo per cui, in questo caso la presunzione di innocenza, per come la vedo, poco c'entra. E ancora ha scritto che il processo di Tivoli del 15 dicembre 2015 viene atteso con ansia e trepidazione della nostra Assistita visto che in quella sede avrà finalmente modo di provare, innanzi ad un Giudice la fondatezza delle sue accuse... Per quanto riguarda Tivoli, non vedo l'ora di sentire cosa dirà la sua assistita al giudice e come risponderà alle domande. Mi auguro che abbia una spiegazione plausibile e delle prove a discolpa certe che la aiutino a non subire una condanna e a dimostrare di essere una vera vittima di stalking. Così che io possa poi criticare e chiedere una condanna per lo stalker, che al momento non esiste, e per i magistrati che non l'hanno fin qui creduta. Inoltre ha anche scritto: In merito a Michele Misseri, le avremmo spiegato che attualmente questo signore è sotto processo proprio per quelle famose affermazioni...Michele Misseri, come avrà capito, lo conosco e conosco anche le accuse da lui mosse contro la sua assistita. So che il processo ha già subito dei rinvii e che a maggio è in programma l'ennesima prima udienza. Quindi nessuno sul punto mi doveva spiegare nulla perché conosco perfettamente entrambe le posizioni. Inoltre nell'articolo mi sono limitato alla considerazione che se se alla dottoressa "andrà male" la sua carriera sarà finita. Questo perché è sempre possibile, almeno in ipotesi, che un processo si possa perdere. E continua scrivendo: mentre in relazione all'accusa di collusione con le aziende che forniscono materiali alle nostre Forze di Polizia... definire questa "notizia" ridicola è decisamente utilizzare un eufemismo. Mi scusi avvocato, ma quando mai ho parlato di collusione? Fare accuse di collusione significa affermare che un determinato accordo c'è stato sicuramente. Io invece ho semplicemente messo in relazione fra loro eventi verificabili da chiunque e notando una stranezza ho posto una domanda a cui bastava dare risposta. Scrivere che la "notizia" è ridicola non è dare una risposta, è aggirare l'ostacolo che non si vuole saltare. La mia domanda, posta a un personaggio pubblico, era lecita perché la cronistoria ci dice che la relazione fra la dottoressa e il dirigente della Polizia durò pochissimo e finì nel lontano duemilacinque. Che la sua assistita continuò la collaborazione con l'associazione di criminologi per altri quattro anni, fino al duemilanove quando si interruppe in maniera non amichevole. Che il presidente della stessa associazione - intervistato da Luca Fazzo nel 2011 - denunciò le enormi spese sostenute dal ministero e spiegò quanto fosse economicamente vantaggioso acquistare il materiale per le indagini direttamente in America e non dagli intermediari. La domanda che posi nell'articolo nacque da una serie di considerazioni. Nel duemilanove la dottoressa Bruzzone fondò l'associazione culturale A.I.S.F. (Accademia Internazionale Scienze Forensi), una organizzazione "non profit" - questo è da dire - che da statuto non dà dividendi ai soci. Una associazione che tra i suoi partner allinea l'azienda che produce e vende i prodotti alla Polizia e quella che ha l'esclusiva per l'Italia di tali prodotti. A questo si aggiungono due fatti certi: sia che la dottoressa ha partecipato al video pubblicitario dell'azienda produttrice, video presente sul sito internet dell'azienda e su You Tube (se lo ha fatto per amicizia bastava scriverlo senza pensar male delle mie parole), sia che le denunce di stalking, quelle rigettate, furono presentate a partire dal 2009 contro chi dapprima le chiedeva conto del denaro speso mentre collaborava con l'associazione di criminologi e dopo si era attivato in prima persona per cercare di far acquistare i prodotti direttamente dall'America senza pagare intermediari. Avvocato, lei sa che nell'articolo non ho scritto la parola "collusione" e sono rimasto soft non inserendo tante altre domande lecite che mi frullavano per la testa. Domande che in questa risposta pubblica inserisco per farle capire quale altro modo uso per informarmi. Ad esempio, nell'articolo in questione mi limitai e non chiesi se il dottor Bruno Vespa conosce il sito della A.I.S.F. ed è al corrente che ogni volta che presenta la dottoressa Bruzzone di riflesso pubblicizza, a titolo gratuito sulla principale televisione di stato, non solo l'organizzazione "no profit" di cui la dottoressa è presidente - la A.I.S.F. - ma anche un'azienda privata. Essendo l'associazione culturale una "non profit" la pubblicità gratuita è sicuramente lecita. Perlomeno credo fosse certamente lecita fin quando l'associazione nel suo sito internet non ha riportato l'IBAN (cioè un'utenza bancaria su cui fare bonifici) di una S.A.S. (Società in Accomandita Semplice) che in teoria dovrebbe essere esterna all'associazione stessa. La S.A.S a cui mi riferisco è quella aperta dalla stessa dottoressa Bruzzone il 06 giugno 2014 (quindi dieci mesi fa) e registrata alla camera di commercio il 12 giugno 2014. Una Società in Accomandita Semplice che, come da visura camerale, ha quali soci accomandatari anche i due avvocati che figurano con nome e cognome sulla carta intestata della diffida che mi ha inviato, assieme al suo signor Florindi. Gli stessi avvocati che, come lei d'altronde, figurano nel consiglio direttivo della "associazione no profit". Ora, per quanto possa capirne e mi hanno spiegato, credo che prima di fare un simile movimento pubblicitario, cioè inserire l'IBAN di una azienda commerciale che guadagna sul proprio lavoro ai piedi di tutte le pagine elettroniche di una associazione "no profit" (che essendo "no profit" non dà dividendi ai soci), ci si sia fatti consigliare da un buon commercialista. Per cui immagino che sia del tutto legale, dato che la SAS sul proprio guadagno ci paga le tasse. Ciò che trovo strano è altro. Una stranezza, ad esempio, è che il logo della SAS sia praticamente identico, tranne per le scritte, al logo dell'associazione "no profit". Un'altra ancora più strana è che cliccando sul logo della SAS presente nelle pagine dell'associazione "no profit", si venga reindirizzati su una pagina della stessa associazione "no profit" e non sul sito della SAS. Quasi che la SAS e l'associazione "no profit" siano l'unica faccia di due società. In pratica una società che per statuto non può dividere gli utili nel suo sito ospita e pubblicizza una SAS che gli utili fra i suoi soci li può dividere. Insomma, ciò che si vede dall'esterno (magari non è così e la Rai avrà la gentilezza di spiegarcelo in maniera chiara) è che il dottor Bruno Vespa pubblicizzando l'associazione no profit finisca per pubblicizzare gratuitamente una S.A.S. - capisce cosa intendo, avvocato? Che a un occhio critico la situazione pare quantomeno ambigua e andrebbe spiegata. Come ambigua è la parte della diffida in cui scrive: Ne consegue che, non avendo lei eseguito alcun riscontro nè alcuna verifica, ha redatto un articolo ricco di falsità ponendo in essere proprio quelle condotte che, tanto severamente, ha tentato di stigmatizzare nel suo testo. Tutto ciò premesso, la dott.ssa Bruzzone, mio tramite Vi - INVITA E DIFFIDA - a rimuovere dal Suo Blog l'articolo in questione, a comunicarci immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni dal ricevimento della presente, il nominativo (o i nominativi) di chi Le ha fornito le informazioni ivi pubblicate e di versare, per il tramite di questo Studio, la somma di euro 250.000 a titolo di risarcimento per i gravissimi danni all'immagine della mia Assistita cagionati dalla diffusione di notizie false e diffamatorie. In queste sue parole, false e intimidatorie signor avvocato, un giudice di polso potrebbe pure configurare il reato di estorsione. Specialmente perché, seppur sia stato limitato volendo risponderle con un articolo che non può essere infinito, le ho dimostrato non solo che non ho assolutamente mentito, ma anche che prima di scrivere mi informo e faccio verifiche (e ne faccio tante), cerco riscontri e quando qualcosa non mi quadra pongo domande pubbliche per non ottenere risposte di circostanza (che non servono a nulla e non aiutano i lettori a capire). Per questi motivi non ho rimosso, e non ho alcuna intenzione di rimuovere, l'articolo in questione. Per questi motivi la invito a cambiare atteggiamento e, se vorrà, a rispondere alle mie domande in maniera pacata senza cercare di intimidire chi critica la sua assistita. Fornire ai lettori notizie relative a un personaggio pubblico è cosa che si fa tutti i giorni (e se il personaggio finisce sotto processo la notizia esiste e si può dare). Inoltre tutti i personaggi pubblici, finché restano tali, ricevono critiche per quanto dicono o scrivono. Dalla piccola show girl al Presidente della Repubblica. E' la norma, dato che la democrazia permette di non appiattirsi al pensiero altrui e di esternare il proprio, anche se diverso. Per questo motivo, non essendo avvezzo a criticare un personaggio pubblico a prescindere ma avendo l'abitudine di elogiarlo o criticarlo per i vari comportamenti che pone in essere di volta in volta, così come posso essere d'accordo e apprezzare la sua assistita per quanto fa e dice su certi casi di cronaca nera (Chico Forti è uno ma ce ne sono altri), posso anche non essere d'accordo e criticarla quando a parer mio non si dimostra all'altezza del suo ruolo pubblico o fa qualcosa che mi risulta strano e incomprensibile. Una cosa deve essere chiara. Volandocontrovento è un blog indipendente che non ha editori a cui obbedire. Un blog che prima di pubblicare articoli cerca informazioni e riscontri. Un blog in cui nessuno scrive falsità (al massimo negli articoli pubblicati si possono trovare piccole inesattezze scritte in buonafede). E fin quando la democrazia lo permetterà, a nessun personaggio, sia bianco o sia nero, sia giallo o sia verde, sia rosso o sia blu, sia pubblico o che pubblico lo diventi per quindici giorni o per quindici anni a causa di una posizione politica ridicola o di una indagine criminale in voga sui media, è concessa l'immunità da critiche...”
Bruzzone contro Raffaele: «Imitazione becera e volgare». La criminologa querela l'imitatrice: «Sessualizzazione della mia persona», scrive “Il Corriere della Sera”. Una «becera e volgare sessualizzazione della mia persona». Così la criminologa Roberta Bruzzone bolla, parlando a Fanpage.it, la performance di Virginia Raffaele che l’ha imitata sabato ad «Amici». «Io non ho nessun problema contro la satira» precisa Bruzzone, «l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita», lontana - precisa - da una professionista che tutto questo l’ha sempre evitato. «L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni - sottolinea - non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo». « Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona» aggiunge, confermando la sua decisione di querelare la Raffaele. In tempi di femminicidi, mentre lottiamo contro la visione della donna-oggetto, «che questo tipo di contenuti sia proposto da una donna è ancora più sconcertante», osserva.
Selvaggia Lucarelli contro la criminologa Bruzzone: «La Raffaele è ben più simpatica e gnocca di lei», scrive “Il Messaggero”. Virginia Raffaele imita la criminologa Roberta Bruzzone, ma questa non gradisce. E nella faccenda non poteva che intromettersi Selvaggia Lucarelli. Ne è scaturito un botta e risposta che non va tanto per il sottile. «Bagascia vestita in modo improponibile», ha tuonato la Bruzzone contro l'imitatrice, "rea" di aver messo in scena «una rappresentazione becera, volgare, gratuita, sguaiata». Dopodiché in un tweet la Bruzzone ha annunciato che sarebbe passata alle vie legali. E la replica della Lucarelli non si è fatta attendere: «Leggo che la Bruzzone, in un tweet, lascia intendere di aver scomodato il suo favoloso team di legali per bastonare Virginia Raffaele che ha osato farne una parodia (divertente) ad Amici - ha scritto - Nella vita ho ricevuto un po' di querele, ma la lettera dell'avvocato della Bruzzone per un mio servizio su Sky me la ricordo bene. Spiccava. Non solo per la pretestuosità degli argomenti (era un servizio innocuo e fu l'unica tra 100 servizi a offendersi), ma perchè inviò copia al Ministero delle pari opportunità per accusarmi di sessismo». «La Raffaele - continua la Lucarelli - è ben più simpatica e gnocca di lei. (tanto il ministero delle pari opportunità è stato abolito, magari scriverà alla Boldrini)».
Vittorio Feltri contro Roberta Bruzzone: "Al suo confronto i pm sono delle mammolette", scrive “Libero Quotidiano”. Dopo le imitazioni di Virginia Raffaele, il commento di Vittorio Feltri. La criminologa diventata famosa al grande pubblico grazie a Bruno Vespa che l'ha invitata più volte a Porta a Porta, viene attaccata dal fondatore di Libero che scrive: "Si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere" Feltri l'accusa soprattutto di dare affosso all'imputato dato che è più facile che difenderlo. "La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia". Con una stilettata Feltri dice che in sui confronto i pubblici ministeri sono delle "mammolette". Feltri ricorda quando, durante una puntata di di Linea Gialla di Salvo Sottile si trovava accanto alla Bruzzone per comentare le vicenda giudiziaria di Raffale Sollecito che all'epoca era ancora in attesa di giudizio. Feltri riteneva che non vi fossero gli estremi per condannarlo, lei sì. La Cassazione ha dato ragione a Vittorio. Da qui la conclusione di Feltri: "Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".
“Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione”…, scrive Vittorio Feltri per “il Giornale”. "Da alcuni anni Roberta Bruzzone, criminologa dall'aspetto attraente (ciò che aiuta sempre a rendersi riconoscibili e, perché no, apprezzabili a occhi maschili e pure femminili), è personaggio televisivo tra i più noti. Il suo bel volto compare spesso in video, anzi sempre, nelle trasmissioni che trattano di morti ammazzati, assassini probabili, gialli irrisolti: temi che da qualche tempo vanno forte e hanno un seguito notevole di pubblico. A lanciare la gentile signora è stato Bruno Vespa a Porta a porta, in cui gli omicidi raccontati sono frequenti e costituiscono una sorta di rubrica fissa, come il bollettino meteorologico. Il principe dei conduttori, dopo averla invitata una prima volta, non ricordo in quale circostanza, avendone gradito gli interventi - forse anche le fattezze - non ha più smesso di convocarla per discettare di coltellate, strangolamenti, alibi e roba del genere noir. Roberta si è tenacemente costruita una fama di investigatrice spietata: ormai è ospite indispensabile in qualsiasi programma al sangue in onda su varie emittenti, tutte assai interessate a dissertare di delitti, un filone appassionante per il pubblico serale, stanco di talk show politici prodotti in serie con la fotocopiatrice. La criminologa mostra di trovarsi a proprio agio nelle discussioni, di solito vivaci, sulla colpevolezza di Tizio e di Caio; e si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere. Si sa come vanno i processi mediatici. Si dà addosso all'imputato dato che è più facile e più spettacolare che non difenderlo. Si calca la mano sugli elementi a suo carico e si sorvola su quelli a discarico. Cosicché la gente, sempre vogliosa di sentenze esemplari, si eccita e non tocca il telecomando nel timore di perdersi le fasi più sadiche del linciaggio. La natura umana fa schifo e collide con i principi basilari del diritto: chi è stato incastrato dalla cosiddetta giustizia andrebbe considerato innocente fino a prova contraria. La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia. In confronto a lei, i pubblici ministeri sono mammolette. Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione. Ciascuno ha le proprie inclinazioni e magari le asseconda con pertinacia. La criminologa, benché non sia togata, agisce con una determinazione impressionante: nei dibattiti davanti alla telecamera riesce a spiazzare chiunque, magistrati inclusi. Una notte, a Linea gialla, diretta da Salvo Sottile (bravo e preparato), ero seduto accanto a Bruzzone per esaminare la vicenda di Raffaele Sollecito, in attesa di giudizio. Personalmente ero dell'idea che il giovanotto fosse da assolvere per mancanza di prove; lei aveva un'opinione opposta alla mia. Non dico che litigammo, ma eravamo in procinto di farlo. Trascorsi alcuni mesi, la Cassazione ha dato ragione a me. Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".
Rissa legale tra criminologi, scrive Mauro Sartori su “Il Giornale di Vicenza”. Si trasferisce anche in città il duro confronto tra Roberta Bruzzone e l'ex compagno Marco Strano. L'uomo accusa di plagio l'autrice per alcuni passaggi riportati. Lei replica con denunce per stalking e chiedendo misure di sicurezza. Carabinieri a piantonare la sala, notifica di documenti legali per spiegare il terreno minato su cui si muoveva l'incontro pubblico di ieri sera, querele e minacce attraverso i social network: sono gli ingredienti della guerra in atto fra due criminologi di fama, che ieri ha vissuto un capitolo scledense. Da una parte Roberta Bruzzone, psicologa forense nota per le partecipazioni come consulente ai talk show televisivi quando si parla di omicidi; dall'altra l'ex fidanzato Marco Strano, dirigente della polizia di stato, fondatore dell'Associazione internazionale di analisi del crimine. Oggetto del contendere il libro “Chi è l'assassino - diario di una criminologa”, edito dalla Mondadori. Strano accusa Bruzzone di plagio. Nella parte introduttiva del libro ci sarebbero passaggi copiati senza autorizzazione, tanto che il dirigente della polizia avrebbe chiesto con una procedura d'urgenza il ritiro dal commercio del libro, ma non l'ha ottenuto. Ieri sera la criminologa, chiamata come esperta da Bruno Vespa per le puntate di “Porta a porta” in cui si parla dei delitti di Sarah Scazzi e Melania Rea, tanto per citare i due più conosciuti, era a palazzo Toaldi Capra, dove ha presentato proprio il libro conteso ed ha parlato anche della sua attività quale ambasciatrice di “Telefono rosa”. L'altro ieri alla libreria Ubik, che organizzava l'incontro, due avvocati dell'Alto Vicentino, come domiciliatari dei legali di Strano, hanno recapitato ai titolari copia di un'ordinanza emessa dal tribunale di Milano in cui viene rigettato il ricorso di sequestro del libro, ma lascia aperta la porta ad un eventuale risarcimento del danno patito dal poliziotto. Una mossa che in verità non ha avuto conseguenze sullo svolgimento della serata ma che ha inasprito la tensione fra le due parti, tanto che ieri Bruzzone ha twittato parlando «di due scagnozzi non identificati che denuncerò per concorso in atti persecutori» che sarebbero andati alla Ubik e, in una successiva mail diffusa, «di un ennesimo tentativo di screditarm posto in essere da un soggetto che ormai trova l'unica ragione della sua misera esistenza nel rancore nutrito nei miei confronti e nel porre in essere atti persecutori nei miei confronti di cui sono vittima da quattro anni». In pratica da quando è finita la relazione sentimentale fra i due che un tempo andavano d'amore e d'accordo. La criminologa si è sentita minacciata tanto da richiedere misure di sicurezza ai promotori, prima di entrare in sala: «L'ho denunciato per stalking e quanto accaduto a Schio mi seriverà per integrare la denuncia stessa. Purtroppo non accetta l'evidenza dei fatti - ci ha riferito ieri sera Roberta Bruzzone. - La mia è un'opera autonoma, tratta da miei incarichi documentati. Le sue accuse sono deliranti. Per me la vicenda era chiusa con il rigetto del ricorso ma non si rassegna e allora comincio ad avere timore, soprattutto se si allarga a minacciare anche gli organizzatori delle mie serate nel tentativo di boicottarle. La mia vita è cristallina, ma non posso andare avanti così»
Questo è quanto riportato dalla stampa con verità, attinenza ed interesse pubblico.
Chi di processi ferisce di processo perisce, scrive Alberto Dandolo per Dagospia. A Milano non si fa altro che parlare della citazione a giudizio della platinatissima criminologa Roberta Bruzzone nell’ambito di un procedimento penale a suo carico presso il Tribunale di Tivoli. La vispa professionista deve infatti difendersi dalle accuse di un suo ex compagno, Marco Strano che l’ha trascinata in tribunale in quanto, si legge nelle carte, ne avrebbe “ripetutamente offeso la reputazione…pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori”. Nei documenti si legge che la criminologa amata da Vespa e dalla Parodi deve difendersi dall’accusa che “utilizzava altresì più volte in maniera denigratoria l’aggettivo “strano” facendo chiaro riferimento alla persona del suo ex compagno, come nei seguenti post: “in effetti mi sembra proprio strano …questo impulso diffamatorio irrefrenabile…, “questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee”; e ancora sottolineava : “è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine”; “ non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all’estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…” ( post del 23.11.2010) , lo definiva, quindi un mitomane fallito con in dotazione una calibro 9”, lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane, ed infine commentava, con riferimento alla nuova compagna straniera del querelante, che lui l’aveva affittata staccandone il cartellino ed acquistata in qualche compravendita di spose dall’est facendosi qualche foto con lei per far finta di avere una vita (post del 01-12- 2010).”
La criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori": ecco i post "incriminati", scrive Mario Valenza il 16/09/2015 su “Il Giornale”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9". Queste e altre dure espressioni sarebbero state Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Strano sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". E ora i post su Facebook potrebbero sbarcare in tribunale...
Tivoli, la criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione, scrive “Libero Quotidiano”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9": questa e altre frasi sono state rivolte da Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Egli sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". Come andrà a finire?
Caso Marco Strano - Roberta Bruzzone - Bruno Vespa e milioni di inganni e sprechi ai danni della Polizia - Interrogazione "aperta" al capo della Polizia si legge sul sito internet di Polizia Nuova Forza Democratica. L'Organismo Sindacale Polizia Nuova Forza Democratica nasce con lo scopo di salvaguardare i doveri degli appartenenti alle Forze dell'Ordine e di tutelare i diritti di donne e uomini che hanno consacrato la propria vita professionale alla sicurezza di tutti i cittadini. Il legislatore, con l'approvazione della Legge 121/81, ha previsto la demilitarizzazione del Dipartimento Della Pubblica Sicurezza e il conseguente Ordinamento Civile della Polizia Di Stato, con l'obbiettivo di rendere tangibile la sinergia sociale tra cittadini e poliziotti. Il nostro Organismo P.N.F.D. condivide, con spirito di servizio, "l'animus del Legislatore" deputando proprio fondamento la collaborazione tra i tutori dell'ordine e la società civile. Il nostro statuto, non a caso, prevede l'iscrizione all'organismo P.N.F.D. sia per gli operatori della Polizia Di Stato, soci ordinari, sia per i rappresentanti del mondo del lavoro o associazioni che operano nel volontariato sociale, soci aggregati e onorari. Polizia Nuova Forza Democratica vuole essere la calcina che lega tutti i cittadini che, senza clamore, ogni giorno, con il coraggio dell'onestà compiono il proprio dovere costruendo il bene comune. Questa organizzazione sindacale intende costituirsi parte civile nei vari processi che, a partire dal prossimo dicembre, vedono imputata la c.d. "Ambasciatrice di Telefono Rosa" - Roberta Bruzzone che sarà giudicata dall'Autorità giudiziaria per aver indirizzato accuse di stalking, false e strumentali, attraverso denunce, poi archiviate, interviste televisive e sui giornali, migliaia di pagine di social networks, nei confronti di Marco Strano, funzionario di Polizia, moralmente e professionalmente incensurabile, per questo stimato a livello nazionale e internazionale e quindi lustro per la Polizia di Stato. Accuse che stanno provocando un crescente malumore tra i colleghi che ben conoscono la vicenda reale, completamente diversa da quella veicolata dai media. Le accuse di stalking si sono infatti rivelate poi assolutamente infondate, ma hanno ingiustamente gettato un'ombra sull'intera categoria degli appartenenti alla Polizia di Stato tanto che la magistratura ha approfondito - attraverso già due rinvii a giudizio di Bruzzone per diffamazione aggravata e attraverso altri procedimenti tuttora in fase di indagine per altri più gravi reati presso le Procure di Roma e di Tivoli (che riguardano anche soci e collaboratori della predetta) - come il contrasto con il collega Strano non fosse legato a vicende sentimentali, come si voleva far intendere (il collega è felicemente sposato da anni), ma molto più presumibilmente al fatto che quest'ultimo ha pubblicamente denunciato il business dei corsi di formazione. Neanche a farlo apposta, infatti, la suddetta organizza corsi attraverso il marchio AISF(Accademia Internazionale di Scienze Forensi) - marchio spesso citato anche nella trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa - solo apparentemente no-profit in quanto strettamente collegato con la SaS CSI-Academy (di cui Roberta Bruzzone risulta socio accomandante e che propone corsi e perizie forensi a pagamento): SaS che ha un logo pressoché identico a quello dell'Associazione pubblicizzata da Bruno Vespa e con cui condivide un sito web, situazione che potrebbe trarre in inganno milioni di telespettatori. Tutto ciò a nostro avviso dovrà essere analizzato attentamente innanzitutto dal Garante per le comunicazioni, per motivi di pubblicità occulta e di concorrenza sleale. Ma soprattutto: sarà "sicuramente casuale" che la società di Roberta Bruzzone risulti partner commerciale dell'azienda statunitense SIRCHIE e della società di rappresentanza italiana RASET - leaders in Italia nella commercializzazione di prodotti per criminalistica - e che il collega Marco Strano abbia intrapreso da almeno 5 anni una battaglia politico-sindacale finalizzata alla razionalizzazione della spesa pubblica nel settore dei prodotti per investigazioni scientifiche che, se andasse in porto, porterebbe un calo di fatturato di milioni di euro nelle predette aziende a vantaggio dell'Amministrazione della PS, i cui vertici purtroppo persistono invece nello sprecarli, a discapito dell'erario oltre che riducendo le potenzialità investigativo-scientifiche. Per quanto sopra esposto, chiediamo se il Capo della Polizia sia al corrente o meno della suddetta vicenda, quali iniziative abbia intrapreso e/o intenda intraprendere affinché sia ripristinato il prestigio della categoria e fatta luce su sprechi, privilegi e abusi che ne stanno seriamente minando le fondazioni.
Roma, 11 ottobre 2015
F.TO
Il Segretario Nazionale per l'Italia centrale e gli uffici dipartimentali -
FILIPPO BERTOLAMI
Il Segretario Nazionale Generale - Rappresentante Legale - FRANCO PICARDI
Bruzzone porta in tribunale l'ex ris Garofano. E' guerra totale (per un affare di cuore), scrive di Giordano Tedoldi il 16 marzo 2016 su “Libero Quotidiano”. Da quando la criminologia è uscita da laboratori e aule universitarie per diventare un genere affine al "Processo del Lunedì" - con la sola differenza che nel salotto tv criminologico si dibatte se la macchie di sangue possano ricondursi all' imputato o siano solo succo di lampone - anche il criminologo, figura solitamente composta, taciturna, anche un poco sinistra, è diventato un personaggio del gossip pubblico e dello scazzo ipersensibile, insomma, siamo ufficialmente al volo degli stracci criminologici. E come ogni bella commedia prevede, c' è un protagonista maschile e uno femminile, l'un contro l'altra armati. Lei è, va da sé, Roberta Bruzzone, psicologa forense e "dark lady" dell'opinione televisiva a cadavere ancora caldo, spesso chiamata in trasmissione anche quando è più raffreddato. La dottoressa Bruzzone, che ha un caratterino in tono con la sua avvenenza diciamo così fiera, ne ha dette di cotte e di crude al suo pari grado - non in termini militari, perché quello è generale dei carabinieri benché in congedo, ma in termini di valore televisivo - vale a dire all' ex comandante del Ris Luciano Garofano, anche lui con un debole per le poltrone dei talk show, il quale ha reagito con una denuncia per diffamazione. L' antefatto era ricostruito ieri sul Secolo XIX da Marco Grasso, e, come per le persone comuni, dietro alla lite e alla convocazione davanti al giudice il prossimo 7 aprile, c' è un affare di cuore. Scrive il Secolo: «Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l'accusa di aver taroccato i titoli; lei a sua volta mette in discussione gli studi dell'uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione». Vabbè, fin qui ordinaria amministrazione di relazioni sentimentali che si sfasciano. Ma il comandante Garofano, incautamente, si schiera pubblicamente a difesa dell'ex compagno della Bruzzone. E si becca dalla collega criminologa una denuncia per diffamazione, con allegata lettera aperta al vetriolo in cui l'esordio è tutto un programma: «Dottor Garofano, porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell'Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo, non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». Ora, a onor del vero pare che il regolamento dei conti tra i due, più che sulla reputazione di un collega, verta sulla loro rivalità per il titolo di numero uno della criminologia televisiva. In questo i duellanti sono l'una il riflesso dell'altro: così alla denuncia della Bruzzone è partita quella opposta e simmetrica di Garofano per la velenosa epistola citata. E anche lui ha condito la denuncia per diffamazione con apprezzamenti alla collega: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo), faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione». A commento di questa sapida commedia, un antico adagio latino: "simul stabunt vel simul cadent", "insieme staranno o insieme cadranno". Così passa la gloria criminologica edificata su una sequela di massacri: con un volo di stracci.
Bruzzone vs Garofano: la zuffa dei criminologi finisce in tribunale, scrive Marco Grasso il 15 marzo 2016 su “Il Secolo XIX". Si ritroveranno il prossimo 7 aprile, ma non in un salotto televisivo. La prossima puntata del duello più aspro della criminologia italiana si terrà davanti al giudice Marco Panicucci. Da un lato c’è la psicologa forense ligure Roberta Bruzzone, volto noto delle televisioni, citata a giudizio per diffamazione. Dall’altro un altro personaggio pubblico dello stesso settore, l’ex comandante dei carabinieri del RisLuciano Garofano, che si è rivolto alla magistratura dopo un post di Facebook in cui veniva definito «indegno di indossare la divisa» e «membro di un sodalizio criminale». A monte di questa guerra c’è una vicenda di cuore. Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente per dieci anni della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l’accusa di aver taroccato i titoli (polemica che peraltro solleva una questione di cui la categoria dibatte da anni, ovvero l’assenza di un albo professionale dei criminologi); lei a sua volta mette in discussione gli studi dell’uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione. La lite tra i due ex fidanzati va avanti a colpi di denunce reciproche e messaggi di fuoco sui social network, e finisce per coinvolgere anche colleghi come Garofano: l’ex militare, oggi consulente privato, si schiera apertamente con Strano, scatenando le ire di Bruzzone, che lo denuncia per diffamazione alla Procura di Roma e gli scrive una lettera pubblica, oggetto di questa seconda causa. «Dottor Garofano - esordisce la criminologa - porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell’Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo. Non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». La replica arriva subito dopo un intervento apparso sul profilo Facebook di Marco Strano: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti in ogni sede. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui, per inciso, il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo) faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione».
La criminologa di Vespa e gli affari con la polizia. Un sindacato: “Costose forniture alla Scientifica da azienda legata alla Ong di Bruzzone. E spot a ‘Porta a Porta’”. E poi continuano le polemiche dopo il servizio di “Report” sulla Corte Costituzionale. Rassegna stampa: Il Fatto Quotidiano, pagina 15, 1 dicembre 2015, di Ferruccio Sansa. Un esposto al capo della polizia Alessandro Pansa. Poi una lettera protocollata al ministro Angelino Alfano, al presidente della Commissione parlamentare Rai Roberto Fico e al presidente Rai Monica Maggioni. Titolo: “Caso Bruzzone-Vespa”. A scrivere un gruppo di dirigenti che si raccoglie dietro la sigla Polizia Nuova Forza Democratica. Che non per la prima volta critica i massimi vertici della polizia. Oggetto: pubblicità occulta, forniture di materiale per la polizia scientifica. E convegni organizzati presso la Questura di Roma da società private. Il principale bersaglio delle critiche è la criminologa Roberta Bruzzone, una delle regine del salotto politico più famoso d’Italia: Porta a Porta. Sì, la trasmissione di Bruno Vespa viene nominata più volte. Anche per la famigerata puntata in cui ospitò i Casamonica. Non sarebbero comportamenti illeciti, fino a prova contraria. Ma la lettera, visti i nomi in gioco, sta creando polemiche negli ambienti delle forze dell’ordine e della Rai. Mentre Bruzzone smentisce e annuncia querele. Primo: il sindacato punta il dito sui costi del materiale in uso alla polizia scientifica come la polvere per il rilievo delle impronte digitali. «Sarebbe possibile – si sostiene – acquistare prodotti della medesima qualità evitando i dazi doganali sui prodotti americani con un risparmio dal 20 al 30%». Che cosa c’entrerebbe Bruzzone? Da visure effettuate dal Fattonon risulta sia socia dell’impresa importatrice. Filippo Bertolami, segretario Pnfd, aggiunge però: «Dai siti Internet della società di Bruzzone emerge che l’importatore ha una partnership con la sua fondazione. Così come, peraltro, con lo stesso programma della tv pubblica Porta a Porta». Per questo il sindacato parla di «pubblicità occulta, svolta anche con magliette e sottopancia nel corso delle trasmissioni». Il punto: «L’Accademia internazionale di scienze forensi (una Ong che fa capo a Bruzzone, ndr.), che beneficerebbe di tale pubblicità ha un sito che trasferisce ad arte sul sito della Csi Academy, società di consulenza che si occupa di perizie e di formazione. Un’impresa con un logo quasi identico a quello dell’associazione no profit». Gli stessi soggetti che organizzano, riferisce Bertolami, eventi e corsi presso i locali della Questura di Roma: «Per i poliziotti di un sindacato sono gratuiti, ma tutti gli altri devono pagare. Chiediamo se sia possibile che un locale istituzionale sia utilizzato per iniziative a fini di lucro». Il Fatto Quotidiano ha raccolto le versioni di tutti gli interessati. Pubblicità occulta nel salotto più famoso della Rai? Bruno Vespa giura: «Mi pare impossibile. Sto molto attento. Se qualcuno l’ha fatto, non accadrà più. Stiamo attentissimi». Bruzzone aggiunge: «Quella lettera riferisce un mucchio di falsità. Ho già consegnato personalmente una lettera al capo della polizia per chiarire le cose». E la fornitura per la polizia scientifica effettuata da società legate a Bruzzone? «Se i prodotti costano più che se fossero comprati in America dipende dai dazi doganali e dalla spedizione», assicura il titolare. Fonti della polizia aggiungono: «Ci sono regolari gare». Ma quegli eventi realizzati negli uffici della Questura? «Il corso è organizzato da un altro sindacato. Ma se non sarà gratuito per tutti non concederemo gli spazi».
La criminologa Bruzzone: “Da bambina smembravo bambole e ho tentato di annegare i miei fratellini”. La criminologa più famosa della tv si racconta, scrive la Redazione TPI il 22 Gennaio 2019. In televisione l’abbiamo vista spesso commentare i grandi fatti di cronaca che hanno segnato il paese, ma lei, Roberta Bruzzone, la criminologa più famosa della tv, ha un lato oscuro che non aveva mai mostrato. Ospite di Caterina Balivo, la famosa esperta di delitti imperfetti ha lasciato a bocca aperta il pubblico con aneddoti di quando era bambini. La Bruzzone ha confessato che da piccola aveva una strana propensione per il macabro: “Da bambina mi piaceva sperimentare tecniche di smembramento e decapitazione con le bambole”. Ma non è finita qui: sulla poltrona candida dello studio della Balivo, la criminologa ha confessato (è proprio il caso di dirlo) di aver tentato di uccidere i suoi fratelli, quando era bambina: “Tentai di annegarli nella vasca da bagno”. Ma per fortuna intervenne la nonna: “Mi fermò giusto in tempo. Non ero imputabile, avevo solo tre anni e mezzo. Li picchiavo, ma ero molto piccola. Io la classica bambina femminuccia tranquilla? No, non su questo pianeta.”, precisa la criminologa. Dai suoi racconti si evince che Roberta Bruzzone deve essere stata una bambina particolare. Anche a scuola, fin da piccolissima, le cose non andavano meglio che a casa: “Sono addirittura stata cacciata dalla scuola materna delle suore. Le suore raccomandarono a mia madre di non portarmi più in quella scuola”, spiega l’esperta di nera. Al di là della sua infanzia, la criminologa ha parlato anche dell’ammirazione nei confronti di Bruno Vespa: “È una persona a cui voglio molto bene, se mi chiedesse di seppellire un cadavere gli darei una mano”, dice sorridendo. Roberta Bruzzone, classe 1973, è diventata famosa all’indomani del delitto di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010, quando rivestì il ruolo di consulente di Michele Misseri, inizialmente indicato come assassino della nipote.
SARAH SCAZZI. DAI SEGRETI DI FAMIGLIA DI ROBERTA BRUZZONE AL RESOCONTO DI UN AVETRANESE DI ANTONIO GIANGRANDE
Sarah Scazzi: dai segreti di famiglia di Roberta Bruzzone al resoconto di un avetranese di Antonio Giangrande, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Controvento”. Roberta Bruzzone ha pubblicato un libro intitolato: “Segreti di famiglia - Il delitto di Sarah Scazzi". Co-autori: Giuseppe Centonze e Filomena Cavallaro, co-fondatori del Gruppo Facebook: "Verità e Giustizia per Sarah". Nel libro, a cui non manca la visibilità mediatica, si racconta l’omicidio della quindicenne di Avetrana per come l'hanno vissuto e visto l'autrice e i co-autori. La criminologa nel libro parla di prove e ritiene che la sentenza emessa dalla corte d’assise di Taranto sia il risultato di un ottimo lavoro condotto dalla magistratura. Ora non vale la pena entrare in questioni etiche o morali per capire quanto sia giusto pubblicare un libro che parla anche di depistaggi e lacrime di plastica (definizioni coniate dall'Accusa per definire i comportamenti e i pianti di Sabrina Misseri) nel bel mezzo di un processo che deve essere celebrato in altri due gradi di giudizio. E non ne vale la pena perché c'è chi su Avetrana e Sarah Scazzi ha pubblicato libri a pochi mesi dall'omicidio. Però si può parlare del fatto che il processo ha visto protagonista chi ha firmato "Segreti di famiglia". La dottoressa Bruzzone infatti, ricordiamolo, ha partecipato a un'udienza come teste dell'Accusa. Udienza in cui la Difesa di Sabrina Misseri ha contestato, giustamente, il plurimo status. Giustamente perché la criminologa prima di essere un teste per la procura fu consulente di Michele Misseri, consulente assunta dall'avvocato Daniele Galoppa. Lui è il legale scelto per il contadino reo confesso dal procuratore Pietro Argentino (ma qualcuno non aveva detto in tivù che era stato scelto a caso da un centralino?). Di questo fatto molto strano ne parla lo stesso Misseri a processo (e il procuratore in aula non lo ha smentito)... e dico che è molto strano perché è assurdo che sia l'accusatore a scegliere l'avvocato che lo dovrà poi contrastare. Ma lasciamo perdere ciò che nessun giornalista ha mai evidenziato e torniamo alla Bruzzone. Lei ad un certo punto, nonostante l'astio che nutre per gli imputati, passa da consulente della Difesa a testimone d'accusa. Può essere neutrale chi si ritiene "persona offesa", chi ha avviato un procedimento penale per calunnia e diffamazione contro Michele Misseri: l'uomo che a più riprese l'ha accusata di averlo indotto, in associazione con l'avvocato Daniele Galoppa, ad incolpare la figlia? Accusa dunque incontestabile quella di plurimo status, visto che da consulente per la Difesa è passata a testimone per l'accusa e nel contempo ha in essere un procedimento penale che la vede contrapposta all'imputato sul quale è stata chiamata a testimoniare. Accusa rivolta a Roberta Bruzzone dall'avvocato Nicola Marseglia, accusa che può far intendere minata l’imparzialità di giudizio della criminologa; minata dal fatto che nel caso in questione ha ricoperto, e sta ancora ricoprendo, ruoli diversi e in antitesi fra loro. Ora mettiamo i puntini sulle i. Nessuno vuole toglierle i meriti, dovesse averne, o le briciole di gloria che può ottenere da una pubblicazione che la obbliga a parlare in pubblico del caso in questione. La dottoressa Bruzzone è libera di fare quanto meglio crede senza sottostare a nessuna pressione e critica fumosa (lo vuole la democrazia). A me preme solo evidenziare quanto poco possa apparire imparziale un libro scritto da chi ha conflitti di interesse sulla vicenda che tratta. Sarebbe come se Mondadori pubblicasse un dossier su Berlusconi scritto dalla Boccassini, o da un fan della procuratrice milanese, prima della sentenza della Corte di Cassazione. Chiaramente sarebbe un'opera di parte. Pubblicabile, sì, ma per non dar adito a dubbi dovrebbe andare in stampa con un titolo che non coinvolgesse nessun altro se non la stessa scrittrice. Andrebbe bene, ad esempio, se il titolo fosse: "La mia verità su Silvio Berlusconi". Invece l'ipotizzare segreti familiari, tutti ancora da provare, è una forzatura che stona in questo momento temporale che di stabile non ha neppure la sentenza del giudice Trunfio, visti i due gradi di giudizio che dovrà superare per diventare definitiva. In ogni caso, ormai siamo abituati ai tanti luoghi comuni. La storiella sui segreti di casa Misseri, ad esempio, è un cavallo di battaglia usato da tanti opinionisti che si son mostrati, e ancora si mostrano in video, solo per ipotizzare, grazie alla solita parzialità dei media, senza mai dare riferimenti o prove che rendano verificabili le loro parole (forse perché non esistono?). Dalla loro parte hanno la forza dell'audience, che li premia proprio perché colpevolisti, e quella della stampa, che ha un suo peso quando deve pubblicizzare una qualsiasi cosa o convincere di un'idea pregiudizievole senza arte né basi solide. Stampa che per etica professionale dovrebbe restare al centro e non parlare solo a favore di una tesi. Stampa che da decenni ha dimenticato questa regola basilare. Meno male che la "rete" non è solo un fenomeno mediatico unilaterale. Proprio per questo, dopo aver parlato del libro di Roberta Bruzzone, che potrete acquistare in ogni libreria italiana, ora parlo di un libro che si contrappone al suo. Quello scritto dal dottor Antonio Giangrande, non coinvolto nel caso né come teste né come ex consulente né come querelante, è un libro-dossier che racconta in maniera schietta, atti e testimonianze alla mano, l’omicidio della quindicenne di Avetrana in tutti i suoi dettagli, anche quelli più sconosciuti o tralasciati artatamente dai mendicanti della cronaca. Racconta la verità storica conosciuta che va oltre la verità mediatica e giudiziaria, quella che tutti accettano senza remore perché inculcata nel tempo da alcuni giornalisti ossequiosi al potere e al loro tornaconto. “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Quello che non si osa dire”, si può trovare su www.controtuttelemafie.it, su Amazon in Ebook, su Lulu in cartaceo e su Google libri. E' il racconto di ciò che un avetranese come il dottor Giangrande ha visto sin dal primo giorno, senza la mediazione della stampa. Un libro in cui si tiene conto del vissuto e del contesto ambientale ed istituzionale del luogo in cui si è svolta la vicenda criminale. E' una verità scomoda che neppure le tv e i giornali locali non vogliono, o non possono, divulgare. Non è la verità del Giangrande, è la verità incontestabile che si evince chiaramente guardando le puntate registrate da “Un Giorno in Pretura”. L'unica trasmissione che non può raccontare fandonie, visto che verrebbero subito smentite dai filmati registrati nelle varie udienze. Basta guardarli per rendersi conto di quale sia la differenza tra quello che veramente è successo in aula e quanto, invece, hanno riportato i tanti giornalisti (??) ossequiosi durante le loro cronache d’udienza (??). Quelle registrazioni sono la prova di come, stravolgendo la realtà dei fatti, negli ultimi anni i media abbiano influenzato in negativo, con toni sempre e solo colpevolisti, tutta l'opinione pubblica. Quelle registrazioni, di cui ancora oggi nessuno tiene conto (vanno contro la verità mediatica e sono andate in onda in orari impossibili), dimostrano di cosa siano capaci i media quando entrano a piedi uniti su tutta la collettività.
Roberta Bruzzone è ormai un volto e un nome noto. La si vede dappertutto. La 37enne che appare da mesi in tv è la criminologa che difende Michele Misseri, scrive Benedetta Sangirardi su Affaritaliani.it. Affaritaliani.it, qualche tempo fa, ne fece un ritratto esaltando il suo curriculum (e la sua immagine di criminologa da fiction). Una criminologa da fiction. Trentasette anni, bionda, alta, bella. Chi l'ha vista circolare tra Taranto e Avetrana, da quando è consulente della difesa di Michele Misseri assicura: "E' rifatta, dalla testa ai piedi. Le labbra sicuramente". Chrurgia o no, Roberta Bruzzone non è passata inosservata tra i protagonisti del delitto di Avetrana. Anche perché, appena un mese fa, in un'intervista a La 7, parlando dell'arresto dello zio di Sarah, aveva detto: "E' un pedofilo assassino", salvo poi entrare a far parte della sua difesa qualche giorno dopo. E aveva continuato: "Questo tipo di soggetti difficilmente hanno ingresso a quell'età nella vita criminale. C'è da indagare in modo più approfondito nella vita di questa persona e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti". Psicologa (iscritta all’albo degli psicologi della Liguria) e Criminologa, Perfezionata in Psicologia e Psicopatologia Forense, Perfezionata in Scienze Forensi, esperta in Psicologia Investigativa, Analisi della scena del crimine, Criminalistica e Criminal Profiling. Il curriculum ce l'ha, e non solo per quel che riguarda lo studio e la carriera. Internet è tappezzato di sue immagini modello book fotografico, in cui sembra più un'attrice del telefilm "Ris - Delitti imperfetti" che una criminologa con tanto di esperienza sul campo. E già, perchè nessuno se la ricorda, ma la Bruzzone ha fatto anche parte della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, nella strage di Erba. La sua formazione viene dagli Usa. Ha conseguito in USA il titolo di E.C.S. - Evidence Collector Specialist (esperto di ricerca e repertamento tracce sulla scena del crimine certificato dall'American Institute of Applied Sciences) con gli standards statunitensi della Sirchie Fingerprint Laboratories. E’ esperta - si legge nel suo curriculum - di tecniche di analisi, valutazione e diagnosi di abuso nei confronti di minori e nell’ambito della violenza sulle donne. Dall’Università di California, dove ha fatto “un periodo di training”, passando per la Duke University (North Carolina – USA), dove è stata ricercatrice. Ha frequentato anche l’Università del Texas e di Philadelphia. Per non parlare, poi, dei suoi innumerevoli titoli (Presidente dell’Accademia Internazionale di Scienze Forensi, membro dell’ International Association of Crime Analysts e molti, molti altri). Insomma, una carriera di tutto rispetto, senza dimenticare che la bionda criminologa è anche autrice e conduttrice televisiva. Ma da qualche giorno circola un documento tra i giornalisti, e non solo, che “smonta” il suo curriculum: tutto falso. O meglio, una enorme parte delle sue esperienze non sarebbero mai state fatte. Tutto da verificare, certo, ma nello scritto ci sarebbero anche alcune testimonianze, smentite poi da Roberta Bruzzone nell’intervista ad Affari. Alcuni esempi. Nel documento si legge che, contattata l’Università della California (Sede di San Francisco), la risposta è stata: “Non risulta che Roberta Bruzzone abbia frequentato masters o altri corsi di formazione presso la nostra Università”. La Vidocq Society Philadelphia (Prof. Bill Fleisher) dichiara: “La Signora Bruzzone non ha alcun tipo di connessione con la nostra Società scientifica”. E ancora, l’American Embassy in Rome: “Il Direttore della BSU di Quantico ha comunicato che non conoscono la Dottoressa Bruzzone e che non hanno mai avuto contatti per attività di ricerca con lei”. Stessa risposta dal Vancouver Police Department: “La Signora Roberta Bruzzone non ha mai sviluppato progetti di ricerca con questo Dipartimento”. Il Bloodstain Evidence Institute (Dr. Herbert Leon MacDonell, invece, ammette che la Bruzzone abbia partecipato a un breve corso introduttivo di 5 giorni presso il nostro Istituto”, ma assicura che “non ha superato il pur facile esame finale”. L’istituto di criminologia, si legge nel documento, pare abbia già ricevuto segnalazioni sul “finto curriculum” della 37enne, decidendo di diffidala “dal pubblicizzare in Italia la sua esperienza in BPA e di essersi formata presso il nostro Istituto”. Ma non è finita. Il rettore della Duke University assicura che “non risulta che Roberta Bruzzone si sia formata presso la nostra Università ne abbia svolto attività di ricerca con noi”. Infine la Texas State University, nella persona del Prof. Kim Rossmo conclude assicurando che “la Signora Roberta Bruzzone non ha contribuito in nessun modo allo sviluppo del software Rigel e non ha nessuna connessione con la Texas State University”. Insomma, Roberta, secondo il documento che circola tra i giornalisti, avrebbe falsificato e gonfiato le sue esperienze. La criminologa che prima del caso Avetrana aveva fatto parte del processo a carico di Rosa Bazzi e Olindo Romano, dice un sacco di bugie, stando al documento. D’altra parte, nella pagina di Facebook a lei dedicata scrive: “Meglio avere a che fare con gli assassini che con i giornalisti”. E forse su questo ha ragione. Ma quando aggiunge, sempre sul social network, che “se sei bella ma non sei una escort vanno tutti in crisi in Italia, certo averlo saputo prima che per fare il mio lavoro bastavano occhi azzurri, capelli biondi e fisico ‘lussureggiante’ me li risparmiavo tutti gli studi fatti, le specializzazioni e i continui aggiornamenti in giro per il mondo”, allora sorgono i dubbi.
La rettifica piccata di Roberta Bruzzone. «Gent.ma, devo ammettere, con amarezza, che leggendo il suo articolo sono stupita anche io del mio CV. Innanzitutto perchè nel secondo capoverso si legge "ha frequentato anche la Università del Texas e Philadelphia" quando io non ho MAI frequentato ne ho MAI sostenuto di aver frequentato nessuna delle due, come si evince chiaramente dalla lettera che le ho inviato e dalla lettura del mio cv pubblicato sul sito www.accademiascienzeforensi.it (cliccando su ROBERTA BRUZZONE) L'articolo da lei scritto appare assolutamente tendenzioso e non rispetta i parametri di continenza, pertinenza e verità della notizia. Tant'è che in maniera molto VAGA lei parla della mail anonima che è arrivata in relazione definendola "documento" ma le ricordo che trattasi di una MAIL ANONIMA. Parla poi di testimonianze riferendosi a quelle 4 frasi virgolettate che sono state attribuite dal mittente ai vari soggetti indicati che SAREBBERO stati contattati. Lei NON ha verificato la notizia, NON ha contattato i vari soggetti benchè nella mail vi sono stati forniti i recapiti dei medesimi. Come lo so? Se lo avesse fatto avrebbe sicuramente saputo che Jim Gocke Direttore della Sirchie e Presidente dell'American Institute of Applied Science, aveva già parlato con TOM Curtis garantendo la mia formazione presso l'istituto nel 2008 e la collaborazione formativa che va avanti dal 2009. Se poi si fosse presa la briga di leggere il mio vero cv prima di scrivere il suo articolo avrebbe visto che io MAI ho vantato collaborazione con Vidocq Society o la frequentazione di master o corsi presso il Bloodstain Evidence Institute. Ma se io scrivessi all'università di Londra "La Dr.ssa Sangirardi ha frequentato un master di giornalismo presso di voi?" l'Università di Londra cosa mi dovrebbe rispondere se non l'hanno mai conosciuta??? e se dopo pubblicassi la loro risposta negativa alla mia indagine su di lei che cosa succederebbe???? Avrei montato un caso del tutto privo di fondamento, esattamente come sta facendo lei. Il suo articolo, se scritto in buona fede e nel rispetto dei doveri etici del giornalista, avrebbe dovuto avere un tenore diverso ed essere scritto con obiettività, posto che, mentre quello che ho dichiarato e che dichiaro io è supportato da evidenze (e lei le ha viste tutte perchè io gliele ho inviate), quello che è scritto nella lettera da voi ricevuta e divulgata non ha uno straccio di prova a corredo e non è nemmeno stata verificata la bontà del contenuto. E allora cosa è accaduto??? E' accaduto che una giornalista, ansiosa di fare uno scoop evidentemente, non ha aspettato di leggere tutto quanto in suo possesso ma ha dovuto scrivere subito tanto per fare polemica attribuendo all'oggetto dell'articolo (che questa volta purtroppo sono io) delle notizie del tutto false, infondate e diffamatorie. Le sorge il dubbio che quello che scrivo sui giornalisti sia vero???? Prima lo scoop poi il dovere di cronaca. E lei non fa eccezione. Mi lasci sottolineare un'altra cosa, IO NON LE HO MAI RILASCIATO NESSUNA INTERVISTA diversamente non avrei impiegato 2 ore del mio tempo per scrivere una lettera. Si è presa quelle 4 notizie che le ho dato in via confidenziale per contenere l'impatto delle accuse che mi muoveva e ci ha costruito attorno un'intervista del tutto fuorviante, riportando notizie false che io non ho mai fornito poichè non ho mai detto che c'è un processo per stalking ma un PROCEDIMENTO, nè ho mai detto che il 21 dicembre ci sarà la prima SENTENZA ma ho detto che ci sarà un'UDIENZA, il che è ben diverso. Le sembrerà una sciocchezza ma per chi lavora nel mondo giudiziario la differenza è enorme. Le rappresento altresì che questa sua "scelta" giornalistica si inserisce in una vicenda di estrema delicatezza e anche i giornalisti dovrebbero avere a cuore l'incolumità delle persone. Io le ho raccontato che sono vittima di stalking e lei ci ha riso sopra. Complimenti per la sensibilità. La invito e diffido pertanto a pubblicare immediatamente, con il GIUSTO RISALTO, questa mia comunicazione in forma integrale, riservandomi ogni azione a tutela del mio buon nome nei confronti suoi e del Direttore Responsabile nelle opportune sedi giudiziarie. A tal riguardo leggono in copia anche i miei legali. Roberta Bruzzone».
SECONDA LETTERA AD AFFARI
«Il Curriculum vitae allegato alla mail priva di firma ma proveniente dall’indirizzo giovanni.eroma@hotmail.it è stato estratto dal blog www.godownbaby.wordpress.com e NON si tratta del mio CV. Nell’estratto che è stato inviato a diverse testate giornalistiche vengono riportati titoli che io non ho mai vantato. L’unico CV ufficiale è quello pubblicato sul sito www.accademiascienzeforensi.it ed evidenziabile cliccando sulla voce ROBERTA BRUZZONE. E’ naturale che se si vanno a contattare interlocutori con cui un soggetto non ha mai avuto niente a che fare e/o per ragioni che NON corrispondono a quelle da lui chiaramente indicate, le risposte non posso che essere negative. Faccio un esempio. Io non ho mai sostenuto nè scritto di essermi laureata alla DUKE University, ma di aver collaborato per circa 3 anni con la Prof.ssa Silvia Ferrari, al progetto NNPCP per l’applicazione dell’intelligenza artificiale al criminal profiling, come testimoniato da una serie di pubblicazioni internazionali che sono disponibile a fornire e che, peraltro, sono anche facilmente reperibili su internet in formato abstract. C’e’ una bella differenza, no??? Ma andiamo Avanti. Io non ho mai sostenuto di aver contribuito allo sviluppo del software di geoprofiling Rigel di Kim Rossmo nè tantomeno di aver studiato alla Texas State University. Io affermo di aver collaborato con Rossmo all’analisi geografica sul caso dell’Unabomber del nordest e di aver applicato e adattato il suo software per la prima e unica volta ad un caso italiano. Tale lavoro è stato pubblicato nel testo edito da Aliberti “Chi è Unabomber” nel 2007 di cui sono coautore. Anche qui c’è una bella differenza, no???? E potrei continuare così per ciascuno dei punti elencati nella mail “anonima” inviata dall’account Giovanni.eroma@hotmail.it. La vera domanda è, perchè questo signore è così interessato a manipolare il mio curriculum vitae al solo fine di screditarmi affermando il falso??? Allora ho iniziato a fare una piccola indagine personale, ma molto piccola perchè non ho tempo da perdere nè ce ne voglio perdere, e ho scoperto che su facebook c’è un’account aperto da un certo Giovanni Eroma proprio il giorno dell’invio della mail anonima (ma guarda caso….. Ho guardato un po’ la sua bacheca, visto che tanto e’ aperta e ho visto che l’unica cosa che ha fatto e’ inserire un commento sulla bacheca di un certo Libero Arbitrio che si diverte a raccogliere notizie che mi diffamano e a postarle su alcune bacheche specifiche. Il post commentato da Giovanni Eroma era proprio relativo a me e, sempre guarda caso, era un link al solito www.godownbaby.wordpress.com….Quando poi ho visto che Giovanni Eroma aveva solo 3 amici, nel leggere i nominativi ho ho capito tutto….siamo alle solite… Ovviamente ho già provveduto ad acquisire in maniera forense tutto il materiale che andrà ad integrare il già copioso fascicolo sul tavolo del Pubblico Ministero. Comunque, visto che me lo avete domandato, vi allego alcuni documenti che provano l’autenticità dei miei titoli. Non sono però tutti perchè alcuni attestati sono rimasti a casa del mio ex convivente e non riesco a riaverli perchè, nonostante gli abbia richiesti in più occasioni e nonostante lo abbia anche denunciato per appropriazione indebita, lui non me li ha mai restituiti. Però va a dire in giro che io non posseggo tali titoli…..ma rispetto a ciò che ha fatto dal momento in cui l’ho lasciato questo è il meno. Roberta Bruzzone»
Affari risponde alla Bruzzone. Per completezza di informazione... «Gentilissima dott.ssa Bruzzone, mi spiace per quello che è accaduto. Il mio pezzo non voleva essere assolutamente diffamatorio. E anzi Affaritaliani.it, appena ricevuta la lettera anonima, l'ha immediatamente contattata per una sua replica. Replica che è stata data con ampio spazio su Affaritaliani.it, attraverso l'intervista che Lei ha rilasciato alla collega Floriana Rullo, e attraverso la sua lunga lettera che abbiamo pubblicato. In nessun modo abbiamo pensato che Lei dicesse il falso e che la mail che abbiamo ricevuto dicesse il vero. Se le può far piacere, il mio pezzo è stato in parte modificato eliminando la parola documento e inserendo la parola lettera anonima. La Sua lettera di rettifica è stata pubblicata su Affari Italiani, interamente. Questo a dimostrazione del fatto che siamo corretti nei suoi confronti e crediamo a lei, più che a una lettera anonima ricevuta. Non avevamo intenzione di fare nessuno scoop, se proprio vuole sapere la verità. Al contrario, abbiamo tentato di far capire ai lettori, e a chi diffonde questa mail, che lei è la vittima di una situazione che va avanti da due anni. Per quanto riguarda il curriculum, nel mio primo pezzo di quasi un mese fa io ho fatto riferimento a questo cv: http://www.studiolegalegassani.it/roberta-bruzzone.asp. Quanto da Lei richiesto, è stato messo online da Affari Italiani, anche la rettifica. Saluti. Benedetta Sangirardi»
Certo è che se la cautela pretesa per sè dalla Bruzzone fosse la stessa applicata al caso di Sarah Scazzi ed alle accuse professate a destra ed a manca, forse libri non se ne sarebbero scritti e notorietà non ne sarebbe scaturita.
Roberta Bruzzone la "criminologa" che aveva sostenuto inizialmente la colpevolezza di Misseri con frasi del tipo "è un pedofilo assassino", lo va a difendere. Che coerenza.
Sgarbi Vs Bruzzone. Lite a "Linea gialla"......il critico non si rialza, scrive Claudio Raccagni su “Agora Magazine”. Un articolo palesemente a favore della Bruzzone che ne tesse le lodi e ne pubblicizza il libro. “Vittorio Sgarbi attacca gratuitamente la criminologa Roberta Bruzzone, ma la reazione della Signora non era prevista. Brutta esperienza per il critico Vittorio Sgarbi, che durante la trasmissione "Linea Gialla" del 5 Febbraio, condotta da Salvo Sottile, attacca gratuitamente la criminologa colpevole d'aver sottolineato come l’intervento di Sgarbi fosse fuori luogo rispetto alle tematiche trattate, ma la reazione composta e diretta della Bruzzone spiazza il critico stesso, che si ritrova muto e ferito.
Tutto parte dall’argomento della puntata in cui si parlava di "Amori malati" e femminicidio. Durante i vari interventi Vittorio Sgarbi interviene con tesi personali al di fuori della serata in questione, parlando del delitto di Avetrana e con considerazioni che banalizzavano la gravità dei reati di cui si parlava in trasmissione. Non solo, ma messo alle strette dal disappunto della criminologa e delle ospiti femminili in studio, si lasciava andare a esempi rozzi, come suo solito, evidenziando come fosse diversa la reazione se una donna avesse toccato il culo di Salvo Sottile in autobus (cosi diceva Sgarbi) e se invece fosse stato Sgarbi a toccare la Bruzzone. Atteggiamento e parole scurrili, totalmente fuori luogo in una puntata dove si parlava di omicidi, di femminicidio, di violenze gratuite. Atteggiamento che la criminologa non gradisce e risponde a dovere. Il critico non incontra simpatia dal suo atteggiamento e se ne rende conto, evidenziando già un primo nervosismo, che lo porta a forzare il suo quadro critico sulla problematica del femminicidio e riportando l’argomento sul delitto di Avetrana. Non solo, ma lo stesso Sgarbi è platealmente ripreso sul fatto che non sappia che il reato di femminicidio non esista, ma sia invece una classificazione di reato. Lo stesso Sgarbi non è al corrente dei dati che provano un aumento delle denuncie da parte di uomini verso le donne, per reati di stalking. Continua quindi il nervosismo del critico. La criminologa invita a non fare "Caciara" con le argomentazioni, ma Sgarbi non gradisce l’aggettivo e reagisce in modo spropositato, come suo solito fare. Roberta Bruzzone però reagisce in modo maturo e diretto al provocatore, dandogli poi della capra, cosa che il critico stesso è norma dare agli altri, ma raramente si sente ripreso al suo stesso modo. La rabbia di Sgarbi cade nel penoso con frasi tipo "Non mi dici caciara; chi cazzo sei tu; non sei nessuno; sei una lumaca", ma la criminologa tiene a bada lo stesso Sgarbi, che probabilmente non era pronto ad una reazione di petto. Lo scontro è un netto KO contro il critico, che evidenzia una tensione visiva acuta e un silenzio che sottolineano il non aver assorbito il colpo da campione della criminologa, che continua subito il suo intervento in trasmissione tranquillamente con il suo solito carattere combattivo. Di fronte invece resta un Vittorio Sgarbi silenzioso, che non torna all’attacco, probabilmente provato emotivamente dall’attacco della Bruzzone. Da sottolineare come Vittorio Sgarbi abbia attaccato con frasi come quelle riportate precedentemente una criminologa di fama internazionale; sempre al lavoro nella preparazione dei suoi studenti e sempre sul luogo del delitto o di studio. Recentemente premiata con il premio Falcone-Borsellino 2013 per la corposa attività scientifica e divulgativa nelle scienze criminologiche, quale imprescindibile ausilio alle attività di indagine. Roberta Bruzzone, laureata in psicologia clinica, è psicologa forense, criminologa, criminalista, analista della scena del crimine, esperta in Scienze Forensi, docente presso gli Istituti di Formazione della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri. È consulente tecnico forense ed ambasciatrice del Telefono Rosa Onlus. È autrice di diverse trasmissioni televisive tra cui “La scena del crimine” e “Donne mortali” di cui è anche conduttrice. Dal 2013 è docente e direttore scientifico del master in Criminologia Investigativa, Scienze Forensi e Analisi della Scena del Crimine presso l’Università degli Studi Niccolò Cusano. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Manuale Investigativo degli abusi sui minori”, Nuovo Studio Tecna Edizioni 2006, “Chi è l’assassino - Diario di una criminologa”, Mondadori 2012, e “Segreti di famiglia - Il delitto di Sarah Scazzi”, Aracne Editrice 2013.” Complimenti all’autore. Questi articoli non saranno mai censurati ed avranno la gratitudine delle beneficiaria!!
Invece la giornalista Ilaria Cavo rischia processo per diffamazione con Misseri. La Procura di Taranto ha chiesto il rinvio a giudizio per la neoassessore della giunta Toti in Liguria, ex di Mediaset, dopo una denuncia presentata dalla criminologa Roberta Bruzzone e dell'avvocato Daniele Galoppa, scrive Francesco Casula il 17 luglio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Il pubblico ministero Mariano Buccoliero ha chiesto il rinvio a giudizio per Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset e da poco nominata assessore regionale dal governatore della Liguria, Giovanni Toti, con deleghe alla Comunicazione istituzionale, politiche giovanili, scuola cultura, sport e pari opportunità. La giornalista, entrata in politica alle ultime consultazioni regionali con la lista di Forza Italia, è accusata di diffamazione nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa, ex difensore di Michele Misseri, lo zio di Sarah Scazzi, uccisa e gettata in un pozzo di Avetrana il 26 agosto 2010. La famosa criminologa Roberta Bruzzone, ha dichiarato sul settimanale Giallo che a carico delle donne esistono prove schiaccianti e nulla e nessuno potrà evitare il carcere a vita a madre e figlia. 'La perizia sui telefonini, che doveva scagionare Cosima, ha aggravato la sua posizione e le sue lacrime in aula non serviranno ad evitare un'altra condanna', queste sono le parole pronunciate dalla Bruzzone, che pesano come macigni sulle due donne. Il rinvio a giudizio è stato chiesto anche per lo stesso Misseri, accusato di calunnia nei confronti dei due professionisti. Secondo la procura ionica, il contadino di Avetrana avrebbe formulato accuse nei confronti del suo difensore e della consulente affermando di essere stato spinto a incolpare la figlia Sabrina, indagata in seguito alle sue confessioni e poi condannata all’ergastolo per omicidio insieme alla madre Cosima Serrano al termine del processo di primo grado. Nei confronti della Cavo l’accusa è invece quella di aver rilanciato le accuse dello zio di Avetrana, condannato in primo grado a otto anni di reclusione per la soppressione del cadavere di Sarah. L’uomo però, da tempo continua ad affermare di essere l’unico responsabile della morte della 15enne e di aver accusato la figlia Sabrina solo perché indotto a farlo Una versione che scatenato l’ira di Galoppa e della criminologa Bruzzone che sono così passati alla vie legali. Nel procedimento penale, inoltre, il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito ha concesso all’avvocato Galoppa e alla consulente Bruzzone di citare come responsabili civili la Rai, la Rti per Mediaset, le Edizioni Universo e la società Rcs per il settimanale Oggi. Nel procedimento oltre a Misseri e la Cavo è imputato per diffamazione anche l’avvocato Fabrizio Gallo. Ma questo è solo l’ultimo dei tanti rivoli giudiziari aperti a Taranto dopo il reality horror di Avetrana: la stessa Ilaria Cavo è stata assolta in un altro procedimento per l’utilizzo di materiale fotografico che sarebbe stato, secondo l’accusa iniziale, venduto da un consulente della procura. Sotto inchiesta sono finiti anche Cristiana Lodi, inviata di Porta a Porta, insieme alla parlamentare dell’allora Pdl Melania Rizzoli: durante una visita al carcere di Taranto la Lodi si presentò come assistente parlamentare e riportò poi il contenuto dell’incontro con Michele Misseri, all’epoca detenuto, in un pezzo su Libero. Entrambe hanno patteggiato sei mesi di reclusione usufruendo della sospensione della pena, la parlamentare ha poi trasformato la pena in una multa di circa 50mila euro. Ora i riflettori sono pronti a riaccendersi: il 23 luglio prossimo, infatti, la corte d’appello di Taranto si ritirerà in camera di consiglio per emettere il verdetto di secondo grado. E il gran circo mediatico tornerà con dirette ed esclusive nelle case degli italiani.
PROCESSO A MICHELE MISSERI ED ILARIA CAVO.
Nuovo processo per Michele Misseri, l’agricoltore di Avetrana coinvolto nei processi per l’uccisione della nipote Sarah Scazzi, per il cui assassinio sono state condannate all’ergastolo la figlia Sabrina e la moglie Cosima Serrano (in primo grado con conferma in secondo). Il gup del Tribunale di Taranto, Valeria Ingenito, il 10 settembre 2015 ha rinviato a giudizio Michele Misseri (già condannato anche in appello a 8 anni di reclusione per soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi) con l'accusa di calunnia nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. La professionista è stata consulente di parte nel processo per l’omicidio mentre il legale è stato difensore dello stesso Misseri, che inizialmente confessò l’omicidio della ragazzina per poi addossare le responsabilità a sua figlia Sabrina. Insieme con Misseri, che risponderà di calunnia, sono finiti sotto processo per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista Ilaria Cavo, accusati di aver fatto da “sponda” in qualche maniera alle accuse lanciate da Misseri nei confronti dell’avvocato Daniele Galoppa e della dottoressa Roberta Bruzzone, rispettivamente ex legale ed ex consulente dello stesso Misseri. La giornalista di Mediaset Ilaria Cavo, attuale assessore alla Comunicazione e alle Politiche giovanili della Regione Liguria, avrebbe rilanciato le versioni di Misseri attraverso servizi televisivi. Il contadino di Avetrana, quando è tornato ad accusarsi dell’omicidio, ha sostenuto di essere stato in qualche modo indotto da Bruzzone e Galoppa a tirare in ballo sua figlia Sabrina (condannata in primo e secondo all’ergastolo, come sua madre Cosima Serrano). Il rinvio a giudizio, con processo fissato per l’1 dicembre 2015, è stato disposto dal gup dottoressa Valeria Ingenito. Lo stesso gup aveva a suo tempo autorizzato la citazione, come responsabili civili delle società «Rai», «Rti» per “Mediaset”, «Edizioni Universo», ed «Rcs» per il settimanale “Oggi”. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, sia la giornalista che l’opinionista-Mediaset avrebbero espresso opinioni che avrebbero fatto sorgere dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. Il primo, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa, come si ricorderà, era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri.
Calunniò la Bruzzone e Galoppa: chiesti 4 anni per "zio Michele". A giudizio anche Ilaria Cavo e un penalista romano. Quattro anni di carcere per Michele Misseri, che deve rispondere di calunnia, e il minimo della pena prevista, un anno, per i due suoi coimputati: la giornalista Ilaria Cavo e l’avvocato, Fabrizio Gallo che rispondono di diffamazione, scrive Giovedì 14 Giugno 2018 "IlQuotidianodipuglia.it". Sono queste le richieste formulate dall'accusa, affidata al pubblico ministero Mariano Buccoliero, nel processo che vede come principale imputato lo zio di Sarah Scazzi, già rinchiuso nel carcere di Lecce dove sta scontando otto anni per la soppressione del corpo della nipote Sarah Scazzi, uccisa a soli 15 anni. Il contadino di Avetrana è finito sotto processo per aver accusato il suo ex avvocato, Daniele Galoppa, e la criminologa Roberta Bruzzone, di averlo entrambi costretto ad accusare la figlia Sabrina Misseri dell’uccisione di Sarah, delitto di cui in un primo momento lo stesso Michele si era addossato ogni colpa. Gli altri due imputati, l’ex giornalista ora assessore della Regione Liguria e il penalista romano, già difensore per un breve periodo di Misseri, avrebbero messo in dubbio la correttezza di Galoppa e Bruzzone avallando la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto ad alterare la verità dei fatti. A querelare tutti erano stati la stessa Bruzzone e Galoppa, ora parte lesa nel processo, i quali hanno già anticipato di voler intentare un’azione risarcitoria in sede civile. La nota criminologa era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri. Il giudice del Tribunale di Taranto dove si svolge il processo, Elvia Di Roma, ha fissato la prossima udienza per il 3 ottobre.
Sarah Scazzi. Processo a Michele Misseri. Calunnia sì o calunnia no?
Bruzzone, Galoppa ed i giudici di Taranto contro Michele Misseri. Chi si pensa che vincerà?
La risposta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande di Avetrana, ha seguito il caso sin dall’inizio e sulla vicenda ha scritto ben tre libri e pubblicato decine di video.
Nel corso dell’udienza che si è tenuta il 15 giugno 2016 nel Tribunale di Taranto relativa al processo che vede imputato Michele Misseri accusato di calunnia nei confronti della Dott.ssa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa, è stato ascoltato soltanto l’ex legale dello zio di Avetrana, Galoppa, scrive Rossella Ricchiuti su TVMed. Entrambi sono stati accusati da Misseri di averlo indotto ad incolpare Sabrina dell’omicidio di Sarah Scazzi. La criminologa, che è stata consulente di parte nel processo per l’assassinio dell’adolescente, sarà sentita a gennaio 2017. Sono imputati per diffamazione anche la giornalista Ilaria Cavo e l’avvocato Fabrizio Gallo, ed è stato proprio quest’ultimo a richiedere il rinvio per legittimo impedimento perché si trovava a Roma ed era impossibilitato a raggiungere il Tribunale di Taranto.
Nel corso dell’udienza la difesa ha provato a chiedere una perizia psichiatrica su Michele Misseri sostenendo che, quando l’uomo aveva accusato in aula e nei programmi televisivi l’avvocato e la consulente era incapace di intendere e volere. Il giudice Di Roma ha respinto la richiesta. Il processo è quello che vede imputato Michele Misseri per le accuse rivolte alla Dott.ssa Roberta Bruzzone e all'avvocato Daniele Galoppa. La sede è il Tribunale di Taranto, aula E, scrive ancora TVMed. Lo zio di Avetrana, condannato in appello a 8 anni di reclusione per soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi, è accusato di calunnia nei confronti della criminologa e del suo ex avvocato, ormai noti volti televisivi. La Bruzzone è stata consulente di parte nel processo per l'omicidio dell'adolescente, mentre il legale è stato difensore di Misseri. Il contadino di Avetrana, che aveva subito confessato l'assassinio, aveva poi cambiato versione tirando in ballo sua figlia Sabrina, poi condannata all'ergastolo in primo e secondo grado, per poi ritrattare ed a riconfermare da sempre la prima versione. Entrambi sono stati accusati dal contadino di Avetrana proprio di averlo indotto ad incolpare Sabrina dell'omicidio di Sarah Scazzi.
Nel processo di Taranto con l’accusa di calunnia troviamo da una parte l’avvenente criminologa mediatica nazionale, Roberta Bruzzone, e Daniele Galoppa, primo difensore di Michele Misseri, che nelle dichiarazioni in tv (a pagamento come da lui sostenuto) ha sempre spronato questi a dire “la verità”. Facoltà, però, questa, propria della Procura e non della difesa. Questi negano di aver influito sulle volontà dello zio di Avetrana nell’accusare la figlia Sabrina dell’omicidio della povera Sarah Scazzi. D'altronde i giudici togati e popolari dei collegi delle Corti di Assise di primo e secondo grado di Taranto hanno creduto ai due. Di contro troviamo il semplice contadino dell’omertosa Avetrana, spalleggiato da alcuno. La sua parola contro la loro vale zero, tanto meno se la loro parola è suffragata dalle precedenti Corti. Tuttavia la logica qualche dubbio lo pone. Come è possibile che sia più credibile una versione rispetto a tante altre antitetiche e si nega che essa sia stata resa non nel pieno delle facoltà o comunque influenzate da farmaci o promesse? I farmaci o la promessa di limitare i danni alla figlia Sabrina sono validi motivi per credere alla versione di Michele Misseri e degni di nota per far venir meno il rancore di Cosima e Sabrina (moglie e figlia) nei confronti di Michele. Purtroppo, dai processi già svolti, dai giudici e dai media si è deciso che Michele è un bugiardo e Cosima e Sabrina delle assassine, ed a questo non si può rimediare, specie a Taranto che per le sole motivazioni, tra il primo grado ed il secondo, ti fanno aspettare circa due anni. Specie a Taranto dove si giudicano gli avvocati locali per essersi proposti, mentre l'omertà cala per gli avvocati forestieri non eccelsi come Franco Coppi, tanto da essere conosciuti e chiamati, e che, stranamente, sono nominati ed appaiono in tutti i processi mediatici.
Ed allora se condanna deve essere, condanna sia, evitandoci una inutile perdita di tempo e di spreco di denaro pubblico.
Calunnia contro Bruzzone e Galoppa, Misseri torna in aula, scrive il Quotidiano di Puglia l'8 giugno 2017. Michele Misseri è tornato ieri mattina in un’aula del Tribunale. Lo zio di Sarah Scazzi si è presentato all’udienza del processo che lo vede imputato per calunnia ai danni della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. Il processo, infatti, ieri ha vissuto una nuova tappa con i riflettori puntati sulla mattina del 15 ottobre del 2010. Quel giorno Misseri consegnò alle indagini sul delitto di Avetrana un altro colpo di scena. Una settimana prima aveva ammesso di essere l’assassino di Sarah. Ma quella mattina, dopo un sopralluogo nel suo garage, tirò sulla scena del delitto, per la prima volta, la figlia Sabrina Misseri. Una versione che zio Michele ha successivamente ritrattato accusando la criminologa e il suo ex difensore, che lo hanno denunciato e si sono costituiti arte civile in giudizio. Ieri il giudice ha acquisito la deposizione di uno degli infermieri del carcere di Taranto che ha testimoniato sulla terapia a cui Misseri era sottoposto in carcere e sulla mancata assunzione di farmaci. Sul punto, nella prossima udienza del 5 luglio, testimonierà anche un ufficiale della polizia penitenziaria. Oltre a Misseri a giudizio, per diffamazione, ci sono anche l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista Ilaria Cavo. I due professionisti sono accusati di aver fatto da “sponda” in qualche maniera alle accuse lanciate da Misseri contro l’avvocato Galoppa e la criminologa Bruzzone.
Difesa di Ilaria Cavo e di RTI valuta azioni legali dopo dichiarazioni dell'avvocato Gallo. Caso Misseri, processo per diffamazione: la difesa di Ilaria Cavo e di RTI pronta a valutare natura diffamatoria delle dichiarazioni dell'avvocato Fabrizio Gallo, scrive il 5 luglio 2017 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Poco più di un anno fa, nel giugno 2016, presso il Tribunale di Taranto ha preso il via il processo che vede imputato Michele Misseri con l'accusa di calunnia nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. Entrambi furono accusati da Misseri di essere stato da loro indotto a dare la colpa del delitto della nipote Sarah Scazzi alla figlia Sabrina Misseri. La criminologa è stata consulente di parte nel processo per l'omicidio della 15enne di Avetrana, mentre Galoppa fu l'ex avvocato difensore di Michele. Oltre a Misseri risultavano imputati per diffamazione anche la giornalista Mediaset Ilaria Cavo e l’avvocato Fabrizio Gallo. Nell'udienza del 15 giugno dello scorso anno, come ricorda Affariitaliani.it, la difesa aveva provato a chiedere la perizia psichiatrica su Michele Misseri, sostenendo che quando il contadino accusò in aula e in alcuni programmi tv l'avvocato Galoppa e la criminologa Bruzzone, in realtà fosse incapace di intendere e di volere. Richiesta che tuttavia vide la bocciatura del giudice Di Roma. Nella giornata di oggi, a prendere la parola in aula nell'ambito del medesimo procedimento in corso davanti al Tribunale di Taranto è stato l'avvocato Fabrizio Gallo, coimputato del reato di diffamazione aggravata ai danni dell'avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone. A tal proposito, con un comunicato ufficiale di Cologno Monzese, proprio in merito alle dichiarazioni rese nel corso dell'udienza la difesa di Ilaria Cavo e di RTI ha fatto sapere che si riserva di "valutare la natura diffamatoria e/o calunniosa delle affermazioni proferite oggi in aula, senza trascurare nessuna iniziativa giudiziaria", al fine di tutelare l’immagine della stessa Cavo e le testate del Gruppo Mediaset.
Taranto, Gilletti depone come testimone al processo per calunnia contro lo zio di Sarah Scazzi. Il conduttore televisivo ascoltato su richiesta della difesa ed ha riferito su dichiarazioni rilasciate da Michele Misseri nel corso della trasmissione l'Arena, scrive il 7 marzo 2018 "La Repubblica". Il giornalista e conduttore televisivo Massimo Giletti è stato ascoltato come testimone dal Tribunale di Taranto nel processo in cui sono imputati Michele Misseri, l'ex giornalista Mediaset Ilaria Cavo (ora assessore della Regione Liguria) e l'avvocato romano Fabrizio Gallo. Il contadino di Avetrana, già condannato a 8 anni per soppressione di cadavere nel processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, risponde di calunnia; Cavo di diffamazione ai danni della criminologa Roberta Bruzzone e dell'avvocato Daniele Galoppa, ex difensore dello stesso Misseri, mentre l'avvocato Gallo risponde di diffamazione. Giletti è stato ascoltato su richiesta della difesa ed ha riferito su dichiarazioni rilasciate da Misseri nel corso della trasmissione l'Arena. Secondo l'accusa, Michele Misseri avrebbe calunniato il suo ex difensore e la criminologa, affermando di essere stato da loro spinto a incolpare la figlia Sabrina, indagata in seguito alle sue dichiarazioni e poi condannata con sentenza definitiva all'ergastolo per omicidio insieme alla madre Cosima Serrano. Nei confronti della ex giornalista Mediaset l'accusa è quella di aver rilanciato, attraverso la televisione, le accuse del contadino di Avetrana. Il processo è stato aggiornato al 4 aprile prossimo, quando sarà ascoltato l'avvocato Francesco De Cristofaro, ex legale di Misseri. Per il 30 maggio è stata fissata la requisitoria e la discussione delle parti civile. Il 13 giugno arringhe, camera di consiglio e sentenza.
Accuse false a Galloppa e Bruzzone: condanna a tre anni per "zio Michele", scrive Mercoledì 7 Novembre 2018 Il Quotidiano di Puglia. Tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che hanno configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone: è la condanna inflitta a "Zio Michele", ovvero l'agricoltore di Avetrana Michele Misseri, zio di Sarah Scazzi (difeso dall’avvocato Ennio Blasi). Insieme con Misseri erano sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista televisiva Ilaria Cavo. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbero espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. L’avvocato Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina (condannata all’ergastolo insieme con la madre Cosima Serrano). Secondo la procura della Repubblica, sia l’avvocato Gallo che la giornalista, in modi e attraverso interventi differenti, avrebbero avallato la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto dai due professionisti ad alterare la verità dei fatti. Gallo è stato condannato a una multa di 800 euro. Assolta dall’accusa Ilaria Cavo.
Avetrana, Ilaria Cavo assolta dall'accusa di diffamazione: il fatto non sussiste, scrive mercoledì 7 novembre 2018 Primocanale.it. La giornalista di Mediaset e oggi assessore alla cultura, istruzione e formazione della Regione Liguria Ilaria Cavo è stata assolta con formula piena (perché il fatto non sussiste) dal reato di diffamazione aggravata nell'ambito del cosiddetto processo "Avetrana bis" che ha visto imputato per calunnia e autocalunnia Michele Misseri, condannato oggi a tre anni. L'accusa nei confronti di Cavo era quella di aver diffamato la psicologa forense Roberta Bruzzone e l'avvocato Daniele Galoppa per una frase pronunciata durante una puntata della trasmissione televisiva Pomeriggio 5. Cavo, assistita dall'avvocato Salvatore Pino del foro di Milano, si era sottoposta a interrogatorio presso il tribunale di Taranto. "Ero certa della correttezza del mio intervento e della serietà del lavoro da cronista svolto sul caso di Avetrana - ha detto stasera Cavo -. La assoluzione di oggi è piena e è il riconoscimento di tutto questo. Si chiude così, con una sentenza netta, il procedimento nei miei confronti nato da una denuncia dell'ex avvocato di Michele Misseri, Daniele Galoppa, e della criminologia Roberta Bruzzone. Risale a quando, come giornalista di Mediaset, seguivo il caso di Avetrana. Avevano provato a mettere in dubbio la correttezza. Dopo due anni il riconoscimento di serietà e professionalità. Un grazie all'avvocato Salvatore Pino che mi ha seguito e dato poco fa la notizia".
Omicidio di Sarah Scazzi, pena ridotta per zio Michele. Le motivazioni della condanna che è stata inflitta per il reato di diffamazione. Annalisa Latartara su tarantobuonasera.it lunedì 16 Dicembre 2019. L’inaffidabilità di Michele Misseri, sancita dai giudici nei tre gradi di giudizio, questa volta lo salva dalla pesante imputazione di calunnia. Malgrado la gravità delle accuse nei confronti dell’ex difensore Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone le dichiarazioni del contadino di Avetrana non possono essere ritenute calunniose ma solo diffamatorie. È quanto si legge nelle 32 pagine delle motivazioni della sentenza di appello che ha ridimensionato la condanna a 3 anni di reclusione rimediata in primo grado. Nel corso delle indagini e del processo sull’omicidio della nipote Sarah Scazzi Michele ha fornito versioni diverse, prima autoaccusandosi con moventi diversi (dal trattore che non partiva alla violenza sul cadavere), poi accusandoli in concorso con Sabrina, poi ancora addossando tutta la responsabilità a sua figlia e infine autoaccusandosi di nuovo di tutte le fasi del delitto. Ad un certo punto ha accusato il suo legale Galoppa e la sua consulente Bruzzone di averlo indotto ad accusare Sabrina. Una versione dei fatti stridente, come viene evidenziato anche nella sentenza di secondo grado, con la cronologia delle sue versioni. Infatti, Sabrina l’aveva già tirata in ballo in concorso il 15 ottobre 2010, mentre l’incontro con Bruzzone e Galoppa insieme si tenne un carcere il 5 novembre dello stesso anno. Inoltre il 19 novembre successivo ribadì le sue accuse contro la figlia spiegando l’omicidio come un incidente avvenuto durante un “gioco del cavalluccio” fra le due ragazze. Ma a far crollare l’accusa di calunnia, secondo i giudici di appello è l’assenza del dolo: “Manca la volontà dell’imputato di accusare le parti civili – ossia Galoppa e Bruzzone costituitisi parte civile nel processo per calunnia e diffamazione – posto che nei tre gradi di giudizio sull’omicidio di Sarah Scazzi i giudici si erano espressi sempre nel senso dell’inaffidabilità di Misseri e delle plurime versioni da lui narrate”. Quindi, “la mancanza di credibilità dell’imputato si riverberava anche sulle accuse rivolte all’ex difensore e all’ex consulente”. Come sottolinea nelle motivazioni depositate giovedì il giudice estensore Luciano Cavallone (presidente del collegio Antonio Del Coco, l’altro giudice a latere Andrea Lisi), l’assenza della “benché minima coscienza di ciò che stava facendo”, ossia l’esclusione del dolo sostenuta dalla difesa, per Misseri vale solo per la calunnia e non per le imputazioni di diffamazione. La Corte d’appello ritiene “indubbia la portata diffamatoria delle accuse ai due professionisti” anche in considerazione dell’interesse mediatico verso il caso Scazzi. Per questo Misseri è stato condannato a un anno e mezzo di reclusione e a versare una provvisionale di 10.000 euro, più le spese legali, a Galoppa e Bruzzone. Misseri attualmente difeso dall’avvocato Ennio Blasi di Statte, rischia un’altra condanna, questa volta per autocalunnia, a quattro anni di reclusione. Per lui come per gli altri undici imputati, fra cui Ivano Russo e altri amici di Sabrina che rispondono di falsa testimonianza, la sentenza è prevista a gennaio prossimo.
OMICIDIO SARAH SCAZZI. ROBERTA BRUZZONE: “NESSUNO GLI HA MAI RACCONTATO COME È ANDATA”. Marco Spartà su tuttomotoriweb.com il 27/08/2019. Roberta Bruzzone, nota criminologa italiana, ha espresso il proprio parere circa il coinvolgimento di Michele Misseri nell’omicidio della giovane Sarah Scazzi. Per lei, l’uomo avrebbe partecipato esclusivamente alla fase di soppressione del cadavere. La criminologa Roberta Bruzzone, in un suo commento pubblicato sul settimanale Giallo, ha voluto rimarcare la propria convinzione circa l’esclusiva colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano nell’omicidio della giovane Sarah Scazzi. La nota criminologa ha, invece, relegato ai margini della vicenda Michele Misseri, zio della vittima, nonché rispettivamente padre e marito delle due donne condannate in via definitiva per l’efferato crimine. “A mio avviso non esiste alcun dubbio, tantomeno ragionevole, sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano in relazione al delitto di Sarah Scazzi” così esordisce su Giallo la nota criminologa Roberta Bruzzone. “E ci sono – prosegue – a oggi, considerando l’intera inchiesta, almeno una trentina di magistrati che l’hanno pensata esattamente come me, compresi i giudici della Corte di Cassazione che hanno confermato entrambe le condanne all’ergastolo nel febbraio del 2017. Non ci sarà mai modo di arrivare a una conclusione diversa e nulla e nessuno potrà modificare quanto è stato sancito dai tre gradi di giudizio“. Per la criminologa non ci sono dubbi, Michele Misseri avrebbe partecipato esclusivamente alla fase di soppressione del cadavere della giovane Sarah nel pozzo di Nardò: “Lui non ha avuto alcun ruolo nel delitto ed è questa la principale ragione per cui Misseri non è mai riuscito a fornire una versione coerente di quanto accaduto durante l’omicidio“. La Bruzzone ha poi concluso il suo commento dicendo: “ Lui non c’era e nessuno gli ha mai raccontato fino in fondo com’è andata“. Una spiegazione logica e coerente che eliminerebbe ogni dubbio in ordine al motivo degli innumerevoli cambi di versione forniti di Michele Misseri, poi per tale ragione finito anche sotto processo per calunnia ed autocalunnia. Il contadino di Avetrana aveva, infatti, accusato il suo ex avvocato Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone di averlo indotto a chiamare in causa la figlia Sabrina che lui, in un primo momento, accusò di avere ucciso Sarah. Successivamente Misseri si autoaccusò, per poi puntare nuovamente il dito contro sua figlia, finendo per perdere ogni sorta di credibilità.
Roberta Bruzzone età, altezza, peso, vita privata e carriera: tutto sulla criminologa italiana, scritto da Marilena De Angelis IL 27 Agosto 2019 SU Urban Post. Nella puntata di oggi, 27 agosto 2019, di Io e te, programma pomeridiano di Rai 1 condotto da Pierluigi Diaco, sarà ospite la criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone. La Bruzzone è conosciuta grazie alla partecipazione a diversi programmi che si occupano di cronaca nera. Roberta è abile nel suo mestiere e ogni volta riesce a dare un quadro chiaro della situazione e della vicenda anche ai non addetti ai lavori. Ma chi è davvero Roberta Bruzzone? Quanti anni ha? È sposata? Ha dei figli? Ecco tutte le curiosità sulla sua vita privata e sulla sua carriera da criminologa.
La vita privata di Roberta Bruzzone. Roberta Bruzzone è nata a Finale Ligure il 1º luglio 1973 ed è un personaggio televisivo, opinionista e psicologa forense italiana. Ha 46 anni, è alta 168 cm e pesa circa 62 Kg. È del segno zodiacale del Cancro. Ha due fratelli gemelli. Le sue caratteristiche sono: capelli lunghi biondi e sguardo glaciale e super attento. Psicologa forense, è divenuta nota principalmente per il suo coinvolgimento nelle indagini sul delitto di Avetrana. La Bruzzone, inoltre, è stata consulente anche per altri casi di cronaca nera, fra cui la strage di Erba. Ha avuto incarichi a contratto presso la Libera Università Mediterranea “Jean Monnet” di Casamassima e l’Università degli studi “Niccolò Cusano” telematica di Roma. Roberta ama la velocità e soprattutto le moto, la prima le fu regalata da sua nonna a 12 anni. Per quanto riguarda la sua vita sentimentale, Roberta è stata sposata dal 2011 al 2015 con Massimiliano Cristiano. Dal 2017 è sposata con Massimo Marino. La Bruzzone non ha avuto figli.
La sua carriera. Roberta Bruzzone si è fatta conoscere per il suo coinvolgimento nelle indagini sul delitto di Avetrana, quando le fu affidato il ruolo di consulente della difesa di Michele Misseri. In seguito fu chiamata a testimoniare proprio contro Misseri, dichiarando che l’uomo durante un colloquio in carcere aveva accusato dell’omicidio la propria figlia Sabrina. La Bruzzone, poi, dal 2008 è ospite fissa nell’ambito delle puntate dedicate alla cronaca nera del programma di Rai 1 Porta a porta. Roberta, inoltre, è stata autrice e conduttrice della trasmissione La scena del crimine, andata in onda sulla rete locale GBR – Teleroma 56, nonché conduttrice di Donne mortali, andata in onda per tre edizioni su Real Time. Nel 2012 ha pubblicato il libro Chi è l’assassino. Diario di una criminologa, edito da Mondadori. Dal 2017 è opinionista del programma di varietà Ballando con le stelle.
Diffamazione, condannato Michele Misseri. Quotidianodipuglia.it Giovedì 28 Novembre 2019. La Corte d’appello di Taranto ha riformato la sentenza a carico di Michele Misseri, padre e marito rispettivamente di Sabrina e di Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. In primo grado, tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che avevano configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone, erano stati inflitti a carico all’agricoltore di Avetrana. In appello, la Corte ha ritenuto di assolvere Misseri dal reato di calunnia nei confronti del suo ex legale e della ex consulente. Tuttavia lo ha condannato per il reato di diffamazione a carico di entrambi, infliggendogli la pena di un anno e sei mesi di reclusione. Insieme con Misseri era sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo, in primo grado condannato a una multa di ottocento euro. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbe espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. La Corte d’appello ha dichiarato il non doversi procedere a carico di Gallo, in ordine alla diffamazione della Bruzzone per assenza della querela; mentre lo ha condannato a una multa di 700 euro per aver diffamato Galoppa. Quanto all’avvocato Galoppa, la Corte d’appello ha accolto il suo ricorso ed ha condannato sia Misseri che Gallo a pagare una provvisionale di 10mila euro ciascuno a titolo di “danno morale” patito. Daniele Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina. Proprio in virtù di questo fatto, le due parti offese avevano attivato una denuncia per calunnia. Reato, questo, che il tribunale, in primo grado, aveva ritenuto integrato dalle dichiarazioni di Michele Misseri. Con questa sentenza della Corte d’appello, si chiude il secondo grado di giudizio sulla vicenda, che costituì una ulteriore appendice del maxi-procedimento aperto sull’omicidio di Sarah Scazzi. Altri procedimenti, infatti, si innestarono all’interno della maxi-indagine aperta dal pm dottor Mariano Buccoliero sulla uccisione della povera Sarah, e poi del processo in Corte d’assise in cui alcuni testi, secondo l’accusa, si macchiarono di falsa testimonianza.
Accuse false a Galloppa e Bruzzone: condanna a tre anni per "zio Michele". Quotidianodipuglia.it Mercoledì 7 Novembre 2018. Tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che hanno configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone: è la condanna inflitta a "Zio Michele", ovvero l'agricoltore di Avetrana Michele Misseri, zio di Sarah Scazzi (difeso dall’avvocato Ennio Blasi). Insieme con Misseri erano sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista televisiva Ilaria Cavo. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbero espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. L’avvocato Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina (condannata all’ergastolo insieme con la madre Cosima Serrano). Secondo la procura della Repubblica, sia l’avvocato Gallo che la giornalista, in modi e attraverso interventi differenti, avrebbero avallato la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto dai due professionisti ad alterare la verità dei fatti. Gallo è stato condannato a una multa di 800 euro. Assolto dall’accusa Ilaria Cavo.
Storie Maledette, Roberta Bruzzone: “Il racconto di Franca Leosini non somiglia a quello reale. E mi aspettavo sobrietà sulle scelte lessicali”. La criminologa non ha affatto gradito le due puntate della trasmissione di Rai 3 Storie Maledette, condotta da Franca Leosini, dedicate al processo che ha condannato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, entrambe intervistate nel corso della trasmissione, all'ergastolo per aver ucciso l'allora 15enne Sarah Scazzi, scrive Giulio Pasqui il 19 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Apprezzamento quasi unanime sui social per il programma Storie Maledette, non condiviso però da Roberta Bruzzone. “Ma la Leosini cosa si è letta prima di fare queste interviste?Siccome questa storia la conosco particolarmente bene, ho gli strumenti per dire che purtroppo il racconto reso non assomiglia a quello reale”. La criminologa non ha affatto gradito le due puntate della trasmissione condotta da Franca Leosini, dedicate al processo che ha condannato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, entrambe intervistate nel corso della trasmissione, all’ergastolo per aver ucciso l’allora 15enne Sarah Scazzi. “Ho visto entrambe le puntate dedicate alla vicenda e avendo studiato approfonditamente gli atti e le tre sentenze di condanna, avendo fatto parte dell’inchiesta e avendo partecipato al processo come testimone dell’accusa devo dirle che nelle carte ho letto proprio un’altra storia. Tanti aspetti davvero interessanti e importanti, contenuti nelle sentenze, non sono state portate all’attenzione o sono stati citati in maniera impropria. Non è il mio lavoro fare le pulci a Franca Leosini: dovrei dedicarci due o tre giorni di lavoro perché le imprecisioni sono davvero tante e ho ben altro da fare”, si sfoga la criminologa a ilfattoquotidiano.it. “Perlomeno andava concesso un contraltare (un avvocato o un esponente della famiglia di Sarah), altrimenti il prodotto finale diventa squilibrato. Conoscendo la signora Concetta Serrano, madre di Sarah, credo che per lei sia stato davvero straziante. A differenza di altre volte in cui ho avuto modo di apprezzare Franca Leosini, stavolta non ci siamo proprio. La storia è proprio un’altra. Le persone che non hanno letto niente e hanno capito ancora meno, si sono lasciate suggestionare e ora sono convintissime che ci siano due innocenti in carcere quando la vicenda ha ampiamente dimostrato che è il contrario. Non che conti granché, perché le assoluzioni o le condanne non si danno con il numero di like. Però ritengo un po’ pericolose le trasmissioni impostate così”, continua la Bruzzone. Qualcuno contesta: l’obiettivo della Leosini è indagare sulla psicologia dell’intervistato e non ricostruire i fatti: “Se devi indagare sulla psicologia, lo devi fare attraverso i fatti contestati e riconosciuti da tre atti di giudizio. Poi il programma è suo e faccia quel che vuole, ma lo trovo discutibile”. Bruzzone non ha neanche apprezzato certi vezzi linguistici della conduttrice idolatrata dal popolo del web ed eletta a icona. “Mi permetta: dopo il “ditino birichino” di Rudy Guede, mi aspettavo una maggiore sobrietà. Alcuni passaggi e alcune scelte lessicali le ho trovate discutibili, considerato che è morta una ragazzina di 15 anni. “Ha placato gli ardori lombari”, “si è rinforcato le mutande”: ma stiamo scherzando?”. Ancora: “Trovo stucchevole anche fare certe affermazioni culturali o certe citazioni complesse davanti a una ragazza che con ogni probabilità non ha un’estrazione socio-culturale compatibile. Perché andare a sbandierare una cultura che questa persona non ha? Perché metterla in difficoltà? Qual è l’obiettivo?”. Il nome “Roberta Bruzzone” è stato citato nel corso della trasmissione, in quanto l’avvocato è stata consulente della difesa di zio Michele (l’uomo poi accusò la criminologa di averlo indosso a incolpare la figlia Sabrina): “La Leosini detto che ho querelato Michele Misseri per calunnia, ma il processo è già iniziato due anni fa. Un conto è dire che io ho denunciato qualcuno. Sa, le denunce possono anche finire in cavalleria con l’archiviazione. Qui invece si parla di un processo che è in fase di ultimazione perché a giugno è prevista la sentenza finale. Siccome non penso che l’intervista sia stata fatta due anni fa, andava data un’informazione corretta”. Alla Bruzzone non è andata giù una opinione diversa dal plotone di esecuzione mediatico messo su da chi aveva un interesse particolare alla fucilazione delle vittime predestinate...
"Sono napoletana e ho nel DNA squarci di ironia che chi è nato al Nord probabilmente non possiede", scrive il 20/03/2018 "Huffington Post". Franca Leosini risponde alla Bruzzone: "Ognuno ha il suo lessico: io non entro mai nel merito delle sue scelte e neanche dei programmi a cui sceglie di partecipare". Leosini non abbastanza aggiornata, Storie Maledette condita di inesattezze ed errori rispetto alla ricostruzione del delitto di Avetrana: ecco il succo delle accuse che la criminologa Roberta Bruzzone aveva lanciato dal suo account Twitter contro la trasmissione crime di Rai 3 e della sua conduttrice. Oggi a controbattere giunge Franca Leosini in persona, intervistata durante il programma radiofonico Circo Massimo di Radio Capital. La conduttrice, criticata dalla Bruzzone anche per il lessico particolarmente ricercato delle sue narrazioni, ha dichiarato: "Io non entro mai nel merito delle scelte lessicali della dottoressa Bruzzone e neanche nel merito dei programmi televisivi a cui sceglie di partecipare. Ognuno ha il suo lessico: io sono napoletana e un narratore napoletano ha nel DNA squarci di ironia che chi è nato al Nord probabilmente non possiede". La Leosini ha risposto per le rime anche alle accuse di imprecisioni ed errori. "Ho detto ed ho ripetuto che la dottoressa Bruzzone ha sporto querela contro Michele Misseri, che si è in attesa di sentenza ed esprimo rispetto. Per carità. Io non potevo di certo ricapitolare ogni singolo dettaglio del processo. Io seguo l'asse portante. Per quanto riguarda le imprecisioni, rispetto il pensiero e la sapienza di Roberta Bruzzone."
“Sabrina, parlando con lei si resta soprattutto lacerati dall’ansia di crederle ma tormentati dal dubbio se sia giusto o sbagliato crederle. Porto con me questo tormento”. Franca Leosini, Storie maledette sul caso dell’assassinio di Sarah Scazzi.
Luca Dondoni per "la Stampa" l'1 dicembre 2021. «Credo che su Rai1 e in prima serata non si fosse mai parlato di "ghosting" e mi fa piacere essere stato il primo. La verità è che bisogna maneggiare questo tema con delicatezza, evitando di farne uno strumento di polemica». Ma dove c'è Morgan c'è (spesso) polemica e le parole del musicista nella clip di presentazione di una esibizione nei panni di ballerino concorrente al programma della Carlucci sono state Ballando sulle Stelle era una semplice clip per presentare un'esibizione è diventato oggetto di dibattito. In studio alla trasmissione di Rai 1 c'era la criminologa Roberta Bruzzone, opinionista del programma. Non ha detto nulla in diretta, ma successivamente ha postato sui social: «La sofferenza per essere stati lasciati - ha scritto Bruzzone - non legittima la persecuzione di chi ha deciso di non voler avere più nulla a che fare con voi/noi. Ci sono ottimi professionisti per non diventare stalker o peggio». Il riferimento non è diretto, ma è implicito: Morgan è stato denunciato da una sua ex per stalking. La procura di Monza aveva chiesto per l'artista il rinvio a giudizio, ma le carte sono passate per competenza territoriale a Lecco. Il musicista si è sempre proclamato innocente. «La verità - è la controreplica di Morgan a Bruzzone - è che bisogna maneggiare questo tema con delicatezza, evitando di farne uno strumento di polemica. Se si contrappongono i pregiudizi ci rimette un attimo anziché aiutare le vittime di ghosting, acutizzare le drammatiche laceranti sofferenze di chi si trova devastato ad affrontare un'esperienza traumatica non prevista, spaventosa, che all'improvviso massacra una vita normale. Il ghosting può diventare una catastrofe dalla quale spesso, chi ci cade, non emergerà più». «Sabato a "Ballando con le stelle" - aggiunge ancora l'artista - ho proposto con delicatezza, poeticità, umiltà un momento di tv culturale che può essere socialmente utile. La dottoressa Bruzzone dovrebbe essere anche lei infastidita dal ghosting perché quando penso al modo in cui finiscono certi rapporti mi vengono in mente bruttissime sensazioni di violenza e di infelicità. Dico alla dottoressa Bruzzone che rimango disponibile per affrontare insieme a lei se fosse interessata il tema che possiamo chiamare la "violenza del silenzio" o ancora meglio il "silenzio punitivo del narcisista. Nessuno - conclude Morgan - giustifica chi opera dello stalking, ma ne indaga l'origine per evitarlo e prevenirlo. Nel caso del ghosting se si chiama "stalker" una persona che ha bisogno e vuole parlare con chi lo ha lasciato mentre invece non si indaga il fatto che possa essere ferito e disperato anche qui si fa un errore».
Caso Yara news, criminologa Bruzzone denuncia pagina Facebook Bossetti libero: “Istigazione alla violenza”, scrive il 6/03/2017 Michela Becciu su "Urban Post". Caso Yara news: la criminologa Roberta Bruzzone ha segnalato la pagina Facebook in sostegno di Massimo Bossetti – “Bossetti libero” – per istigazione alla violenza. Ecco il lungo post su Facebook pubblicato nelle scorse ore dalla nota dottoressa: “Amici occorre la collaborazione di tutti per far cancellare la pagina “Bossetti Libero”, una vera e propria istigazione alla violenza che ormai non conosce limite…le ultime minacce di morte sono state rivolte (oltre a me, che ho più volte denunciato la cosa e la magistratura sta facendo il suo lavoro) anche ai magistrati che si sono occupati del caso della piccola Yara..segnalate la pagina a FB e passate parola il più possibile…solo così riusciremo a cancellare quel vero e proprio “vomitatoio” di squilibrio mentale…l’istigazione alla violenza non è tollerabile…”. Sulla pagina – seguita da più di 12mila persone – campeggia questa frase nella immagine di copertina: “Appena uccisa Yara, a Brembate si mormorava che il mostro fosse in palestra e fosse donna. La procura non ha mai indagato quella palestra. Oggi non si mormora, ma tutti sanno chi è l’assassina. Ed è ancora in palestra”. Evidenti le accuse alla Procura di Bergamo che ha condotto le indagini sull’omicidio della 13enne di Brembate, e inequivocabili i riferimenti e le accuse ad una non meglio specificata presunta assassina che frequenterebbe la palestra frequentata anche dalla vittima.
Pagina Facebook Bossetti libero: duri attacchi ai giudici. Sulla pagina Facebook a favore del muratore di Mapello, che da sempre dichiara dal carcere la sua innocenza e si prepara al processo d’Appello, pesanti accuse ai giudici che lo hanno condannato in primo grado all’ergastolo: “Forse sono troppo umano, troppo intelligente, troppo superiore a lumache ossigenate e sorci di fogna” – si legge nella pagina ‘Bossetti libero’ – “ma a vedere queste immagini non riesco a fregarmene come loro, mi viene da pensare che una rivoluzione non sarebbe nemmeno tanto sbagliata… coi forconi andare a prendere certe giudicesse e mandarle al cospetto di Dio…”. Quasi una istigazione a compiere reati.
E contro la criminologa Bruzzone parole che definire insulti sarebbe riduttivo: “Forse Sgarbi la chiamava lumaca per il viscidume… leggete cosa diceva appena catturato Bossetti… era iper garantista col povero muratore… poi la difesa ha scelto un criminologo vero (Denti) e lei è diventata la peggior forcaiola dell’emisfero boreale la lumaca mannara!”.
Caso Yara, Massimo Bossetti e le clamorose rivelazioni fatte dalla madre: “Io inseminata a mia insaputa”. La madre di Massimo Bossetti, Ester Arzuffi, qualche settimana fa ha rilasciato delle dichiarazioni clamorose alla trasmissione di LA7 ‘Bianco e Nero’, che faranno discutere a lungo: “Conoscevo Giuseppe Guerinoni perché mi portava al lavoro quasi tutti i giorni. Successe tra il 1966 e il mese di marzo del 1967. Bossetti è nato il 28 ottobre 1970, cioè oltre tre anni dopo. Lo so che la scienza non sbaglia, ma io non sono mai stata con Guerinoni. Ve lo giuro. Non ho fatto nulla con lui, non ci sono andata nemmeno in “camporella”. Scusate il termine… Sono sincera, è così, non dico bugie” – queste le parole della Arzuffi a ‘Bianco e Nero’ – “Certo, se non ho avuto rapporti con Guerinoni, qualcosa il mio ginecologo può darsi che abbia fatto. Mi spiego la cosa solo con la procreazione medicalmente assistita, a cui sarei stata sottoposta in maniera inconsapevole”. Esternazioni, queste, che ora sono al vaglio dei difensori del carpentiere, come confermato dall’avvocato Salvagni a Quarto Grado: “Noi non scartiamo nulla, non ho una supponenza intellettuale. Io credo che non si debba fare della facile ironia: guardi, la Procura ha indagato anche sui cartomanti e i maghi, dico soltanto questo. Quindi non mi sento di fare dell’ironia su quello che ha dichiarato la signora Ester”.
Dopo la denuncia della pagina da parte della Bruzzone, la notizia ha avuto una grande risonanza mediatica e l’amministratore si è palesato con un messaggio.
LA BRUZZONE: UOMINI E QUERELE.
Roberta Bruzzone età, marito, figli, altezza, peso: tutto sulla criminologa, scrive Tony Stallone il 25 febbraio 2017. Roberta Bruzzone ha 43 anni, è nata a Finale Ligure il 1° luglio del 1973. È una criminologa e psicologa forense ed è diventata anche un personaggio televisivo per il ruolo di opinionista che svolge in alcune trasmissioni tv fra cui Porta a Porta, con cui collabora assiduamente, dove è chiamata ad esprimersi sui casi di cronaca giudiziaria più efferati ed emblematici degli ultimi anni. Alta 1 metro e 68 centimetri, pesa 62 chilogrammi; è divorziata ma in ottimi rapporti con il suo ex marito Massimiliano: quando i due hanno celebrato il divorzio, lei ha pubblicato uno scatto sui social che li vedeva brindare, con scritto “Chiudere una storia importante in maniera civile si può”. Attualmente, l’esperta non ha figli ed è fidanzata con Massimo, funzionario della Polizia di Stato; ha annunciato che lo sposerà a luglio del 2017 nel corso di un’intervista a Domenica In dello scorso anno. Bruzzone si è laureata in Psicologia clinica con il massimo dei voti presso l’Università degli Studi di Torino ed è una criminologa, psicologa forense ed investigativa molto affermata. Dopo diverse specializzazioni in Italia, ha conseguito degli importanti titoli anche negli Stati Uniti ed ha collaborato con prestigiosi studi legali, occupandosi di casi di grande impatto mediatico. E’ stata ed è spesso ospite di alcuni talk show che si occupano di cronaca, primo fra tutti Porta a Porta, e così è arrivata alla popolarità e all’affermazione sul grande pubblico. In tv ha anche presentato per tre edizioni il programma-documentario Donne Mortali sull’emittente di Discovery Real Time. Qualche anno fa Roberta ha avuto delle questioni con un suo ex fidanzato per alcuni atti che lui avrebbe compiuto contro di lei: la vicenda fece molto discutere e si trascinò in tribunale. Nel 2015 fece molto scalpore la divertente imitazione della comica Virginia Raffaele all’interno delle trasmissioni Amici di Maria De Filippi e C’è posta per te: Bruzzone non gradì molto e minacciò querele che poi fortunatamente non presentò anche grazie alla ‘mediazione’ dell’amico Bruno Vespa. Dal 25 febbraio 2017 la criminologa è impegnata in qualità di giudice speciale nel varietà del sabato sera di Rai1 Ballando con le stelle 12.
Roberta Bruzzone, la criminologa si è sposata: chi è il marito Massimo, scrive Antonella Latilla l'1 luglio 2017. Roberta Bruzzone si è sposata. Per la popolare criminologa si tratta del secondo matrimonio: qualche anno fa ha divorziato dal primo marito Massimiliano. L’opinionista di Ballando con le Stelle è ora diventata la moglie di Massimo, un funzionario della Polizia di Stato. La coppia si è conosciuta tre anni fa ad una cena con amici in comune ed è subito scattato il colpo di fulmine da entrambe le parti. Roberta e Massimo sono convolati a nozze venerdì 30 giugno sulla spiaggia di Fregene. Dopo il rito civile, gli sposi hanno organizzato un party sulla spiaggia al quale hanno preso parte parecchi invitati. I neo coniugi amano molto il mare e per questo hanno deciso di sposarsi nella località balneare vicino Roma. Il marito di Roberta Bruzzone si chiama Massimo, ha 47 anni ed è un funzionario della Polizia. Prima del matrimonio i due hanno vissuto diversi mesi lontani per via del lavoro dell’uomo. Quest’ultimo ha infatti lavorato a Kabul, nell’ambasciata italiana in Afghanistan, con un incarico speciale: quello della lotta al traffico di droga. Massimo è ora rientrato in Italia, gli è stato assegnato un nuovo incarico a Roma, dove potrà abitare senza problemi insieme alla neo moglie. Nella Capitale la Bruzzone è impegnata come criminologa e psicologa forense. Da tempo è opinionista televisiva; Porta a pota, La Vita in Diretta, La Scena del Crimine, Donne Mortali sono solo alcune delle numerose trasmissioni alle quali ha preso parte. Roberta ha 44 anni, è nata a Finale Ligure il primo luglio del 1973. È alta 1 metro e 68 centimetri, pesa 62 chilogrammi ed è anche docente presso alcune università italiane. “Nell’istante stesso in cui i nostri sguardi si sono incontrati per la prima volta io ho capito che Massimo era la persona che avevo aspettato per tutta la vita, e lui a pensato di me la stessa cosa” ha dichiarato la Bruzzone al settimanale Di Più.
Roberta Bruzzone si è sposata a Fregene: “Massimo esisti solo tu, solo noi”, scrive "Ostiatv" il 2 luglio 2017. Matrimonio in riva al mare per la nota criminologa che ha coronato il suo sogno d’amore con Massimo Marino all’Ondanomala. Romantico matrimonio in riva al mare per Roberta Bruzzone, la bella criminologa, volto noto della televisione italiana, che venerdì 30 giugno ha detto sì al suo Massimo Marino, funzionario di polizia, allo stabilimento Ondanomala di Fregene. La splendida criminologa ligure, che ha conosciuto il marito ad una cena di lavoro, indossava una elegante misebianca con corpetto di pizzo e pantaloni fluidi, ha coronato il suo sogno d’amore alla presenza di pochi, selezionatissimi amici. Toccante la riflessione-dedica al marito pubblicata dalla stessa Roberta alla vigilia delle nozze sul suo profilo Facebook: “...e venne il giorno...più importante della mia vita...sposo l'uomo più incredibile che abbia mai incontrato, l'unico che abbia mai amato davvero e senza limiti....due anni in Afghanistan ci hanno unito in maniera inscindibile...ci hanno forgiato e reso in grado di affrontare qualsiasi difficoltà...insieme...per tutta la vita...gli errori del passato si sono dissolti come neve al sole...esisti solo tu...solo NOI... Massimo Marino tu sei l'unico capace di sorprendermi ogni giorno...in grado di cancellare con un sorriso il peso delle giornate più complicate che mi riserva la mia adorata professione…sono felice come mai sono stata…come mai avrei sperato di poter essere…e domani, insieme a te e a tutti i nostri amici più cari, celebreremo il nostro amore in maniera unica e speciale…ti amo…e ti amerò fino all’ultimo giorno della mia vita…un grazie speciale a tutti voi per il grande affetto che mi dimostrate sempre”.
Roberta Bruzzone sposa bis (di venerdì) sulla spiaggia di Fregene, scrive l'1 luglio 2017 "Il Secolo XIX". Roberta Bruzzone, sposa bis. Di venerdì. Fedele al suo clichè di donna tosta e controcorrente la psicologa Forense - ma anche criminologa investigativa, profiler, docente universitario, esperta in Scienze Forensi e analisi della scena del crimine, come scrive su Twitter - ha scelto un giorno inconsueto per dire «sì» al suo Massimo Marino, funzionario di polizia reduce da una missione di due anni in Afghanistan. Ma soprattutto, grande amore della bionda criminologa, nata a Finale Ligure esattamente 44 anni fa. Come regalo di compleanno, dunque: il matrimonio. In un’intervista a “Gente”, aveva raccontato: «È stato un fidanzamento tosto, in grado di mettere alla prova i sentimenti in profondità, non solo per la distanza. Per la prima volta sento di avere accanto un uomo del quale sono davvero profondamente orgogliosa. Per due volte ho vissuto in diretta telefonica con Massimo un attentato terroristico – concludendo – La paura è stata molta perché in quei momenti c’è confusione, la linea salta di continuo e tu non sai se il tuo compagno sta bene, è ferito oppure addirittura morto». Ma ora che non soltanto è tornato a casa, ma ne è diventata la moglie «orgogliosa», la criminologa di Finale è raggiante. Sempre a Gente aveva anticipato: «Verso metà giugno chiuderò l’agenda e la riaprirò a settembre. Mi aspetta un viaggio di nozze a tappe in giro per l’Italia. E poi insieme con Massimo alle Hawaii a fare kitesurf: laggiù tra le palme di Maui abbiamo fatto la nostra prima fuga d’amore da fidanzati. Ci torniamo da marito e moglie». E dopo aver (intra)visto una foto di Roberta in candido abito da sposa - in attesa del servizio completo sul settimanale gossipparo di turno o il magazine per famiglie – non resta che attendere qualche scatto della bionda criminologa che esibisce in tecniche kitesurf col neomarito. Che magari, chissà, porterà anche in Liguria...
Roberta Bruzzone: nozze bis per la criminologa più famosa d’Italia. La famosa e popolare criminologa Roberta Bruzzone, 44 anni, ha sposato in seconde nozze a Fregene il funzionario di polizia Massimo Marino, impegnato recentemente in una missione in Afghanistan, scrive il 2 luglio 2017 "News.fidelityh". La criminologa più famosa e popolare d’Italia – grazie alle frequenti interventi in televisione – Roberta Bruzzone, ha sposato il 30 giugno scorso a Fregene – località balneare in provincia di Roma – il funzionario di Polizia, Massimo Marino, che fino a qualche tempo fa è stato impegnato nelle missioni militari ed umanitarie italiane in Afghanistan. Per la criminologa e psicologa Bruzzone questo è il secondo matrimonio, avendo avuto già avuto un precedente matrimonio con Massimiliano Cristiano, da cui ha ufficialmente divorziato nel 2015. La loro unione – come scrive la stessa Bruzzone in un messaggio al futuro marito il giorno prima delle nozze sul suo profilo Facebook – non è certo stata facile, perché messa a dura prova anche dalla forzata lontananza dovuta all’impegno professionale del neo marito in Afghanistan. Ma i rapporti solidi non vengono intaccati dalla lontananza, anzi – come dice la stessa Bruzzone – ne escono ancor più solidi di prima, perché uniscono e forgiano non solo l’amore di coppia ma anche le persone stesse. Adesso esiste un solo “Noi” – prosegue la criminologa – che conclude sottolineando quanto Marino sia una persona speciale, tanto da farle dimenticare con un sorriso la pesantezza di una giornata professionale come la sua. In una recente intervista al settimanale di gossip “Gente”, a Bruzzone aveva spiegato come il rapporto con il suo attuale neo marito fosse stato messo a dura prova non solo dalla lontananza, ma ha capito di essere molto orgogliosa del suo partner, e di amarlo come mai è avvenuto nella sua vita.
Roberta Bruzzone: querelo, ecco perchè, scrive il 14 Maggio 2015 "Funweek.it". La criminologa Roberta Bruzzone si è molto arrabbiata per l'imitazione della sua persona fatta da Virginia Raffaele durante l'ultima puntata di Amici: su Twitter aveva già espresso il suo dissenso e la volontà di querelare la comica. Ora arriva la conferma: Roberta Bruzzone querelerà Virginia Raffaele, e ha spiegato il perchè in diretta su Periscope con il collega Carmelo Abbate. "Sono incazzata, ma non per la parodia (...) L’elemento che mi ha molto disturbato, che forse non tutti hanno colto subito, è il continuo, reiterato, becero riferimento ad abitudini e contenuti sessuali, a una sessualizzazione caricaturale che non mi appartiene -ha dichiarato la Bruzzone- Soprattutto mi ha disturbato è il fatto che la Raffaele in maniera sistematica mi attribuisce condotte assolutamente infamanti, in particolare quella di aver ottenuto successo professionale non per meriti e fatica di tanti anni passati sulla scena del crimine in difesa delle vittime, ma perché ho elargito favori sessuali a destra e a manca". Non solo: la Bruzzone ha più volte affermato che non ha bisogno della popolarità di una trasmissione come Amici, che lei è in tv perchè sa fare il suo lavoro e bene, ed ha raccontato cosa l'ha convinta definitivamente alla querela. "Molti familiari delle vittime dei casi che ho seguito mi hanno scritto per dirmi che hanno provato un disagio profondo nel vedere ridicolizzata una professione che loro hanno trovato molto importante nelle vicende giudiziarie che ho contribuito a chiarire", ha dichiarato la criminologa. Infine, una battuta sulla De Filippi (che non abbiamo ancora capito se verrà o meno querelata con la Raffaele): la Bruzzone afferma che dovrebbe capirla, visto che lei stessa bloccò una sua imitazione anni fa (il riferimento era forse all'imitazione di Maria De Filippi fatta da Valentina Persia? E' un'ipotesi). Nonostante le critiche ricevute, la Bruzzone non depone l'ascia di guerra: forse dopo aver letto le sue ragioni, qualcuno che le dava torto inizierà anche ad appoggiarla?
Bruzzone vs Garofano: la zuffa dei criminologi finisce in tribunale, scrive Marco Grasso il 15 marzo 2016 su "Il Secolo XIX". Si ritroveranno il prossimo 7 aprile, ma non in un salotto televisivo. La prossima puntata del duello più aspro della criminologia italiana si terrà davanti al giudice Marco Panicucci. Da un lato c’è la psicologa forense ligure Roberta Bruzzone, volto noto delle televisioni, citata a giudizio per diffamazione. Dall’altro un altro personaggio pubblico dello stesso settore, l’ex comandante dei carabinieri del Ris Luciano Garofano, che si è rivolto alla magistratura dopo un post di Facebook in cui veniva definito «indegno di indossare la divisa» e «membro di un sodalizio criminale». A monte di questa guerra c’è una vicenda di cuore. Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente per dieci anni della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l’accusa di aver taroccato i titoli (polemica che peraltro solleva una questione di cui la categoria dibatte da anni, ovvero l’assenza di un albo professionale dei criminologi); lei a sua volta mette in discussione gli studi dell’uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione. La lite tra i due ex fidanzati va avanti a colpi di denunce reciproche e messaggi di fuoco sui social network, e finisce per coinvolgere anche colleghi come Garofano: l’ex militare, oggi consulente privato, si schiera apertamente con Strano, scatenando le ire di Bruzzone, che lo denuncia per diffamazione alla Procura di Roma e gli scrive una lettera pubblica, oggetto di questa seconda causa. «Dottor Garofano - esordisce la criminologa - porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell’Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo, non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». La replica arriva subito dopo un intervento apparso sul profilo Facebook di Marco Strano: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti in ogni sede. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui, per inciso, il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo) faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione».
«GLI ABBASSI LA ZIP E TI FAI UN SACCO DI RISATE». Così Roberta Bruzzone ha descritto il suo ex fidanzato in alcuni post su Facebook, accusandolo anche di essere fuori di testa. Ma lui l'ha querelata per diffamazione, scrive "Lettera Donna". «Un mitomane fallito con in dotazione una calibro 9». La ben poco lusinghiera descrizione proviene dalla criminologa televisiva Roberta Bruzzone e si riferisce all’ex fidanzato Marco Strano. Il quale, però, non avendo affatto gradito questo e altri attacchi sferratole dalla sua ex compagna tramite Facebook, ha deciso di passare alle vie di fatto e di querelarla per diffamazione. Così riferisce Dagospia. Stando a quanto si legge sulle carte della Procura, la Bruzzone avrebbe pubblicato su Facebook una sequela di insulti rivolti al suo ex fidanzato riferendosi più o meno velatamente a lui utilizzando più volte l’aggettivo ‘strano’. Oltre a denigrarlo per le dimensioni intime («se [certe donne] arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee»), la criminologa avrebbe sostenuto che il suo ex non solo aveva intenzione di comprarsi un titolo di studio all’estero, ma di aver «affittato» anche la sua nuova compagna, originaria di un paese dell’Est. Parole e toni non certo amichevoli. Ma oltre al dileggio, la Bruzzone descrive anche il suo ex come «talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine» e lo accusava di averle ucciso il cane.
Claudio Santamaria contro Roberta Bruzzone: «Ha detto che abbiamo inventato l’aborto, una bestialità». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.
Con un lungo post su Instagram, il noto attore, sposato con la giornalista Francesca Berra, ha raccontato dell’esistenza di un audio, in cui la criminologa e volto televisivo avrebbe espresso dei dubbi sulla perdita del bambino da parte della coppia
È incavolato nero Claudio Santamaria e il bersaglio della sua rabbia è la criminologa Roberta Bruzzone, volto noto di molti programmi televisivi, secondo la quale l’attore e la moglie, la giornalista Francesca Barra, avrebbero inventato la perdita del loro bambino nel 2019 (la coppia ha poi avuto una bambina di nome Atena). «Mi duole commentare simili bassezze, ma sono così incazzato che sento di doverlo fare», scrive non a caso Santamaria in un lungo post su Instagram, dove spiega quanto accaduto.
«Offende me e mia moglie»
«È stato condiviso un audio con alcune conversazioni private della criminologa Roberta Bruzzone che offende me e mia moglie @francescabarra1 (l’audio era più lungo di quello che ascoltate e riguardava anche me), sostenendo che abbiamo mentito sulla perdita del bambino: “ pare che la notizia l’abbia inventata”», prosegue lo sfogo social dell’attore, a corredo della foto della Bruzzone con il virgolettato in questione. «A me non interessa entrare nelle beghe legali fra lei e la società Emme Team che ha pubblicato anche questo audio insieme con altri nei confronti di altre persone…. e non mi interessa soffermarmi sui metodi discutibili con cui sta avvenendo tutto questo e nemmeno che un simile pensiero sia stato reso pubblico. Quello che mi sconvolge e mi fa rabbia è che una professionista che ha a che fare con i lutti, che dovrebbe essere sensibile nei confronti della morte e del dolore della perdita delle famiglie, possa averlo anche solo pensato», spiega ancora Santamaria che, comprensibilmente, è un vero fiume in piena.
«Rasenta la bestialità»
«Possiamo non stimare una persona, un collega, un vicino di casa, possiamo provare sentimenti avversi e antipatie, ma questo pensiero va oltre: rasenta la bestialità e il pettegolezzo più pericoloso e spero che le persone che coinvolgeranno la signora Bruzzone in contesti dove questo comportamento potrebbe essere incoerente con le storie che raccontate, ne terranno conto», sottolinea infatti l’attore, prima di rivelare la sofferenza vissuta dalla moglie e da tutta la famiglia per quell’aborto. «Mi sento di scrivere queste cose per me, per l’immenso e costante dolore che prova anche mia moglie per quella perdita che non avrei mai voluto farle rivivere pubblicamente e per il rispetto del dolore che abbiamo provato noi e i nostri figli e per chi vive questi drammi dovendo pure fare i conti con le schifezze partorite da una persona che ogni giorno viene invitata nei salotti televisivi e nelle vostre case giudicando fatti e persone», conclude Santamaria, che ha poi aggiunto altre Ig Story sull’argomento. Per ora la Bruzzone non ha replicato alle accuse dell’attore.
I Verbali riassuntivi.
Quei verbali riassuntivi degli indagati sono una fabbrica di colpevoli...Chiunque si occupi di giustizia penale sa bene che la verbalizzazione riassuntiva è per sua natura manipolativa, risentendo non soltanto della sintesi di chi redige il verbale, ma del suo interesse ad approfondire un tema tralasciandone altri. Renato Borzone su Il Dubbio il 10 gennaio 2023.
Nei giorni scorsi, un interessante articolo di Valentina Stella su questo quotidiano ha riferito gli esiti di articolate ricerche (di natura legale, ma anche di psicologia giudiziaria) eseguite negli Stati Uniti e relative al tema delle “false confessioni”. Tema che si risolve, in realtà, negli escamotages o, se si vuole, eufemisticamente, nelle “tecniche” degli interroganti per conseguire risultati conformi alla loro ipotesi investigativa.
La questione è assai rilevante ed impone una riflessione anche su quanto accade nel nostro sistema giudiziario nel corso delle indagini preliminari, e su quanto potrà accadere alla luce delle recenti innovazioni legislative della ormai vigente normativa “Cartabia” quanto alle verbalizzazioni di persone sottoposte ad indagine e “informate sui fatti” da parte -in particolare- della polizia giudiziaria.
La premessa inevitabile è l’accantonare le ipocrisie e prendere atto come, da sempre, al di là della buona o mala fede degli interroganti, i verbali cosiddetti riassuntivi delle dichiarazioni rappresentano uno strumento assolutamente inadeguato a documentare la prova dichiarativa (e si parla di prova perché tali dichiarazioni possono essere utilizzate nel giudizio abbreviato o, comunque, per le contestazioni dibattimentali).
Chiunque si occupi di giustizia penale sa bene che la verbalizzazione riassuntiva è per sua natura manipolativa, risentendo non soltanto della sintesi di chi redige il verbale, ma del suo interesse ad approfondire un tema tralasciandone altri pur affrontati, con l’umana tendenza a valorizzare nel verbale determinate risposte piuttosto che altre e, comunque, a tradurle in un “proprio” linguaggio non necessariamente corrispondente a dichiarazioni articolate o sfumate.
Occorre perciò ribadire che, quando un individuo entra in una caserma o in un commissariato, si apre una “zona grigia” a volte inquietante che, se non può essere integralmente documentata dall’ingresso all’uscita, il che sarebbe pure talvolta interessante, può tuttavia esserlo quantomeno nella fase delle deposizioni che un soggetto rende.
Al di là dei casi limite di cui la nostra storia giudiziaria non difetta, da Pinelli, ad Aldrovandi, a Cucchi, a Natale Hjorth, non è ignoto ad alcuno che nel corso delle audizioni, o prima delle stesse, possono essere esercitate pressioni sull’interrogato e tecniche di questo tipo lasciano il dubbio sull’operato forze dell’ordine anche quando, forse il più delle volte, non lo meriterebbero.
La realtà delle prassi investigative in relazione alla prova dichiarativa è nota a tutti coloro che frequentano gli ambienti giudiziari.
La più comune, nei confronti di chi è chiaramente indagabile, è quella di ascoltare costui come semplice “testimone”, senza la presenza di un legale; e si ha un bel dire che tanto renderebbe non utilizzabili queste dichiarazioni se l’esperienza giudiziaria dimostra come la giurisprudenza largheggi con assai scarso pudore nel considerare utilizzabili (ad esempio in un giudizio abbreviato) le dichiarazioni rese con siffatte modalità, negando la sussistenza di precedenti indizi viceversa palesemente individuabili.
Ogni legale, poi, ha una propria casistica, che qui riporto da casi reali: interrogatori durati sei ore riassunti in quattro pagine di verbale; sospensioni delle deposizioni per ragioni non chiare o non individuate nel verbale cui seguono modifiche delle dichiarazioni rese fino a quel momento; tecniche di persuasione per convincere l’accusato che determinate sue ammissioni lo scagioneranno; verbalizzazioni incomplete che non consentono di percepire le sfumature del discorso; persone straniere interrogate con interpreti di dubbia professionalità o autonomia; modalità “aggressive” nel porgere le domande, oppure lasciando intendere di essere in possesso di elementi a carico, già raccolti, in realtà inesistenti.
Detto questo, chiunque può comprendere che -a prescindere dagli intendimenti degli interroganti- gran parte delle distorsioni, o se si vuole degli ingiustificati sospetti, potrebbero essere (quasi) radicalmente eliminati dalla più elementare delle modalità, oggi alla portata anche di un qualunque ragazzino della scuola media: l’audio o videoregistrazione delle dichiarazioni di indagati e testimoni nel corso delle indagini.
Appare perciò sinistra, almeno sul punto, la disciplina della cd. riforma Cartabia, laddove, nell’introdurre per la prima volta la “rivoluzionaria” possibilità di audioregistrare gli interrogatori e le informazioni testimoniali, la priva di fatto di ogni pratica applicazione introducendo, per ciascuna delle varie disposizioni che potrebbero prevederla, una serie di limitazioni, delle quali la più inquietante è la clausola secondo cui a tale registrazione si può derogare in caso di “contingente indisponibilità” di strumenti di riproduzione o di personale tecnico (?).
Ora, essendo del tutto evidente il livello della tecnologia, ormai elementare, necessaria, non sembra azzardato ipotizzare che qualche “manina”, nell’iter legislativo, abbia voluto salvaguardare quella zona grigia di cui sopra si è detto.
E’del tutto evidente, infatti, che la semplice attestazione degli interroganti della assenza di mezzi idonei, peraltro sprovvista di ogni sanzione e della stessa possibilità di accertamento ex post, rischia, nel bel paese così abituato alle deroghe, di far rimanere lettera morta l’apparente miglioramento introdotto.
Così come, l’aver lasciato al “testimone”, privo di interesse al riguardo, la scelta della richiesta di audioregistrare (salva sempre la disponibilità degli strumenti…), appare il voler ritirare con la mano sinistra quel che apparentemente si concede con la destra.
Starà all’avvocatura, sul campo di battaglia, verificare ipotesi di questioni ed eccezioni per salvaguardare la complessità e genuinità della prova dichiarativa. Resta sempre, però, l’amarezza di riforme sempre parziali e poco coraggiose.
Le False Confessioni estorte.
«Anche oggi il “tribunale del popolo” non assolve e condanna l’indagato alla pena della vergogna». Vittorio Manes, avvocato e ordinario di Diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna-
Parla Vittorio Manes: «Il saggio di Manzoni è un'opera straordinaria per molte ragione, ed è un "classico" perché ha come nota caratterizzante la inesauribile attualità e persistenza dei temi e dei problemi trattati». Gennaro Grimolizzi Il Dubbio l'8 maggio 2023
A distanza di circa duecento anni, la “Storia della Colonna infame” di Alessandro Manzoni continua a essere attuale. Errori da parte di chi giudica, abusi e pregiudizi si sono verificati anche dopo il capolavoro manzoniano, fino ai nostri giorni. Cambiano le epoche, ma alcuni strumenti per stritolare la dignità umana esistono ancora. Ne abbiamo parlato con Vittorio Manes, avvocato e ordinario di Diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, autore del libro “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo” (Il Mulino).
Anche oggi il tribunale del popolo non assolve e condanna l’indagato alla pena della vergogna.
"Purgare l'infamia". La giustizia penale di Alessandro Manzoni, la macchina del tempo che dopo secoli fotografa la società vendicativa. Mario Taddeucci Sassolini su Il Riformista l'1 Agosto 2023
Garantismo è un sostantivo che illustra un concetto auto portante: la garanzia compendia al suo interno la necessità di rispettarla. Rovesciando l’argomento: dove non c’è rispetto della norma posta a tutela dell’individuo non può ragionarsi di garanzia. La quale cosa esclude che la dicotomia garanzia/giustizia abbia un qualche senso logico, oltre che giuridico: un processo in esito al quale un giudice giunga ad una decisone nel rispetto delle norme poste a tutela dell’imputato è, al tempo stesso, espressione di giustizia e sigillo di garanzia.
Viceversa i termini diventano collidenti nel momento in cui vengono utilizzati come corpi contundenti in un ragionamento pseudo-politico di scarsissima qualità; sicché, secondo la logica di codesti modesti epigoni di Catone, pretendere il rispetto delle regole del giudicare significa sfuggire al giudizio (qualche mente creativa ha partorito filastrocche pre- adolescenziali del tipo “difendersi dal processo e non nel processo”), salvo rammentarsi della centralità del concetto di garanzia quando si rende necessario adattarla alla propria causa.
Contro questa volgarizzazione, sempre più incombente, giova ritornare ai fondamentali e, al proposito, soccorre un piccolo, intenso, erudito pamphlet scritto da Gaetano Insolera: “La giustizia penale di Alessandro Manzoni”, Mucchi Editore. Centrale nella narrazione di Insolera è la Storia della colonna infame, cronaca manzoniana del processo milanese contro due presunti untori la quale, nella edizione Quarantana, fu posta in calce al romanzo dei Promessi Sposi. Insolera valorizza questa lettura simultanea, dalla quale cogliere l’idea di Manzoni della giustizia “che nelle mani degli uomini può assumere tutte le imperfezioni: passioni, ferocia, ignavia, falsità. Storture con la tentazione – questa si demoniaca – di usarle per ottenere, con il processo criminale, una verità che corrisponda a quella che si vuole ottenere perché tale deve essere.”.
L’attualità del pensiero manzoniano è dimostrata dalla fungibilità di taluni “istituti” che trapassano il tempo senza sostanzialmente mutare.
Così la figura del chiamante in correità, reso tale dalla tortura, che nel racconto manzoniano vede Piazza accusare Mora di concorso in unzione e che trova perfetta rispondenza nell’utilizzo della carcerazione preventiva (e nei fini sottesi) in recenti pagine della nostra storia giudiziaria; così, ancora, la tecnica inquisitoria che vuole condurre il dichiarante alla menzogna poiché “volevano che si confessasse bugiardo una sola volta, per acquistare il diritto di non credergli quando avrebbe detto: sono innocente”.
Questa immanenza della idea manzoniana di giustizia e del suo articolarsi in forme ancora attuali suona come ammonizione. Ne scorse l’importanza Sciascia nel suo scritto “i burocrati del Male”, introduzione ad una edizione della Storia della colonna infame. A fronte del tentativo, anch’esso attuale, di dare una lettura storicistica alle vicende di giustizia, secondo la quale ciò che è stato (nel passato come nel presente) così doveva essere, Sciascia oppone un grido di allarme evocando “una battaglia che ancora oggi va combattuta: contro uomini come quelli, contro istituzioni come quelle. Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora”.
La tortura, la medesima tortura che i personaggi manzoniani subivano “per purgare l’infamia”, c’è ancora ed è rinvenibile in moderne forme di cautela dell’indagato, in taluni istituti “d’emergenza” contrari al senso di umanità ma vissuti come strumenti indispensabili in una società drogata di parole d’ordine volgari, nell’ordinamento penitenziario, nelle scarse risorse investite nell’esecuzione penale e nella scelta di dimenticare il recluso nella sua cella, salvo dolersi se costui nuovamente delinque una volta libero.
Questa sorta di macchina del tempo che mette in contatto la Milano del 1600 e i giorni nostri pone a nudo una continuità che dovrebbe far vergognare i diffusori del retrivo pensiero neo oscurantista. La sola idea che certe corticali anomalie si ripetano nei secoli dovrebbe far inorridire chiunque, ma non, evidentemente, i decerebrati cantori della bellezza del suono delle manette.
Non esiste antidoto al veleno che si insinua in una società vendicativa, sobillata per ritorno elettorale, se non la scelta di praticare la cultura della conoscenza in opposizione alla negromanzia inquisitoria praticata da legioni di buffoni a pagamento: in questa materia, infatti, non troverete mai idee gratuite. Sono tutte declinate da neo questurini a favore di un sottobosco perverso di nulla essenti, che si nutrono dei mattinali di questura. A 2 euro, in edicola. Mario Taddeucci Sassolini
La difesa è diritto inviolabile.
Art. 24 della Costituzione. Testo in vigore dal: 1-1-1948
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Nemo tenetur se detegere. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La locuzione latina nemo tenetur se detegere (anche nelle forme nemo tenetur se ipsum accusare e nemo tenetur edere contra se) esprime il principio di diritto processuale penale in forza del quale nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale (auto-incriminazione).
Il Principio di Legalità, in base al quale nessuno può essere punito se un fatto non è considerato reato da un’apposita dello Stato, è sancito dall’art. 25 della Costituzione e dal Codice Penale agli articoli 1 e 199. Da questo si deduce che il Principio di Legalità non è altro che il rispetto della Legge.
Invece no!
Il Principio di Legalità non è solo in rispetto della Legge, ma ogni atteggiamento e comportamento conforme al principio di quella Legge.
Per esempio. Prendiamo il caso di un Giudice che presiede un processo. Lui con sua esclusiva discrezione esamina e condanna un imputato.
Ma se il Giudice è tale in virtù di un concorso truccato;
Ma se il Giudice ha picchiato la moglie;
Non si evince nulla di tutto questo, perché un suo collega dell’Ufficio del Pubblico Ministero ha insabbiato tutto.
Altro esempio. Il Giudice ammette le prove. Sarà veritiero il verdetto frutto di una esclusione di una prova fondamentale a discrimine?
La moglie di Cesare deve non solo essere onesta, ma anche sembrare onesta.
Figura chiave nei processi è il Testimone. La Testimonianza è il mezzo di prova. Il Contenuto della Testimonianza è la Prova.
La testimonianza è la rappresentazione soggettiva di un fatto e vi è giuramento in udienza in sede di deposizione, in caso di falsità e reticenza vi è condanna.
La testimonianza contro se stessi è una CONFESSIONE e non vi è giuramento in udienza in sede di esame, per il principio dell’autodifesa.
La testimonianza si avvale di ricordi.
Memoria e ricordo. Contenitore e contenuto.
Il Ricordo si avvale di più fasi:
Acquisizione e codificazione;
Ritenzione ed immagazzinamento;
Stabilizzazione dell’informazione in memoria e ritenzione dell’informazione stessa per un determinato lasso di tempo;
Recupero:
La rievocazione si ha, quando si richiama alla mente ciò che è stato appreso e immagazzinato senza alcun aiuto
Il riconoscimento è la capacità di ricordare e identificare un determinato elemento, scegliendolo tra altri.
VERIDICITA’ ED AFFIDABILITA’ DEL TESTE E DELL’IMPUTATO.
Veridicità e affidabilità del teste
Affidabilità. Falsi Ricordi. Analisi oggettiva delle distorsioni della percezione che la falsifichino rispetto quanto effettivamente percepito dai sensi e codificato nella memoria.
Veridicità.
Manipolazione propria della narrazione che la falsifichino rispetto quanto effettivamente decodificato dalla memoria, questo può accadere:
– Volontariamente, laddove il soggetto sia dolosamente menzognero o reticente, in questo caso l’atteggiamento del testimone o dell’imputato che non si avvalga della facoltà di non rispondere è punito dall’ordinamento per il reato di falsa testimonianza o false dichiarazioni al PM.
bugie caratteriali (bugie di timidezza, bugie di discolpa, bugie gratuite);
bugie di evitamento (evitare la punizione, difendere la privacy);
bugie di difesa (bugie per proteggere se stessi o gli altri);
bugie di acquisizione (bugie per acquistare prestigio, per ottenere un vantaggio);
bugie alle quali lo stesso autore crede (pseudologie);
autoinganno.
– Involontariamente, quando il fatto narrato è distorto per meccanismi psicologici di difesa, suggestioni, per effetto di condizionamenti o per incapacità permanenti o temporanee e per qualsiasi altra ragione che escludano una cosciente volontà. In questi casi il soggetto, sotto il profilo giuridico, non è responsabile, poiché i reati che puniscono il testimone reticente o mendace sono esclusivamente dolosi e non prevedono neanche la fattispecie colposa o il reato tentato.
Manipolazione di Terzi della narrazione che la falsifichino rispetto quanto effettivamente decodificato dalla memoria, questo può accadere:
Addestrato. L’addestramento è un processo molto importante in quanto comprende una serie di comportamenti o l’inculcamento di nozioni che, a furia di venire ripetute e studiate, possono diventare proprie del soggetto.
Estorto. Come estorcere una confessione.:
Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto. MENTAL EXHAUSTION.
La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza. La promessa di una via d’uscita. THE PROMISE OF ESCAPE.
Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia. Offrire una ricompensa. OFFER A REWARD.
Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo di coinvolgimento o con la concessione a questa di uno sconto di pena. Suggerire le parole per la confessione. FORCING LANGUAGE
Valore costituzionale
Tale principio trova accoglimento nel Codice di Procedura Penale di molti paesi, a partire dal V emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d'America, laddove si afferma che nessuno «può essere obbligato in qualsiasi causa penale a deporre contro sé medesimo».
L'ordinamento giuridico, nel bilanciamento degli interessi in gioco, accorda preferenza alla libertà personale - e, secondo una dottrina, all'onore della persona - piuttosto che all'interesse alla repressione dei reati. Se tutti i soggetti del procedimento penale fossero obbligati a collaborare incondizionatamente con la Giustizia fino al punto di incriminare se stessi, verrebbe infatti meno la libertà morale dell'imputato, che ha diritto di scegliere se e come difendersi anche quando colpevole: in Italia ciò fu riconosciuto dalla legge n. 932 del 1969, in base alla quale l’interrogatorio non fu "più considerato «narrazione obbligatoria e a titolo di verità cui è costretto l’indagato-imputato», ma concepito essenzialmente come strumento per l’esplicazione del diritto di difesa" accordato dall'articolo 24 della Costituzione.
Diversi sono gli istituti finalizzati a garantire i diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento penale. Fra questi, si ricorda in particolare il privilegio contro l'autoincriminazione, che viene riconosciuto all'indagato e all'imputato: essi non sono tenuti a rispondere alle domande che vengono loro poste, e possono perfino mentire. Non possono commettere in tal modo i reati di falsa testimonianza, false informazioni al Pubblico ministero e favoreggiamento.
Il privilegio contro l'autoincriminazione è riconosciuto altresì ai testimoni, i quali possono opporlo qualora dalle risposte alle domande loro poste potrebbe emergere una propria responsabilità penale.
Varianti
Common law
Nel diritto anglosassone il medesimo privilegio si articola in modo profondamente diverso: all'imputato è concesso il diritto di non rispondere, come si desume dal noto Quinto Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d'America, ma non quello di mentire. Nel caso egli decida di parlare, sarà tenuto a dire il vero, a pena di incriminazione per falsa testimonianza. Per questo motivo nel diritto anglosassone anche l'imputato è ritenuto teste attendibile, ma, di contro, sconta la propria perseguibilità qualora sia provato che menta.
CEDU
Le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo sono decisive per l'interpretazione e l'applicazione del principio nemo tenetur se detegere, per gli Stati membri del Consiglio d'Europa.
Nella sentenza Funke contro Francia la Corte ha stabilito per la prima volta che l'autorità investita della persecuzione penale non può obbligare nessuno a cooperare con la propria condanna, pena la violazione del diritto a un processo equo di cui all'articolo 6 della CEDU. Dopo questa sentenza, rimaneva però tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa un certo margine di dubbio circa l'esatto confine del principio così proclamato: temevano che non sarebbe stato più possibile controllare il rispetto di molte leggi e regolamenti, perché questo spesso richiede la collaborazione del cittadino (v. ad esempio la compilazione della dichiarazione dei redditi).
Nella sentenza Saunders contro Regno Unito queste ambiguità sono state chiarite. In quella sentenza, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito che il diritto di non cooperare con la propria condanna si applica solo alle prove (orali o scritte) che dipendono dalla volontà dell'imputato; al contrario, le prove che esistono indipendentemente dalla volontà dell'imputato non sono coperte dal diritto di non collaborare con la propria condanna. Per questi ultimi mezzi di prova, indipendentemente dal fatto che il sospettato lo voglia o meno, se richiesto egli è tenuto a presentare i relativi materiali all'autorità investita della persecuzione penale.
Processo amministrativo
Il principio del nemo tenetur se detegere vale anche nel processo amministrativo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. C’è sempre qualcuno pronto a dirci quello che dobbiamo fare: la Famiglia, la Scuola, lo Stato, la Confessione religiosa, ecc.
Nei testi di Filosofia si legge che bisogna separare l’Osservazione dalla Valutazione: “Quando mescoliamo l’osservazione e la valutazione gli altri saranno propensi a udire una critica e quindi a porsi sulla difensiva. Al contrario le osservazioni dovrebbero essere circostanziate nel tempo e nel contesto. Il nostro repertorio di parole utili per affibbiare etichette alle persone è spesso assai più grande del nostro vocabolario di parole che ci permettono di descrivere con chiarezza il nostro stato emotivo. Ciò che gli altri dicono o fanno può essere stimolo, ma mai causa dei nostri sentimenti”.
Nel valutare ed esprimere giudizi ci si deve affidare ai pareri degli esperti di chiara credibilità ed attendibilità, discernendole dalle opinioni di gente ignorante sul tema in discussione.
La Criminologia studia l’autore di un crimine sotto ogni aspetto. In questo campo, le ricerche puntano non solo sull’individuazione del fatto e sull’identità del responsabile, ma anche sulla sua condotta, nonché sulle modalità di controllo dei comportamenti illegali (o socialmente devianti) e delle vittime. Il Criminologo si differenzia dall’Investigatore in quanto quando ti rivolgi al primo, ti affidi a un esperto che si avvale di metodi d’indagine standard, mentre il secondo si addentra di più nelle dinamiche psico-sociali.
La Criminologia applicata al caso concreto è conosciuta come Criminalistica. Conosciuta anche come scienza forense o delle tracce, la criminalistica ha l’intento di ricostruire i mezzi e le dinamiche messe in atto sulla scena del delitto. L’approccio alla materia è di tipo tecnico: si avvale di conoscenze e competenze acquisite in campo chimico, fisico, bio-tecnologico, informatico, balistico e perfino matematico.
La Sociologia Storica, studia la Società contemporanea, attraverso il suo passato che si evolve nel futuro.
La Sociologia Storica non guarda la Forma degli atti o l’Apparenza dei Fatti o delle Persone, ma guarda nella Sostanza delle cose. Guarda sul retro della medaglia, cosa che nessuno studioso o mediologo fa.
Il Principio di Legalità, in base al quale nessuno può essere punito se un fatto non è considerato reato da un’apposita dello Stato, è sancito dall’art 25 e dal Codice Penale agli articoli 1 e 199. Da questo si deduce che il Principio di Legalità non è altro che il rispetto della Legge.
Invece no!
Il Principio di Legalità non è solo in rispetto della Legge, ma ogni atteggiamento e comportamento conforme al principio di quella Legge.
Per esempio. Prendiamo il caso di un Giudice che presiede un processo. Lui con sua esclusiva discrezione esamina e condanna un imputato.
Ma se il Giudice è tale in virtù di un concorso truccato;
Ma se il Giudice ha picchiato la moglie;
Non si evince nulla di tutto questo, perché un suo collega dell’Ufficio del Pubblico Ministero ha insabbiato tutto.
Altro esempio. Il Giudice ammette le prove. Sarà veritiero il verdetto frutto di una esclusione di una prova fondamentale a discrimine?
Non ci sono state conseguenze per nessuno...Luca Palamara nelle chat parlava da solo: tempi scaduti e tutto è finito a tarallucci e vino. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 17 Maggio 2023
I sempre più frequenti richiami ai magistrati da parte del capo dello Stato a svolgere la propria attività con correttezza e imparzialità, l’ultimo in ordine di tempo questa settimana in occasione dell’inaugurazione della sede di Napoli della Scuola superiore della magistratura, finiscono puntualmente in un nulla di fatto. Se ne è accorto l’ex sostituto procuratore generale della Cassazione Rosario Russo, ora in pensione, che nelle scorse settimane ha presentato una istanza al Consiglio superiore della magistratura per conoscere che fine avessero fatto gli eventuali procedimenti aperti nei confronti dei magistrati che chiedevano favori e incarichi a Luca Palamara.
Antonio Giangrande: Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.
Antonio Giangrande: “Un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.” Antonio Giangrande dal libro “L’Italia allo specchio. Il DNA degli italiani”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
La moglie di Cesare deve non solo essere onesta, ma anche sembrare onesta.
E’ a tutti noto il detto:
La moglie di Cesare deve non solo essere onesta, ma anche sembrare onesta.
Dovrebbe non solo essere pura e fedele ma anche apparire impeccabile e seria a tutti coloro che la frequentano.
Quale è l’origine del celebre modo di dire?
Ci viene tramandato da Plutarco, che, nel decimo capitolo della Vita di Giulio Cesare, ci dice che in occasione di una festa dedicata alla dea Bona, cui potevano partecipare soltanto le donne, Pompea, moglie di Cesare, accolse nella sua abitazione, un suo spasimante, Publio Clodio, travestito da suonatrice.
L’inganno tuttavia venne scoperto e Clodio fu scacciato via ei trascinato in tribunale.
Cesare, fu citato come testimone. Alla domanda del pubblico ministero, rispose che non conosceva personalmente Clodio e che non sapeva nulla delle sue malefatte. Il magistrato non sembrò’ convinto di quella risposta e pregò il dittatore di essere più chiaro.
Al che, l’illustre testimone rispose che la moglie di Cesare doveva essere al di sopra di ogni sospetto.
Insomma l’apparenza prima di tutto.
E’ giusto domandarsi se nell’esercizio di un mandato pubblico oltre la legge debba esservi anche un codice deontologico che sanzioni quei comportamenti inopportuni anche se non penalmente rilevanti.
Certo se la moglie di Cesare apparisse solamente onesta, sarebbe ancor più grave e sarebbe ben accolta soltanto nelle società” puritane”.
Mai come in questi tempi sembra calzante questo celebre modo di dire.
Qualcuno potrebbe dire: se tutti sono criminale, allora nessuno è criminale.
Parliamo di statistiche: ufficiali.
Il reato che fa flop: su 5.418 processi solo 27 condanne. Stefano Zurlo il 19 Maggio 2023 su Il Giornale.
I dati sono impressionanti: "Nel 2017, 6.500 procedimenti finiti in nulla salvo che in 57 casi. Il 97% di assoluzioni". L'Anci: "Bisogna intervenire". Ma il Carroccio adesso frena.
I numeri non mentono. Nel 2017 in Italia sono stati avviati 6500 procedimenti per abuso d'ufficio. Ma solo 57 volte si è arrivati a una condanna definitiva. Una percentuale bassissima. Il dossier presentato ieri dall'ex ministro Enrico Costa in parlamento parla con le tabelle più che con i discorsi.
E' il fenomeno più sottovalutato. Tre innocenti arrestati o condannati ogni giorno: gli errori giudiziari e i risarcimenti beffa dello Stato. Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone su Il Riformista il 11 Maggio 2023
Quando avrete finito di leggere questo articolo, dalle casse dell’Erario saranno usciti circa cinquecento euro per risarcimenti alle vittime di errori giudiziari. Al ritmo di 55 euro al minuto, lo Stato cerca di arginare il fenomeno dei propri cittadini arrestati o condannati da innocenti, versando loro somme di denaro il più delle volte risibili, sempre e comunque inadeguate per riparare la tragedia personale che hanno vissuto.
Il fenomeno degli errori giudiziari è il più sottovalutato, misconosciuto e trascurato problema della giustizia in Italia. Negli ultimi trent’anni ha colpito 30.231 persone, l’equivalente di un “tutto esaurito” in uno stadio di calcio di serie A come quello del Torino. Alla media di 975 casi l’anno, tutti gli anni, da un trentennio. Significa tre innocenti arrestati o condannati (e per questo risarciti dallo Stato) ogni giorno. Uno ogni otto ore.
Correggiamo la storia distorta dalle indagini di mafia e di Tangentopoli. La sentenza della Cassazione sulla Trattativa segna la fine della pretesa della magistratura di essere protagonista nelle vicende sociali e politiche. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 7 maggio 2023
La recente sentenza sulla trattativa tra lo Stato e la mafia non ha avuto un adeguato commento dalla grande stampa eppure si tratta di una decisione della Cassazione eclatante e fondamentale per la storia civile, politica e umana del nostro Paese.
È una sentenza che non può soltanto essere pubblicata nel Massimario e dare lustro a magistrati che hanno dimostrato la loro serena indipendenza come prevista dall’art. 104 della Costituzione, ma deve avere conseguenze nella valutazione attenta da parte della cultura giuridica e del mondo giudiziario. Come è noto la Cassazione ha stabilito che il fatto “trattativa” non è stato commesso e non costituisce reato; e quando un “fatto” non è reato e non è stato compiuto il processo penale non ha consistenza.
Viene da dar ragione a chi si pone la domanda perché è stato intentato un processo lungo venti anni che ha costruito una storia che non esiste. La magistratura non può inquinare le vicende della storia con cronache non vere che incidono fortemente sul tessuto sociale e sulla convivenza dei cittadini.
DEPOSIZIONE DEL TESTIMONE. Viene introdotto il Testimone; questi viene avvertito dei suoi obblighi e rende la dichiarazione ex articolo 497 C.P.P.: “Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”. Il Testimone viene generalizzato in aula.
Memoria e ricordo. Contenitore e contenuto.
Memoria e ricordo. Paolo Caprettini su L'Indipendente sabato 22 luglio 2023.
La memoria come magazzino e come facoltà. Come magazzino dove si raccolgono varie esperienze, capacità, conoscenze e sensazioni. Come facoltà, in quanto in grado di prelevare quanto occorre dal repertorio e di farlo quando è richiesto, quando è necessario.
Lo stesso Platone intendeva la memoria sotto questi due aspetti. E se volessimo seguirlo fino in fondo diremmo che la memoria si identifica con lo spazio, secondo Platone, vale a dire con un luogo ricettivo, contenitore e archivio. Il mondo delle idee finisce per identificarsi con la memoria. E con il linguaggio che agisce come veicolo dei nomi.
Ma prima viene la ricordanza o rimembranza, scriveva Leopardi. Il mondo sensibile ci offre varie percezioni e ciascuna di queste può farne venire in mente un’altra simile precedente o immaginaria. Attraverso questo meccanismo entra in gioco il tempo, un tempo memorabile ad esempio, quando una particolare emozione lo ha contrassegnato.
‘Memoria’ deriva dalla radice di ‘mente’ e ‘ricordo’ dalla radice di ‘cuore’. Già questo è significativo per cogliere la differenza tra i due campi. Ci sono poi altri vettori di senso. Il francese ‘souvenir’ indica qualcosa che si è smosso al di sotto, un po’ come nell’inglese ‘understatement’, termine che indica un significato non del tutto esplicito.
Che dire poi del tedesco ‘Erinnerung’? La parola ricordo, femminile in tedesco, richiama le Erinni, in greco le dee che presiedevano alla giustizia in forma divina ma vendicativa. Nel greco antico così si chiamavano le nuvole minacciose, cariche di pioggia, segnalatrici di una risposta celeste.
Dunque, nel sottofondo, una accentuazione negativa in tedesco, mitigata se vogliamo dalla veste poetica. Negli anni di Leopardi, Hoelderlin, ad esempio, scrive Ricordi dove sentimento, malinconia e follia, “l’ombra degli olmi sul mulino”, si intrecciano.
Il ricordare genera eccessi oltreché censure e oblio, quel ‘nostos’ di cui parla Omero per Ulisse, la nostalgia, cioè il dolore dovuto alla lontananza. E così la memoria si riprende il suo spazio, il suo non esserci più, non esserci ora di qualcuno o qualcosa che permane però nel linguaggio della mente e del cuore. E permanendo vive.
La memoria e le distorsioni del ricordo. Mancini Massimiliano il 25/09/08 su diritto.it
La memoria e le distorsioni del ricordo
Nel sistema processuale la testimonianza, da sempre, occupa un posto centrale, sia nelle indagini preliminari, in cui molto spesso la Polizia Giudiziaria deve valutare, spesso durante la stessa audizione in sede di sommarie informazioni testimoniali o di interrogatorio delegato, l’affidabilità e la credibilità di un soggetto che ricorda episodi cui ha assistito, o di cui è stato attore.
La conoscenza degli elementi basilari della psicologia della testimonianza è fondamentale per tutti gli operatori del diritto per comprendere i limiti della percezione, le fonti di distorsione del ricordo, che possono generare inaffidabilità involontarie sino addirittura al falso ricordo ed inoltre gli elementi per evitare e per riconoscere le suggestioni più o meno involontarie del teste.
Queste conoscenze sono essenziali per gestire al meglio la capacità della mente umana di ricordare e riprodurre un evento già accaduto mediante la narrazione o il riconoscimento, ma anche per disporre di strumenti idonei per riconoscere la straordinaria capacità che ha l’uomo di falsificare il ricordo, in maniera volontaria o incosciente (ad esempio per compensare dei traumi o per superare disagi ed influenze sociali ed ambientali come quelle che potrebbe esercitare il contesto familiare).
La memoria centro di tutti i processi psichici
La memoria è quella funzione psichica (funzione mestica) che consente l’assimilazione, la ritenzione ed il richiamo di informazioni apprese durante l’esperienza. Ogni azione o condotta umana ed animale utilizza necessariamente la memoria.
I ricordi sono definiti tracce mestiche e possono avere varie forme e funzioni, percezioni sensoriali (immagini, suoni, calore, sensazioni tattili, odori, sapori, stati d’animo, ecc.), conoscenze ed abilità (competenze tecniche e culturali, nozioni, modi d’uso, ecc.), relazioni che legano altre informazioni (successione cronologica di eventi ed immagini, posizione e orientamento di oggetti, ecc.).
Endel Tulving ha classificato la memoria nelle seguenti categorie:
Memoria implicita, è quella incosciente, dove l’informazione non si manifesta per ricordo, ma influenzando un comportamento senza che il soggetto ne sia cosciente; essa si suddivide a sua volta in:
Memoria procedurale che consente di imprimere uno script per fare le cose automaticamente o in maniera semi-automatica, come andare in bicicletta, digitare su una tastiera.
Memoria associativa che consiste nell’associazione di uno stimolo ad un comportamento anche senza il ricordo cosciente che spinge a fare l’associazione.
Memoria esplicita, è quella nella quale i ricordi sono coscienti (sebbene anche influenzabili) e si manifestano per l’appunto in forma esplicitabile. Si suddivide in:
Memoria episodica ha una collocazione spazio-temporale e riguarda gli avvenimenti legati alla nostra vita.
Memoria semantica riguarda la conoscenza del mondo, il ricordo del significato di parole e concetti e, più in generale, informazioni che non hanno una prospettiva spazio-temporale, come i concetti astratti.
Si definisce fissazione il processo di ritenzione dell’informazione nella memoria; quando non si riesce più a ricordare un evento si dice che il ricordo è entrato in oblio.
I processi mnestici fondamentali sono di tre tipi:
– Acquisizione e codificazione, recepimento dello stimolo e traduzione in rappresentazione interna stabile e registrabile in memoria. Lavoro di categorizzazione ed etichettatura legato agli schemi e alle categorie preesistenti.
– Ritenzione ed immagazzinamento. Stabilizzazione dell’informazione in memoria e ritenzione dell’informazione stessa per un determinato lasso di tempo.
– Recupero. Riemersione a livello di consapevolezza dell’informazione prima archiviata, mediante richiamo o riconoscimento (la vedo e ricordo di averlo visto, è il modo più semplice per recuperare).
Come ha spiegato Hermann Ebbinghaus, autore delle prime importanti ricerche sulla memoria (XIX secolo), ci sono due modi principali per ricordare:
La rievocazione si ha, quando si richiama alla mente ciò che è stato appreso e immagazzinato senza alcun aiuto.
Il riconoscimento invece è la capacità di ricordare e identificare un determinato elemento, scegliendolo tra altri.
Veridicità e affidabilità del teste
La memoria, detta anche funzione mnestica, non risulta necessariamente stabile a parità di contenuti o classi di stimoli, ma è influenzata da elementi affettivi (ad es.emozioni, motivazioni) e da elementi che sono correlati alla tipologia di informazione da ricordare.
Essa si delinea come un processo legato a molti fattori, sia cognitivi che emotivi, e come un processo eminentemente attivo e non, o almeno non solo, come un processo automatico o incidentale. Quindi si configura come un percorso di ricostruzione e concatenamento di tracce piuttosto che come un semplice immagazzinamento in uno statico spazio mentale.
La testimonianza possiede una parte di verità oggettiva e un’altra parte di costruzione soggettiva, che si unisce o si sovrappone alla parte oggettiva o vi si sostituisce, totalmente o parzialmente, con meccanismi che possono essere non necessariamente dei tutto coscienti e volontari se non addirittura inconsci.
Pertanto nella valutazione di un teste che ha assistito o che è stato parte di un fatto, bisognerà valutare la sua deposizione sotto il profilo della:
1. Affidabilità, escludendo delle distorsioni della percezione che la falsifichino rispetto quanto effettivamente percepito dai sensi e codificato nella memoria.
2. Veridicità, escludendo delle manipolazioni della narrazione che la falsifichino rispetto quanto effettivamente decodificato dalla memoria, questo può accadere:
– Volontariamente, laddove il soggetto sia dolosamente menzognero o reticente, in questo caso l’atteggiamento del testimone o dell’imputato che non si avvalga della facoltà di non rispondere è punito dall’ordinamento per il reato di falsa testimonianza o false dichiarazioni al PM.
– Involontariamente, quando il fatto narrato è distorto per meccanismi psicologici di difesa, suggestioni, per effetto di condizionamenti o per incapacità permanenti o temporanee e per qualsiasi altra ragione che escludano una cosciente volontà. In questi casi il soggetto, sotto il profilo giuridico, non è responsabile, poiché i reati che puniscono il testimone reticente o mendace sono esclusivamente dolosi e non prevedono neanche la fattispecie colposa o il reato tentato.
Fonti di distorsioni del ricordo
In sostanza, quanto riferito dal teste è la risultante di percorso complesso che passa attraverso una serie di fasi successive nelle quali si inseriscono una serie di fonti di distorsione, in larghissima approssimazione, possiamo schematizzarle come segue:
1. Percezione, il fatto oggettivo è condizionato dalle condizioni di osservazioni, ad esempio distanza, punto di osservazione, condizioni di illuminazione, stato emotivo, ed è filtrato dalla parte percettiva della mente, attraverso meccanismi psicologici inconsci come ad esempio le euristiche. Ad esempio esiste un meccanismo psicologico, denominato generalmente “focus on weapon”, che agisce sui soggetti minacciati con armi, nei quali tutta la loro attenzione è concentrata solo sull’arma e, per questa ragione, non sono in grado di riferire nessun altro dettaglio sulla scena del crimine e sul loro assalitore, addirittura non riescono a riconoscere chi li minacciava a volto scoperto.
La percezione non è un processo semplice e lineare, ma è un momento cognitivo soggetto a molte variazioni ed interruzioni dovute sia alla quantità e complessità degli stimoli percettivi che ai limiti delle nostre capacità percettive.
2. Codificazione, tutto ciò che è stato percepito dagli organi sensoriali e dai meccanismi percettivi della mente, passa attraverso i meccanismi cognitivi della psiche umana, e quindi è influenzato dalle caratteristiche personali, dalla capacità di rielaborazione e di valutazione critica dei fatti, dall’età, dalla cultura, dall’ambiente sociale, dalle implicazioni emotive che sono ricollegate al fatto. Ad esempio si immagini il carico emotivo ricollegato ad una violenza sessuale oppure ad un fatto luttuoso in genere.
Ciò che vediamo è sempre e soltanto ciò che le nostre ipotesi, le nostre idee preconcette, la nostra cultura di fondo ci predispongono e ci preparano a vedere.
3. Ritenzione, in alcuni casi il fatto è talmente doloroso, imbarazzante, destabilizzante sul piano psichico ed emotivo che la mente umana attua dei meccanismi per ristabilire un equilibrio e per alleviare la sofferenza, attraverso meccanismi di difesa ben noti in psicologia come ad esempio la rimozione (la totale cancellazione di un’esperienza dolorosa dalla parte cosciente della psiche), la negazione, la scissione ed altri ancora, che eliminano o alterano completamente il fatto oggetto della testimonianza.
Inoltre la personalità del soggetto può distorcere le percezioni ed i rapporti sociali: i sentimenti che provocano angoscia e sensi di colpa sono facilmente proiettati sugli altri.
4. Recupero mnestico, la suggestionabilità del soggetto e gli stimoli cui è esposto possono inquinare la traccia mestica (il ricordo del fatto accaduto) con informazioni successive all’evento, inoltre si deve tener conto delle pressioni dell’ambiente e dei tentativi di manipolazione cui è stato esposto il soggetto per valutare quanto ricorda effettivamente e quanto non ricorda o non riporta esattamente.
Ad esempio si immagini la situazione di una violenza intrafamiliare, soprattutto quando è implicato un genitore, e le manipolazioni che possono premere il minore per dire ciò che non è successo (allo scopo eventualmente di ledere uno dei coniugi) oppure per non dire ciò che è successo effettivamente (per evitare di distruggere la famiglia cercando di nascondere fatti scabrosi).
La percezione (cosa e come si immette nella memoria)
Con il termine “percezione” si intende l’insieme delle funzioni psicologiche che permettono all’organismo di acquisire informazioni circa lo stato o il mutamento dell’ambiente.
All’atto pratico la percezione è un processo attivo nel corso del quale il soggetto che percepisce, dopo l’elaborazione da parte del cervello degli stimoli e delle sensazioni, si produce una rappresentazione mentale dell’oggetto percepito.
I primi studi sulla percezione sono stati portati avanti dalla scuola psicologica degli associazionisti, tra i quali si sono distinti Wundt, Ebbinghaus, Fechner, Spearman, per i quali la percezione finale degli stimoli è spiegabile con la semplice somma di sensazioni elementari.
Secondo gli associazionismi l’uomo è un passivo recettore di stimoli che si accumulano nella memoria intesa come un semplice contenitore.
Hermann Ebbinghaus (allievo di Wihelm Wundt, fondatore della psicologia come scienza) studiò la memoria mediante studi sperimentali sulla memorizzazione di sillabe senza senso. Egli nei suoi studi del 1876 evidenziava come l’apprendimento mnestico fosse influenzato dalla frequenza e dalle associazioni degli stimoli arrivando ad una serie di conclusioni molto importanti:
– Effetto del superapprendimento: aumentando il numero di ripetizioni, aumenta anche la memoria.
– Curva dell’oblio: il ricordo diminuisce col passare del tempo sia in senso quantitativo che in senso qualitativo.
– Apprendimento massivo e distributivo: esposizioni ad uno stimolo ripetute, anche brevi, sono più efficaci di una singola esposizione anche se prolungata.
– Effetto seriale: la memorizzazione dipende da come sono messe le sillabe, infatti quelle in fondo e le prime si memorizzano meglio di quelle di mezzo.
– Comprensione semantica: si ricorda più facilmente ciò che ha un significato, ad esempio le parole e le frasi di senso compiuto rispetto quelle incomprensibili o senza senso.
Da queste conclusioni possiamo trarre delle importantissime indicazioni da impiegare per le modalità di escussione di un testimone e per la valutazione della sua affidabilità e veridicità:
– La frequenza dello stimolo: la durata e la precisione del ricordo è proporzionale a quante volte si è ripetuto il fatto che si sta riferendo, ad esempio quante volte il testimone ha visto la persona che afferma di riconoscere o di conoscere.
– La durata dell’esposizione: quanto più è durata l’esperienza che si sta riferendo tanto meglio essa si ricorderà, ad esempio si ricorderà meglio e probabilmente con più particolari una violenza prolungata di un fatto brevissimo come uno scippo.
– Posizione seriale dello stimolo: un evento posto in una particolare posizione (ad es. all’inizio o alla fine della vicenda) oppure legato da particolari connessioni con altri fatti, sarà ricordato più facilmente e con più dettagli.
– Comprensione semantica dello stimolo: si ricordano più facilmente gli stimoli dei quali si comprende compiutamente il significato ed il senso, quindi è difficile ricordarsi di gesti equivoci o di parole straniere, dialettali o comunque incomprensibili, mentre si ricorderanno più facilmente parole, frasi ed anche comportamenti ed atteggiamenti che si comprendono appieno nel loro significato e nella finalità.
La distanza temporale dall’evento
Ulric Neisser, il padre della psicologia cognitiva, ha elaborato un approccio cognitivo allo studio della memoria orientatato proprio ai processi cognitivi.
Strutturalmente, a partire dagli anni 50 ed in maniera più o meno esplicita attraverso tutto il cognitivismo, la memoria è definita attraverso tre moduli mnestici:
– Il modulo 1 (brevissimo tempo) registra molte informazioni ma in maniera limitata. Prende nomi diversi secondo le teorie cognitiviste che l’hanno studiato, e fa prevalentemente riferimento alla memoria sensoriale.
– Il modulo 2 (breve tempo) trattiene i dati per un periodo di tempo maggiore. In quest’area generalmente il materiale o i ricordi si conservano sino a quando se ne ha bisogno(ad es. numero telefonico).
– Il modulo 3 (lungo termine) ha capacità di ritenzione illimitata, ma i suoi contenuti sono di difficile recupero.
Il tempo cancella i ricordi e li rende più labili e questo è vero soprattutto in senso qualitativo, quindi oltre ai singoli fatti, con il trascorrere del tempo si dimenticano per prima i dettagli, quindi è difficile credere che si ricordino più dettagli e con maggiore sicurezza fatti più antichi e nello stesso tempo eventi più recenti con grande incertezza e povertà di particolari, se non per meccanismi di difesa psicologica (ad esempio rimozione, negazione, ecc.).
Massimiliano Mancini. Coordinatore del sito poliziaminorile.it, docente e consulente nelle materie giuridiche e criminologiche
L’attendibilità della testimonianza nel processo penale. Vari fattori possono interfeirire con l'attendibilità di una testimonianza, dai falsi ricordi all'addetramento del teste, che non sempre sono riconosciuti. Massimiliano Conte su stateofmind il 12 giugno 2020
L’addestramento del teste comprende una serie di comportamenti o l’inculcamento di nozioni che, a furia di venire ripetute e studiate, possono diventare proprie del soggetto influenzando la sua testimonianza.
Il processo penale e il contraddittorio fra le parti
Il nostro processo penale è improntato sull’oralità della prova ed esistono delle procedure per assumere la prova in dibattimento. Una di queste procedure è la cosiddetta cross examination, in cui la Pubblica Accusa e la Difesa pongono domande ad un testimone (o teste) con lo scopo di saggiarne l’attendibilità.
Cosa accade però, se il teste mente e nel farlo, mente spudoratamente?
Il problema sorge spontaneo. Come fare per dimostrare la menzogna?
Il nostro ordinamento, a differenza di quello americano, non ammette né il controllo psicologico su cosa ha detto il teste né ammette l’interpretazione della gestualità del corpo, utilizzando le tecniche psicologiche di rilevazione della menzogna. Difatti, il giudizio sull’attendibilità del teste è fortemente soggettivo in quanto esistono casi in cui (ne citerò uno in particolare nel prosieguo) anche in presenza di una manifesta impossibilità oggettiva nelle affermazioni del teste, il giudice ha proceduto a ritenerla attendibile contro ogni possibile spiegazione fisica e scientifica.
L’attendibilità
Prima di proseguire oltre, occorre specificare cosa sia l’attendibilità. Possiamo descriverla come la capacità di una persona di dimostrarsi coerente con quanto dice, mantenendo un discorso improntato sulla logica e sulle massime comuni di esperienza, dal quale si può evincere un’alta probabilità che abbia assistito realmente all’accadimento che sta narrando. Risultare attendibili quindi, significa dimostrare di essere coerenti con quello che si dice, sapendo di venire valutati dall’interlocutore anche con un raffronto con quelle che sono le massime di esperienza comuni. La storia narrata deve poter resistere alle più comuni falsificazioni e la persona deve dimostrare congruità con quanto detto in rapporto ad uno specifico fatto.
Da quello che abbiamo appena affermato, subentra un’importante questione: è possibile parlare, pur sapendo di mentire, e dimostrarsi attendibili?
L’addestramento del teste
La risposta alla precedente domanda è sì: oramai non è un segreto. Il teste ben addestrato è in grado di passare per attendibile durante il processo penale ed è così capace di influenzare il corso degli eventi. Un teste bene addestrato è in grado anche di raggirare un clinico, soprattutto se con poca esperienza, riuscendo a farsi diagnosticare disturbi o disagi che non ha, simulandone perfettamente i sintomi.
L’addestramento è un processo molto importante in quanto comprende una serie di comportamenti o l’inculcamento di nozioni che, a furia di venire ripetute e studiate, possono diventare proprie del soggetto.
La forza dell’addestramento era conosciuta fin dai tempi dei legionari romani, ove usavano la massima secondo cui è l’addestramento che fa il coraggio. Una persona quindi, deve essere lungamente addestrata per poter raggiungere un risultato eccellente in quello che fa. O che dice!
Ma perché l’addestramento è in grado di modellare il nostro comportamento?
Le neuroscienze ci vengono in aiuto. Il nostro cervello possiede dei neuroni, i quali sono cellule tipiche cerebrali, con il compito di apprendere. L’addestramento va a modificare la conformazione di questi neuroni (i più famosi, sono i cosiddetti neuroni specchio, adibiti a riprodurre i movimenti che si osservano in natura) che, al fine di rispondere alle sollecitazioni addestrative, aumentano i recettori NMDA presenti sui propri dendriti: stiamo parlando della Legge di Hebb (Bear e Connors; 2016).
L’addestramento quindi, fa aumentare i recettori NMDA che si uniscono fra loro, diventando un corpus unico, preciso e per l’appunto, addestrato (Bear e Connors;2016).
Ma non è tutto. Una volta che l’addestramento si consolida come tratto comportamentale, il cervello costruisce uno schema che non grava più sui dendriti neuronali ma viene trasferito nei nuclei cerebellari del cervelletto, diventando uno schema consolidato, riproponibile e immodificabile se non in presenza di un ulteriore addestramento (si pensi, come esempio concreto, all’andare in bicicletta).
L’addestramento può durare anche mesi ma in questo la cosiddetta giustizia-lumaca di cui si sente parlare quotidianamente, può consentire il dispendio temporale offrendo il prodotto finale che si vuole raggiungere e che sarà impeccabile.
I falsi ricordi
Alle volte però, l’addestramento non è il principale problema con il teste. Il discorso, in questo caso, è molto ampio, quasi impossibile da affrontare in un singolo articolo. Per quel che concerne il nostro discorso circa l’attendibilità e la capacità di passare per coerenti in un procedimento penale in cui si è chiamati a svolgere il ruolo di teste, citiamo solamente una casistica in cui i falsi ricordi possono trarre in inganno gli interlocutori (Monzani; 2016). È il caso di chi, ad esempio, ha ascoltato per molto tempo un racconto e, alla fine, si convince di essere stato presente a quegli accadimenti. In questo caso, avremo dei falsi ricordi totalmente inventati che vengono arricchiti di particolari dalla mente stessa del soggetto e che, pertanto, vengono impressi sulle sinapsi neuronali. Ma non è tutto: questi falsi ricordi creeranno anche dei collegamenti con massime di esperienza precedentemente acquisite e si integreranno con il corpus memoriale della persona. Nella stragrande maggioranza dei casi, i falsi ricordi sono un prodotto della buona fede e pertanto, non pericolosi come l’addestramento.
Conclusioni
Occorre sempre prestare attenzione a quanto accade durante una deposizione. Difatti, l’addestramento può essere qualcosa di molto temibile e pericoloso. Tuttavia, ci si può difendere con molta accortezza. Un addestramento, ad esempio, non potrà mai prevalere sulla fisica (o sulla scienza in generale) quando queste dimostrano l’inattendibilità dell’addestramento stesso. L’addestramento infatti, è inoppugnabile solo se la scienza lo avvalori. In presenza di contraddizioni, il giudice dovrebbe avere l’obbligo di dichiarare inattendibile un soggetto, in quanto dovrebbe basarsi più sulla scienza che non sulla narrazione di un singolo individuo. Il racconto narrato deve trovare accoglimento anche nelle massime di comune esperienza ed il giudice, nel prendere in considerazione quanto è stato riportato dal teste, deve anche inquadrarlo all’interno delle prove raccolte, basandosi e prediligendo soprattutto quelle comprese nei dettati scientifici, ed anche rapportate alla situazione in cui si trova il giudicante.
Il caso concreto
Durante un processo, una presunta parte offesa citava la propria suocera (quindi sussisteva un vincolo di parentela) come teste oculare di taluni accadimenti. L’anziana donna, classe ’39, narrava di aver notato alcuni fatti da una distanza di 100/150 metri. Nel prosieguo diventavano 10/15 metri ed infine, asseriva di trovarsi a pochi metri di distanza dai fatti. Il tutto, di notte, da sola, senza cellulare ed ad una temperatura esterna di -3 gradi centigradi. Inoltre, vi erano delle prove inoppugnabili circa l’assenza della donna sulla scena del crimine, in quanto esistevano dei filmati videoripresi da telecamere di sicurezza che dimostravano l’assenza stessa della donna. Il giudice, dopo averla ascoltata, propendeva per la sua attendibilità sulla mera base di aver trovato l’anziana donna arzilla e ben orientata nel tempo e nello spazio. Un simile caso è palesemente errato, in quanto si basa solo sull’addestramento che la suocera ha ricevuto e va in aperto conflitto con le immagini oggettive di una telecamera che esclude la presenza della donna sul luogo del reato. Il giudice abboccava ad un teste ben addestrato e basava il proprio convincimento non sulle prove scientifiche bensì sul mero comportamento della suocera (arzilla e ben orientata). L’errore appare inescusabile in quanto il giudice stesso sapeva che un’indagine era in atto per il reato di corruzione in atti processuali finalizzati ad avere un vantaggio nel processo del genero. Successivamente, le intercettazioni evidenziavano palesemente la presenza di un addestramento compiuto dal cognato, appartenente ai carabinieri, e dal genero stesso.
Quelle (false) confessioni estorte con prove inventate e una (finta) comprensione. Una ricerca statunitense ha rivelato come le tecniche di interrogatorio, quali una maggiore pressione e il bluff con proposte di ulteriori prove incriminanti, mettano le persone a rischio di false confessioni. Valentina Stella su Il Dubbio il 5 gennaio, 2023
Se foste sotto interrogatorio, confessereste un crimine che non avete commesso? Si tratta di un argomento poco discusso qui in Italia, al contrario degli Stati Uniti, invece, dove è molto sentito. Sebbene l'idea che qualcuno possa confessare un crimine che non ha commesso possa sembrare controintuitiva agli osservatori occasionali, la realtà è che le false confessioni si verificano regolarmente.
Secondo il National Registry of Exonerations (Registro Nazionale delle persone scagionate, progetto realizzato dalla University of California Irvine, the University of Michigan Law School and Michigan State University College of Law), al 4 ottobre 2022 il 34% dei giovani sotto i 18 anni al momento del crimine ha reso una falsa confessione. La percentuale scende al 10 per i maggiorenni ma schizza al 69% per persone con malattie mentali o disabilità intellettive. Inoltre, in base ai dati dell'Innocence Project, dei 258 casi di proscioglimento grazie alla prova del Dna di cui si è occupato finora, il 25% riguardava una falsa confessione.
Ma perché le persone confessano crimini che non hanno commesso? Come hanno ricordato in un articolo il professore di legge Samuel Gross e il giornalista premio Pulitzer Maurice Possley «se avete mai guardato una delle decine di migliaia di ore di televisione dedicate alle fiction poliziesche, conoscete il primo avvertimento dato ai sospetti che vengono arrestati e interrogati. E il secondo: “Tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei”. Questo grazie ai Miranda warnings - che prendono il nome dal caso Miranda contro Arizona, la decisione della Corte Suprema del 1966 che le ha imposte». Questo tipo di avvertimenti sono stati «il culmine di 30 anni di cause della Corte Suprema volte a proteggere i sospetti criminali dagli abusi negli interrogatori della polizia».
Eppure, dover aver vietato violenze e torture da parte della polizia, le false confessioni continuano ad arrivare. Perché? Gli scienziati da anni stanno lavorando per capire meglio la psicologia delle false confessioni. Uno dei massimi studiosi del fenomeno è Saul Kassin, Professore emerito di psicologia al John Jay College of Criminal Justice di New York, esperto di interrogatori da parte delle forze dell’ordine. Come ricorda un articolo del Washington Post sul tema, Kassin ha testimoniato in diversi casi, come quello relativo a Barry Laughman, un ventiquattrenne con disabilità intellettiva ingiustamente condannato per stupro e omicidio nel 1988 e liberato grazie alla prova del Dna dopo 16 anni di carcere. La ricerca di Kassin ha rivelato come le tecniche di interrogatorio della polizia, quali l'applicazione di una maggiore pressione psicologica e il bluff con proposte di ulteriori prove incriminanti, mettano le persone a rischio di false confessioni. Proprio nella vicenda di Laughman, l’uomo aveva un Quoziente Intellettivo di 70 e si comportava come un bambino di 10 anni. Alcune settimane dopo il crimine, la polizia disse a Laughman che le sue impronte digitali erano state trovate sulla scena del crimine. Egli confessò quindi agli investigatori di aver commesso il delitto. Ma era innocente.
Un altro caso, citato dal National Registry of Exonerations, è quello riguardante Juan Rivera: nell'ottobre 1992, dopo un estenuante interrogatorio durato quattro giorni, il diciannovenne confessò falsamente lo stupro-omicidio di una bambina di 11 anni nella contea di Lake, nell'Illinois. In realtà, confessò due volte. La sua prima confessione era talmente infarcita di errori fattuali che gli investigatori gliela fecero ripetere per “chiarire” le incongruenze, anche se Rivera era chiaramente in uno stato di collasso mentale. Rivera fu condannato per omicidio nel 1993 e di nuovo nel 1996 dopo che la sua prima condanna fu annullata per una serie di errori legali. Nel 2005, i test del DNA dimostrarono che un altro uomo era la fonte dello sperma recuperato dal corpo della vittima. Secondo Kassin una tattica potenzialmente problematica è la presentazione di prove false.
La polizia americana è autorizzata a sostenere le proprie accuse dicendo ai sospetti che esistono prove inconfutabili della loro colpevolezza (ad esempio, un campione di capelli, l'identificazione di un testimone oculare o un test della macchina della verità fallito), anche se tali prove non esistono. Questo tipo di inganno può intrappolare persone innocenti e indurle confessare? Nel corso degli anni, la ricerca di base ha dimostrato che la disinformazione può alterare le percezioni, le convinzioni, i ricordi e i comportamenti delle persone.
Per quanto riguarda la confessione, questa ipotesi è stata testata in un esperimento di laboratorio. Studenti universitari avrebbero dovuto digitare su una tastiera in quello che pensavano fosse uno studio sui tempi di reazione. A un certo punto, i soggetti sono stati accusati di aver causato il crash del computer, avendo premuto un tasto che era stato detto loro di non usare. È stato chiesto loro di firmare una confessione. Tutti i soggetti che erano veramente innocenti hanno inizialmente negato l'accusa. In alcune sessioni, una persona che sapeva della finalità dell’esperimento ha dichiarato di aver assistito alla pressione del tasto proibito. Questa falsa prova ha quasi raddoppiato il numero di studenti che hanno firmato una confessione scritta, dal 48% al 94%. Una seconda tattica problematica è la minimizzazione, il processo con cui chi interroga minimizza il crimine, offrendo comprensione e giustificazioni morali. Suggeriscono ai sospetti che le loro azioni sono state spontanee, accidentali, provocate, pressate da altri o comunque giustificabili. La minimizzazione ha aumentato non solo le confessioni da parte dei veri colpevoli, ma anche le false confessioni da parte degli innocenti. Inoltre alcune persone sono più malleabili di altre dal punto di vista della disposizione d'animo e a maggior rischio di false confessioni.
Per esempio, gli individui la cui personalità li rende inclini alla cedevolezza in situazioni sociali sono particolarmente vulnerabili a causa del desiderio di compiacere gli altri e di evitare il confronto. Gli individui che sono inclini alla suggestionabilità, i cui ricordi possono essere alterati da domande fuorvianti e feedback negativi, sono anch'essi soggetti all'influenza. La giovane età è un fattore di rischio particolarmente rilevante: più del 90% dei minori che la polizia cerca di interrogare rinuncia ai diritti.
Antonio Giangrande. Tutta la verità su un processo:
che vede Michele Misseri condannato ad 8 anni per occultamento di cadavere, mentre da sempre si dichiara colpevole dell'omicidio di Sarah Scazzi;
che vede Cosima Serrano e Sabrina Misseri condannati all'ergastolo per un omicidio del quale si dichiarano innocenti;
dove la corda dello strangolamento si trasforma in cintura;
dove le pettegole (parole di Coppi) vengono credute;
dove i testimoni si intimidiscono (alla Spagnoletti: Sarah e Sabrina litigavano? Dì di sì);
dove i testimoni anticipano l'orario di uscita di Sarah: dalle ore 14.30 alle ore 14 circa, assecondando l'ipotesi accusatoria;
dove si fanno passare per fatti veri i sogni dei testimoni;
dove si induce Michele Misseri ad accusare la figlia Sabrina per l'ottenimento dello sconto di pena per entrambi.
Parla Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, Claudio Scazzi, Valentina Misseri, Ivano Russo.
Marialucia Monticelli, inviata del programma “Chi l’ha visto?”, Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”.
Walter Biscotti, Franco Coppi, Nicola Marseglia, Roberta Bruzzone.
Brani tratti dalla trasmissione “Tutta la Verità” trasmessa sull’emittente Nove il 26 aprile 2018
Antonio Giangrande: I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.
Quando il Potere giudiziario si nutre di pregiudizi e genera ingiustizia. Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.
Parliamo di menzogne nelle aule di giustizia. I magistrati di Taranto del processo sul delitto di Sarah Scazzi, requirenti con a capo il Pubblico Ministero Pietro Argentino e giudicanti con a capo Rina Trunfio, hanno fondato le richieste e le condanne sull’assunto che il delitto di Avetrana è una storia di bugie, pettegolezzi, chiacchiere, depistaggi. Menzogne e reticenze dei protagonisti e dei testimoni e se non questo non bastasse anche di tutta Avetrana.
Ed ecco il paradosso che non ti aspetti. È proprio l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato per concussione e corruzione semplice.
Eppure Pietro Argentino è anche il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.
Ciò nonostante a me tocca difendere proprio i magistrati Tarantini che di me hanno fatto carne da macello, facendomi passare senza successo autore della loro stessa infamia, ossia di essere mitomane, bugiardo e calunniatore.
Come dire: son tutti bugiardi chi sta oltre lo scranno del giudizio. Ma è proprio così?
Silenzio in aula, prego. Articolo 497 comma 2 del Codice Penale, il testimone legga ad alta voce: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». Il microfono fischia, la voce si impaccia, qualcuno tentenna sul significato della parola «consapevole». Poi iniziano a piovere menzogne. Il giudice di Aosta Eugenio Gramola - sì, quello del caso Cogne - ha lanciato l’allarme a Niccolò Canzan sul suo articolo su “La Stampa” : «Ci prendono per imbecilli. È incredibile come mentano con facilità davanti al giudice. Sfrontati, fantasiosi. Senza la minima cura per la plausibilità del racconto. Orari impossibili, contraddizioni lampanti, pasticci. L’incidenza dei falsi testimoni è molto superiore a una media fisiologica, si attesta tra il 70 e l’80 per cento». Sette su dieci mentono, in Valle d’Aosta. Sembra uno di quei casi in cui la geografia potrebbe significare qualcosa. L’Italia un Paese di bugiardi, quasi una tara nel codice genetico: «Chi mente al giudice è furbo - dice Gramola -. Essere bugiardo fa ridere, piace, non comporta disvalore sociale. Mentre indicare la menzogna come un grave atto contro la Giustizia è da biechi moralisti e puritani». Totò e Peppino erano all’avanguardia, è risaputo. «Caffè, panini, false testimonianze!», urlavano nel 1959 nel film «La Cambiale». Dall’alto della civilissima Valle d’Aosta, al cospetto di storie magari più piccole eppure significative, il giudice Gramola ha un guizzo d’orgoglio: «Certe volte, più che a testimoni ci troviamo di fronte ad amici delle parti in conflitto. E questi bugiardi sono poi magari gli stessi che si scagliano contro una giustizia che non funziona».
D’altro canto la procura di Milano ha rinviato a giudizio tutti i testimoni della difesa nel cosiddetto “processo Rubi”, che sono 42, più i due avvocati della difesa: in tutto 44. Ora, pensare che 42 testimoni fra i quali deputati, senatori, giornalisti, funzionari di polizia abbiano, tutti, giurato il falso, è una cosa a dir poco stravagante, scrive Luigi Barozzi. Il capo d’accusa non è ancora definito, ma andrà probabilmente dalla falsa testimonianza alla corruzione in atti giudiziari. In soprannumero, anche i legali verranno rinviati a giudizio, e al normale cittadino sorgono alcuni dubbi.
- E’ mai possibile che 42 persone, di varia provenienza sociale e professionale, siano tutti bugiardi-spergiuri o peggio?
- E’ mai possibile che lo siano pure i legali della difesa i quali, in un società civile, incarnano un principio quasi sacro: il diritto dell’imputato, anche se si tratta della persona peggiore del mondo, di essere difeso in giudizio?
- Non sarà, per caso, che la sentenza fosse già scritta e che il disturbo arrecato dai testi della difesa alla suddetta sentenza abbia irritato la Procura di Milano tanto da farle perdere la trebisonda?
Trattando il tema della menzogna ci si imbatte frequentemente in definizioni che fanno uso di molti sinonimi quali inganno, errore, finzione, burla, ecc…, le quali, anziché restringere i confini semantici del concetto di menzogna, tendono ad allargarli creando spesso confusione, scrive Il valore positivo della bugia - Dott.ssa Maria Concetta Cirrincione - psicologa. Un primo tentativo per circoscrivere tale area semantica consiste nel definire la differenza tra menzogna e inganno. La menzogna e il suo sinonimo bugia, usato prevalentemente in relazione all’infanzia, và considerata una modalità tra le altre di ingannare, perciò possiamo definirla come una sorta di “sottoclasse “ dell’inganno. La sua caratteristica distintiva consiste nel fatto di essere essenzialmente un atto comunicativo di tipo linguistico, ossia la rivelazione di un contenuto falso attraverso la comunicazione verbale o scritta. Questo impone la presenza di almeno un comunicatore, di un ricevente e di un messaggio verbale che non corrisponde a verità. L’inganno si esplica invece, non solo attraverso l’atto comunicativo della menzogna, ma anche attraverso comportamenti tesi ad incidere sulle conoscenze, motivazioni, aspettative dell’interlocutore. (De Cataldo Neuburgher L. , Gullotta G., 1996). Secondo questa prospettiva, l’omissione di informazioni non è tanto una menzogna, quanto un inganno. La comunicazione è una condizione sufficiente ma non necessaria perché si possa ingannare. A volte si inganna facendo in modo che:
- l’altro sappia qualcosa di non vero (es: A va sul tetto e fa cadere acqua dalla grondaia, B vede l’acqua e viene ad assumere che piove);
- l’altro creda qualcosa di non vero (es: B guardando l’acqua fuori dalla finestra, commenta: “piove”, e A non lo smentisce);
- l’altro non venga a conoscenza della verità (A chiude l’altra finestra dalla quale non si vede l’acqua cadere, in modo che B continui a credere il falso);
L’inganno, quindi, si esplica attraverso qualsiasi canale verbale e non verbale (mimica facciale, gestualità, tono di voce), mentre la menzogna utilizza specificatamente il canale verbale. Mentire è un comportamento diffuso, tipicamente umano, non è tipico dell’adolescenza, né necessariamente un indice di psicopatologia; di solito viene valutato infatti da un punto di vista etico più che psicopatologico. Non appena i bambini sono in grado di utilizzare il linguaggio con sufficiente competenza sperimentano la possibilità di affermare a parole una verità del desiderio e del sentimento diversa da quella oggettiva.
E’ noto che i bambini non hanno la stessa proprietà di linguaggio degli adulti, per cui spesso gli adulti chiamano bugia ciò che per il bambino è espressione di paure, di bisogno di rassicurazione o di percezione inesatta della realtà. Si può parlare di bugia quando si nota l’intenzione di “barare”, e comporta un certo livello di sviluppo. Nei bambini avviene come messa alla prova per misurare poi la reazione degli adulti al suo comportamento. Nel crescere assume anche altri significati poiché dipende da diverse variabili; può dipendere dalla situazione che si sta vivendo, dalla persona alla quale è rivolta o dallo scopo che si vuole raggiungere. E’ utile pertanto una classificazione che ci permetta di orientarci meglio al suo interno, sebbene tale classificazione può risultare artificiosa dal momento che i vari tipi di menzogna tendono spesso a sovrapporsi e a confondersi tra loro. Si possono distinguere (Lewis M., Saarni C. , 1993):
bugie caratteriali (bugie di timidezza, bugie di discolpa, bugie gratuite);
bugie di evitamento (evitare la punizione, difendere la privacy);
bugie di difesa (bugie per proteggere se stessi o gli altri);
bugie di acquisizione (bugie per acquistare prestigio, per ottenere un vantaggio);
bugie alle quali lo stesso autore crede (pseudologie);
autoinganno.
BUGIE DI TIMIDEZZA: una motivazione che può spingere a raccontare bugie è la timidezza. Alla sua radice c’è una concezione negativa di se stessi; i timidi affrontano la vita con la sensazione di essere inferiori rispetto alla maggioranza degli altri esseri umani e questo modo di pensare condiziona le loro relazioni in molteplici modi. Uno di questi è la tendenza a raccontare menzogne per apparire migliori agli occhi degli altri, per nascondersi, per evitare situazioni sociali nelle quali si sentirebbero inadeguati e imbarazzati.
BUGIE DI DISCOLPA: ci sono menzogne che derivano dalla necessità di discolparsi da accuse più o meno fondate. E’ un atteggiamento diffuso nei bambini che può permanere in soggetti adulti insicuri nei quali spesso si riscontra un sentimento d’inferiorità e l’incapacità di affrontare le proprie responsabilità.
BUGIE GRATUITE: generalmente dietro alla maggior parte delle bugie si nasconde un bisogno, un desiderio, uno scopo che il soggetto vuole raggiungere. Spesso invece ci troviamo di fronte a menzogne che non lasciano intuire che cosa vuole raggiungere il soggetto, sono le bugie che vengono raccontare per puro divertimento, per allegria, per dare sfogo alla fantasia.
BUGIE PER EVITARE LA PUNIZIONE: evitare la punizione è un motivo molto comune delle bugie degli adulti, ma prevalentemente dei bambini. Questi ultimi imparano a mentire ben presto quando si rendono conto di aver commesso una trasgressione, già a 2-3 anni essi sono in grado di attuare degli inganni in contesti naturali come la famiglia.
BUGIE PER DIFENDERE LA PRIVACY: la salvaguardia della privacy è un motivo che spinge spesso i ragazzi adolescenti, ma anche gli adulti, a raccontare bugie. Nell’adolescenza emerge nei ragazzi il bisogno di crearsi uno spazio proprio, di decidere se raccontare o meno le loro esperienze e le loro emozioni. Se da un lato ciò deve essere rispettato dai genitori, dall’altro costituisce un problema a causa del loro bisogno di protezione nei confronti del figlio.
BUGIE PER PROTEGGERE SE STESSI O GLI ALTRI: nella vita di ogni giorno ci sono svariate situazioni che portano una persona a mentire per proteggere se stessa o i sentimenti di persone care. Se alla nostra festa di compleanno riceviamo un regalo che non ci piace o quanto meno lo consideriamo inutile, è molto improbabile che lo diremo chi ce l’ha donato; è probabile invece che, dissimulando la delusione, ci mostreremo entusiasti. Gli adulti mentono per cortesia e questa regola sociale viene ben presto assimilata anche dai bambini. Essi imparano a proteggere i sentimenti degli altri attraverso un’istruzione diretta data dai genitori, ma anche indirettamente osservandone il comportamento.
BUGIE PER ACQUISTARE PRESTIGIO: sono delle bugie compensatorie che traducono non tanto la ricerca di un beneficio concreto, ma la ricerca di un’immagine che il soggetto ritiene perduta o inaccessibile: si inventa una famigli più ricca, più nobile o più sapiente, si attribuisce dei successi scolastici o lavorativi. In realtà questa bugia è da considerarsi normale nell’infanzia e finchè occupa un posto ragionevole nell’immaginazione del bambino. Tale condotta viene considerata banale fino ai 6 anni, la sua persistenza oltre tale età segnala invece spesso delle alterazioni psicopatologiche.
PSEUDOLOGIE: sono delle bugie alle quali lo stesso autore crede. Più specificatamente viene definita “pseudologia fantastica” una situazione intenzionale e dimostrativa di esperienze impossibili e facilmente confutabili (Colombo, 1997). E’ un puro frutto di immaginazione presente in bugiardi patologici ed è una caratteristica tipica della Sindrome di Mùnchausen.
AUTOINGANNO: il mentire a se stessi è un particolare tipo di menzogna che ci lascia interdetti e confusi dal momento che il soggetto è contemporaneamente ingannatore e ingannato. L’autoinganno è l’inganno dell’Io operato dall’Io, a vantaggio o in rapporto all’Io (Rotry, 1991). In esso vengono messi in atto meccanismi di difesa come la razionalizzazione e la denegazione. Attraverso la razionalizzazione il soggetto inventa spiegazioni circa il comportamento proprio o altrui che sono rassicuranti o funzionali a se stesso, ma non corrette. Il soggetto da un lato può celare a se stesso la reale motivazione di alcuni comportamenti ed emozioni, e dall’altro riesce a nascondere ciò che sa inconsciamente e non vuole conoscere. Attraverso la denegazione, invece, il soggetto rifiuta di riconoscere qualche aspetto della realtà interna o esterna evidente per gli altri. Potremo fare l’esempio dell’alcolista che mente a se stesso dicendosi che non ha nessun problema o delle famiglie in cui si fa “finta di niente, finta di non capire”.
Intanto per i magistrati coloro che si presentano al loro cospetto son tutti bugiardi. Persino i loro colleghi che usano lo stesso sistema di giudizio per l’altrui valutazione.
Eppure Pietro Argentino è il numero 2 della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. È l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato tre giorni fa per concussione e corruzione semplice. Al termine del processo, ecco abbattersi sulla procura di Taranto la pensate tegola della trasmissione degli atti per indagare proprio su chi ricopre un ruolo di vertice nella procura pugliese. Argentino è a capo del pool che ha chiesto il rinvio a giudizio, tra l’altro, del presidente della Puglia, Nichi Vendola, nell’ambito delle indagini sulle emissioni inquinanti dello stabilimento Ilva. Vendola è accusato di concussione in concorso con i vertici dell’Ilva, per presunte pressioni sull’Arpa Puglia affinché «ammorbidisse» la pretesa di ridurre e rimodulare il ciclo produttivo dello stabilimento siderurgico. Attraverso quel - le presunte pressioni, Vendola - secondo la procura - avrebbe minacciato il direttore Arpa Giorgio Assennato, «inducendolo a più miti consigli», approfittando del fatto che Assennato fosse in scadenza di mandato e che rischiasse di non essere riconfermato. Accusa sempre respinta da Vendola.
Quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero, scrive “Il Quotidiano di Puglia”. È un terremoto che si abbatte sul palazzo di giustizia di Taranto la sentenza che il Tribunale di Potenza ha pronunciato nei confronti dell’ex pubblico ministero della procura di Taranto Matteo Di Giorgio. Un terremoto anche perché i giudici potentini - competenti per i procedimenti che vedono coinvolti magistrati tarantini - hanno disposto la trasmissione degli atti alla Procura perché valuti la sussistenza del reato di falsa testimonianza a carico del procuratore aggiunto di Taranto, Pietro Argentino, e l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci, di Gallipoli.
Il Tribunale di Potenza ha condannato a 15 anni di reclusione l’ex pubblico ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, accusato di concussione e corruzione in atti giudiziari, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Come pena accessoria è stata disposta anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La pubblica accusa aveva chiesto la condanna alla pena di 12 anni e mezzo. Il Tribunale di Potenza (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, attuale comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi a un imputato accusato di diffamazione. L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il magistrato secondo l'accusa, ha anche minacciato di un “male ingiusto” un consigliere comunale di Castellaneta, costringendolo a dimettersi per provocare lo scioglimento del Consiglio comunale e assumere una funzione di guida politica di uno schieramento. L'ex sindaco di Castellaneta ed ex parlamentare dei Ds Rocco Loreto, che presentò un dossier a Potenza contro il magistrato, e un imprenditore, si sono costituiti parte civile ed erano assistiti dall’avv. Fausto Soggia. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono cui l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.
Le indagini dei militari del nucleo operativo e della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri di Potenza coordinati dal pm Laura Triassi erano partite nel 2007, scrive “Il Quotidiano Web”. Lo spunto era arrivato dall'esposto di un ex assessore di Castellaneta, Vito Pontassuglia, che ha raccontato di aver spinto alle dimissioni un consigliere comunale, nel 2001, paventandogli un possibile arresto del figlio e del fratello per droga da parte del pm Di Giorgio. Quelle dimissioni che avrebbero causato le elezioni anticipate spianando la strada agli amici del pm, e a lui per l’incarico di assessore della giunta comunale. Gli interessi del magistrato nelle vicende politiche del paese avrebbero incrociato, sempre nel 2007, le ambizioni dell'ex senatore Rocco Loreto, un tempo amico di Di Giorgio, ma in seguito arrestato per calunnia nei suoi confronti, che si era candidato come primo cittadino. Di Giorgio è stato condannato anche al risarcimento dei danni subiti da Loreto, da suo figlio e da Pontassuglia. Per lui la richiesta dell'accusa si era fermata a 12 anni e mezzo di reclusione. Le motivazioni della decisione verranno depositate entro 90 giorni, ma non mi sorprende il fatto che esse conterranno il riferimento alla dubbia credibilità di imputati e testimoni.
MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI..
Quando la verità su cosa ci circonda ci è suggerita dalla fiction straniera.
Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare. Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso. Come estorcere una confessione.
Quasi nessuno sa, ed i media colpevolisti hanno interesse a non farlo sapere, che vi è una vera e propria strategia per chiudere in fretta i casi illuminati dalle telecamere delle tv. Strategia, oggetto di studio americana, ignorata da molti avvocati nostrani e non accessibile alla totalità degli studiosi della materia.
Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso.
Come estorcere una confessione. HOW TO FORCE A CONFESSION:
Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto. MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza.
La promessa di una via d’uscita. THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia.
Offrire una ricompensa. OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo di coinvolgimento o con la concessione a questa di uno sconto di pena.
Suggerire le parole per la confessione. FORCING LANGUAGE
Studio tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00.
Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...
HOW TO FORCE A CONFESSION: Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto.
MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza. La promessa di una via d’uscita.
THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia. Offrire una ricompensa.
OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo. Suggerire le parole per la confessione.
FORCING LANGUAGE
Video tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00. Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...
Yara Gambirasio e quelle confessioni mai rese. Rosa, Olindo, Sabrina Misseri e gli altri, scrive il 22/06/2014 L'Huffington Post. La storia di Yara ha diviso e scatenato le polemiche. Chi difende Massimo Giuseppe Bossetti e chi invece lo vede come il colpevole dell'omicidio della piccola. La sua confessione negata però non è la prima. La Stampa rivive tutti i casi di cronaca dove i colpevoli hanno negato sempre tutto. Nel reticolo di dolori che percorre l’indagine sulla fine di Yara lascia due gocce di stupore e di tenerezza la voce della madre di Giuseppe Bossetti, in carcere perché accusato dell’omicidio: «La scienza ha sbagliato». Difende il figlio, la famiglia di ieri e di oggi, il proprio passato e il proprio onore. L’ostinato negare è una costante del processo, per innocenza o per fede nell’effetto del dubbio, per un attimo d’ombra della mente o per vergogna sociale.
Rosa e Olindo Romano: all'inizio avevano confessato, poi ritrattato parlando di "lavaggio del cervello". Non è bastato. Sono stati condannati all'ergastolo nel 2011.
Anna Maria Franzoni: Ha sempre negato, in tribunale come in Tv, rifiutando l'ipotesi della rimozione mentale. Condannata a 16 anni per aver ucciso il figlio Samuele.
Paolo Stroppiana: ha sempre negato, ma le sue menzogne lo hanno alla fine condannato: sta scontando 14 anni per la morte di Marina di Modica.
Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro: omicidio colposo 6 anni e favoreggiamento (2 anni) per l'omcidio di Marta Russo. Teorizzavano il delitto perfetto.
Sabrina Misseri: Tutti la ricordano sempre in TY per la scomparsa della cugina Sarah Scazzi. Poi la condanna senza confessione.
Il Patteggiamento.
Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it il 6 marzo 2023
Anche se la detenzione era stata conseguenza di una pena che l’imputato aveva chiesto e ottenuto di poter patteggiare, in caso di sopraggiunta revisione questa richiesta di patteggiamento non può essere intesa come causa dell’errore giudiziario costituito dalla sentenza di patteggiamento, e quindi non può di per sé escludere la necessità per i giudici di rivalutare in concreto se quell’imputato abbia ugualmente diritto alla riparazione dell’errore giudiziario.
L’innovativo principio viene affermato ora dalla Cassazione nel caso di Giulia Ligresti, figlia del costruttore e assicuratore Salvatore, che nel 2013 nel caso Fonsai chiese e ottenne di patteggiare proprio quegli stessi reati giudicati poi però insussistenti dalle contrastanti sentenze che nel 2015 assolsero invece il fratello Paolo. Ciò innescò la revisione della pur definitiva condanna di Giulia Ligresti, la sua assoluzione nel 2019, e l’indennizzo per ingiusta detenzione riconosciutole dalla competente Corte d’Appello milanese ma solo per i 16 giorni di custodia cautelare in carcere nel 2013, e non anche per i 50 giorni di domiciliari successivi alla richiesta di patteggiare, e tantomeno per i 20 giorni di pena espiata in carcere nel 2018.
Adesso, invece, la Cassazione […] annulla quella decisione della Corte d’Appello e ordina un nuovo giudizio nel quale i giudici […] dovranno attenersi al principio indicato. E cioè non ritenere che la richiesta di patteggiamento sia di per sé ostativa alla riparazione della ingiusta detenzione successiva alla richiesta di patteggiamento, ma valutare nel caso concreto in una prospettiva ex post se l’errore giudiziario sia stato causato dalla condotta dell’imputata durante le indagini, e se (in un prospettiva invece ex ante) si possano ravvisare o meno in quella condotta dell’imputata le due uniche condizioni che possono far rigettare l’indennizzo, e cioè il «dolo» o la «colpa grave».
Una prognosi che sembra aprire la strada a Ligresti, visto che l’anno scorso, con riferimento al segmento parziale già risarcitole nonostante l’Avvocatura dello Stato sostenesse che un po’ di colpa l’aveva avuta Ligresti con gli interrogatori del 2013 «ritenuti reticenti», i giudici d’Appello Nova-Curami-De Magistris avevano concluso che non fosse emerso «alcun elemento a supporto di tale considerazione», né che l’assoluzione avesse accertato «comportamenti ambigui o reticenti dell’imputata nelle indagini».
Nell’inchiesta sui supposti falsi da 600 milioni nelle riserve sinistri di Fondiaria-Sai, Giulia Ligresti fu arrestata dal gip di Torino il 17 luglio 2013 quale vicepresidente di Fondiaria (pur senza deleghe esecutive) e asserita beneficiaria con i familiari «del sistema fraudolento». Replicò di nulla sapere di criteri contabili, dismise ogni carica, e il 2 agosto chiese di patteggiare. Il 28 agosto passò dal carcere ai domiciliari su richiesta del pm […]
Il 3 settembre 2013 Ligresti ottenne dal gip di patteggiare 2 anni e 8 mesi, il 19 settembre tornò libera.
Fino a quando il 19 ottobre 2018 fu arrestata per scontare appunto la pena patteggiata nel 2013. Solo che nel frattempo a Milano il fratello Paolo e due manager (dopo gli atti trasmessi per competenza da Torino) erano stati assolti il 16 dicembre 2015 per insussistenza di quei medesimi reati costatile invece la condanna nel 2013. Un contrasto di giudicati che determinò lo stop all’espiazione della pena il 7 novembre 2018, la revisione della condanna, e l’assoluzione l’1 aprile 2019 «perché il fatto non sussiste».
Nel 2022 Giulia Ligresti aveva allora chiesto alla Corte d’Appello di Milano di essere indennizzata con 1,3 milioni sia per errore giudiziario sia per ingiusta detenzione, e il tema in gioco era se aver patteggiato fosse o no uno di quei «comportamenti dolosi o gravemente colposi» che per legge escludono l’indennizzo.
E in effetti la Corte d’Appello negò ristoro all’errore giudiziario perché il patteggiamento «è inequivocabile manifestazione di volontà dell’imputato» e «presuppone il suo implicito riconoscimento di responsabilità». Per lo stesso motivo non riparò anche l’ingiusta detenzione nei giorni successivi alla richiesta di patteggiamento. Invece riconobbe l’equa riparazione (che non è risarcimento di un inesistente comportamento illecito della pubblica amministrazione, ma un equo ristoro) solo dei 16 giorni dal 17 luglio all’1 agosto 2013 nei quali ravvisò che Ligresti fosse stata ingiustamente detenuta in custodia cautelare. Lo fece però quadruplicando la somma rispetto al parametro di legge (non 256 ma 1.000 euro al giorno) «in considerazione del clamore mediatico dell’arresto» e della «particolare afflittività» della detenzione.
Il patteggiamento e le lacune dell'ex Mani Pulite. Davigo vuole fare l’americano ma viene sbugiardato dagli americani…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Aprile 2023
Piercavillo ci è cascato ancora. L’ex pm del club Mani Pulite, il tecnico, il più colto, è ancora scivolato su una “dimenticanza”. Mentre disquisisce sul quotidiano di famiglia per sostenere l’ignoranza giuridica di tutti, a partire dalla ex ministra Cartabia e della sua riforma, fa riferimento, come gli capita sovente, al sistema processuale penale americano. Il tema è il patteggiamento, che nell’ordinamento italiano non comporta ammissione di responsabilità.
La novità è che, come conseguenza di una serie di provvedimenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo e anche della Consulta e della Cassazione, assunti nella riforma entrata in vigore il 30 dicembre scorso, sarà consentito di candidarsi alle elezioni anche a chi abbia patteggiato una pena. Quello che all’ex pm dà un fastidio che, immaginiamo, è quasi fisico, è proprio il punto di partenza, il fatto che coloro che concordano una pena non si cospargano anche il capo di cenere e non gridino “Sono colpevole!”, come succede negli Stati Uniti. Forse però all’illustre ex magistrato ora pensionato, quindi relativamente giovane e fresco di studi, è sfuggita una importante sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti. Provvede a rammentargliela il novantenne professor Beppe Di Federico, che forse ha studiato un po’ di più, o forse ha solo la “fortuna” di avere miglior memoria.
Quella sentenza, ricorda colui che fu a lungo amico e collaboratore di Giovanni Falcone, diceva in modo chiaro che chi patteggia ha il diritto di dichiararsi innocente. Perché la scelta di concordare una pena e di evitare il processo può essere stata determinata dalla necessità di evitare conseguenze sul piano sociale, economico o anche familiare. E’ proprio quel che è successo anche in Italia ai tempi delle inchieste di Tangentopoli, quando alcuni avevano deciso di trattare con il giudice pur di porre fine a un’insostenibile gogna che si accompagnava ai tempi eterni dell’inchiesta. Facciamola finita, avevano pensato, e qualcuno lo aveva fatto davvero, anche ponendo fine alla propria vita. Innocenti e colpevoli.
E’ sempre piaciuto ad dottor Davigo essere chiamato “dottor Sottile”, ma era stato un furto con destrezza dei suoi sostenitori al vero titolare del marchio, il professor Giuliano Amato, presidente emerito della Corte Costituzionale. Proprio per questo dovrebbe stare un poco più attento. Certo, per astuzia è imbattibile. Cita sempre il diritto anglosassone, evidentemente ha studiato il common law. Ma dovrebbe dirlo esplicitamente, soprattutto quando cita le statistiche di applicazione delle leggi, che la differenza sostanziale tra quel sistema e il nostro di civil law sta nell’obbligatorietà o discrezionalità dell’azione penale. Perché, laddove, come negli Stati Uniti e nel Regno Unito, l’azione penale non è obbligatoria, è ovvio che nel 90% dei casi ci sia un accordo tra accusa e difesa per non arrivare al processo.
Lo vediamo tutti i giorni nelle centinaia di serie televisive discendenti dall’insuperabile “Perry Mason”. Mettendo sulla bilancia tempi e costi di un dibattimento dall’esito incerto, può essere più conveniente trattare una pena possibilmente che escluda o riduca molto la possibilità del carcere. Non esiste quindi il 90% di colpevoli, ma il 90% di accordi. E spesso i rappresentanti della pubblica accusa sono costretti dal giudice e dalla legge a rinunciare a portare un caso in aula, se gli indizi non sono robusti e sostenuti da un serio quadro probatorio. Se in Italia i riti alternativi, previsti dal nuovo codice di procedura penale del 1989, non hanno mai avuto particolare fortuna è perché quella fu una riforma incompleta, il cui sistema non per caso fu definito “tendenzialmente accusatorio”, laddove l’avverbio era più forte dell’attributo. E bene ha fatto l’ex ministra Cartabia con la sua riforma, che si è concretizzata nel decreto legislativo n.1/2022 dello scorso 30 dicembre, ad allargare le maglie dei riti alternativi al processo, intervenendo anche sulle conseguenze del patteggiamento, che non può essere equiparato automaticamente a una condanna penale.
Come del resto è stato sancito dalla cassazione, dalla Corte Costituzionale (sentenza numero 276 del 2016) e dalla Corte Edu il 17 giugno 2021. Una giurisprudenza consolidata che ha negato espressamente la natura penale delle misure contenute nella legge Severino del 2012. Che oggi esce un po’ ammaccata, dopo che il Ministero dell’interno, previa consultazione dell’avvocatura dello Stato, ha inviato una circolare ai prefetti per dare il via libera alle candidature elettorali, a partire dalle amministrative del prossimo maggio, di persone che in passato avessero patteggiato una pena da due a cinque anni. Che questo provvedimento, pur se forte di così autorevole giurisprudenza, non piaccia a un magistrato con la storia di Piercamillo Davigo non è stupefacente.
Spiace però il tono sprezzante con cui definisce “perla” la formulazione di un articolo della legge Cartabia. O la sottile disumanità del sarcasmo, preferita all’intelligenza dell’ironia, con cui boccia la possibilità del patteggiamento richiesto dall’innocente. “Se uno potesse chiedere o accettare una pena detentiva senza essere colpevole, potrebbe anche vendersi come schiavo. Ma i nostri sedicenti garantisti non si accorgono di questa enormità. La ragione è infatti quella di consentire a chi patteggia di evitare le conseguenze della colpevolezza”. Così ha scritto. Gli ha risposto la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il Patteggiamento, come rito alternativo premiale, è una scelta di opportunità, non un’ammissione di colpevolezza.
(ANSA il 18 aprile 2023) Cade l'accusa di corruzione a carico di Luca Palamara nel processo principale in corso a Perugia, quello legato ai rapporti con l'imprenditore Fabrizio Centofanti (che ha già patteggiato). La Procura ha infatti rideterminato il capo d'imputazione e quindi derubricato il reato in quello meno grave di traffico d'influenze illecite. Lo ha fatto nell'udienza di oggi del processo in corso davanti al tribunale il procuratore Raffaele Cantone. Secondo il quale ora le parti possano chiedere "riti speciali"
(ANSA il 18 aprile 2023) Luca Palamara ha chiesto di patteggiare la condanna nei suoi confronti, un anno di reclusione, pena sospesa, nel processo in corso a Perugia nel quale è imputato per i suoi rapporti con l'imprenditore Fabrizio Centofanti. L'istanza è stata avanzata in seguito alla rideterminazione da parte della Procura dell'accusa di corruzione in traffico d'influenza illecite.
La Procura - rappresentata in aula anche dal procuratore capo Raffaele Cantone - ha dato il suo assenso all'istanza di patteggiamento. Sulla quale si deve ora esprimere il tribunale. Ha invece chiesto di essere processata con il rito abbreviato la co-inputata Adele Attisani. Anche per lei la Procura ha rideterminato l'accusa da concorso in corruzione in traffico di influenze illecite. Il tribunale ha acquisito la determinazione delle parti e ha fissato udienza per il 16 maggio per la decisione.
(ANSA il 18 aprile 2023) "E' caduta ogni ipotesi corruttiva nella nuova contestazione della Procura di Perugia. Accedo ai riti alternativi senza riconoscere alcuna forma di mia responsabilità ma solo per liberarmi dal fardello dei processi ed essere così più libero di portare avanti la battaglia di verità per una giustizia giusta": a sottolinearlo è Luca Palamara dopo che la Procura di Perugia ha rideterminato il reato nei suoi confronti. "Come ho sempre dichiarato sin dall'inizio della vicenda che mi ha riguardato non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura" ha aggiunto.
"Oggi sono definitivamente cadute tutte le accuse di corruzione mosse nei miei confronti - ha sottolineato ancora Palamara - essendo mutata l'ipotesi di reato che mi viene contestata dalla Procura di Perugia. Quindi, non c'è mai stata nessuna corruzione al Csm come una parte della (dis)informazione raccontava il 30 maggio del 2019 all'inizio di questa vicenda. Accedendo ai riti alternativi previsti dalla legge Cartabia per una ipotesi di reato diversa e sicuramente meno grave, ho così deciso di liberarmi dal peso dei processi senza l'ammissione di alcuna forma di mia colpevolezza ma esclusivamente per ragioni personali e processuali.
Tutto questo mi consentirà di essere più libero e di dedicarmi con rinnovato vigore alla battaglia di verità su ciò che non ha funzionato all'interno della magistratura e nei rapporti tra politica e magistratura a supporto di quei tanti cittadini onesti che in questi anni mi hanno sostenuto e che fuori dalle ipocrisie vogliono far sentire la loro voce per una vera riforma della giustizia che - ha concluso Palamara - da troppo tempo manca nel nostro Paese".
Caso Palamara, cade la corruzione: “Patteggio ma sono innocente”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Aprile 2023
Luca Palamara, cade la corruzione: “Patteggio ma sono innocente. Come ho sempre dichiarato sin dall’inizio della vicenda che mi ha riguardato non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura”
Caduta l’accusa di corruzione , l’ex presidente dell’ ANM è pronto a patteggiare. La condanna imposta dallo “sconto” lieve, è soltanto un anno. Palamara alza le mani. “Io non ammetto nulla, resto innocente”. Ovvero, la ripartenza secondo Palamara, che a questo non troverebbe i precedenti ostracismi per una candidatura di livello. L’ex pubblico ministero romano ed ex membro del Consiglio Superiore, Luca Palamara, la toga che nel 2019 fu travolta dalle cene all’hotel Champagne con politici e colleghi, il primo ed unico caso di ex presidente dell’Anm radiato dalla magistratura, di fatto non è più imputato per corruzione.
Ha chiesto invece di essere processata con il rito abbreviato la co-inputata di Palamara, Adele Attisani nei cui confronti Cantone ha rideterminato anche per lei l’accusa da concorso in corruzione in traffico di influenze illecite.
L’aula del Tribunale di Perugia
Nel processo principale in corso a Perugia, infatti, quello legato ai rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti (che aveva già patteggiato a suo tempo) che lo vede sotto accusa con Adele Attisani, su richiesta della Procura guidata da Raffaele Cantone, l’accusa più grave è derubricata all’ipotesi meno pesante di “traffico di influenze”. La stessa sorte seguirà anche il secondo procedimento avviato – sempre per corruzione – dallo stesso ufficio guidato dal procuratore Cantone.
Quanto previsto dalla legge è molto chiaro: una volta decaduto il capo di accusa di corruzione, la pena diminuisce sensibilmente, e quindi Palamara ha potuto accedere al rito alternativo che prevede un “accordo” con la Procura: l’ottenimento di pene più basse in cambio della cancellazione del processo. Gli avvocati di Palamara, Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, hanno depositato non a caso la richiesta a un anno di carcere (che prevede paraltro la pena sospesa), c’è l’accordo con i pm. Tra un mese, si attende la pronuncia del Tribunale. Ma entrambi i filoni d’inchiesta dovrebbero chiudersi entro l’estate.
Un accordo che salva sopratutto il “sistema Giustizia” dalla fuoriuscita di tutte le anomalie di questa inchiesta venite fuori grazie al lavoro di indagini difensive svolte dal collegio difensivo, ma sopratutto mette la “sordina” alle dichiarazioni dell’ avv. Pietro Amara che per troppo tempo ha abbeverato di menzogne le procure di mezza Italia.
“Non ci fu alcuna corruzione” sostiene Luca Palamara. “Ho deciso di accedere ai riti alternativi solo per liberarmi dal fardello dei processi. Non ammetto nulla, non riconosco alcuna forma di mia colpevolezza, lo faccio solo per ragioni personali e processuali” aggiungendo “Come ho sempre dichiarato sin dall’inizio della vicenda che mi ha riguardato non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura” .
Il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone presente in aula con i suoi sostituti, chiarisce che “il traffico di influenza rientra comunque tra i reati contro la pubblica amministrazione, e la nuova formulazione non cambia il quadro investigativo acquisito negli anni dall’ufficio” spiegando la ratio che ha portato alla rideterminazione del capo di accusa : “La scelta dell’ufficio è in linea con lo spirito della recente riforma Cartabia: così possono rapidamente definirsi due procedimenti di particolare complessità, che avrebbero significativamente impegnato l’ufficio inquirente e quello giudicante nei prossimi anni”. Ha contribuito anche la lentezza con la quale un piccolo Tribunale come quello di Perugia poteva affrontare un dibattimento di tale portata.
La prossima udienza è stata fissata dal tribunale per il prossimo 16 maggio. Se tutto dovesse procedere secondo quanto previsto, Palamara raggiunge due risultati molto importanti. Da un lato potrebbe rimettere in discussione la sua, un pò troppo rapida radiazione dalla magistratura: anche se il processo disciplinare non potrà incidere sul suo progetto di una candidatura politica che si sarebbe resa impossibile con quell’imputazione più pesante.
A spianargli la strada la circolare del Guardasigilli Nordio intervenuta solo un mese fa, che – su parere del ministro dell’Interno Piantedosi, a sua volta sorretto all’Avvocatura dello Stato – ha reinterpretato la legge Severino, escludendo dall’incandidabilità, tra coloro che si sono macchiati di reati contro la pubblica amministrazione, anche i condannati via patteggiamento.
Dietrofront della Procura: Palamara non fu corrotto. Derubricata l'accusa per i rapporti con Centofanti. L'ex pm patteggia un anno e potrà candidarsi. Luca Fazzo il 19 Aprile 2023 su Il Giornale
Quando nel maggio di quattro anni fa i giornali titolarono «Corruzione al Csm» non erano improvvisamente ammattiti: semplicemente riprendevano e amplificavano le teorie che avevano portato la procura della Repubblica di Perugia a indagare su Luca Palamara, allora potente leader della magistratura organizzata, e sul sistema di potere che gli ruotava intorno. Ne seguì il terremoto che si sa. Peccato che ora si scopra che la corruzione di Luca Palamara semplicemente non esisteva. E che incastrando Palamara, presentato all'opinione pubblica come l'unica mela marcia di un organismo sano, si siano create le condizioni perché tutto continuasse come prima.
Ieri è la Procura umbra a fare un ultimo, cruciale passo indietro. Nel processo in corso a carico di Palamara per l'accusa di essersi fatto corrompere dall'imprenditore Fabrizio Centofanti, è lo stesso Raffaele Cantone, procuratore capo, a chiedere che l'accusa venga derubricata. Non più corruzione ma «traffico illecito di influenze», reato introdotto nel codice solo nel 2012, dai contorni piuttosto sfuggenti e comunque assai meno grave. È una scelta figlia di una lunga trattativa tra Cantone e i difensori di Palamara, davanti a un processo che nessuno - per motivi molto diversi - aveva voglia di affrontare.
Davanti al passo indietro di Cantone, Palamara sceglie di patteggiare la condanna a un solo anno, pena poco più che simbolica, e sottolineando comunque che «non è una ammissione di colpevolezza, è solo una scelta processuale e personale per liberarmi da un fardello e essere sempre più libero di continuare la mia battaglia per una giustizia giusta». Anche perché, dettaglio non irrilevante, grazie alla legge Cartabia il patteggiamento non fa più scattare la incandidabilità alle cariche politiche e amministrative. Nella sua nuova vita l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati potrà sbarcare senza problemi in Parlamento.
È la sesta volta che gli inquirenti umbri modificano al ribasso le accuse a Palamara. Sul tavolo ormai erano rimasti i viaggi e le cene offerti da Centofanti al potente amico e alla sua fiamma Adele Attisani: favori di cui, anche nelle ipotesi d'accusa, non era mai stata individuata la contropartita illecita, e questo rendeva per Cantone il processo tutto in salita. Ben prima erano venute meno accuse più precise e pesanti, come i 40mila euro contestati a Palamara per la nomina del procuratore di Gela: eppure proprio quell'accusa era stata utilizzata come un grimaldello per infettare il telefono del pm romano con il trojan che rivelò agli inquirenti l'impressionante rete di favori e di nomine di magistrati di primo piano in tutta Italia che veniva smistata da Palamara. Ma i beneficiati da Palamara sono rimasti quasi tutti al loro posto, e gli altri capicorrente che partecipavano alla lottizzazione non hanno avuto scossoni di carriera. Ora l'accordo di pace con la procura umbra chiude la partita.
Lui, Palamara, al telefono più che contento sembra sollevato. «È finita, era ora. Mi sono battuto come una bestia, come un leone. Nessuno avrebbe scommesso che ne sarei uscito vivo. Invece ce l'ho fatta».
Palamara, non fu corruzione: sul caso toghe cala il sipario. Reato derubricato e patteggiamento: così non si saprà più nulla sul mercato delle nomine. Simona Musco su Il Dubbio il 18 aprile 2023
Non si trattava di corruzione, ma di traffico di influenze illecite. E dunque il telefono di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e perno del “sistema” che pilotava le nomine della magistratura, probabilmente non poteva essere infettato con il trojan che ha svelato le trattative interne alle correnti della magistratura per le nomine dopo la famigerata sera dell’Hotel Champagne. Lo stesso trojan che ha fatto finire sulla graticola decine di magistrati, tutti colpevoli di aver chiesto favori all’ex zar delle nomine e finiti (a volte) davanti alla Commissione disciplinare del Csm per rispondere delle loro chiacchiere con Palamara, terremotando l’intera magistratura e capovolgendo gli equilibri di potere a Palazzo dei Marescialli.
Il colpo di scena è arrivato oggi a Perugia, dove è in corso il filone principale del processo a carico di Palamara, accusato di essersi fatto corrompere dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, che aveva già patteggiato. Il procuratore Raffaele Cantone ha infatti riqualificato l'ipotesi di reato, consentendo alle parti di chiedere riti speciali. E gli avvocati dell’ex consigliere del Csm, Roberto Rampioni e Benedetto Buratti, hanno così chiesto il patteggiamento a un anno, con il parere favorevole della procura, decisione che consentirà all’ex zar delle nomine di chiudere i suoi conti con la giustizia. La coimputata di Palamara, Adele Attisani, che avrebbe accompagnato il magistrato nei viaggi pagati da Centofanti, ha chiesto invece il rito abbreviato.
La corte si è riservata di decidere e l'udienza è stata aggiornata al 16 maggio. Ma il destino del processo è già segnato, così come la possibilità che a Perugia si approfondiscano i misteri legati all’uso del trojan inoculato nel telefono di Palamara, sul cui utilizzo sono stati sollevati diversi dubbi. La questione rimane però aperta a Napoli e Firenze, procure alle quali si sono rivolti l’ex deputato e magistrato in aspettativa Cosimo Maria Ferri e l’ex consigliere del Csm Antonio Lepre (punito in sede disciplinare per la sua partecipazione alla riunione all’Hotel Champagne, nella quale si doveva decidere il futuro della procura di Roma) per chiarire il mistero dei server fantasma che a Napoli elaboravano i dati prima di inoltrarli alla procura incaricata di raccoglierli nell’indagine a carico di Palamara.
Non si tratta della prima modifica del capo di imputazione in questo lungo e travagliato caso giudiziario: con quella di oggi, sono sei gli aggiustamenti fatti in corso d’opera, a partire dalla prima ipotesi dei 40mila euro intascati per favorire la nomina di Giancarlo Longo a procuratore della Repubblica di Gela o per danneggiare il pm Marco Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto, ipotesi scartate dalla procura alla chiusura delle indagini. Successivamente all’ex pm vennero contestati i reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio e corruzione in atti giudiziari, ipotesi a loro volta “corrette” poco dopo, con il rinvio a giudizio, quando venne contestata la corruzione in concorso per l’esercizio delle funzioni. Insomma, uno sgonfiamento continuo delle accuse, fino all’epilogo di oggi.
«È caduta ogni ipotesi corruttiva, accedo ai riti alternativi senza riconoscere alcuna forma di mia responsabilità ma solo per liberarmi dal fardello dei processi ed essere così più libero di portare avanti la battaglia di verità per una giustizia giusta - ha commentato Palamara -. Come ho sempre dichiarato, non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura. Quindi, non c'è mai stata nessuna corruzione al Csm come una parte della (dis)informazione raccontava il 30 maggio del 2019 all'inizio di questa vicenda. Accedendo ai riti alternativi previsti dalla legge Cartabia per una ipotesi di reato diversa e sicuramente meno grave, ho così deciso di liberarmi dal peso dei processi senza l'ammissione di alcuna forma di mia colpevolezza, ma esclusivamente per ragioni personali e processuali. Tutto questo mi consentirà di essere più libero e di dedicarmi con rinnovato vigore alla battaglia di verità su ciò che non ha funzionato all'interno della magistratura e nei rapporti tra politica e magistratura a supporto di quei tanti cittadini onesti che in questi anni mi hanno sostenuto e che fuori dalle ipocrisie vogliono far sentire la loro voce per una vera riforma della giustizia - ha concluso - che da troppo tempo manca nel nostro Paese».
Per Cantone non si tratta, però, di un passo indietro. «La modifica dell'imputazione - ha spiegato -, con la derubricazione del reato in una fattispecie introdotta solo nel 2012 con la legge anticorruzione che, pure meno grave della corruzione, rientra comunque nel novero dei reati contro la pubblica amministrazione, lascia immutato, del resto, il quadro delle acquisizioni investigative compiuti negli anni dall'ufficio e appare altresì coerente con un recentissimo orientamento della Cassazione, espresso nel novembre 2021, nel procedimento contro un sindaco di Roma», ovvero Gianni Alemanno. Decisione, quella, che alzò la soglia probatoria per la contestazione del reato di corruzione. La modifica, ha evidenziato il procuratore, «consegue una serie di contatti intercorsi con la difesa del dottor Palamara che aveva prospettato la possibilità di definire non solo il processo pendente presso il primo collegio, ma anche quello appena avviato che pure vede il dottor Palamara imputato di corruzione. L'ufficio si è determinato nel senso indicato perché in questo modo, in linea con lo spirito della recente riforma Cartabia, possono rapidamente definirsi due procedimenti di particolare complessità che avrebbero significativamente impegnato l'ufficio inquirente e quello giudicante nei prossimi anni».
Il processo avrebbe potuto far emergere nuovi particolari sul mercato delle nomine e sulle zone d’ombra del mondo della magistratura, dato l’alto numero di testimoni previsti, molti dei quali pronti a levarsi sassolini dalle scarpe. Tutti contenti, dunque? «Prima di tutto, adesso, deve venire l’interesse della magistratura, che deve prevalere su tutto», si limita a commentare Palamara.
Ma le chat di Palamara “inguaiano” il procuratore Bombardieri: il Csm lo convoca a Roma. La quinta commissione doveva decidere lunedì scorso sulla nomina del procuratore di Reggio Calabria, ma ha optato per un approfondimento istruttorio. a. a. su Il Dubbio il 18 aprile 2023
La quinta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura rinvia la decisione sulla procura di Reggio Calabria. Lunedì scorso infatti i consiglieri togati e laici di Palazzo dei Marescialli hanno trattato la pratica che riguarda l’attuale procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Domenico Angelo Raffaele Seccia, già procuratore di Lucera e Fermo.
Durante la discussione il consigliere togato indipendente Andrea Mirenda ha proposto e ottenuto l’audizione di Bombardieri in merito alle note chat con Luca Palamara, scagionato dalla procura di Perugia per il reato di corruzione. L’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati era molto amico di Bombardieri e nel periodo della nomina del Plenum, avvenuta nel 2018, i due magistrati si scambiavano di frequente messaggi su Whatsapp e Telegram. In alcuni casi si discuteva dell’inchiesta della procura di Locri contro Mimmo Lucano, esprimendo nei confronti dell’allora procuratore Luigi D’Alessio dei giudizi poco lusinghieri nei suoi confronti. Ma Bombardieri e Palamara parlavano anche delle dichiarazioni pubbliche di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, e delle varie dinamiche associative all’interno della magistratura.
Prima di prendere una decisione definitiva (si spera) sulla procura di Reggio Calabria, la quinta commissione ha valutato la possibilità di aprire anche il fronte delle chat con Palamara, rifacendosi alla recente sentenza del Consiglio di Stato che sul punto aveva bacchettato il Csm per non aver motivato sul punto discusso lunedì scorso a Roma. Bombardieri salirà nella Capitale il prossimo 27 aprile. La scelta arriverà subito dopo.
Il colpo di scena a Perugia. Caso Palamara, cade l’accusa di corruzione e l’ex pm chiede il patteggiamento: “Mai venduto la mia funzione”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 18 Aprile 2023
Cade l’accusa di corruzione nei confronti di Luca Palamara. La Procura di Perugia questa mattina ha riqualificato l’ipotesi di reato che pesa sull’ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm, indagato per i suoi rapporti con l’imprenditore e faccendiere Fabrizio Centofanti.
Palamara, radiato una volta emerso il caso delle ‘chat’ per orientare nomine negli uffici giudiziari d’Italia, dovrà infatti rispondere “semplicemente” di traffico di influenze illecite.
Alla luce della richiesta, la difesa di Luca Palamara, rappresentato dagli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Buratti, hanno chiesto il patteggiamento a un anno nei confronti del loro assistito. La coimputata di Palamara, Adele Attisani, che avrebbe accompagnato il magistrato nei viaggi pagati da Centofanti, ha chiesto invece il rito abbreviato. La corte si è riservata di decidere, rinviando l’udienza al 16 maggio.
Per Palamara è comunque un primo risultato importante. Per l’ex magistrato nella nuova contestazione della Procura di Perugia “è caduta ogni ipotesi corruttiva” e quindi “non c’è mai stata nessuna corruzione al Csm come una parte della (dis)informazione raccontava il 30 maggio del 2019 all’inizio di questa vicenda”.
L’ex numero uno dell’Associazione nazionale magistrati ribadisce però che la richiesta di accedere a riti alternativi, come appunto il patteggiamento, non implica “riconoscere alcuna forma di mia responsabilità” ma è solo un modo per “liberarmi dal fardello dei processi ed essere così più libero di portare avanti la battaglia di verità per una giustizia giusta”, ha spiegato Palamara nelle parole riportate dall’Ansa.
“Come ho sempre dichiarato sin dall’inizio della vicenda che mi ha riguardato non ho mai venduto la mia funzione e mai avrei tradito il giuramento fatto al momento del mio ingresso nella magistratura“, ha aggiunto l’ex pm di Roma, che ribadisce poi il suo impegno nella “battaglia di verità su ciò che non ha funzionato all’interno della magistratura e nei rapporti tra politica e magistratura a supporto di quei tanti cittadini onesti che in questi anni mi hanno sostenuto e che fuori dalle ipocrisie vogliono far sentire la loro voce per una vera riforma della giustizia che – ha concluso Palamara – da troppo tempo manca nel nostro Paese“.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket
La Prescrizione.
Antonio Giangrande: Prescrizione. Manlio Cerroni e la malafede dei giornalisti.
Un indagato/imputato prescritto non è un colpevole salvato, ma un soggetto, forse innocente, NON GIUDICABILE, quindi, NON GIUDICATO!!!
Incubo carcere preventivo: quattro milioni di innocenti. In 50 anni troppe vittime hanno subìto l'abuso della detenzione. C'è del marcio nei palazzi di giustizia. Si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", ma sono la prova che il sistema è al collasso, fin nelle fondamenta, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Quello che mi fa ribollire il sangue è che si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", a presentarli come casi isolati da inserire nel naturale corso della dialettica processuale. E invece sono la prova provata di un sistema giudiziario marcio fin nelle fondamenta. Aprite i giornali e ogni giorno troverete uno di questi "errori". Facciamo insieme due passi nelle cronache recentissime e ripercorriamole a ritroso.
Eppure i figli di…Travaglio divulgano certi messaggi fuorvianti atti ad influenzare gli ignoranti cittadini, che poi votano ignoranti rappresentanti politici e parlamentari.
A tal proposito viene in aiuto l’esempio lampante di come un tema scottante ed attuale venga trattato dai media arlecchini, servi di più padroni.
Assolti? C’è sempre un però. E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo.
TG1: ROMA PROCESSO MALAGROTTA, ASSOLTO CERRONI. Andato in onda il 06/11/2018. "Il processo sulla discarica di Malagrotta e la gestione dei rifiuti a Roma. Assolto l'ex patron dello stabilimento, Manlio Cerroni, dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti". Flavia Lorenzoni.
Nel servizio si fa cenno al fatto che il processo è durato 4 anni. E meno male che l’abbia detto. Ma lì si è fermato. Però, di seguito, il TG1 ha mandato in onda il servizio sulla strage di Viareggio e sugli affetti che la prescrizione avrebbe avuto su di esso.
Nel servizio al TG5 di questo tempo processuale di Cerroni nemmeno se ne fa cenno.
A cercare su tutta la restante stampa e sugli altri tg non si trova altro che cenni all’assoluzione, tacendo i tempi per il suo ottenimento, ma insistendo ad infangare ed inficiare la reputazione dell’ultra novantenne Cerroni.
Solo il detuperato e vituperato giornale di Pero Sansonetti mi apre gli occhi: "Cerroni assolto dopo 14 anni di processi. L’imprenditore era accusato di associazione a delinquere", scrive Simona Musco il 7 Novembre 2018 su "Il Dubbio". "Non c’è mai stata un’associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti a Roma e nel Lazio. Sono serviti quasi 10 anni di indagini e quattro di processo, nonostante il giudizio immediato, per arrivare alla conclusione raggiunta lunedì, dopo otto ore di camera di consiglio, dalla prima sezione penale del tribunale di Roma: l’imprenditore Manlio Cerroni non ha commesso il fatto, dunque va assolto".
14 anni sotto la scure della giustizia. Ma in tema di campagna contro la prescrizione meglio tacciare quest'aspetto della notizia, sia mai si ledano i favori dei potenti di turno.
Una censura o un’omertà assordante, nonostante: "In 30 anni ho finanziato tutta la politica. Tutta no, i Radicali non me l'hanno mai chiesto". Manlio Cerroni, intervistato da Myrta Merlino su La 7 il 6 settembre 2017.
Lo scandalo non sta nel fatto che scatta la prescrizione, dopo anni dal presunto reato e anni dall’inizio del procedimento penale. Lo scandalo sta nel fatto che non sono bastati anni alla magistratura per concludere l’iter processuale.
La prescrizione è garanzia di giustizia, i pm la trasformano in un mostro giuridico. Lo studio dell'associazione "Fino a prova contraria". Annalisa Chirico, giornalista e fondatrice del movimento "Fino a prova contraria", ha pubblicato sul Foglio un interessante studio dei dati relativi alla prescrizione dei procedimenti penali in Italia. Studio che merita di essere approfondito e commentato, visto che cristallizza in maniera inconfutabile alcune verità che non faranno certamente piacere ai giustizialisti in servizio permanente effettivo. Partendo dalle rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, raccolte in un documento dello scorso maggio, la giornalista ha potuto constatare che circa il 60% delle prescrizioni avvengono nella fase delle indagini preliminari. Quindi nella fase in cui il pubblico ministero è dominus assoluto del procedimento e dove la difesa, usando una metafora calcistica, "non tocca palla". Il dato smentisce una volta per tutte la vulgata che vedrebbe l'indagato ed il suo difensore porre in essere condotte dilatorie per sottrarsi al giudizio. Quella che viene comunemente chiamata "fuga dal processo". Di contro, certifica l'assoluta discrezionalità dell'ufficio del pubblico ministero nella gestione del procedimento.
Nonostante la verità si appalesa, certi politici, continuano a cavalcare barbare battaglie di inciviltà giuridica e sociale.
Prescrizione: Salvini, voglio tempi brevi processo e in galera colpevoli, scrive Adnkronos l'8 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “La mediazione è stata positiva, accordo trovato in mezz’ora. Voglio tempi brevi per i processi. In galera i colpevoli, libertà per innocenti. La norma sulla prescrizione sarà nel ddl ma entra in vigore da gennaio del 2020 quando sarà approvata la riforma del processo penale. La legge delega, che scadrà a dicembre del 2019, sarà all’esame del Senato la prossima settimana”. Lo dice il vicepremier Matteo Salvini, dopo l’intesa trovata a Palazzo Chigi sulla prescrizione.
Prescrizione: Di Maio, soddisfatto da accordo, stop furbetti, scrive Adnkronos il 9 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “Prescrizione? Mi sono svegliato dopo bene dopo l’accordo, mi soddisfa totalmente, perché l’obiettivo di riformare la prescrizione è sempre stata un obiettivo del M5S per fermare i furbetti. Allo stesso modo sapere che il 2019 sarà l’anno del processo penale è importante”. Lo ha detto il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, incontrando la stampa estera a Roma. “Per me è molto importante confrontarmi con voi – ha aggiunto – i media mondiali con cui vorrei confrontarmi su temi importanti”.
Non si vuole curare il male, ma vogliono eliminare il rimedio di tutela.
Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino.
Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti.
Il Giustizialista Giacobino è colui che una la differenziazione della giustizia. Ciò ha un che di antiquato, di classista, distinguere ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa.
Il Giustizialista Giacobino è colui che invoca una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Sì, però, va detto che la giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti.
La Prescrizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro.
Non è un caso, in conclusione, che uno dei padri della scienza penalistica italiana, come Francesco Carrara (Lucca, 18 settembre 1805 - Lucca, 15 gennaio 1888), abbia avuto modo di insegnare l’importanza giuridica dell’istituto della prescrizione: «Interessa la punizione dei colpevoli, ma interessa altresì la protezione degli innocenti. Un lungo tratto di tempo decorso dopo il fatto criminoso che vuolsi obiettare ad alcuno rende a questo punto infelice, quasi impossibile, la giustificazione della propria innocenza […]. Qual sarebbe l’uomo che chiamato oggi a dar conto di ciò che fece in un dato giorno dieci anni addietro sia in grado di dire e dimostrare dove egli fosse, e come sia falsa la imputazione che contro di lui si dirige? La perfidia di un nemico può avere maliziosamente tardato a lanciare lo strale della calunnia per farne più sicuro lo effetto».
Tuttavia la veemenza con cui, negli ultimi anni, opinione pubblica e rappresentanti politici e della magistratura ritengono una ferita alla civiltà giuridica un istituto che, dai tempi del diritto romano, ne è stato invece baluardo, ha origini mediocri.
Ma se è mediocre la veemenza, è antica la genesi dell’istituto della Prescrizione.
E' indubbio che l'istituto della prescrizione - nato come istituto di natura processuale (la longi temporis praescriptio del diritto romano) che estingue l'azione (civile o penale) e come tale disciplinato nel diritto penale risponde in primo luogo all'esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici, esigenza cui è evidentemente interessato soprattutto l'imputato. Nell'Atene classica esisteva un termine di prescrizione di 5 anni per tutti reati, ad eccezione dell'omicidio e dei reati contro le norme costituzionali, che non avevano termine di prescrizione. Demostene scrisse che questo termine fu introdotto per controllare l'attività dei sicofanti.
“Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (Milano 15 marzo 1738 - Milano 28 novembre 1794). CAPITOLO XXX PROCESSI E PRESCRIZIONE. Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto.
A cura del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, videomaker, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS.
Vogliamo cominciare a parlarne seriamente? Riforma prescrizione tra manine e manone: far luce sulla magistratura ministeriale. Gian Domenico Caiazza su Il riformista il 19 Agosto 2023
Intanto, ricapitoliamo.
La prescrizione versione Alfonso Bonafede fu una idea che perfino il partner leghista dello sciagurato “Conte 1”, per bocca di Giulia Bongiorno, dichiarò solennemente -pur votandola- di voler riscrivere appena possibile. Magistratura, per converso, entusiasta. Arrivano (per fortuna) Draghi e Cartabia e, pur a Parlamento invariato, sono tutti d’accordo (tranne i 5 Stelle) che quell’orrore dell’imputato a vita vada quanto prima cancellato. La Commissione Lattanzi sforna una soluzione che piace a tutti: si torni alla prescrizione come appena (2017) riformata dal Ministro Orlando, per di più con alcuni apprezzabili miglioramenti.
Ma i 5 stelle minacciano la crisi se non si trova una soluzione che salvi loro almeno la faccia. Nasce così il lodo Cartabia: resta l’interruzione bonafediana della prescrizione con la sentenza di primo grado, però compensata dalla prescrizione processuale (biennale o triennale ma con mille deroghe) in appello. Per inciso, una soluzione ben peggiore innanzitutto per la weltanschauung (si fa per dire) grillina: tu commetti una rapina oggi, vieni processato con rito immediato, sentenza di primo grado dopo sei mesi, prescrizione in appello dopo tre anni, quindi di fatto prescrizione in tre anni e sei mesi invece degli almeno quindici dell’odiato regime precedente. Ma si sa, primum vivere, e poi Conte è un civilista.
Siamo ora al Governo di centrodestra, maggioranza parlamentare ben oltre quella di governo, sul ritorno almeno alla Orlando. E invece, non solo è tutto fermo, ma iniziano a girare voci inquietanti su idee governative circa la decorrenza della prescrizione dalla scoperta del reato, antica passione delle toghe. Rivolta nella stessa maggioranza, in speranzosa attesa di smentite al momento non pervenute. Ed eccoci al punto: quale sarebbe la matrice politica di questa devastante proposta? Quale dei partiti della coalizione di Governo? Esiste un nome, un volto del proponente, un luogo e una occasione dove essa è stata partorita? Il Presidente di ANM, intanto, pur con qualche blando distinguo, puntualmente si compiace e ne “condivide lo spirito”.
Autorevoli commentatori parlano di “proposta pacificatrice” tra Ministro e magistratura. Noi penalisti, inascoltati, stiamo da tempo lanciando l’allarme. Ci sono manine e manone che operano, attivissime ed indisturbate, e orientano ed indirizzano quotidianamente la politica della giustizia nel nostro Paese, fuori dalla rappresentanza democratica nei partiti e nei gruppi parlamentari. Vogliamo cominciare a parlarne seriamente? Vogliamo accenderla una volta per tutte questa luce sulla magistratura ministeriale, su come essa opera ed entro quali limiti? E soprattutto, qualcuno ci risponda: perché mai in Italia, caso unico di commistione tra poteri “nell’orbe terraqueo”, si consente alla magistratura di operare così liberamente al governo della giustizia? Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Così la prescrizione che vuole Nordio dà troppo potere al pm. Il diritto di difesa sarebbe indebolito e la norma si porrebbe al di fuori della cornice costituzionale: si rischia di lasciare i cittadini a tempo indeterminato sotto la spada di Damocle dell’iscrizione della notizia di reato. Oliviero Mazza, giurista, su Il Dubbio il 18 agosto 2023
La proposta di riforma della prescrizione preannunciata dal Ministro Nordio risponde all’esigenza, generalmente condivisa, di riordinare una materia che vede tutt’ora applicabili diacronicamente ben quattro diversi regimi, a seconda del tempus commissi delicti: pre-Cirielli, Cirielli, Orlando, Bonafede con il correttivo Cartabia. Se tutti sono più o meno d’accordo sulla necessità di ricondurre a razionalità l’istituto, quando si devono delineare le linee di intervento le opinioni divergono, anche profondamente.
Il contrasto nasce dalla mancata comprensione del fondamento costituzionale e razionale della prescrizione, come dimostra la proposta di fissare il dies a quo all’inizio delle indagini. Ciò significa non considerare che la prescrizione comprende in sé due orologi ben distinti, sebbene inscindibilmente connessi: quello che misura il tempo della scoperta del reato e quello che misura il tempo dell’accertamento giudiziale. Non si può obliterare questa duplice natura, sarebbe un gravissimo errore di impostazione trascurare, come sembra fare la proposta Nordio, il tempo della scoperta del reato, così consegnando al pubblico ministero una piena discrezionalità cronologica nel dare avvio al procedimento. Il rischio concreto è quello di lasciare i cittadini a tempo indeterminato sotto la spada di Damocle dell’iscrizione della notizia di reato. Un vero e proprio assurdo giuridico, certamente in contrasto con i valori costituzionali che, invece, la prescrizione intende tutelare.
Se si vuole adottare finalmente una disciplina costituzionalmente orientata occorre partire dal presupposto che il tempo della scoperta del reato è funzionale all’effettività del giusto processo. Bisogna avere ben chiaro che l’imputato non ha solo il diritto soggettivo a un processo di durata ragionevole, ma prima ancora deve essergli garantito il diritto a che il processo prenda avvio in un tempo ragionevole dalla presunta commissione del fatto. Un accertamento compiuto tardivamente sconta l’impossibilità del pieno esercizio del diritto di difesa e si pone al di fuori della cornice costituzionale.
Qualora si registrasse un eccessivo scollamento temporale fra il reato e il processo, tutto il castello delle garanzie processuali, compresa la concentrazione dell’accertamento, finirebbe per crollare, così come sarebbe vanificata la finalità costituzionalmente imposta alla pena. Non è un caso, dunque, se, anche nel sistema costituzionale statunitense, il right to a speedy trial viene concepito, anzitutto, come il diritto alla rapida apertura del processo, tutelato dalla procedura di dismissal in caso di preaccusation delay.
Tracciare il legame inscindibile fra prescrizione e valori costituzionalmente protetti consente anche di svelare il paradosso per cui la durata ragionevole viene normalmente invocata, soprattutto nella prospettiva efficientista, quale controlimite per i diritti del giusto processo. Nel sistema dei diritti costituzionali la ragionevole durata è, invece, il predicato del giusto processo, ne diviene un requisito strutturale che segna il punto di equilibrio democratico nei rapporti fra autorità e cittadino: decorso un certo lasso di tempo o lo Stato è in grado di accertare compiutamente la responsabilità, vincendo la presunzione d’innocenza nel contesto di un giusto processo, oppure l’accusato deve essere per sempre liberato dal giogo della pretesa punitiva che fino a quel momento ne ha condizionato l’esistenza.
La prescrizione ha costituito, nei fatti, la sanzione per la violazione del principio costituzionale di ragionevole durata del giusto processo. E come tutte le sanzioni ha operato sia sul piano della prevenzione speciale, bloccando il singolo processo di durata irragionevole, sia sul piano della prevenzione generale, come deterrente per l’eccessiva durata dei processi, come stimolo potentissimo al contenimento dei tempi delle attività processuali.
L’oblio dell’interesse punitivo rimane una vera e propria fictio iuris in una società vendicativa poco incline a dimenticare e non fornisce una solida giustificazione politica per l’esistenza stessa della prescrizione. Al contrario, la prospettiva schiettamente processuale è quella che garantisce l’unico vero caposaldo rinvenibile nella Carta fondamentale, il diritto al giusto processo di durata ragionevole anche quale garanzia strumentale rispetto ai diritti di difesa, alla presunzione d’innocenza e alla finalità rieducativa della pena, garanzia strumentale che presuppone ulteriormente il diritto a che l’accertamento abbia inizio in un tempo ragionevole dal reato. I due orologi sono uno il presupposto dell’altro. E la prospettiva processuale non toglie nemmeno un grammo al peso sostanziale di un istituto che comunque produce i suoi effetti sul piano della punibilità in concreto, ossia del diritto penale.
Queste sono solo le premesse per ragionare poi sulla compatibilità europea di termini superiori agli 8 anni e mezzo o sulla latente illegittimità costituzionale dei reati imprescrittibili.
Il processo indefinito. L’obbrobrio sulla prescrizione è tutta farina del sacco di Nordio. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 19 agosto 2023
La proposta del ministro della Giustizia di far decorrere la prescrizione dalla scoperta del reato non è un compromesso con toghe e procure per far passare la riforma, ma una sua antica iniziativa autonoma che minerebbe il senso stesso dell’istituto
Nell’intervista pre-ferragostana per il Corriere della Sera il ministro Carlo Nordio, garantendo che sarebbe stato rispettato il cronoprogramma del Governo per le riforme sulla giustizia, aveva affermato enigmaticamente che la prescrizione sarebbe stata riportata «nell’ambito del diritto sostanziale, come causa di estinzione del reato e non di improcedibilità: soluzione, quella della riforma della ministra Cartabia, che ha creato enormi difficoltà applicative».
Il che non significa nulla rispetto al problema del cosiddetto “fine processo mai”. Può significare allungare i termini di prescrizione o ridurli o determinarli secondo variabili più o meno creative e fantasiose.
Di grande fantasia sembra appunto essere l’ipotesi che sta insistentemente circolando, rivelata a Ferragosto da Repubblica, che prevederebbe di stabilire la decorrenza della prescrizione non dalla commissione del reato per cui si procede, ma dalla sua scoperta.
Su questa ipotesi si concluderebbe il grande compromesso tra il ministro e i pm, con il sostegno di via Arenula a una proposta da sempre sollecitata, ricordava proprio Milella su Repubblica, «dai magistrati e da una toga come Pier Camillo Davigo, convinti che la moria dei processi sia proprio determinata dal fatto che la prescrizione parte troppo presto, quando il reato viene commesso, e non quando viene scoperto, soprattutto per i crimini dei colletti bianchi».
Il fatto che da Via Arenula nessuno abbia smentito questa ipotesi ha persuaso tutti che non si tratti una boutade giornalistica, ha preoccupato i parlamentari forzisti che si sono dichiarati indisponibili a sostenerla e ha suscitato la reazione dell’Unione delle Camere Penali, il cui presidente Giandomenico Caiazza ha definito questa soluzione «un obbrobrio» per cui «viene meno il senso stesso dell’istituto della prescrizione, legato al progressivo venir meno, con il trascorrere del tempo, dell’interesse punitivo dello Stato».
La cosa curiosa è che sulla grande stampa praticamente nessuno ha notato come questa ipotesi non sia affatto un compromesso diabolico e obbligato, che il ministro dovrebbe stringere con l’Anm o con le procure per guadagnarne il favore, ma sia tutta farina del suo sacco e risalga al tempo in cui il suo mandolinismo pseudo-garantista suscitava entusiasmi di pubblico e di critica in quel coté intellettuale che si era ingenuamente intestardito a invocarlo Messia del diritto penale liberale.
Nel 2018, durante la stagione gialloverde, della cui componente verde Nordio aveva un giudizio molto amichevole e indulgente, prima che il Governo Conte-Salvini-Di Maio approvasse il Parlamento la legge “Spazzacorrotti” con l’abrogazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, il già pensionato e non ancora ministro ex pm veneto propose esattamente questa exit strategy. Lo disse a chiare lettere: la prescrizione è «la garanzia di una ragionevole durata del processo» e «va mantenuta. È vero però che alcuni reati si scoprono sempre anni dopo la loro commissione, pensiamo ai falsi in bilancio o alle frodi fiscali, e quindi si sono già mangiati metà del tempo di prescrizione. Il compromesso giusto sarebbe far decorre il termine della prescrizione non dal momento della commissione del reato, ma da quello della scoperta del suo autore, e dalla iscrizione nel registro degli indagati». Davigo non avrebbe saputo dire meglio.
Fortuna che Dj Fofò non gli ha dato retta, scegliendo la strada del “processo infinito” e dando alla ministra Cartabia, nei limiti delle compatibilità politiche in cui era costretta, la possibilità di mettere un termine alla pretesa punitiva dello Stato, e non quella del “processo indeterminato”, in cui qualunque pm potrebbe datare il reato per cui pensa di procedere in base a un arbitrario giudizio sui termini della sua emersione e conoscibilità.
Per severo che possa essere il giudizio sul lodo Cartabia non vi è paragone, né di razionalità, né di decenza, tra un sistema in cui comunque si sa quando (troppo tardi) i termini di prescrizione scadono rispetto a uno che non consente neppure di prevedere quando inizino.
Anche questo episodio, come tutti quelli che si sono succeduti dall’inizio della legislatura, confermano che sarebbe meglio lasciarsi alle spalle il wishfull thinking del “ministro garantista” e riconoscere a Nordio il ruolo che gli spetta di arbitro pro tempore dei destini e delle miserie del bipopulismo penale e della giustizia a uso e consumo dei pm.
L’ennesimo esempio di disinformazja giudiziaria. Il giudice lascia il processo per avvicinarsi a casa e nessuno se ne frega: più interessi che diritti (dell’imputato). Gian Domenico Caiazza su Il Riformista l'8 Luglio 2023
La cronaca giudiziaria di questi giorni, attenta solo ai processi che fanno audience, segnala l’abbandono di uno dei giudici del processo a Ciro Grillo. Seguono corrucciate previsioni di allungamento dei tempi, e di possibili speculazioni difensive che – pensate un po’ – potrebbero chiedere la ripetizione della istruttoria. Questa annosa questione, ben oltre il singolo caso di cronaca, è l’ennesimo esempio di disinformazja giudiziaria.
C’è qualcuno di voi che, da imputato, accetterebbe l’idea che il giudice – il quale abbia seguito tutta la istruttoria dibattimentale dalla quale dipende più o meno la tua vita – se ne vada bellamente prima di concludere il processo? E che costui venga sostituito da un giudice che non sa nulla del processo, e che se ne farà una idea leggendo i verbali? Io non credo. E infatti il codice impone la ripetizione della istruttoria, come è ovvio e giusto che sia, e come ciascuno di voi pretenderebbe che fosse. Ma la magistratura italiana da sempre aborre questo elementare principio di civiltà giuridica: si perde tempo, dicono.
E – detto fatto – a sezioni unite riscrive la norma, che grazie a quella spericolata interpretazione non è più la regola, ma una cervellotica ed improbabile eccezione, ignota al legislatore. Almeno la Corte costituzionale pone un freno (si eviti la ripetizione solo se c’è la videoregistrazione delle udienze precedenti), e la riforma Cartabia riscrive la norma a ricalco su quella decisione del Giudice delle Leggi. La magistratura, tuttavia, scalpita e fa rullare i tamburi, perché le videocamere nelle aule non ci sono (ed è vero), ma non accetta che, in attesa, i processi si ripetano.
Ora, il punto è questo: qualcuno si è mai chiesto perché accade tutto ciò? Perché, insomma, si pone il problema del giudice che va via? Sappiate che la risposta è semplicissima. Lo fa per ragioni di carriera: vuole cambiare sezione, vuole andare al grado superiore, vuole avvicinarsi a casa, vuole raggiungere il coniuge. Tutto legittimo, beninteso. Ma lo scandalo sta nella odiosa prevalenza di questi interessi, legittimi ma corporativi, sul sacrosanto diritto dell’imputato (ma anche delle parti offese!) a vedersi giudicato dallo stesso giudice che ha raccolto la prova.
Dovrebbe accadere almeno che il trasferimento venga eseguito solo quando il giudice abbia esaurito la trattazione dei processi che ha iniziato. Lo dice anche la più ignorata circolare dello stesso CSM. Ma non accade: e quindi parte la grancassa mediatica contro i soliti avvocati che cercano pretesti per perdere tempo, calpestando il principio della ragionevole durata del processo. Pensino a non intralciare la speditezza dei processi, chè l’Europa ci guarda! Così funziona la giustizia penale nel nostro Paese, così venite informati dai media, così si formano le vostre opinioni sulla giustizia penale.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Estratto dal “Foglio” il 28 giugno 2023.
L'ex pm di Mani pulite ed ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, è stato ascoltato ieri dalla commissione Giustizia della Camera sulle proposte di legge che mirano a modificare la disciplina della prescrizione.
“In quasi tutti i paesi occidentali […] la prescrizione non decorre dopo l'inizio del processo”, ha affermato per l'ennesima volta Davigo, ovviamente senza ricordare le statistiche che pongono la giustizia penale italiana in coda a tutte le classifiche internazionali per la sua lentezza (se non si facesse decorrere la prescrizione, i processi sarebbero eterni).
[…] A un certo punto il davigismo è però andato in tilt. “Nel nostro paese c'è una percentuale di impugnazioni sconosciute negli altri paesi. In Francia solo il 50 per cento delle sentenze di condanna viene appellato, in Italia pressoché tutte”, ha detto Davigo con la solita foga scandalizzata.
Peccato che proprio una settimana fa Davigo, dopo essere stato condannato in primo grado dal tribunale di Brescia per la vicenda dei verbali secretati da Amara, abbia subito annunciato che impugnerà la sentenza di condanna, senza neanche leggere prima le motivazioni. Insomma, se nel nostro paese si impugnano troppe sentenze, è lo stesso Davigo a contribuire a questo problema in prima persona.
L'ennesimo paradosso in cui Davigo è caduto a causa della vicenda Storari-Amara. Anche in questo caso, l'ex pm di Mani pulite si è dimenticato di ricordare il contesto: con magistrati abituati a addestrare teoremi senza alcun briciolo di prova, […] l'impugnazione delle sentenze è un diritto fondamentale e inderogabile. Da difendere, anche a vantaggio di Davigo.
I reati si prescrivono e non si arriva a sentenza? La ‘colpa’ è degli avvocati per l'ex pm di Mani Pulite. Piercamillo il condannato in audizione alla Camera: Davigo spiega il suo verbo su prescrizione e legge Bonafede. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 28 Giugno 2023
I reati si prescrivono e non si arriva a sentenza? La ‘colpa’ è degli avvocati. A dirlo è Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite ed idolo dei giustizialisti in servizio permanente effettivo. Davigo, fresco di condanna ad un anno e tre mesi di prigione per aver rivelato i verbali degli interrogatori dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla loggia Ungheria, è intervenuto ieri in audizione alla Camera sulla riforma della prescrizione. La sua audizione era stata sollecitata dal M5s, per nulla in imbarazzo della condanna riportata da Davigo questo mese dal tribunale di Brescia. “Non stiamo parlando di una candidatura a una carica elettiva o di una nomina a un incarico pubblico: qui si sta chiedendo un contributo tecnico ad una persona che per decenni ha svolto incarichi di primo piano nella magistratura e per questo ha accumulato grande conoscenza della materia, dimostrando sempre notevole preparazione e non comune rigore nelle argomentazioni”, ha replicato al Dubbio, mostrando un inaspettato garantismo, Valentina d’Orso, capogruppo pentastellata in Commissione giustizia a Montecitorio.
Alla Camera, prima ancora che Carlo Nordio presentasse all’inizio del mese la sua riforma della giustizia, sono incardinate tre diverse proposte di legge, a firma Enrico Costa (Azione), Pietro Pittalis (FI) e Ciro Maschio (FdI), che puntano a modificare le attuali norme sulla prescrizione, tornando al meccanismo antecedente a quello voluto dall’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede e successivamente modificato da Marta Cartabia. L’ex presidente della Consulta, nella scorsa legislatura, aveva introdotto l’improcedibilità, uno strumento di tipo processuale che trascorsi due anni senza la pronuncia dell’appello determina la fine del procedimento.
Il problema della prescrizione, per Davigo, sarebbe dovuto al numero, a suo dire eccessivo, degli avvocati italiani che avrebbero tutto l’interesse a tirare in lungo le cause. “Gli avvocati in Italia abilitati al patrocinio in Cassazione sono 52mila”, ha ricordato l’ex pm. Essendo ’tanti’, per Davigo, presenterebbero appelli anche se non ci sono presupposti, in tal modo dilatando i tempi di definizione dei processi per raggiungere la tanta agognata prescrizione.
La ricostruzione di Davigo è stata immediatamente smontata da Costa, responsabile giustizia di Azione. Costa, infatti, tabelle ministeriali alla mano, ha evidenziato come la maggior parte delle prescrizioni avvenga oggi durante la fase delle indagini preliminari, quando l’avvocato non “tocca palla” essendo il pm dominus assoluto ed il procedimento coperto dal segreto. Quando il procedimento supera questa fase ha già consumato molto tempo.
Nessuna riforma, va ricordato, è riuscita ad intervenire in maniera efficace sui tempi delle indagini preliminari, prevedendo, ad esempio, sanzioni per i pm che per inerzia o altro lasciano i fascicoli in ‘sonno’. Il problema è molto serio come è stato ricordato dagli avvocati penalisti. La prescrizione, infatti, è una norma di diritto sostanziale e trova il suo fondamento nella Costituzione. Se la pena ha una funzione “riabilitativa”, che senso può avere farla espiare a distanza di tanti anni dal fatto commesso? Non è più riabilitazione ma ‘afflizione’. L’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado che era stata introdotta da Bonafede aveva creato la figura processuale dell’imputato a vita, in balia delle decisioni dei magistrati e senza alcuna possibilità di incidere sulle stesse.
La riforma Cartabia ha, come detto, introdotto l’improcedibilità ma gli effetti, soprattutto per gli effetti civili non sono ancora valutabili. Il processo deve ricominciare davanti al giudice civile e nessuno è oggi in grado di fare previsioni sulla sua conclusione. Molto meglio, dunque, tornare, come evidenziato dai proponenti, ai tempi di prescrizione legati alla gravità del reato commesso.
Premesso che i reati gravi, quelli per fatti di sangue o con l’aggravante di mafia e terrorismo, sono già oggi imprescrittibili, anche i tanti contro la Pa hanno tempi molto lunghi di prescrizione. Guardando il catalogo dei reati di medio allarme sociale, nessuno, già con le modifiche introdotte da Andrea Orlando, si prescrive prima di 15 anni, un tempo assolutamente idoneo per celebrare i tre gradi di giudizio e in linea con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
La soluzione, allora, sarebbe depenalizzare e non mettere continui paletti al diritto di difesa. Sempre con le statistiche alla mano, in appello sono modificate circa il 40 per cento delle sentenze di condanna di primo grado. Altro che ‘colpa’ degli avvocati come dice Davigo.
Paolo Pandolfini
“Criticò Davigo ma non lo diffamò”. Assolto il giornalista Paolo Mieli. Massimo Balsamo il 28 Giugno 2023 su Il Giornale.
“Il fatto non costituisce reato” secondo il giudice monocratico del Tribunale di Milano Luigi Varanelli.
Paolo Mieli è stato assolto a Milano dall’accusa di aver diffamato l’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Fu una critica, non diffamazione il parere del giudice monocratico della terza sezione penale del tribunale, Luigi Varanelli, accogliendo le richieste del pm Paolo Filippini e dell'avvocata Caterina Malavenda, legale del giornalista. La vicenda risale al 5 giugno 2020, al centro della discussione l’editoriale scritto dal giornalista per il Corriere della Sera in cui commentava un’intervista rilasciata a “Non è l’arena” – su La7 – dall’ex membro del Consiglio superiore della magistratura Luca Palamara.
"Palamara ha tenuto a citare il nome dei più importanti procuratori della Repubblica per sottolineare come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazione", le parole di Mieli sul Corriere della Sera: "Talvolta, ha lasciato intendere, d'accordo con l'uomo di maggior rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno con qualcuno della sua corrente". Ritenendo questo passaggio lesivo della sua reputazione, Davigo aveva sporto querela evidenziando di non aver mai avuto niente a che fare con il “sistema Palamara”. Poi il sostituto procuratore Francesco Ciardi – senza acquisire il video di “Non è l’arena” aveva messo in deposito gli atti e il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale aveva disposto la citazione diretta a giudizio dell’ex direttore del Corriere.
Mieli e Davigo durante il dibattimento erano stati ascoltati nei mesi scorsi dal giudice Varanelli. Come riportato dal Corriere, quest’ultimo aveva più volte chiesto all’ex pm di Mani pulite se l’oggetto delle sue doglianze fosse proprio il passo in cui il giornalista esprimeva la sua opinione su quello che aveva ascoltato i televisione. Mercoledì mattina il giudice ha invitato l’avvocato di Davigo, il legale Francesco Borasi, a valutare se rimettere la querela. Mieli, dal canto suo, ha spiegato che avrebbe accettato la remissione solo se fosse arrivata prima, rimarcando che la causa “è stata una esperienza molto dolorosa”.
“Questo processo nasce da un equivoco”, ha rimarcato in requisitoria il pm Paolo Filippini prima di chiedere l’assoluzione: “Dall’errore sia della parte offesa di denunciare il gioriustizianalista, sia della Procura di mandare a giudizio il giornalista, senza prima avere acquisito la fonte, ossia il video della trasmissione in cui Palamara, su forte pungolo e strategia giornalistica di Giletti, che gli chiedeva se davvero Davigo potesse atteggiarsi a “vergine”, rispondeva in modo sibillino”. Mieli nel suo articolo “non ha fatto altro che richiamare quel passaggio della trasmissione e introdurvi una lettura di secondo livello che rientra assolutamente nell’esercizio della critica giornalistica" senza volontà di diffamare Davigo.
Toh, il condannato Davigo dà lezioni alla Camera: ora valga per tutti. L’ex pm sarà audito sulla prescrizione, su input del M5S. Che dice: non è un aspirante sindaco...Valentina Stella, Errico Novi su Il Dubbio il 26 giugno 2023
Oggi pomeriggio alle 14:30 la commissione Giustizia della Camera avvierà un ciclo di audizioni informali, in videoconferenza, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge di Enrico Costa, Pietro Pittalis e Ciro Maschio su “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato”. Tra gli esperti che verranno sentiti, compaiono i professori Gianluigi Gatta e Mitja Gialuz, chiamati dal Pd, il segretario dell’Unione Camere penali Eriberto Rosso, indicato da Enrico Costa, i vertici dell’Anm Giuseppe Santalucia e Salvatore Casciaro voluti dal Movimento 5 Stelle, il quale ha richiesto anche la presenza di Piercamillo Davigo, magistrato in congedo, condannato pochi giorni fa, in primo grado, a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. Nulla quaestio sulla sua audizione: una persona è innocente fino a sentenza definitiva, e anche qualora la sua condanna passasse in giudicato chi lo dice che non potrebbe essere audito come ex magistrato? Sono sempre suonati stucchevoli i discorsi sulle “questioni di opportunità” riguardanti incarichi per politici anche solo indagati, suonerebbero altrettanto fuori luogo per Davigo. Certo colpisce che a volere alla Camera l’ex pm del “pool” siano i pentastellati, i quali sembrano abbandonare così quella presunzione di colpevolezza da cui sono stati sempre sedotti: come “uno valeva uno”, fino a qualche tempo fa, persino un avviso di garanzia valeva, ad esempio, dimissioni subito da qualsiasi carica. Adesso, e ne siamo lieti, il paradigma sembra cambiato. Ma perché da parte dei 5S su Davigo non esiste imbarazzo laddove, per esempio, il Movimento difende ancora la legge Severino, che sancisce la sospensione per gli amministratori locali in caso di condanna di primo grado?
Valentina d’Orso, capogruppo 5S in commissione Giustizia, risponde che «la richiesta di audizione del dott. Davigo è precedente alla notizia della sua condanna» ma che «in ogni caso è stata da noi confermata in quanto non c’è alcun imbarazzo, nemmeno dopo la condanna in primo grado. Non stiamo parlando di una candidatura a una carica elettiva o di una nomina a incarico pubblico: qui si sta chiedendo un contributo tecnico a una persona che per decenni ha svolto incarichi di primo piano nella magistratura e per questo accumulato grande conoscenza della materia, dimostrando sempre notevole preparazione e un non comune rigore nelle argomentazioni».
Del resto, conclude D’Orso, «non è nostra abitudine andare a controllare la fedina penale delle tante persone audite in commissione su richiesta di tutte le forze politiche. Piuttosto, è paradossale e fa francamente sorridere che l’obiezione giunga dal sedicente fronte politico garantista: evidentemente sono loro a usare due pesi e due misure, ricorrendo a un garantismo di comodo con gli amici e a un giustizialismo d’occasione contro quelli che ritengono avversari».
In realtà nessuna polemica è stata sollevata da un presunto fronte garantista: a porci la domanda siamo stati semplicemente noi. E dalle parole della deputata possiamo dedurre due considerazioni. La prima: finalmente i 5 Stelle non legano la credibilità di una persona alla mera assenza di scocciature con la giustizia. La seconda: è discutibile tuttavia il loro ragionamento nella parte in cui di fatto sancisce che una persona indagata, o imputata o addirittura condannata in primo grado e comunque presunta innocente possa essere ritenuta attendibile come esperta da audire in commissione ma non possa essere ritenuta degna di una candidatura o di restare in carica come amministratore locale.
Ci chiediamo, o meglio chiediamo loro: la presunzione d’innocenza non dovrebbe essere un principio assoluto, di civiltà liberale, che non si misura col lumicino?
È il solito Davigo: «Giustizia lumaca? Colpa degli avvocati». In commissione giustizia alla Camera parte il ciclo di audizioni sui disegni di legge finalizzati alla riforma della prescrizione. L’ex pm: «In Francia solo il 50% delle condanne viene impugnato, in Italia tutte». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 giugno 2023
La commissione Giustizia della Camera ha avviato un ciclo di audizioni informali nell’ambito dell’esame delle proposte di legge di Enrico Costa, Pietro Pittalis e Ciro Maschio su “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato”. Le proposte Costa e Maschio propongono di tornare alla riforma Orlando, mentre quella Pittalis all’assetto di disciplina precedente alla riforma Orlando.
Tra i primi ad essere auditi Gianluigi Gatta, consigliere dell’ex ministra Cartabia e ordinario di diritto penale all’Università di Milano che ha dapprima evidenziato come una ennesima modifica stresserebbe il sistema e gli operatori: «I tre disegni di legge si propongono di riaprire per l’ennesima volta il cantiere della prescrizione del reato, un istituto che negli ultimi diciotto anni – dalla legge ex Cirielli del 2005 ad oggi – è stato riformato già quattro volte. È comprensibile il mal di testa di interpreti e magistrati, chiamati a confrontarsi con complesse questioni di diritto intertemporale dipendenti dai quattro diversi regimi della prescrizione succedutisi a stretto giro di tempo».
In merito al ritorno alla legge Orlando ha aggiunto: «Un sistema ben congegnato in una stagione in cui l’obiettivo del sistema era di ridurre le prescrizioni nei giudizi di impugnazione – specie in appello – ma che è oggi del tutto disfunzionale rispetto all’obiettivo del Pnrr di ridurre i tempi del giudizio penale del 25% entro il 2026. Introdurre ora, in piena fase di attuazione del Pnrr, meccanismi sospensivi del corso della prescrizione, legati alle fasi del giudizio, allungherebbe i tempi medi del processo penale proprio mentre lo sforzo del sistema giudiziario è massimamente teso a ridurli». Sempre sulle proposte Costa e Maschio: «Correrebbero nei giudizi di secondo e terzo grado due diversi termini: quello di prescrizione del reato e quello di improcedibilità dell’azione penale. Sarebbero cioè operativi due diversi timer: l’uno, avviato con la commissione del reato; l’altro, avviato con l’inizio del giudizio di impugnazione. È una soluzione certo molto favorevole per le difese degli imputati ma per nulla per le vittime e per le parti civili e, ancor prima e soprattutto, per la funzione naturale del processo, che è deputato all’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità». Infine, come previsto da Pittalis, «abolire l’improcedibilità, in piena fase di attuazione del Pnrr, sarebbe un suicidio».
Mitja Gialuz, professore di diritto processuale penale presso l’Università di Genova, ha iniziato criticando la proposta Pittalis che ritornerebbe alla ex Cirielli: «Sarebbe un ritorno al passato che ha determinato un aumento delle prescrizioni in appello, che sono – passatemi il termine – “cattive prescrizioni”. Lo Stato ha investito per arrivare ad una sentenza di primo grado e poi tutto verrebbe perso in appello, deludendo le aspettative delle vittime e della società per una decisione di merito». Per entrambi i giuristi, chiamati dal Pd, la soluzione è quella di andare avanti con l’improcedibilità, come «conquista di civiltà».
Enrico Costa ha replicato: «Improcedibilità e prescrizione sostanziale sono complementari ma manifesto comunque una apertura sul mantenimento o meno della prescrizione processuale. Nel caso sarei favorevole a una delle due proposte previste da Lattanzi». Fabio Varone, avvocato e dottore di ricerca in diritto e processo penale presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, si è detto favorevole alla riforma Pittalis. È intervenuto anche Eriberto Rosso, segretario nazionale dell'Unione Camere penali che si è detto d’accordo con tutte le tre proposte nella parte in cui abrogano l’articolo 161 bis cp (il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronunzia della sentenza di primo grado). Ha aggiunto: «Occorrerà fare una sintesi delle tre proposte, avendo come obiettivo il ripristino della prescrizione sostanziale ante 2019. Sulla convivenza tra prescrizione sostanziale e processuale riteniamo che quest’ultima non debba prevalere mai sulla prima».
È arrivato poi il momento di Piercamillo Davigo, magistrato in congedo che ha attaccato, come già scritto sulle pagine del Fatto, le cosiddette presunte tecniche dilatorie degli avvocati favorite a suo dire dalla prescrizione: «Se ad una persona viene rubato un libretto degli assegni e questi vengono usati in varie province gli avvocati non consentono di acquisire la denuncia del derubato, costringendolo a testimoniare in ogni sede». Ha poi ricordato che in «Francia solo il 50% delle condanne viene impugnato, in Italia tutte, per non parlare dei ricorsi in Cassazione. In Francia 1000 l’anno, in Italia 90000, considerato anche l’alto numero di avvocati cassazionisti nel nostro Paese». A replicare Costa, che ha ricordato che «la maggioranza delle prescrizioni arriva durante la fase delle indagini preliminari» e inoltre «se non erro circa il 50% delle sentenze di primo grado impugnate vengono riformate del tutto o in parte in appello». Ci chiediamo: Davigo appellerà la sua recente condanna?
Presenti in Commissione anche Giuseppe Santalucia e Salvatore Casciaro, rispettivamente presidente e segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. Secondo il primo, «cumulare i due meccanismi, della prescrizione e della improcedibilità, a nostro giudizio crea un’incoerenza sistematica. L’improcedibilità è stata la risposta ad una scelta del legislatore del 2019 di interrompere la prescrizione con la sentenza di condanna. I due istituti rispondono a finalità diverse. La compresenza dei due istituti a nostro giudizio è asistematica: o l’una o l’altra».
Il peggior crimine è condannare un cittadino innocente. Basta processi infiniti: prescrizione è civiltà. L'analisi del leader di Forza Italia: "Perseguire una persona non colpevole significa addirittura incoraggiare il crimine, distogliendo mezzi, risorse umane e denaro dalla caccia ai veri criminali". Silvio Berlusconi il 12 Giugno 2023 su Il Giornale.
Scriveva Piero Calamandrei che nelle aule dei Tribunali il Crocifisso non dovrebbe stare appeso alle spalle del collegio giudicante ma, al contrario, «in faccia ai giudici, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerino con umiltà mentre giudicano e non dimentichino mai che incombe su di loro il terribile pericolo di condannare un innocente».
Questo terribile pericolo - evocato dal più grande giurista italiano del '900, uno dei padri della nostra Costituzione - è esattamente la ragione per la quale noi abbiamo incluso il concetto di garantismo, insieme a quelli di liberalismo, di cristianesimo e di europeismo, fra i principi fondanti di Forza Italia.
Come ho spiegato nei tre articoli precedenti, a legare fra loro questi quattro concetti c'è l'idea di sacralità della persona. L'idea che ogni essere umano sia portatore di diritti assoluti, primo fra i quali quello alla libertà. Lo Stato esiste appunto per tutelare la libertà degli individui, e può limitare tale libertà solo quando questa limitazione è indispensabile per tutelare la libertà e i diritti degli altri da una violazione o una prevaricazione.
Lo Stato per i liberali è importante, non siamo certo anarchici, ma la principale funzione dello stato liberale è proprio quella di tutelare i diritti delle persone, diritto alla vita, all'incolumità personale, alla proprietà ecc., fermando e punendo chi li mette in pericolo. Lo Stato ha la titolarità dell'uso legittimo della forza, anche la forza delle armi nei casi estremi, ma soltanto allo scopo di tutelare la libertà e i diritti di ogni cittadino quando sono messi in pericolo.
Perseguire o condannare un innocente è il peggior crimine che lo Stato possa commettere. Significa privare un essere umano della libertà, degli affetti, del lavoro, dei beni, in molti casi della dignità e della considerazione sociale. Significa anche venir meno alla funzione stessa dello Stato, che rinuncia a perseguire i veri colpevoli, i veri criminali, e quindi a proteggere e a difendere la vita, le proprietà, i legittimi diritti delle persone. Significa addirittura incoraggiare il crimine, distogliendo mezzi, risorse umane, denaro per accanirsi contro persone innocenti.
Tuttavia le istituzioni create dall'uomo sono per definizione imperfette, gli esseri umani sono fallibili, il miglior investigatore, il più onesto e professionale, può comunque commettere un errore. La realtà è spesso difficile da interpretare, chi crede di aver individuato un colpevole è naturalmente portato anche in buona fede - a cercare prove che rafforzino la tesi della colpevolezza, non certo quelle dell'innocenza.
Per questo è necessario un giudice terzo, distaccato rispetto sia alle ragioni di chi accusa che di chi si difende, in grado di applicare al caso concreto, serenamente e senza pregiudizi, la norma giuridica, che deve sempre essere generale e astratta. Per questo chi giudica non può essere collega e amico di chi accusa. Una netta distinzione fra le due funzioni, quella inquirente e quella giudicante, è l'unica garanzia che il giudice sia davvero equidistante. Cioè lontano tanto dall'accusatore quanto dall'accusato.
Ma la fallibilità umana può entrare in gioco anche in questo caso: non solo chi accusa, ma anche chi giudica, può sbagliare in buona fede (in Italia abbiamo una grande maggioranza di magistrati onesti e preparati), può essere condizionato da un pregiudizio, oppure per esempio dall'incapacità dell'accusato - anche se innocente - di far valere le proprie ragioni. Non bisogna mai dimenticare che una persona perbene soffre la condizione di imputato, e ancor più la carcerazione, in modo ben diverso da un delinquente abituale, che in qualche modo la mette in conto.
La paura, la vergogna, la sofferenza possono indurre anche a comportamenti controproducenti o autolesionisti. Per questo è necessario che vi siano più gradi di giudizio, perché gli eventuali errori di un giudice possano essere corretti da un altro giudice di livello superiore.
Per questa stessa ragione l'uso della carcerazione preventiva deve essere limitato al massimo e non dovrebbe mai essere ammesso se è finalizzato al solo scopo di ottenere una confessione.
La presunzione di innocenza non è un principio astratto, è una necessità concreta per il corretto funzionamento di un sistema giudiziario. Significa che nessun cittadino può essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva e fino a quel momento non deve perdere nessuno dei suoi diritti. Tanto meno può essere messo in carcere, a meno che non ci siano forti e fondate ragioni per ritenere che possa fuggire o commettere altri gravi reati. Ma questa dev'essere l'eccezione, non la regola.
Significa anche che è l'accusa a dover provare la colpevolezza di un cittadino, non è mai la persona accusata a dover dimostrare la propria innocenza. Anche perché dimostrarla può essere estremamente difficile per chi non ha i mezzi, il denaro, gli strumenti di indagine a disposizione dell'accusa. Chi ha letto Kafka ricorderà lo smarrimento e l'impotenza del singolo di fronte all'imponenza dell'apparato giudiziario.
Per questo «in dubio pro reo» è uno dei principi cardine di ogni sistema giudiziario rispettoso delle persone: meglio rischiare di assolvere un colpevole che di condannare un innocente. È un concetto alla base della nostra idea di Stato liberale e cristiana: affonda le origini addirittura nella Bibbia (Dio era disposto a non punire Sodoma e Gomorra pur di non condannare dieci giusti).
Questo significa anche che un cittadino assolto da un tribunale in un grado di giudizio non dovrebbe essere ulteriormente perseguito: se un magistrato lo ha ritenuto innocente evidentemente esiste almeno un dubbio sulla sua colpevolezza. Per questo abbiamo proposto l'inappellabilità dei giudizi di assoluzione.
A tutto questo si aggiunge il fatto che nella pratica il processo è esso stesso una condanna, perché dura anni, perché getta sulla persona l'ombra del sospetto e dello stigma sociale, perché ne limita anche se innocente molti diritti e molte libertà, perché coinvolge inevitabilmente la famiglia, gli amici, il lavoro, ogni aspetto della vita. Su questo non aggiungo altro, perché entrerei nel merito di dolorose vicende personali delle quali non intendo parlare in questa occasione.
Ma è per questa ragione che i processi non possono durare all'infinito, una persona non può essere sottoposta a questa tortura per decenni. La prescrizione è una misura di civiltà.
Se poi la terzietà dei magistrati non è garantita, se chi accusa ed anche chi giudica è condizionato da pregiudizi, per esempio di tipo politico, il principio fondante del sistema giudiziario viene messo in discussione.
E quanto è successo in Italia, dove fin dagli anni '60-70 il Partito comunista compì un'opera sistematica di occupazione della magistratura con persone di sua fiducia, da inserire nei gangli vitali del sistema giudiziario.
Dodici anni di inchiesta Il pm lumaca era all'Anm. Prescritta senza processo l'indagine sui baroni. Poniz l'archivia, il gip è contrario. Ma è tardi. Luca Fazzo su Il Giornale l’11 Gennaio 2023
Accorciare i tempi della prescrizione, tuonano da sempre le correnti dei magistrati, è un regalo ai delinquenti. Ma c'è la storia di un processo recente che agita il dibattito interno alle chat delle toghe. Un processo dove alla prescrizione delle accuse si è arrivati non per l'ostruzionismo dei difensori ma per la lentezza con cui i pm hanno trascinato le indagini preliminari. Il fatto che quasi tutti questi pm siano esponenti in vista della più battagliera delle correnti organizzate, Magistratura democratica, non fa che acuire il paradosso.
Non si tratta di una inchiesta di poco conto. È l'indagine che esplode nel 2011 a Bari, operazione «Do ut des»: docenti universitari di Diritto in tutta Italia vengono accusati di associazione e delinquere e corruzione, i pm sostengono che dietro lo schermo di una prestigiosa associazione giuridica operasse una cupola in grado di truccare i concorsi universitari, spartendo posti a tutto spiano tra gli adepti dei baroni. Vengono incriminati nomi eccellenti. L'eco è enorme. Ma poi che fine fa, l'inchiesta bomba?
Le indagini della Procura di Bari sono iniziate nel 2008. Per arrivare al blitz, con perquisizioni e avvisi di garanzia, sono serviti tre anni. Poi i pm pugliesi impiegano altri tre anni per accorgersi di non essere competenti per territorio. L'associazione a delinquere ha iniziato a operare a Milano, le carte vengono trasmesse nel capoluogo lombardo. A firmare l'invio sono i pm baresi Francesca Romana Pirrelli e Renato Nitti. Entrambi scrivono sulla rivista di Magistratura democratica ed entrambi poco dopo fanno carriera: la Pirrelli diventa procuratore aggiunto a Foggia, Nitti procuratore a Trani. A una certa lentezza nella gestione dei fascicoli, bisogna dire, nella procura di Bari non è inedita: una inchiesta analoga sui concorsi per le cattedre di cardiologia ha impiegato otto anni per arrivare alla richiesta di rinvio a giudizio, per poi essere spezzettata in varie procure dove si è inabissata tra prescrizioni e assoluzioni. A condurla i pm Emanuele De Maria e Ciro Angelillis. Anche Angelillis è di Md e anche lui fa carriera, approdando alla procura generale della Cassazione.
Quando la mega inchiesta sulle cattedre di Diritto arriva a Milano, nel maggio 2014, sono già trascorsi sei anni, ma ci sarebbe ancora il tempo per evitare la prescrizione. Il pm che riceve il fascicolo è Luca Poniz, che nel novembre successivo notifica agli indagati l'invito a comparire. Luminari, professori, assistenti vengono interrogati e depositano memorie. Poi non accade più nulla. Per sei anni il fascicolo rimane fermo: eppure non è una inchiesta di poco conto, di quelle che possono ammuffire senza fare troppi danni. Dentro ci sono nomi di primo piano del mondo accademico, l'ex garante della Privacy, un ministro dell'attuale governo: che se innocenti avrebbero il diritto di non essere lasciati all'infinito nel limbo, e se colpevoli andrebbero portati a processo e condannati. Invece passano sei anni. Solo il 3 dicembre 2020 Poniz chiude l'indagine, chiedendo l'archiviazione di tutte le accuse. Il sistema delle nomine universitarie, scrive, è governato da un «pessimo costume» in un ambiente «spregiudicato e litigioso», ma non c'è traccia di corruzione né di associazioni criminali. Il 18 novembre il giudice preliminare gli dà torto. Per l'accusa di corruzione dovevano andare tutti a processo. Ma il reato è prescritto.
Durante i sei anni in cui il fascicolo è rimasto nel suo ufficio, il pm Poniz è stato presidente dell'Associazione nazionale magistrati. In quella veste, il 13 gennaio 2020, proclamò che l'Anm si sarebbe opposta a qualunque sanzione disciplinare contro le «toghe ritardatarie».
Il governo pronto a superare la Spazzacorrotti. Nordio archivia lo spazzacorrotti grillino, addio al processo eterno: Travaglio scatenato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Gennaio 2023
La riforma Cartabia è appena entrata in vigore da tre giorni e già si scatena la penna di Marco Travaglio con immagini truculente che paiono confondere la certezza della pena con la certezza del carcere. E intanto anche l’ex procuratore Giancarlo Caselli inaugura il 2023 con un’intera pagina sulla Stampa per mettere in guardia governo e Parlamento dal dare seguito all’ordine del giorno del deputato Enrico Costa, che ha osato mettere in discussione la “spazzacorrotti” dell’ex ministro Bonafede sul problema della prescrizione. In sintesi, è un po’ come se i pensieri che ruotano intorno al mondo del Movimento cinque stelle fossero fissati su due concetti: processi eterni in modo che nessuno sfugga alla tenaglia giustizia/persecuzione, e carceri il più possibile piene fino allo straripamento.
È evidente che il percorso tracciato dall’ex ministra Marta Cartabia, cui il nuovo guardasigilli Carlo Nordio ha già dichiarato voler dare continuità, va nella direzione opposta. E se la prima, per esempio sulla prescrizione, ha dovuto trovare una mediazione tra l’orrore della norma voluta dai grillini e il proprio progetto riformatore all’interno di un governo che conteneva in pancia tutto e il suo contrario, il secondo, almeno su questo punto, ha un tracciato già aperto. Perché il governo di centrodestra ha dato il proprio consenso all’ordine del giorno del deputato di Azione, in modo che sulla prescrizione si scavalchi di peso la legge “spazzacorrotti” entrata in vigore il primo gennaio di due anni fa, che bloccava alla sentenza di primo grado, anche se di assoluzione, la possibilità della rinuncia dello Stato a perseguire il reato quando è trascorso troppo tempo.
Perché, come ci spiega anche l’ex procuratore Caselli sulla Stampa, oltre al problema dei costi economici, «…del reato si è persa la memoria, le prove sono ormai difficili, se non impossibili da trovare, e si presume che la persona da processare possa essere cambiata». Impeccabile. Manca solo un accenno, che ci saremmo aspettati da parte di un devoto, alla sofferenza umana, vera tortura, che lo stesso processo, oltre al carcere, riversa sulla persona-imputato. Anche quella andrebbe sempre messa in conto. Due sono gli argomenti che stanno a cuore al dottor Caselli. Uno di ordine statistico, perché a quanto pare (gli crediamo, si sarà sicuramente documentato) la percentuale italiana di prescrizione sarebbe arrivata al 10/11% contro lo 0,1/2% degli altri Paesi europei. Questo è il primo argomento. Il secondo è di tipo socio-politico. Perché, secondo l’ex procuratore, la prescrizione gioverebbe solo ai “galantuomini”, cioè ai ricchi potenti e “agguerriti”, mentre per i “cittadini comuni” ci sarebbe una seconda giustizia, che sbrigativamente arriverebbe a conclusione. Siamo alle solite. Non una parola sul perché e quando i processi cadono a terra come frutti maturi.
Per stare ai numeri e alle statistiche, tra il 60 e il 70% dei casi capita nella fase delle indagini preliminari, cioè nel regno del dominio incontrastato dei pubblici ministeri. E qui i casi sono due: o i nostri investigatori sono pigri e incapaci o il problema risiede nell’assurdità, oltre a tutto ipocrita, della pretesa di applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non viene il dubbio che sia proprio questo il motivo dell’unicità del caso italiano con le sue percentuali diverse rispetto agli altri Paesi, come per esempio quelli di common law? Questa è infatti la prima grande riforma da fare, prima o in contemporanea alla separazione delle carriere. È inutile fare gli schifiltosi, non si può avere la pretesa di perseguire tutti i reati, e soprattutto le fattispecie andrebbero diminuite, non aumentate.
Da questo punto di vista la riforma Cartabia appena entrata in vigore ha aperto una strada importante di deflazione sia processuale che detentiva. Ed è inutile versare lacrime sulle condizioni delle carceri e sul sovraffollamento, se non si comincia ad arrestare di meno. E a togliersi dalla mente che la sanzione sia solo la privazione totale della libertà. Utilissima da questo punto di vista la possibilità per il giudice di applicare le forme alternative alle prigioni per condanne inferiori a quattro anni: semilibertà, detenzione domiciliare, lavori socialmente utili, pena pecuniaria. Così come l’estensione dei tipi di reato procedibili a querela della persona offesa e non d’ufficio.
Anche in questo modo si potrebbe diminuire il numero dei processi e anche dei casi di prescrizione del reato. E si favorirebbero le azioni di risarcimento del danno e di quella giustizia riparativa che tanto stava a cuore alla ministra Cartabia. Sono le norme che Travaglio chiama “schiforme” e l’ex procuratore Caselli considera “di classe”, nel senso che sfavorirebbero il mitico cittadino comune. Che invece sarebbe quello più avvantaggiato dal percorso. Quel che serve adesso è che il nuovo governo di centrodestra, guidato dall’ottimo ministro Nordio, mantenga la barra dritta senza farsi tentare da controproducenti tentazioni di correzioni giustizialiste nel nome della sicurezza.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
L'ok della Camera. Imputato a vita, la fine del principio barbaro di Bonafede e dei 5 Stelle. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 31 Dicembre 2022
La riforma populista della prescrizione è stata senza dubbio una delle pagine più indecorose della legislazione nostrana degli ultimi decenni. Per più ragioni, naturalmente, ma una su tutte: la grossolana mistificazione politico-mediatica che l’ha accompagnata dal primo giorno. Da molti anni ormai in questo Paese si fanno sempre più eccezionali le prescrizioni di reati anche solo di media gravità.
Da un lato, le varie riforme che si sono susseguite hanno innalzato a livelli iperbolici (che andrebbero essi sì ripensati!) il numero di anni entro i quali i reati si prescrivono, con la eccezione di un pugno di reati bagatellari (soprattutto contravvenzionali) e dei reati tributari, i quali ultimi obiettivamente emergono solo con l’accertamento amministrativo, che brucia già metà del tempo di prescrizione (e anche su questo si può facilmente intervenire). Dall’altro, da almeno un paio di decenni, si è stabilito che qualsiasi ragione di legittimo impedimento a partecipare all’udienza dell’imputato o del suo difensore determinano sì il rinvio del processo, ma con contestuale sospensione del corso della prescrizione, dunque senza nessun possibile esito dilatorio.
Infine, statistiche alla mano, sei prescrizioni su dieci intervengono entro la celebrazione della udienza preliminare, dunque senza alcun possibile, materiale contributo dilatorio (che già, come ho ricordato, non è possibile) del difensore, ma solo quale conseguenza delle scelte di priorità adottate dalle Procure nell’esercizio dell’azione penale, oltre che delle obiettive carenze strutturali di magistrati e di personale amministrativo. E invece quella sciagurata riforma è stata venduta alla pubblica opinione come la fine dei privilegi degli imputati ricchi che, pagando fior di avvocati, facevano prescrivere il reato guadagnandosi l’impunità, evocando -non a caso- noti processi relativi a reati commessi venti se non trenta anni prima, sotto l’egida di un regime processuale morto e seppellito da tempo immemore.
Il risultato di questa bravata è stato l’affermazione del principio barbaro dell’imputato a vita, prigioniero del proprio processo fino a quando lo Stato si compiacerà di concluderlo. Merito del Governo Draghi e della Ministra Cartabia, pur essendo quel governo funestato dalla maggioranza relativa grillina, è stato quello di puntare con determinazione al superamento di quella barbarie. Ma sotto la minaccia grillina della crisi di governo, si è dovuto salvare la faccia all’ex Ministro Bonafede, confermando il principio della interruzione del corso della prescrizione con la sentenza di primo grado.
Il prezzo è stato pagato, ricorrendo all’idea del doppio orologio: fermo quel principio, introduciamo la improcedibilità dell’azione (insomma, la decadenza del processo) ove il successivo processo di appello non si celebri in due o tre anni (con il consueto catalogo di eccezioni per i reati di mafia eccetera, cioè i soli che certamente si celebrano entro due anni, perché altrimenti verrebbero scarcerati gli imputati: ma lasciamo perdere gli aspetti comici della vicenda). Insomma, un pastrocchio gravido di complicazioni in ordine alle quali non ho il cuore di annoiarvi.
L’epoca dei grillini al governo è per fortuna alle spalle, ed è dunque dovere di ogni Governo che ambisca ad essere almeno rispettato dai cittadini consapevoli, porre fine a questa carnevalata. Noi penalisti italiani abbiamo combattuto con tutte le nostre forze sin dal primo giorno contro la riforma Bonafede, facendo finalmente entrare nelle case degli italiani anche una narrazione diversa da quella dolosamente mistificatoria che fino ad allora aveva trionfato. E già nel corso della ultima campagna elettorale abbiamo indicato il ritorno alla prescrizione ante-Bonafede (magari con qualche adeguato, indispensabile miglioramento, come d’altronde previsto dalla commissione ministeriale Lattanzi) come l’obiettivo -tra i tanti di una vera riforma liberale della giustizia penale– più immediatamente realizzabile.
Ne abbiamo parlato al Ministro Nordio lo scorso 14 dicembre, con il risultato della imminente apertura di un tavolo con avvocatura e magistratura che si dedicherà a questo, oltre che alle necessarie modifiche degli assai discutibili decreti attuativi Cartabia. In questi giorni il Parlamento ha approvato un ordine del giorno proposto dall’ottimo e preziosissimo on. Costa, che impegna il Governo proprio nei sensi indicati da sempre da noi penalisti. E nella sua conferenza stampa di fine anno la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha esplicitamente confermato l’impegno del Governo nei sensi indicati dall’ordine del giorno Costa.
Sembra proprio che, almeno ed intanto su questo fondamentale tema, ci si stia incamminando sulla giusta via, e certamente l’impegno delle Camere Penali italiane sarà strenuo e -ci auguriamo- decisivo. Intanto, visto che certamente ripartirà la grancassa della menzogna populista sulla prescrizione brutta e cattiva, ora potrete (dopo aver verificato la esattezza delle informazioni che vi ho fornito, beninteso) più facilmente e del tutto serenamente dare del cialtrone a chiunque se ne farà portatore. Buon anno a tutti!
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
La prescrizione è il risultato di un fallimento. Ecco perché la prescrizione serve al sistema giustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Dicembre 2022
La prescrizione è il risultato di un fallimento. Non, come si legge nei testi giuridici, della pretesa punitiva dello Stato. Ma dell’obbligatorietà dell’azione penale. E della inevitabile e conseguente dilatazione all’infinito dei comportamenti definiti come reati, spesso da norme che, mancando dei principi di tipicità e tassatività, rendono solo smisurato il potere del pubblico ministero a mettere il naso ovunque e comunque.
Ecco dunque sui tavoli dei procuratori fascicoli alti qualche metro. E poi l’arbitrio con cui ogni singolo pm estrae, quasi a sorte, un foglio cui dare la precedenza sugli altri. A ogni foglio, non dimentichiamolo, corrispondono reati e anche nomi di persone da indagare, perseguire, magari arrestare e poi processare. Se è vero che ogni anno in Italia si commettono alcuni milioni di reati, o meglio si tengono comportamenti che vengono qualificati come delitti o contravvenzioni, è altrettanto vero che il solo strumento penale non è sempre il più adeguato ad affrontare lo stato delle cose. Ed ecco che, mentre la metratura dei fascicoli aumenta e si impolvera sul tavolo del pm, a un certo unto non resta che alzare le braccia e arrendersi: prescrizione. Cioè fallimento e bandiera bianca. Fallimento del principio costituzionale che obbliga a indagare su tutto e a perseguire tutti.
Il primo risultato è che più del 60% delle prescrizioni si consuma nella fase delle indagini preliminari. Quindi la prima selezione avviene non, come sarebbe logico in uno Stato di diritto, tramite l’uso di soluzioni alternative al mero strumento repressivo, ma attraverso la rinuncia tout court, alla faccia dei tanto conclamati diritti delle vittime. A processo dunque i reati, e gli imputati, arrivano già selezionati. Ma non da una legge che esiste in tutto il mondo occidentale tranne l’Italia, cioè quella sulla discrezionalità dell’azione penale, ma da una prassi che concede un potere illimitato a un organo, quello dei procuratori, che non è sottoposto a nessuna forma di controllo. Agiscono come forze di polizia ma godono di tutte le guarentigie della casta togata. E ogni anno si contano le vittime di giustizia, che non sono solo coloro che vengono assolti dopo anni di carcere e gogna, ma anche coloro, imputati o parti civili, che non possono avere giustizia perché il reato è stato estinto per prescrizione.
L’iniziativa dell’instancabile deputato Enrico Costa, che con un ordine del giorno vuole impegnare il governo a spazzar via il mostriciattolo della legge Bonafede che bloccava la prescrizione alla fine del processo di primo grado, ci riporterebbe, qualora approvata e poi trasformata in legge, alla situazione tradizionale. Cioè indietro di cinque anni, ai tempi del governo Gentiloni e del ministro Orlando, i quali non avevano comunque dato grande prova di garantismo, tanto da rischiare la caduta della legislatura a causa dei dissensi con Matteo Renzi e i malumori del gruppo di Angelino Alfano. La famosa “legge Orlando” infatti, che oggi ci appare come il paradiso terrestre, aveva innalzato di un anno e mezzo il tetto degli anni necessari per dichiarare prescritto un reato e in parte equiparato, con spirito grillino, alcuni reati contro la pubblica amministrazione a quelli, come la mafia e il terrorismo, di grande allarme sociale.
Infatti proprio Enrico Costa, che all’epoca era nel governo come ministro degli Affari regionali, aveva votato contro la sua stessa maggioranza. “Per alcuni reati – aveva detto- bloccare il conto alla rovescia di un anno e mezzo per ogni grado di giudizio ci porta a un passo dal processo perpetuo”. Ma anche la controriforma Bonafede, dal nome ridicolo di “spazzacorrotti”, sulla prescrizione aveva provocato qualche mal di pancia, nel governo giallo-verde.
Mal digerita dalla Lega, che l’aveva barattata con l’approvazione del decreto sicurezza e che ne aveva ottenuto l’entrata in vigore solo al primo gennaio del 2020, dopo la riforma del codice penale, avevano detto Matteo Salvini e a ministra Giulia Bongiorno. Cosa mai avvenuta. Possiamo dunque contare oggi sul ministro Nordio? Non tanto, visto che in un articolo sul Messaggero aveva semplicemente proposto di fissare la data “a quo” per calcolare la prescrizione, al momento non della commissione del reato, ma dell’inizio delle indagini. Dando quindi di nuovo il potere al pm, che deciderà quando iscrivere la persona sul registro degli indagati.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
I Passacarte.
La soggezione...Copia e incolla e la concezione del ruolo del Gip subordinato al Pm: chi si oppone è l’eccezione. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista l'11 Novembre 2023
Onore ai giudici del Tribunale del Riesame di Venezia, che hanno saputo prendere atto di dover annullare una ordinanza cautelare a carico di ben 12 presunti associati per delinquere di una cosca nigeriana, scarcerandoli. Hanno “dovuto” annullare, perché l’ordinanza del GIP risultava palesemente un’opera di “copia e incolla” della richiesta del Pubblico Ministero, refusi compresi; il che, a mente dell’art. 292 del codice di rito, ne determina la sacrosanta nullità.
Il Giudice delle Indagini preliminari, nella logica del nostro sistema processuale, è -o meglio, dovrebbe essere- il controllore della legittimità degli atti di indagine del PM. Leggiamo quotidianamente notizie che, quasi sempre con compiacimento, ci informano che “il PM Tizio ha arrestato”, “il PM Caio ha sequestrato”: ma il PM può solo richiedere di arrestare o sequestrare, mentre è -o meglio, sarebbe- compito del GIP decidere se quelle richieste siano fondate e ben motivate, e disporre di conseguenza.
Ignoranza dei cronisti giudiziari? Beh, no. La realtà, confermata da decenni di esperienza forense, è che questa cruciale funzione di controllo del Giudice sulle indagini del PM è da subito fallita. Il GIP che non accoglie le richieste del PM (di arresto, di sequestro, di intercettazione telefonica ed ambientale, etc.) è l’eccezione, piuttosto che la regola. Il Gup che non accoglie in udienza preliminare la richiesta di rinvio a giudizio non raggiunge il 3% del dato statistico. E se poi pensiamo al 50% delle assoluzioni in primo grado, il naufragio di quella funzione appare conclamato. D’altronde, è proprio il tema del “copia e incolla” che risulta illuminante: quella umiliante pratica, simbolo della soggezione del GIP al PM, era a tal punto la regola e non l’eccezione, che è stato infine necessaria pochi anni fa (2015!) la mortificante modifica dell’art. 292, che ha imposto per legge, a pena di nullità, l’obbligo per il Giudice di pensare con la propria testa, e non con quella del PM.
Eppure, ancora ci dobbiamo compiacere di provvedimenti piuttosto eccezionali come quelli del Riesame di Venezia. Mentre invece assistiamo alla messa all’indice mediatico-giudiziaria (un linciaggio indecente) di una GIP di Milano che ha osato -la sciagurata- ritenere tanto pomposa quanto inconsistente in punto di gravità indiziaria una maxi indagine su presunte cosche mafiose lombarde, perciò rigettando la raffica di richieste di arresti e sequestri. L’indignazione di quella Procura per l’inaudito atto di autonomia del Giudice è stata tale da scivolare nel grottesco. Nel (più che legittimo, beninteso) atto di ricorso al Riesame, del cui esito tutti prenderemo atto, i Pubblici Ministeri hanno inteso svalutare la qualità della ordinanza di rigetto del GIP denunziando “il copia e incolla” che costei avrebbe fatto… di qualche scritto giuridico disponibile in rete! Certo che un po’ di senso della misura (e del ridicolo) non guasterebbe. Non vi pare?
Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane
(ANSA giovedì 9 novembre 2023) Un provvedimento "copia-incolla" rispetto alle richieste della Procura da parte del Gip di Venezia, ha comportato la scarcerazione di 10 indagati su 29 da parte del Tribunale del riesame di Venezia.
La notizia è stata riportata dal Giornale di Vicenza e fa riferimento all'operazione dei carabinieri della provincia berica, coordinati dalla Dda di Venezia, che nei mesi scorsi aveva arrestato un gruppo di nigeriani accusati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga.
Nell'ordinanza il Riesame spiega che il provvedimento del Gip è "il frutto di un'opera di 'taglia e cuci' della richiesta cautelare, come chiaramente evincibile dall'identità linguistica e grafica dei due atti in molteplici passaggi, dall'assenza di parti motivazionali autonomamente redatte dal Gip, nonché dalla presenza, nel testo dell'ordinanza, di numerosi refusi".
Sempre nel provvedimento si legge che "non sono riscontrabili passaggi motivazionali che consentano di ritenere eseguita un'effettiva disamina, da parte del Gip, degli elementi probatori sottoposti alla sua attenzione". Da qui la decisione di dichiarare nulla l'ordinanza che aveva disposto gli arresti.
Il "Copia-incolla" del giudice fa liberare il clan dei nigeriani. Il gip si era limitato a trascrivere le richieste dei pm. Così il Riesame ha annullato l'ordinanza di custodia per narcotraffico. Massimo Malpica il 10 Novembre 2023 su Il Giornale.
La maxi-retata era di quelle che fanno rumore: il 6 settembre, i carabinieri di Vicenza, coordinati dalla Dda di Venezia, avevano sgominato un presunto clan di trafficanti nigeriani, sequestrando anche 50mila euro in contanti, mezzo chilo di cocaina e un chilo e mezzo abbondante di eroina. Ma pochi giorni dopo, il tribunale del Riesame di Venezia aveva scarcerato dieci dei 29 arrestati con l'accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, tra lo stupore generale.
Stupore che si è trasformato in sconcerto ora che è arrivata la motivazione del Riesame. Che ha annullato l'ordinanza del gip di Venezia Luca Marini perché era, di fatto, un mero copia-incolla della richiesta di misure cautelari del pm. E così, 10 indagati del presunto clan sono tornati liberi. Da non credere, se non fosse tutto nero su bianco. L'ordinanza di custodia cautelare del gip, si legge nelle motivazioni del riesame, è «il frutto di un'opera di taglia e cuci' della richiesta cautelare, come chiaramente evincibile dall'identità linguistica e grafica dei due atti in molteplici passaggi, dall'assenza di parti motivazionali autonomamente redatte dal Gip, nonché dalla presenza, nel testo dell'ordinanza, di numerosi refusi».
Insomma, ribadisce il Riesame, nel provvedimento del gip «non sono riscontrabili passaggi motivazionali che consentano di ritenere eseguita un'effettiva disamina, da parte del Gip, degli elementi probatori sottoposti alla sua attenzione». Come dire che non si può nemmeno capire se ha letto e analizzato gli elementi di prova che erano alla base della richiesta della procura. Naturale conseguenza di questa grave carenza, secondo il Riesame, è la decisione di dichiarare nulla l'ordinanza che aveva disposto l'arresto dei dieci cittadini nigeriani, che sono tornati quindi subito in libertà. Roba da sgranare gli occhi. Anche perché i rischi connessi alla già di per sé spiacevole pratica del copia-incolla il giudice avrebbe dovuto conoscerli bene.
Già nel 2012 era accaduto lo stesso a un suo collega napoletano, che aveva disposto la misura della custodia cautelare in carcere per due imputati accusati di traffico di stupefacenti. Solo che, per farlo, aveva plagiato la richiesta del pm. Copiandone 280 pagine su 300 senza nemmeno virgolettare la «maxi-citazione». Anche qui il Riesame aveva annullato il provvedimento del gip, e il caso era finito in Cassazione. Con la Suprema corte che a giugno 2012 aveva stabilito come al giudice delle indagini preliminari non fosse concesso un «copia-incolla» del genere, perché se l'ordinanza del giudice non contiene adeguati ragionamenti, non può essere il Riesame a supplire alle carenze evidenti del provvedimento. Ma dopo 11 anni quel «vizietto», a quanto pare, è ancora in voga. Per la gioia dei presunti spacciatori e per lo scorno di tutti gli altri.
«Un “gip collegiale” per avere magistrati più indipendenti». Mario Scialla, coordinatore dell'organismo congressuale forense: «Dovendo decidere in composizione collegiale il giudice sarà più coraggioso, meno schiacciato dal pm e dall'imponente quantità di atti che accompagna la richiesta di misura cautelare». Valentina Stella su il Dubbio il 9 maggio 2023
Avvocato Mario Scialla, coordinatore nazionale Organismo Congressuale Forense, Nicola Quatrano ci ha detto che attraverso un consequenziale copia e incolla l'informativa di pg diventa ordinanza di custodia cautelare.
Mi ha stupito molto in questi lunghi anni di professione riscontrare che alcuni errori di battitura della richiesta di applicazione di misura cautelare della procura si siano ripetuti anche nell'ordinanza custodiale, nella medesima collocazione, il che autorizza qualche pensiero non proprio positivo. In altri casi anche a me è apparso evidente che rispetto alle richieste degli investigatori, ci sia stata una ricezione pressoché integrale prima della procura e poi del gip.
Tutto questo come si spiega?
Più che sostenere ipotesi malevole, direi che a fronte di una mole assai consistente di documenti, il gip non riesce a fornire un adeguato ed efficace controllo. Se analoga operazione di filtro non viene compiuta neppure dalla procura ecco che l'ipotesi investigativa prende sostanza senza essere verificata e ciò comporta un elevato rischio di errore. Che sia proprio così noi lo cogliamo quando questa operazione viene compiuta correttamente dal gip - nel senso che le richieste della procura vengono rigettate - e poi il dibattimento si conclude con l'assoluzione con formula piena.
Nel prossimo pacchetto di riforme il Tribunale del Riesame potrebbe assumere le funzioni svolte dal gip, i ricorsi poi esaminati in Corte d’appello. La convince questa proposta?
Non solo mi convince ma è quella che trovo più importante. Quando l’Ocf è stato ricevuto dal ministro Nordio ho detto subito che intervenire sulle misure cautelari rappresentava la priorità assoluta e che l'effetto positivo si sarebbe riverberato su tutto il sistema giustizia. Il Guardasigilli ci ha risposto con orgoglio che questa era una sua antica proposta. Sono fermamente convinto che l'anomalia italiana, rispetto agli altri Paesi europei - di quasi un terzo dei detenuti in attesa di giudizio -, vada immediatamente risolta. Il modo migliore è proprio quello di affidare la decisione ad un collegio di giudici. Di fronte al bene più prezioso che è la libertà personale, uno Stato civile deve fornire tutte le garanzie necessarie.
Si avrebbe altresì un calo dei detenuti in attesa di primo giudizio. Ne sono certo.
Dovendo decidere in composizione collegiale, il giudice sarà più coraggioso e meno dipendente, non solo da quanto sostenuto dal pm ma anche dalla imponente produzione di atti che accompagna la richiesta di misura. Si recupereranno quella forza e autonomia che talvolta sono mancate. Inoltre certe volte accade che il gip sia molto giovane e subisca il peso della decisione, soprattutto se gli viene richiesta da un sostituto procuratore più esperto a cui vengono assegnate le indagini più importanti. Sono chiaramente fenomeni involontari ma che comunque incidono non poco, così come quando il processo è accompagnato da una forte campagna mediatica. In tutti questi casi avere un giudice collegiale, più forte e tetragono alle sollecitazioni esterne è di fondamentale importanza e consentirà di ridurre il numero dei detenuti in attesa di giudizio.
Questa potrebbe essere la prima tappa per la separazione delle carriere?
È talmente forte ed urgente la riforma del cautelare che mi piace pensare che si possa ottenere un consenso più ampio ed immediato, tra gli operatori del diritto e all'interno del Parlamento, ragionando esclusivamente sul tema della libertà personale. Poi è chiaro che se la riforma produrrà i suoi benefici effetti, ad essere rafforzata sarà la terzietà del giudice, esattamente quello che si propone di fare la separazione delle carriere.
Sarebbe una buona idea prevedere un interrogatorio in contraddittorio prima dell'arresto?
Tutto quello che può servire ad anticipare i tempi della difesa e fornire la propria versione dei fatti, prima che venga presa una decisione così importante, è certamente utile. A quel punto la scelta su come e quando difendersi passa alla difesa che può pure optare per un differimento, aspettando di leggere gli atti. Sviluppare subito tale facoltà difensiva è importante: il giudice deve capire che persona ha di fronte, se sia effettivamente pericoloso per la società, se può inquinare le prove o reiterare la condotta. Non dimentichiamo che il processo penale è un fatto umano e che sono complesse anche le decisioni legate esclusivamente al periculum libertate.
Secondo alcuni pm siete voi avvocati, soprattutto di parte civile, a far circolare l’ordinanza custodiale. Come replica? E crede che andrebbe vietata la pubblicazione come sostiene Costa?
Un po’ mi viene da sorridere pensando che l'ultimo caso che sto affrontando e che ha avuto risalto mediatico, ossia l'omicidio della giovane avvocatessa Martina Scialdone, mi ha visto apprendere le decisioni e le motivazioni del gip direttamente dai giornali. Il problema è complesso, vanno soppesate due diverse ed altrettanto valide esigenze: il diritto dell'indagato a non finire in pasto all'opinione pubblica e il diritto di cronaca. In realtà gli strumenti esisterebbero già, senza ricorrere al divieto della pubblicazione dell'ordinanza che certamente risolverebbe il problema a monte ma che forse è troppo punitiva nei confronti della stampa. L'idea merita sicuramente una adeguata e ponderata riflessione mentre non ho dubbi nel sostenere che bisogna ugualmente impedire la diffusione delle notizie riguardanti i terzi coinvolti nelle inchieste che non sono indagati.
«Recidere il legame tra gip e pm è un passo decisivo».
Massimo Brandimarte, già presidente del tribunale di Sorveglianza di Taranto
Parla Massimo Brandimarte, già presidente del tribunale di Sorveglianza di Taranto: «L’idea di un organo collegiale per decidere sulle richieste cautelari rispetta i principi costituzionali». Valentina Stella Il Dubbio il 7 maggio 2023
Massimo Brandimarte, lei è stato gip per diversi anni. Ha mai subìto pressioni da parte dei pm?
Quando venne istituita la procura presso la pretura circondariale dove lavoravo, proposi al capo dell’ufficio di non dislocare i gip nella nuova sede dei pm: pensavo che anche una separazione logistica avrebbe rafforzato l’autonomia dei ruoli. Così fu. Pressioni dai colleghi pm mai. Svolgevo il mio ruolo in piena libertà. La “pressioni”, sempre nei limiti della legittimità, se ci sono, magari partono dall’organo investigativo, nel caso in cui costui ritenga, in buona fede, di dover caldeggiare presso il pm una possibile richiesta di arresti. Tutto fisiologico, sin qui. Sta al pm, però, filtrare, senza lasciarsi condizionare da eccessi di zelo da parte dei suoi collaboratori. Ed al gip discernere, senza cedere all’emotività o a soluzioni reverenziali. Filtro e discernimento che, però, non sempre hanno funzionato, come la storia insegna.
In che senso?
La leggenda narra di un investigatore che aveva il pallino di contare gli arresti, grazie a lui disposti o in flagranza di reato o dall’autorità giudiziaria, e di comunicarli orgogliosamente ai suoi colleghi in tempo reale, tramite sms. Diceva Pirandello che la realtà supera di gran lungo la fantasia perché la realtà non si preoccupa di essere verosimile perché è vera. Comunque sia, il numero di arresti non deve mai funzionare come il numeratore di un conta passi, in ossequio ad una malintesa gratificazione statistico- professionale di qualcuno. Molti anni fa, un ottimo commissario di Polizia mi manifestò la sua meraviglia per il fatto che non avessi ancora deciso su una richiesta di intercettazione telefonica trasmessami dal pm, ma senza il dossier allegato. Restò quasi incredulo quando gli spiegai che non potevo decidere senza aver prima ricevuto e letto quel dossier. Dote indefettibile di un magistrato deve essere il coraggio di decidere e di farlo in perfetta autonomia, secondo scienza e coscienza. Se non ce l’ha, rischia di far danni.
Un altro episodio?
Uno stimatissimo pm mi chiese la custodia in carcere di un pubblico funzionario, incensurato, perché ritenuto responsabile di un presunto reato di peculato. Gli episodi risalivano a due anni addietro. Inoltre, più che di peculato, sembrava trattarsi di truffa, che, all’epoca, era coperta da un’amnistia appena varata. Rigettai la richiesta. Imprevedibilmente, mi fu reiterata nella forma degli arresti domiciliari. La richiesta aveva più o meno il senso di chi, non avendo potuto ottenere il massimo, sperasse almeno di ottenere il minimo ( si fa per dire). Compresi la nobile finalità moralizzatrice sottesa alla richiesta. Ma dovetti spiegare che l’assenza di esigenze cautelari per una misura impediva ogni altra. E rigettai, per la seconda volta. Seppi, più in là, che l’interessato fu assolto.
Che pensa della proposta del Governo di un organo collegiale per decidere sulle richieste cautelari?
È intelligente e, sinora, la più aderente ai principi costituzionali di indipendenza del giudice e di presunzione di innocenza. Significa recidere, anche dal punto di vista dell’immagine, qualsiasi eventuale collegamento, reale o presunto, di tipo culturale, psicologico o personale tra pm e gip. La previsione di un organo decisionale estemporaneo e sganciato da entrambi gli uffici menzionati diventa garanzia di terzietà sostanziale. La collegialità, poi, assicura ponderazione e confronto dialettico maggiori. La consapevolezza di poter vedere respinta la propria tesi accusatoria, questa volta non in modo più o meno discreto e indolore dal collega gip della porta accanto, con il quale magari hai una frequentazione amicale, ma in maniera più pubblica, da un collegio composto da magistrati di un altro ufficio e che non conosci, certamente è un buon antidoto contro richieste di misure restrittive eventualmente esuberanti. Ai fini della progressione in carriera, si potrebbe prevedere la comparazione statistica tra richieste di misure restrittive accolte e non accolte. Di due cose sono sempre stato convinto.
Quali?
Più discrezionalità il legislatore concede al magistrato e più questo se la prende. Ma, si badi bene, in perfetta buona fede, per paura di sbagliare in eccessi di garantismo. Con lo squilibrio che ne consegue.
Poi?
Sembra che la quarta dimensione, cioè il tempo ed il suo inesorabile trascorrere, sia inesistente nel processo, visto che si arriva non poche volte a richiedere e disporre l’arresto per fatti lontani, come se la misura fosse una forma di gratificazione per la conclusione delle indagini fine a se stessa, piuttosto che un’esigenza cautelare imprescindibile ed attuale. Che dire, poi, della proroga delle indagini preliminari richiesta ed accolta con formule letterarie di stile, prive di reale giustificazione?
Secondo lei potrebbe essere un primo passo per separare i requirenti dai giudicanti?
Ritengo che la soluzione proposta costituisca un passo decisivo in direzione, se non della separazione, quanto meno della sempre più netta distinzione di funzioni. Tra i problemi della giustizia italiana, un peso preponderante l’hanno sempre avuto l’abuso della custodia cautelare e delle intercettazioni telefoniche. Sembra che, con la riforma del processo penale del 1998, la perdita, da parte dei pm, del potere diretto di arresto sia stata quasi compensata, di fatto, con il massiccio uso del potere di richiesta delle misure restrittive, dinanzi a cui i gip si sono ritrovati impreparati psicologicamente.
E invece dell'interrogatorio in contraddittorio prima dell'arresto cosa pensa?
L’interrogatorio prima di poter procedere all’arresto rappresenta una scelta di civiltà. Tuttavia, mi rendo conto che, nella pratica, potrebbe rimanere una chimera. Forse, la proposta potrebbe essere mitigata limitando il divieto di misure cautelari, senza preventivo interrogatorio, alla sola custodia in carcere. Salvo casi eccezionali. Sarebbe già un bel passo in avanti.
L'onorevole Costa di Azione propone il divieto di pubblicazione dell'ordinanza di custodia cautelare fino a che non siano concluse le indagini ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Condivide?
D’accordissimo sul divieto di pubblicazione, sino al termine dell’udienza preliminare. Serve a tutelare i diritti e la riservatezza del presunto innocente, della persona offesa e dei terzi estranei menzionati. Sin qui, basta la conoscenza del fatto.
Figli di “Trojan”.
Un decennio di gogna, 23.748 intercettazioni e accuse infamanti. Ma l'inchiesta è un flop. Tolto al pm di Torino Colace l'ultimo troncone dell'indagine su Muttoni (ascoltato per anni) e l'ex dem Esposito: l'indagine non porta a nulla. Ma il politico pro Tav e l'imprenditore sono ko. Stefano Zurlo il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Giusto venerdì, lo spicchio più succoso del procedimento che si trascinava da almeno otto anni è stato trasferito per competenza a Roma. E il pm Gianfranco Colace ha perso un altro pezzo del suo «sistema». In questo troncone ci sono almeno due personaggi eccellenti: l'ex senatore del Pd Stefano Esposito, il più accanito sì Tav della sinistra subalpina, e l'imprenditore Giulio Muttoni che sotto la Mole era fino a una decina di anni fa il numero uno nell'organizzazione di eventi e concerti. Da Torino a Roma per le accuse, impalpabili, di corruzione e traffico di influenze.
En passant, Esposito è stato intercettato illegalmente 500 volte e per questo qualche settimana fa è stata avviata l'azione disciplinare contro Colace e ci si chiede come la procura di Torino non si sia accorta di chi stava ascoltando. Sempre en passant, le intercettazioni contro Muttoni, iniziate nel febbraio 2015 (qualche mese prima dell'arrivo di Colace che poi gestirà gran parte di questo traffico di captazioni) sono 23748. Un numero stratosferico. Ma sempre a Torino il tamtam già annuncia l'arrivo di altre centinaia di registrazioni, notizia al momento non verificabile. Di sicuro, Colace, magistrato appartenete alla corrente progressista di Area, smarrisce per strada un'altra inchiesta. Nello stesso processo, un altro filone, dove gli imputati hanno scelto il rito abbreviato, si è chiuso con sei assoluzioni su sei.
È difficile raccapezzarsi nel «labirinto» Colace, in realtà iniziato nel 2014, prima dunque del suo ingresso in scena, ma a contestazioni terrificanti, reiterate nel tempo, corrispondono almeno finora risultati prossimi allo zero. Un altro pezzo, questa volta per turbativa d'asta, è stato tolto dal solito limbo per opera della procura generale che ha avocato il fascicolo; c'è poi il pesantissimo segmento in cui si procedeva per associazione a delinquere di stampo mafioso che ruota sempre intorno allo stesso gruppo di soggetti: costoro avrebbero avuto in qualche modo, rapporti con la 'Ndrangheta e al centro di tutto c'è sempre Muttoni, entrato nel tritacarne nel 2014 e ancora sotto scacco, anche se ormai gran parte delle accuse è caduta, si è dimostrata evanescente o è destinata alla prescrizione.
Bene, questo segmento è atterrato in archivio il 7 agosto scorso, dopo il mitragliamento di richieste da parte dell'avvocato di Muttoni, Fabrizio Siggia che aveva chiesto anche in questo caso l'avocazione alla procura generale. Ma le sorprese, sempre en passant, non sono finite: perché quando gli avvocati hanno avuto fra le mani le carte del fascicolo - condotto da Colace in tandem con Paolo Toso - che ha inchiodato Muttoni ad un destino così infamante per anni, sono saltate fuori in tutto sette paginette striminzite. Tutto qua? Sette paginette, i presunti mafiosi senza collegamenti con la mafia, e un peccato originale: l'informativa del 2019 - che incredibilmente duplicava un precedente spunto investigativo arenatosi nel 2015 - allungava ombre sinistre sul giudice Andrea Padalino, sull'ex maresciallo Riccardo Ravera, che aveva partecipato alla cattura di Totó Riina, e già che c'era sul colonnello dei carabinieri Cosimo Sframeli, icona antimafia, «la cui figura - è lo sfregio dell'informativa - meriterebbe ulteriori approfondimenti».
Sempre en passant, il prezzo pagato è stato altissimo: in parallelo alla procura si muoveva la prefettura che ha scagliato contro le aziende coinvolte le frecce paralizzanti delle interdittive antimafia, interdittive che oggi vengono giù come foglie d'autunno ma intanto hanno provocato danni irreversibili. Oggi Muttoni appare emaciato in tv a raccontare la storia di un disastro: «Sono più vicino ad avere giustizia ma le mie società non esistono più». Un dramma che è passato sotto silenzio e ha portato di fatto all'eliminazione di due personaggi odiati dal movimento No Tav: Esposito, colpito per la sua amicizia con Muttoni, e appunto il giudice Andrea Padalino, motore del Pool contro le violenze dei No Tav, risucchiato nel reticolo di queste indagini perché il suo caposcorta, il poliziotto Davide Barbato, era stato accusato di corruzione insieme all'onnipresente Muttoni. Coincidenze, naturalmente. Che hanno avuto conseguenze gravissime. Padalino, poi processato a Milano per corruzione, è stato assolto e ha controdenunciato mezza procura di Torino. Altri veleni nel labirinto senza fine. Stefano Zurlo
Estratto dell’articolo di Ermes Antonucci per “il Foglio” venerdì 20 ottobre 2023.
"Come ci si sente a essere intercettati 24 mila volte? Non vorrei dire come Pablo Escobar, ma quasi. Di certo ci si sente un po’ perseguitati. Le intercettazioni dovrebbero servire a confermare il reato. Nel mio caso invece mi sembra che i pm siano andati alla ricerca del reato, perché 24 mila conversazioni in tre anni sono veramente tante. Sinceramente non pensavo neanche di averne tenute così tante”.
A parlare, intervistato dal Foglio, è Giulio Muttoni, noto imprenditore dello spettacolo, travolto nel 2015 da un’inchiesta condotta dalla procura di Torino che si sta rivelando essere uno dei casi giudiziari più assurdi degli ultimi anni. Un caso di studio perfetto per il ministro della Giustizia Carlo Nordio.
A fornire il dato incredibile delle 24 mila intercettazioni è stata la stessa procura di Torino, che ora si ritrova davanti alla Corte costituzionale (udienza il prossimo 21 novembre) con l’accusa di aver violato le prerogative dei parlamentari: tra le 24 mila intercettazioni, 500 coinvolgono infatti Stefano Esposito, amico fraterno di Muttoni e all’epoca dei fatti (2015-2018) senatore, dunque non intercettabile senza l’autorizzazione del Parlamento.
Le anomalie del caso Esposito sono già state raccontate su queste pagine, e sono anche finite all’attenzione della procura generale della Cassazione, che ha aperto un procedimento nei confronti dei due magistrati autori dell’evidente violazione della Costituzione (il pm Gianfranco Colace e la gip Lucia Minutella).
L’inchiesta, però, ha avuto inizio proprio da Muttoni, patron di Set Up, società promotrice di grandi eventi musicali. Nel 2014 gli inquirenti aprono un’indagine sull’azienda ipotizzando addirittura condizionamenti da parte della criminalità organizzata. Tutto ciò perché alcuni soci hanno ceduto biglietti omaggio a soggetti che poi si sono scoperti essere esponenti della ‘ndrangheta locale.
(...)
Intanto il processo è stato spostato a Roma per competenza territoriale e dopo otto anni deve ancora cominciare. “La mia ‘fortuna’ è che ho settant’anni, grazie a Dio la mia vita l’ho fatta – dice Muttoni – Avessi avuto l’età del mio amico Stefano mi sarei trasferito in Australia per tutti i danni reputazionali, economici e sociali. Quattro-cinque anni fa quando camminavo per strada la gente si precipitava per venirmi a salutare. Adesso si buttano dall’altra parte per non salutarmi. Per non parlare di mia figlia, costretta a leggere gli articoli di giornale che mi accostano alla ‘ndrangheta”. “Ora spero che parta questo processo, così almeno prima di morire potrò essere giudicato”, conclude Muttoni.
Se spiano Giletti e Lillo, allora sì che il Trojan è cattivo. Il Fatto quotidiano scopre il “senso di intrusione” che ti colpisce quando ti stanno spiando. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 19 ottobre 2023
La notizia è clamorosa, e stupisce che il mondo della politica non l’abbia ancora fatta propria, nelle commissioni giustizia di Camera e Senato dove si discute di intercettazioni. È il Fatto quotidiano, con un vibrante articolo di Marco Lillo, a denunciare il “senso di intrusione” che ti colpisce quando ti stanno spiando. Quel che deve aver sofferto Massimo Giletti, quando ha subito per quattro mesi il captatore informatico, il trojan, proprio quello che ha lasciato indifferente, se non entusiasta, il Fatto quando lo spiato era Luca Palamara piuttosto che un anonimo cittadino.
Ma attenti, magistrati, a non spiare un giornalista, o un conduttore tv, perché allora va denunciato, come fa Lillo, “il senso di intrusione in una sfera che dovrebbe restare sacra: il rapporto con le fonti”. E chissà con quante persone ha parlato in quei quattro mesi Massimo Giletti, mentre conduceva le sue puntate con la presenza del gelataio- giocoliere Salvatore Baiardo, quello che lo ha “ingolosito” con un pezzetto di carta fatto vedere da lontano e in penombra, dicendogli che era una foto, e che riprendeva un Silvio Berlusconi degli anni novanta con il generale dei carabinieri Delfino e un boss mafioso di nome Graviano, l’amico protetto dallo stesso Graviano.
Prima lo ha illuso, ma poi ha smentito tutto, al punto di essere destinatario di una richiesta di arresto per calunnia avanzata dai pm, non accolta dal gip ma poi confermata, ai domiciliari, dal tribunale del riesame, e non definitiva in attesa della Cassazione, dove il suo legale, il professor Carlo Taormina, ha presentato ricorso la settimana scorsa. Giletti ha parlato con Cacciari, con Santoro, con tanti altri. Certamente si è intrattenuto soprattutto con Lillo, visto che i due avevano programmato una puntata insieme per ciacolare un po’, come si fa tra amici e “complici” professionali, della responsabilità di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi. Ma la storia di “Non è l’Arena”, la sfida di Giletti alla Rai, dove ora sta forse per tornare sia pure con questo bel fardello sulle spalle, finì così. E la famosa puntata non si fece più.
Urbano Cairo l’ha chiusa e mal gliene incolse, perché, oltre ai costi economici di una trasmissione che non portava ritorni in moneta sonante all’azienda, ha dovuto poi subire anche quelli processuali, con diversi interrogatori della procura di Firenze. E anche un’assurda intrusione, nella sua libertà di imprenditore, da parte di pm e giudici, sul motivo per cui un certo programma è stato aperto o chiuso.
Nel lamentare le “intrusioni” del trojan, Lillo mette un po’ le mani avanti, o forse spera che i magistrati abbiano avuto un occhio di riguardo nei confronti di certe conversazioni, visto che, nell’intercettare Giletti, a Firenze “i pm e il gip hanno fatto il possibile ponendo limiti alla Dia per non trascrivere colloqui non rilevanti o con parlamentari e avvocati”. Ah, ma allora si può? E come mai nella stessa città non si è guardato tanto per il sottile quando l’inchiesta riguardava Matteo Renzi, e a Torino il senatore Stefano Esposito è stato captato per 500 volte, senza che la magistratura chiedesse l’indispensabile autorizzazione parlamentare? Importante questa sensibilità dei magistrati fiorentini, pm a giudice appaiati, come succede nei sistemi in cui i due soggetti, la parte pubblica e il giudicante “terzo”, fanno parte della stessa casta.
Anche se uno voleva mettere le manette a Baiardo e l’altro ha preso le distanze respingendo la richiesta. Ma la calunnia del gelataio nei confronti del conduttore tv c’è stata, hanno stabilito i giudici del riesame, anche se in realtà ci sono solo due diverse versioni su un singolo episodio. Quello che invece non c’è stato, notizia che il Fatto abilmente mette sotto tono, è l’accusa allo stesso gelataio di aver voluto proteggere, con i suoi dico e non dico, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Questo favoreggiamento è inesistente.
Se ne faccia una ragione il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, il più impegnato nell’inchiesta sulle stragi degli anni novanta e i presunti “mandanti”. Inchiesta già riproposta e archiviata almeno quattro volte. La pervicacia del magistrato è stata premiata nei giorni scorsi dal fatto che il ministro Nordio, in risposta a un’interrogazione di Maurizio Gasparri, non ha ritenuto necessario inviare un’ispezione a Firenze. Forse bisognerebbe chiedere al Guardasigilli se sia normale il fatto che la procura sia titolare di un fascicolo processuale che non si chiude mai nei termini previsti dalla legge, ma si apra e si chiuda a comando, a seconda delle dichiarazioni di un personaggio abile nel prendersi gioco dell’interlocutore come Salvatore Baiardo. Perché, sia chiaro, i magistrati non hanno in mano niente altro.
E, nel gioco delle luci e delle ombre, occorre domandarsi anche come mai il Csm, nel confermargli, dopo i canonici quattro anni, l’incarico di procuratore aggiunto, non abbia votato all’ unanimità in favore del dottor Tescaroli, visto che sono mancati i voti dei quattro membri laici nominati da Fratelli d’Italia e Lega. Sarà intanto nelle librerie tra poco il libro del magistrato sui “pentiti”. Chissà se si riferisce solo ai collaboratori di giustizia.
Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” venerdì 11 agosto 2023.
La Procura generale della Cassazione ha aperto un procedimento disciplinare nei confronti di due magistrati di Torino. La vicenda riguarda le intercettazioni telefoniche disposte e acquisite nel processo denominato “Bigliettopoli”, in cui il principale imputato è Giulio Muttoni, noto imprenditore nel settore dei concerti.
La Procura della Suprema Corte, competente sugli illeciti disciplinari dei magistrati, ha effettuato nei mesi passati una prima valutazione sulla non manifesta infondatezza dell’ipotesi di accusa. Poi, nelle scorse settimane, ha formulato un’incolpazione nei confronti del pubblico ministero Gianfranco Colace, che ha condotto l’inchiesta, e della giudice Lucia Minutella, davanti a cui si è svolta l’udienza preliminare.
Il capo di incolpazione è per «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», una delle fattispecie previste dalla legge del 2006 sull’ordinamento giudiziario. La contestazione riguarda il presunto mancato rispetto delle regole sulle intercettazioni telefoniche. […] Colace e Minutella, i due magistrati incolpati, saranno interrogati […] Acquisiti gli atti processuali e le versioni dei due magistrati, la Procura della Cassazione valuterà se chiederne il proscioglimento o se […] sussistano i presupposti per disporne il processo disciplinare davanti al Csm.
La questione delle intercettazioni nell’inchiesta “Bigliettopoli” era già stata ripetutamente sollevata da indagati e avvocati. Stefano Esposito, all’epoca senatore del Pd, contesta le intercettazioni che hanno registrato le sue conversazioni. Esposito non era intercettato direttamente: per farlo, la Procura avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione preventiva al Parlamento. L’intercettato era Muttoni. Ma i due parlavano frequentemente. Il telefono di Esposito era peraltro intestato alla società di Muttoni.
Sulle circa 500 captate tra 2015 e 2018, agli atti dell’inchiesta sono finite 132 conversazioni. Casuali, perciò legittime e utilizzabili secondo la Procura. Non casuali perché gli investigatori sapevano di intercettare un parlamentare, perciò illegittime in assenza di autorizzazione parlamentare secondo Esposito. Il quale non solo ha sollevato la questione nell’udienza preliminare, ma si è rivolto anche a Csm e Senato, lamentando la violazione della Costituzione.
Il Senato ha accolto la sua richiesta sollevando a larga maggioranza un conflitto tra poteri davanti alla Corte Costituzionale, che non si è ancora pronunciata. […]. Il Csm ha girato l’esposto per competenza alla Procura generale della Cassazione. […]
"Sono stato intercettato 500 volte in 3 anni perché parlavo con un amico fraterno". L'ex senatore dem: "Mi avevano identificato, ma non si sono fermati". Stefano Zurlo il 12 Agosto 2023 su Il Giornale.
Ripete un numero: «Mi hanno intercettato 500 volte, 500 volte in tre anni».
Come è possibile, dottor Esposito?
«È quello che voglio sapere - risponde Stefano Esposito. - Dicono che erano conversazioni casuali, ma par di capire che dopo 10 giorni mi avevano identificato e avevano capito che ero un senatore. Del resto non era difficile scoprire la mia identità. Non è che parlassimo con linguaggio criptato o allusivo».
Un attimo: chi era il bersaglio della Procura di Torino?
«Il bersaglio, come lo chiama lei, era Giulio Muttoni, imprenditore molto noto nel settore dei concerti. Io parlavo con lui, era lui che veniva ascoltato, sia chiaro. Solo che al telefono si discute in due e ogni volta che io componevo il suo numero o viceversa, partiva la registrazione».
E lei che c'entra con Muttoni?
«Siamo amici, come fratelli, da trent'anni e ci sentiamo di frequente».
Quanto sono andate avanti le intercettazioni?
«Tre anni, dal 2015 al 2018, però per la procura di Torino sono causali e quindi si possono utilizzare».
Ma che cosa le contestano?
«Ufficialmente rientro nel grande calderone della cosiddetta Bigliettopoli, ovvero favori in cambio di presenze omaggio agli eventi musicali, ma in realtà la mia vicenda non c'entra niente».
In sostanza?
«Nel 2010 Muttoni mi presta 150mila euro. Attenzione: con tanto di bonifico, non in nero o altro modo opaco. Sono soldi che mi servono per comprare una casa. L'anno dopo glieli restituisco».
D'accordo, ma dove sarebbe il reato?
«I passaggi sono tortuosi, ma ci arrivo. Nel 2015 lui subisce una interdittiva antimafia e io gli consiglio un avvocato. Per la procura mi do da fare per aiutarlo e il tutto viene ricollegato al prestito saldato quattro anni prima. In ogni caso, nel 2015 parte l'indagine, prima sui di lui e poi a cascata su di me, e cominciano le intercettazioni. Che mi colpiscono di rimbalzo, ma centinaia di volte».
I suoi avvocati hanno invocato l'immunità?
«Certo, ma la procura ha tirato dritto per la sua strada e il gup, quando siamo arrivati in udienza preliminare, non ha mai risposto alle nostre obiezioni. Anzi, il giudice mi ha rinviato a giudizio per corruzione, turbativa d'asta e traffico di influenze portando come primo elemento di prova proprio le trascrizioni delle telefonate fra me e Muttoni. In ogni caso, nessuno ha interpellato il Senato».
E il Senato che posizione ha preso?
«Sono stato ascoltato dalla giunta per le immunità e Pietro Grasso, in passato autorevolissimo magistrato, ha colto la portata della vicenda; poi Palazzo Madama ha sollevato il conflitto di attribuzione con la procura di Torino davanti alla Consulta».
Quando si discuterà il caso?
«L'udienza è prevista a novembre».
Ci sono analogie con la vicenda Renzi?
«Renzi ha vinto la sua battaglia contro la procura di Firenze, ma in quel caso si ragionava su chat e watshapp, insomma si doveva aggiornare ai tempi contemporanei la protezione riservata al parlamentare, per quanto mi riguarda siamo davanti a una marea di telefonate. E a questo punto è partita pure l'azione disciplinare».
Il processo invece a che punto è?
«A otto anni dall'incipit e a cinque da quando ho scoperto di essere indagato siamo ancora alle battute iniziali».
Lei non è più in parlamento.
«No, con la politica e anche col Pd ho chiuso. Sono tornato al mio lavoro in prefettura e faccio il consulente per diverse aziende».
Stefano Zurlo
Che aspetta Nordio a mandare gli ispettori a Torino? Intercettazioni illegali, il caso dell’ex parlamentare Esposito: ascoltato 500 volte dai pm senza autorizzazione. Tiziana Maiolo su il Riformista il 22 Febbraio 2023
Sono tre i soggetti istituzionali che dovrebbero occuparsi con urgenza e rigore del caso dell’ex senatore del Pd Stefano Esposito. Il primo è il ministro Carlo Nordio, sensibile al tema delle intercettazioni, il quale dovrebbe dare ascolto all’interrogazione del deputato Matteo Orfini e immediatamente mandare un’ispezione al palazzo di giustizia di Torino, sia in procura che nell’ufficio del gip. E chiedere conto delle violazioni di legge e di una norma costituzionale nell’inchiesta in cui hanno intercettato 500 volte, per tre anni, un parlamentare senza l’autorizzazione del Senato e senza mai rispondere alle numerose sollecitazioni del difensore.
Il secondo è il procuratore generale presso la cassazione Luigi Salvato, il quale dovrebbe fare quel che non ha fatto il suo predecessore Giovanni Salvi, pur richiesto dal Senato, cioè avviare l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati che hanno violato le leggi. La terza è la Corte Costituzionale, dopo che il Senato, il 30 giugno 2022, ha deliberato di proporre il conflitto tra poteri dello Stato. L’udienza per decidere sull’ammissibilità è fissata per il prossimo 8 marzo, poi ci sarà l’eventuale discussione sul merito. Ma intanto, e queste sono le incongruenze dei rapporti tra poteri dello Stato, c’è un processo non regolare per corruzione, turbativa d’asta e traffico di influenze che va avanti come se niente fosse. Oltre a tutto con l’infamante contorno dell’ambiente mafioso. Si chiama con poca fantasia "Concertopoli" perché il principale imputato, colui che veniva intercettato ogni giorno mentre parlava con il suo caro amico Stefano Esposito, è Giulio Muttoni, un imprenditore conosciuto soprattutto per la sua attività nel settore dell’intrattenimento musicale. La prossima udienza sarà il 27 aprile.
All’inizio fu inchiesta per criminalità organizzata. "Mafia al nord", come piace titolare ai giornali. Poi diventò assalto all’ex senatore del Pd che più di altri si era esposto in favore della Tav in Val di Susa, tanto da scriverci un libro ("Tavsi", con l’architetto Paolo Foietta e prefazione di Pierluigi Bersani) e da ricevere minacce di "bum bum" davanti a casa. Più che inchiesta di ‘ndrine e criminalità organizzata, questa è una storia di abuso di potere, di centinaia di intercettazioni di un parlamentare senza nessuna autorizzazione della Camera di appartenenza, e di un procuratore generale che ha voluto chiudere gli occhi davanti agli abusi. E di un Csm che di conseguenza è rimasto inerte. Così ora si attende il primo responso della Corte costituzionale e si spera che il ministro Nordio dia ascolto al deputato Matteo Orfini, firmatario di un’interrogazione cui non seguono le firme, come sarebbe stato doveroso, di tutto il gruppo del Pd, a partire dalla numero uno alla Camera, Debora Serracchiani.
Al Guardasigilli il parlamentare chiede "immediate iniziative ispettive" nei confronti degli uffici giudiziari torinesi. Mai, nella storia del Parlamento italiano, era successo che un suo membro fosse intercettato dalla magistratura per 500 volte senza autorizzazione. Ne dovranno rispondere il pm Gianfranco Colace, ma anche e soprattutto la gip Lucia Minutella la quale, dopo le ripetute sollecitazioni dell’avvocato Riccardo Peagno, difensore di Esposito, si era prima impegnata a pronunciarsi nel corso della discussione sul merito delle accuse, poi se ne era "dimenticata". Il fatto era più clamoroso ancora del caso Renzi, perché 130 di quelle captazioni, telefonate e messaggi whatsapp, erano entrate del fascicolo processuale e poste a base dell’accusa. Era stato poi lo stesso Esposito, vista l’inerzia della magistratura, a rivolgersi al Senato. Dove aveva trovato un alleato insperato in quel Pietro Grasso che non era stato mai considerato un campione del garantismo.
Era stato lui a chiedere e ottenere dal voto della giunta e dell’aula anche la trasmissione degli atti al ministro di giustizia, al Csm e al pg della cassazione perché si avviasse l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati torinesi. I quali con molta disinvoltura avevano continuato a indagare il senatore, violando anche la legge che consente la richiesta di autorizzazione anche a posteriori, purché la captazione del parlamentare sia stata casuale. Ma 500 casualità? Il percorso giudiziario dell’inchiesta è quanto mai contorto e spesso poco chiaro, perché arriva a processo con cinque diversi fascicoli e altrettante numerazioni sui registri. E perché ricalca la pretesa di certe fallimentari inchieste calabresi o siciliane di tenere insieme tutto, la mafia e la corruzione, la criminalità organizzata e gli organi dello Stato.
Il punto di partenza è un’indagine per il reato di associazione mafiosa contro ignoti, iniziata nel 2014 sulla base di intercettazioni. Ci sono due persone ascoltate in intercettazione ambientale, alla vigilia di un bando di gara (o forse addirittura a bando scaduto) per lavori di ristrutturazione del Museo di Reggio Calabria, quello dei bronzi di Riace. Dicono che "da giù", cioè dalla Calabria, hanno ricevuto sollecitazioni per trovare al nord un’azienda che disponga delle prerogative necessarie per poter partecipare alla gara. Di lì, con strane triangolazioni e probabili casi di omonimia, gli investigatori arrivano a individuare l’imprenditore torinese Giulio Muttoni e la sua "Set Up Live", che ha le carte in regola ed effettivamente vince la gara. I magistrati individuano lui e i suoi soci come coloro che si sarebbero messi a disposizione delle persone intercettate e legate alla criminalità organizzata.
Giulio Muttoni è amico strettissimo di Stefano Esposito, padrino di battesimo di una delle sue tre figlie. Legame antico e solido. Così polizia giudiziaria e carabinieri lo ascoltano per tre anni (tre anni!) al telefono e controllano i suoi messaggi whatsapp, benché dopo solo tre settimane abbiano già individuato Esposito come senatore. Lo sospettano di aver aiutato l’amico a superare un’interdittiva antimafia del prefetto di Milano in seguito all’aggiudicazione di un lotto di Expo 2015. Ma infine, un anno fa, la gup lo rinvia a giudizio per turbativa d’asta, corruzione e traffico di influenze illecite. 130 intercettazioni, delle 500 ottenute sempre senza alcuna autorizzazione del Senato, sono usate come indizi di colpevolezza alla base delle accuse. Le intercettazioni complessive sono 1.296, il processo pare costruito sostanzialmente su quelle. E sui giornali, naturalmente. Ecco un bel caso di scuola pronto per il ministro Nordio.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Come regolare le intercettazioni: un gioco dell’oca che va avanti dal lontano 1973. L'annuncio di Nordio di voler intervenire per evitare la pubblicazione di quelle irrilevanti ha scatenato durissime reazioni. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 6 febbraio 2023
Come ricordato nei giorni scorsi in una intervista da parte dell’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, la riforma delle intercettazioni voluta dal Guardasigilli Andrea Orlando, che ben si proponeva di introdurre un limite alla loro pubblicazione selvaggia, non sarebbe mai stata applicata fino in fondo.
Appena Carlo Nordio ha annunciato, allora, di volere riscrivere la normativa per meglio tutelare la riservatezza delle persone coinvolte evitando la pubblicazione delle intercettazioni irrilevanti, è stato subito assalito dalla opposizione, dai “soliti” giornali e da alcuni magistrati, per lo più in pensione ma sempre pronti a dare una sponda contro il governo di centro destra.
Tali strali fanno nascere spontanea una domanda: quello in questione è un tema inventato da Nordio oppure costituisce un problema irrisolto da parte della politica nostrana? Proviamo a vedere come stanno realmente le cose.
Nel 1973, la Corte costituzionale con la sentenza numero 34 aveva già sottolineato la necessità di predisporre un sistema a garanzia di tutte le parti in causa per l’eliminazione del materiale non pertinente. Ciò in base al principio secondo cui non può essere acquisito agli atti solo il materiale probatorio rilevante per il giudizio.
Nel 1989, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, l’articolo 268 appositamente dedicato alla materia si limitava a stabilire che “nel verbale è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate”. La mancanza di un espresso divieto di trascrizione, anche di quelle comunicazioni o conversazioni che in qualche modo potessero essere irrilevanti ai fini delle indagini, è una delle principali cause che ha favorito quel pericoloso corto circuito tra una parte del mondo della magistratura ed un parte del mondo della informazione ben contenta di poter avere a disposizione tutto il materiale intercettato, compreso quello irrilevante soprattutto quando ha riguardato la sfera privati degli uomini pubblici.
Nel 1999, Flick si propose di riscrivere la disciplina sulle intercettazioni il cui testo viene però stravolto e poi abbandonato.
Nel 2007, proprio a seguito di alcune vicende clamorose (si pensi ad esempio alla pubblicazione sul libro nero dell’Espresso in concomitanza con l’inchiesta di Calciopoli dei numeri di telefono degli indagati, oppure alle notizie attinenti alle abitudini sessuali, come nel caso di alcuni processi che vedevano coinvolto Silvio Berlusconi) iniziava a svilupparsi in ambito parlamentare un apposito dibattito per porre un freno sul versante della pubblicazione. La discussione su questi temi confluiva in un apposito provvedimento, noto come ddl Mastella, che tuttavia non portava ad alcun esito a causa dell’ostracismo delle categorie interessate, ovverosia quella dei magistrati e quella dei giornalisti attraverso le loro rappresentanze sindacali.
Nel 2015, in maniera piuttosto clamorosa iniziava un revirement all’interno della stessa magistratura. In particolare, il 17 aprile del 2015, gli allora procuratori della Repubblica di Roma e di Milano, durante una audizione alla Commissione giustizia della Camera dei deputati, si pronunciarono contro la indebita diffusione di intercettazioni irrilevanti acquisiti nell’ambito di un processo penale. Uno dei due procuratori era Edmondo Bruti Liberati che ultimamente, invece, in diversi interventi è stato molto critico contro Nordio.
Nel 2016, questo ripensamento della magistratura sul tema in questione iniziava a fare breccia all’interno del Consiglio superiore della magistratura che, il 29 luglio del 2016, approvava una apposita delibera nella quale veniva affermato il dovere del pubblico ministero titolare delle indagini di compiere il primo delicato compito di filtro nella selezione delle intercettazioni inutilizzabili e irrilevanti per evitarne l’ingiustificata diffusione.
Nel 2017, Orlando, forte della sponda di una parte della magistratura si impossessava del tema recependolo addirittura a livello legislativo. Infatti, con il decreto legislativo numero 216 veniva inserito il comma 2 bis al citato articolo 268 del c.p.p. che al fine di meglio tutelare la riservatezza delle persone coinvolte senza in alcun modo pregiudicare le indagini, introduceva esplicitamente il divieto di trascrivere comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini.
Appena entrata in vigore tale riforma trovava un inaspettato dietro front dei magistrati evidentemente “spaventati” dal punto di forza della riforma, che richiedeva al pubblico ministero un maggior impegno professionale e una costante attenzione selettiva al fine di realizzare una puntuale azione di separazione dell’utile dall’irrilevante.
A tale coro di insoddisfazione della magistratura si univa anche il mondo dell’informazione, evidentemente temendo di non poter più attingere ad una rilevante mole di informazioni che seppur irrilevanti ai fini della indagine penale rimanevano comunque di potenziale interesse e, ciò nonostante, la previsione di segretezza delle stesse.
Nel 2019, il mutato contesto politico e la nuova maggioranza giallorossa portarono a una drastica inversione di rotta rispetto ai principi introdotti nella riforma Orlando. Il 30 dicembre del 2019, per volontà del ministro grillino Alfonso Bonafede veniva approvato il dl numero 161 che metteva nel cassetto la riforma Orlando con due mosse: abolizione del divieto di trascrizione del materiale irrilevante; limitazione del divieto di trascrizione solo a quelle idonee a danneggiare la reputazione dei soggetti intercettati nonché a quelle relative ai dati sensibili.
Nel 2023, e siamo arrivati ai giorni nostri, Nordio ha annunciato di voler intervenire su tale assetto normativo rendendosi evidentemente conto che la riforma Bonafede ha introdotto nel nostro ordinamento una disciplina scarsamente idonea a evitare l’ingresso nei brogliacci di ascolto di comunicazioni che, in seguito, si possono rivelare di nessuna utilità probatoria, ma che nello stesso tempo possono rappresentare una lesione rilevante della privacy delle persone coinvolte. Insomma, una specie di gioco dell’oca che aveva fatto ritornare tutti al punto di partenza, a distanza di quasi mezzo secolo, consentendo alla stampa di pubblicare qualsiasi notizia senza alcun limite, con buona pace del diritto alla riservatezza.
Il pm Turco. Il magistrato di Firenze in Commissione Giustizia: «Ruolo totalizzante e senza possibilità di controllo delle società private che forniscono le strumentazioni per le intercettazioni». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 4 febbraio 2023.
Il procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, ascoltato questa settimana dalla Commissione giustizia del Senato nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle intercettazioni telefoniche, ha per la prima volta ammesso pubblicamente delle “criticità” negli ascolti effettuati nel 2019 nei confronti di Luca Palamara. In particolare, la società Rcs di Milano che aveva fornito il trojan inoculato dal Gico della guardia di finanza su ordine della Procura di Perugia nel cellulare dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, indagato per corruzione, avrebbe violato le «disposizioni contrattuali». Rcs, sul punto, aveva allocato un server in un posto diverso, vale a dire il palazzo di giustizia di Napoli, da dove invece doveva essere.
La circostanza era stata inizialmente scoperta, a settembre del 2020, dal perito Fabio Milana, consulente di parte di Palamara, che aveva sottolineato come tale server avesse potuto “trattenere” dati in maniera non conforme a quanto previsto.
Turco, a distanza di quasi tre anni, starebbe allora valutando i «risvolti» penali di tale «violazione contrattuale» di Rcs ed inoltre «le ricadute» che ciò avrebbe comportato sulle intercettazioni, senza tuttavia considerare che Palamara nel frattempo è stato rimosso dalla magistratura e rinviato a giudizio in sede penale ed altri cinque consiglieri sono stati sanzionati dal Consiglio superiore della magistratura proprio per quelle intercettazioni. Alla domanda postagli dalla senatrice della Lega Erika Stefani e dal collega di Forza Italia Pierantonio Zanettin sugli sviluppi dell’indagine circa l'ormai famosa fuga di notizie del 29 maggio 2019, quando Corriere, Repubblica e Messaggero, con articoli fotocopia, pubblicarono le intercettazioni allora in corso a Perugia, Turco ha preferito non rispondere. Eppure il giudice per le indagini preliminari di Firenze Sara Farini, con un provvedimento del 27 gennaio 2021, quindi di oltre due anni fa, a proposito della divulgazione degli atti dell’indagine perugina del maggio del 2019, aveva affermato che «sussiste senza dubbio il fumus commissi delicti del reato in iscrizione, considerata la circostanza - non controversa alla luce della documentazione prodotta dal denunciante (Palamara, ndr) e dalla scansione temporale dei fatti riferita in querela - della pubblicazione su varie testate giornalistiche di notizie ancora coperte da segreto investigativo. Appare dunque configurabile la fattispecie di cui all'art. 326 c. p.: vi è stata una condotta di illecita rivelazione di dette notizie da parte di un pubblico ufficiale, allo stato non identificato, che, avvalendosi illegittimamente di notizie non comunicabili in quanto coperte dal segreto investigativo, riferibili ad atti depositati presso la Procura della Repubblica di Perugia, le ha indebitamente propalate all'esterno», aveva aggiunto la magistrata.
«Ad oggi - concludeva quindi il gip Farini - non risultano infatti compiuti atti di indagine volti quantomeno a circoscrivere la platea di soggetti che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete indebitamente propalate all'esterno della Procura della Repubblica di Perugia».
A distanza di oltre due anni da quel provvedimento non si hanno, dunque, notizie sugli sviluppi investigativi, anche a fronte delle reiterate richieste dei legali di Palamara. Difficile, comunque, ci possano essere novità in futuro: le società telefoniche conservano i dati del traffico telefonico per solo due anni. L'attuale facente funzione della Procura di Firenze, negli ultimi mesi noto alle cronache per le “dispute” in udienza con Matteo Renzi nell’ambito dell’inchiesta Open, ha infine stigmatizzato il ruolo totalizzante e senza possibilità di controllo delle società private che forniscono agli uffici giudiziari le strumentazioni per effettuare le intercettazioni. A ciò si deve aggiungere, ha precisato Turco, l'assenza di professionalità all'interno dell'ufficio per un loro adeguato controllo.
La lezione di Nordio ai giustizialisti alla Travaglio. Il ministro della Giustizia: “La segretezza delle conversazioni è l’altra faccia della libertà”. Giuseppe De Lorenzo su Nicolaporro.it il 3 Febbraio 2023.
Oggi ricorrono i 60 anni dalla fondazione dell’Ordine dei giornalisti, istituzione di cui chi scrive farebbe tranquillamente a meno, e che sono stati l’occasione per parlare un po’ di libertà di informazione. Solita solfa. E solite frasi di circostanza trite e ritrite vergate dal presidente della Repubblica Mattarella in un messaggio inviato all’Ordine. Quest’anno, ed è una novità, c’è però un buon motivo per occuparsi della ricorrenza e leggere quanto detto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Una breve lezione alla baraonda di giustizialisti alla Travaglio che forse varrebbe la pena riportare quasi integralmente.
Il tema del contendere è ovviamente la pubblicazione di intercettazioni e notizie riservate da parte di un giornalista in merito a indagini giudiziarie. Conosciamo il metodo: il pm indaga, infila le trascrizioni dei nastri nelle ordinanze e queste finiscono spiattellate sui giornali. Il malcapitato di turno viene sputtanato, spesso con frasi poco attinenti all’oggetto dell’indagine, condannato senza appello al pubblico ludibrio e chissenefrega se sette o otto anni dopo verrà assolto.
Da tempo si chiede un correttivo a questo modus operandi. La riforma Cartabia ha imposto alle procure maggior cautela nei comunicati stampa e nelle conferenze, al fine di rafforzare il sacrosanto istituto della presunzione di innocenza. Ma non è che le cose siano poi migliorate granché, tanto che il governo starebbe pensando ad una riforma dell’intero istituto delle intercettazioni.
Quello che ha in testa Nordio l’ha spiegato chiaro e tondo oggi nel suo intervento. “Se un giornalista pubblica una notizia riservata su un’indagine giudiziaria la colpa non è del giornalista che non va né incriminato né censurato – ha detto il ministro – La colpa è chi consente la diffusione di queste notizie e non vigila abbastanza”. Insomma: le procure devono evitare fughe di notizie, sempre più diffuse. E magari fare più attenzione a quali intercettazioni infilare nel fascicoli e quali stralciare. Perché è vero che “la libera stampa è una delle colonne della democrazia”, ma lo sono anche “il rispetto della dignità e della libertà dei cittadini che può essere violata se si viola la segretezza delle loro conversazioni”. In sintesi, “la segretezza delle conversazioni è l’altra faccia della libertà”. Che però in pochi considerano. E che i giustizialisti ignorano del tutto.
Giuseppe De Lorenzo, 3 febbraio 2023
Il Procuratore generare di Napoli dimentica i numeri, ma la matematica non è un'opinione. Per il Pg Riello nessun abuso su intercettazioni, ma nel 2022 a Napoli 19mila spiati dalla Procura…Francesca Sabella su Il Riformista il 27 Gennaio 2023
La Procura che si trasforma in Grande Fratello e ascolta, spia, trascrive la vita privata dei cittadini. E spesso non potrebbe farlo perché non ci sono quei gravi indizi che portano a pensare che si stia commettendo un reato e che sono necessari per origliare le conversazioni di un cittadino. “Intercettazioni”. Potrebbe chiamarsi anche così il romanzo 1984 di George Orwell. E l’abuso di questo mezzo investigativo che pare essere l’unico per scoprire reati è al centro del dibattito e sul tavolo del Governo. E alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario ne ha parlato anche il procuratore di Napoli Luigi Riello: “Per quanto riguarda l’abuso o il ricorso eccessivo a questo strumento, – ha sottolineato il procuratore generale di Napoli – non mi risulta a livello di questo distretto che si sia fatto un uso eccessivo di questo strumento di indagine”.
In realtà i numeri dicono altro e raccontano di un uso indiscriminato delle intercettazioni. Secondo i dati raccolti dalla Direzione generale di statistica del Ministero della Giustizia nel 2021 il totale delle spese per le intercettazioni sostenute in un anno dagli uffici giudiziari del distretto di Napoli è di 15 milioni e mezzo di euro. 15 milioni! La voce intercettazioni è infatti quella più onerosa tra le varie spese sostenute dagli uffici giudiziari. Il dato accomuna tutti i più grandi distretti giudiziari d’Italia, segno che le indagini delle Procure e le intercettazioni sono un binomio quasi inscindibile: a Roma intercettare costa in un anno 13 milioni e mezzo di euro, a Milano 10 milioni. Vogliamo dare un altro numero? Marzo 2022: ci sono quasi 19mila persone (18.581 per la precisione) sotto intercettazione. Sarà stato indispensabile spiarle tutte… No. Il 60% di queste inchieste si è risolto con l’archiviazione o l’assoluzione. Nel 2021 la Procura di Napoli ha avanzato 13.909 richieste di proroga delle intercettazioni e 4.672 richieste di autorizzazione a disporre.
Numeri che indicano un trend in crescita rispetto al passato, se si considera che sono state poco più di 10mila le richieste di proroga tra il 2019 e il 2020 e poco più di 2mila le richieste di autorizzazione a disporre. Intercettati, spiati, spesso sputtanati su tutti i giornali e poi assolti dopo gogna e migliaia di euro spesi per difendersi nei processi. Lo dicono ancora una volta i numeri: Secondo il bilancio dell’anno 2021, il 77% dei procedimenti si è concluso con un decreto di archiviazione, il 6% con una sentenza di rito alternativo, il 2% con un decreto di condanna esecutivo, il 15% con un rinvio a giudizio. Serve veramente intercettare così tanto e così tante persone? Perché poi l’altro problema riguarda le intercettazioni a strascico. E c’è anche un problema di legittimità delle intercettazioni. O meglio c’è un “escamotage” che i Pm spesso usano per avere l’autorizzazione a intercettare: l’articolo 7, aggravante del metodo mafioso e così via con pagine e pagine di telefonate e conversazioni trascritte nero su bianco. Servono ai fini processuali? Spesso no. C’era davvero un reato? Di nuovo, spesso no. Perché ciò che dovrebbe cambiare è l’approccio dei pubblici ministeri: si indaga sui reati, non sui soggetti per vedere se forse scopro un reato.
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Andrea Valle per "Libero Quotidiano” il 28 gennaio 2023.
Non è solo il centrodestra, con sfumature diverse tra i partiti, a sostenere con convinzione la riforma delle intercettazioni auspicata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. […] Ieri sul Foglio è uscita un’intervista a Michele Serra, giornalista di Repubblica e firma storica dell’area culturale progressista.
Ebbene, Serra stronca la linea della sinistra italiana, intenta a gridare al bavaglio sulla stampa mentre vengono sputtanate sui giornali persone per aspetti della vita privata che nulla c’entrano con i presunti reati. Corna, sfoghi tra coppie, vizietti. «Noi giornalisti siamo una categoria che confonde spesso la libertà di stampa con l'impunità di casta» sostiene Michele Serra. «Le intercettazioni sono uno strumento di violenza mediatica. Se il colpevole finisce in galera o sputtanato sui giornali, per lui quello è rischio d'impresa, lo mette nel conto. Ma se l'innocente finisce in galera o finisce sputtanato sui giornali, quello è un uomo morto. Ecco, questo i giornali non lo capiscono».
Secondo l’editorialista di Repubblica, che firma la storica rubrica l’amaca, «chi fa il nostro mestiere dovrebbe invece partire da questa orrida certezza: l'innocente muore». Da qui la considerazione che a sinistra si sta sbagliando tutto sulla giustizia. «Dai tempi di Tangentopoli la sinistra ha sposato una specie di scorciatoia giudiziaria. Ciò che non poteva essere affrontato politicamente trovava una insperata soluzione giudiziaria. Non solo non ha funzionato, ma ha avuto effetti collaterali devastanti.
La cultura delle garanzie, un tempo cavallo di battaglia della sinistra, è andata a pallino. E la spirale moralistica ha aumentato il populismo». Poi, la critica ai giornalisti complici del voyeurismo: «Siamo pronti a gridare alla censura e al bavaglio, meno pronti a prendere le misure del nostro lavoro e dei nostri limiti. Accanirsi senza rispetto umano su chi finisce nei guai, è una manifestazione di insensibilità».
La riforma sulle intercettazioni. Come funzionano le intercettazioni e perché vanno limitate: i giustizialisti non leggono la Cassazione. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 28 Gennaio 2023
Premessa di ogni discussione seria: non è consentito a tutti di parlare di qualsiasi argomento. C’è un limite naturale, che è dato dalla complessità e dalla specialità del tema. Non c’entra nulla la libera espressione delle opinioni. E’ certamente questo il caso delle intercettazioni telefoniche, tema complesso e delicatissimo perfino per gli addetti ai lavori, sul quale occorrerebbe fare innanzitutto una buona informazione, prima di dar vita a interminabili ed infuocati rodei polemici in tv, sui media e -non ne parliamo- sui social. Proviamo a mettere ordine.
Partiamo dalla Costituzione, articolo 15: la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono “inviolabili”. Per limitare quel diritto fondamentale, occorre un atto motivato dell’autorità giudiziaria che sia rispettoso delle “garanzie stabilite dalla legge”. Queste garanzie normative, proprio perché derogatorie rispetto ad un così forte principio costituzionale (“inviolabilità”), non potrebbero mai essere governate dal principio di utilità. Certo che ascoltare persone sospette di commettere reati torna utile agli investigatori; ma poiché questo di per sé ovvio interesse confligge con un diritto di libertà della persona di primario rango costituzionale, quell’interesse (alla sicurezza ed al perseguimento dei reati) dovrà necessariamente essere assistito da una tutela affievolita rispetto al primo. I tifosi della sicurezza come interesse sociale primario occorre se ne facciano una ragione, fino a quando si intenderà rispettare il patto costitutivo della nostra società.
Ecco allora che le intercettazioni sono consentite solo per alcuni reati, considerati di maggiore allarme sociale, ma soprattutto solo quando già sussistano “gravi indizi” (non il mero sospetto, o la ipotetica probabilità) che quei reati siano commessi; hanno una durata limitata nel tempo; le proroghe devono essere rigorosamente motivate; possono essere utilizzate solo per i reati e nello stesso procedimento rispetto al quale i giudice le ha autorizzate; sono inutilizzabili se non pertinenti e rilevanti. Se poi le intercettazioni sono “ambientali”, esse non possono essere disposte in luoghi di privata dimora, salvo che non vi sia “fondato motivo” di ritenere che proprio in quei luoghi “si stia svolgendo l’attività criminosa”, ad eccezione di alcuni gravissimi reati (di criminalità mafiosa, principalmente). Quanto poi al c.d. trojan, che trasforma il cellulare stesso in un microfono, così da rendere impossibile predeterminare in quali luoghi esso intercetterà, questa micidiale intrusione, ancora una volta, potrà riguardare solo reati di eccezionale gravità, connotati strutturalmente da una inespugnabile organizzazione omertosa.
Queste regole fondamentali sono effettivamente rispettate nella quotidianità giudiziaria? Nossignore, no, e per moltissime ragioni. Scarsa indipendenza e terzietà del giudice delle indagini preliminari, che tende ad assecondare acriticamente la richiesta del PM, soprattutto delle Procure forti politicamente e mediaticamente (a quando i dati sulle percentuali di rigetto delle richieste dei PM? Ad oggi non a caso è un segreto inviolabile); costante deriva verso un indebito uso “a strascico” alla ricerca dei reati, oltre l’ambito autorizzativo del giudice; uso disinvolto della nozione di “rilevanza” della conversazione. A ciò si è aggiunta la furia giustizialista del recente legislatore populista, che ha esteso smisuratamente il catalogo dei reati intercettabili e l’uso del trojan. Dunque, un quadro che necessita interventi forti, rigorosi, mirati, restituendo quello strumento agli stringenti confini della sua eccezionalità.
Quali? Ritornare almeno alla normativa pre-governo populista; limitare rigorosamente e senza eccezioni l’utilizzabilità ai soli reati per i quali il giudice ha concesso l’autorizzazione; sanzionare efficacemente la pubblicazione delle intercettazioni, almeno nella fase delle indagini. Si tratta di idee che, diversamente da quanto contrabbandato dai cultori della giustizia securitaria, non appartengono a fiancheggiatori della criminalità ed alla casta dei “colletti bianchi”, ma ad ampi strati del pensiero giuridico liberale e democratico, anche nella magistratura. Se i polemisti di accatto che avvelenano i pozzi di questo cruciale dibattito democratico leggessero, insieme alla migliore dottrina processual-penalistica, qualche sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione anche recente, o perfino qualche recentissimo intervento -per fare un esempio- di magistrati come Nello Rossi o Alberto Cisterna, la discussione potrebbe prendere la piega giusta. Il fatto è che, oltre a leggere quegli scritti – cosa che già non fanno – dovrebbero poi anche comprenderli. E qui l’impresa diventa disperata.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 26 gennaio 2023.
Ma fatela finita. Anzitutto i politici: nel 2006 la sinistra bocciò la proposta di legge sulle intercettazioni del Guardasigilli Roberto Castelli perché c’era la campagna elettorale, poi ci fu la diffusione delle intercettazioni su Antonveneta e la sinistra cambiò improvvisamente idea, così nel 2007 la sinistra votò la legge proposta da Clemente Mastella (assieme a Margherita, Verdi e Rifondazione) ma poi la legge si arenò al Senato; allora nel 2008 arrivò Walter Veltroni e promise di riesumare la proposta, ma poi ricambiò idea anche lui e si accodò alla posizioni dell’Associazione nazionale magistrati.
Nel 2010 il governo Berlusconi cercò di blindare una legge ma fioccarono manifestazioni (anche una mitica assemblea di direttori di giornale) e il provvedimento si sfarinò, con Massimo D’Alema che definì la norma «ostruzionistica per le indagini» e lo stesso Pd, poi, in Commissione giustizia, che nel 2013 disse che «il tema non è una priorità».
Ed eccoci così al Decreto Orlando (2017) praticamente mai entrato in vigore dopo un tentativo nel 2019, una conversione con modifiche nel gennaio 2020 e un posticipo al maggio e poi ancora al settembre dello stesso anno. Tutte carte inutili. Non serve una riforma, macché.
[…] nel giugno 2012 Giorgio Napolitano aveva detto che «se il tema è da tanto tempo all’attenzione del Parlamento vuol dire che si tratta di una questione che meritava già di essere affrontata», allora l’anno dopo (2013) nominò un gruppo di «saggi» secondo i quali l’uso delle intercettazioni andava senz’altro ridotto. […]
Ma facciamola finita soprattutto noi giornalisti, i peggiori di tutti, sempre scontenti di ogni legge perché convinti che frugando tra le intercettazioni rilevanti o irrilevanti (decidiamo noi) potremo scovare notizie di «interesse pubblico» […] Esempi: quanti ne volete. Nel settembre 2017 Repubblica scrisse che la fondamentale intercettazione in cui si rivelava che «la patonza deve girare» era «il mondo in una frase», un'intercettazione che aveva «svelato il lato oscuro del potere», anzi, un «simbolo della stagione delle cene eleganti».
[…] Anche allora, nel 2017, direttori e cronisti volevano che nulla cambiasse. Anche allora il timore del «bavaglio» riguardava solo carte e verbali di persone note, soprattutto politici e cosiddetti colletti bianchi […] per Repubblica, nel 2017, la pubblicazione di un interrogatorio di una ragazza polacca stuprata […] era una cosa immorale, mentre riportare gli audio neppure depositati della escort Patrizia D’Addario che s’intratteneva con Silvio Berlusconi (erano audio privati) invece era morale […]
Il 29 settembre 2015, nel giorno in cui l’avvocato Caterina Malavenda (Corriere, e avvocato di Marco Travaglio) dimostrava un sensazionale talento comico e invitava i giornalisti a essere giudici delle intercettazioni che potevano pubblicare, il Fatto Quotidiano […] pubblicava […] «le conversazioni dell’ex ministro De Girolamo, ritenute irrilevanti», col dettaglio, appunto, che erano totalmente irrilevanti.
Ma al Fatto non basta che le intercettazioni siano irrilevanti: le cavalca anche quando sono inesistenti. Non stiamo parlando della vicenda incivile che riguardò le tre ministre Brambilla e Carfagna e Gelmini (governo Berlusconi) quando si vociferò di un’intercettazione (mai vista) secondo la quale la Carfagna avrebbe detto di aver fatto una fellatio a Berlusconi: una sciocchezza, che fece il giro del mondo […] a scriverla fu uno specialista, Fabrizio D'Esposito, che aggiunse che il contenuto hard delle intercettazioni poteva aver spinto Berlusconi a forzare la mano sull’ennesima legge-bavaglio. Ecco, le intercettazioni non esistevano. […]
[…] il capolavoro di Marco Travaglio […] il caso di malcostume giornalistico più grave e costoso del Dopoguerra, la diffusione della notizia su un’intercettazione in cui Berlusconi definiva la Merkel «culona inchiavabile». Non esisteva. Non è mai esistita. Ma nel settembre 2011 il Fatto mise la frase inesistente nel titolo di prima pagina («Berlusconi ha detto culona alla Merkel») e poi a pagina 3 («Cucù, la Merkel è inchiavabile») e Travaglio scrisse nell'editoriale: «La posizione dell’Italia non migliorerebbe se, per rimediare, Berlusconi dicesse che Merkel è un culetto inchiavabile».
[…] Non sapremo mai quanti miliardi di euro e quanti punti di spread sia costata questa faccenda, sappiamo che l’intercettazione non esisteva. Sappiamo che Il Fatto, ora, ha ancora il coraggio di esistere, che vorrebbe sempre più intercettazioni (esistenti, magari) e anche le dimissioni di Carlo Nordio (per una legge che non ha ancora fatto) e poi sappiamo che, di passaggio, ha messo in piedi una scuola di giornalismo.
La polemica sulle intercettazioni. Prima intercettano poi indagano: perché così non va. Alberto Cisterna su Il Riformista il 25 Gennaio 2023
C’è qualcosa di non chiarito che resta nascosto nel polverone sollevato sulle intercettazioni dopo il discorso del ministro Nordio in Parlamento e dopo la cattura di Matteo Messina Denaro. Esiste un non-detto, una sorta di metatesto tra le righe delle dichiarazioni che nasconde agli occhi dell’opinione pubblica meno esperta quale sia il reale terreno di scontro tra quelle che appaiono a prima vista due fazioni furiosamente in lotta. Sia chiaro non vogliamo scoprire l’acqua calda, ma solo segnalare ciò che in parecchi sanno, ma semplicemente tacciono.
In questi giorni turbolenti tra articoli, prese di posizione, polemiche affiora carsicamente quale sia la sostanza della questione sul tavolo e quale l’effettivo bersaglio della riforma che il ministero di via Arenula potrebbe avere in mente. Si è parlato di intercettazioni a strascico, di centinaia di migliaia di bersagli che ogni anno cadono nella rete delle captazioni e di milioni di dati di traffico che vengono drenati sulle reti. Per capirsi occorre una certa precisione.
Il codice di procedura penale, ovviamente, contiene norme generali. Descrive quali siano gli adempimenti e le prove necessarie per sottoporre a intercettazione una persona in relazione alle indagini per un certo reato. Ciascuna di queste scansioni è minutamente regolata dal codice Vassalli. Ci vogliono quasi sempre gravi indizi di un reato, c’è un soggetto da ascoltare, c’è un decreto che autorizza. Ad esempio, ci sono elementi concreti per ritenere sussistente una corruzione e così si intercettano i due soggetti coinvolti. Sennonché, nel corso delle intercettazioni, si scopre che uno dei due – conversando con altri – sta portando a compimento anche un peculato di cui non si sapeva nulla e per il quale non c’era alcuna evidenza prima. Allora il pubblico ministero acquisisce quelle conversazioni e le utilizza in un nuovo procedimento. Caso facile, facile, ma in realtà – soprattutto dopo alcune sortite legislative del Parlamento in risposta a una certa prudenza, in questa circolazione delle intercettazioni da un processo all’altro, che era stata raccomandata dalle Sezioni unite della Cassazione – i numeri sono sicuramente altissimi.
Anzi si può dire che, quasi sempre, questa sia la regola. Si intercetta partendo da un reato del quale poi non si scopre nulla, ma grazie agli ascolti (soprattutto se molto estesi) si mettono le mani su altre piste investigative totalmente sconosciute e qualcuno ci resta impigliato. La rete a strascico di cui si discute è questa e riposa su una precisa norma del codice di procedura penale (articolo 270) non a caso oggetto di un nugolo di interventi legislativi e di pronunce della Corte di cassazione dal 2017 sino ai nostri giorni (sentenza n. 37911 del 2022). È il cuore del sistema, il nocciolo duro del potere investigativo a disposizione degli inquirenti. È la ragione per cui le indagini si prestano a essere orientate non verso i reati, ma verso i soggetti di interesse; tanto in un paese che galleggia tra mille illegalità e tra mille debolezze personali, qualcosa vien fuori per incastrarli o per deturparli con qualche giornalista compiacente. Spezzata la relazione decreto-reato-persona e aperto a dismisura il compasso delle intercettazioni utilizzabili verso ogni reato che venga a galla è chiaro che si opera a mano libera e, potenzialmente, per un periodo praticamente illimitato. Il codice non detta un termine di durata massima delle captazioni che, di proroga in proroga, possono durare anche due anni.
È questa, sia consentito dire, la sostanza “occulta” del dibattito in corso. Né il ministro Nordio sostiene, né alcun altro può seriamente sostenere che le intercettazioni siano uno strumento inutile; in alcuni casi sono fonti insostituibili e necessarie. Certo per le mafie e per il terrorismo, ma anche per la corruzione o la pedopornografia. Il punto è limitare, circoscrivere, se del caso anche sopprimere la possibilità di utilizzarle per un reato diverso da quello per il quale si stava procedendo inizialmente; in modo da privare gli inquirenti della paranza che l’articolo 270 attualmente consente. L’obiezione è evidente: e se nel corso delle intercettazioni si scopre che tizio, presunto corruttore, ha fatto assassinare un rivale come si procede? Si rinunzia alla prova? Ma qui il tema smarrisce i suoi connotati giudiziari e diventa tutto politico e ideologico. Teoricamente installando un Grande Fratello in tutta Italia si scoprirebbero migliaia e migliaia di reati di cui non si sa nulla con somma gioia di tanti, sia chiaro. La società sorvegliata (David Lyon, Feltrinelli, 2002) è la più sicura delle aggregazioni umane che, ahimè, paga questa tranquillità con un sacrificio immane delle proprie libertà.
Certo ci sono le Carte internazionali, c’è la Costituzione, ma se basta un provvedimento giudiziario per procedere agli ascolti e si abbassa la soglia degli elementi di prova per intercettare, in teoria (è una provocazione, chiaro) tutti potrebbero essere sottoposti a intercettazioni, minori compresi perché non si deve essere sospettati di aver commesso un reato per esserlo, è sufficiente anche esserne una potenziale vittima. Proprio perché la questione è tutta politica e ideologica, si deve prendere atto che la quasi totalità delle democrazie occidentali non consente un uso così ampio, come in Italia, delle intercettazioni giudiziarie, ossia da utilizzare come prove. Prediligono altri paesi quelle preventive e di intelligence con l’evidente limite che mai potranno essere utilizzate e men che meno divulgate; chissà quanti delitti restano impuniti in Usa o in Germania.
Certo sopportano un costo e ne devono rendere conto ai propri cittadini. In Italia, si obietta, ci sono le mafie che hanno commesso stragi. È vero e nessuno discute che si deve continuare a intercettare per scoprire tutti i reati commessi dai mafiosi; quelli che il ministro Nordio ha chiamato i reati “satellite” delle associazioni. Ma il Parlamento deve essere lasciato libero di decidere come realizzare il miglior bilanciamento degli interessi costituzionali in discussione e di cercare un punto di equilibrio tra istanze repressive e tutela della privacy e della dignità mediatica delle persone. Per farlo non è molto appropriato, in una democrazia liberale, che il legislatore operi sotto la minaccia di passare per colluso o lassista e che ogni intento riformatore sia denunciato come una resa al nemico. Si deve decidere con la necessaria serenità e, soprattutto, potendo disporre di un adeguato patrimonio di informazioni.
Tutti conoscono le cifre dell’attività di intercettazione in Italia; parlare del loro costo è francamente marginale a fronte del prezzo pagato dalle libertà individuali, mentre sarebbe molto più utile verificare – anche nel corso delle audizioni parlamentari in corso in questi giorni innanzi alla Seconda Commissione al Senato – quale sia la concreta applicazione dell’articolo 270 del codice di procedura. Ammesso che qualcuno abbia i dati e abbia voglia di renderli noti; ma senza tutto rischia di ridursi solo a un vuoto dibattito su questioni astratte. Alberto Cisterna
Da Cacciari a Palamara sulle intercettazioni tutti al fianco di Nordio. Di Alfonso Piscitelli su Cultutaidentita.it il 24 Gennaio 2023
Si era nel 2006 e il principe Vittorio Emanuele di Savoia veniva coinvolto in una indagine condotta dal pm Woodcock. Il figlio dell’ultimo re d’Italia conosceva le patrie galere, ma soprattutto veniva spiattellata sui media una serie di sue dichiarazioni a 360 gradi, che poca o nulla attinenza avevano con la causa in corso. Conversazioni confidenziali, estemporanee in un attimo venivano rese pubbliche con un effetto, direbbero gli inglesi, di character assassination, distruzione della reputazione.
Alla fine Vittorio Emanuele fu prosciolto, anzi lo Stato italiano dovette pagare al principe un indennizzo di 40.000 euro per il grave danno di immagine arrecato. Chi non aveva atteso l’ultimo grado di giudizio per esprimere con la consueta vivacità verbale i suoi dubbi riguardo alla fondatezza dell’indagine era stato l’ex presidente Francesco Cossiga, sardo d.o.c.
Ma a Cossiga che anticipava con arguzia quelli che sarebbero stati i risultati processuali replicò in maniera davvero significativa uno dei magistrati interessato all’inchiesta: “L’ex presidente Cossiga non difenderebbe il principe Vittorio Emanuele – disse l’inquirente – se leggesse cosa ha detto il principe riguardo ai Sardi…”. Noi non stiamo a ripetere la sentenza principesca sui Sardi intercettata a telefono, ma ricordiamo il fatto che fosse tirata in ballo come emblematica di ciò che è diventato il fenomeno intercettazioni nel periodo storico della seconda repubblica.
Ognuno potrebbe pensare a se stesso, a qualche frase che ha pronunciato di fretta, con la facilità di chi si intrattiene in una conversazione informale. Possibile che quella frase possa poi venire diffusa? Perché il tema dell’abuso delle intercettazioni al 90% riguarda il problema della sua diffusione, più che dell’uso. Torna alla mente anche quello che diceva un altro principe, Richelieu: “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare”.
Oggi il ministro Nordio cerca di porre un freno all’abuso delle intercettazioni. Risultato: si è attirato immediatamente l’accusa di voler impedirne l’uso… ed è una accusa infamante, soprattutto se chi la pronuncia crea una facile associazione di idee con le vicende di mafia e terrorismo, con le lunghe e ombrose latitanze di cui molto si è parlato nei giorni scorsi.
Ovviamente c’è anche chi non ci sta a questo gioco al massacro, ad esempio Massimo Cacciari, non un uomo schierato col centrodestra quindi. Quando gli è stato chiesto se è vero che toccare le intercettazioni rischia di minare le indagini sulla mafia o sul terrorismo, il filosofo di sinistra ha risposto nella sua consueta maniera socratica… “Puttanate!” per poi aggiungere: “Nordio lo conosco bene, fin da quando ero sindaco di Venezia. È una persona, sul piano dell’onestà intellettuale, al di là di ogni sospetto. L’idea che possa avere in mente di favorire la mafia è offensiva, e prima ancora totalmente scema”.
E in verità chiunque conosca l’impianto della riforma Nordio sulle intercettazioni sa che essa non ostacola l’utilizzo delle intercettazioni nell’ambito delle indagini per terrorismo, mafia, traffico di stupefacenti.
Da parte sua l’ex magistrato Luca Palamara che negli scorsi anni in due libri di successo scritti con Alessandro Sallusti ha fatto luce sugli aspetti più oscuri del “Sistema” giudiziario ha ricordato come qualche anno fa lo stesso Travaglio diceva cose praticamente simili a quelle di Nordio riguardo all’abuso delle intercettazioni paragonate “a una pesca a strascico”.
Sorge il sospetto che questa tempesta di fango contro Nordio sia espressione del fatto che una certa parte politica non abbia mai seriamente assimilato quelli che sono i contenuti liberali della stessa costituzione italiana.
Invadere la sfera privata del cittadino attraverso trojan è qualcosa che ricorda di più la tragica vicenda ambientata nella DDR e narrata nel film “Le vite degli altri” che non una società ispirata ai principi liberal-democratici della Costituzione del 1948.
Cosa non va nell’attuale “sistema delle intercettazioni”? Ce lo spiega un avvocato penalista cassazionista che proviene dalla insigne tradizione giuridica napoletana, Pier Giacinto di Fiore: “Oggi le risultanze delle intercettazioni telefoniche dominano il piano epistemologico del Tribunale. Una conversazione intercettata determina una condanna. Una conversazione intercettata azzera il contraddittorio tra le parti perché il Tribunale, nella stragrande maggioranza dei casi, propende per l’ipotesi accusatoria del suo “collega” Pubblico Ministero. È necessaria una riforma che ripristini l’equilibrio probatorio, riducendo le risultanze delle intercettazioni telefoniche al livello di indizio utile a continuare indagini, a ricercare la vera prova del fatto, mai a condannare”.
In pratica l’abuso di intercettazioni ha rappresentato una involuzione del modo di fare indagini in Italia: un modo che – date anche le traversie storiche del nostro paese tra anni di piombo e anni di fango mafioso – era caratterizzato da un alto livello di qualità. L’intercettazione, nella sua interpretazione solitamente colpevolista, è diventata prova in sé, mentre in un ordinamento sano essa dovrebbe essere una pista, una traccia per poi trovare prove concrete.
In fondo l’abuso delle intercettazioni somiglia drammaticamente all’abuso dello strumento del pentitismo, che nel corso degli anni ha assunto una fisionomia molto diversa, per non dire opposta rispetto a quella con la quale l’aveva concepito Giovanni Falcone nella sua autentica (e sacrificale) lotta alla mafia.
Ora Nordio cerca di voltare pagina e di sanare gli abusi. È curioso notare che i fogli di carta stampata che spargono illazioni sul suo conto sono gli stessi che negli anni Ottanta attaccavano (e anche un po’ infangavano con accuse di protagonismo) Giovanni Falcone…
Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 24 gennaio 2023.
[…] E quando finiscono sui giornali, di chi è la colpa? «Non dei giornalisti », dice il ministro. Quelli fanno il loro mestiere. «La colpa è di chi non tutela il segreto istruttorio, che dovrebbe impedirne la diffusione, poiché molte volte queste intercettazioni escono nonostante il divieto di diffusione». […]
Estratto dall’intervista rilasciata da Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, ad Annalisa Cuzzocrea, per “La Stampa”
[…] La maggioranza accusa: sui giornali escono ancora intercettazioni non rilevanti, come nel caso Zaia-Crisanti.
«La riforma entrata in vigore il 1 settembre 2020 è chiara: le conversazioni non rilevanti non possono essere inserite in atti, ma devono confluire in un archivio riservato. Se chi ha accesso all'archivio le divulga, commette un reato. Nel caso che cita, se sono state divulgate, evidentemente sono state ritenute rilevanti». […]
Estratto della lettera di Henry John Woodcock, pubblicata da “la Repubblica” il 23 gennaio 2023.
Caro Direttore, nell’editoriale di Francesco Merlo dal titolo “Il ministro di astio e giustizia, Nordio fa tornare l’Italia ai tempi di Tangentopoli”; si fa riferimento a un’inchiesta della quale (anche) io mi occupai diversi anni fa.
Ebbene, è doveroso ricordare come la così detta “inchiesta Vallettopoli” – definita nel testo “sgangherata” – si sia conclusa con condanne (passate in giudicato ed eseguite) irrogate al principale imputato per diverse ipotesi di estorsione consumata e tentata; quelle vicende riguardanti – si legge nell’articolo - “…donnine, droga, yacht e transessuali…”, oggetto delle intercettazioni da me disposte, sono state inserite negli atti non certo per ragioni di voyeurismo giudiziario, ma in quanto poste alla base di richieste giudicate di natura estorsiva, non solo da me che mi occupai delle indagini, ma anche e soprattutto dai numerosi giudici di diverse autorità giudiziarie che, in primo, secondo e terzo grado, hanno riconosciuto la colpevolezza dell’imputato. Tuttavia, quello delle intercettazioni è un tema complesso e delicato, affrontato – a mio avviso – almeno in alcuni casi non senza un pizzico di ipocrisia e con altrettanta superficialità.
Limitare l’uso delle intercettazioni, in particolare per i reati commessi dai così detti “colletti bianchi”, sarebbe una scelta assolutamente sbagliata e con effetti irreversibili: impedirebbe, di fatto, ogni possibilità concreta di perseguire tali fatti criminosi. […]
La risposta di Francesco Merlo:
Caro Woodcock, con quella sola parola, “sgangherata”, ho voluto dire che lei ne ha combinate di tutti i colori.
Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” – articolo di 21 gennaio 2023
Neppure concentrando le loro forze, i vari De Magistris, Woodcock, Ingroia e via indietreggiando sino all'insuperabile Di Pietro, avrebbero saputo inventarlo meglio - e forse sarebbe giusto dire peggio - di così. Carlo Nordio suona infatti la carica come se fosse il ministro di Astio e Giustizia: "la democrazia dimezzata", "il Parlamento supino", "il pasticcio colossale", "voi vedete mafia dappertutto". Come se scrivesse il capitolo finale del suo libro "Giustizia ultimo atto", Nordio si intesta dunque "la rivoluzione copernicana" e si trasforma nel Giustiziere della Giustizia.
Ed è come se davvero diventasse quel Charles Bronson al quale tanto somiglia fisicamente e del quale, è vero, c'è qualcosa in ciascuno di noi quando ci ricordiamo per esempio, della ministra Federica Guidi che dice al marito "mollami, tu mi tratti come una sguattera del Guatemala" o delle intercettazioni di quella disgraziata inchiesta denominata Vallettopoli quando il Pm di potenza John Henry Woodcock, divenne megafono di vizi privati, gestore di una videospazzatura a base di donnine, droga, yacht e transessuali. A nessuno piace che la propria vita privata finisca sui giornali, ma che goduria quando ci finisce quella degli altri, si tratti di Vittorio Emanuele o di Fabrizio Corona oppure di Silvio Sircana o ancora di Piero Fassino. […]
«Sette mesi in cella da innocente: vi spiego io la barbarie delle intercettazioni».Un trojan nel telefono e poi l’inferno. “Può la lotta alla mafia giustificare la sospensione dello Stato di diritto?” Domenico Forgione su Il Dubbio il 21 gennaio 2023
La relazione al Senato del guardasigilli Nordio ha innescato la prevedibile reazione di chi, da decenni, intossica il dibattito sul tema della giustizia in Italia con considerazioni per lo più strumentali, che passano come un carrarmato sulla vita delle persone. Io credo, invece, che occorra un alto livello di umanità, quando si affrontano temi che incidono fortemente sulla libertà, sulla dignità e sulla rispettabilità degli individui.
Il ministro della Giustizia afferma, e noi gli crediamo, che «il nostro fermo proposito è di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale». Però dice anche, per stoppare le urla scomposte del fronte giustizialista che «non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo».
Mi permetto di dissentire e di portare ad esempio, ahimè, la mia esperienza personale: un caso forse limite, ma comunque utile – spero – per centrare e meglio evidenziare i contorni della discussione, quando si parla di intercettazioni e di 416 bis. Sono stato arrestato il 25 febbraio 2020, sulla base di una conversazione (11 pagine sulle 3651 complessive dell’indagine) intercettata tramite il trojan installato sul telefonino di un altro indagato, che si trovava a cena con due persone, ad una delle quali era stata attribuita la mia identità. Nonostante la mia dichiarazione di assoluta estraneità, già in sede di interrogatorio di garanzia (due giorni dopo l’arresto e senza avere ancora ascoltato l’audio della conversazione), e la contestuale richiesta di effettuare una comparazione fonica (non accordata nell’immediato; mentre in nessuna considerazione il Tribunale della libertà ha tenuto la perizia fonica presentata dalla difesa), ho dovuto subire sette mesi di custodia cautelare in carcere, fino a quando il Ris di Messina, su incarico della Procura di Reggio Calabria, non ha stabilito che la voce intercettata non era la mia. Duecentocinque giorni dopo il mio arresto, trascorsi negli “hotel” a cinque stelle di Palmi e di Santa Maria Capua Vetere. Successivamente, la mia posizione è stata archiviata.
La questione, dal mio punto di vista, è quindi un’altra, più profonda e grave. Può la lotta alla mafia giustificare la sospensione dello stato di diritto in vaste aree del Paese? L’Italia è uno stato di diritto o uno stato di polizia, nel quale le garanzie individuali possono essere calpestate? Sono queste le domande per le quali io e migliaia e migliaia di altre vittime attendiamo risposte, anche per riuscire ad avere nuovamente fiducia nella giustizia.
La sensazione è che il populismo penale di parte della magistratura e dell’informazione spinga all’accettazione del fatto che la lotta alla criminalità organizzata possa avere come effetto collaterale un numero cospicuo di innocenti in manette.
Per motivi ideologici, ma anche per una questione all’apparenza banale: chi parla di carceri, di buttare le chiavi, di innalzare forche nelle pubbliche piazze, lo afferma senza cognizione di causa; senza avere cioè la minima idea del terremoto emotivo che si scatena nell’animo di chi varca il cancello di un carcere, soprattutto se sa di essere innocente. Senza, inoltre, avere la minima idea della condizione disumana delle carceri italiane.
Ecco perché, pur riconoscendo l’importanza e l’efficacia dell’utilizzo di trojan e intercettazioni telefoniche per assicurare alla giustizia i rei, sarebbe auspicabile una rivisitazione del loro impiego, nel senso di ribadirne la validità come strumento di indagine attorno al quale costruire la prova vera e propria.
Prendere atto che su questa delicata materia occorre intervenire, al di là delle caciare strumentali che si sollevano ogni qual volta qualcuno pone con spirito costruttivo la questione, sarebbe già un passo in avanti, a tutela della giustizia e della dignità delle persone, poiché “non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia” (Montesquieu).
Caro ministro Nordio: resista, resista, resista...Marco Travaglio lancia una petizione per chiedere le dimissioni del guardasigilli: “Ha calunniato i magistrati e le forze dell'ordine”. Davide Varì su Il Dubbio il 20 gennaio 2023
Prima erano solo avvisaglie, colpi a salve, avvertimenti. Ma ora l’ordine di colpire è esplicito, chiaro. E il bersaglio, naturalmente, è il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il quale è finito sotto il tiro incrociato della poderosa macchina da guerra mediatico-giudiziaria che da trenta e passa anni fa e disfa la vita politica del Paese.
Già da qualche giorno le procure della Repubblica - alcune e ben riconoscibili - avevano avvelenato l’aria con veline che accusavano il guardasigilli di voler lasciare a piede libero sequestratori, ladri e mafiosi (sic!).
Poi il livello dell’attacco si è alzato e i giornali di riferimento della “magistratura engagé" sono finalmente usciti allo scoperto. Tanto che il Fatto Quotidiano (e chi altri sennò) ha inondato la rete con un appello per chiedere le dimissioni di Nordio perché - sentite sentite - “il ministro della Giustizia ha dichiarato ripetutamente il falso, ha calunniato i magistrati e le forze dell’ordine sostenendo che usano manipolare e strumentalizzare politicamente le trascrizioni”. E qui ci sarebbe da ridere se non fosse che il paese è funestato da drammatiche storie di cittadini innocenti le cui vite sono state travolte da intercettazioni che anni dopo si sono rivelate “sbagliate” (una delle quali la trovate a pagina 11 del Dubbio, edizione 21 gennaio).
Ora, noi non sappiamo se la premier Giorgia Meloni, che pure ha lottato per avere Nordio a via Arenula, avrà la forza di resistere a questo attacco. Sappiamo però che dall’entourage del ministro fanno sapere che “tira una brutta aria”. Staremo a vedere.
Ma la situazione a questo punto è chiara: chi tocca i fili muore, chi prova a cambiare il sistema necrotizzato della nostra giustizia e le rendite di posizione della magistratura rischia il linciaggio. Per quel che ci riguarda non possiamo far altro che ricordare al ministro della giustizia le parole di un suo ex collega: “Resistere, resistere, resistere…”
Estratto dell’articolo di Fra. Gri. per “La Stampa” il 21 gennaio 2023.
Piuttosto che ingaggiare un micidiale corpo a corpo con i magistrati, foriero di molti guai, e sicuramente fuori dal comune sentire del popolo della destra, il governo di Giorgia Meloni immagina già una via di fuga dal vicolo cieco dov'è finito con le esternazioni del ministro Carlo Nordio.
E perciò, prima cosa, tutte le macchine legislative sono state fermate, quantomeno per un mese, fino alle elezioni regionali di Lombardia e Lazio. Secondo, se proprio si deve fare qualcosa sul tema delle intercettazioni, si colpisca l'anello debole, i giornalisti, e non quello forte, i magistrati.
Fonti autorevoli di maggioranza raccontano di un garbatissimo invito a Nordio affinché metta da parte per qualche settimana i bollenti spiriti. «Non serve a nessuno alimentare uno scontro con la magistratura tutta, che il Paese non capirebbe il giorno dopo l'arresto di Messina Denaro», dice un parlamentare influente. E un altro: «Le intercettazioni non si toccano. La maggioranza, o quantomeno la sua gran parte, è contro la grande criminalità come contro la piccola criminalità».
[…] Il mantra che può ricucire le divisioni del centrodestra a questo punto è la lotta ai presunti «abusi», come ripeteva ieri anche il vicepremier Antonio Tajani, che ledono «i diritti di cittadini sbattuti in prima pagina per poi risultare completamente estranei alle vicende». Solo che ora ad abusare delle intercettazioni non sarebbero più i magistrati, quanto i giornalisti.
[…] L'idea che piace dentro al governo, insomma, e che salverebbe la faccia al Guardasigilli, è un possibile divieto di pubblicazione delle intercettazioni tal quali, anche se ricavate da atti giudiziari, «qualora siano pregiudizievoli della onorabilità di un non indagato».
Spiegano: «C'è la nuova legge Orlando-Bonafede, ma non funziona, come anche ieri s'è visto nel caso Calovini […] Se pure qualche intercettazioni non rilevante penalmente sfugge al controllo dei magistrati, toccherà ai giornalisti valutare». Un eufemismo. Perché in caso di pubblicazione "proibita", scatterebbero multe salate.
Ma il terreno è scivolosissimo, perché gli atti giudiziari allegati a un processo, esaurita la fase della discovery, sono pubblici per definizione. […]
Estratto dell’articolo di Liana Milella per “la Repubblica” il 21 gennaio 2023.
«Provvedimenti disciplinari interni». Dell’Ordine dei giornalisti contro i colleghi che pubblicano intercettazioni senza valore penale e che riguardano persone non coinvolte nelle indagini. È l’ipotesi su cui lavora e che spiega a Repubblica il sottosegretario “meloniano” alla Giustizia Andrea Delmastro. Non vuol sentir parlare di “bavaglio”, come racconterà poi anche a Metropolis: «Nessun intento punitivo, noi vogliamo solo eliminare il tossico che esiste nei rapporti tra giustizia, informazione e politica».
Sarà. Ma dall’annunciata stretta sulle intercettazioni del Guardasigilli Carlo Nordio, eccoci alle misure anti stampa su cui lavora Delmastro. Sembra un perfetto amarcord berlusconiano.
[…] Dal governo è dunque in arrivo un pacchetto di norme affilate, pronte per colpire l’accoppiata micidiale che turba il Guardasigilli, pm e giornalisti. Stretta su due livelli: da un lato, il paletto ai magistrati, perché evitino di calare nelle misure — notificate anche agli avvocati, e quindi in grado di raggiungere la stampa — le captazioni ritenute “lesive della privacy” e non rilevanti ai fini delle indagini. Dall’altro, una sanzione per i cronisti che continuino a pubblicare riferimenti o conversazioni che esulano dall’accertamento di quei reati. […]
"Il problema? Chi passa le carte ai media". L'ex ministro Mastella: "Io fatto fuori dal fango sui giornali. I dem? Doppiopesisti..." Francesco Curridori il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.
«Le norme già esistono, ma nessuno le rispetta». Il sindaco di Benevento, Clemente Mastella, ministro della Giustizia nel secondo governo Prodi, interviene sull'annoso e irrisolto problema delle intercettazioni, tornato al centro del dibattito dopo la cattura di Matteo Messina Denaro.
Su questo tema, la sua posizione rimane invariata?
«Mi pare abbastanza evidente che le intercettazioni servano. Questo nessuno lo mette in dubbio. Pubblicare intercettazioni su vicende personali, rende già compromessi, in virtù di questa esposizione mediatica, persone che sono sottoposte a investigazione e che, poi, magari, risultano innocenti».
Può fare un esempio?
«Mia moglie disse al telefono: Io quella persona non la voglio più vedere. Per me è un uomo morto. Come se mia moglie fosse camorrista. Mentre invece aveva connivenze, colui che i pm utilizzarono contro mia moglie. A distanza di anni, in un altro processo, si scoprì che i rapporti con esponenti della camorra li aveva colui che fu utilizzato per far saltare me e mia moglie. Una vergogna, intanto il fango mediatico era stato messo in circolazione e ad arte».
Quindi, il problema è il fango?
«Certo, la cosa sconvolgente non sono le intercettazioni, ma la gogna mediatica a cui sono sottoposte le persone. Far venire fuori delle cose che, poi, vengono derubricate, sconosciute come movente di natura giudiziaria e investigativa. E, intanto, si mette in ludibrio l'indagato. Già il fatto stesso che gli investigatori chiamassero mia moglie lady Mastella era di grande irriverenza e scostumatezza. È irrispettoso tutto questo, mentre ritengo inappropriato il trojan che viene esageratamente utilizzato. Lo userei solo per le vicende di mafia».
Condivide la proposta del sottosegretario Del Mastro sulle intercettazioni?
«Sì, ma il punto è chi gliele dà ai giornalisti queste intercettazioni: magistrati, avvocati o piovre del mondo intorno ai tribunali. Il giornalista fa il suo mestiere. È questa l'unica separazione che serve. Il problema è chi dà certe informazioni, non chi le riceve».
Nel complesso, come giudica l'operato e le parole del ministro Nordio?
«Ho patito anch'io qualche circostanza in cui ci sono state alcune sue espressioni non felici. Detto questo, la mia opinione è che si esce da questo stato paludoso solo se c'è un dialogo sincero e vero tra le Istituzioni, cosa che non vedo».
Crede che la maggioranza riuscirà a trovare un punto di caduta sulla riforma della giustizia?
«Quando si parte così è difficile perché anche la maggioranza è divisa. La maggioranza deve discutere con le opposizioni, con gli avvocati e i magistrati, ma se all'interno della coalizione già ci sono contrapposizioni diventa complicato. E la maggioranza diventa minoranza».
Perché il Pd continua a seguire le sirene giustizialiste?
«Non mi parli del Pd. Solo quando sono toccati direttamente scoprono che c'è una giustizia che a loro non piace. Quando, invece, tocca agli altri, a loro non frega nulla. L'avviso di garanzia, ad esempio, era il pretesto per far dimettere i ministri, ma quando arrivò a qualche ministro del Pd smise di essere strumento di afflizione rispetto alle persone. C'è molto doppiopesismo nel Pd».
Come giudica le nomine sul Csm?
«Valentino è un galantuomo e non capisco come mai sia stato messo fuori gioco. Forse il livello qualitativo, da parte di tutti, poteva essere anche più alto. Avrebbero potuto fare delle scelte migliori, ma spero che gli eletti possano operare utilizzando le migliori energie».
Lo Stato diffama e la colpa è dei giornalisti. Maledetti giornalisti, alla fine sono loro i bastardi, quelli senza etica e da rieducare con un corso massiccio di deontologia. Vittorio Macioce il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Maledetti giornalisti, alla fine sono loro i bastardi, quelli senza etica e da rieducare con un corso massiccio di deontologia. L'abuso di intercettazioni ha finalmente un capro espiatorio, quelli che per mestiere raccontano ciò che accade. Un atto giudiziario non è più un fatto, ma un pettegolezzo. È spiare la vita degli altri dal buco della serratura. Come vi permette di scrivere quello che la pubblica accusa archivia e mette a disposizione di un tribunale? Carlo Nordio, ministro della Giustizia, pone un problema reale: c'è un limite alle intercettazioni? Non c'è dubbio che qualcosa da rivedere ci sia. Non è solo una questione di diritto alla privacy. Ci sono in gioco i pilastri della civiltà liberal democratica. Ci sono innocenti che sono stati «sputtanati» e poi assolti in tribunale. I processi davanti all'opinione pubblica sono vergognosi. È necessario ritarare l'uso di uno strumento investigativo molto utile e spesso necessario con le garanzie costituzionali di ogni individuo. Solo che al ministero della Giustizia tirano in ballo la stampa, come se l'origine della giustizia chiacchierona fosse lì. È troppo facile. Il rischio, in buona fede e per non riconoscere la fonte del problema, è toccare i capisaldi della libertà di stampa. Non è una esagerazione. È che non si può chiedere a un giornalista di non scrivere ciò che un potere dello Stato ha reso pubblico. Non si può dire tocca a voi ignorare, cancellare, censurare, ha messo nero su bianco. Si finisce in un paradosso di filosofia politica e del diritto. Lo Stato spia e va bene. È utile per la sicurezza, per combattere la criminalità, organizzata e non. Lo sta facendo a fin di bene. Tutto chiaro. Lo Stato poi trascrive quello che ascolta, spesso lo fa in modo corretto, qualche volta travisa e di tanto in tanto va oltre. Non si limita a sottolineare ciò che è utile per le indagini, ma si sofferma su dialoghi che non hanno nulla di rilevante. Ok, può capitare. A un secondo controllo la roba intima o superflua andrebbe gettata in un inceneritore. Non sempre accade. Lo Stato poi dovrebbe ricordarsi che tutti sono innocenti fino a quando non c'è un verdetto di terzo grado in un tribunale. Quegli atti finalizzati all'indagine e al processo non dovrebbero andare in giro. Lo Stato non solo non fa nulla per garantire la riservatezza, ma quando serve, magari politicamente, si mette a spacciare intercettazioni. È qui che le parole diventano discorso pubblico. Sono notizia. Ora il giornalista dovrebbe nascondere notizie che lo Stato ha messo in circolo. Con quale criterio? Qui l'etica diventa discrezionale. Se lo Stato diffama come si può condannare un giornalista per diffamazione? È qui il nodo difficile da sciogliere. Il sospetto allora è che si guardi ai giornalisti perché non si ha la forza e il coraggio di fare i conti con i magistrati. Stato non mangia Stato.
Mattia Feltri per “La Stampa” il 20 Gennaio 2023.
Temo che la disputa attorno alle intercettazioni sia molto male impostata. Perché se mi vogliono convincere dell'utilità delle intercettazioni nel combattere la criminalità, è uno sforzo vano: sono già convinto.
Se mi vogliono convincere che intercettare sempre di più permetterebbe di combattere sempre meglio la criminalità, né più né meno, non obietto un solo istante. Se mi vogliono convincere delle nuove opportunità offerte dalla tecnologia per mettere in scacco i criminali, per esempio il famoso trojan, il malware attraverso il quale si intercetta anche se l'intercettato non parla al telefono e anche se il suo telefono è spento, credetemi: fatica sprecata. Tutto vero, tutto incontrovertibile.
Se, per esempio, si trovasse il modo di intercettare ognuno di noi, fino all'ultimo, per ventiquattro ore su ventiquattro, magari con il supporto dell'intelligenza artificiale, la questione sarebbe chiusa: diventeremmo una società perfettamente onesta, e i pochi imprudenti andrebbero a far compagnia a Messina Denaro in un quarto d'ora. Avremmo perduto la libertà, ma avremmo guadagnato la sicurezza.
Ed è questa la vera grande domanda: abbiamo costruito le società liberali e democratiche per garantire il massimo della libertà a ogni individuo o le abbiamo costruite per garantirgli il massimo della sicurezza? Le abbiamo costruite per la libertà sapendo che la libertà è un rischio o le abbiamo costruite per non correre rischi? Perché se pensiamo di averle costruite per blindarci dentro un fortino inespugnabile, vuol dire che abbiamo dimenticato le ragioni dei nostri valori fondanti, ma almeno dobbiamo dircelo.
Estratto dell’articolo di Antonio Bravetti per “la Stampa” il 20 Gennaio 2023.
Carlo Nordio insiste: sulle intercettazioni il governo «interverrà radicalmente». Dopo il passaggio di mercoledì in Senato, il Guardasigilli si presenta alla Camera per ribadire, precisare, ribattere e attaccare, «perché non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire». […] «Non toccheremo le intercettazioni per mafia e terrorismo - rassicura - e nemmeno quelle per i reati "satellite"», ma […] il Parlamento «non sia supino e acquiescente a quello che sono le affermazioni dei pubblici ministeri» […]
il ministro ricorda gli «errori giudiziari» che hanno portato a processo gli ex generali Mario Mori e Gianpaolo Ganzer, assolti dopo anni di gogna mediatica, «con la carriera rovinata e senza che nessuno li abbia risarciti».
[…]
Parlando di intercettazioni, Nordio sostiene che gli abusi si annidano in quelle giudiziarie, effettuate su richiesta del pm e autorizzazione del gip. Perché, spiega, per i vari passaggi previsti dalla legge «finiscono a conoscenza di decine di persone. L'abuso su cui vogliamo intervenire è in questo mare magnum», che fa finire sui giornali «notizie che diffamano e vulnerano l'onore di privati cittadini». La maggioranza applaude forte. […]
Estratto dell’articolo di Conchita Sannino per “la Repubblica” il 20 Gennaio 2023.
Contenere la “bomba” Nordio. «Com’è possibile aver fatto questo capolavoro, cioè inimicarsi il fronte antimafia nella settimana in cui la giustizia in Italia scrive una pagina storica?», si sfoga un senatore FdI. […] «Ecco, che bisogno c’era di svegliare il can che dorme, noi, adesso? », è la rustica immagine che usa un altro parlamentare meloniano, riferendosi alle toghe che non erano pregiudizialmente sul piede di guerra. «Una parte dei magistrati, seri, sono alla finestra a capire quale idea abbiamo: magari persino disposti a considerare che la nostra politica giudiziaria non è vetero berlusconismo. E invece: bum, gli facciamo ‘sto regalo».
Nervosismo, è dire poco. Anche se le dichiarazioni ufficiali di FdI ieri blindano i varchi creati in queste ore, l’irritazione per «i concetti» e «i toni» espressi da Nordio — ritenuti «sbilanciati» — non viene nascosta. […] Queste “complicazioni” create dalla postura di un Guardasigilli (che era stato scelto dalla premier anche in ragione del suo profilo autonomo e ruvido), ora spinge Palazzo Chigi a qualche attenzione. Sopire, correggerre. Anche se poi Meloni e Nordio ieri si vedono intorno alla torta di compleanno di lei, con tutti, e saluti e sorrisi appaiono senza cedimenti.
Ma la consegna è “armonizzare” le esternazioni più radicali di lui. E […] la presidente del Consiglio fa leva soprattutto su due figure. Da un lato Andrea Delmastro, il sottosegretario alla Giustizia che non a caso, tre giorni fa, mentre Nordio apriva il fuoco su captazioni, trojan e abusi dei magistrati, si precipita in tv a dire: «Le Procure non saranno mai private delle intercettazioni».
Dall’altro, la figura chiave di Chigi, il sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano, altra toga, pacato, lontano da tensioni conflittuali. «Le mafie e i delinquenti sono quelli che dobbiamo fare arrabbiare, appena arrivati, non i magistrati che ti arrestano Messina Denaro. Quindi, anche per i reati spia restano le cimici, tranquilli: però senza gli abusi ignobili delle conversazioni private sui giornali. Questo vuole dire il ministro, ma si fa coinvolgere forse da vecchie battaglie. E alla Camera lo ha detto. Certo, meglio di mercoledì in Senato con quella scivolata mostruosa con i boss che non parlano al cellulare», ancora il senatore. Sospiro teatrale: «Alcune cose le dice male, con la spada. Altre non sono completamente in linea», ribadisce il parlamentare di FdI. […]
Intercettazioni, cosa prevede il disegno di legge di Nordio. Claudia Fusani su Il Riformista il 20 Gennaio 2023
Non ci sta il ministro della Giustizia a passare per quello che “protegge” le mafie e che vuole spuntare le unghie ai colleghi magistrati. Non sopporta questo “pericoloso gioco di parole” sulle intercettazioni per cui ogni volta che dice qualcosa le opposizioni lo trafiggono – ci provano – con etichette di vario genere. Quella che “mai visto un mafioso che pianifica”. Il punto è chiaro: lo strumento d’indagine non si tocca, per tutti i reati visto che anche una turbativa d’asta può essere satellite agli affari del clan. E però basta abusi e sputtanamenti. In cerca del difficile equilibrio fra tre sacrosanti principi costituzionali – articolo 15, 21 e 112, privacy, cronaca e obbligo di indagini – intanto Carlo Nordio fa un piccolo blitz e reintroduce la procedibilità d’ufficio per tutti i reati con l’aggravante mafiosa. Una misura che semplifica il lavoro dell’antimafia.
Ieri pomeriggio ha portato in Consiglio dei ministri un correttivo della riforma penale Cartabia su cui si è dibattuto in questi giorni e anche in queste ore mentre il Guardasigilli presentava la Relazione sullo stato della giustizia. Il disegno di legge – e non un decreto come qualcuno malignava – riguarda le “norme in materia di procedibilità d’ufficio e di arresto obbligatorio in flagranza” e interviene sui reati procedibili solo a querela di parte. La riforma dell’ex ministra Cartabia, nell’ottica dell’efficientamento delle risorse e dei tempi della nostra giustizia, aveva introdotto l’obbligo della querela di parte per un’ampia serie di reati per cui fino al 30 dicembre gli investigatori procedevano invece d’ufficio. Tra questi reati anche quelli che poi avrebbero potuto tipizzarsi con l’aggravante della mafiosità. In questi primi venti giorni di applicazione della norma Cartabia sono però emerse alcune criticità, a dir la verità già abbondantemente denunciate da poliziotti e carabinieri che ogni giorno vivono la quotidianità dei piccoli reati. “Aver messo l’obbligo della querela di parte aggravia notevolmente il carico di lavoro per gli uffici e il personale” è stata la denuncia dell’Anfp (Associazione nazionale dei funzionari di polizia).
Il colmo è stato pochi giorni fa quando proprio a Palermo la procura è stata costretta a chiedere la revoca dei mandati di arresto per tre persone, imputate di lesioni aggravate dal metodo mafioso, in assenza della querela delle persone offese che si erano ben guardate da fare querela. Dal primo gennaio il reato di lesioni prevedeva l’obbligo delle querela. Che quei cittadini, per non avere guai col boss e il suo clan, si sono ben guardati da presentare. Nordio ha aspettato qualche giorno, ha verificato che quella norma, nata a fin di bene, aveva un baco. Ed è intervenuto. La querela, è previsto nel testo all’esame del Cdm, non è più necessaria se c’è l’aggravante di mafia. In questi casi, si precisa, si procede d’ufficio. Il Terzo Polo, che ha applaudito la Relazione di Nordio salutandola con l’inizio (forse) di una nuova stagione di garantismo, giudica l’intervento “un buffetto rispetto agli annunci roboanti dei giorni scorsi”. Chiedeva di più, maggiori interventi. Si vedrà. Intanto è arrivato questo e giusto per rispondere a chi – Pd e M5s – dicono che Nordio “prende a schiaffi l’antimafia”.
L’ex procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho, ora deputato 5 Stelle, ieri è arrivato a dire che “il governo non capisce cos’è la mafia”. L’ex procuratore Scarpinato, ora senatore 5 Stelle, ieri è arrivato a definire il ministro “un estremista politico che vuole spuntare le armi alla magistratura”. La risposta è una piccola norma che va a correggere la Cartabia in un passaggio procedurale che forse era stato sottovalutato. “Questo ministero – spiega una fonte interna che ha il doppio ruolo, tecnico e politico – lavora sui dossier in nome di un bene comune che è la giustizia, qui non si fanno battaglie ideologiche e, senza offesa per nessuno, se c’è qualcosa da cambiare perché non funziona, lo facciamo. Anche se porta il nome di un ex ministro di grandi qualità come Marta Cartabia”. Detto questo, in via Arenula il nuovo ordine è di “non chiamarla più riforma Cartabia”. Il capitolo “correttivi della Cartabia” potrebbe non chiudersi qua. Su questo punto “c’è urgenza di intervenire perché il problema della procedibilità a querela compare ogni giorno”. E’ stato però deciso di non ricorrere alla forma del decreto proprio per lasciare al Parlamento la libertà di intervenire.
Gli attacchi a Nordio non termineranno qua. Resta il nodo delle intercettazioni. Come ha dimostrato anche ieri il dibattito alla Camera sulla Relazione sulla giustizia. Nella migliore delle ipotesi il ministro viene “accusato” di essersi rimangiato quanto aveva detto la volta prima. Così, nei capannelli in Transatlantico e alla buvette, se ne ragionava anche ieri tra “nemici”, “avversari”, comunque membri della maggioranza e dell’opposizione. “Nessuno vuole toccare le intercettazioni come strumento valido per tutte le indagini – ragionava il deputato della maggioranza – certo potremmo limitare ad esempio il trojan che non è più un’intercettazione ma una telecamera spia nascosta e aperta su tutti i presenti. Il deputato dell’opposizione rilanciava con il fatto che il problema “sono e restano i giornali che scrivono e se ne fregano della privacy”. Allora, ha ribattuto il deputato di maggioranza, “ragioniamo di nuovo sulle pubblicazioni e vietiamo del tutto quelle di atti giudiziari. In fondo Costituzione parla di notizie e fatti. Non di atti giudiziari”. Ma questa sarà la battaglia dei prossimi mesi. Sempre che nel frattempo non si capisca che la riforma Orlando prima, quella Cartabia poi, i correttivi di Enrico Costa (Terzo polo) sulla presunzione di innocenza non dimostrino che siano già arrivati ad un punto di buon equilibrio.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
La gogna non è giustizia, per nessun reato. Ridurre le intercettazioni a uno scontro tra manettari e simpatizzanti dei delinquenti è la mortificazione della civiltà sociale e giuridica. Pier Luigi del Viscovo il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Ridurre le intercettazioni a uno scontro tra manettari e simpatizzanti dei delinquenti è la mortificazione della civiltà sociale e giuridica. La gogna sulla pubblica piazza non è l'atto finale della giustizia, ma solo l'appagamento della peggiore anima popolare. D'accordo che la folla ha sete di nemici su cui scaricare le paturnie, ma dopo trent'anni la misura può ritenersi anche colma. Tanto più che la vagheggiata superiorità morale politicamente colorata non è stata trovata. Ci sono solo e dovunque onesti e disonesti, i secondi a loro volta ripartiti tra chi ha facoltà di approfittarsi e chi invece non è riuscito a entrare nel giro, o non ancora.
In punto di civiltà giuridica, non essendo in discussione la persecuzione del crimine, il dibattito è sulla scelta del bene da privilegiare. Da un lato, massimizzare la capacità di intercettare e combattere i piani criminosi. Dall'altro, proteggere la riservatezza, su fatti non attinenti all'indagine, di chi non è indagato. Qualsiasi opzione comporta una perdita.
La soluzione che stiamo ascoltando è di quelle dettate dagli appetiti del popolo. Il mafioso o il terrorista sono talmente esecrabili da valere la rovina della vita di un povero cristo e l'umiliazione dei suoi familiari. Viceversa, gli altri reati non meriterebbero tale sacrificio. Quali reati? E se poi ci scappa il morto o la violenza? Dal campo, magistrati e forze dell'ordine fanno notare che alcuni reati pubblicamente ritenuti minori, come la corruzione, possono essere essenziali per contrastare mafie e terrorismo. Insomma, cercare la soluzione al dilemma nella classificazione dei reati non pare la via migliore.
Allora c'è chi sostiene che non vadano limitate le intercettazioni bensì la loro diffusione. Vero, ma come? Questa strada porta dritta alla libertà di stampa: apriti cielo! No, se una cosa esiste può finire sui giornali. Se non oggi, domani. Anche perché il processo è pubblico. Ricapitolando: le intercettazioni sono necessarie, va bene, ma dentro ci sono frasi e persone estranee all'indagine e se finiscono negli atti processuali poi diventano pubbliche, non va bene. È da questo percorso che deve uscire la soluzione. Filtrare frasi e dichiarazioni per eliminare e cancellare quelle non pertinenti? Facile a dirsi. La tecnologia e l'intelligenza artificiale possono aiutare? Forse sì. Ecco, di questo si dovrebbe ragionare con un pubblico civile. La sfida tra giustizialisti e presunti favoreggiatori no, è solo umiliante. Per chi la agita e per chi la segue.
La risposta a Nordio. Il procuratore antimafia Melillo dice che le intercettazioni sono fondamentali anche per gli altri reati. L’Inkiesta il 18 Gennaio 2023.
C’è «la necessità di rigoroso governo di strumenti e tecniche di indagini che coinvolgono diritti fondamentali. Dunque, tocca al legislatore tracciarne i confini», spiega. Tuttavia «una parte non secondaria delle conoscenze che costruiamo quotidianamente nascono da indagini su più rilevanti fenomeni di corruzione e di frode fiscale. Anzi, va sottolineato che è più difficile penetrare la segretezza degli accordi corruttivi che penetrare i contenuti di una riunione di mafiosi»
La cattura del boss di mafia Matteo Messina Denaro «dimostra ancora una volta la forza di un metodo di lavoro che del rigore, del coordinamento, della prudenza e della determinazione fa le sue leve fondamentali. E ci ricorda che la direzione delle indagini affidata al pm è un valore fondamentale». Lo dice a Repubblica Giovanni Melillo, procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, spiegando che «quanto accaduto dovrebbe far riflettere sulle solidità di certe opzioni, secondo cui il magistrato della pubblica accusa dovrebbe essere una sorta di avvocato delle forze di polizia: credo che invece anche queste ultime riconoscano una funzione di controllo e garanzia già durante le indagini preliminari, e di orientamento delle tecniche e degli obiettivi investigativi. A Palermo, c’è stata un’indagine lunga e difficile, con un’accelerazione importante: dovuta in particolare al ricorso sapiente allo strumento delle intercettazioni».
Al ministro della Giustizia Carlo Nordio, che aveva annunciato la «profonda revisione» delle intercettazioni, risponde: «Si tratta di un campo delicato e complesso che interroga tutti i sistemi nazionali. Innanzitutto perché nell’era digitale nelle indagini e nei processi confluiscono masse informative incomparabilmente più grandi e delicate rispetto al passato. Ciò obiettivamente pone la necessità di rigoroso governo di strumenti e tecniche di indagini che coinvolgono diritti fondamentali. Dunque, tocca al legislatore tracciarne i confini. Da procuratore nazionale ho tuttavia la responsabilità di sottolineare che oggi le mafie parlano innanzitutto il linguaggio della corruzione e delle frodi fiscali, che è linguaggio praticato largamente dal mercato e nel mercato, fungendo da saldatura di interessi eterogenei».
Quindi, sottrarre alla corruzione lo strumento delle intercettazioni «sarebbe un danno serio», prosegue. «Perché una parte non secondaria delle conoscenze che costruiamo quotidianamente nascono da indagini su più rilevanti fenomeni di corruzione e di frode fiscale. Anzi, va sottolineato che è più difficile penetrare la segretezza degli accordi corruttivi che penetrare i contenuti di una riunione di mafiosi. Ce lo dice l’esperienza investigativa: capita di frequente che incontri illeciti tra pubblici ufficiali e imprenditori siano circondati da cautele e tecniche elusive da far invidia alla segretezza dei movimenti mafiosi».
Per Melillo, inoltre, vanno difese anche le captazioni più invasive, col trojan, per esempio: «Sul versante della corruzione, credo sia necessario anche quello strumento. Che va ancorato a parametri rigorosi. Ma ripeto: appartiene alla responsabilità politica definire queste scelte, così come valutare il tempo di queste scelte».
Certo dopo l’arresto di Messina Denaro, non si può dichiarare né sconfitta Cosa Nostra né chiusa l’azione di contrasto, spiega il procuratore nazionale antimafia. Ma per andare avanti c’è bisogno di «sostenere gli uffici che sono impegnati su questo fronte, assicurando il coordinamento delle piattaforme informative e delle iniziative, in un sistema il cui punto di forza è proprio la condivisione».
Melillo commenta anche le illazioni su presunte trattative, su una consegna di Messina Denaro: «Occorrerebbe riflettere sugli effetti perversi di certe ricostruzioni fantasiose». Anzi, aggiunge, «c’è in questo Paese un rischio di contaminazione irrecuperabile con l’irrealtà. Allora: se non si arrestava, c’è una trattativa per consentirgli la latitanza sine die. Lo arrestano: e allora c’è una trattativa che gli ha consentito questa consegna. Ecco: ai magistrati spetta di restare coi piedi per terra e procedere con rigore a distinguere tutto ciò che è razionalmente, controllabile da ciò che non lo è».
E non bastano gli applausi in strada dopo l’arresto per riconnettere il sentimento degli italiani con la giustizia: «Non servono gli applausi per questo. Ma la ricostruzione di quel clima di fiducia che spetta a tutti contribuire a ripristinare e a difendere».
L'audizione choc. Quanto costano i trojan e cosa fanno, il far west delle intercettazioni sotto la lente del Senato. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Gennaio 2023
“Sono rimasto senza parole: da cittadino e da avvocato mi mette angoscia l’utilizzo di un tale strumento investigativo”. È stato questo il commento a caldo del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin al termine ieri dell’audizione in Commissione giustizia a Palazzo Madama dell’ingegnere Paolo Reale, esperto di informatica forense. Reale era stato convocato dalla presidente della Commissione Giulia Bongiorno nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni telefoniche. L’ingegnere, in particolare, è stato sentito sull’utilizzo del ‘trojan’, il captatore informatico che trasforma il cellulare in una cimice.
Inizialmente previsto per il contrasto ai reati di mafia e terrorismo con la legge Orlando del 2017, l’utilizzo del trojan era stato poi esteso nel 2019 dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5s) anche ai reati contro la pubblica amministrazione con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Dal 2017, però, non esistono dati circa il suo impiego.
“Non sappiamo quanti captatori siano attivi e non sappiano quanto le Procure spendono per il loro noleggio”, ha detto Reale, dal momento che il capitolo di spesa è lo stesso delle normali intercettazioni telefoniche. “Non esiste neppure un tracciamento delle attività svolte con questo strumento”, ha aggiunto Reale. Ma andiamo con ordine.
Nel 2017 la legge di riforma degli ascolti voluta dal Guardasigilli Andrea Orlando (Pd) aveva istituito un tavolo tecnico fra rappresentanti del Ministero della giustizia e i vari fornitori dei servizi intercettivi. Il tavolo avrebbe dovuto mettere dei punti fermi all’utilizzo di uno strumento investigativo di cui nessuno conosceva (e conosce) fino in fondo le caratteristiche. La normativa prevede, infatti, degli obblighi per coloro che forniscono le prestazioni. Obblighi che nessuno garantisce che siano rispettati. Reale, a tal proposito, ha fatto un esempio banale: “Chi controlla la caldaia ha un patentino ed ha fatto un corso. Non esiste una figura analoga che certifichi che i captatori siano conformi a degli standard predeterminati. E questo anche a garanzia del pm che utilizza l’apparato”. L’allora procuratore generale aggiunto presso la Dda e ora capo del Dap Giovanni Russo aveva avanzato la proposta che le intercettazioni erano ‘legali’ se fossero state certificate da un ente terzo, nel rispetto delle modalità previste dalla legge.
Il tracciamento di tutte le attività che vengono fatte è di fondamentale importanza. I trojan di ultima generazione, infatti, hanno potenzialità sconfinate. Premesso che non sono tutti uguali, certi sistemi oltre ad accendere il microfono, possono attivare le telecamere e scattare foto o registrare video, sono in grado di acquisire la messaggistica, riescono ad ispezionare il contenuto nella memoria, accedono addirittura alla navigazione internet. I più evoluti raggiungono anche i “privilegi di amministrazione” del cellulare, riuscendo ad alterarne i contenuti. In altre parole, da remoto, è possibile scrivere una mail o un messaggio all’insaputa del diretto interessato. Creando così delle prove ‘a tavolino’. Il trojan, essendo inoculato e rimosso da remoto, non consente a posteriori alcuna analisi per provare che siano state fatte simili manipolazioni. Ad allarmare i commissari il fatto che questi software siano prodotti da aziende private, quasi tutte straniere, che sono in competizione fra loro per fornire apparecchi sempre più performanti e i cui tecnici hanno accesso liberamente a tutti i dati. Con le immaginabili conseguenze.
“È molto grave quanto emerso oggi in Commissione giustizia. Il governo deve attivare subito un tavolo tecnico di monitoraggio sull’uso del trojan e approfondirne le problematiche applicative. Questo tavolo, invece, non è mai partito. È inaccettabile questa inerzia dei governi che si sono succeduti nel tempo. Urge modificare la normativa per garantire tutti i cittadini”, ha aggiunto allora Zanettin uscendo dall’audizione. Il parlamentare azzurro ha proposto nei mesi scorsi un ddl per stoppare l’utilizzo del trojan nei reati contro la pubblica amministrazione proprio per la sua invasività estrema. Un concetto che era stato anticipato da Antonio Leone, ex componente del Csm e attuale presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria: “Un sacrificio di tale entità alla sfera privata può ammettersi solo in presenza di fatti di estrema gravità come quelli di terrorismo e mafia”. Paolo Comi
(ANSA il 12 gennaio 2023) - "Non si può escludere che un domani un trojan possa anche alterare i contenuti" del cellulare in cui è inoculato. È un esperto di informatica forense, l'ingegnere Paolo Reale, che è specializzato proprio nei captatori informatici a prospettare questo scenario inquietante nella sua audizione davanti alla Commissione Giustizia del Senato, che ha avviato un'indagine conoscitiva sulle intercettazioni.
"Nella mia esperienza non ha mai avuto indicazione diretta che ci sia stata una manipolazione di qualche tipo, ma situazioni che facevano capire la possibilità in astratto", specifica poi, rispondendo alle domande dei senatori e parlando di "problematiche tecniche non gestite adeguatamente" da parte delle società, anche straniere, a cui si affidano le procure.
"Di qui l'importanza di avere una certificazione, sul rispetto di requisiti base" da parte di queste aziende", aggiunge l'ingegnere, che pone anche un'altra questione: "servirebbe un tracciamento puntuale delle attività che vengono svolte dal captatore per poter comprendere come è stato usato". I trojan sono tanti e di diversi tipi, spiega poi ai senatori. "Alcuni accendono e spengono il microfono e registrano.
Altri accedono anche alla telecamera, possono scattare foto, fare un video, entrare nella messaggistica anche istantanea, nel gps". Altri ancora non solo possono "ispezionare i contenuti ma anche i dati della navigazione su Internet".
"Porcherie anche nel caso Palamara". Nordio tranchant sulle intercettazioni. L’analisi tagliente del ministro della Giustizia in commissione al Senato: “Le intercettazioni del trojan sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva”. Massimo Balsamo il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Le riforme annunciate sono state bocciate dall’Anm, ma Carlo Nordio tira dritto. Il ministro della Giustizia ha le idee chiare sul percorso liberale da seguire e, intervenuto in commissione al Senato, non ha lesinato stoccate. Riflettori accesi sulla disciplina delle intercettazioni, sin qui utilizzate come metodo di delegittimazione personale e politica. Il Guardasigilli non ha utilizzato troppi giri di parole: le intercettazioni devono essere solo uno strumento per la ricerca della prova, non la prova in sé.
L’analisi di Nordio
"Questa porcheria è continuata anche dopo la legge Orlando basta vedere il sistema Palamara, cosa è uscito che non aveva niente a che fare con l'indagine e cosa non è uscito", l’opinione del titolare della Giustizia nel suo intervento a Palazzo Madama. Nordio ha poi posto un quesito provocatorio: “Credete che tutte le intercettazioni del trojan di Palamara siano state trascritte nella forma della perizia?”. Lui non ha titubanze: “Sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva, e non sono ancora tutte state rese pubbliche”.
Nordio si è poi soffermato sull’emendamento del governo inserito nella manovra che riguarda le intercettazioni preventive legate alle attività di intelligence: “È un equivoco che l'emendamento nella legge di bilancio sulle intercettazioni preventive sia rivoluzionario, è esattamente la stessa cosa, ha solo aumentato le garanzie, e trasferito un piccolo capitolo di spesa". Il ministero ne era a conoscenza, ha ribadito, e ha dato parere favorevole.
Abuso d’ufficio e codice degli appalti
Uno dei dossier più roventi riguarda l’abuso d’ufficio, Nordio ha ribadito ancora una volta la posizione del governo sul tema. Il ministro ha sottolineato di aver ascoltato attentamente le richieste dell’Anci:“È intenzione mia e del governo rivedere completamente i reati contro la pubblica amministrazione che ispirano la cosiddetta paura della firma. Le opzioni riguardano essenzialmente l'abuso d'ufficio e il traffico di influenze, si può andare dall'abrogazione di uno o di entrambi i reati fino a una rimodulazione integrale degli stessi. Questo sarà oggetto di confronto e di dibattito in Parlamento”. La strada è tracciata.
L’ex magistrato ha ribadito la sua posizione sulla separazione delle carriere – “non faccio un passo indietro” – ma ha anche spiegato che si tratta di un problema divisivo che richiede una revisione costituzionale, un cammino piuttosto lungo. “Oggi non è la priorità”, ha chiosato. Poi, ancora, il codice degli appalti, a stretto giro di posta oggetto di discussione:“Una semplificazione normativa, se fatta bene, non significa né un regalo alle mafie né alcuna forma di impunità per la corruzione. Significa semplificare le procedure e individuare le competenze”, il monito di Nordio.
Nordio non conosce nemmeno le leggi che vuole smantellare. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 22 dicembre 2022
Nordio due giorni fa, in una bizzarra audizione alla commissione al Senato, ha protestato di nuovo contro l’uso osceno che viene fatto delle captazioni in Italia.
Nordio, come un novello Orsini, non sembra conoscere bene la materia di cui discetta: come spiega il decreto legge del 30 aprile 2020 e il codice penale, l’entrata in vigore della legge Orlando si applica «ai procedimenti penali iscritti successivamente successive al 31 agosto 2020».
Peccato che le investigazioni su Palamara siano del lontano maggio 2019, e che la gestione delle intercettazioni sia stata dunque regolata dalla normativa precedente.
Emiliano Fittipaldi per “Domani” il 23 dicembre 2022.
Qualche giorno fa il giornalista Antonio Talia ha inchiodato Alessandro Orsini alla sua ennesima gaffe, evidenziando come l’ospite preferito di Bianca Berlinguer avesse citato un inesistente giornalista del New York Times, tal William J. Ampio, in un video in cui discettava della guerra tra Russia e Ucraina. Il commentatore aveva infatti usato il traduttore automatico, che ha modificato il cognome originale del reporter (Broad) nell’italianissimo “Ampio”. «Se Orsini non ha gli strumenti cognitivi per capire l’errore nella traduzione automatica di un articolo» s’interrogava Talia «come potrà riuscire a decifrare e poi spiegare il contenuto dell’articolo stesso?».
Ora, identico dubbio si pone per il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio, noto soprattutto per la ferrea volontà di mettere mano alla riforma delle intercettazioni. L’ex magistrato 75enne, voluto sulla poltrona di Via Arenula da Giorgia Meloni in persona, prima ha scritto il demenziale decreto legge sui rave. Poi due giorni fa, in una bizzarra audizione alla commissione al Senato, ha protestato di nuovo contro l’uso osceno che viene fatto delle captazioni in Italia.
Attaccando la normativa vigente e facendo, finalmente, un esempio concreto: «La porcheria è continuata anche dopo la legge Orlando. Basta vedere l’inchiesta sul sistema Palamara. Cosa è uscito su cose che non avevano a che fare sulle indagini e, aggiungo, cosa non è uscito. Sono state selezionate, pilotate, diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva».
Nordio, come un novello Orsini, non sembra conoscere bene la materia di cui discetta: come spiega il decreto legge del 30 aprile 2020 e il codice penale, l’entrata in vigore della legge Orlando si applica «ai procedimenti penali iscritti successivamente successive al 31 agosto 2020». Peccato che le investigazioni su Palamara siano del lontano maggio 2019, e che la gestione delle intercettazioni sia stata dunque regolata dalla normativa precedente. Ormai superata.
Se abusi ci sono stati, dunque, non riguardano mancanze o vulnus del decreto Orlando. Che sembra invece aver funzionato abbastanza bene: tutto è perfettibile, ma è un fatto che negli ultimi due anni le violazioni della privacy si sono fortunatamente ridotte ai minimi.
L’intemerata di Nordio ha ricevuto subito gli applausi di Palamara, of course, e di Forza Italia, da sempre fautore dell’impunità massima per corrotti e corruttori. L’anno prossimo il ministro dovrebbe proporre l’ennesima riforma-bavaglio. Si spera che prima di presentarla studi meglio le norme esistenti, evitando scivoloni che sembrano suggerire, piuttosto che un impeto riformista mosso da un sincero garantismo, un furore ideologico e pericoloso per la già disastrata giustizia italiana.
Per attaccare Nordio Fittipaldi confonde Viminale e via Arenula. Il vicedirettore del “Domani” ha preso una cantonata: le divulgazioni pilotate di cui parla il ministro della Giustizia trovano la propria disciplina direttamente nell’articolo 326 del codice penale, “rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”, e non nel decreto Orlando. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 23 dicembre 2022
Emiliano Fittipaldi, vicedirettore del Domani, quotidiano che annovera molti giornalisti d'inchiesta, in un articolo apparso ieri dal titolo “il Ministro della Giustizia non conosce la giustizia” sostiene che i riferimenti fatti da Carlo Nordio alle indebite divulgazioni delle intercettazioni captate nell’inchiesta di Perugia sull’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara sarebbero erronei. Ciò in quanto il decreto Orlando «si applica ai procedimenti penali iscritti successivamente al 31 agosto 2020» laddove l’indagine perugina nei confronti di Palamara è del maggio 2019.
Secondo Fittipaldi, poi, Nordio avrebbe anche «scritto il demenziale decreto legge sul rave». Ci permettiamo di far osservare a Fittipaldi che il decreto sul rave è uscito dalle stanze del Viminale e non da quelle di via Arenula e che, per quanto riguarda il presunto errore sul decreto Orlando, le intercettazioni dell’inchiesta di Perugia sono state pubblicate dal Corriere, da Repubblica e dal Messaggero, a partire dal 29 maggio 2019 e a ritmo quotidiano, laddove non erano state depositate ai difensori e risultano pervenute al Consiglio superiore della magistratura soltanto il 3 giugno successivo.
Dovrebbe essere quindi facile comprendere che le divulgazioni pilotate di cui parla Nordio trovano la propria disciplina direttamente nell’articolo 326 del codice penale, “rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”, e non nel decreto Orlando che prevede un complesso meccanismo di segretezza per le intercettazioni lecitamente depositate ritenute non rilevanti.
La differenza, che non pare sia stata colta dal vicedirettore del quotidiano di Carlo De Benedetti, non è solo nella rilevanza penale della condotta di coloro che hanno, il 28 maggio 2019 o prima, consegnato a ben tre organi di informazioni trascrizioni di intercettazioni quando queste erano ancora in corso presso l’autorità giudiziaria di Perugia, ma anche nella “finalità” da costoro perseguita. "Finalità” che non era certo quella di accertare i reati per i quali si procedeva, vale a dire la presunta e fumosa corruzione di Palamara, bensì quella di impedire che venisse nominato Marcello Viola procuratore della Repubblica di Roma.
Ci auguriamo che queste ovvie considerazioni costituiscano per il futuro una più solida premessa per comprendere la gravità di ciò che è successo, giustamente evidenziata da Nordio.
Il caso Palamaragate. Il trojan finisce sotto inchiesta, il Senato apre indagine conoscitiva sulle intercettazioni. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Dicembre 2022
Il trojan, il terribile virus informatico che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso, è fuori controllo. I casi di abuso, dopo che nel 2019 l’ex ministro della Giustizia Bonafede (M5s) l’ha esteso anche ai reati contro la Pa, sono ormai all’ordine del giorno. Il Palamaragate, dove venne fatto ampio utilizzo di tale strumento da parte del Gico della Guardia di finanza su mandato della Procura di Perugia, è stato certamente uno dei più noti: funzionamento ‘a singhiozzo’, registrazioni audio sparite, programmazioni cancellate a posteriori.
Per cercare di capire cosa accade nelle Procure, la Commissione giustizia del Senato procederà nelle prossime settimane con una ‘indagine conoscitiva’ sulle intercettazioni e, in particolare, quelle a mezzo trojan. Come annunciato dalla presidente della Commissione Giulia Bongiorno (Lega), l’attenzione si concentrerà sui “presupposti e le forme di autorizzazione”, “le fattispecie di reato interessate”, “i costi”, “l’autorità giudiziaria richiedente”, “il numero di indagati”, “il numero di proroghe” e “l’esito dei procedimenti”. Il senatore Pierantonio Zanettin (FI) ha già fatto sapere che nei primi giorni del prossimo anno verranno ascoltati a Palazzo Madama il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo e l’avvocato Luigi Panella, difensore del giudice ed ex parlamentare di Italia viva Cosimo Ferri, il primo a sollevare nel Palamaragate la questione del ‘malfunzionamento’ dei trojan.
“Abbiamo chiesto di sentire anche i tecnici informatici che in varie inchieste hanno evidenziato le anomalie dell’uso, oltre ai tecnici della società Rcs, che ha inoculato il telefonino di Palamara”, ha dichiarato ieri Zanettin. E sempre ieri il vice presidente del Csm David Ermini ha risposto al ministro della Giustizia Carlo Nordio che aveva criticato in settimana la gestione dell’organo di autogoverno delle toghe. “Il ministro – ha affermato – non conosce il lavoro svolto per rinnovare il Csm”. Come esempio Ermini ha citato “le prassi virtuose” utilizzate per le nomine. Dimenticandosi, però, la valanga di ricorsi al giudice amministrativo contro tali decisioni. Paolo Comi
Federico Capurso per “la Stampa” il 23 Dicembre 2022.
Un colpo di piccone alla volta, fosse per Forza Italia, della legge Spazzacorrotti di Alfonso Bonafede non rimarrebbe più nulla. Dopo aver restituito ai colletti bianchi i benefici penitenziari, finisce nel mirino del senatore Pierantonio Zanettin il "trojan", una sorta di virus che trasforma lo smartphone dell'indagato in un microfono sempre acceso. Zanettin ha quindi presentato una proposta di legge per rivederne l'uso, che Bonafede aveva esteso, oltre ai già previsti reati di mafia e terrorismo, anche a quelli contro la pubblica amministrazione. Troppo invasivo, dice Zanettin: «Viola la sfera di intimità dell'intercettato». E quindi, via l'intercettazione per i colletti bianchi.
Il trojan non piace nemmeno al ministro della Giustizia Carlo Nordio, che lo giudica «una porcheria», «un'arma incivile». Per il Guardasigilli - intervenuto a "L'aria che tira" - può semmai «essere usato come era all'inizio, e cioè in casi eccezionali di gravissima pericolosità nazionale, diciamo pure mafia e terrorismo».
Per questi reati, spiega Nordio, «mai detto che vanno toccate le intercettazioni.
Per gli altri reati, invece, esiste la possibilità di conciliare il diritto di cronaca con il diritto costituzionale secondo cui il diritto alla segretezza delle conversazioni è inviolabile. Poi - precisa - ci sono casi eccezionali che ne prevedono la vulnerabilità con l'ok dell'autorità giudiziaria».
A domanda, Nordio risponde, ma quella di Zanettin «è solo una proposta di legge», spiegano da Fratelli d'Italia, tirando il freno. Anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro, di FdI, sottolinea la necessità di «intervenire sulle intercettazioni in modo organico, perché le misure spot rischiano di rompere i delicati equilibri del sistema giustizia».
Del Mastro condivide la volontà di rivedere e limitare l'uso dei trojan, «ma ne dovremo iniziare a parlare a gennaio, valutando anche gli effetti della precedente normativa e poi i necessari aggiustamenti da fare». Insomma, quello che dicono Nordio e Forza Italia è condiviso da tutti, all'interno della maggioranza, ma FdI - che la Spazzacorrotti l'ha votata - preferisce percorrere una strada prudente. Forse anche per non offrire ogni giorno un nuovo motivo alle opposizioni per tuonare contro la loro visione della giustizia. Esprime «profonda preoccupazione», infatti, il senatore del Pd Walter Verini.
«Una proposta come questa - dice - dà un segnale con cui si indebolisce il contrasto alla corruzione e alla criminalità organizzata». Preoccupazione che non si ferma solo al trojan, ma che si estende «alla decisione di togliere dai reati ostativi quelli contro la pubblica amministrazione e la revisione del codice degli appalti appena varata: questo governo sta intaccando tutti i presidi di contrasto alla corruzione».
È dello stesso parere l'ex procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, oggi deputato dei Cinque stelle: «Il trojan non va limitato solo a mafia e terrorismo, perché la corruzione dei colletti bianchi è una delle strade privilegiate per infiltrare nell'economia, stringendo relazioni con esponenti delle pubblica amministrazione ed esponenti delle istituzioni che hanno compiti di controllo e assegnazione degli appalti».
Per questo, propone Cafiero De Raho, «sarebbe più utile andare verso un controllo rigoroso del giudice che autorizza le intercettazioni, con l'esclusione di quelle fondate solo sul sospetto, sempre investendo, però, sul trojan, che è la tecnologia più avanzata a disposizione». La disciplina che ne regola l'uso, aggiunge, «è già molto stringente e impone lo stralcio di qualunque registrazione che non sia penalmente rilevante, se è questo che preoccupa il ministro».
La barbarie delle intercettazioni. Il caso Ferri e l’inciviltà del trojan: la vita privata in pasto a chiunque. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Dicembre 2022
«Il trojan è uno strumento incivile». Parola di Carlo Nordio. Il Guardasigilli, intervenendo ieri a una trasmissione televisiva, ha deciso – finalmente – di prendere posizione sull’utilizzo del micidiale virus informatico che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso.
Nel 2017 fu l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) ad introdurre questo nuovo strumento investigativo da affiancare alle tradizionali intercettazioni telefoniche.
Il ‘captatore’ doveva essere utilizzato esclusivamente per il contrasto ai reati di eccezionale gravità, come quelli di mafia e terrorismo. Nel 2019, con l’avvento del grillino Alfonso Bonafede a via Arenula, il suo utilizzo venne però esteso anche ai reati contro la pubblica amministrazione, aumentando quindi a dismisura il suo impiego. I reati contro la Pa sono infatti oggi gli unici dove il trojan trova il suo utilizzo. “Il mafioso non parla al telefono”, ha ricordato sempre ieri Nordio. Per stoppare questo uso indiscriminato del trojan, che è in grado anche di accendere le telecamere e di copiare tutti i dati presenti sul cellulare, il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha depositato questa settimana a Palazzo Madama un disegno di legge per vietare l’utilizzo dei trojan nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione.
«Con tale strumento viene registrata la vita privata, i gusti commerciali, l’orientamento sessuale, le preferenze sessuali. Ne vale la pena per il traffico di influenze o altri reati di questa natura? Chi conserverà questi dati? Che uso ne farà? Quali garanzie avranno i cittadini di un utilizzo corretto di questi dati?», si è chiesto Zanettin. Al momento ci sono due indagini, una a Firenze e una Napoli, di cui si sono perse le tracce da mesi, utili a capire che uso è stato fatto di queste informazioni. I fascicoli furono aperti a seguito della denuncia dell’ex deputato di Italia Viva Cosimo Ferri, intercettato con il trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara. I tecnici nominati da Ferri appurarono la presenza di server ‘intermedi’ tra il telefono di Palamara e il server della Procura di Roma, l’unico autorizzato a registrare i dati e a trasmetterli alla sala ascolto del Gico della guardia di finanza della Capitale, delegato alle indagini dai magistrati di Perugia.
La società Rcs di Milano, che aveva fornito ai finanzieri il trojan, aveva sempre negato questa circostanza. I tecnici di Ferri, invece, scoprirono che il server non si trovava a Roma, ma addirittura a Napoli, nel centro direzionale. Il numero uno della Rcs, l’ingegnere Duilio Bianchi, dopo aver sempre negato l’accaduto, fu costretto ad ammettere che i dati del telefono di Palamara, prima di arrivare a Roma, finivano in due server a Napoli collocati, ironia della sorte, nei locali della Procura di Repubblica. L’allora procuratore del capoluogo campano Giovanni Melillo, dopo aver revocato qualsiasi incarico a Rcs, decise di iscrivere Bianchi per falsa testimonianza, frode in pubbliche forniture e falso ideologico per induzione in errore dei magistrati di Perugia. Fascicolo poi trasmesso a Firenze.
Ma non solo: il server napoletano avrebbe per mesi ricevuto i dati, accessibili quindi dal personale di Rcs, delle Procure di tutta Italia che in quel momento stavano utilizzando il trojan. “Ciò significa che, potenzialmente, poteva accadere di tutto e ciò è assolutamente allarmante e costituisce, a mio parere, un pericolo per la democrazia di questo Paese”, disse l’avvocato romano Luigi Panella, difensore di Ferri.
Panella su questo scandalo silenziato dai grandi giornali che, invece, si battono in questi giorni affinché il trojan continui ad essere impiegato senza freni, verrà ascoltato in Senato nei primi giorni di gennaio nell’ambito di una indagine conoscitiva sull’utilizzo delle intercettazioni e, appunto, del ‘captatore’. Paolo Comi
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“Pena di morte, morte per pena”, il libro che ci ricorda che Caino merita giustizia e non vendetta. Ilaria Donatio, Giornalista freelance, su Il Riformista il 14 Novembre 2023
Caino – oltre ad essere un personaggio biblico, fratricida per motivi abietti – è il protagonista dell’omonimo romanzo di José Saramago: lo scrittore portoghese ne fa un viaggiatore nello spazio e nel tempo che attraversa tutti gli episodi più significativi dell’Antico Testamento. Attraverso questo Caino errabondo, i lettori scoprono le pretese del Dio della Bibbia insieme ai suoi castighi. E da personificazione del male, nell’allegoria letteraria, Caino diventa anche vittima, schiacciato com’è dal potere vendicativo del suo dio, superiore – per crudeltà – a lui e agli altri peccatori.
In chiave giuridica, questa immagine evoca i tratti essenziali di una pena “costituzionalmente orientata”: l’atto criminale – per quanto efferato sia – merita giustizia e non vendetta, da cui Caino deve essere sempre protetto. Ed eccolo il cuore del libro “Pena di morte, morte per pena” a cura dell’associazione radicale “Nessuno tocchi Caino (Edizioni Ponte Sisto, 2023) che raccoglie storie, lettere, testimonianze e riflessioni sulla pena di morte e sui tanti casi di morte a causa della pena che si stava scontando, accaduti nelle carceri di tutto il mondo, durante il 2022 e fino ai primi sei mesi del 2023.
Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere, e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori. Queste circostanze sono spiegate molto bene nel dossier “Morire di carcere” curato dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti. E spesso, gli stessi operatori – anche medici – sembrano rincorrere un automatismo: il suicidio è “giustificato” dallo squilibrio mentale. Per questa ragione, l’unica risposta che predispongono per chi sopravvive è l’isolamento oppure il ricovero in psichiatria. Nessuna prevenzione: neanche lo sforzo di comprendere le ragioni della disperazione di chi si toglie la vita.
Eppure, si legge nel dossier, l’elemento che accomuna i suicidi di chi è appena stato arrestato con i detenuti che stanno per terminare la pena è la mancanza totale di prospettive. Nessuna prospettiva di poter trascorrere utilmente una lunga detenzione: perché in tante carceri, il tempo della pena è tempo vuoto. Nessuna prospettiva di poter tornare a vivere “normalmente”, per chi è entrato e uscito troppe volte dal carcere e si sente condannato (anche in libertà).
Perché, quando la pena in carcere finisce, inizia l’altra pena, durissima, di ritrovare un posto nella società, con lo stigma di essere stato un detenuto: e se soffri di dipendenze, se hai problemi psichiatrici, se sei straniero o sei povero, è quasi certo che la condizione in cui versi – da persona libera – si sarà aggravata ancora di più.
Per esempio: che fine hanno fatto i Consigli di Aiuto Sociale la cui istituzione è prevista proprio dall’ordinamento penitenziario (artt. 74-78) per il reinserimento sociale? In tutta Italia se ne contano sulle dita di mezza mano!
Chi finisce in carcere ha commesso reati. È ora che lo Stato che lo ha detenuto o lo detiene in uno dei 189 istituti penitenziari italiani – condannato, nel 2013, per violazione sistematica dell’art. 3 della Convenzione EDU (trattamenti disumani e degradanti) – rientri nello “Stato di diritto” dal cui perimetro, troppo spesso, è fuori per il mancato rispetto delle regole di convivenza civile più basilari.
Dopo la polemica. Chi è Caino, il primo assassino della storia. Chi pensa che tacitare Caino sarebbe un virile gesto antifascista, ha capito davvero poco della logica inclusiva della nostra Costituzione. Andrea Pugiotto su L'Unità il 24 Giugno 2023
1. Sembra sopita la polemica esplosa all’indomani della pubblicazione su l’Unità di un articolo a firma di Valerio Fioravanti, peraltro dal contenuto «civilissimo» (Stefano Cappellini, La Repubblica, 3 giugno). Ma è come brace sotto la cenere: il putiferio riprenderà alla prossima occasione, trainato da pagine social usate come le pareti di un vespasiano. Il direttore Sansonetti, nella sua replica, ha lasciato appeso il quesito di fondo: «Sapete chi è Caino? Beh, questo ve lo spiego un’altra volta» (l’Unità, 1 giugno). Si parva licet, raccolgo la pertinente provocazione rispondendo a mio modo.
2. Caino è, innanzitutto, un personaggio biblico (Genesi, 4, 1-16). Fratricida per motivi abietti, subisce per questo una triplice condanna: la lontananza da Dio, la fatica infruttuosa del lavoro della terra, la condizione di esule ramingo. Al tempo stesso, è posto al riparo dalla vendetta altrui: «Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato». Dunque, dopo l’omicidio di Abele, Dio pone Caino davanti alle sue responsabilità, sanzionandole severamente, e lo rende riconoscibile, non per farne un bersaglio bensì per tutelarlo. Giuridicamente, è un rebus denso di significati: quali?
Primogenito di Adamo ed Eva, Caino è il primo nato tra gli uomini: dunque, «la violenza dell’uomo appare come originaria» (Massimo Recalcati, Il gesto di Caino, Einaudi 2020); riguarda potenzialmente tutti, perché «io vivo adesso dentro ogni umano, e lo strattono/fino all’insolenza, fino al delitto/a volte» (Mariangela Gualtieri, Caino, Einaudi 2011). È il primo insegnamento. Ecco il secondo: il peccato originale commesso nell’Eden dai suoi genitori perde, con Caino, la dimensione privata per trasformarsi in violenza sociale: due fratelli, «uno non sopporta l’altro; ed ecco che l’odio si scatena, e subito la terra è irrigata di sangue» (Gianfranco Ravasi).
Proprio perché fatto sociale, l’atto criminale per quanto efferato merita giustizia, non vendetta: da questa Caino va protetto, senza che ciò ne giustifichi l’azione. È il terzo insegnamento: in uno Stato di diritto, il monopolio pubblico nell’esecuzione penale serve proprio per emanciparla da forme di giustizia fai-da-te e dalla logica del taglione, perché l’occhio per occhio rende tutti ciechi. A fondamento di tutto c’è la distinzione tra errore ed errante: Caino è colpevole, ma non si risolve integralmente nella sua colpa. Teologicamente si direbbe: distinguere tra l’esistenza e l’essenza dell’uomo. Giuridicamente noi diciamo: distinguere tra il reato e il reo, nel nome di una dignità umana che, «come non si acquista per meriti, così non si perde per demeriti» (Gaetano Silvestri).
3. Caino, però, è anche un personaggio letterario, protagonista dell’omonimo romanzo di José Saramago (Feltrinelli 2010). Lo scrittore portoghese ne fa un viaggiatore nello spazio e nel tempo che attraversa tutti gli episodi più significativi dell’Antico Testamento: dalla cacciata dall’Eden fino alle vicende dell’arca di Noè (con finale a sorpresa, rispetto al racconto biblico). Attraverso questo Caino errabondo, a cavallo di una mula come un Don Chisciotte ante litteram, scopriamo le spropositate pretese del Dio della Bibbia e i suoi smisurati castighi.
L’allegoria letteraria capovolge l’immagine di Caino quale personificazione del male. È invece il suo dio a rivelarsi più crudele di lui e di tutti i peccatori. Disossato dall’ateismo professato da Saramago, e declinato in chiave giuridica, lo stupore misto allo sdegno del suo Caino davanti a un potere ingiusto e vendicativo disegna – per antitesi – i tratti essenziali di una pena costituzionalmente orientata. Ci dice innanzitutto che il diritto penale, per conservare la sua umanità (imposta dalla prima parte dell’art. 27, comma 3, Cost.), deve essere diverso dal suo oggetto, spezzando la ritorsiva logica per equivalente della pena. Non a caso, il sintagma «Nessuno tocchi Caino» evoca la battaglia radicale per l’abolizione universale delle pene massime: quella di morte e quella fino alla morte (l’ergastolo).
Lo sdegno del Caino letterario ci ricorda, inoltre, quanto sia essenziale la proporzionalità delle pene, se queste «devono tendere alla rieducazione del reo» (come prescrive la seconda parte dell’art. 27, comma 3, Cost.). La dismisura sanzionatoria del legislatore rovescia indebitamente i ruoli, inducendo Caino a percepirsi Abele perché vittima di una pena spropositata, quindi ingiusta.
4. Pur nella abissale distanza, il Caino biblico e il Caino letterario convergono su un punto. Entrambe le narrazioni fanno capire come il momento punitivo sia eminentemente collettivo perché, se ridotto entro il rapporto asimmetrico tra colpevole e offeso, rischia di degenerare nella vendetta di vittime rancorose (così nella Bibbia) o guidata dalla collera di un dio iracondo (così nel romanzo di Saramago).
Posso tentarne anche qui una traduzione giuridica. Il finalismo rieducativo della pena si proietta oltre il perimetro dello Stato-apparato per chiamare in causa lo Stato-comunità nel sostenere il percorso di risocializzazione del condannato. Infatti, l’orizzonte lungo e inclusivo dell’art. 27, comma 3, immette un’obbligazione costituzionale che grava, innanzitutto, sul reo chiamato a «intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità». Ma «non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino» (Corte costituzionale, sent. n. 149/2018).
Tutto ciò si riassume nel «diritto alla speranza», di cui anche Caino è titolare. L’evocativa espressione non nasce dal pulpito, ma dalla Corte EDU (Vinter e altri c. Regno Unito, in tema di ergastolo). Ed è sempre la Corte di Strasburgo a riconosce che la dignità umana «impedisce di privare una persona della sua libertà, senza operare al tempo stesso per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di riguadagnare un giorno questa libertà» (Viola c. Italia n. 2). Detto altrimenti, il diritto alla speranza, quale diritto a ricominciare, è la misura della dignità di Caino: negare l’uno significa negare l’altra.
5. Come sottolinea Andrea Camilleri nel suo Autodifesa di Caino, (Sellerio 2019), il racconto biblico ha un epilogo ri-generativo: diventato padre, Caino «costruì una città alla quale diede il nome di suo figlio: Enoc» (Genesi, 4,17). Il primo assassino, al termine della sua vita tormentata, è il primo costruttore di città nella storia dell’umanità. È l’atteggiamento di Caino che si fa speranza contro ogni speranza, agendo affinché le cose cambino invece di sperare che cambino indipendentemente dal proprio agire: «Spes contra spem» (Lettera ai Romani, 4,18). Caino che – dopo tanto tempo e lungo patire – sostituisce alla violenza passata il ricorso agli strumenti nonviolenti dell’ordinamento democratico, e li usa nell’interesse generale, è il segno più tangibile che la scommessa costituzionale è stata vinta. Da tutti.
6. Quanto a lungo dovrà errare Caino, con un fratricidio che pesa sulle spalle, prima di fare reingresso nella vita della città? Durerà il tempo della pena stabilita dalla legge generale e astratta, applicata in concreto dal giudice: oggi, per i reati ostativi più gravi, 30 anni di detenzione+10 di libertà vigilata (troppo pochi?). Dopo, per lo Stato Caino recupererà il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza: anche quello di manifestare liberamente il proprio pensiero, che la Costituzione riconosce a «tutti» (art. 21, comma 1).
Chi vede in ciò un intollerabile oltraggio, invoca una pena aggiuntiva priva di base legale. Equivoca il segno imposto su Caino, scambiandolo per un’arroventata lettera scarlatta. Rimpiange l’ostracismo dell’antica Atene. Vuole, senza dirlo, che per lui la pena sia spietata e perenne. Quanto a chi pensa che tacitare Caino sarebbe un virile gesto antifascista, ha capito davvero poco della logica inclusiva della nostra Costituzione.
Andrea Pugiotto 24 Giugno 2023
Oltre le sbarre. Lo stigma dei detenuti e le difficoltà di trovare un lavoro fuori dal carcere. Morning Future su L'Inkiesta il 29 Settembre 2023
Nonostante gli sgravi fiscali, solo cinquemila su 57mila lavorano all’esterno del carcere. In più, anche chi trova posto in organizzazioni esterne al penitenziario mentre sconta la pena, raramente riesce a conservare l’impiego anche quando termina il periodo di reclusione
Tratto da Morning Future
«Il carcere, essendo deputato a far scontare una pena, costruisce volutamente una forma di stigmatizzazione: la persona viene etichettata come qualcuno che deve espiare una colpa. Lo stigma non è quindi un aspetto aggiuntivo, ma costitutivo del sistema penale». A parlare così è Francesca Vianello, professoressa associata di Sociologia del Diritto, della Devianza e del Mutamento sociale all’Università di Padova e parte del consiglio direttivo di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. «Sarebbe auspicabile, tuttavia, che, durante questo trattenimento, il soggetto fosse spinto a ricostruirsi un’identità diversa», continua la professoressa, «e che, una volta uscita dal carcere, la persona potesse essere libera da questa forma di stigmatizzazione. Ovviamente non va così e un grande problema di chi viene rilasciato è riuscire a liberarsi dall’etichetta che gli è stata imposta».
Lo stigma costituisce un’identità sociale che non è più intatta: verso chi ne è oggetto non abbiamo più un atteggiamento e delle aspettative neutri, come quelli che riserviamo a chiunque altro. «Si tratta di qualcosa che subito rimanda a degli stereotipi e la detenzione, anche se finita, è un’etichetta che rimane nel tempo, oltre che nella memoria del singolo, anche nella società», dice l’esperta, «tanto più che adesso chiunque può navigare su internet e vedere cosa ha fatto una persona anche dieci, venti o trent’anni prima. Per questo ci sono state campagne per il diritto all’oblio, a non confrontarsi continuamente con il proprio passato».
Il lavoro: un elemento chiave per abbattere lo stigma
Un tema estremamente rilevante, quando si parla di lotta allo stigma, è quello del lavoro, che in Italia continua – secondo gli esperti – a essere poco indagato. Chi viene rilasciato ha l’urgenza di mantenersi: spesso esce dal carcere portando con sé solo con un biglietto del bus e un sacco di plastica con i propri averi. «Le percentuali di recidiva, in Italia, sono altissime, dal 70 al 75%», dice Vianello. «Il lavoro raggiunge circa un quarto dei detenuti e spesso si tratta di un lavoro molto dequalificato. La maggior parte di chi ha un impiego ce l’ha alle dipendenze della struttura in cui è recluso: nonostante gli sgravi fiscali per le cooperative e le imprese che impiegano chi è in carcere, solo 5mila detenuti su 57mila lavorano all’esterno».
In più, anche chi trova posto in organizzazioni esterne al penitenziario mentre sconta la pena, raramente riesce a conservare l’impiego anche quando termina il periodo di reclusione. Questo sarebbe, però, un passo importantissimo per uscire da una logica stigmatizzante, che rischia di fomentare dei pregiudizi che spingono le persone alla recidiva. Secondo Andrea Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, la disuguaglianza è qualcosa che comincia ancora prima della carcerazione.
«Tante tra le persone nei penitenziari vengono da storie complicatissime, sono un gruppo di persone particolari in termini di fragilità sociali, problemi di salute, anche mentale, con un rapporto quasi inesistente col sistema sanitario nazionale. In parte, si trovano in carcere proprio perché si trovano in queste condizioni: se avessero una situazione diversa, con più possibilità, probabilmente avrebbero accesso a una misura alternativa. E il carcere nella maggior parte dei casi fa ben poco per queste persone». Se è vero, come ammette l’esperto, che anche questa visione può essere in sé stessa una sorta di stigma – perché appiattisce delle individualità singole e differenti su un pregiudizio comune – è altrettanto vero che bisognerebbe puntare di più sulla formazione professionale, perché le persone detenute escano con maggiori conoscenze e competenze rispetto a quelle con cui sono entrate e riescano a liberarsi in questo modo della pensante etichetta che portano addosso.
In Italia esistono istituti penitenziari che garantiscono a chi è rinchiuso al loro interno progetti virtuosi di avviamento all’impiego, ma non sono la regola, anzi. La situazione è fortemente diseguale tra diverse strutture della penisola. Un esempio particolarmente significativo è quello del carcere di Bollate, dove vengono attuati molti progetti, tra cui «Riparto da me», iniziativa ideata da Fondazione Adecco, e le attività di inclusione dell’impresa sociale Bee4 (progetti che abbiamo raccontato in un precedente articolo). Importante è anche la scuola: le secondarie di primo e secondo grado hanno delle succursali all’interno degli istituti, mentre l’università deve compiere ancora passi avanti in questo senso. «Dal 2018 ci sono più di 40 atenei che garantiscono il diritto allo studio alle persone detenute», racconta la professoressa, «e, anche se si tratta di una realtà di nicchia – stiamo parlando di mille persone circa su 57mila – ci sono state anche delle grandi soddisfazioni, persone che si sono laureate con bei voti e sono state reinserite in società in maniera più che dignitosa».
L’arma più potente contro stereotipi e pregiudizi è la conoscenza, quindi l’apertura. Vianello, per esempio, porta decine di studenti all’interno delle carceri. «Bisognerebbe che le persone detenute ed ex detenute avessero più occasioni per raccontarsi nella loro totalità», dice. Secondo l’esperta, poi, il percorso di reinserimento dovrebbe iniziare prima del termine della pena, con un accompagnamento all’esterno che consenta di costruire una situazione dignitosa e una capacità di vivere all’esterno. «Così si aumenta anche la sicurezza, diminuendo le recidive», conclude la sociologa. «Sembra che il carcere abbia però un valore più simbolico che reale, pare che pochi siano interessati a dare un futuro a queste persone».
INCHIESTA. IL CARCERE, I CARCERATI, I PARENTI DEI CARCERATI ED I RADICALI…….
Carceri, carcerati e parenti dei carcerati. Dove sbagliano i Radicali? Inchiesta di Antonio Giangrande.
I radicali da anni si distinguono con il Satyagraha per la loro lotta non violenta a favore dei diritti dei detenuti. I risultati sono scarni e su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti della giustizia ha pubblicato dei volumi: “Ingiustiziopoli, ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli, malagiustizia contro la collettività”; “Impunitopoli, legulei ed impunità”. Egli afferma: «Una lotta impari destinata alla sconfitta. Forse perché sono sempre le stesse facce a rappresentare lo sparuto gruppo radicale o forse perché l’Italia è in mano a quattro pennivendoli che scrivono le stesse cose, od in mano a quattro legulei che fanno le stesse cose, od in mano a quattro politicanti che dicono le stesse cose. Dov’è il nuovo che avanza, che si è palesato come la brutta copia dei forcaioli? Fatto sta che è inutile lottare a favore degli italiani. Un popolo sodomizzato, che da masochista tace sulle sofferenze subite e non si ribella alla sua situazione. Difatti, come mai si lasciano a sparute rappresentanze di cittadini questo enorme aggravio di denuncia sulla giustizia, mentre i parenti dei detenuti sono centinaia di migliaia? Sarebbero milioni se si considera che a loro si aggiungono i parenti di quei 5 milioni di italiani che negli ultimi 50 anni sono rimasti vittima di errore giudiziario o ingiusta detenzione. Sarebbero il primo partito in Italia, pronto a metter mano a quelle riforme tanto auspicate e reclamizzate, ma mai approvate dalle lobbies e caste al potere. La masso-mafia che tacita le coscienze ed uccide la speranza.»
Nella città invisibile, dove il sovraffollamento delle carceri e i diritti dei detenuti sono temi su cui raramente ci si sofferma, c’è chi opera anche tacitamente affinché questo muro del silenzio crolli definitivamente. Ciò nonostante un’informazione non democratica e poco veritiera determina i sentimenti rancorosi. I tg si basano su fatti di sangue. Si tocca la pancia degli italiani e non li si fa ragionare con fatti di verità su una semplice questione: di carcere si muore.
28 luglio 2014, l’AGI diffonde. “Ore di grande tensione si sono vissute nella mattinata di ieri all’interno del carcere di Taranto ove un paio di detenuti dopo aver distrutto la loro stanza avrebbero incitato tutti gli altri detenuti a rivoltarsi contro il personale di Polizia Penitenziaria”. Lo denuncia in una nota il Sappe, il sindacato degli agenti della Polizia Penitenziaria. “Fortunatamente – è scritto nella nota del Sappe – è giunto prontamente sul posto il comandante di reparto che dopo aver parlato con i rivoltosi ha risolto il tutto non senza conseguenze per i poliziotti penitenziari poiché un paio sarebbero dovuti ricorrere alle cure dell’ospedale. Ormai il problema della sicurezza del carcere di Taranto, considerata l’irresponsabilità dell’Amministrazione penitenziaria, a cominciare dal Dap a Roma e per finire al provveditore regionale a Bari, non consente più perdite di tempo”. Per il Sappe, “è necessario che il prefetto di Taranto prenda in mano la situazione e convochi con urgenza un comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica sulla situazione del carcere di Taranto alla presenza dell’Amministrazione penitenziaria e dei sindacati che tutelano i lavoratori su cui ricade la tragicità della situazione. Ormai – conclude la nota – è tempo di fatti poiché è in gioco oltreché la sicurezza del carcere e dei lavoratori quella della città di Taranto e dei propri cittadini”.
Nonostante tutti sappiano, sono pochi, però, i familiari dei carcerati disposti a metterci la faccia. Delegano ai pochi di buona volontà l’arduo compito di denuncia.
31 luglio 2014: Cronaca del presidio dello Slai Cobas sindacato di classe di Taranto in solidarietà coi detenuti del carcere. Dai pochi familiari dei detenuti intervenuti la testimonianza della pesante condizioni nel carcere di Taranto.
«Sul sovraffollamento, sono costretti a stare in 5/6 nelle celle previste per due, massimo tre persone; d’estate si muore dal caldo, d’inverno piove acqua dentro le celle. C’è degrado. I detenuti che vengano mandati giù in isolamento, sono poi abbandonati. Il letto è sporco, pieno di polvere. Il cibo qui viene portato dopo. Vengono puniti perchè si ribellano? Perchè hanno protestato per le condizioni in cui vivono? Al di là dell’impegno del personale sanitario, possono passare anche mesi prima che vengano visitati; anche se i detenuti hanno problemi urgenti, per es. ai denti, gli viene detto che provvederanno ma poi niente. Certo gli agenti sono pochi, ce ne vorrebbero di più e neanche loro stanno bene, ma sono i detenuti quelli che stanno male e, invece, non hanno voce. Per loro non c’è alcun intervento di recupero, quando escono non c’è lavoro. Soprattutto i giovani stanno perdendo gli anni più belli. Vi sono ragazzi che non hanno fatto cose gravi eppure restano per mesi e mesi, anche anni. Certo i nostri familiari che stanno in carcere hanno sbagliato, nè pensiamo che possano stare in carcere come se stessero in villeggiatura, ma devono essere trattati come persone non come animali.»
Analoghe iniziative, manifestazioni, picchetti, “presidi” e richieste di impegno sono in corso in altre realtà, dall’Abruzzo a Napoli, in Veneto, Emilia Romagna…ad opera dei Radicali italiani, con il difficile Satyagraha con i mezzi (scarsi), le risorse (fantasia tantissima, denaro assai poco), e cercando di insinuarsi negli spazi sempre più stretti di istituzioni e mezzi di comunicazione, “armati”, come si diceva un tempo, di nonviolenza.
Eppure tutti sanno. Carcere: storie di ordinaria follia, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani, racconta alcune delle vicende ai limiti della realtà. Che si fa, si ride o si piange? Questa storia l’ha scoperta la Segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani; è una storia paradossale, ma lasciamola raccontare alla stessa Bernardini. “Mentre si scaricano sui Magistrati di Sorveglianza e sui loro uffici ulteriori compiti ai quali adempiere, e mentre da anni i Tribunali di Sorveglianza non riescono a seguire nemmeno l’ordinaria amministrazione, all’Ufficio di Sorveglianza di Modena può accadere che una signora da tempo stia cercando di interloquire con il Magistrato, stressata da telefoni che non rispondono, da uffici che non chiariscono e che rimandano sine die gli adempimenti che competono loro per legge”. Bisogna dire che da tempo a Modena non c’è il Magistrato di Sorveglianza che ha la competenza anche degli internati di Castelfranco Emilia; questo significa che nessuno si occupa delle istanze dei detenuti dei due istituti; significa, solo per fare qualche esempio, niente permessi, niente licenze, niente ingressi nelle comunità terapeutiche. Dopo giorni e giorni di peripezie alla signora l’Ufficio di Sorveglianza fa sapere che “neanche loro sanno quando arriverà da Roma il sostituto magistrato, e che è tutto fermo fino al suo arrivo“. Decisa a non mollare, la signora telefona al Ministero della Giustizia; le viene consigliato di telefonare al Consiglio Superiore della Magistratura. Una signora ostinata, alla fine ce la fa a parlare con la sezione Settima del CSM; e le riferiscono che a loro risulta che il magistrato ha già preso l’incarico, si tratta del dottor Sebastiano Bongiorno. Forte di questa notizia ritelefona all’ufficio di Modena dove finalmente le dicono che effettivamente il magistrato ha preso l’incarico… ma è andato in ferie e, comunque, anche dopo le ferie non rientrerà perché… andrà in pensione! “Quando la signora in questione mi ha raccontato questo fatto”, dice Bernardini “non ci volevo credere. Constato, attraverso una ricerca fatta al volo su internet, che in effetti il dottor Bongiorno, magistrato e politico eletto nel 1994 nella lista dei Progressisti, ha assunto servizio l’8 luglio scorso e che la decisione del Csm risale al 19 febbraio. Faceva parte della vasta schiera di Magistrati fuori ruolo presso il Ministero della Giustizia (Dap): la pacchia pertanto avrebbe dovuto finire, ma il dottor Bongiorno, come abbiamo visto, ha trovato un’alternativa. Dal canto suo, il magistrato Dal canto suo, il magistrato di Reggio Emilia – che in teoria sostituisce quello di Modena – non firma le licenze, quindi il risultato è che tutti i semiliberi che regolarmente usufruiscono di licenze, proprio nei mesi più caldi di luglio, agosto e settembre, non avranno la possibilità di esercitare un loro diritto. Inoltre, in molti avevano già prenotato le ferie per andare nei loro paesi di origine a trovare i genitori, che a loro volta aspettavano da tutto l’anno questo momento. Di fronte a questa situazione, il Ministero della Giustizia tace, così come tacciono al Csm e la Procura Generale della Corte di Cassazione: è estate, i magistrati vanno in ferie e quanto prescritto dalla legge può attendere, in un Paese pluricondannato per violazione dei diritti umani fondamentali”. E ora la storia di una persona che viene sottoposta ad anni di carcere, li sconta, viene assolto e per l’ingiusta detenzione non viene risarcito. Si chiama Giulio Petrilli, questa vittima della giustizia ingiusta italiana. Ha scritto una lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi. Attende risposta. “Gentile Presidente Renzi“, scrive il signor Petrilli, “visto che la legge attuale sulla responsabilità civile dei magistrati prevede di inoltrare il ricorso e anche il risarcimento al presidente del consiglio dei ministri, le inoltro la richiesta di risarcimento danni, quantificabile in dieci milioni di euro, per l’errore giudiziario commesso dal procuratore del tribunale di Milano e la Corte dello stesso tribunale che mi condannò in primo grado. Da anni mi batto per avere giustizia sulla mia vicenda giudiziaria. Una vicenda che mi vide arrestato nel 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata (Prima Linea) e rilasciato nel 1986, dopo l’assoluzione in giudizio d’appello presso il tribunale di Milano. Uscii innocente dopo cinque anni e otto mesi di carcere, da un’accusa di banda armata, che prevedeva anche la detenzione nelle carceri speciali e sotto regime articolo 90, più duro dell’attuale 41 bis. Anni d’isolamento totale, blindati dentro celle casseforti insonorizzate, senza più poter scrivere, leggere libri, anche quelli per gli studi universitari, qualche ora di tv ma solo primo e secondo canale. Sempre, sempre soli, con un’ora d’aria al giorno, in passeggi piccoli e con le grate. Un’ora di colloquio al mese, con i parenti, ma con i vetri divisori. Dodici carceri ho attraversato in questi sei lunghi anni. Ebbi la sentenza di assoluzione dalla Cassazione nel 1989“. Chissà se Renzi ha risposto, anche un solo twitter.
«Ecco perché proseguo il Satyagraha, dice Rita Bernardini. Vi spiego perché proseguo il Satyagraha insieme a Marco Pannella con il sostegno attivo di oltre 200 cittadini. Marco Pannella sta praticando il Satyagraha nella forma dello sciopero della sete, nonostante i medici glielo sconsiglino nel modo più assoluto:
– è inconcepibile per uno Stato che si definisca democratico che il boss di “cosa nostra” Bernardo Provenzano sia ancora detenuto in regime di 41-bis (carcere duro). Occorre immediatamente interrompere questa vergogna che mette lo Stato italiano a un livello di criminalità superiore a quello dei peggiori mafiosi o terroristi.
– occorre intervenire immediatamente per garantire le cure oggi negate a migliaia di detenuti che non possono essere “curati” nelle strutture carcerarie. Responsabili di questa situazione sono il Ministero della Giustizia, quello della Sanità e i magistrati di sorveglianza.
– il decreto sulle carceri in fase di conversione alla Camera, nel prevedere le misure risarcitorie per i detenuti che hanno subito trattamenti inumani e degradanti – che noi radicali abbiamo definito “il prezzo della tortura” – non ha corrisposto minimamente a quanto previsto dalla Corte EDU e a principi elementari di costituzionalità. Questo non lo affermiamo solo noi radicali, ma anche la Commissione Affari Costituzionali della Camera che ha espresso seri dubbi circa queste misure chiedendo alla Commissione Giustizia se “siano pienamente rispondenti ai principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella richiamata sentenza dell’8 gennaio 2013 (causa Torreggiani e altri contro Italia, ricorsi 43517/09 più altri riuniti) ed al principio di proporzionalità di matrice costituzionale”.
– Oltretutto, gli 8 euro per ogni giorno di trattamenti inumani e degradanti subiti in violazione dell’art. 3 della CEDU, o il giorno di sconto di pena ogni 10 giorni passati in carcere nella condizione suddetta, costituiscono misure inapplicabili per una Magistratura di Sorveglianza già sotto organico e non in grado -da tempo- di affrontare i doveri quotidiani ai quali è chiamata; lo stesso vale per i Giudici civili che dovrebbero ricostruire giorno per giorno e per ciascun detenuto le condizioni di carcerazione nei diversi spostamenti che i reclusi subiscono durante la permanenza nei penitenziari italiani: cambio di cella, di sezione, di istituto.
– occorre che Televisioni pubbliche e private rimedino all’ignobile censura che hanno riservato agli esiti della visita effettuata in Italia (dal 7 al 9 luglio) da parte delle Nazioni Unite tramite il “Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria”. Nel documento redatto e nelle richieste rivolte al nostro Paese dall’ONU ci sono tutti gli obiettivi della nostra lotta e tutti i contenuti del Messaggio al Parlamento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, amnistia e indulto compresi. Gli esperti ONU hanno anche avuto da recriminare su un argomento tabu in Italia come quello del 41-bis, al quale solo noi radicali ci opponiamo. Secondo l’ONU non ci siamo ancora “adeguati ai requisiti internazionali per i diritti umani.
Troppo pochi 8 euro al giorno ai detenuti che hanno sofferto una carcerazione inumana. Il rischio è che l’Europa ci sanzioni anche per questa maniera di mettere pezze ai danni già fatti. Non lo dicono solo i radicali italiani di Rita Bernardini e Marco Pannella, che di questa battaglia hanno fatto da tempo una ragione di vita e di verità, ma lo hanno messo nero su bianco i membri del Csm, con un voto che quasi all’unanimità, 19 voti favorevoli e due astenuti, ha bocciato il decreto del ministro Andrea Orlando.
“L’obiettiva esiguità del quantum risarcitorio da liquidarsi – si legge nel parere messo a punto dalla Sesta Commissione (relatrice la togata di Unicost Giovanna Di Rosa) – senza che alcuna discrezionalità sul punto residui al giudicante, potrebbe infatti essere sospettata di svuotare di contenuto la tutela offerta dalla disposizione sovranazionale, la cui violazione non darebbe luogo ad un effettivo ristoro per equivalente da parte dell’amministrazione”.
“Al di là della evidente esiguità della somma – ha osservato il Csm – chiaramente riconducibile al timore che il riconoscimento di importi assai cospicui a favore dei danneggiati possa gravare eccessivamente sulle finanze dello Stato, la previsione di un siffatto limite appare discutibile anche sotto il profilo della rigidità del tasso di risarcimento previsto per legge, senza che sia prevista alcuna possibilità di graduarlo in ragione della gravità del pregiudizio eventualmente accertato”.
Rita Bernardini sul Satyagraha in corso: ”Serve la mobilitazione anche dei detenuti”. Nelle carceri, intanto, ci si continua ad ammalare e a morire. Sono 82 i morti dall’inizio dell’anno, dei quali 24 per suicidio, riporta “Espresso on line”. La puntata di Radio Carcere andata in onda martedì 29 luglio 2014 ha visto la presenza in studio della segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, e quella di Marco Pannella. Come ricordato dal conduttore del programma, Riccardo Arena, Rita Bernardini è giunta a quota 29 giorni di sciopero della fame contro la “morte per pena” e affinché lo stato la smetta di comportarsi come “il peggiore dei criminali” in riferimento anche alla vicenda umana di Bernardo Provenzano e la sua permanenza al 41 bis in condizioni pressoché larvali. La puntata ha inoltre analizzato i contenuti dell’interrogazione presentata giovedì scorso dal vicepresidente della Camera, On. Roberto Giachetti (Pd) su sovraffollamento carcerario e capienza degli istituti. Arena ha quindi ricordato che venerdì scorso c’è stato un nuovo suicidio al carcere Due Palazzi di Padova. Un morto è morto per impiccagione nella propria cella, il suo nome era Giovanni Pucci, 44 anni di Lecce, che stava scontando una pena di 30 anni di reclusione. A questo detenuto era stato da poco negato il permesso di lavoro esterno al carcere, a causa di una rissa dietro le sbarre in cui sarebbe stato coinvolto e su cui è in corso un’indagine. Si tratta dell’82 esimo detenuto morto nelle carceri italiane nel 2014. Tra questi 24 sono i suicidi. Il deputato ha ribadito la necessità di amnistia e indulto, citando gli interventi di Giovanni Paolo II in Parlamento (2002 e in qualche modo prodromico all’indulto del 2006) e il più recente messaggio di Giorgio Napolitano alle Camere, datato otto ottobre dello scorso anno. Il Parlamento però, secondo Melilla, non ha il coraggio di prendere certe decisioni per paura dell’opinione pubblica che confonde “l’esigenza di sicurezza con una lotta disumana nei confronti di chi ha sbagliato”.
“L’informazione determina i sentimenti rancorosi evocati da Melilla – ha proseguito la Bernardini – un’informazione non democratica e poco veritiera. Il centro d’ascolto ha documentato che i tg si basano su fatti di sangue quando è risaputo che gli omicidi sono in netto calo rispetto ad alcuni anni fa. Si tocca la pancia degli italiani e non li si fa ragionare con fatti di verità su una semplice questione: ovvero che in realtà se si fa un carcere diverso, se si usano misure alternative c’è più sicurezza per tutti. Quando non si mandano direttamente le persone nelle carceri illegali italiane, la recidiva si abbassa drasticamente”.
Anche il tema della sanità in carcere è tornato al centro della discussione: “Non è solo una questione di metri quadrati – ha dichiarato la Bernardini – ma anche di sanità e in generale di mancanza di cure. Una percentuale intorno al 30% dei detenuti ha problemi psichiatrici e in carcere c’è un’alta probabilità di veder manifestare problemi psichiatrici proprio per le condizioni in cui si è costretti a vivere. Poi ci sono il 32% che sono tossicodipendenti e hanno già problemi di loro. Anche se sei sano ti ammali, il carcere è un luogo dove ci si ammala spesso gravemente e troppe volte si muore per mancanza di cure e perché indagini urgenti tipo le Tac non vengono eseguite se non dopo quattro mesi o un anno, quando ormai è troppo tardi. Inoltre ci sono detenuti che vengono accusati di fare scena, non vengono creduti e muoiono in carcere. Non tutte le carceri hanno la guardia medica h24, pochissime hanno il defibrillatore e anche dove c’è non sanno usarlo. Andrebbero fatti dei corsi per gli agenti e per chi è presente in carcere ma non vengono svolti”.
“C’è da occuparsi e preoccuparsi di questo – ha poi dichiarato Pannella entrando nel merito delle questioni – Renzi non si rende conto che, con queste condanne formali e quando il massimo magistrato costituzionale (Presidente della Repubblica) manda un messaggio alle Camere in cui scrive che quanto viene detto da Cedu, Corte Costituzionale (e perfino dall’Onu, benché in un momento successivo) è qualcosa che crea l’obbligo, questo parlamento non ha neppure discusso e in questo dà la misura di se stesso”. Ha sentenziato l’anziano leader che si è soffermato anche sulla vicenda riguardante l’irragionevole durata dei processi ricordando che: “Già nel 1976 mi schieravo contro i comunisti che erano contrari all’amnistia preferendo le prescrizioni”. Quindi Pannella ha letteralmente tuonato contro l’indegnità del nostro paese a far parte di quella stessa Unione Europea che pure ha contribuito a fondare: “L’Italia andrebbe espulsa dalla comunità europea per la somma e per il prodotto delle violazioni commesse – Pannella ha evocato in proposito una ricerca sul costo economico delle procedure d’infrazione contro l’Italia, a cura di Massimiliano Iervolino – e con la nonviolenza dobbiamo giocare al massimo la partita per il diritto e per i diritti”. Tra questi il diritto costituzionale alla salute in carcere.
A proposito viene i aiuto la toccante testimonianza di Davide Grassi su “Il Fatto Quotidiano”. Sovraffollamento delle carceri: Michele se n’è andato. È una calda giornata di luglio. Le imponenti mura di recinzione che circondano l’edificio principale sono la prima cosa che mi lascio alle spalle quando oltrepasso il massiccio portone blindato, che sembra ruggire mentre si apre e si richiude a battente. Prima di arrivare alle “sezioni” che ospitano i detenuti devo percorrere alcuni metri a cielo aperto, interrotti da almeno altri due fabbricati di cemento armato e acciaio, all’interno dei quali vengo sottoposto a rapidi controlli dalle guardie carcerarie che mi riconoscono subito e si limitano ad una superficiale occhiata al “pass” che il loro collega mi ha rilasciato all’ingresso. Mi capita spesso di addentrarmi dentro “l’inferno”. Lo chiamano così, quelli che ci finiscono dentro, per colpa loro o, in certi casi, anche per un errore giudiziario. Dentro “l’inferno” ci trovi quelli che sono gravati da una misura cautelare e che, secondo il magistrato, finché il procedimento non si conclude, potrebbero inquinare le prove, tentare la fuga o commettere un altro reato. Tra di loro anche chi sta scontando una condanna definitiva. Ho superato l’ultimo controllo e percorro gli ultimi metri all’aperto. Inevitabilmente alzo lo sguardo. Dalle inferiate saldate al perimetro di una finestra fuoriescono le braccia a penzoloni di un detenuto. Scorgo i suoi occhi rassegnati che fissano il vuoto. Dietro di lui credo di aver intravisto le ombre dei compagni che si agitano dentro la cella. Proseguo ancora. Davanti a me sento il fischio del motorino elettrico che fa scattare la serratura dell’ultima porta d’acciaio che mi separa dall’”inferno”. Sono dentro. Noto che alcuni agenti della penitenziaria parlano tra di loro in modo concitato. Capita a volte quando ci sono problemi con i detenuti. Il piantone mi fa segno di andare. Mi accomodo in una delle stanze messe a disposizione per i colloqui e attendo. “Oggi è una giornata molto pesante.” Esordisce Marco che è appena sceso dalla seconda sezione. Marco ha 22 anni ed è nato in Marocco ma è in Italia da quando aveva dieci anni. Parla un italiano impeccabile. È cresciuto con gli zii e non ha mai conosciuto i suoi genitori. È dentro da 11 mesi per una rapina aggravata. Ha preso una condanna in primo grado di 3 anni. Abbiamo appellato la sentenza. Marco è la prima volta che finisce in carcere e mi ha nominato da poco. È stato Michele ad avergli consigliato di nominarmi ed io sto facendo un favore a Michele, un mio cliente, che ha da scontare delle vecchie condanne per spaccio. Roba vecchia, ma con le quali prima o poi Michele sapeva di doverci fare i conti. Michele ha sessant’anni e dal carcere ci era già passato. Visto che era uno dei più anziani aveva deciso di prendere sotto la sua ala protettiva quelli come Marco che fanno il carcere per la prima volta. Michele si è affezionato a Marco. Sarà per la differenza d’età. Marco potrebbe essere suo figlio. Michele mi ha chiesto di difendere Marco gratuitamente ed era molto contento quando gli ho detto che avrei accettato. “Ne hanno portati altri due e adesso nel “buco” siamo in otto.” Mi dice Marco. Lo guardo per niente sorpreso. Quel carcere aveva già avuto qualche problema: condizioni igienico sanitarie pessime e sovraffollamento. Soprattutto quando arriva l’estate e si riempie di ladruncoli e piccoli spacciatori. “Hanno dovuto aggiungere un letto a castello. Siamo stipati come delle sardine. Con questo caldo non gira l’aria e mi sembra di soffocare. Facciamo a turno per stare in piedi, anche solo per dare un’occhiata fuori dalla finestra. Abbiamo una sola tazza del cesso per otto persone. E’ giusto secondo te?” Marco è un ragazzino intelligente, più maturo della sua età. Lo guardo e ascolto senza fiatare. Annuisco soltanto e non posso fare altro che prenderne atto. Dopo lo sfogo iniziale parliamo d’altro. Di cosa farà un giorno quando sarà fuori e che dovrà cercarsi un lavoro. Ha deciso che si rimetterà in contatto con gli zii che non vede da un paio d’anni. Da quando ha deciso di vagabondare da una città all’altra. Nessuno da quando è dentro è mai passato a trovarlo. Forse nessuno dei suoi familiari sa che lui è dentro. Noto che Marco non ha molta voglia di parlare, allora provo a cambiare discorso e a quel punto lui mi interrompe. “Michele se n’è andato…” “Michele se n’è andato?”, ripeto come un automa. Provo a spiegargli che è impossibile che Michele se ne sia andato, perché mi sarebbe arrivata una comunicazione in studio e comunque la sua posizione doveva essere ancora vagliata dal magistrato di sorveglianza. Mi sembra ridicolo dovergli spiegare che uno non può andarsene dal carcere quando gli pare. Ma subito mi rendo conto che sono io quello ridicolo. Marco ha gli occhi lucidi. In un istante realizzo e mi sento un groppo in gola. “Quando è successo?” “Questa mattina. Durante l’ora d’aria. Nella cella in cui era stato trasferito le finestre del bagno erano abbastanza alte..” Era bravo con i nodi Michele. Li aveva imparati sul lavoro. Per molti anni era andato per mare. Imbarcato su un peschereccio. Michele era un pescatore. Michele quella mattina aveva atteso che la cella si liberasse. Aveva preso un lenzuolo e aveva fatto un cappio ad una estremità. Poi lo aveva girato attorno al collo. L’altra estremità l’aveva già legata alle inferiate della finestra. Quindi si era arrampicato sul piccolo lavabo d’acciaio. Prima di andarsene aveva dato un’occhiata attraverso le sbarre. Fuori il cielo era di un limpido azzurro. Si era lasciato sfuggire un sorriso. Era una splendida giornata d’estate.
Morte naturale, qualcuno dirà. No. E’ omicidio di Stato. Quel reato abbietto di cui nessuno parla.
Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili, scrive Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa… I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta – cortese – di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati… Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove. Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».
Poggioreale, l’incubo “cella zero”. Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l’inchiesta dell’Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata “cella zero”, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere – con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: ‘ se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.
Dopo tutto questo si sente l’opprimente bisogno di scomunicare “solo” i mafiosi. “Ora Bergoglio venga qui a spiegarci se possiamo prendere l’ostia”, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. «A questo punto, vogliamo incontrare il Papa. Solo lui può dirci se possiamo ricevere o no i sacramenti. E questo noi dobbiamo saperlo ». Quando, alle cinque di ieri pomeriggio, nella “sala della socialità” del reparto Alta sicurezza 3 del carcere di Larino, prende la parola uno dei quindici ‘ndranghetisti, il vociare che fino a quel punto aveva accompagnato la visita ispettiva al penitenziario dell’assessore regionale alle Politiche sociali del Molise, Michele Petraroia, si spegne. «Noi, tutti insieme — dice il boss, indicando con il dito il gruppo di detenuti calabresi intorno a lui e guardando l’assessore — due settimane fa, dopo la scomunica del Papa alla ‘ndrangheta durante la visita in Calabria, abbiamo posto una domanda al nostro prete (il cappellano del carcere don Marco Colonna, ndr). E, visto che siamo tutti condannati per reati di mafia, gli abbiamo chiesto se potevamo continuare a prendere i sacramenti. Don Marco ha preso tempo, giustamente — prosegue il detenuto — Ha detto che si doveva informare, che non aveva sentito bene le parole del pontefice e che le aveva ascoltate solo distrattamente alla televisione. Ci ha detto che ne avrebbe parlato con il vescovo (don Gianfranco De Luca della diocesi di Larino-Termoli, ndr). Noi, nel dubbio, a messa non ci siamo andati fino a quando non è venuto il vescovo a parlarci, e a darci con le sue mani la comunione. Ma quando, dopo la messa di domenica, abbiamo posto la stessa domanda anche a lui, ci ha detto che c’è ancora bisogno di riflettere e approfondire. Poi ci ha lasciato da leggere il discorso integrale del Papa a Sibari». Quindi il boss rivolge un invito all’assessore: «Visto che è qui per conoscere questa vicenda da vicino, faccia sapere fuori che vogliamo incontrare Papa Francesco. Che da lui vogliamo la risposta alla nostra domanda». Petraroia annuisce e prende appunti con un’assistente: «Capisco il vostro turbamento e non sono la persona adatta per parlarvi di pentimento o conversione. Conosco questo carcere e le persone che ci lavorano e sono certo che potranno aiutarvi». Nella sala c’è anche Carmelo Bellocco, capo cosca di una potente ‘ndrina di Rosarno: «Assessore, faccia anche arrivare un messaggio alle nostre famiglie. Dica loro che noi non abbiamo offeso la chiesa, mai», dice. «Abbiamo solo fatto una domanda, tutti insieme. Non c’è nessuna rivolta come dicono invece i telegiornali. Noi non siamo come quelli dell’inchino… (con un chiaro riferimento alla vicenda della sosta della statua della Madonna davanti all’abitazione di un boss a Oppido Mamertina, ndr )». A quel punto i detenuti rompono il silenzio e cominciano a prendere la parola uno alla volta. «Perché esce questa immagine di noi? Perché ci vogliono far passare per rivoltosi? », si sfoga uno di loro, seduto accanto al boss della Sacra corona unita Federico Trisciuoglio: «Ci vogliono punire », dice. «Tutti questi articoli di giornale e servizi della tv ci fanno solo del male». Nella “sala della socialità” dovrebbe esserci anche Giuseppe Iovine, fratello del boss del clan dei Casalesi pentitosi da un mese, ma non c’è: è rimasto in cella e non ha voluto partecipare all’incontro. Ma nemmeno quando Petraroia passa attraverso il reparto Z (dove si trovano i parenti dei collaboratori di giustizia che devono scontare una pena in carcere) Iovine si avvicina. La direttrice del penitenziario, Rosa La Ginestra, che segue la visita, illustra all’assessore le attività dell’istituto: «Facciamo tante iniziative per fare socializzare i detenuti e per recuperarli. Hanno ragione quando dicono che tutto questo clamore non ci aiuta. Una parte dei nostri ospiti, quelli che frequentano il corso di studi interno, ogni anno si reca in visita a Roma per ascoltare il Papa in piazza San Pietro». Quando, dopo un’ora di ispezione dei reparti, Petraroia esce dal penitenziario, è stato appena stato diffuso l’ultimo messaggio di monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso. Che sulla vicenda dice: «Occorre chiudersi a riflettere su come conciliare la forza della misericordia con il dramma della scomunica». Nessuna rivolta, spiega poi il presule: i detenuti, sostiene, hanno voluto porre una «questione».
Dr Antonio Giangrande
Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
La Costituzione suicidata. La truffa della certezza della pena come certezza della galera. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 17 Agosto 2023
Le polemiche sui suicidi in carcere sono tornate per ricordarci che se ne parla sempre e solo per banalità logistico-organizzative, mai dal punto di vista politico o giuridico. Ma viviamo in un Paese in cui la premier e il ministro della Giustizia sono garantisti solo fino al processo: per loro sulla punizione è doveroso essere giustizialisti
Le discussioni e le polemiche sui suicidi in carcere e sulla insostenibilità delle condizioni di detenzione negli istituti di pena anche questa estate si sono riproposte con una macabra puntualità.
Si tratta di discussioni in cui, nella generalità dei casi, si evita accuratamente di toccare il nucleo politicamente “radioattivo” del problema, ma ci si limita a girare intorno a questioni logistico-organizzative (a partire dal cronico sovraffollamento e dalla ancora più cronica assenza di servizi, occasioni e relazioni), che però sono esse stesse un effetto, e non una causa, della disumanizzazione della galera, la quale – come è noto e ormai accettato – non è a immagine di quel che prescrive la nostra Costituzione, ma a somiglianza di ciò che il sistema politico italiano, senza differenze significative, ritiene che debba essere la funzione politica e sociale della pena.
Dire “il sistema politico italiano”, poi, non è una generalizzazione gratuita, ma la fotografia fedele di una sostanziale continuità nelle politiche di esecuzione della pena, su cui la destra ha imposto certamente il suo timbro, ma su cui il Partito democratico e la sinistra hanno evitato accuratamente la sfida per non scoprirsi sul fronte securitario. I più attenti e memori ricordano lo snodo della fine della XVII legislatura, in cui il Governo Gentiloni evitò di emanare un decreto legislativo già pronto in materia di pene alternative (il primo e necessario modulo di riforma dell’ordinamento penitenziario) per paura di pagare dazio, poco più di un mese dopo, alle elezioni politiche.
Rimane il fatto che basta scorrere l’elenco dei suicidi (e delle morti in carcere per altra causa) dell’ultimo quarto di secolo per vedere che le prigioni italiane rimangono posti poco vivibili e molto mortali, in un senso tragicamente letterale e con una tendenza al peggioramento.
Non c’è alcuna speranza che la situazione si modifichi per puro scrupolo umanitario e diligenza burocratica, senza mettere in discussione il presupposto ideologico di “questa” galera, che, proprio in quanto ideologico, resiste a qualunque smentita sperimentale. Si ha un bel da dimostrare che i benefici penitenziari riducono la recidiva dei detenuti, che aggravare le pene non riduce affatto i reati e che i tassi di carcerazione e criminalità sono spesso correlati in un modo paradossale e sono le norme più “carcerogene” a essere più criminogene (come ad esempio quelle sulla droga).
Anche nei momenti più liberi e eccelsi del suo garantismo convegnistico-accademico il non ancora ministro Carlo Nordio in tema di esecuzione della pena non ha mai nascosto un approccio signorilmente reazionario e sostanzialmente allineato alla retorica della fermezza.
Ad esempio, sul referendum in materia di carcerazione preventiva, promosso lo scorso anno dal Partito Radicale con la Lega, sostenuto per onore di firma dalle altre forze del centro destra e vanificato, come quasi sempre accade negli ultimi decenni, dalla strategia astensionistica, Nordio si schierò sì a favore, ma spiegando che il problema italiano non era solo che in galera fosse facile entrarvi da innocenti (detenuti in attesa di giudizio), ma anche quello che fosse troppo facile uscirne da colpevoli (condannati con sentenza definitiva).
La tesi cara alla premier Giorgia Meloni per cui il garantismo riguarda il processo, ma non la pena, su cui è doveroso invece essere giustizialisti, non è quindi una fuga in avanti della Presidente del Consiglio rispetto agli insegnamenti del suo precettore liberale, ma una libera e coerente traduzione rusticana del pensiero del Ministro della Giustizia.
L’equivalenza tra la certezza della pena e la non derogabilità della galera per l’intera durata della sanzione detentiva comminata dal giudice è uno di quegli spropositi, a cui il legislatore normalmente ricorre per giustificare e consolidare il pervertimento della funzione costituzionale della pena, fatta coincidere con una legge del taglione appena civilizzata, in cui la mutilazione della mano o della testa del colpevole è surrogata da una parziale o totale, ma comunque perfettamente corrispettiva, mutilazione della sua libertà personale.
La certezza della pena, secondo Costituzione, significa che il sistema penale deve essere concretamente in grado di perseguire i reati e di condannarne i colpevoli, non che le modalità di esecuzione della pena non possano (anzi debbano!) essere graduate, nella forma e nella durata, coerentemente all’obiettivo di restituire il reo alla vita sociale, senza che torni a rappresentare un pericolo.
Se non si riparte da cosa dovrebbe essere la pena secondo la legalità costituzionale e non la si dissocia concettualmente dalla galera, non c’è alcuna speranza che questa cessi di essere un tormento e un oltraggio all’umanità dei detenuti. E i suicidi di molti di loro continueranno a fare pendant a una Costituzione suicidata.
C ’è qualcuno al Governo che abbia letto il rapporto di Antigone? Carceri reperti storici, 7 detenuti su 10 dovrebbero stare fuori (e 100mila sono i condannati a piede libero). Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 2 Giugno 2023
C’è qualcuno che, al Governo del nostro Paese, abbia letto il rapporto di Antigone sulle carceri italiane? Sono semplici dati, descrittivi di una emergenza democratica e civile che solo persone irresponsabili potrebbero continuare ad ignorare. Se c’è chi ha da confutarli lo faccia, ma ignorarli è impossibile, salvo che la Politica non voglia deliberatamente venire meno alle proprie inderogabili responsabilità.
L’indice di sovraffollamento continua ad aumentare, con punte degne delle carceri sudamericane: Tolmezzo 190%, San Vittore 179%, Bergamo 178%, per fare solo qualche esempio. Ma è il dato strutturale che ci fa capire l’ineluttabilità di questo trend della vergogna: mentre la capienza nel 2022 è aumentata dello 0,8%, le presenze sono aumentate quasi del 4%. L’età media dei detenuti aumenta a vista d’occhio, con le ovvie ricadute sulla gestione del diritto alla salute: il 30% della popolazione detenuta è over 50, mentre sono raddoppiati (1.100) gli over 70 (e meno male che la norma preveda in tal caso di privilegiare la detenzione domiciliare!).
Le condizioni nelle quali versano i detenuti dovrebbero farci vergognare, sempre che ce ne importi qualcosa: nelle nostre carceri, il 40% delle quali sono edifici costruiti in un arco di tempo che va dal 1800 al 1950, il 45% di quelle celle sovraffollate sono prive di acqua calda, il 12,4% sono prive di riscaldamento, il 56% sono prive di docce. Nel 35% di esse, non è garantito lo spazio minimo dei 3 mq (tre!) imposto dalle regole europee, e prima ancora dal senso di decenza e di rispetto minimo della dignità umana. Ma il dato a mio parere davvero esplosivo dal punto di vista della politica carceraria, che interroga le responsabilità del Parlamento e del Governo sulle strategie di fondo, ammesso che ve ne siano, riguarda l’entità delle pene che i detenuti definitivi stanno scontando.
I detenuti che devono scontare oltre 20 anni di pena sono il 6,6%; gli ergastolani il 4,8%; quelli con un residuo pena inferiore a tre anni sono il 51%, mentre un altro 18% deve scontare pene inferiori ad un anno. Cosa significa questo? Che quasi il 70% dei definitivi hanno diritto di chiedere, e se meritevoli di ottenere, forme di detenzione alternative al carcere. Ma i Tribunali di Sorveglianza sono letteralmente travolti dai fascicoli, e prima ancora il personale che deve “osservare” e relazionare sui detenuti, è drammaticamente insufficiente (a Regina Coeli, per dire, un solo educatore ogni 300 detenuti).
Al contempo, ascoltatemi, c’è un esercito (quasi centomila!) di c.d. “liberi sospesi”, cioè condannati definitivi a piede libero, che devono scontare la pena (inferiore a 4 anni), e che attendono (da anni e per anni) di sapere dai rispettivi Tribunali di Sorveglianza se dovranno farlo in carcere o ai servizi sociali. Fatevi una risata: secondo i fautori della teoria “certezza della pena=carcere”, dovrebbero tutti aggiungersi agli attuali detenuti. Non credo di dover aggiungere altro.
Dunque, anche un bambino di media intelligenza capisce che lo snodo cruciale è, da subito, organizzare e investire massicciamente su serie, efficienti e controllate misure alternative al carcere, destinandovi denaro, personale, strutture adeguate. Per tre anni, la vasta comunità di magistrati, avvocati, accademia, operatori carcerari, riunita negli Stati Generali della Esecuzione penale, ha affrontato la questione, infine producendo (2016) soluzioni di formidabile qualità tecnica.
Sono articolati già pronti, a lungo discussi e condivisi da chi sa di cosa si stia parlando. Basterebbe che almeno il Ministro Nordio facesse una chiacchierata con chi presiedette quei lavori, il Prof. Glauco Giostra. Sempre che si abbia voglia di affrontare sul serio la questione, e non si voglia invece continuare con slogan insensati tipo “garantisti nel processo, giustizialisti nell’esecuzione della pena”. Leggete quei numeri, e poi domandatevi: ma che diavolo significa?
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Estratto dell’articolo di Grazia Longo per "la Stampa" il 31 maggio 2023.
C'è il sovraffollamento, con 9 mila detenuti in più di quelli previsti (i presenti nelle nostre carceri al 30 aprile erano 56.674) e un tasso medio del 119% tanto che peggio di noi in Europa ci sono solo Cipro e la Romania. C'è l'emergenza suicidi, con 23 casi dall'inizio dell'anno e 85 nel 2022. C'è la questione igienico-sanitaria, con celle senza bagni e senza acqua calda.
Ma soprattutto c'è l'allarme violenze e torture. Non a caso l'ultimo rapporto di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale che ogni anno fotografa la situazione nelle prigioni, si intitola «È vietata la tortura». Lo certificano i 13 procedimenti a carico di poliziotti penitenziari per violenze e torture, tra quelli attualmente in corso, in cui l'associazione si è costituita parte civile. […]
In metà delle carceri italiane non c'è neanche l'acqua calda, in alcuni istituti non funziona nemmeno il riscaldamento. Innanzitutto ci sono strutture dove nelle celle i detenuti vivono con meno di 3 metri quadrati calpestabili a testa. Non è un caso che nel 2022 siano state 4.514 le condanne inflitte allo Stato dai tribunali per condizioni di detenzione inumane e degradanti, legate soprattutto all'assenza di spazio vitale.
Per quanto concerne il sovraffollamento la maglia nera spetta alla Lombardia dov'è al 151,8%, seguita dalla Puglia (145,7%) e dal Friuli-Venezia Giulia (135,9%). A livello di istituti, il carcere più affollato è Tolmezzo (190%), seguito da Milano San Vittore (185,4%), da Varese (179,2%) e da Bergamo (178,8%). In prigione, inoltre, manca il lavoro e soprattutto quello qualificato.
Lavora, a tempo parziale o ridotto, il 35,2% dei detenuti (19.817), percentuale in cui vengono conteggiati anche coloro che, con turni a rotazione, sono impegnati poche ore al mese. Circa due detenuti su tre non hanno accesso ad alcuna forma di lavoro. La stragrande maggioranza, ovvero l'86,8%, lavora alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, impegnata in piccole attività interne poco spendibili nel mondo lavorativo.
Solo il 4,6% della popolazione detenuta lavora alle dipendenze di datori di lavoro esterni. In aumento è il disagio psichico e tra il personale in servizio c'è carenza soprattutto di educatori: in media ognuno di loro deve occuparsi di 71 reclusi, ma di 330 se è in servizio a Roma, a Regina Coeli. […]
Sovraffollamento, suicidi e torture: lo stato delle carceri italiane in un rapporto. Roberto Demaio su L'Indipendente il 31 maggio 2023.
Sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie impossibili, suicidi, violenze e torture. È questo lo stato delle carceri italiane. In Europa solo Cipro e Romania hanno tassi di sovraffollamento peggiori dei nostri. Ci collochiamo al trentaseiesimo posto invece per tassi di detenzione, ossia numero di detenuti rispetto a cittadini liberi. Il tasso di sovraffollamento in Italia è del 119%. Puglia (145,7%), Lombardia (151,8%) e Liguria (126,5%) le regioni più critiche. Pesa anche la custodia cautelare, pari al 26,6% del totale e prima tra le misure cautelari irrogate. Al 30 aprile i detenuti nelle carceri italiane erano 56.674, numero decisamente maggiore dei posti totali disponibili, ovvero 51.249. È ciò che emerge dal diciannovesimo Rapporto Antigone sulle condizioni di detenzione. Per circa il 20% dei detenuti vi è una sistemazione precaria. Ben 85 persone si sono tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario nel corso del 2022 su 214 morti totali. Nei primi mesi del 2023 sono già 23. Il 40% fa uso abituale di psicofarmaci. Le donne sono il 4,4%, mentre sono ancora 22 i bambini dentro. Quasi un detenuto su tre è straniero. Marocco, Romania, Albania, Tunisia e Nigeria le nazionalità più rappresentate.
Dal 30 aprile 2022 la capienza ufficiale è cresciuta dello 0,8%, mentre le presenze sono cresciute del 3,8%. I detenuti nelle carceri italiane erano 56.674, cioè 5.425 in più rispetto alla capienza regolamentare. Per quanto riguarda i singoli istituti, i valori più alti si registrano a Tolmezzo (190,0%), a Milano San Vittore (185,4%), a Varese (179,2%) e a Bergamo (178,8%). Come denunciato da Antigone sul proprio sito, tali dati sono stati registrati tutti tra gli istituti in cui le condizioni di vita e di lavoro sono più complicate. Nel 35% delle carceri visitate la dimensione delle celle non garantisce 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta, nel 12,4% ci sono celle in cui il riscaldamento non è funzionante. Nel 45,4% degli istituti visitati vi sono celle senza acqua calda e nel 56,7% senza doccia. Le imputazioni dei processi in corso sono agghiaccianti: schiaffi ed insulti, sputi, pugni, persone costrette a bere l’acqua del water. Tra le vittime sembrerebbero esserci persino detenuti disabili.
La situazione della salute mentale è decisamente critica: tra i detenuti il 40% fa uso di psicofarmaci. Il 2022 è stato l’anno record di suicidi. Sono 85 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario su 214 morti totali, cioè quasi il 40%. Più di una ogni 4 giorni. Nei primi mesi del 2023 sono già 23. Le persone straniere sono 36, delle quali 20 senza fissa dimora. L’età media è di 40 anni. La persona più giovane è un ragazzo di 20 anni, la più anziana un signore di 71. 50 persone si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione. Addirittura 21 nei primi tre, 16 nei primi dieci giorni. Di queste, 10 entro le prime 24 ore dall’arrivo in cella. Delle 85 persone che si sono tolte la vita, 28 avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio. In 68 erano coinvolte in altri eventi critici. 24 di loro erano state sottoposte alla misura della “grande sorveglianza” e 19 lo erano anche al momento della morte.
Erano 2.480 alla fine del mese di aprile le donne detenute nelle carceri italiane, pari al 4,4% della popolazione carceraria complessiva. Una percentuale sostanzialmente stabile nel tempo, che non raggiunge i cinque punti dagli inizi degli anni ‘90 del secolo scorso. È notevole lo scarto con il numero totale di denunce alle donne, cioè ben il 18,3% del totale. Le detenute sono ospitate in parte nelle quattro carceri femminili presenti in Italia, che si trovano a Roma, Venezia, Pozzuoli e a Trani. Ben 1.853, pari ai tre quarti del totale, vivono nelle 45 sezioni femminili attive in questo momento all’interno di carceri a prevalenza maschile. Nonostante le donne in carcere siano destinatarie di condanne a pene tendenzialmente inferiori rispetto a quelle degli uomini, esiste un dato allarmante: sono circa 4.000 i figli di donne detenute nelle carceri italiane e di questi 22 alla fine di aprile vivevano in carcere con la madre.
Tra i 56.674 carcerati, gli stranieri sono circa il 31,3%, corrispondenti a 17.723 unità. Il tasso di detenzione è pari a circa 340 detenuti ogni 100mila unità, sostanzialmente maggiore rispetto al tasso di detenzione dei detenuti italiani (pari a circa 95 detenuti ogni 100mila abitanti). Le percentuali più alte si registrano al nord. Picchi in Valle d’Aosta (61,4% sul totale), Trentino (61%) e Liguria (54%). Ben 12.568 detenuti risultano condannati in via definitiva, lievemente in aumento rispetto allo scorso anno. La presenza più massiccia è rappresentata da detenuti di origine marocchina (20,3%), seguiti da detenuti romeni (11,6%), albanesi (10,3%), tunisini (10,1%) e nigeriani (7,1%). Le pene inflitte più frequenti sono quelle più brevi. Più della metà (55,2%) sono minori ai 5 anni e solo 123 (al contrario dei 1733 italiani) sono stati condannati all’ergastolo. [di Roberto Demaio]
Rapporto di Antigone sulle nostre prigioni: suicidi, violenze e torture in meno di 3 metri quadri a testa. Andrea Oleandri su L'Unità il 31 Maggio 2023
Sovraffollamento, suicidi, violenze e torture. Il quadro che emerge dal XIX rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, racconta di un sistema penitenziario che ha urgente bisogno di interventi e riforme. Il sovraffollamento è un problema ormai endemico, certificato anche dai tribunali di sorveglianza che, solo nel 2022, hanno accolto 4.514 ricorsi di altrettante persone detenute (o ex detenute), che durante la loro detenzione hanno subito trattamenti inumani e degradanti, legate soprattutto alla mancanza di spazi.
All’indomani della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Torreggiani, la Corte di Strasburgo, tra i rilievi mossi all’Italia, aveva segnalato anche la mancanza di meccanismi di rimedio interni a cui fare ricorso in caso di violazione – nel caso specifico – dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, quello che per l’appunto proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante, anche in riferimento all’assenza dello spazio minimo vitale di 3 mq a persona detenuta. Era dunque intervenuta una modifica dell’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario introducendo nuovi rimedi preventivi e risarcitori in favore dei detenuti o attraverso la riduzione della pena di un giorno per ogni dieci giorni passati in condizioni inumane e degradanti per chi si trova ancora in carcere mentre, per chi ha già ultimato di scontare la propria pena, il riconoscimento di 8 € per ogni giorno passato in tali condizioni.
Una situazione di sovraffollamento e di potenziale violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu che anche ancora oggi permane. Nel 2022, dai dati raccolti dall’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone nelle 97 carceri visitate in tutto il paese, nel 35% degli istituti c’erano infatti celle in cui non erano garantiti 3 mq. calpestabili per ogni persona detenuta. Mentre il tasso di affollamento effettivo, al netto dei posti non disponibili, al 30 aprile 2023, era pari al 119%, con circa 9.000 persone di troppo rispetto ai posti realmente disponibili. In alcune regioni la situazione è ancor più preoccupante. In Lombardia, ad esempio, dove il tasso di affollamento è del 151,8%, in Puglia (145,7%) e Friuli Venezia Giulia (135,9%). Nel carcere di Tolmezzo l’affollamento è del 190%, a Milano San Vittore del 185,4%, a Varese del 179,2% e a Bergamo 178,8%.
Il sovraffollamento, oltre a limitare gli spazi vitali, toglie alle persone detenute anche possibilità lavorative, di studio o di svolgere altre attività. Facendo riferimento solo al tema del lavoro, al 31 dicembre 2022 i detenuti lavoratori erano 19.817, pari al 35,2% dei presenti. Tra questi vengono conteggiati anche coloro che, con turni a rotazione, lavorano poche ore al mese. Circa due detenuti su tre non avevano accesso ad alcuna forma di lavoro. La stragrande maggioranza dei detenuti lavoratori, ovvero l’86,8%, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, impegnata in piccole attività interne poco spendibili nel mondo lavorativo. Solo il 4,6% della popolazione detenuta lavora alle dipendenze di datori di lavoro esterni.
Da questo punto di vista non offrono grande aiuto le strutture. Nel 30% dei 97 istituti visitati da Antigone nel 2022 non c’erano spazi adeguati per le lavorazioni (e in 3 istituti – Fermo, Messina e Lecco – non c’erano nemmeno gli spazi per la scuola). Il sovraffollamento impatta poi anche sul lavoro degli operatori, già oggi al di sotto delle dotazioni previste nelle piante organiche. Per quanto riguarda il personale di Polizia penitenziaria, sono effettivamente presenti 31.546 unità. Per quanto siano del 15% inferiore rispetto a quelle previste in pianta organica, il rapporto è comunque di un poliziotto penitenziario ogni 1,8 detenuti.
Un problema enorme è quello che riguarda invece i funzionari giuridico pedagogici (educatori). Sono 803 quelli che lavorano nelle carceri italiane, a fronte dei 923 che sarebbero previsti in pianta organica. In media ciascun educatore deve occuparsi di 71 persone detenute ma singole situazioni presentano dati ben più preoccupanti: nel carcere romano di Regina Coeli, dove sarebbero previsti 11 educatori, ce ne sono invece solo 3, per un numero di detenuti che si attesta attorno alle 1.000 unità. Ogni educatore deve dunque occuparsi di oltre 330 persone detenute.
In questa condizione è difficile poter costruire percorsi personalizzati di reinserimento sociale, occuparsi tempestivamente delle relazioni che sono elemento fondamentale per i magistrati di sorveglianza per poter decidere in merito alla concessione di misure alternative alla detenzione. Fortemente sotto organico sono anche psicologi e psichiatri. Dalla rilevazione diretta di Antigone nel 2022 emerge come le diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti siano state 9,2 (quasi il 10%). I detenuti che assumevano terapie psicofarmacologiche importanti quali stabilizzanti dell’umore, anti-psicotici o antidepressivi erano il 20%, una percentuale doppia rispetto a quella dei detenuti con una diagnosi grave.
Addirittura il 40,3% assumeva sedativi o ipnotici. A fronte di tutto ciò, le ore di servizio degli psichiatri erano in media 8,75 ogni 100 detenuti, quelle degli psicologi 18,5 ogni 100 detenuti. Benché ogni suicidio sia un caso personale, che dipende da tante dinamiche, le situazioni appena descritte – insieme ad altre che si aggiungono nella vita in carcere, come ad esempio il rapporto limitato con le famiglie a causa di norme su telefonate e colloqui molto stringenti – non possono che avere un ruolo nel numero altissimo di questi gesti estremi che si registrano nelle carceri italiane. 85 lo scorso anno, già 23 nei primi 5 mesi del 2023. Con un tasso di suicidi che in questi luoghi è 23 volte superiore a quello che si registra nel mondo libero. Andrea Oleandri Responsabile comunicazione Antigone
Il diciannovesimo Rapporto di Antigone. Maltrattati e risarciti, il dramma delle carceri italiane tra bimbi, celle minuscole e misure alternative inapplicate. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 30 Maggio 2023
Nel 2022 un suicidio ogni quattro giorni, più di un detenuto su tre in cella per droga, sovraffollamento inferiore solo a Cipro e Romania. E poi ancora: accolta oltre una richiesta su due di risarcimento per l’inferno in cui si è costretti a vivere, ovvero celle (una su tre) con meno di 3 metri quadri per detenuto. Sono solo alcuni, inquietanti, aspetti del diciannovesimo Rapporto di Antigone sulle condizioni disumane di detenzione che ci sono in Italia tra bimbi in cella con le madri (sono 22 nell’ultimo anno) e chi ha meno di tre anni da scontare e potrebbe usufruire delle misure alternative che non vengono applicate.
SUICIDI, 2022 ANNO NERO – Sono stati 23 i suicidi in carcere in questi primi cinque mesi del 2023. L’anno scorso era passato alla storia come l’anno con più suicidi in carcere di sempre, con 85 persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario nel corso del 2022 – su 214 morti totali – ovvero più di una ogni quattro giorni. Cinque i suicidi avvenuti nel solo carcere di Foggia. Negli istituti penitenziari i suicidi sono stati 23 volte superiori rispetto ai suicidi in libertà. Delle 85 persone suicidatesi, 5 erano donne. Le persone straniere erano 36, delle quali 20 senza fissa dimora. L’età media era di 40 anni. La persona più giovane era un ragazzo di 20 anni, la più anziana un signore di 71.
La maggior parte di queste persone (50, ossia quasi il 60%) si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione. Addirittura, 21 nei primi tre, 16 nei primi dieci giorni e 10 addirittura entro le prime 24 ore dall’arrivo in carcere. Delle 85 persone morte per suicidio nel 2022, 28 avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio (in 7 casi addirittura più di un tentativo). In 68 (pari all’80%) erano coinvolte in altri eventi critici. 24 di loro erano state sottoposte alla misura della “grande sorveglianza” e di queste 19 lo erano anche al momento del suicidio.
SOVRAFFOLLAMENTO, PEGGIO SOLO CIPRO E ROMANIA – In Italia sono detenute oltre 9mila persone in più rispetto alla capienza effettiva degli istituti penitenziari. Il tasso effettivo di sovraffollamento medio è del 119%. Ossia per circa il 20% dei detenuti vi è una sistemazione precaria. Il record è della Lombardia con un sovraffollamento pari al 151,8%. A fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti, i presenti nelle nostre carceri al 30 aprile erano 56.674, ovvero 5.425 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Ai posti regolamentari come è noto vanno però sottratti i posti non disponibili, che a maggio 2023 erano 3.646. Così infatti scrive il Ministero nelle sue statistiche ufficiali: “Il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato”.
A fronte di un tasso di affollamento ufficiale medio del 110,6%, oggi le regioni più affollate sono la Puglia (137,3%), la Lombardia (133,3%) e la Liguria (126,5%). Tuttavia, considerando i posti conteggiati e non disponibili l’affollamento reale è del 119%. Anche a livello regionale i dati cambiano e le regioni dove si registrano le situazioni più preoccupanti sono: Lombardia (151,8%), Puglia (145,7%) e Friuli Venezia Giulia (135,9%). Come tasso di sovraffollamento l’Italia è tra le peggiori d’Europa. Solo Cipro e Romania presentano dati maggiori. Invece ci collochiamo al trentaseiesimo posto per tassi di detenzione, ossia numero di detenuti rispetto a cittadini liberi. Incarceriamo meno di Francia e Spagna, più di Germania e paesi nordici.Per quanto riguarda i singoli istituti, i valori effettivi più alti si registrano a Tolmezzo (190,0%), a Milano San Vittore (185,4%), a Varese (179,2%) e a Bergamo (178,8%).
UNA CELLA SU TRE CON MENO DI 3 METRI QUADRI – Nel 35% delle carceri visitate l’anno scorso da Antigone c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta. Nel 12,4% c’erano celle in cui il riscaldamento non era funzionante. Nel 45,4% degli istituti vistati c’erano celle senza acqua calda e nel 56,7% celle senza doccia. A Fermo, Messina e Lecco mancano gli spazi per la scuola Nel 30% degli istituti visitati non c’erano spazi adeguati per le lavorazioni ed in 3 istituti (Fermo, Messina e Lecco) non c’erano nemmeno gli spazi per la scuola. Nel 25,8% degli istituti visitati non c’era un’area verde per colloqui nei mesi estivi.
PIU’ DONNE DETENUTE – Dal 30 aprile 2022 la capienza ufficiale è cresciuta dello 0,8%, mentre le presenze sono cresciute del 3,8%. È aumentato soprattutto il numero delle donne, cresciuto del 9%, mentre l’aumento degli stranieri, del 3,6%, è più o meno in linea con quello della popolazione detenuta complessiva.Nel corso dell’ultimo anno la popolazione detenuta è cresciuta soprattutto in Trentino-Alto Adige (+11,7%), in Calabria (+9%) e nel Lazio (+7,5%). Antigone evidenzia come sul sovraffollamento pesi la custodia cautelare pari al 26,6% del totale, in calo rispetto al passato ma più alta rispetto alla media europea.Al 30 aprile dei 56.674 presenti 7.925, il 13,9%, erano in attesa di primo giudizio, 3.629 (6,4%) gli appellanti e 2.458 (4,3%) i ricorrenti. I definitivi erano 41.628, il 73,4% dei presenti, e gli internati in case di lavoro o colonie agricole erano 282. Se si guarda ai soli stranieri, quelli in attesa di primo giudizio erano il 15,6% ed i definitivi il 70,9%. La percentuale delle persone in custodia cautelare continua costantemente a calare. Alla fine del 2022 era del 27,8%, alla fine del 2021 del 29,9% ma ad esempio 10 anni prima, alla fine del 2011, raggiungeva il 40,8%.
AUTOLESIONISMO PER UNA DONNA SU TRE – Nel corso del 2022, gli atti di autolesionismo negli istituti penitenziari italiani, sono stati 30,8 ogni 100 presenze tra le donne, contro i 15 degli istituti esclusivamente maschili.Nel corso del 2022 l’associazione ha vistato 97 istituti penitenziari. Tra questi 64 case circondariali, 22 case di reclusione, due istituti a custodia attenuata (Eboli e Laureana di Borrello) e l’Icam di Lauro. Il 20% di questi era stato costruito tra il 1900 ed il 1950 e un altro 20% addirittura prima del 1900.Un lavoro reso possibile grazie agli oltre cento volontari-osservatori di Antigone e alla disponibilità non ovvia dell’amministrazione penitenziaria, e di tutti quei direttori, comandanti di reparto, poliziotti, funzionari pedagogici, medici, infermieri, mediatori culturali, assistenti sociali che portano il peso sulle spalle dell’articolo 27 della Costituzione.
Nelle carceri visitate da Antigone gli episodi di autolesionismo sono stati una media di 19 ogni 100 detenuti.Anche in questo caso i numeri variano molto da istituto a istituto: nel carcere di Ferrara si sono contati 79,6 episodi ogni 100 detenuti, nel carcere di Pisa se ne sono contati 67,5. Fra i tassi più bassi si trovano istituti piuttosto piccoli come la Casa Circondariale di Chieti (dove erano 98 i presenti al momento della visita e contava 1 episodio ogni 100 detenuti). In media 2,3 ogni 100 detenuti i tentativi di suicidio. Il dato più alto è stato registrato nella Casa Circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto (8,9 tentati suicidi ogni 100 detenuti) seguito dalla Casa Circondariale S. Anna di Modena (7,2 episodi ogni 100 detenuti presenti), ma molti sono anche gli istituti in cui non è stato registrato alcun episodio.
740 DETENUTI SEPOLTI AL 41BIS – Al 27 febbraio 2023, come riportato dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale, erano 740 i detenuti sottoposti al 41-bis di cui 728 uomini e 12 donne (tutte ristrette nella Casa Circondariale di L’Aquila, in cui è presente l’unica sezione femminile del regime 41-bis). Alla fine del 1993, l’anno successivo alle stragi di Capaci e via D’Amelio, i detenuti in 41-bis erano varie centinaia di meno, ovvero 473. Negli ultimi anni il dato sembra essersi stabilizzato fra le 740 e le 750 unità. Sono 12 le carceri italiane che ospitano detenuti in regime di 41-bis. L’istituto con più detenuti in tale regime speciale (150) è quello dell’Aquila (dove a gennaio scorso è stato trasferito Matteo Messina Denaro dopo una latitanza durata 30 anni) mentre quello che ne ha meno (3) è la Casa Circondariale di Nuoro-Baddu e Carros in Sardegna.
ERGASTOLANI – Sono 1.856 gli ergastolani, dato aggiornato al 2022. Se il loro numero è leggermente cresciuto in termini assoluti, (erano 1.810 del 2021) sono però calati in termini percentuali, passando dal 4,8% al 4,6% . Eppure – fa notare il XIX rapporto di Antigone- diminuiscono verticalmente gli omicidi. Nel 2022 sono stati 314 , quasi sei volte di meno dei 1.916 che si erano registrati nel 1991
VECCHIETTI IN CARCERE – La popolazione detenuta cresce e aumenta il tasso di invecchiamento. Sono quasi un terzo i detenuti over 50 e ben 1.117 gli over 70. Gli over 50 erano alla fine del 2022 il 29%. Dieci anni prima, alla fine del 2011, erano il 17%. Nello stesso intervallo di tempo gli over 70 sono raddoppiati, passando da 571 (1%) a 1.117 (2%). Gli under 25 dal 10 al 6%.
LE CARCERI FEMMINILI – Le donne detenute sono ospitate in parte nelle quattro carceri femminili presenti in Italia, che si trovano a Roma – dove il carcere femminile di Rebibbia, con le sue 337 detenute per 275 posti letto ufficiali, si impone come il più grande d’Europa – a Venezia, a Pozzuoli e a Trani. Gli Istituti a custodia attenuata per madri di Lauro, Milano e Torino ospitano 15 donne complessivamente. Le restanti 1.853, pari ai tre quarti del totale, vivono nelle 45 sezioni femminili attive in questo momento all’interno di carceri a prevalenza maschile. E’ quanto si legge nel diciannovesimo Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione.
IN CELLA 22 BAMBINI – Sono circa 4.000 i figli di donne detenute nelle carceri italiane e di questi, 22 alla fine di aprile vivevano in carcere con la propria madre.
FORMAZIONE PROFESSIONALE LATITANTE – Nonostante sia fondamentale in vista della ricostruzione di un percorso di vita dopo il rilascio, la formazione professionale è quasi assente nel panorama penitenziario italiano. E’ quanto si legge nel diciannovesimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. Alla fine del 2022 i detenuti coinvolti in corsi di formazione professionale erano solo il 4% dei presenti. In Abruzzo, Basilicata, Molise e Valle D’Aosta non è stato portato a termine alcun corso, mentre altre hanno registrato risultati molto bassi (4 corsi in Toscana, uno in Puglia).
ACCOLTE 4500 RICHIESTE RISARCIMENTO, PIU’ DELLA META’ – Nel 2022 sono arrivate agli uffici di sorveglianza italiani 7.643 richieste di risarcimento ex art. 35-ter dell’ordinamento penitenziario per aver subito un trattamento inumano o degradante durante la detenzione, tendenzialmente per assenza di spazio vitale. E’ quanto si legge nel diciannovesimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. Le richieste che sono state decise nel corso dello stesso anno sono state 7.859. Di queste, 4.514 (pari al 57,4%) sono state accolte. Gli accoglimenti erano stati 3.115 nel 2018, 4.347 nel 2019, 3.382 nel 2020 e 4.212 nel 2021. L’Italia viene insomma sistematicamente condannata dai suoi stessi tribunali a causa delle proprie condizioni di detenzione. Sorprende la disomogeneità del tasso di accoglimento tra i diversi uffici. Se la media nazionale nel 2022 era superiore al 50%, guardando al dato per ufficio si va da situazioni come Bologna (27,2%), Catanzaro (27,3%) o Roma (26,2%) ad altre come Brescia (82,3%), Potenza (80,6%) o Trento (83,6%).L’ex art. 35-ter prevede una riduzione della pena di un giorno per ogni dieci giorni passati in condizioni inumani e degradanti o, per chi ha già ultimato di scontare la propria pena, il riconoscimento di 8 € per ogni giorno passato in tali condizioni.
PIU’ SOLDI AL DAP MENO PER SPESA MEDIA DETENUTI – Le somme messe a disposizione del Ministero della Giustizia per il 2023 ammontano ad 10,9 miliardi, con un incremento rispetto allo scorso anno pari a quasi 870 milioni. Di tale investimento, la quota destinata al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria risulta pari a 3,3 miliardi, con un incremento rispetto allo scorso anno pari ad oltre 53 milioni (+1,6%). Nonostante ciò, la spesa giornaliera per ciascun detenuto è in diminuzione, visto l’incremento della popolazione reclusa.
PIU’ DI UN DETENUTO SU TRE IN CELLA PER DROGA – Nelle carceri italiane 20.753 persone devono scontare meno di tre anni, ossia più di uno su due dei condannati presenti. Il sistema delle misure alternative per loro non viene attivato. Se lo fosse avremmo risolto il problema del sovraffollamento. Circa 20mila i detenuti che tra le imputazioni hanno la violazione della legge sulle droghe, evidenzia l’associazione, secondo la quale, “un’altra politica sulle droghe impatterebbe sul sovraffollamento”.
Per quanto riguarda il residuo pena che scontavano le persone detenute al 31 dicembre 2022, i valori percentuali sostanzialmente non sono variati. Erano 7.259 le persone che scontavano in carcere un residuo pena inferiore all’anno, il 18% dei presenti, e 20.753 quelli che scontavano un residuo inferiore ai 3 anni, il 51,5% dei definitivi presenti. La maggior parte della popolazione detenuta si trova in carcere per delitti contro il patrimonio, con un totale di 32.050, subito seguiti da quelli contro la persona (24.402) e quelli in violazione della normativa sulle droghe (19.338). Al quarto posto le persone detenute per reati contro la pubblica amministrazione sono 9.302; al quinto per associazione di stampo mafioso, pari a 9.068.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
La conferenza dell’Ordine assistenti sociali. Carceri, tribunali e comunità: quando lo Stato diventa nemico. Barbara Rosina su Il Riformista il 17 Gennaio 2023
La Riforma Cartabia è sotto accusa. In questi giorni i media si occupano di giustizia perché c’è il rischio della probabile revoca di misure cautelari per reati procedibili a querela. Oggi si parla di carcere perché qualche boss potrebbe uscirne o non entrarci, ma, a meno di suicidi, pestaggi, rivolte, morti… l’occhio distratto dell’informazione – con le necessarie eccezioni – guarda altrove.
Giustizia, carcere, ma anche aule di tribunali, questure, uffici, dipartimenti di salute mentale, servizi sociali. Luoghi dove chi ti dovrebbe proteggere ti colpisce, dove una vittima diventa colpevole, dove l’Autorità fa ingiustizia. Parliamo di violenza istituzionale, parliamo di Stato nemico e ne parliamo noi, assistenti sociali, non per puntare il dito contro gli altri, ma perché in tanti, dai giudici, agli avvocati, dalle forze dell’ordine agli impiegati, ai medici, ai professionisti, dobbiamo capire e cambiare. Perché dobbiamo riflettere e discutere per non commettere, mai, mai, nessun errore sulla pelle dei più vulnerabili.
Lo facciamo con la nostra quarta conferenza nazionale – dopo “Povertà ed esclusione”, “Lavoro e dignità”, “Periferie umane e materiali” – il prossimo 20 gennaio a Firenze dove insieme a specialisti e politici cercheremo di dare le risposte a quegli “esperti per esperienza” che ci hanno suggerito priorità e proposte contro la “Violenza istituzionale”. Abbiamo scelto Firenze perché quando parliamo di Stato nemico, non vogliamo dimenticare che proprio nel territorio toscano era presente la comunità del Forteto dove molte persone affidate per ragioni di cura e sostegno, sono state maltrattate e abusate per decenni. Le inchieste hanno fatto emergere non soltanto fatti delittuosi, ma anche i comportamenti negligenti di chi doveva vigilare; un clima di paura e timore che per persone che avevano subito nella vita vicende familiari difficili e che il Forteto aveva aggravato. È questa una vicenda che ha doverosamente creato interrogativi anche sul funzionamento di alcuni uffici giudiziari, sul comportamento di magistrati, sugli organi della pubblica amministrazione competenti in materia di tutela dei soggetti più deboli, sull’organizzazione dei servizi territoriali di assistenza ai minori, sui sistemi di decisione e controllo.
Ma Firenze chiama Italia con le carceri sovraffollate (107,7% il dato ufficiale); con il record di suicidi in cella (84 nel 2022, dati Antigone), la metà delle persone che si sono tolte la vita era in attesa di giudizio; con la violenza, fino alla morte di detenuti; con la trasformazione delle vittime in colpevoli nelle aule dei tribunali attraverso magistrati, avvocati, consulenti tecnici; con i sette mesi per avere un permesso di soggiorno e i sei anni di media per la conclusione di un processo… Come assistenti sociali non abbiamo voce su molte delle violenze elencate, ma siamo nei luoghi dove queste si commettono ogni giorno, spesso senza che nessuno se ne accorga o ne parli. Conosciamo bambine e bambini, adolescenti, donne, migranti, persone private della libertà o con problemi di dipendenza. Per questo, dopo averne parlato con chi queste ferite le vede sulla propria pelle, chiediamo riunioni all’interno di carceri, ospedali, comunità, per migliorare la condizione di persone con problemi di tossicodipendenza; un programmazione nazionale di interventi nel rispetto delle leggi 833 e 180, delle indicazioni dell’Oms, della convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e fragilità; l’attuazione, a livello nazionale e con il sostegno della politica, di un piano di sensibilizzazione e informazione sulla violenza istituzionale.
Noi tutti dobbiamo essere richiamati a chiare responsabilità quando non interveniamo dove dovremmo, quando non coinvolgiamo le persone nelle decisioni, quando avalliamo una politica pubblica che non promuove e non è orientata ai diritti. Respingendo strumentalizzazioni, giudizi sommari, criminalizzazione della professione per biechi interessi politici – non dimentichiamo Bibbiano – condanniamo chi sbaglia e lavoriamo per comprendere gli errori commessi e non farne mai più. Prima delle riforme del Pnrr, prima degli interventi della Corte Europea dei Diritti umani, ci sono ministri, parlamentari, magistrati, avvocati, forze dell’ordine, assistenti sociali, professionisti vari che possono e devono fare la differenza. Tutti, nessuno escluso. Perché lo Stato – in ogni sua forma – non sia un nemico.
Barbara Rosina Vicepresidente Consiglio Nazionale Ordine Assistenti sociali
Quando c’era la pena di morte in Italia, l’ultima esecuzione nel 1947. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 21 Dicembre 2022
Me la ricordo, la pena di morte. Ricordo il senso di morbosità e paura con cui vedevo le fotografie sulla prima pagina del Messaggero che mio padre portava a casa. La morte era somministrata, questo il verbo, mediante fucilazione nella schiena nel forte Bravetta a Roma, sicché si vedevano nelle immagini confuse dei grigi con corpi ciondolanti dalla sedia oppure caduti, spesso con il cappotto, talvolta con il cappello volato via con un po’ di cervello. Il fascismo era finito, la guerra era finita, ma i tribunali seguitavano ad infliggere pene di morte finche l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana non mise fine per sempre all’antica usanza.
Il Regno d’Italia aveva sospeso la pena capitale per trent’anni prima che Mussolini la reintroducesse per reati e attentati contro sé stesso e i regnanti. Le esecuzioni erano affidate alla polizia giudiziaria che usava plotoni armati di vecchi moschetti di calibro poco letale e di canna troppo corta. I giustiziati apparivano sempre stupefatti dell’essere ancora vivi ma quasi morti, dopo la prima scarica e rantolavano fin quando un maresciallo con la pistola faceva saltare le cervella. Le descrizioni giornalistiche delle esecuzioni abbondarono durante tutto lo scorso secolo, ed esisteva un giornalismo dedicato alle cronache degli ultimi istanti, delle ultime istanze, del colpo di grazia. Era un mondo, quello in cui la mia generazione è nata, in cui il patibolo faceva parte della vita quotidiana.
A Londra la forca funzionava come un orologio e il boia veniva a trovarti in cella col suo assistente per pesarti e trovare la taglia giusta di capestro affinché la morte avvenisse per frattura e non per strangolamento, molto gentili anche con l’ultima donna precipitata nella botola per aver ucciso un amante crudele, la storia del film Ballando con uno con uno sconosciuto. D’altra parte, era un mondo in cui arrivavano e si metabolizzavano notizie di eccidi di massa in cui l’essere umano eccelle per organizzazione e determinazione. Se nelle democrazie borghesi si mandava a morte dopo regolare processo, nelle democrazie popolari tutto era molto più vasto e sbrigativo. A Parigi si ghigliottinava nel cortile della prigione usando una macchina che non somigliava affatto a quella verticale di Robespierre, ma a una specie di attrezzo agricolo. Negli Stati Uniti, sempre all’avanguardia, si mandava la gente a friggere sulla sedia, ma anche a morire soffocata dal gas prodotto dalla caduta di cristalli velenosi in una bacinella accanto al condannato legato alla sedia. Mentre dagli oblò, giornalisti e testimoni guardavano e annotavano senza spendere emozioni.
Il filosofo inglese Bertrand Russell raccontò in una lunga intervista degli anni Sessanta ancora visibile su YouTube, del suo viaggio nella Russia rivoluzionaria quando andò da Lenin che con sua sorpresa parlava un discreto inglese. Lenin fu felice di spiegare al filosofo inglese come affrontare i problemi dei contadini: “La domenica andiamo in campagna per aiutare i contadini poveri a impiccare i loro parenti ricchi e a far penzolare dagli alberi tutti quei parassiti”. Russell corse via indignato col primo treno da San Pietroburgo, come farà poco dopo anche l’economista John Maynard Keynes. Le rivoluzioni di massa e i regimi dei socialismi nazionali hanno praticato per decenni le politiche ingegneristiche dell’uso politico del dare la morte, sicché l’evento in fondo minimalista dell’uomo solo e vinto dalla sentenza che trascorre l’ultima notte a ragionare sulla propria morte come il protagonista del Muro di Jean Paul Sartre, appare meno oscena di quanto lo sia oggi.
Oggi vediamo le foto dei giovani ventenni, maschi e femmine, impiccati a Teheran per aver indossato un velo storto o per avere chiesto la liberazione da una cricca di preti assassini. Nessuno sa che cosa accada negli enormi campi di rieducazione cinesi dove vengono trasferiti a centinaia di migliaia i giovani troppo irrequieti di Hong Kong. In Italia la pena di morte era applicata in tutti gli Stati preunitari salvo che nel granducato di Toscana dove era stata abolita con largo anticipo rispetto alla media europea. A Roma dopo l’occupazione napoleonica era stata adottata la ghigliottina, nel gergo popolare dei sonetti del Belli detta “Quajotina”, montata e smontata a Piazza del popolo oppure davanti al ponte di Castel Sant’Angelo, luogo prediletto per il taglio della testa sia nella versione plebea dello squartamento che in quella aristocratica di Beatrice Cenci che poteva pagarsi un boia di fama e di taglio fino.
Il fascismo, la guerra, l’occupazione tedesca e la Resistenza portarono l’Italia dei Savoia in fuga alla Repubblica e alla democrazia, ma ancora nel culto della morte, delle esecuzioni consentite soltanto per reati legati al fascismo, motivo per cui ancora trent0amnni dalla ine del fascismo e della guerra, l’afflizione della morte aveva ancora un carattere ambiguo, ma per lo più positivo perché associata all’idea dello “sdegno popolare”. La follia di infliggere il tormento della prigione “gettando via la chiave” e quello finale dell’esecuzione era ancora negli anni Settanta, e rientra nella concezione della guerra allo Stato borghese delle Brigate Rosse attraverso l’uso didattico della morte inflitta a uno per educarne mille.
Non discendiamo dagli angeli e la società intera non è sempre in grado di valutare e adottar il rispetto della persona, ancora prima della “tolleranza” parola già equivoca che confermerebbe la necessità di uccidere, salvo, invece tollerare, con magnanimità. Il boia si aggira ancora fra noi e indossa molte uniformi diverse, ma è sempre lo stesso antico boia che sogna di straziare e far urlare dal dolore e dalla perdita di dignità, il nemico del momento, deciso e mostrato in televisione, o sulle piazze con capo reciso e tenuto per lo scalpo, mentre le tricoteuses che sferruzzano e applaudono ogni volta che viene giù la mannaia e distrugge una vita.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Estratto dell'articolo di Maria Sorbi per “il Giornale” il 9 maggio 2023.
È andato a trovarla in carcere, le ha preso le mani tra le sue, l’ha guardata negli occhi. E ci ha visto una ragazza fragile ma con una vita davanti, non una carnefice. Con il nodo in gola e con il cuore a pezzi, Silvio Pezzotta è riuscito a perdonare Elisabetta Ballarin, la «Bestia di Satana» che quella maledetta notte del 2004 ha fissato sua figlia morire a terra senza muovere un dito per aiutarla. Magari avrebbe potuto salvarla. Lui, che in fondo non ha smesso di essere padre, è riuscito ad andare oltre la rabbia, il dolore, il ribrezzo per quella che per noi è stata una delle pagine più assurde della cronaca nera italiana, per lui il peggiore degli incubi.
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Sta cercando di perdonare anche Monica Marchioni, dopo che suo figlio Alessandro nel 2021 ha cercato di ammazzarla con un piatto di pennette al salmone avvelenate. Ma per lei il percorso morale è ancora lungo: da un lato continua a rivivere il film dell’orrore in cui si è trovata, dall’altro si sente mamma e vorrebbe riabbracciare suo figlio.
La sua storia fa riflettere su cosa sia il perdono, sulle difficoltà per raggiungerlo. Un comandamento evangelico, un atto morale, una strategia del nostro cervello per liberarsi di un fardello che ci impedisce di vivere? O forse tutte queste cose messe assieme? Sicuramente, per chi viene perdonato, è un nuovo bonus per provare a redimersi, per ricominciare da qualche parte e dare seguito, se c’è, al pentimento.
Al di là degli anni di carcere e delle condanne. Celebre è il perdono di un altro padre, Francesco di Nardo. Non ha mai lasciato sola la figlia Erika, che assieme al fidanzatino Omar, a Novi Ligure nel 2001, ha ucciso sua moglie e il figlio più piccolo con una crudeltà premeditata e impensabile per una ragazzina. Ha scelto di continuare ad essere suo padre, di occuparsi dell’unica persona rimasta della sua famiglia.
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È vero che è un gesto nobile e fa solo onore a chi lo compie. Ma esiste anche il diritto a non farlo. È quanto sostengono gli psicologi. Non per forza lavorare sul torto subìto porta all’«assoluzione» di chi lo ha commesso.
Lo spiega bene Luca Pezzullo, presidente del’Ordine degli psicologi del Veneto: «Nei percorsi di elaborazione di grossi traumi, non sempre si arriva a superarli. Accade un po’ come nelle terapie di coppia: non per forza si deve rimanere assieme, a volte si concorda che la soluzione migliore sia separarsi. Socialmente ci aspettiamo che la vittima perdoni, c’è una pressione sociale per cui se non perdona allora è cattiva anche lei. Ma nei percorsi di psicoterapia l’obbiettivo non è perdonare per forza. È rielaborare, per poter costruire un nuovo ordine dopo (e nonostante) il caos che il trauma ha creato».
Se nei percorsi psicologici delle vittime per elaborare in perdono è spesso utile che il colpevole mosti il suo pentimento (non solo a parole), anche la giustizia sembra seguire una strada simile. Con la riforma Cartabia ha preso più consistenza il concetto di giustizia riparativa, che porta a ripensare l’intero sistema penale.
Di fatto, si va oltre la mera colpevolizzazione, oltre la punizione. Chi commette un reato non è più solamente colpevole. Diventa piuttosto un agente, in negativo ma anche in positivo, perché capace di capire le sue colpe e di rimediarvi. La chiave di questa dinamica è il dialogo ed il confronto tra la vittima, l’offensore ed il suo entrourage di recupero. […]
Negli Stati Uniti esistono veri e propri centri di psicologi per l’elaborazione del perdono. Uno dei metodi più seguiti è quello di Everet Worthington, professore di Psicologia alla Virginia university, che partì da un trauma personale (lo stupro e l’uccisione della madre) per elaborare un «vademecum» utile ai suoi pazienti. Uno dei passi fondamentali per arrivare a perdonare, sostiene, è provare compassione, cioè identificarsi con l’aggressore, cercando di capire le sue emozioni.
Per questo propone il metodo della sedia vuota, uno modo per simulare un dialogo fittizio con la persona che ha commesso il crimine. Altro passaggio consigliato è la compilazione di una lettera, per «certificare» l’impegno al perdono e, in qualche modo renderlo pubblico.
Gemma Calabresi, vedova del commissario Luigi ucciso negli anni Settanta da un commando di Lotta Continua, è riuscita a parlare di perdono solo dopo 50 anni dall’attentato. Un percorso interiore lento, pieno di ostacoli e rancori, ma profondo, molto intenso, che le ha permesso di «spezzare la catena dell’odio» e liberarsene come spiega nel suo libro «La crepa e la luce». Un modo per ricucire una ferita personale e di tutto il Paese che ha segnato anni di terrore.
«Il metodo dei terroristi - ha raccontato tante volte nelle scuole - in quegli anni era quello di disumanizzare la persona che volevano colpire: lo facevano diventare un simbolo così da poterlo eliminare, autoconvincendosi di essere nel giusto. Anche io facevo così e consideravo i terroristi degli assassini. In questo modo non riconoscevo la loro umanità. Prima di essere assassini erano figli, mariti, padri. Ho ridato loro la propria umanità, questo è perdonare».
Indimenticabili, nel 1992, le parole che Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, della scorta di Giovanni Falcone, pronunciò ai funerali per le vittime della strage di Capaci. Per stare in piedi accanto al leggio ha dovuto aggrapparsi al braccio del parroco, ma al microfono ha sfoderato tutto il suo coraggio e, tremando, si è rivolta agli autori dell’attentato: «Io vi perdono ma vi dovete mettere in ginocchio» ha detto con riluttanza e una sofferenza che hanno fatto il giro di tutti i telegiornali.
[…]
Carolina Porcaro nel 2011 ha perso suo figlio Lorenzo, 18 anni, ferito mortalmente da un coetaneo originario dell’Ecuador fuori da un bar di Sovico (Monza) con il coccio di una bottiglia. Per una lite, una stupida lite. E lei, devastata dal dolore, ha sfoderato tutta la fede cristiana che ha sempre avuto: «Vorrei che tutti potessimo tornare a casa lasciando da parte ogni rancore, per un rinnovato senso di amore- aveva scritto nella lettera letta da un’amica durante la messa per Lorenzo- Vorrei fare arrivare il mio abbraccio al ragazzo che mi ha tolto il figlio e ai suoi genitori perché deve vincere il bene. Soprattutto a voi ragazzi vorrei dire che mai dobbiamo permetterci di offendere una persona ma imparare a essere un po’ più umili». […]
Le Mandela rules. Cosa sono le Mandela Rules, le regole internazionali violate dal 41 bis. Le regole del Codice Mandela sono state approvate dall’assemblea generale dell’Onu nel 2015. Ma l'Italia se ne infischia. Piero Sansonetti su L'Unità il 4 Giugno 2023
Regola 43 (…) In particolare, sono vietate le seguenti pratiche:
(a) Indefinito isolamento; (b) L’isolamento prolungato; (…)
Regola 44. Ai fini di queste regole, l’isolamento si riferisce al confinamento di detenuti per 22 ore o più al giorno, senza significativo contatto umano. L’isolamento prolungato si riferisce all’isolamento per un periodo di tempo superiore ai 15 giorni consecutivi.
Ecco, in questo giornale troverete un ampio estratto delle “Mandela Rules”, approvate dall’assemblea generale dell’Onu nel 2015. L’Italia, come la gran parte dei paesi civili, le approvò. Qui sopra vi abbiamo trascritto un pezzettino della regola 43 e della regola 44. Sono chiarissime. Non richiedono interpretazioni. Non servono avvocati o giuristi, o magistrati per decodificarle. Dicono una cosa semplicissima: l’isolamento per i detenuti può durare al massimo 15 giorni.
E’ chiaro, no? Poi le altre regole spiegano come vanno trattati i detenuti, quale deve essere il rispetto nei loro confronti, come va ridotta al minimo l’afflizione, e affermano che alla pena della privazione della libertà non può essere aggiunta nessuna pena accessoria. Proclamano solennemente che il carcere duro è illegale. Il carcere non deve mai essere duro e deve essere finalizzato solo ad evitare la reiterazione del reato e a facilitare il riscatto e la rieducazione del detenuto.
Questo codice internazionale in italiano si chiama “Codice Mandela” perché fu ispirato da Nelson Mandela, leggendario combattente sudafricano contro il razzismo e la repressione, che trascorse 27 anni della sua vita in carcere. Il codice ha come sottotitolo una frase chiara: definizione degli standard minimi di trattamento dei detenuti. Standard minimi vuol dire che al di sotto di questi si esce dal consesso dei paesi civili.
Le regole furono approvate otto anni fa. Nel dicembre del 2015. Nelson Mandela in particolare si batté perché questo codice, che è più avanzato, sostituisse le regole previste dalla Convenzione di Genova del 1955. Allora Mandela non era stato ancora incarcerato. La sua battaglia, dalla prigione, contro il regime segregazionista di Pieter Botha è molto conosciuta. Oggi l’Italia dovrebbe scegliere: con Mandela o con Botha? Con la civiltà o con gli Stati canaglia? La domanda è rivolta a molti. In particolare al ministro Nordio. (Botha alla fine della sua vita si convinse ad abbandonare le posizioni razziste e ad accogliere almeno alcune delle idee di Mandela).
Piero Sansonetti 4 Giugno 2023
Le regole internazionali. Il carcere duro è tortura, il codice Mandela: oltre i 15 giorni l’isolamento è una punizione disumana. Elisabetta Zamparutti su Il Riformista il 5 Febbraio 2023
“Sembra sempre impossibile finché non lo hai fatto” disse Nelson Mandela che pensava e agiva verso livelli sempre più elevati di tutela della dignità umana. Parole potenti, perché potente è il vissuto di chi le ha pronunciate. Un uomo costretto in carcere per 27 anni, compreso quello duro, dell’isolamento totale. Nella forza dirompente che si genera da un pensiero orientato ai valori umani, quando sorretto da un agire con essi coerenti, come è stato quello di Mandela, accade che l’intera Assemblea generale delle Nazioni Unite, parliamo dell’organismo maggiormente rappresentativo la comunità internazionale, decida di chiamare Nelson Mandela Rules proprio gli standard minimi, rivisti nel 2015, per il trattamento dei detenuti.
Vi si trova per la prima volta una definizione di cosa si debba intendere per isolamento e quale sia il tempo oltre il quale ci si comporti in modo non umano. E’ isolamento, si legge alla regola 44, il confinamento per 22 ore o più al giorno in una cella senza significativi contatti umani. E si aggiunge che è da intendersi come isolamento prolungato quello superiore a quindici giorni consecutivi. Un trattamento questo che, insieme all’isolamento indefinito, la regola 43 considera una forma di tortura o un trattamento o punizione crudele, inumana e degradante. La regola 45 stabilisce poi che, in ogni caso, è proibito l’isolamento dei detenuti che abbiano disabilità mentali e fisiche quando le condizioni possano aggravarsi in ragione della misura applicata. Va poi abolito in ogni caso per i minorenni.
Se l’Italia “culla del diritto” si guarda allo specchio di questi standard internazionali, vede riflessa l’immagine di una “tomba del diritto”. Perché nel regime di isolamento al 41bis c’è chi vi è ristretto fin dalla sua introduzione avvenuta nel 1992. Parliamo di oltre 30 anni! Se è vero come è vero che “la durata è la forma delle cose” un sistema che dura così a lungo non è un sistema democratico e di emergenza, ma un vero e proprio Regime, totalitario e di prepotenza di cui è giunta l’ora di, finalmente, liberarsi come ci siamo liberati dal regime fascista che invece è durato “solo” un ventennio. Liberarsi di un trentennio di leggi di emergenza, tribunali speciali, regimi penitenziari inumani e degradanti, distruttivi a ben vedere non solo o non tanto della vita delle sue vittime ma della vita del diritto, dello Stato di Diritto.
Senza contare che in questi regimi di isolamento, da malato vi è pure morto come ha raccontato Carmelo Gallico dalle pagine di questo giornale con suo fratello Giuseppe Gallico, agonizzante e ormai incosciente, in quella tomba scavata nel cemento che è la stanza del reparto protetto penitenziario all’interno dell’Ospedale San Paolo di Milano dove la moglie ha potuto rubare alla morte un attimo di vita stringendo la mano del marito dopo oltre 30 anni della separazione imposta dal vetro divisorio che impedisce qualsiasi contatto fisico ai detenuti del 41 bis. A questa forza mortifera di uno Stato che in nome delle ragioni di Abele diventa esso stesso Caino risponde una forza vitale. Quella che ha portato Nelson Mandela, nel carcere duro di totale isolamento in cui si trovava, a non perdere mai la speranza e ad incarnare la speranza del cambiamento. Mandela assurto dalla condizione di detenuto a quella di leader mondiale nonviolento la cui forza arriva fino a noi con le Regole delle Nazioni Unite che portano il suo nome e che hanno indotto all’aggiornamento, nel 2020, anche delle Regole penitenziarie europee approvate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Una forza costituita da un insieme di standard che vanno letti unitamente a quelli che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa definisce sulla base delle visite che effettua nei Paesi membri. Un Comitato che, monitorando il nostro Paese fin dalla introduzione di questo regime speciale ha rivolto innumerevoli raccomandazioni, financo arrivando a pensare e scrivere che l’insieme di restrizioni che connotano il regime di detenzione “41-bis” più che volto ad interrompere i collegamenti con l’esterno sembra volto ad indurre alla cooperazione con la giustizia il che ne farebbe una pratica altamente discutibile sotto il profilo dell’articolo 27 della Costituzione italiana oltre che degli strumenti internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte.
Un Comitato che ha ritenuto il ricorso all’isolamento nelle sue svariate forme, non solo il 41bis ma anche l’isolamento diurno, il 14bis, l’art 32 e via dicendo, talmente problematico da fare una visita ad hoc in Italia sull’isolamento. Ora, le Regole di Mandela, le Regole penitenziarie europee, gli standard del CPT non sono giuridicamente vincolanti ma hanno la forza morale e politica propria degli organismi sovranazionali da cui promanano. Possono dunque influenzare e influenzano le scelte delle Amministrazioni e dei Paesi. Non ci sono obblighi, non ci sono diktat ma c’è una forza più sottile, quella della persuasione che deriva dalla autorevolezza di chi indica un percorso e dalla conoscenza della natura autentica di ciò di cui si parla.
Mandela allora non ha dato solo il nome a quelle regole che sulla base del suo vissuto di prigioniero hanno ispirato il diritto internazionale, diritto che di per sé è sinonimo di limite invalicabile, cioè il limite che lo Stato pone a se stesso quando deve fare i conti con il male assoluto, con il più acerrimo dei suoi nemici. Nelson Mandela è stato insieme a Desomond Tutu il fautore di un’altra visione della giustizia. E’ successo nel suo Paese, il Sud Africa, quando nel 1995, alla fine dell’apartheid, per sanare le ferite del passato e guarire il dolore di vittime di violenze inaudite, i padri del nuovo Sud Africa non si sono affidati al solito tribunale ma hanno concepito una commissione detta “verità e riconciliazione”. La verità volta a non dimenticare le vittime: La riconciliazione per dare un futuro al Paese.
Hanno lasciato spazio a una giustizia che non punisce e separa ma riconcilia e ripara. Hanno dato vita a uno stato non spietato, ma di grazia che quel Paese ha salvato, dandogli un futuro. Nelle celle di isolamento del nostro ”carcere duro” non vi è riconciliazione, non c’è riparazione. C’è solo separazione e punizione, cioè un carcere che nel suo significato etimologico vuol dire letteralmente coercere cioè reprimere, “carcar” cioè sotterrare, tumulare. Elisabetta Zamparutti
L'uomo e il mito. Chi era Nelson Mandela, l il garantista molto Luther King e poco “Che” Guevara. Dopo il carcere, il primo presidente nero del Sudafrica sceglie la via della conciliazione. Non solo calcolo politico, ma la convinzione che con la vendetta non si va da nessuna parte. David Romoli su L'Unità il 4 Giugno 2023
Quando il 27 aprile 1994 Rolihlahla Mandela, ribattezzato Nelson dal suo insegnante alle elementari, diventò il primo presidente nero del Sudafrica grazie alla vittoria del suo African National Congress nelle prime elezioni dopo la fine dell’apartheid, il suo mito e la sua leggenda erano già del tutto definiti e universalmente diffusi.
Probabilmente è difficile, per chi oggi ha meno di 40 anni, capire cosa Mandela abbia significato per un paio di generazioni e in particolare per i giovani degli anni ‘80 del secolo scorso, gli ultimi traversati in occidente da veri movimenti di massa, pur se diversi da quelli rivoluzionari del decennio precedente. Quei nuovi movimenti erano cresciuti nel segno del pacifismo, nel corso di quella che è stata definita la “seconda guerra fredda”, dell’antinuclearismo, dopo la tragedia Chernobyl, e di Nelson Mandela. Più che al romantico e utopistico Che Guevara, Nelson/Rolihlahala (che nella lingua Xhosa significa “creatore di problemi”, Troublemaker) potrebbe essere accostato ai grandi leader neri americani degli anni ‘50 e ‘60, Malcolm X e Martin Luther King.
Ma ancora più di loro era simbolo insieme della resistenza eroica contro qualsiasi ingiustizia e di una rivoluzione possibile. Era il “prigioniero di Robben Island”, invisibile ma onnipresente, con una voce fortissima e decisa fuori dalla galera, quella della seconda moglie Winnie, una delle figure più amate di quel decennio. Condannato all’ergastolo nel 1964, aveva passato 19 anni nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, trasferito poi nel 1982 nella prigione di Pollsmoor, a Città del Capo. Incalzato da un movimento che non conosceva confini, con Mandela esaltato nelle manifestazioni di tutto il mondo, cantato dalle rockstar, osannato nei concerti di massa come nei dibattiti istituzionali, il governo del National Party iniziò a trattare la resa.
Nel 1988 propose un accordo a Madiba, come veniva chiamato Mandela dall’appellativo della sua famiglia, un ramo di quella reale dell’etnia Thembu: la sua scarcerazione, insieme a tutti gli altri prigionieri politici, e la legalizzazione dell’Anc in cambio della rinuncia alla lotta armata e a qualsiasi rapporto con il partito comunista. Tra le accuse che lo aveva portato a Robben Island c’era infatti anche quella di essere comunista. Mandela negò sempre e solo nel 2011 è stato accertato che era anche stato non solo iscritto al partito comunista ma anche membro del Comitato centrale. Mandela rifiutò l’accordo. Fu spostato comunque in un carcere di minima sicurezza, il Victor Vester nella città di Pear. L’apartheid, in vigore dal 1948, era sul punto di crollare. Il nuovo segretario del National Party de Klerk, presidente dal 1989, lo avrebbe abolito nel 1991. Mandela era stato liberato senza condizioni un anno prima, l’11 febbraio 1990.
Per i leader che devono la loro immensa popolarità alla persecuzione e alla detenzione, la liberazione è sempre un rischio. Il mito si deve confrontare con la realtà. Le aspettative altissime destate dall’aura leggendaria vengono messe alla prova dei fatti e delle capacità reali. La campagna per la liberazione di Huey P. Newton, leader del Black Panther Party, aveva reso le Pantere fortissime nei ghetti d’America, il principale movimento rivoluzionario americano forse dell’intero XX secolo. La sua liberazione di Newton segno l’inizio della fine. Capitò, almeno in parte, anche a Winnie.
Era stata la voce del recluso, la profetessa che aveva mantenuto sempre accesa e alta la fiamma, la “madre della Nazione”. La prima fotografia del leader dell’Anc libero dopo 27 anni lo vede mano per mano con lei. Ma dopo la liberazione le voci degli abusi e delle violenze compiute nel ghetto di Soweto dalla sua guardia del corpo, il “Mandela United Football Club”, che avevano già raggiunto il leader in carcere, diventarono di dominio pubblico, diventarono capi d’accusa ufficiali. Mandela decise di appoggiarla comunque, nel corso del primo processo, ma nel 1992 divorziò.
Il primo presidente nero del Sudafrica invece, dimostrò la sua immensa statura di dirigente politico proprio nei cinque anni del suo mandato, dal 1994 al 1999. Scelse la via della riconciliazione, non quella della rappresaglia. Chiamò alla vicepresidenza, nonostante se ne fidasse sempre meno, de Klerk, in coppia col quale aveva ricevuto il Nobel per la pace nel 1993. Fece il possibile per rimarginare ferite che erano in realtà profondissime, forse incurabili. Cercò di rendere il Sudafrica un paese “arcobaleno” non per modo di dire e dunque anche di rassicurare la minoranza bianca. Anche a costo di scontentare una parte della sua gente e del suo stesso partito inclusa Winnie, sempre più critica nei confronti del suo ex marito.
In parte Mandela era certamente mosso da un calcolo politico, basato sull’esperienza della decolonizzazione negli altri Paesi africani. Sapeva che la fuga della borghesia bianca, sia inglese che afrikaneer, avrebbe avuto effetti esiziali sull’economia del nuovo Sudafrica. Ma non c’era affatto solo il ragionamento freddo dello statista. La sua biografia politica è tutta segnata dal problema dei rapporti interazziali. Nella prima parte della sua militanza, negli anni ‘40, aveva abbracciato la visione drasticamente contraria a ogni alleanza inter-razziale di Victor Lembede, il più influente leader e riformatore dell’Anc, esistente sin dal 1912. Nei primi anni ‘50, però, anche in seguito ai rapporti con in comunisti e poi all’adesione al partito, aveva rovesciato la posizione razzialmente intransigente diventando il principale sostenitore della resistenza multietnica e multirazziale. La politica che adottò come presidente aveva radici profonde e meditate.
Lo strumento sul quale Mandela puntò fu la Truth and Reconciliation Commission, la Commissione per la verità e riconciliazione presieduta da un altro eroe della lotta contro l’apartheid, l’arcivescovo Desmond Tutu. Si divideva in tre diversi comitati. Quello “per le violazioni dei diritti umani” raccoglieva, spesso in seduto pubbliche, testimonianze sia delle vittime che dei persecutori, inclusi quegli esponenti dell’Anc che si erano macchiate di torture e omicidi come la stessa Winnie. L’obiettivo era far emergere tutta la verità sugli anni dell’apartheid, nella convinzione che la rimozione avrebbe reso impossibile sanare le lacerazioni.
In cambio delle testimonianze la commissione offriva la possibilità di amnistia, di cui si occupava un altro apposito comitato. Le condizioni per chiedere l’amnistia erano una piena confessione, la manifestazione convincente del pentimento e la dimostrazione che i crimini erano stati commessi per ordini ricevuti dall’alto. Le richieste di amnistia furono 7112. Ne furono accolte 849.
Un terzo comitato si occupava invece delle richieste di risarcimento. La presidenza Mandela ebbe molte luci, non solo la riconciliazione ma lo sforzo eccezionale su welfare e alfabetizzazione, e qualche ombra, soprattutto la sottovalutazione della piaga dell’Aids, ammessa in seguito dallo stesso ormai ex presidente. Anche il tentativo di pacificazione si è dimostrato con gli anni più fragile di quanto non sperasse Madiba.
Ma l’importanza di aver indicato la via di una giustizia senza vendetta, e di aver mosso comunque passi fondamentali in quella direzione, va molto oltre i confini del Sudafrica. È un messaggio al mondo e forse la dimostrazione che, per una volta, il mito aveva un suo fondamento. Nelson Mandela, l’uomo che aveva spinto l’Anc sulla via della lotta armata, non era un pacifista. Ma era uomo di guerra quanto uomo di pace. Un leader che cercava la giustizia ma senza aggiungere anelli alla catena dell’odio, come ce ne sono stati e ce ne sono ancora molto pochi. David Romoli 4 Giugno 2023
L'esortazione del giurista. Quando Piero Calamandrei esortava a visitare le carceri: “È un atto politico, bisogna aver visto”. Il carcere andrebbe abolito, perché laddove c’è strage di legalità c’è strage di vite. Farlo è difficile. Allora andrebbe svuotato il più possibile. Andrea Pugiotto su L'Unità il 4 Giugno 2023
1. Ciò che non si vede sembra non esistere. Quanto si riesce a nascondere, quindi, è come non fosse mai accaduto. Ecco perché “visitare i carcerati” è un atto politico, non solo un’opera di misericordia corporale. Lo sapeva bene Piero Calamandrei, che dedicò un intero fascicolo della rivista Il Ponte alla condizione carceraria, in sostegno all’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle carceri e sulla tortura.
Era il 1949. La sua esortazione («Bisogna aver visto») vale ora come allora: solo visitandolo, il carcere smette di essere un mondo a parte per tornare ad essere parte del nostro mondo, sottoposto alle stesse garanzie costituzionali e internazionali. Il non guardare, invece, favorisce il buio della ragione e la scomparsa di ogni umana solidarietà: «siamo ciechi perché siamo morti, oppure, se preferisci che te lo dica diversamente, siamo morti perché siamo ciechi, il risultato è lo stesso» (José Saramago, Cecità).
2. In quanto fatto sociale, l’esecuzione penale non è monopolio degli operatori penitenziari, ma va condivisa. Premier, ministri, sottosegretari, parlamentari, consiglieri regionali, membri del CSM, possono visitare le carceri senza preavviso: a farlo, sono troppo pochi. I giudici costituzionali lo fanno da qualche anno, in attesa che a entrarvi sia finalmente la Costituzione. Dovrebbero farlo i magistrati di sorveglianza, tutti e non solo alcuni. Devono farlo, per statuto, il Garante nazionale e i garanti territoriali dei diritti dei detenuti.
Dei 365 giorni all’anno, almeno metà sono trascorsi in carcere da Nessuno Tocchi Caino: autorizzato dal DAP, nel 2023 ha intrapreso un tour che ha già toccato 60 istituti di pena. Vi ho preso parte anch’io, ed era la prima volta. In passato, ho varcato la soglia di molti penitenziari: per congressi, iniziative, esami universitari. Ma non ero mai realmente entrato in un carcere, nelle sezioni, nelle celle, con il loro corteo di odori, rumori, colori, luci (artificiali, per lo più), voci e volti. A seguire, condivido qualche appunto sparso di questa istruttiva esperienza.
3. Nonostante la professionalità di agenti e operatori penitenziari («facciamo i salti mortali»), il carcere è un percolato di sofferenze. È un istituto di pena da espiare: genitivo e infinito ne rivelano l’autentica natura. La detenzione, infatti, è una punizione corporale. Si abbatte su corpi costretti in spazi angusti, dove coabitano sovraffollamento e solitudine. Privati di sessualità, consumata in forma solitaria o promiscuamente nascosta. Usati come carta pergamena o campo di battaglia: il tatuaggio e l’autolesionismo sono i codici comunicativi della galera. Distesi in cella a fissare il soffitto o la tv.
Trascinati, avanti e indietro, per il corridoio della sezione. Maniacalmente scolpiti nella domestica palestra penitenziaria. Malati in misura incompatibile con il carcere dove pure, inspiegabilmente, sono reclusi. Fino all’acuzie di corpi sopraffatti che si danno la morte (due, in pochi anni, nel carcere che ho visitato). Il dedalo di corridoi, scale, piani, e le matrioske di cancelli e blindati, ricordano le carceri d’invenzione che Giovanni Battista Piranesi incise come labirinti, in cui spazio e tempo sono dimensioni irrimediabilmente falsate: il primo si restringe, il secondo si dilata, entrambi oltremisura.
Dentro o fuori, è comunque brutto a vedersi, il carcere: per questo è dislocato oltre l’orizzonte visivo dello spazio urbano. Così confinato, ci è più agevole proiettarvi dentro i lati oscuri che rifiutiamo in noi stessi. Attiviamo cioè processi psichici illusoriamente difensivi, dato che rimozione e proiezione sono sempre sintomi di un problema irrisolto.
4. Anagrammato, reo si ricompone in ero. Il gioco di parole rivela l’impossibilità di inchiodare per sempre il detenuto al reato commesso: ecco perché le pene devono tendere al suo recupero sociale. Ma se questo è il loro fine costituzionale, il carcere mi sembra il luogo meno adatto a realizzarlo: com’è possibile reinserire, escludendo? Servirebbe un’offerta trattamentale, che qui è invece carente e solo occasionale. Sulla necessaria relazione con il mondo di fuori prevale, per quanto possibile, l’assistenza dietro le sbarre (di prossimità, ricreativa, sanitaria, soprattutto psichiatrica).
Mi aggiro per le sezioni: isolamento, giudicabili e appellanti, definitivi, protetti, AS1 e AS2 (alta e media sicurezza). Osservo. Poi ricordo: «Le pene possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono limitarsi, senza altri scopi, a contenere il condannato per il tempo necessario all’esecuzione della pena». È la formulazione capovolta dell’art. 27, comma 3, Cost. provocatoriamente proposta da Alessandro Margara, che il carcere l’ha conosciuto bene (come giudice di sorveglianza, capo del DAP, garante dei detenuti).
Ascolto i racconti dei reclusi. Comprendo quanto sia per loro essenziale «la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà individuale», come scrive la Consulta (sent. n. 186/2018). Ma è tra le poche cose che riscontro della giurisprudenza costituzionale sul finalismo penale. Da giurista, sono messo a dura prova. So bene che il fatto, per quanto ripetuto, non può farsi norma e scalzare la regola costituzionale, che ne è il parametro di giudizio. Eppure, qui dentro, la gerarchia delle fonti del diritto sembra un’ineffettiva costruzione artificiale.
5. Servirebbe uno sforzo di immaginazione. Non basta, infatti, cancellare la pena di morte, né superare la pena fino alla morte (l’ergastolo, comune e ostativo). È il carcere che andrebbe abolito, perché laddove c’è strage di legalità c’è anche strage di vite umane (ottantacinque suicidi nel 2022, mai così tanti). Ma un dispositivo abolizionista implica tempi biblici ed esiti incerti, anche solo ad assumerlo come orizzonte la cui linea orienta, ma non è mai raggiungibile.
Il carcere, però, si può svuotare il più possibile, riducendolo a extrema ratio. Come? Abbandonando ogni automatismo nel ricorso alla leva penale. Attuando una politica di radicale depenalizzazione. Recuperando gli strumenti di clemenza collettiva. Spodestando dal trono la detenzione, sostituendola con pene alternative (come ha iniziato a fare la riforma Cartabia). Ricalibrando le pene edittali, a cominciare dalla perpetuità dell’ergastolo. Riformando le leggi carcerogene in materia di immigrazione e di sostanze stupefacenti.
Tutto ciò non è nell’agenda politica di nessuno. Men che meno del Governo, che si professa «garantista nel processo, giustizialista nell’esecuzione della pena». Per la doxa dominante, poi, il carcere è sinonimo di giustizia, dunque più il carcere è duro più giustizia è fatta: il doppio binario penitenziario (con i suoi 4-bis e 41-bis) è il risultato di questa equazione.
6. In un contesto così compromesso, “visitare i carcerati” resta un essenziale presidio di legalità. Dal 2016, “monitorare per prevenire” è la funzione istituzionale del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Dopo un lavoro pluriennale eccellente, i tre membri del suo collegio operano – da marzo – in regime di prorogatio. Il 15 giugno presenteranno la loro ultima relazione al Parlamento: come le precedenti, sarà un prezioso «manuale di istruzioni per carcerieri, carcerati e cittadini o stranieri in provvisoria libertà» (Adriano Sofri).
La nuova terna verrà indicata dal Consiglio dei ministri, previo parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, e nominata con decreto dal Capo dello Stato. La scelta andrà fatta tra persone che «assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani» (art. 7, decreto legge n. 146 del 2013) . È una concertazione in cui ciascuno ha voce in capitolo e tutti porteranno la responsabilità dell’esito finale. Sarà un passaggio da seguire con grande attenzione (e qualche apprensione).
Andrea Pugiotto 4 Giugno 2023
Estratto dell’articolo di Ele. Cam. per “la Stampa” giovedì 17 agosto 2023.
Finestre completamente schermate da cui non si riesce a guardare fuori. Celle da condividere anche in otto, docce contingentante, attività sospese. E giornate lunghissime da superare. Nelle carceri italiane manca l'aria. E non solo per il caldo da bollino rosso di questi giorni. Lo scorso anno il numero record di 85 suicidi aveva già fatto scattare un campanello d'allarme sulle condizioni invivibili degli istituti di pena.
Quest'anno, le morti di Susan John e Azzurra Campari, a distanza di sole ventiquattr'ore hanno riportato in evidenza i problemi. Innanzitutto quello di un sovraffollamento ormai strutturale: secondo i dati del ministero della Giustizia sono 57.749 i detenuti presenti, 6.464 in più della capienza regolamentare fissata sui 51.285 posti disponibili. Con un tasso di affollamento ufficiale intorno al 112,6% e che le associazioni, come Antigone, stimano almeno al 121%, in alcuni casi quasi al 200%.
[…] L'ansia di non riuscire a rialzarsi, la paura di non avere prospettive incidono anche sulle decisioni estreme, che non di rado coinvolgono anche persone in attesa di primo giudizio. Stando ai dati del ministero ad oggi sono circa 8000 le persone che sono in carcere senza ancora una condanna. Altrettanti stanno scontando una pena inferiore ai tre anni. Persone che potrebbero avere accesso a misure alternative ma che spesso per mancanza di mezzi restano in carcere ad affollare le strutture. […]
E poi ci sono le condizioni materiali che rendono la vita dentro un inferno. Secondo un monitoraggio fatto nei giorni scorsi dall'associazione Antigone in alcuni istituti manca addirittura l'acqua. In altri per il caldo opprimente, i detenuti hanno dovuto presentare una petizione per poter acquistare con i propri mezzi dei ventilatori. Nella metà dei 98 istituti visitati dall'associazione ci sono poi celle senza doccia, in alcuni è possibile farla solo in alcuni orari prestabiliti.
«Ma quello che colpisce di più è l'apatia totale dei detenuti: specialmente in estate non fanno niente, passano il tempo a fissare il soffitto. Le giornate diventano più lunghe e pesanti da affrontare» spiega Andrea Oleandri dell'associazione. «Ci sono persone che chiedono disperatamente di poter lavorare o di fare una telefonata». […]
Estratto dell’articolo di Dario Del Porto per “la Repubblica” giovedì 17 agosto 2023.
Il carcere è social: basta un post e il detenuto diventa influencer. Videochiamate con i familiari e filmati girati in cella finiscono sempre più spesso su TikTok accompagnati dal consueto corredo di emoticon e commenti del tipo: “Forza e coraggio, la galera è di passaggio”. Il fenomeno sta dilagando soprattutto (ma non solo) tra i reclusi degli istituti di Napoli e Campania e rappresenta un’evoluzione dell’uso illegale di cellulari dietro le sbarre. [...]
Telefonini anche di ultima generazione vengono recapitati utilizzando droni che sorvolano i penitenziari e i boss li usano sia per gestire le organizzazioni criminali sul territorio, sia come strumento di consenso e controllo della popolazione carceraria.
Ma nella deriva social non ci sono ordini da impartire, né affari illeciti da concludere [...] Come nel caso di una coppia, lui rinchiuso a Poggioreale, nickname “El Guzman”, lei nel penitenziario femminile di Pozzuoli, che hanno messo in Rete una diretta nella quale, nei commenti, ci si prendeva pure gioco del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Francesco Emilio Borrelli, che da mesi segnala quanto sta avvenendo [...]
Non lo fanno solo i maggiorenni.
Qualche giorno fa è finito su Tik-Tok, postato presumibilmente da parenti dell’indagato, corredato dalla scritta “sempre con il sorriso”, il video, estrapolato da un colloquio con i familiari di un giovane recluso nell’istituto penale minorile di Nisida: è un diciassettenne arrestato con l’accusa di aver sparato fra la folla, insieme a un complice maggiorenne, davanti ai locali della movida di Sant’Anastasia, in provincia di Napoli, ferendo un’intera, incolpevole famiglia: padre, madre e soprattutto la piccola Assunta, di 11 anni, che stava mangiando un gelato con il genitori e fu raggiunta da un proiettile alla tempia.
A chi criticava quel sorriso da parte del detenuto, una zia del 17enne ha replicato a muso duro con un altro video affermando, fra l’altro: «Te levo ‘o core ‘a pietto» («ti strappo il cuore dal petto»).
[...] È d’ accordo l’antropologo Marino Niola: « [...] I social a queste persone quel protagonismo che hanno perso a causa della detenzione. La reclusione è una specie di morte dell’immagine. [...]».
Naturalmente, avverte Niola, «l’abuso e i reati vanno perseguiti. Bisogna vigilare affinché le norme vengano rispettate».
Quasi ogni settimana, nelle carceri, vengono sequestrati cellulari introdotti illecitamente nelle celle.
Ma neanche l’apposita fattispecie di reato introdotta dal legislatore ha frenato l’escalation. Il procuratore aggiunto di Napoli Sergio Amato spiega: «Queste sono condotte per le quali l’effetto deterrente della sanzione è quasi nullo. La pena prevista è fino a quattro anni, ma nella maggior parte dei casi si tratta di detenuti con lunghe condanne sulle spalle che hanno poco o nulla da perdere». [...]
Uso improprio della forza e boom di suicidi: le carceri italiane sono sempre peggio. Stefano Baudino su L'Indipendente mercoledì 16 agosto 2023.
Due gravi episodi hanno riacceso la luce sulla drammatica situazione che, ogni anno di più, si vive all’interno delle carceri italiane. L’ultimo riguarda il contenuto di una circolare inviata dal Provveditore dell’amministrazione penitenziaria lombarda, Maria Milano, ai direttori delle case circondariali della regione, in cui si afferma che nelle carceri della Lombardia sarebbe “emerso un uso improprio dei mezzi di coercizione fisica“, in particolare attraverso l’indebito utilizzo di “manette” all’interno delle varie sezioni. A precederlo di pochi giorni è invece la notizia della tragica dipartita di due detenute che si sono tolte la vita a poche ore di distanza nel carcere torinese Lorusso-Cutugno: una si è lasciata morire di fame e di sete, l’altra si è impiccata nella sua cella. E sono solo gli ultimi tasselli di una catastrofe che parte da molto lontano.
L’eloquente nota emessa dal Provveditorato lombardo è stata diffusa ieri. “Dalla lettura di eventi critici recentemente occorsi – si legge nel documento – è emerso, in talune circostanze, un utilizzo improprio dei mezzi di coercizione fisica. In particolare, è stato rilevato l’uso delle manette all’interno delle sezioni detentive per contenere gli agiti auto ed etero aggressivi posti in essere dai detenuti”. In merito a quest’aspetto, prosegue il comunicato, “si osserva che l’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario, che detta i principi generali e disciplina limiti e condizioni dell’uso della forza e dei mezzi di coercizione fisica, demanda al regolamento di esecuzione la previsione di ulteriori strumenti ai quali, comunque, non si può fare ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire l’incolumità dello stesso soggetto. L’uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario“.
I decessi delle due detenute tra le mura dell’istituto penitenziario Lorusso-Cotugno risalgono invece allo scorso 11 agosto. La prima, la 42enne nigeriana Susan John, aveva fatto il suo ingresso in carcere il 22 luglio dopo una condanna a 10 anni per gravi reati (tratta degli esseri umani e induzione alla prostituzione). Da quando aveva messo piede in galera si era rifiutata di mangiare, bere e sottoporsi a controlli e cure mediche. Diceva di essere stata condannata ingiustamente e chiedeva di vedere la figlia piccola che, dopo l’arresto, era rimasta a casa con il marito. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno rinvenuto il suo corpo attorno alle tre del mattino. Poche ore dopo, è stata trovata morta un’altra donna, la 28enne ligure Azzurra Campari, che si è impiccata con un lenzuolo. Sulla base dei primi accertamenti, la donna aveva problemi che erano stati segnalati agli operatori: per questo era stata sottoposta inizialmente a un alto livello di sorveglianza, per poi passare a un livello medio con una compagna di cella, che non era presente nello spazio comune quando Azzurra ha messo in atto il gesto estremo. Mirko Campari, il fratello della donna, negli scorsi giorni è intervenuto con un post Facebook attaccando le fantasiose ricostruzioni di alcune testate giornalistiche, che trattando la notizia avevano erroneamente inquadrato la donna come “tossicodipendente” e diramato informazioni errate sugli ultimi colloqui che avrebbe avuto con sua madre, della quale sarebbero stati pubblicati virgolettati contenenti frasi in realtà mai proferite. Nella sezione femminile del carcere di Torino sono recluse 110 donne, anche se i posti a disposizione sono circa 80. Qui, lo scorso 29 giugno, si era già uccisa un’altra donna di 52 anni, peraltro a pochi giorni dalla scarcerazione.
La situazione legata al numero di suicidi in carcere è pesantissima: ad oggi, infatti, nel solo 2023 si sono tolti la vita 47 detenuti (circa uno ogni cinque giorni). L’ultimo in ordine di tempo è quello di uomo di 44 anni, originario di Lamezia Terme e recluso per reati connessi al traffico di stupefacenti, che sabato scorso si è ucciso impiccandosi all’interno della sua cella della Casa di Reclusione di Rossano. Nel 2022, negli istituti penitenziari italiani si sono suicidati in totale 84 prigionieri, mentre 1078 tentati suicidi sono stati sventati dall’intervento della polizia penitenziaria. A far risuonare un ulteriore campanello d’allarme sulla situazione di degrado vissuta all’interno delle carceri è anche un altro dato emblematico: nel corso di undici anni, dal 2011 al 2022, in Italia si sono registrati anche 78 suicidi tra le guardie carcerarie. In particolare, nel 2013 e nel 2019, le morti sono state 11.
Tornando allo stato delle carceri, i dati ci dicono che attualmente sono 189 gli istituti penitenziari in funzione, la maggior parte dei quali è stato costruito prima del 1950. Si tratta, dunque, di strutture piuttosto vecchie, che molto spesso non presentano i requisiti adeguati richiesti dall’Ordinamento penitenziario e che necessiterebbero di ristrutturazione e adeguamento alle norme. Secondo i dati dell’Ufficio statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), il tasso medio di affollamento ufficiale nelle carceri italiane è del 107,4%: la situazione più difficile si ha in Puglia, dove arriva al 134,5%, e in Lombardia, in cui si attesta al 129,9%. Inoltre, sul totale delle celle visitate dall’associazione Antigone, il 20% non è dotato di riscaldamento e nel 36% non è garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno.
Ampliando i confini delle criticità evidenziate dal Provveditorato, appare poi significativo riflettere su come, nonostante negli ultimi anni siano emerse numerosissime inchieste (poi sfociate sovente in processi e anche in pesanti condanne) sui presunti abusi, violenze e torture perpetrati da esponenti delle forze dell’ordine nei confronti dei detenuti delle carceri dello stivale, Fratelli d’Italia – principale azionista di governo – ha recentemente fatto pervenire in Commissione Giustizia del Senato la proposta di legge per l’abrogazione del reato di tortura e la sua derubricazione ad aggravante comune. Nello specifico, il reato – presente in più di 100 Paesi del mondo e introdotto nell’ordinamento dall’Italia, con grande ritardo, solo nel 2017 -, riguarda “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”.
A fronte di una situazione sempre più tragica, appare palese il senso di disorientamento del governo, che scandisce la sua comunicazione politica alternando in maniera quasi aritmetica aperture garantiste (quasi sempre all’indirizzo di colletti bianchi e detenuti d’élite), tra cui spicca l’annuncio del ritorno alla prescrizione pre-Bonafede, ed esternazioni in difesa della certezza della pena, in particolare attraverso il niet alle proposte di un maggiore utilizzo delle pene alternative come semilibertà o detenzione domiciliare. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha reagito ai suicidi ravvicinati avvenuti a Torino con vari proclami, affermando che interverrà per garantire ai detenuti più colloqui telefonici con i familiari e la ristrutturazione «entro tempi ragionevoli» di caserme dismesse per accogliere detenuti e nuovo personale. Un progetto estremamente complicato, sia per l’iter burocratico (gran parte delle strutture sono in dotazione al Ministero della Difesa e dovrebbero passare, attraverso il Demanio, al Ministero della Giustizia, e molti immobili dismessi sono già stati assegnati) che per le tempistiche previste, tutt’altro che rapide, come dimostrano i rari casi di “riconversioni” avvenute negli ultimi decenni. Nel frattempo, dietro le sbarre, l’inferno continua. [di Stefano Baudino]
Facebook. Mirko Campari: Sono Mirko Campari, il fratello di Azzurra Campari, la ragazza di 28 anni deceduta nel carcere di Torino venerdì scorso.
Purtroppo molti giornali stanno scrivendo parecchie cose non vere in alcuni dei loro articoli.
Ho provato a mandare delle email ad alcune testate per chiarire quali punti fossero imprecisi o totalmente errati, ma senza risultato: né rettifica, né risposta. Anzi, gli errori sono stati "copia/incollati" da una testata giornalistica all'altra e alcune menzogne stanno piano piano diventando "verità" (nel senso che si continua a divulgare il falso e sempre più gente lo scambia per vero).
Ritengo importante chiarire alcuni punti:
- Mia sorella Azzurra non era tossicodipendente. Mi sono chiesto come questa cosa fosse potuta saltare in mente a chi l'ha scritta, poi ho pensato che probabilmente lo hanno collegato al fatto che andasse al SERT. Bene, per chi non lo sapesse al Sert va anche chi ha alcune problematiche psicologiche non collegate all'utilizzo di droga/alcool et similia, ed era il caso di mia sorella. Inoltre, se davvero fosse stata tossicodipendente avrebbe potuto scontare la sua pena in una comunità di recupero e quindi non si sarebbe trovata in carcere
-Mia sorella non ha abbandonato l'istruzione, si era iscritta all'Ipc di Sanremo e ha lasciato al primo anno, ma in seguito ha ottenuto una qualifica di terza superiore presso Aesseffe a Sanremo
- Nostra madre Monica non fa la colf ma un altro lavoro
- Alcuni giornali dicono che nostra madre ha visto per l'ultima volta Azzurra in videochiamata, in realtà mia madre era stata in visita (di presenza quindi) nel carcere di Torino il 5 agosto
- Nostra madre, allo stato attuale delle cose, non ha parlato con nessun giornalista. Eppure, molti articoli menzionano addirittura dei virgolettati di frasi che nostra madre "avrebbe" pronunciato (...)
Ci sarebbero altri errori e imprecisioni da segnalare, ma per il momento mi vorrei fermare qua. Qualora dovessi cambiare idea o dovessero uscire fuori altre falsità aggiornerò il post
Grazie per chi vorrà condividere
Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” lunedì 14 agosto 2023
«Noi stavamo in quattro — racconta la giovane donna appena uscita dalla cella numero 8 di Rebibbia — ci muovevamo fra due letti a castello di colore celeste sbiadito, un tavolo, gli sgabelli, i pensili, un water e un lavandino che utilizzavamo sia per lavare i piatti che il viso». Una sua amica, che di celle ne ha vissute tante durante la detenzione, si è sempre battuta per avere il bidet: «Il 60 per cento delle detenute italiane non lo ha, nonostante sia previsto dalla legge», spiega. «E non è certo un lusso, vorrei ricordare, le donne sono più a rischio degli uomini di sviluppare un’infezione urinaria, soprattutto nel periodo delle mestruazioni hanno una maggiore necessità di igiene intima».
Ma nelle quattro carceri italiane che ospitano esclusivamente donne (599) il bidet continua ad essere un lusso. Così come nelle 44 sezioni femminili dei penitenziari dove si trovano le altre 1779. […]
È un grido disperato quello raccolto dalla giornalista catanese Katya Maugeri, che ha incontrato alcune detenute uscite dal carcere romano di Rebibbia per un progetto di ricerca sulla vita delle donne dietro le sbarre. Ne è nato un libro (“Tutte le cose che ho perso”, appena pubblicato da Villaggio Maori edizioni) che è un atto d’accusa contro il sistema carcerario italiano.
[…] «Del carcere femminile se ne parla poco e male — dice una di loro — i piccoli numeri che siamo non fanno testo e nessuno fa niente. Se sei forte ce la fai, altrimenti entri a testa bassa, da vittima, ed è lì che inizia davvero la tua prigione». Quando si intravede il fondo, le detenute scoprono “la soluzione”. «Meglio anestetizzarti per sospendere il pensiero, perché se pensi impazzisci — è drammatico questo racconto — In carcere lo chiamavamo il carrello della felicità: tre volte al giorno, a volte quattro, passano gli infermieri per la distribuzione dei farmaci».
L’ultima indagine dell’associazione Antigone rivela che quasi il 64 per cento delle donne detenute fa uso di farmaci per il trattamento di disturbi psichiatrici o neurologici.
«Insieme alla tossicodipendenza, il disagio psichico è la seconda causa di suicidio femminile dietro le sbarre», spiegano i volontari.
[…] Le donne a Rebibbia chiedevano più visite della ginecologa: «Per fare esami di routine come il Pap test, la mammografia, lo screening globale. Esami che non possono diventare un lusso».
Nel carcere italiano maschiocentrico nell’anima, è difficile pure far partecipare le donne ad attività e progetti: «In alcune sezioni mancano anche le attività scolastiche, perché non ci sono i numeri minimi necessari per comporre una classe», denuncia la ricerca di Katya Maugeri.
E allora le detenute devono accontentarsi di fare lavori a maglia o all’uncinetto per riempire in qualche modo il tempo sospeso del carcere: «Attività figlie di una visione stereotipata e patriarcale secondo cui le donne possono e devono svolgere solo questo genere di mansioni», protesta un’ex detenuta. […] Sulle donne dietro le sbarre c’è insomma una grande approssimazione: rappresentano solo il 4,2 per cento della popolazione carceraria, ma non possono essere certo trascurate.
«[…] tante di noi hanno raddoppiato la terapia di psicofarmaci per non pensare. Ma le pillole non possono essere la soluzione per vivere qui dentro».
La politica ignora il sovraffollamento nelle carceri: meglio occuparsi di mense vegane e taser per gli agenti. Con le due detenute morte suicide a distanza di poche ore si sono accesi i riflettori sullo stato delle prigioni italiane. Eppure durante legislatura in Parlamento sono state depositate 11 proposte di legge ma soltanto una (dell’opposizione) affronta la principale problematica del sistema penitenziario italiano. Simone Alliva su L'Espresso il 14 Agosto 2023
Quasi niente quanto la situazione delle carceri italiane simboleggia la vocazione del Paese allo straordinario e all’emergenziale.
A Torino venerdì due detenute sono morte suicide a poche ore di distanza, un dramma che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio ha fatto risalire al principale problema delle carceri italiane: il sovraffollamento.
Eppure, da decenni si parla di carceri piene e fragilità. Da più di vent’anni contiamo i morti suicidi, precisamente 1.352 quelli avvenuti dal 2000 a oggi, come riporta Ristretti Orizzonti. Dopo gli 85 dello scorso anno, quest’anno sono già 42. Secondo l’associazione Antigone Onlus: «Il sovraffollamento continua ad essere una delle principali problematiche del sistema penitenziario italiano, con un tasso che viaggia attorno al 121%, con 10.000 persone detenute in più rispetto ai posti effettivamente disponibili (e un numero di presenze in costante crescita)”.
Gli spazi vitali vengono sottratti e con essi si riduce la possibilità di lavoro e di svolgere attività che spezzino la monotonia della vita penitenziaria. Un concatenarsi di eventi che porta a situazioni di forte depressione, alla base di un aumento di suicidi e atti di autolesionismo nel periodo estivo. La vita carceraria, a causa la chiusura di molte attività, pesa ancora di più. Non è un caso che il numero dei suicidi cresca: «dei 42 già avvenuti» sottolinea Antigone Onlus «i soli mesi di giugno, luglio e i primi giorni di agosto ne hanno fatti contare 15».
Lo scorso anno, da questo punto di vista, fu drammatico: nei mesi di giugno, luglio e agosto del 2022, 31 persone si sono tolte la vita in carcere (16 solo ad agosto) sugli 85 contati a fine anno. E se nel 2021 i casi nei tre mesi estivi erano stati “solo” 9 sui 58 registrati a fine anno, nel 2020 si erano tolte la vita 19 persone delle 61 conteggiate al 31 dicembre. Nel 2019 i suicidi estivi erano stati, invece, 16 sui 53 totali.
Ma come si sta muovendo il mondo politico di fronte al problema del sovraffollamento?
C’è una politica fatta di parole che ancora oggi non si è tradotta in misure reali. Risolvere il sovraffollamento carcerario italiano spostando i detenuti tossicodipendenti, in strutture private a loro dedicate è stata l'idea lanciata dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Era il 13 marzo 2023, l'iniziativa "condivisa" dal governo e soprattutto dal ministro Carlo Nordio, nasceva dall'intenzione «sempre rivendicata da Giorgia Meloni di raggiungere non solo la certezza della pena ma anche un'offerta di maggiori garanzie ai cittadini». Tuttavia, a oggi, non risulta che sia seguito alcun testo di legge in questo senso. Di recente Nordio ha espresso l’intenzione di risolvere il problema del sovraffollamento espandendo l’edilizia carceraria, ma costruire nuove carceri «è costosissimo, ed è quasi impossibile sotto il profilo temporale, perché abbiamo vincoli idrogeologici, architettonici, burocratici». E allora? La soluzione del ministro sarebbe di riadattare le caserme dismesse, in cui detenere le persone condannate per reati a basso impatto sociale.
Qualche mese prima, a gennaio, proprio Nordio, in un question time alla Camera, durante il quale aveva già definito i suicidi tra le sbarre «un intollerabile fardello di dolore», aveva detto che era intenzione del governo migliorare i luoghi di esecuzione della pena incrementando «la dotazione organica del personale» e migliorando le condizioni di vita di detenuti e agenti investendo «nel prossimo triennio 1 milione di euro per il supporto psicologico».
Allo stato attuale c’è soltanto una proposta di legge che punta istituire la figura dello psicologo delle cure primarie anche nelle carceri. È dell’opposizione, porta la firma di Carmen Di Lauro (M5S). L'esame della pdl è cominciato il 5 luglio in Commissione Affari Sociali della Camera. E il resto?
Dall'inizio della legislatura, sono 11 i progetti di legge di iniziativa parlamentare sugli istituti penitenziari. Partendo da quelli presentati dalla maggioranza abbiamo due, a prima firma Michela Brambilla (FI), che si occupano di mense vegane e vegetariane anche all'interno delle carceri e della possibilità di far visitare il detenuto dal proprio animale domestico. Due ddl della Lega si concentrano sulla tutela degli agenti penitenziari. Il primo, firmato da Jacopo Morrone, prevede pene più severe per i detenuti che uccidono o aggrediscono gli agenti e la possibilità per questi ultimi di avere in dotazione armi a impulso elettrico. Il secondo, sottoscritto dalla senatrice Erika Stefani, estende l'ergastolo (articolo 576 cp) anche nei casi di omicidio colposo nei confronti di una agente penitenziario.
Un altro di Morrone punta a riorganizzare i dipartimenti del Ministero competenti in materia di esecuzione penale e a istituire il Dipartimento per la sicurezza della giustizia. Altri due testi, uno del M5S e uno della Lega, introducono misure di tutela e prevenzione per i malati di Aids e per gli affetti da celiachia. Altri due, del Movimento Cinquestelle, mirano a verificare la situazione patrimoniale dei detenuti per vedere che non ci siano stati arricchimenti durante il periodo di reclusione (firmataria Stefania Ascari) e a sostenere l'attività teatrale all'interno degli istituti penitenziari (Michele Bruno).
Spicca, infine, un unico disegno di legge affronta la questione degli spazi e della convivenza all'interno degli istituti carcerari. Era già stato presentato nel 2013 dai senatori Manconi, Tronti e Torrisi e ora è la senatrice del Partito Democratico, Cecilia D'Elia, a riproporlo nella sua interezza. Nel ddl si ricorda come l'Italia sia stata più volte condannata dalla Corte Europea per i diritti dell'uomo (nel 2009 e nel 2013) per violazione, nelle carceri, dell'articolo 3 della Convenzione di Strasburgo che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano e degradante e si indica una possibile soluzione. Premettendo che nessuno possa "essere incarcerato se non sono garantiti dalle istituzioni dello Stato gli spazi fisici minimi e la piena tutela della dignità", si prevede che il ministero della Giustizia debba indicare il numero massimo di posti letto per istituto, superato il quale, l'ordine di esecuzione della pena si converte in obbligo di permanenza in casa o in altro luogo indicato dalla persona. E si stabilisce una lista che segue un ordine cronologico. In caso di reati contro la persona salta il criterio cronologico e si potrà procedere direttamente all'esecuzione della condanna. Ma, durante la sospensione del provvedimento di carcerazione, la pena scorre regolarmente come se fosse espiata.
All’Emilia Romagna il triste record di più detenuti del Nord Italia. Pubblicato il secondo rapporto dell’associazione Antigone dal titolo” Finestre sul carcere” sulle condizioni degli istituti penitenziari in Emilia Romagna. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 luglio 2023
Elevato numero di detenuti con problemi psichiatrici e dipendenza, carenza di persona medico e infermieristico, l’immancabile sovraffollamento che acuisce i problemi. In tutto questo, l'emergenza sanitaria ha avuto un impatto significativo sulla quotidianità detentiva, in termini di possibilità di contatti con l'esterno, fruizione di spazi comuni e possibilità trattamentali. Parliamo del secondo rapporto di Antigone dal titolo” Finestre sul carcere” riguardante la regione dell’Emilia Romagna. Sono passati cinque anni dalla precedente edizione del rapporto sulle condizioni di detenzione di questa regione e, sebbene il comparto carcerario operi in condizioni di perenne emergenza, il quinquennio trascorso spicca per la sua problematicità.
La popolazione detenuta in Emilia-Romagna risulta tra le più numerose del Nord Italia, con un alto tasso di affollamento carcerario. Il rapporto di Antigone mette in evidenza nodi problematici riguardanti l'organico, l'offerta trattamentale, la salute mentale e il tasso di autolesionismo e suicidi. La presenza di oltre 3.400 detenuti, di cui il 47,30% stranieri e il 4% donne, contribuisce all'elevato tasso di affollamento carcerario pari al 105,17%. La presenza di condannati in via definitiva è inoltre elevata, ma il numero di funzionari giuridico-pedagogici è in forte sotto organico in molti istituti. Questa carenza si riflette sulla possibilità di garantire un'adeguata assistenza e trattamento ai detenuti.
La carenza di personale medico, infermieristico, psicologico e psichiatrico all'interno degli istituti è un elemento di grande criticità. Il rapporto evidenzia un tasso di sofferenza mentale in crescita, testimoniato dalle alte percentuali di diagnosi psichiatriche e di dipendenza, nonché dall'ampio utilizzo di psicofarmaci da parte dei detenuti. L'autolesionismo è un fenomeno diffuso, con tassi particolarmente elevati in alcune carceri. Non solo. Viene segnalato un alto tasso di suicidi e tentati suicidi nei primi sei mesi del 2022, con 7 persone che hanno perso la vita. La maggiore fragilità psichica della popolazione detenuta è evidente, e i protocolli di prevenzione del rischio suicidario devono essere accompagnati da interventi sulle condizioni materiali, cura delle relazioni e offerta trattamentale.
Sempre dal rapporto di Antigone si evidenzia che l'istituto penale minorile di Bologna ha subito trasformazioni significative tra il 2020 e il 2022, ma le nuove dinamiche hanno portato a diverse criticità. La carenza nell'area educativa e le preoccupazioni relative alla sicurezza dell'edificio sono alcune delle sfide affrontate. La vita detentiva è più regolamentata, rendendo difficile garantire un'adeguata assistenza ai giovani detenuti. A questo si aggiunge la detenzione femminile. L'Emilia-Romagna non ha istituti femminili, quindi le detenute sono ospitate in sezioni femminili all'interno di carceri maschili. Come rileva Antigone, la ripartizione delle risorse tra popolazione maschile e femminile influenza le opportunità riservate alle donne, sia a livello lavorativo che formativo. Le criticità riguardano anche l'offerta formativa, con alcune carceri che presentano carenze nei corsi scolastici e professionalizzanti.
Un caso particolarmente significativo riguarda il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, dove i titoli di studio di uno studente-detenuto sembrano essere stati considerati indice di pericolosità sociale rispetto alla prognosi di recidiva. La questione è diventata un caso nazionale, che è anche approdato a Strasburgo, dove è pendente il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che vede il diretto coinvolgimento di Antigone.
Intervista a Emilia Rossi: “Nordio legga i report sulle prigioni”. Grazie all’azione del Garante finalmente c’è un regolamento nazionale nei centri di rimpatrio. Angela Stella su L'Unità il 25 Giugno 2023
Quest’anno la consueta Relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è stata quella conclusiva del mandato del primo Collegio (Presidente Mauro Palma, membri Daniela De Robert, Emilia Rossi). Cosa è accaduto in questi sette anni. Ne parliamo proprio con l’avvocata Emilia Rossi.
Che bilancio fa di questi sette anni?
Abbiamo costruito l’Autorità di Garanzia sia nei suoi statuti, sia selezionando e formando il personale, sia nella creazione dei suoi valori fondanti. Ma la cosa principale che abbiamo fatto è stata quella di aver costruito il metodo di azione di una Autorità di garanzia, che necessita di una assoluta indipendenza e autonomia dal potere politico.
In cosa consiste questo metodo?
Parte dall’osservazione concreta delle situazioni e finisce con l’interlocuzione con le autorità responsabili, in stretta cooperazione. Il Garante nazionale è innanzitutto un organismo di prevenzione delle possibili violazioni dei diritti delle persone private della libertà e a questo si è orientato il nostro lavoro, anche nell’interesse del Paese rispetto a possibili censure del nostro Paese da parte degli organi sovranazionali. Queste le fondamenta che abbiamo costruito e tutto questo lavoro ha fatto acquisire al Garante una autorevolezza tale da dare concretezza all’interlocuzione con le Istituzioni, che ci ascoltano, e di vedere recepite le nostre linee-guida, i nostri pareri, nelle pronunce delle più alte Corti di giustizia, la Corte costituzionale e la Cedu.
Però c’è un periodo in cui la Lega voleva sopprimere la figura del Garante.
Si è trattato di un dibattito politico, a cui una Autorità di garanzia rimane esterna. Noi non abbiamo avuto alcun tipo di ricadute nelle nostre interlocuzioni neanche con esponenti di questa o di altre forze politiche.
Non ha percepito negativamente neanche che quest’anno alla presentazione della Relazione annuale mancassero i vertici delle Camere o i loro vice?
La scomparsa di Silvio Berlusconi ha riscritto l’agenda parlamentare. Noi abbiamo potuto mantenere la data scelta dall’inizio ma lo slittamento di impegni parlamentari e di governo ha determinato alcune assenze. In ogni caso erano presenti parlamentari delle varie forze politiche, rappresentati dei ministeri e, soprattutto, c’era la Presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra: un segno di riconoscimento di altissimo rilievo.
In questi sette anni cosa è cambiato in merito alle nostre carceri?
Noi abbiamo mantenuta viva l’attenzione su un mondo che altrimenti poteva rimanere ai margini. Lo abbiamo portato all’attenzione della politica e di tutta la società civile, guardandolo dall’interno, con modalità e ampiezza di poteri di cui non dispone nessun’altra Istituzione dello Stato. Credo sia per questo che il magistrato Riccardo De Vito in un suo articolo pubblicato su Questione Giustizia, ha scritto che il Collegio “ha costruito un patrimonio indiscusso della Repubblica”. Sicuramente il nostro sguardo e l’ordine dei valori che abbiamo costruito hanno contribuito al cambiamento, anche a quello che ha determinato alcune riforme del sistema delle pene e della sua esecuzione, come le pene sostitutive, l’ampliamento delle misure alternative, i percorsi di giustizia riparativa.
Però sono accaduti fatti come quelli di Santa Maria Capua Vetere. Il vostro sguardo ha mai dato fastidio alla polizia penitenziaria?
No, mai. La polizia penitenziaria che abbiamo incontrato durante le nostre visite è stata collaborativa e partecipativa. E ci siamo dati il compito di costruire insieme una cultura pienamente rispettosa dei diritti delle persone private della libertà, anche partecipando alla formazione dei diversi corpi delle Forze di polizia. È chiaro che non si può immaginare che espressioni di una incultura antica scompaiano di colpo. La differenza, oggi, è che emergono subito, come è successo a Santa Maria, e che le Istituzioni, nel loro complesso, reagiscono. E che nei Tribunali si giudichino fatti come quelli di Santa Maria, di San Gimignano, di Torino, per citarne alcuni, nella loro effettiva dimensione, contestando il reato di tortura.
Fratelli d’Italia vorrebbe modificarlo o addirittura cancellarlo.
Io non ho ancora letto una proposta normativa, preferisco esprimermi quando c’è un testo. Certo è che il reato di tortura va mantenuto: è un caposaldo della civiltà dello stato di diritto perché riguarda i confini legittimi del potere più forte dello Stato nel rapporto con i cittadini e ne previene l’abuso nel momento nevralgico in cui lo Stato ha la persona nelle proprie mani.
A proposito di persone di cui lo Stato ha responsabilità: i suicidi continuano. Dove si sbaglia?
Gli 85 morti dello scorso anno e i 30 di quest’anno interrogano tutti. Premettendo che su una scelta così drammatica il giudizio di chi osserva da fuori deve essere molto cauto, la questione che interroga più di tutti sono quei suicidi che avvengono a poche ore o giorni dall’inizio della detenzione o a pochi giorni dalla fine della pena, magari lunga. Non dipendono dalle condizioni materiali del carcere: magari esse possono avere qualche incidenza su chi è entrato da poco ma non su chi vi ha vissuto a lungo, che ha toccato con mano il degrado anche per decenni. Queste morti ci danno la sensazione precisa dello sgomento di chi entra in carcere, di colui che ha la sensazione di essere finito in un buco nero e di essere lì abbandonato. E di chi sta per terminare di scontare la pena senza prospettive fuori da quelle mura, nell’assenza di riferimenti e sostegno. Rispetto a questi due momenti nessuno di noi è assolto.
In sette anni avete costruito molto. La scelta del nuovo Collegio dovrà ricadere su persone all’altezza della vostra eredità.
È importante, ma noi siamo convinti che accadrà, che il nuovo Collegio mantenga l’ordine dello sguardo sulle cose che raccontavo all’inizio e mantenga quella indipendenza e autonomia di azione cooperativa vigile e attenta che abbiamo costruito noi.
Palma nell’illustrare la sua ultima Relazione al Parlamento ha detto: “è avviata la procedura per indicare un nuovo Collegio che prenderà il nostro posto e che garantirà la continuità, pur nelle differenze che il carattere e le culture di ognuno di noi può porre, del cammino avviato; proprio perché non si tratta di esprimere una posizione politica, bensì di adempiere a una funzione di garanzia. La politica aiuta, coopera, ma non detta regole alle Istituzioni di garanzia”. Lei teme che ci possano essere interferenze politiche comunque nella scelta?
La politica nel nostro Paese interviene sempre, da qui la raccomandazione del Presidente Palma.
Lei cosa consiglierebbe al Ministro della Giustizia in tema di esecuzione penale?
Non amo dare consigli, in genere. Suggerirei, caso mai, di leggere le nostre Relazioni al Parlamento.
Qualche settimana fa Riccardo Magi di +Europa ha convocato una conferenza stampa per denunciare l’abuso di psicofarmaci nel Cpr. Anche voi ne avete visitati molti.
Grazie all’azione del Garante finalmente c’è un regolamento nazionale nei centri di rimpatrio. Detto questo, la società civile viene molto poco investita della situazione, anche perché il dibattito pubblico e politico sui migranti è molto tormentato. Quello che abbiamo messo in evidenza è che lì il tempo è assolutamente e inutilmente vuoto. Angela Stella 25 Giugno 2023
Dietro le sbarre piccoli pusher, stranieri e poveri. Il carcere dei diritti è un’utopia. Franco Corleone su L’espresso il 10 aprile 2023.
Si riprenda la proposta di istituire delle “Case territoriali di reinserimento sociale” per condannati con un fine pena ridotto. Col doppio risultato di abbattere il sovraffollamento e favorire il recupero dei detenuti a favore della collettività
Il carcere si manifesta sempre più come il luogo di contraddizioni e di finzioni. Dallo specchio della composizione sociale della popolazione detenuta – tolti i 740 soggetti richiusi nelle sezioni speciali del 41bis e i diecimila ristretti nell’Alta sicurezza – si riflette un’umanità dolente costituita da consumatori e piccoli spacciatori di sostanze stupefacenti vietate: stranieri, poveri, «borseggiatrici rom», come è stato detto a sprezzo di razzismo, tossicodipendenti, secondo una definizione approssimativa. Le patrie galere, per i due terzi dei 56.319 prigionieri, di cui solo 2.425 sono donne, accolgono quella che icasticamente abbiamo definito come la detenzione sociale.
Altro che il carcere come extrema ratio! E per questo luogo ineffabile si sono spesi fiumi di retorica maleodorante, imponendo slogan cattivi o fuorvianti, come «buttare la chiave» e «certezza della pena». Il carcere della dignità e dei diritti rimane una utopia, a cominciare dal diritto all’affettività e alla sessualità che resta conculcato per moralismo perbenista. E con il Regolamento di applicazione dell’Ordinamento penitenziario disatteso dopo ventitré anni dalla sua adozione.
Ha fatto bene Carlo De Benedetti, nel suo volumetto “Radicalità”, sul cambiamento necessario per l’Italia, a dedicare alcune pagine al senso della pena; anche se l’esempio di intervento proposto, cioè abbattere edifici storici come San Vittore e Regina Coeli, è sbagliato, oltre che improponibile per i vincoli di tutela culturale. Non abbiamo bisogno di un ennesimo piano carcere, ma di una riforma profonda. D’altronde sappiamo tutto in termini di analisi almeno dal 1949, quando Piero Calamandrei dedicò un numero speciale della rivista “Il Ponte” a una inchiesta sulle carceri e sulla tortura ed Ernesto Rossi scriveva un pezzo intitolato “Quello che si potrebbe fare subito”, il quale conserva un’attualità disarmante.
Il centro di gravità permanente, per dirla con Franco Battiato, dovrebbe rimanere l’articolo 27 della Costituzione con il precetto del reinserimento sociale dei condannati (anche se il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, ne ha proposto uno stravolgimento). Come lo si può realizzare?
Ho elaborato un’idea suggestiva riprendendola da un testo di Sandro Margara, che nel 2005 fu riversato in una proposta di legge presentata da Marco Boato. È una sperimentazione davvero originale: istituire delle “Case territoriali di reinserimento sociale” utilizzabili dalle persone con un fine pena sotto i dodici mesi (sono 7.259 soggetti; di questi, 1.471 hanno avuto una condanna sotto un anno, come denunciato dal garante nazionale Mauro Palma).
Penso a piccole strutture, da cinque a 15 posti, dirette dal sindaco della città ospitante, senza polizia penitenziaria e con una presenza significativa delle associazioni del terzo settore e di educatori. Come ha dichiarato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non sarebbe conveniente l’evasione. Peraltro ricordo che una realtà simile era presente fino a trent’anni fa con oltre 200 case mandamentali riservate ai condannati a pene brevi irrogate dal pretore. Mi auguro che la proposta sia raccolta dal Parlamento. Col doppio risultato di abbattere il sovraffollamento e favorire il reinserimento attraverso le relazioni in una comunità.
Delitti, detenuti e pene: l’Italia sta messa peggio del Kenya. Sergio D'Elia su Il Riformista il 17 Febbraio 2023
La terribilità e la certezza della pena non possono costituire un deterrente, se neanche i condannati sanno cosa prevede il codice penale. È questa la conclusione di una ricerca condotta in Kenya nel 2022 tra i prigionieri del braccio della morte. Lo studio s’intitola “Vivere con una condanna a morte in Kenya…”, è stato commissionato dal Death Penalty Project del Regno Unito e dalla National Commission on Human Rights (KNCHR) del Kenya ed è stato condotto da Carolyn Hoyle e Lucrezia Rizzelli dell’Università di Oxford.
Le due ricercatrici hanno intervistato 671 persone, di cui 33 donne, detenute nel braccio della morte in 12 carceri del Paese. Il 44% del totale era condannato per omicidio, il 56% per rapina violenta. Secondo lo studio, solo un detenuto su cento sapeva che la pena di morte era una punizione prevedibile per il reato commesso. Inoltre, ha rilevato la ricerca, nel braccio più duro e isolato del carcere non erano reclusi i più pericolosi e i peggiori tra i peggiori. Lo studio è stato condotto in Kenya. Fosse stato fatto in Italia, i numeri non sarebbero stati diversi. La ricerca ha riguardato la pena di morte. Fosse stata la pena fino alla morte, il risultato non sarebbe cambiato. I detenuti intervistati erano tutti nel braccio della morte. Fossero stati detenuti al 41 bis, le risposte sarebbero state le stesse. Quindi, continua a leggere questo articolo e dove vedi scritto Kenya puoi anche tradurre Italia. Dove è scritto “pena di morte” leggi pure “pena fino alla morte”. Dove è scritto “braccio della morte” pensa al “41 bis”.
Molti detenuti nelle carceri keniote hanno affermato che gli sono stati negati i diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti gli indagati e imputati di un reato, come il diritto a non essere costretti a fare una confessione. Più della metà non ha potuto comunicare con un avvocato. Il diritto al silenzio di poco meno della metà non è stato rispettato. Oltre la metà ha dichiarato di essere stata sottoposta a forme psicologiche di tortura, più di un terzo (37%) ad abusi fisici e a quasi un quarto (23%) è stata negata l’assistenza medica. In condizioni coercitive di detenzione, molti potrebbero quindi aver rilasciato dichiarazioni incriminanti su sé stessi. È quasi scontato che le prove ottenute in questo modo dalla polizia siano inaffidabili, abbiano portato a condanne errate nei tribunali e persone innocenti nel braccio della morte.
Per quanto riguarda il luogo comune sul valore deterrente della pena, i dati della ricerca non lasciano margini a dubbi: mancano i presupposti necessari. Per essere scoraggiati dalla pena di morte, le persone devono sapere che la pena di morte è la punizione prevista per il loro reato. E devono sapere anche che è probabile che saranno giudicate colpevoli e condannate a morte. Quindi, devono essere consapevoli che gli eventuali vantaggi derivanti dal crimine possono essere vanificati dal potenziale castigo. Invece, secondo la rilevazione effettuata nel braccio della morte, solo l’uno per cento dei detenuti intervistati ha detto di essere stato a piena conoscenza prima del crimine che la pena di morte era una punizione a disposizione dei tutori della legge. E solo il quattro per cento dei condannati per rapina e l’otto per cento per omicidio avevano pensato alla possibilità di essere condannati a morte. Se non erano certi di correre questo rischio, come potevano essere scoraggiati da una pena che sarebbe arrivata inesorabile e certa come la morte.
Uno può pensare che la legge del taglione sia giustificata per i colpevoli più atroci e contemplata per i reati più gravi. Invece, la ricerca dell’Università di Oxford mostra che coloro che sono nel braccio della morte del Kenya non sono necessariamente i peggiori dei peggiori, perché oltre la metà di loro era stata condannata per un reato non mortale. Quasi tutti avevano poca o nessuna istruzione di base ed erano di basso status sociale ed economico – i più svantaggiati e vulnerabili. Di conseguenza, si sono trovati invischiati in un sistema di giustizia penale che chiaramente offriva una protezione legale inadeguata, esponendoli a un alto rischio di essere condannati ingiustamente. Se ciò è molto preoccupante in uno Stato che mantiene la pena di morte, non è meno preoccupante in uno Stato che prevede la pena fino alla morte. Sergio D'Elia
Fine pena mai. Le carceri italiane sono tra le più affollate d’Europa (e i detenuti sono sempre più anziani). Gianni Balduzzi su L’Inkiesta l’11 Febbraio 2023
Lo Stato spende tanto per il sistema carcerario in proporzione al Pil, ma lo fa male e in modo inefficiente
C’è una diffusa convinzione che il nostro sistema giudiziario, e in particolare quello carcerario, sia molto “permissivo”, lassista, che in fondo chi commette un reato, a differenza di quanto magari avviene altrove, la passi liscia più facilmente, esca prima di prigione e abbia una vita più comoda. Del resto quando viene chiesta nei sondaggi un’opinione sulla sicurezza, la percezione della grande maggioranza degli italiani è che i reati siano in aumento, anche se in realtà i dati sono sempre più in calo (sondaggio Swg di gennaio 2023).
L’Italia non è certo il Paradiso in terra per chi finisce in carcere. Il nostro Paese è tra quelli con maggiore sovraffollamento carcerario: 105,5 posti ogni 100, contro una media europea di 82,5. In Spagna il tasso di occupazione delle celle è del 73,6 per cento, in Germania dell’81,6 per cento, mentre la situazione francese è più simile a quella italiana, con il 103,5 per cento. Ciò accade nonostante in prigione ci finiscano meno persone che altrove, 90 ogni centomila abitanti, rispetto a un dato europeo di 116,1.
Come vengono trattati i detenuti? Innanzitutto con lentezza, che di per sé può essere anche una tortura se si lascia un essere umano senza la certezza di una pena. È ciò che accade al 31,5 per cento dei carcerati italiani. A batterci in questa statistica l’Albania e l’Armenia, con cifre molto alte, e poi Paesi piuttosto piccoli. Tra i nostri vicini più rappresentativi rappresentiamo un record. Ad attendere una sentenza definitiva sono solo il 15,6 per cento di coloro che occupano le carceri spagnole, il 14,6 per cento di coloro che finiscono in quelle inglesi e il 20,7 per cento di quanti vengono rinchiusi in Germania.
Dati del Consiglio d’Europa, 2021
Un altro indicatore peculiare è quello che riguarda la presenza di stranieri dietro le sbarre. Sono ben il 32,4 per cento, anche in questo caso più della media del 23,2 per cento, e più di quanti ve ne siano nelle carceri di Paesi con una percentuale maggiore di immigrati, come Regno Unito, Francia, Germania. Non ci sono dunque trattamenti di favore verso gli stranieri, come invece propagandato da una certa vulgata, ma, soprattutto, questi dati mostrano come la gestione delle prigioni italiane sia ancora più complessa proprio per la compresenza di culture diverse, spesso poco integrate.
I detenuti italiani sono i più anziani di tutta Europa. A superare i 50 anni sono ben il 26,7 per cento, più del doppio che in Francia. Questo primato è dovuto al fatto che siamo tra i più vecchi, con un’età media di 46 anni? No, non può bastare questa spiegazione. Le differenze con le altre realtà sono molto più ampie di quelle demografiche.
Sono più della media anche gli over 65 dietro le sbarre, il 4,2 per cento. Che sia colpa dei boss della criminalità organizzata, notoriamente non giovanissimi? Quanti possono essere su più di cinquantatremila carcerati, di cui “solo” il 18,5 per cento sconta pene per reati di omicidio?
La verità è che non vi sono poi così tanti benefici legati all’età o alla salute come si potrebbe pensare. Del resto, e forse questa potrebbe essere una sorpresa, in Italia si sta di più in carcere. Il Consiglio d’Europa, che fornisce la maggior parte dei dati citati, ha calcolato, sulla base del flusso di entrata e uscita dagli istituti di pena, che in media vi si passano 18,1 mesi. Può sembrare poco, ma si deve considerare che si può fare ingresso in prigione più di una volta, e che spesso vi è un rilascio di chi sconterà la condanna ai domiciliari. E, soprattutto, si tratta comunque di una durata maggiore della media, che è di 12,4 mesi. Ad alzarla i Paesi dell’Est e del Sud Europa, come il nostro, la Grecia, la Spagna, il Portogallo. Altrove si sta meno dietro le sbarre, 8,4 mesi in Inghilterra, 11,1 in Francia, solo 4,7 in Germania.
Bisognerebbe costruire più istituti di pena, reclutando più personale? Oppure basterebbe spendere meglio, visto che in Italia ci sono 1,3 detenuti per dipendente del sistema carcerario. La media europea è 1,5, come quella di Francia, Germania, Inghilterra. In Spagna sono 1,9. Forse sono distribuiti in modo poco efficiente?
In realtà probabilmente è poco efficiente la spesa totale, che ammontava nel 2020 a quasi 3 miliardi di euro, per la precisione due miliardi e 982 milioni. È lo 0,3 per cento di tutta la spesa pubblica, lo 0,17 per cento del Prodotto interno lordo, una percentuale superata solo in alcuni Paesi dell’Est. L’impegno finanziario tedesco ammonta per esempio al 0,1 per cento del Pil. Potrebbe sembrare una differenza lieve, ma in realtà se spendessimo come in Germania (in proporzione al PIL) risparmieremmo 1,2 miliardi.
Si tratta di un esborso che appare poco giustificato dalla densità carceraria. È simile o superiore, sempre rispetto alle dimensioni dell’economia, nei Paesi Baltici o in Cechia e Slovacchia, dove però vi è una quantità doppia di detenuti per abitante, mentre laddove la loro incidenza è analoga alla nostra lo Stato spende meno.
L’analisi del nostro modello giudiziario dovrebbe partire da questi numeri, e ciò vale anche e soprattutto per chi difende l’esistente. Anche per chi pensa che i garantisti che avanzano dubbi sul sistema, sull’assenza di una vera riabilitazione, magari persino sul 41 bis, siano quattro idealisti lontani dalla realtà. Molto probabilmente la vera lotta alla criminalità è possibile anche con più umanità, sicuramente con una maggiore efficienza, che spesso è, del resto, propedeutica alla prima.
(Monthly Report n.18) Dietro le sbarre: inchiesta sulle carceri e la giustizia in Italia. L’Indipendente il 16 Gennaio 2023.
È uscito il diciottesimo numero del Monthly Report, la rivista de L’Indipendente che ogni mese fa luce su un tema che riteniamo di particolare rilevanza e non sufficientemente trattato nella comunicazione mainstream. La realtà dietro le sbarre: questo il titolo dell’edizione di questo mese, nella quale intendiamo analizzare le problematiche del sistema carcerario al netto di un anno, il 2022, nel quale il numero di suicidi tra i detenuti è stato tra i più alti mai registrati. Il numero, oltre che in formato digitale, è disponibile anche in formato cartaceo spedito in abbonamento (tutte le info su come riceverlo a questo link).
L’editoriale del nuovo numero: La civiltà e la sicurezza di una nazione
Oltre duecento agenti in Italia si trovano sotto indagine per violenze e torture ai danni dei detenuti, quasi 750 carcerati vivono in microcelle senza luce e privati di ogni diritto in un regime detentivo giudicato ai limiti della tortura. Un recluso su tre è ancora in attesa di sentenza definitiva e oltre la metà si trova alle prese con condanne per reati non violenti e di scarso allarme sociale, che nella maggior parte dei casi potrebbero essere depenalizzati o quantomeno puniti con misure alternative. Gran parte delle carceri italiane sono strutture vecchissime e inadeguate, una su quattro costruita prima del 1900 come convento o caserma e poi riconvertita. Quasi tutte ospitano più detenuti di quelli per i quali sono omologate. Le condizioni di vita sono spesso insostenibili, al punto che dentro le mura degli istituti carcerari italiani il tasso di suicidi è di circa 15 casi ogni diecimila detenuti, a fronte dei 0,67 nella società italiana.
Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri, affermò il filosofo illuminista Voltaire, e se questo è vero significa che quella italiana non se la passa bene. Anche perché occorre annotare come la questione sia del tutto fuori dai radar dell’agenda politica. Con il governo Meloni che, a fronte del vergognoso quadro appena descritto, ha ben pensato di recuperare un po’ di spicci, da destinare alle proprie misure bandiera inserite in finanziaria, proprio imponendo tagli per 36 milioni di euro nei prossimi tre anni al sistema della giustizia. La questione delle carceri è a dire il vero anche ben lontana dall’agenda dei media nonché dalle preoccupazioni di gran parte dell’opinione pubblica. Molti cittadini, infatti, non sono affatto disposti a preoccuparsi né tantomeno a indignarsi per le condizioni di vita dei detenuti. «Se la sono cercata, i delinquenti non meritano niente» è l’opinione piuttosto diffusa.
Ma si tratta di una prospettiva profondamente sbagliata. Non solo perché omette tutta una serie di questioni strutturali fondamentali (tipo che chi è povero e senza lavoro ha enormemente più possibilità di finire in prigione, e questo qualche riflessione dovrebbe pur suggerirla) e relative ai diritti umani. È un ragionamento sbagliato anche nell’interesse degli stessi cittadini liberi che chiedono maggiore sicurezza. Si tende a pensare, infatti, che chi chiede pene severissime e l’assenza di misure alternative al carcere sia dalla parte della sicurezza, ma è vero l’esatto contrario. La matematica non mente ed ogni dato disponibile dimostra che proprio il carcere tramutato in discarica sociale senza prospettive produce solamente nuova criminalità. Il 62% dei detenuti torna dietro le sbarre entro 7 anni dalla prima scarcerazione per aver commesso un altro reato, ma questa percentuale crolla al 19% tra i detenuti che hanno potuto usufruire di percorsi di reinserimento e di misure di pena alternative.
Anche la sicurezza di una nazione si misura osservando le condizioni di detenzione, si potrebbe dire aggiornando la celebre citazione di Voltaire. Un fatto già da solo capace di rendere evidente come parlare di carcere sia nell’interesse di tutti i cittadini, inclusi quelli che pensano che con una galera non avranno mai nulla a che fare. Per questo, ormai lo avrete inteso, il nuovo numero del nostro Monthly Report è dedicato a questo tema. Buona lettura.
L’indice del nuovo numero:
Editoriale
L’anno orribile delle carceri italiane viene da lontano
Habeas corpus
Perché la giustizia italiana è lenta e malfunzionante?
Dietro le sbarre si tortura: la scusa delle poche mele marce non regge più
Io, Nicoletta Dosio, militante NO TAV e incarcerata per Resistenza
Storia e funzione dell’esclusione sociale: dall’antichità al presente neoliberista
Che la pena sia umana e rieducativa serve alla società, non solo ai detenuti
Sepolti vivi in nome dello Stato: è ora di parlare del 41 bis
Il sistema della giustizia e del carcere minorile
La detenzione senza reato: i Centri di Permanenza per il Rimpatrio
Quando giustizia e disagio mentale si incontrano, il disastro è dietro l’angolo
Cancellata storia e luoghi. I fascisti si son presi l’Asinara, motti mussoliniani sull’isola: zero proteste, Regione Sardegna muta. Il grido mussoliniano urlato dal gruppo di Luca Occulto dell’Associazione Sette mari che fa campi scuola per ragazzi dagli 8 ai 16 anni. Impossibile non sentirlo. Nessuno dei locali protesta. Cacciata Libera di Don Ciotti. La Regione lascia l’isola ai fascisti? Angela Nocioni su L'Unità il 23 Agosto 2023
Isola dell’Asinara, verso sera. Due sole barche ferme alla boa nell’insenatura aspra di Cala d’Oliva. Nel cielo umido e mite sbocciano nuvolette minuscole, si sfogliano in petali lattiginosi, si disperdono nel rosa arancio del tramonto. All’orizzonte nessuno da ore, il mare si sta ingrossando. Da lontano il raglio d’ un asino. D’un tratto il rumore di un motore. Un gommone con bandiere rosse e bianche diretto a terra. Tute nere da sub sbarcano d’un balzo sul molo. Gridano a squarciagola: “Vincere vincere e vinceremo”. “Vincere vincere e vinceremo”.
Una decina di persone, due ragazze. Una voce adulta maschile: “Di chi è l’isola?” Coro: “È nostra!”. Ancora: “Di chi è l’isola?”. “È nostra!”. Le poche case della caletta non sono tutte disabitate. C’è la locanda del Parco a finestre aperte. Ci sono i ragazzi del diving dell’apneista Umberto Pellizari lì a meno di due metri. Ci sono medico e assistente dell’ambulatorio dell’ordine di Malta che fa da pronto soccorso. C’è il bar ristorante l’Asino bianco con vetrata proprio sopra il gommone. C’è il magnifico atelier sul mare di Enrico Mereu che dal legno spiaggiato libera forme sinuose come le cale dell’isola e poi le adagia lì, sotto il pergolato profumato di fichi pesanti sui rami. Nessuno s’affaccia, nessuno apre bocca. Un asino raglia.
Dalla scaletta che sale tra le case ancora le stesse voci: “Di chi è l’isola?” “È nostra”. “Di chi è l’isola?” “È nostra”. “Vincere vincere vinceremo”. Una delle persone che a Cala d’Oliva lavora guarda la foto degli urlatori in tuta sub sul molo: “È Luca Occulto. Ha in mano un bel giro di soldi lui, il business della scuola sub è in mano sua”. Gruppo per immersioni subacquee di Luca Occulto, Associazione Sette mari. Campi scuola per ragazzi dagli 8 ai 16 anni. Quell’urlo è l’unica voce nel silenzio del tramonto, impossibile non sentirlo. Nessuno dei locali ha voglia di commentare il motto inequivocabile, il grido mussoliniano in occasione della dichiarazione di guerra il 10 giugno del 1940, strillato sotto le finestre della casetta sul mare dove Falcone e Borsellino si rinchiusero un mese nel 1985 a preparare la requisitoria per il maxiprocesso di Palermo alla mafia.
Quasi tutti quelli che per lavoro vivono nella minuscola cala, a domanda diretta lasciano cadere la conversazione. Fissano improvvisamente un punto lontano lontano all’orizzonte e si mettono a fare altro. Il maresciallo dei Carabinieri, il torinese Ivan Mariuzzo, assicura di non aver mai sentito nulla, né con le sue orecchie né riferito da altri. “Grida maschiliste sì – dice – del genere Apocalipse now”. Maresciallo, ‘vincere vincere e vinceremo’ è il grido di Benito Mussolini. “No – dice lui – mai sentito niente che abbia a che fare con reminiscenze, ci mancherebbe”. Alessandro Masala, quarantenne di Porto Torres con antiche origini familiari sull’isola, vive qui d’estate. È un sub con record di apnea, è il gestore dell’unico diving dell’Asinara. Dopo un po’ sbotta: “E certo che li sento, come si fa a non sentirli, s’addestrano per tutta l’isola imitando i marines. Non mi va di parlarne. Occulto non vive qui, no. I ragazzi vengono dal continente. Li porta qui a fare questa cosa che lui chiama camp”.
Nel sito della Sette Mari, l’urlatore Luca Occulto insieme alla biologa Cristina Bonino spiega: “Lavoriamo da anni per l’educazione e la formazione, ma garantiamo più di questo. Ci siamo specializzati nel settore giovanile e sui giovanissimi concentriamo il nostro lavoro”. All’addestramento con motto fascista non v’è cenno. “L’attività con i giovani da soddisfazione e speranza, la nostra mission è garantire esperienze ricche di conoscenza del mare, creare in loro fiducia e dare opportunità. Ricordiamo che i brevetti subacquei sono riconosciuti nei concorsi delle Forze armate”. Tra i fiori all’occhiello della Sette mari compare il simbolo del “Reparto ComSubIn Marina Militare. “Relatori Palombari ed Incursori Mmi. Chi sono, cosa fanno, come diventare uno di loro. Il Valore della divisa, orientamento giovani verso la carriera militare.
Una signora dell’isola racconta che “due ragazzi sono entrati nelle forze armate dopo il camp”. All’Asinara quando il mare non è grosso veleggia anche un catamarano che porta i turisti sull’acqua cristallina dell’isola fino all’isola Piana davanti allo stretto di Fornelli. Lo gestisce “Futurismo, ecoturismo Asinara tour”. In un video disponibile in rete il fondatore Claudio Serra spiega che si ispira a Marinetti. Del carcere dell’Asinara, il terribile carcere sparso in 9 prigioni diverse – il peggiore d’Italia secondo chi ne ha girati parecchi – all’Asinara quasi nulla è visitabile. È sprangato il bunker costruito per Renato Curcio, in cui sono stati rinchiusi Raffaele Cutolo e Totò Riina. Soltanto ruggine e erbacce si riescono a vedere da uno spioncino. È vietato avvicinarsi ai gabbiotti di Fornelli, il luogo della protesta delle caffettiere.
Lì nel ’79 ci fu una delle più violente (e misteriose) rivolte carcerarie della storia d’Italia, organizzato da detenuti delle Br e dei Nuclei armati proletari con plastico nascosto nelle moka. Non è visitabile il pezzo di storia d’Italia sepolto a Fornelli. L’edificio è inagibile. “Eppure l’abbiamo pulito noi in primavera, abbiamo tolto le erbacce” spiega abbassando il finestrino del suo fuoristrada un addetto di Forestas, l’ente che durante l’inverno si occupa di “uccidere le capre selvatiche e i cinghiali in sovrannumero” per conto dell’Agenzia della Conservatoria. Quasi tutto all’Asinara accade secondo il volere dalla Conservatoria. Che dipende dalla Regione Sardegna, dal 2019 in mano a Christian Solinas, partito sardo d’azione tendenza Matteo Salvini.
L’agenzia è dotata secondo la legge istitutiva di autonomia regolamentare, finanziaria, organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile e gestionale ed è sottoposta ai poteri di indirizzo, vigilanza e controllo della giunta regionale. Quel che non dipende dall’Agenzia, e quindi dalla giunta regionale, dipende dall’Ente parco creato nel 2002 e alle dipendenze del Ministero dell’ambiente. Le case attorno a Cala d’Oliva, a parte pochissime ristrutturate e diventate locanda, sono state lasciate cadere. Erano le casine delle persone legate al carcere, l’alimentari, la dispensa agricola. Tetti sfondati, muri crollati, fra i ferri divelti crescono gli alberi. “Li dovrebbe custodire e ristrutturare l’Agenzia per la conservatoria delle coste che conserva solo quella del direttore e dei suoi uffici” dice una signora che lavora lì.
Nella stradina verso l’ostello che ospita gli iscritti ai corsi sub dei Sette mari di Luca Occulto – all’ingresso la vecchia targa “ministero di grazia e giustizia” – ci sono due case ristrutturate e intonacate di tutto punto, cancello dipinto, e una targa con la scritta rossa su fondo bianco in caratteri maiuscoli: il direttore. Migliaia di prigionieri dell’esercito austroungarico furono portati all’Asinara. L’ufficialità racconta che erano malati e che qui ci fosse un sanatorio. Furono lasciati morire di stenti, di sete, di fame al vento sotto il sole. A parte un ossario ottenuto con rimostranze dall’Austria, nulla sull’isola ricorda quella storia infame di prigionieri di guerra lasciati morire sotto il sole. Un vecchio marinaio anarchico che gironzola da anni per questi mari stringe le spalle: “Non ho capito quel che è successo, ma qualcosa è successo. Fino a tre anni fa venivi qui e trovavi cinema sul carcere, dentro il bunker dove era rinchiuso Riina ho visto una mostra su Falcone, facevano incontri sulla detenzione. Li faceva Libera, l’associazione di don Ciotti. A me Libera non piace un granché, né quella passerella di magistrati, quell’esaltazione dello Stato, ma è innegabile che arrivavi qui e trovavi un posto vivo. Ora arrivi e tutto è abbandonato”.
E no, ora arrivi e trovi Vincere vincere e vinceremo, Futurismo l’asinara, più pochi privati che con i fuoristrada portano i turisti a visitare gli anfratti dell’isola. “Settanta euro a persona m’hanno chiesto al telefono da qua a Cala Reale, settanta a persona” racconta Sandra, vacanziera fiorentina. L’unico carcere visitabile è una struttura ristrutturata sopra l’ostello con tre vecchie celle allestite con oggetti di detenuti. Nemmeno l’ombra del carcere totale che è stata l’Asinara. In una stanza dove una tv trasmette documentari naturalistici sull’isola, un signore che pare un addetto alle vendite smitraglia parole su oggetti in vetro da comprare altrove.
Libera di don Ciotti ha un rappresentante regionale in Sardegna, Giampiero Farru. Che dice: “Noi eravamo qui dal 2011, con la scusa del Covid ci hanno cacciati. Io tutti gli anni rinnovo la richiesta con proposta di portare qui i ragazzi di Libera per tenere aperto il bunker, e fare il lavoro sul carcere che abbiamo sempre fatto. Ma da due anni non mi rispondono più. Quando mi dissero che il problema erano le condizioni della casetta di Cala d’Oliva che ci ospitava io ho proposto che Libera ristrutturasse gratis l’edificio. Non hanno voluto. Avrò mandato non so quante pec all’Agenzia per la conservazione delle coste che dipende dalla regione sardegna ha competenza sui 400 stabili riassegnati dal Ministero di Giustizia dopo la chiusura del carcere. L’attuale direttore, Sanna, che risponde politicamente a Solinas, mi ha incontrato una volta, s’è fatto delle foto con me e poi è scomparso, mai risposto alle mail in cui chiediamo che fine hanno fatto le nostre regolari domande di tornare a fare gratuita attività di Libera sull’isola. Vorremmo far parlare il luogo, raccontare la storia del carcere diffuso”.
L’unico a raccontare della prigione sull’isola è Enrico Mereu, scultore affermato e residente. Che all’Asinara è arrivato nel gennaio del 1980 da guardia carceraria. E che dopo la chiusura dei bunker s’è fermato a vivere qua e alla fine ha avuto la residenza formale sull’isola. Mereu ha ricordi precisi del giorno del 1986 in cui evase Matteo Bove, l’unica fuga riuscita di un carcerato dall’isola. “Picco e pala, lui era picco e pala. faceva la strada. Erano squadre da trenta. Lui si sarà messo d’accordo con qualcuno, uno “sconsegnato” credo, che faceva segni forse con lo specchio alla fidanzata di Bove su dove venire a prenderlo col gommone. Quando si scoprì la fuga – tardi, i suoi compagni detenuti zitti stavano perché tra i detenuti solidarietà c’è – il mezzo degli agenti usciti in mare a cercarlo vide un gommone fermo con due persone sopra e si gettò all’inseguimento. E quelli scapparono. E loro dietro. Due ore durò l’inseguimento. Due ore perse. Perché quando il carburante finì e i fuggiaschi furono raggiunti dissero a mani alzate: ‘colleghi siamo’. Eh sì. Erano secondini come noi, stavano pescando di frodo, per quello erano scappati”.
Mereu è stato a lungo di guardia al bunker di Raffaele Cutolo: “Il Professore lo chiamavano tutti qui. Sempre gentile con noi Cutolo, ci difendeva col direttore del carcere e ci spiegava sempre tutto. Ma mica solo a noi. Anche all’avvocato suo, a Giannino Guiso che era pure il più bravo di tutti, Cutolo gli spiegava il codice penale perché lo conosceva meglio. Me lo ricordo conversatore Cutolo. Mica come Riina. Quello ti guardava fisso negli occhi e parlava raramente e solo per chiedere: questo lo posso fare? Sembrava lontano”.
Ma perché Libera non c’è più? “Non lo so, la casa qui dietro non gliel’hanno più data. Ma quelli stavano qui e vendevano il pane siciliano, la marmellata siciliana, e siamo in Sardegna mica in Sicilia. A qualcuno forse non piaceva questa cosa e poi qui tutti quelli che arrivano all’Asinara prima stanno buoni buoni e poi dicono l’isola è nostra”. Ma questi che scendono dal gommone e gridano: ‘di chi è l’isola’, ‘è nostra’?”. Risposta: “Ah Luca. Ma lei lo vuoi un fico?”. Grazie sì, ma quest’ Occulto? “Sono deliziosi i fichi, se li mangiano tutti gli uccelli”. E anche gli occhi azzurri di Mereu fissano all’improvviso un punto indistinto in mezzo al mare. Angela Nocioni 23 Agosto 2023
La storia del carcere. Che cos’è il carcere dell’Asinara, storia della prigione più dura d’Italia e del campo di Fornelli. Vengono trasferiti lì i detenuti per lotta armata, molti brigatisti rossi nappisti e anche qualcuno dell’Anonima sarda. Redazione su L'Unità il 23 Agosto 2023
Umberto I il 28 giugno del 1885 firma la legge che autorizza l’esproprio dell’Asinara e la sua trasformazione in colonia agricola penale e lazzaretto. Tra il dicembre 1915 e il luglio 1916 una ventina di piroscafi portano sull’isola ventiquattromila soldati austro-ungarici. Arrivano dall’Albania. Sono vestiti di stracci e malati di colera. Vengono rinchiusi nei centri di disinfezione di Cala Reale e poi in campi di prigionia a Campu Perdu, Stretti, Fornelli. Ne muoiono almeno seimila. Tra il 1937 al 1939 saranno centinaia di etiopi a finire confinati sull’isola per «osservazione e bonifica sanitaria».
Negli anni Settanta l’Asinara, dove ci sono già 200 “sconsegnati”, persone detenute che durante il giorno lavorano all’aperto, diventa un carcere di massima sicurezza. Vengono trasferiti lì i detenuti per lotta armata, molti brigatisti rossi (tra cui nel maggio del ‘77 Renato Curcio che era evaso due anni prima dal carcere di Casale Monferrato, Alberto Franceschini, Roberto Ognibene) nappisti e anche qualcuno dell’Anonima sarda. Il direttore del carcere è Luigi Cardullo, spietato, soprannominato dai secondini “il viceré”. Nel 1976 un processo contro un detenuto del carcere di Alghero che lo accusava di comportamento illegale, porta all’attenzione pubblica i metodi di Cardullo.
Il deputato del Pci, Salvatore Mannuzzu descrive Fornelli: “…i detenuti sono a tre a tre, in celle di quattro metri per due metri e cinquanta… poca è l’illuminazione naturale, giacché a breve distanza dalla finestra… si erge un alto muro tinto per giunta di un grigio plumbeo…” e “... il regime dei colloqui appare irregolare… vi si è ammessi solo se si è in grado di dimostrare… la propria buona condotta…”. Curcio e Notarnicola vengono trattati da sepolti vivi. La sera del 2 ottobre del 1979, un gruppo di detenuti politici a Fornelli si ribella lanciando plastico contenuto nelle moka. La rivolta dura 2 giorni. I brigatisti vengono portati via e sparpagliati per prigioni nel continente.
Il generale Dalla Chiesa, che si occupa della ricostruzione del carcere, incarica il direttore Luigi Cardullo di verificare il rispetto di tutte le norme procedurali. La gestione degli appalti risulta assai oscura e nel 1980 Cardullo viene trasferito a Perugia sostituito da Francesco Massidda che trasmette gli atti che trova alla Procura della Repubblica di Sassari. A metà dicembre del 1982 Cardullo e sua moglie Leda Sapio, soprannominata all’Asinara “la zarina”, vengono arrestati. Luigi Cardullo spiega passaggi di soldi sul suo conto dicendo d’esser stato reclutato nel 1973 dai servizi segreti interni italiani e di aver intercettato per loro conversazioni di detenuti.
Un articolo de “La Nuova Sardegna” descrive Fornelli così: “… i fari accesi tutta la notte e armi puntate a decine… fanno sì che “nessuno è mai interamente solo”, si tratta di un “monumento alla paura” dove “i detenuti e anche le guardie vi sono tenuti in condizioni subumane”. Fornelli verrà chiuso il 31 dicembre 1980 con un atto non ufficiale. Il 12 dicembre le Brigate Rosse avevano rapito a Roma il giudice Giovanni D’Urso, consigliere di Cassazione. Migliorare le condizioni di detenzione all’Asinara era tra le richieste avanzate dalle Br. Senza alcun annuncio tutti i detenuti rinchiusi nel braccio speciale dell’Asinara vengono trasferiti con destinazione ignota. Dopo questo trasferimento l’isola torna ad essere una colonia penale in cui scontano la loro pena, lavorando, circa 450 detenuti. Fornelli resterà chiusa per dieci anni. Poi ristrutturata, riaperta e destinata a detenuti condannati per associazione mafiosa. Redazione - 23 Agosto 2023
Doppiopesismo & privilegi. Pianosa (e non solo): il caso delle vacanze low cost per magistrati ci dice che indossare la toga è un rimedio contro il carovita. Immaginiamo per un attimo cosa sarebbe accaduto se si fosse scoperto che i politici – e non le toghe – godevano del privilegio di una vacanza, a 7 euro al giorno, in un’isola dal mare cristallino. Qui non si allude a illiceità. Si critica il doppiopesismo. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 25 Agosto 2023
Io per una vita ho fatto le mie vacanze all’Elba. E per una vita ho sognato di poter andare a Pianosa. Un paradiso dal mare pazzesco, dice chi ci è stato. Ma era impossibile. Pianosa per noi era off-limits. Adesso Il Giornale, grazie a Luca Fazzo, ci fa sapere che diversi magistrati ci svacanzano, a sette euro al giorno. Sette euro. Devono solo sopportare che per 5 ore al giorno qualche turista sbarchi sull’isola per poi doversene andare alle 17, grazie a un servizio turistico a numero chiuso nel frattempo allestito.
Di più: sempre Il Giornale ci spiega che mica esiste solo Pianosa a loro disposizione, ma anche Is Arenas in Sardegna, Merano, Corvara e Selva di Valgardena. Mare e montagna. Evviva.
Eppure… Per anni ho sentito lagne su presunti privilegi dei politici. Lagne indignatissime, sempre vissute sul paragone con il povero cittadino. Lagne avanzate anche da diversi magistrati e da loro portavoce parlamentari. Lagne persino sul prezzo pagato per un pasto alla mensa della Camera.
Immaginate dunque un secondo cosa sarebbe successo se si fosse scoperto che i politici godessero di buen retiro a sette euro al giorno, a cui i comuni mortali nemmeno possono accedere. Eppure, anche alcuni politici sono minacciati (lo sono stato anche io, a dirla tutta, anche se non ho richiesto alcuna tutela, né fatto dichiarazioni pubbliche al riguardo, che ho sempre trovato ridicole), anche alcuni politici sono sotto tutela o scorta. Come pure diversi giornalisti.
Eppure non mi risulta che alloggino in posti da sogno, inaccessibili a chiunque, a sette euro al giorno. E sia chiaro: qui nessuno allude a presunte illiceità, né grida allo scandalo se un magistrato esposto e minacciato può rilassarsi stando al sicuro.
Qui si critica il fatto che ne goda anche chi non rischia assolutamente nulla, e il doppiopesismo per cui se a godere di un oggettivo privilegio sono alcuni, caschi il mondo. Se lo sono dei magistrati, è tutto dovuto al prestigio della toga. D’altronde è così da un pezzo.
Nel Csm Gate rivelato da Sallusti e Palamara c’erano magistrati che raccomandavano fratelli agli esami e chiedevano biglietti a scrocco allo stadio (tribuna autorità, ovviamente, mica in curva). Ora possono sciare e fare il bagno quasi gratis, mentre noi paghiamo un ombrellone 50 euro al giorno. A me va bene, sia chiaro. A chi ha additato altri come privilegiati per anni, non dovrebbe, però. Ma la coerenza non è uguale per tutti. Un po’ come la legge, amministrata, anche quella, dai magistrati. Andrea Ruggieri
Pianosa, il "resort" segreto dove le toghe vanno in ferie a sette euro al giorno. Benvenuti al Pianosa resort, club esclusivo per magistrati in possesso di alcuni requisiti. Luca Fazzo il 23 Agosto 2023 su Il Giornale.
La fila di chaise-longue candide, distese sulla Darsena di Augusto, è girata verso il punto dove sorge il sole. In notti come queste, senza luna, guardare da qui, distesi nel nulla, la volta del firmamento può fare perdere. È uno spettacolo per pochi. Perché questa è Pianosa, dieci chilometri quadrati di terra in mezzo al Tirreno. Riserva integrale, ex carcere, di notte popolata solo di falchi, secondini, carabinieri, detenuti semiliberi. E di magistrati.
Benvenuti al Pianosa resort, club esclusivo per magistrati in possesso di alcuni requisiti. Primo: amare la vita semplice, in alloggi spartani, a contatto diretto con la natura. Secondo: essere considerati obiettivo a rischio, o almeno fare credere di esserlo. Terzo: non provare imbarazzo nel farsi le vacanze praticamente gratis in una struttura dove i comuni mortali non sono ammessi, col rischio di sottrarre spazi a gente meno abbiente, come il personale delle carceri. Per quanto bizzarro possa apparire, ad accumulare questi requisiti è un congruo numero di giudici e pubblici ministeri. Risultato: ogni anno, quando si apre il bando per l'assegnazione, il numero dei pretendenti supera ampiamente i pochi posti disponibili. E tra gli esclusi ogni volta partono il mugugno e le dicerie.
Questa storia del resort di Pianosa ronzava da tempo nell'aria, troppo bella per essere vera. Per venirne a capo è stato necessario fare un sacco di telefonate e di saltafossi con la sensazione precisa che nessuno avesse troppa voglia di parlarne. Perché è pur vero che non vi è nulla di illegale, e che tutta la materia è regolata da un decreto (per l'esattezza il 314/2006). Ma oltre il decreto inizia la zona grigia del non detto, del favore, dell'assurdo. Scavando, si apprendono cose interessanti. La principale: quest'isola del privilegio è anche, per curiosa coincidenza, un'isola del crimine. Un microcosmo staccato dal mondo dove per anni ne sono accadute di tutti i colori, delitti grandi e piccoli, affari e amori.
A lungo hanno convissuto sull'isola i magistrati vip che facevano snorkeling e i detenuti che pescavano di frodo girando le spiagge con i mezzi della Polizia penitenziaria. Corruzioni e ruberie hanno prosperato nel microcosmo perso nel mare. Adesso il traffico di donne, uomini e fiocine che movimentava la vita parallela di Pianosa è stato messo sotto inchiesta, e anche di questo nessuno parla. I magistrati intanto continuano a venire: liste d'attesa, amicizie, e quell'aura di fare parte dei giri giusti. Esiste davvero, il Pianosa resort?
I tasselli del puzzle vanno a posto un po' alla volta. All'inizio, alle prime richieste di informazioni, tutti negano. Poi qualcuno ammette un pezzo, qualcuno un altro. Si scopre che a tirare le fila di tutto è il Dap, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, la direzione delle carceri. Anche dopo la chiusura del supercarcere, è il Dap a regnare su Pianosa, distaccamento del carcere di Porto Azzurro, all'Elba. Ad assegnare i soggiorni a Pianosa è l'Eap, l'Ente assistenziale della polizia penitenziaria. Su tutto pare regni Quirino Catalano, mitico capo divisione del Dap, oggi in pensione, ma rimasto in servizio come consulente. «Dovete parlare con il dottor Catalano», dicono all'Eap. Ma chi ha diritto ad andare a Pianosa? «I dipendenti del Dap e alcuni altri». Chi? Anche i magistrati? «Sì, se ci sono motivi di sicurezza». Cioè? «Devono avere almeno la tutela».
Orbene: la tutela è il livello minimo di scorta, un solo agente, roba che in magistratura non si nega quasi a nessuno. Poi, per via di fatto, a Pianosa va anche chi non ha nemmeno la tutela. Basta aver fatto parte anni fa di un pool antimafia, avere celebrato un processo a rischio come giudice a latere. E le porte si schiudono, verso la vacanza sotto le stelle della Darsena di Augusto. Giusto, sbagliato, chissà, certo nella giustizia italiana succede di peggio. Restano un paio di curiosità. Dove stanno queste casette per magistrati vip? E soprattutto, quanto costano?
Alle domande ufficiali si ottengono risposte vaghe, che rimandano a tabelle popolate di algoritmi. Per capirci davvero qualcosa bisogna venire a Pianosa. Imbarcarsi sull'unica nave che ogni giorno arriva dall'Elba: approdo alle 11, partenza alle 17, il tempo di un bagno o di un giro in kayak. Invece di fare il bagno bisogna addentrarsi nella macchia mediterranea alle spalle del piccolo porto. Arrivare alla punta orientale, al forte napoleonico, girare ancora tra i fichi e il mirto. Prima si incontrano dei brutti villini in cemento: «Beirut», li chiamano qui, destinati ai secondini qualunque. Ma i magistrati dove stanno? «Lì avanti, alla foresteria». Eccole, arrampicate sulle pendici del forte. Case un po' gialle e un po' scrostate, affacciate sull'azzurro infinito del Tirreno. Quanto pagano? «Eh, poco». Quanto poco? «Eh, sette euro, forse dieci». Un'altra fonte, implacabile, conferma: «Sette euro al giorno». Quattro letti, bagno, cucina. Se po' ffà, soprattutto con settemila euro al mese di stipendio.
Maschere, costumi, magliette stese al sole. La terrazza racconta di un'amabile quotidianità da famigliola qualunque. Ci sono dettagli che proprio qualunque non sono: non arrivano a Pianosa con i boat people del traghetto da Marina di Campo ma con la pattuglia navale della Penitenziaria; restano a Pianosa quando la plebe se ne va; la sera cenano alla luce delle stelle da «Brunello», il ristorante dove lavorano i semiliberi spostati qua da Porto Azzurro (e chissà se un ergastolano ha mai servito il giudice che lo ha fatto condannare...). E in fondo forse c'è una logica, una morale: nell'isola carica di passato remoto e passato prossimo, l'isola di Agrippa Postumo e di Pertini, delle catacombe cristiane e di Nitto Santapaola, fioriscono da sempre leggende terribili. Beh, questa almeno fa ridere.
Sesso, favori e frodo nel paradiso verde dove non è reato commettere peccati. Dalla pesca abusiva agli strani intrecci amorosi. Una guardia: «Tanto questo posto è un luna park». Luca Fazzo il 23 Agosto 2023 su Il Giornale.
Sesso, tanto sesso. Un bel po' di affari. E cernie ammazzate a tradimento. Sì, perché Pianosa è una riserva naturale integrale, un paradiso tutelato dallo Stato, e non vi si può uccidere neanche una zanzara. Le cernie lo sanno, e si accostano fiduciose ai rari subacquei. Fin quando non incontrano un agente di custodia o un detenuto, armato di fucile, in violazione di ogni legge. Due ore dopo, la cernia è in padella.
La pesca abusiva è però il meno incredibile dei reati che la procura di Livorno ha accumulato nel fascicolo 1456/22 partendo dalle denunce di alcuni detenuti. Trentasette indagati: ci sono detenuti, agenti, il direttore del carcere Francesco D'Anselmo, il comandante dei carabinieri di Capoliveri, all'Elba, Antonio Pinna, sospettato di avere spifferato a D'Anselmo una inchiesta segreta: e intanto chiedeva favori. I pm livornesi hanno chiesto l'archiviazione di tutto, e ora deve decidere il giudice preliminare. Ma anche spogliati della rilevanza penale, i fatti emersi appaiono francamente sorprendenti. Come quando il provveditore regionale alle carceri, Carmelo Cantone, chiede conto al direttore di quanto gli hanno raccontato: «un ingresso di donne a Pianosa con detenuti che fanno la fila, rapporti amorosi di un agente di polizia penitenziaria con un detenuto di Pianosa il quale (il detenuto) avrebbe la libertà di guidare autovetture sull'isola e di comandare gli altri detenuti». Il detenuto-fidanzato «pescherebbe di frodo spartendosi il pescato con alcuni agenti». Il direttore Anselmo risponde al provveditore che il giro di ragazze durante l'inverno non accade ma «durante l'estate so per certo che ci sono delle donne che vengono qui proprio per fare turismo sessuale con i detenuti... vengono proprio delle ragazze perché vogliono avere l'esperienza mozzafiato. Questo te lo posso assicurare perché mi è stato segnalato!». E in effetti il 20 agosto 2020 il detenuto D.V., uno della ventina di carcerati di Porto Azzurro ammessi per buona condotta a lavorare a Pianosa, era stato sorpreso «a consumare un rapporto sessuale con una turista». La comandante dei secondini quando le chiedono conto perché non abbia denunciato l'episodio replica «Eh ma tanto lo sapete che è un luna park qui a Pianosa!».
A Pianosa, accerta l'indagine dei carabinieri di Livorno, vengono invitati vip di ogni genere, fuori da ogni regola, viaggiando sui mezzi navali della Polizia penitenziaria. Non si parla dei magistrati ospiti della «foresteria», che almeno fanno regolare domanda. L'11 luglio 2020 i carabinieri fotografano la motovedetta della Penitenziaria approdare a Pianosa, attaccato c'è un tender di proprietà della famiglia Bulgari, insieme ad una erede della dinastia dei gioiellieri sbarcano G. C. e Luigi Lantieri. I due sono una coppia in vista nella Capitale, C. architetto, Lantieri esperto di finanza, protagonisti di eventi sgargianti del mondo gay. Quando il comandante della motovedetta Z6 viene interrogato, spiega di essere stato catechizzato da D'Anselmo per dare una spiegazione degli inviti eccellenti, e così salta fuori l'elenco completo: oltre a «la madre di Bulgari» e alla coppia c'erano a bordo «il presidente del tribunale di sorveglianza con la moglie, tale dott.Iuvezo, il professore Massetti, Massimo Boldi, Vittorio Sgarbi, il provveditore Fullone, l'ingegner De Ferrari». Cosa ci faceva Boldi? «Era lì per rallegrare i detenuti», è la risposta. Caso isolato? Pare di no: «E tutte le vedette che ho fatto con chi a bordo, io ne ho di storie lunghe chilometri» dice un agente intercettato. Nelle carte compaiono tra gli altri i nomi dell'attore Lino Banfi, del presentatore Pippo Baudo, del giornalista Giammaria Duilio, del manager pubblico Andrea Ripa di Meana e del cantante Luca Carboni.
Secondo i carabinieri, il capofila degli illeciti è l'assistente della Penitenziaria S.C., quello fidanzato con il detenuto, le cui imprese sono «sistematicamente coperte dal direttore di Porto Azzurro Francesco Anselmo e dalla commissaria Giulia Perrini».
I detenuti sull'isola: un business gestito a colpi di favori e di reati. Sono una ventina, tutti semiliberi per buona condotta. Protagonisti di vicende boccaccesche e di un'indagine dei carabinieri per le irregolarità della cooperativa che gestisce i loro servizi. Luca Fazzo il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.
Un progetto avanzato, il fiore all'occhiello di una gestione dal volto umano della politica carceraria: l'isola di Pianosa, dopo la dismissione del carcere di massima sicurezza voluto dal generale Dalla Chiesa, è il simbolo di una prigione tesa al recupero dei detenuti. Peccato che anche questo sia diventato un business gestito a colpi di favori e di reati, almeno secondo l'informativa dei carabinieri di Livorno di cui il Giornale è in possesso.
È la stessa informativa, datata 5 luglio 2021, in cui viene ricostruito con dovizia di particolari sconcertanti il «luna park» - come viene definito in una intercettazione - in cui si era trasformata l'ex isola-carcere, che oggi ospita una colonia agricola con venti detenuti del carcere di Porto Azzurro assegnati a Pianosa per buona condotta. Rapporti sessuali con le turiste, love story tra detenuti e agenti di custodia, pesca e caccia di frodo, ruberie di ogni genere: compresa la commissaria della polizia penitenziaria Giulia Perrini che mette a all'asta su Ebay dei volumi rari e preziosi trovati nella biblioteca del carcere. Il tutto viene a galla dopo che i carabinieri inviano a Pianosa, a comandare il presidio sull'isola, una giovane marescialla estranea ai giri locali. È lei a documentare e fotografare tutto. Comprese le visite a scrocco dei vip - attori, calciatori, presentatori - portati a Pianosa dalla motovedetta della Polizia penitenziaria su decisione del direttore del carcere di Porto Azzurro, Francesco D'Anselmo, che finisce per questo indagato per peculato.
Nel rapporto del 2021, firmato dal maggiore Michele Morelli, vengono ricostruite tutte le manovre per truccare la gara d'appalto per la gestione dei servizi che sull'isola impiegano i detenuti semiliberi provenienti da Porto Azzurro. Sono i cosiddetti «servizi di ristorazione e accoglienza», messi a gara congiuntamente dall'amministrazione penitenziaria e dal Comune di Campo nell'Elba (nel cui territorio è ricompresa l'isola di Pianosa) al fine di garantire insieme a «utilizzo e valorizzazione del territorio» anche «realizzazione di programmi trattamentali avanzati che vedono impegnate persone condannate in esecuzione di pena detentiva».
A gestire i servizi si succedono nel corso degli anni diverse cooperative. A dirigere il minuscolo albergo dell'isola è però sempre Giulia Manca, una dei pochi residenti a Pianosa, che nella relazione dell'Arma appare come uno dei veri dominus dell'isola, anche grazie «al particolare ascendente che la Manca mostra di esercitare sulla persona di Landi Sandra, responsabile dell'area amministrativa del comune di Campo nell'Elba». Grazie a questo ascendente la Manca «riesce a carpire e ricevere informazioni di prima mano sull'andamento della gara d'appalto».
La gara viene varata dal Comune il 3 marzo 2021 e le manovre vengono seguite in diretta dai carabinieri che intercettano sia la Manca che il sindaco, Davide Montauti. C'è già un vincitore designato, la cooperativa Esperia, alla quale la Manca spiega che «in futuro il Comune predisporrà un bando cucendolo addosso a loro senza dare opportunità ad altri di partecipare». In cambio, la Manca ottiene - grazie al Comune - la garanzia di mantenere il posto chiunque sia il vincitore: la Landi la presenta alle cooperative «come una persona che dovrà essere assunta da chiunque si aggiudichi l'appalto (...) lei fa parte del pacchetto, chi vuole prendere Pianosa deve prendere anche a Giulia se no non c'è pacchetto». «Sono il sindaco ufficiale di Pianosa», si vanta la Manca al telefono. La cooperativa Esperia però sbaglia a presentare la domanda, e l'appalto rimane alla cooperativa Arnera.
Tra i traffici venuti a galla c'è persino quello per impadronirsi delle visite alle catacombe paleocristiane. Il sindaco «era andato a Roma perché lui voleva farle prendere a me», dice la Manca. Ma scende in campo l'Ente Parco che «intervenne con il Vescovo per lasciare la gestione all'ente stesso, nella persona di Carlo Barellini»: quest'ultimo viene definito dai Cc «soggetto molto discusso per i suoi rapporti con detenuti e agenti».
Non solo Pianosa. Caserme in montagna e villaggi sul mare: fine privilegio mai per le toghe a sbafo. A Is Arenas 23 alloggi sul mare cristallino della Sardegna "aperti" pure a giudici e pm. Che in montagna sono ospitati in caserme di charme (e c’è chi pretende lo ski-pass). Il caso dei morosi nelle case del Dap. Luca Fazzo il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.
C’è il diritto allo snorkeling ma anche il diritto allo slalom, tra guarentigie dei magistrati italiani. Il Pianosa resort, il gruppo di alloggi di proprietà dell’amministrazione penitenziaria nell’isola tirrenica dove per anni toghe più o meno a rischio hanno passato a prezzi ridicoli le loro vacanze estive, non è l’unica struttura pubblica messa a disposizione di giudici e pubblici ministeri per le loro esigenze private. Strutture al mare, strutture ai monti, persino abitazioni private vengono assegnate - sotto le motivazioni più disparate - a appartenenti all’ordine giudiziario secondo una graduatoria non scritta fatta di prestigio professionale e capacità relazionali.
Struttura gemella a quella di Pianosa è quella di Is Arenas, nel Comune di Arbus, sulla costa sudoccidentale della Sardegna.
Anche il resort di Is Arenas sorge a ridosso di una struttura carceraria che - a differenza di Pianosa, dove esiste solo una colonia agricola per detenuti a custodia attenuata è ancora pienamente operativa, con un’ottantina di prigionieri. A poca distanza dal carcere ci sono gli alloggi che vengono assegnati ogni anno per il periodo estivo dall’Eap, l’ente previdenziale per la polizia penitenziaria. Strutture semplici ma confortevoli, affacciate su un mare maldiviano, dove sostanzialmente non si paga l’affitto. Il sito dell’Eap dice che chi va a Is Arenas «partecipa alla contribuzione volontaria a favore dell'Ente». Comprensibile se a usufruire della vacanza low cost fossero davvero solo agenti di custodia e altri dipendenti delle carceri, un po’ meno se come spiegano fonti dell’Eap - allo stesso bando di concorso possono partecipare, come per Pianosa, anche altri stipendiati del ministero della Giustizia, compresi «per motivi di sicurezza» i magistrati. E anche a Is Arenas i magistrati negli anni passati non hanno lesinato le loro visite estive.
L’utilizzo da parte delle toghe dei beni dell’amministrazione penitenziaria è d’altronde ben noto da tempo agli addetti ai lavori. Perché le case-vacanze sono solo un aspetto marginale anche se indubbiamente colorito. Nel patrimonio immobiliare del Dap, la direzione delle carceri, c’è anche una quantità di appartamenti urbani. Sono quasi sempre collocati a ridosso delle prigioni, in zone degradate o periferiche, e ad abitarci sono in genere funzionari o agenti in servizio nelle carceri adiacenti. Ma una quota di questi appartamenti è a ridosso di carceri posti nei centri storici delle città, in zone di pregio: il caso più significativo è quello di Regina Coeli, la casa di reclusione storica della Capitale, affacciata sul Tevere.
A chiedere e a ottenere di abitare in alcuni di questi appartamenti a prezzi fuori mercato sono stati in passato numerosi magistrati. Nel 2018, quando arrivò a dirigere il Dap, il pm Francesco Basentini si fece portare l’elenco completo degli affitti e delle morosità, ne rimase dolorosamente colpito al punto di avviare un progetto integrale di riforma della gestione del patrimonio immobiliare. Poi Basentini dovette lasciare il Dap, e il progetto non si sa che fine abbia fatto.
Entrambi - i resort sulle spiagge, le case in città - finiscono per alimentare un luogo comune duro a morire: quello secondo cui in parte della magistratura italiana alberghi una mentalità per cui ricevere un trattamento di favore non è considerato un privilegio da disdegnare ma un doveroso omaggio al prestigio della toga. Di episodi singoli se ne potrebbero fare infiniti, ma esistono anche casi di scrocco collettivo.
Negli anni Ottanta era considerato normale che i magistrati arrivati a Milano ricevessero in dotazione un appartamento di proprietà del Pio Albergo Trivulzio, quello di Mario Chiesa, l’arrestato numero uno di Mani Pulite. Ora alcuni eccessi sono cessaSISTEMA A sinistra, il villaggio Is Arenas: 23 alloggi prefabbricati accanto alla Casa di Reclusioni di Arbus (Sud Sardegna). Sotto, nell’ordine, il villaggio alpino «Tempesti» a Corvara, la Darsena di Augusto a Pianosa e «Villa Ausserer» a Siusi ti. Ma quando si parla di vacanze, una certa vocazione al risparmio si fa sentire, anche quando è il momento di andare a sciare. Se la polizia penitenziaria non ha a disposizione grandi alloggi sulle montagne, a colmare la lacuna provvedono le caserme sia dei carabinieri sia della polizia, dove i magistrati - sempre sotto l’egida dei motivi di sicurezza - possono chiedere di essere ospitati per le settimane bianche. Stesso discorso per le strutture dell’esercito.
Tra le location più ambite ci sono a Merano lo Stifterhof della Ps e il Soggiorno montano dell’Arma; a Corvara, in Alta Badia, c’è il Villaggio Tempesti, il famoso centro addestrativo delle truppe alpine, recentemente ristrutturato a cura della provincia di Bolzano. La più famosa di tutti è probabilmente Villa Ausserer a Siusi, ufficialmente chiamata «base logistica» ma così richiesta per vacanze-status da finire al centro di un contenzioso tra il ministero della Difesa e il Comune di Castelrotto, che ne aveva disposto la chiusura considerandola un «esercizio ricettivo a carattere extra-alberghiero». Il Tar diede torto al Comune e Villa Ausserer ha potuto continuare a essere gestita dal Comando truppe alpine di Bolzano, ospitando figure di alto profilo (in precedenza, anche il presidente della Repubblica Ciampi) ma anche «personalità di adeguato livello», magistrati compresi. Nel 2017 il costo giornaliero era di 26 euro: un po’ più dei sette euro di Pianosa, ma comunque abbordabile.
È rimasto negli annali un magistrato che arrivato con famiglia in una delle strutture alpine chiese dove si ritirava lo ski-pass.
Cronaca semiseria di una storia di vita e giudiziaria. Dario (nome di fantasia) è stato oltre 4 mesi in un reparto per acuti in attesa di una comunità che non è mai arrivata, sì trova a casa solo e non ha riferimenti di supporto. Non esistono educatori a pagamento. Ha chiesto di parlare con il suo giudice tutelare che gli ha fatto sapere che deve rivolgersi all’amministratore di sostegno. Antonella Calcaterra, avvocata, su Il Dubbio il 18 ottobre 2023
Dario (nome di fantasia) me lo porto dietro da anni. Lo scorso anno dopo aver espiato la sua pena per un fatto di modesta gravità ha avuto una misura di sicurezza con collocamento in comunità. La misura di cura arriva mentre era ricoverato in un reparto ospedaliero milanese dove era andato spontaneamente perché non si sentiva bene. La misura di sicurezza resta ineseguita per carenza di posto. Dopo un mese di ricovero, viene accolto in una comunità da dove viene mandato via poco dopo perchè trovato positivo.
Esiste una delibera regionale del dicembre 2022 che vieterebbe alle comunità di dimettere i pazienti senza interloquire con i servizi di riferimento e con l’autorità giudiziaria ma viene costantemente disattesa. Questo per evitare che stazionino nei reparti dove si devono gestire i pazienti acuti o che stiano in giro senza assistenza.
Dario è di nuovo in reparto ospedaliero dove resta per oltre 3 mesi; vengono interpellate oltre 40 comunità ma nessuno lo vuole.
Tre mesi in reparto per chi non lo sapesse significa stare in un luogo con sbarre alle finestre dove non sì può uscire a vedere il sole e dove non c’è neppure una televisione.
Dopo 3 mesi un magistrato di sorveglianza coraggioso ha autorizzato Dario a tornare a casa dove è solo perché la mamma è in Rsa e sta male.
L’amministratore di sostegno nominato è un funzionario del Comune. Poco dopo con mail formale inviata anche a me e ai suoi vertici lamenta eccessive telefonate da parte di Dario, che oltre ad avere necessità di soldi per vivere ha bisogno di ascolto e di imparare a vivere autonomamente nel mondo.
Lui chiede aiuto per vivere, si sente solo, vorrebbe una borsa lavoro, compagnia. Non è capace a organizzarsi la vita. Nel mio piccolo penso che un amministratore di sostegno, quando poi è del comune, debba aiutare anche in questo. Invece no, dopo 3 telefonate l’amministratore mi scrive invitandomi a insegnare le regole al mio assistito, indica 4 ore alla settimana per le telefonate specificando che se ciò non verrà rispettato farà una querela per stalking.
In quelle due ore il telefono è sempre occupato.
E così continuiamo io e il mio studio ad occuparci di Dario, della sua solitudine, della sua povertà di risorse e del suo vuoto.
Riassumendo.
Dario è stato oltre 4 mesi in un reparto per acuti in attesa di una comunità che non è mai arrivata, sì trova a casa solo e non ha riferimenti di supporto perché chi dovrebbe occuparsene lo vuole denunciare per stalking. Non esistono educatori a pagamento. Ha chiesto di parlare con il suo giudice tutelare che gli ha fatto sapere che deve rivolgersi all’amministratore di sostegno.
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Ho ricevuto la brochure della settimana della salute mentale del comune di Milano con invito a partecipare a una sessione.
Non parteciperò.
Non amo le vetrine che raccontano realtà patinate diverse da quella che tocco con mano quotidianamente a fianco dei miei assistiti.
Che restano detenuti illegalmente in attesa di un posto in Rems mesi, con conseguenti sanzioni pagate dal nostro governo, che attendono in carcere o in ospedale posti in comunità mesi o che vengano abbandonati a loro stessi a casa.
In occasione di questa settimana meglio raccontare le cose come stanno e, come ben ha spiegato Fabrizio Starace sul Corriere della sera qualche giorno fa, meglio passare ai fatti. Di fronte a numeri che stanno crescendo a dismisura non sì può far finta di niente e continuare a destinare risorse così modeste alla salute mentale.
Diventa un problema di grave responsabilità a livello dei decisori politici regionali e nazionali.
Il posto dei malati psichici non è il carcere: la CEDU contro l’Italia. Stefano Baudino su L'Indipendente sabato 9 settembre 2023.
I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo hanno ordinato al governo italiano di interrompere la detenzione di due persone recluse nella casa circondariale di San Vittore e di collocarli in un luogo di cura. I due, infatti, sono “non imputabili”, poiché afflitti da gravi disturbi psichici. Se le istituzioni italiane non procederanno, l’Italia rischierà una condanna per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, che proibisce il trattamento o pena disumano o degradante.
La Corte aveva accolto negli scorsi giorni le richieste di ingiunzioni cautelari prodotte dalle avvocatesse Antonella Calcaterra e Antonella Mascia, insieme al giurista Davide Galliani. Uno di questi casi concerne la situazione di un soggetto albanese 46enne, certificato invalido civile “al 100%”, come scritto nell’istanza presentata alla Cedu. I suoi genitori, che vivevano insieme a lui, nell’autunno dell’anno scorso lo avevano denunciato per maltrattamenti e lesioni: l’uomo era quindi stato allontanato dalla sua abitazione dopo la richiesta della Procura. In seguito a una lunga serie di violazioni del divieto di avvicinamento, “causate anche dall’assenza di altri luoghi dove recarsi”, in particolare “per ripararsi dal freddo della notte”, i magistrati hanno disposto la misura cautelare in carcere.
Poi, nel gennaio 2023, in base a quanto certificato da una consulenza medica che lo inquadrava come soggetto “incapace di intendere e di volere”, hanno ordinato il suo inserimento all’interno di una comunità terapeutica. Proprio in riferimento a questo passaggio è emerso il primo “scoglio”, poiché non è stata trovata nessuna comunità pronta ad ospitare l’indagato, che dunque non ha potuto lasciare il carcere. Dopo aver dichiarato il “non luogo a procedere” poiché l’uomo era “non punibile per vizio totale di mente”, lo scorso maggio il Gip ha poi indicato il suo inserimento in una Rems, ovvero in una struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, subentrata dal 2017 agli ospedali psichiatrici giudiziari. Ancora una volta, però, non è stato dato seguito alla misura: mancavano i posti a disposizione.
Il secondo caso oggetto della pronuncia della Cedu è molto simile al primo. Riguarda un cittadino italiano di 40 anni, che lo scorso marzo è stato assolto dall’accusa di maltrattamenti ai danni dei genitori in quanto non imputabile per “vizio totale di mente”. Il giudice delle indagini preliminari ha provveduto a ordinarne la scarcerazione, a causa della grave patologia e della pericolosità sociale dell’uomo, e l’inserimento in una Rems. In cui, però, non ha potuto essere ospitato per carenza di posti.
L’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di Rems, in Italia, è stata oggetto di moltissime criticità. A sancirle è stata, nel 2022, una sentenza della Corte Costituzionale, che ha parlato di “numerosi profili di frizione con i principi costituzionali”, rispetto a cui si invitava il legislatore ad intervenire “al più presto”. Dall’istruttoria era infatti emerso che vi erano tra le 670 e le 750 persone in lista d’attesa per l’assegnazione di una Rems, molte delle quali autrici di reati gravi e violenti, ma i tempi medi per l’ingresso erano inquadrati in circa 10 mesi.
La Corte ha attestato come il sistema abbia dei “gravi problemi di funzionamento” che comportano la lesione dei diritti degli ospiti delle Rems, tra i quali anche il diritto alla salute, poiché i malati non ricevono “i trattamenti necessari” per “superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società“. Dichiarare illegittima l’intera normativa delle Rems, tuttavia, secondo la Corte avrebbe portato alla ”integrale caducazione del sistema”, che “costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG”, con un conseguente “intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”. I giudici hanno quindi invitato a una complessiva riforma del sistema. A cui però, fino ad oggi, il Legislatore non ha dato seguito. [di Stefano Baudino]
Il dramma delle articolazioni psichiatriche. Sono "repartini" nati per tutelare i detenuti afflitti da disturbi mentali, ma il più delle volte le strutture sono inadatte e il rispetto dei diritti della persona è spesso violato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 luglio 2023
Isolamento prolungato nelle cosiddette celle lisce, episodi ingestibili da parte degli agenti penitenziari, gravi gesti autolesionistici e non di rado suicidi. Il tema della salute mentale in carcere rappresenta uno dei nodi più difficili da sciogliere, per la necessità da una parte di garantire cure adeguate che rendano il contesto detentivo quanto meno possibile peggiorativo del disagio psichico, dall’altra per la necessità di assicurare la sicurezza della società libera e all’interno degli istituti stessi. Come abbiamo visto anche con la lettera – pubblicata su Il Dubbio di ieri – di Irene Testa, la garante della regione Sardegna, il problema è tuttora irrisolto a causa dell’inefficienza e degrado delle sezioni speciali apposite.
Bisogna partire da una premessa. Le persone con patologia psichiatrica autori di reato si divide in due gruppi, i “folli- rei” e i “rei- folli”. Per “folli- rei” si intendono le persone giudicate incapaci di intendere e volere, ma socialmente pericolose e dunque il gruppo di persone per cui all’epoca venivano rinchiusi negli allora ospedali psichiatrici giudiziari ( Opg) e oggi presso le Residenze per le Misure di sicurezza ( Rems).
Per “rei- folli” si intende invece quella categoria onnicomprensiva di persone giudicate capaci di intendere di volere, riconosciute colpevoli di un reato e per questo condannate a pena detentiva. Ed è per quest’ultimi che il vigente ordinamento penitenziario prevede la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali, oggi denominate “articolazioni per la salute mentale”, volte a garantire servizi di assistenza rafforzata per rendere il regime carcerario compatibile con i disturbi psichiatrici. In tali reparti si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Nascono così.
Dall’inizio degli anni Duemila, a partire dalla casa circondariale di Torino, si è iniziato a sperimentare la nascita di “repartini” o comunque sezioni speciali dell’istituto penitenziario che avessero lo specifico compito di occuparsi della salute mentale. La loro creazione ed effettiva gestione non è mai stata normata in maniera univoca e coerente sul territorio nazionale, ma affidata a fonti secondarie, ad atti interni all’amministrazione penitenziaria o ad accordi territoriali tra l’amministrazione penitenziaria e sanitaria.
Tali articolazioni, però, si trovano solo in poche decine di carceri, con il risultato del mancato rispetto della territorialità della pena e soprattutto con la troppa concentrazione di detenuti psichiatrici in pochi reparti. In generale, queste sezioni sono principalmente dedicate alla gestione sanitaria, ma rimangono comunque parte integrante delle strutture penitenziarie, con la presenza della polizia penitenziaria. Alcune di queste articolazioni sono inserite all'interno di reparti sanitari, mentre altre occupano spazi specifici. Tuttavia, come segnalato più volte anche dal Garante nazionale, il rispetto dei diritti delle persone detenute è spesso violato.
Sono stati riportati casi di contenzione. In particolare come è accaduto nel passato al carcere di Torino, emerge l'esistenza di ' celle lisce': quelle spoglie e prive di suppellettili. La permanenza prolungata in queste condizioni, oltre il tempo necessario per calmare l'individuo e oltre il termine della cosiddetta ' acuzia' ( fase iniziale dell'arresto in cui l'individuo può essere particolarmente agitato), può costituire un trattamento inumano e degradante. Basti pensare al recente caso segnalato da Maria Grazia Caligaris dell'associazione “Socialismo Diritti Riforme”, quello riguardante un ragazzo algerino di 19 anni tenuto in isolamento ogni tre giorni al carcere sardo di Uta. Senza ovviamente dimenticare ciò che ha riportato la garante regionale Irene Testa sul disagio non solo al carcere di Uta, ma anche al penitenziario di massima sicurezza di Bancali.
In generale, queste sezioni sono principalmente dedicate alla gestione sanitaria, ma rimangono comunque parte integrante delle strutture penitenziarie, con la presenza della polizia penitenziaria e l'applicazione delle norme carcerarie come in ogni altro settore. Alcune di queste articolazioni sono inserite all'interno di reparti sanitari, come nel caso di Cagliari, mentre altre occupano spazi specifici. All'interno di queste articolazioni si trovano persone che non possono essere curate e assistite nelle sezioni ordinarie delle carceri. La maggior parte di loro si trova in ' osservazione psichiatrica' secondo il quadro giuridico, che prevede un periodo iniziale di 30 giorni prorogabili, durante il quale viene valutata la compatibilità dello stato di salute psicofisico con la detenzione.
L'ingresso e l'uscita da queste articolazioni avvengono su decisione interna dell'amministrazione sanitaria e penitenziaria, senza alcuna previsione di un controllo giurisdizionale ( che invece avviene nel caso di ricovero in una struttura esterna al carcere). Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia, le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti.
Altro che "Mare fuori". Nei penitenziari minorili rieducare è impossibile. Dietro le sbarre ci sono 400 detenuti, metà è in attesa di condanna o maggiorenne. E questa promiscuità vanifica gli sforzi e infiamma gli animi. Felice Manti il 9 Settembre 2023 su Il Giornale.
Violenza, droga, sesso facile «con il degrado come special guest», come recita il tormentone di questa dannata estate. Sono vent'anni che il branco è diventato baby gang, che la criminalità minorile si è americanizzata, è più violenta, spietata, si bulla sui social, fa proseliti. E no, la storiella che l'emergenza nasca solo da famiglie disagiate e al Sud non regge, anche perché in tutte le città ci sono Bronx e zone franche, una terra di mezzo dove non esistono vie di mezzo, dove le forze dell'ordine si muovono silenziosamente o a favore di telecamere. Da Schio a Torino, Bari e Lucca, Ferrara, Taranto, Bologna, Brindisi e Rimini. E solo nell'ultima settimana. Si cresce in fretta, la disgregazione delle famiglie getta napalm sulle coscienze, ambienti borghesi e marginalità crescenti vanno a braccetto, esaltate da un'iconografia alla Gomorra che rimpiazza le sbiadite figurine genitoriali. Il divieto forzato alla socialità col lockdown ha fatto il resto, come l'impossibile integrazione degli italiani di nuovo conio, impermeabili a ogni tentativo educativo.
La politica chiede l'imputabilità a 12, vuole multare le famiglie troppo distratte, invoca carcere per i reati «da adulti», l'omicidio del musicista di Napoli o l'atroce violenza sessuale di Palermo, «ispirata» alle scene pornografiche che il branco ha ammesso di vedere.
Chiudere un ragazzino dietro le sbarre è una sconfitta doppia, bisognerebbe potenziare i servizi educativi ma gli assistenti sociali sono in via di estinzione. Il percorso rieducativo è tutt'altro che immediato per l'atavica lentezza della giustizia penale. Non solo non si reinserisce in società il condannato, di fatto lo si regala alle criminalità più o meno organizzate che ne fanno carne di cannone. Come a Reggio Calabria, dove il fortino dei rom scoperto da Klaus Davi in pieno centro è al soldo della 'ndrangheta. «Se un baby spacciatore viene arrestato, ad aiutare la sua famiglia ci pensa il clan, l'affiliato si sente in debito e non lo recuperi più», dice l'ex cappellano di Nisida Gennaro Pagano, il penitenziario che ospita criminali under 25 che Mare fuori ha abbellito causa rassicurante prima serata.
Al 15 dicembre scorso erano 400 (390 uomini e 10 donne) in Italia i detenuti tra i 14 e i 25 anni nei 17 Istituti penali minorili (Ipm), che sono più al Sud che altrove: più della metà dei reclusi è senza condanna definitiva o maggiorenne (e questo mina il percorso di riabilitazione), in un anno ne passano quasi 1.500 con reati contro il patrimonio (furti, rapine, estorsioni, ricettazione) la persona e l'incolumità pubblica. In 27 hanno tra 14 e 15 anni, 179 tra 16 e 17 anni, 135 tra 18 e 20 anni e 59 tra 21 e 24 anni; 199 sono italiani e 201 stranieri (tanti, se si pensa che gli immigrati sono meno del 10%).
Il sistema drena ingenti risorse ma ha sostanzialmente fallito. Dovrebbero esserci solo ragazzi detenuti per fatti molto gravi, invece ci finisce anche chi non si sa dove mandare (un 12enne è stato persino recluso a San Vittore...). È vero, il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ha in mano anche le misure alternative al carcere degli adulti e circa 15mila ragazzini in carico ai servizi sociali, ma è anche vero che questo dipartimento del ministero - guidato oggi dall'ex pm milanese Antonio Sangermano - non brilla certo per la condizione in cui vivono i giovani detenuti, nonostante gli sforzi di educatori penitenziari, mediatori culturali, volontari, insegnanti, istruttori e animatori, tra strutture obsolete ed edifici inadatti a ospitare ragazzi soggetti ad attività di tipo rieducativo e riabilitativo. Aggressioni, sommosse e tentativi di evasione sono all'ordine del giorno, al Ferrante Aporti di Torino, a Benevento come a Napoli.
A Catania un detenuto ha scaraventato una tv contro un agente, all'Istituto penale per minorenni di Roma e al Malaspina di Palermo circola droga, al Beccaria di Milano ci sono stati tentativi di fughe e incendi provocati da tossicodipendenti in crisi di astinenza, un altro ha preso a bastonate un agente. Al fatiscente penitenziario di Quartucciu in Sardegna la situazione è esplosiva, al Pratello di Bologna il sovraffollamento e la grave carenza di personale ha di fatto costretto a interrompere le visite familiari, a Treviso una violenta sommossa ha messo a nudo l'inadeguatezza della struttura Santa Bona, rimasta chiusa un anno. Il male dentro, altro che il mare fuori.
Non doveva andare così. Il misterioso successo di Mare Fuori e la vera realtà delle carceri minorili in Italia. Antonio Lamorte il 22 Marzo 2023 su L’Inkiesta.
La serie tv ambientata in un Istituto di Pena Minorile a Napoli ha superato le 105 milioni di visualizzazione oltre il 40 per cento del pubblico è formato da giovani under 25. Ma le condizioni dei giovani detenuti non sono sempre come quelle descritte
No, non doveva andare così, canta Raiz in un pezzo della colonna sonora. E no, non può andare così, non può finire così per i fan che da settimane scandagliano le scene, indagano i fotogrammi per scovare dettagli rivelatori. C’è chi ipotizza che addosso, sotto i vestiti, Rosa Ricci nasconda qualcosa; altri osservano morbosamente delle foto di scena di Ciro che potrebbero rivelare un’altra verità; qualcuno sostiene che di un personaggio non si veda l’ombra. E si lanciano ipotesi, a tanto così dal complotto. A dare la misura della “Mare Fuori Mania” è soprattutto l’hype che si è generato attorno agli ultimi minuti, gli ultimi secondi dell’ultima puntata della terza stagione, che andrà in onda domani sulla Rai ma che è già disponibile da tempo su Raiplay. Da giorni circola la teoria secondo cui domani, in onda, l’ultima puntata sarà più lunga di qualche minuto rispetto a quella disponibile online: è il noir, il giallo di un altro finale di Mare Fuori 3. Su tutti i media la corsa è a spiegare e razionalizzare il fenomeno record di questa serie tv ambientata in un Istituto di Pena Minorile a Napoli.
Qualcosa che è esploso letteralmente tra le mani della Rai. La sceneggiatrice Cristiana Farina che ha ideato e scritto il soggetto con Maurizio Careddu ha raccontato a Tvblogo che il progetto era nato 15 anni fa, dopo un seminario nel carcere minorile di Nisida con l’aiuto di testi e attori di Un posto al sole, e lasciato in qualche cassetto per oltre un decennio. La serie, prodotta da Rai Fiction e Picomedia, ha debuttato nel gennaio 2020 su Rai2. Racconta le vicende degli adolescenti reclusi in un carcere minorile ispirato all’Istituto sull’isola al largo di Posillipo ma ambientato al Molo San Vincenzo, quartier generale della Marina Militare, dove ormai arrivano i fan a scattarsi i selfie. Non solo: dopo tre anni dalla prima messa in onda gli attori non possono letteralmente camminare per strada a Napoli, la canzone della sigla è arrivata a Sanremo ed è suonata nelle discoteche, l’Istituto di Nisida è sommerso dalle richieste dei giornalisti, secondo il portale di viaggi online per effetto della serie le ricerche di voli per Napoli sono cresciute nientedimeno del 21% dal 15 al 28 febbraio scorsi.
Dati Rai: a febbraio la serie ha superato le 105 milioni di visualizzazioni, oltre il 40 per cento giovani con meno di 25 anni. E giù a sproloquiare, editorialisti e critica, a chiedersi il perché e a spiegare questo fenomeno che ragiona intorno alle logiche dell’appartenenza, di amici geniali incrociati dietro le sbarre, figli di camorristi e innocenti messi in mezzo, piccoli e brutali delinquenti. Quando lo spettatore si crea un pregiudizio, quando giudica quanto sia terribile e irrecuperabile e senza speranza un personaggio, l’intreccio spiega con una formula diventata virale: ecco Tonino (per esempio) qualche ora prima dell’arresto, ecco perché è finito dentro. Cantava Fabrizio de André: “Se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”.
Alle 16:30 del 25 dicembre 2022: carcere di Beccaria, Milano, sette ragazzi detenuti che si trovavano nel campo da calcio approfittano dei lavori in corso, sfondano una protezione di legno del cantiere, salgono sulle impalcature e si calano da un muro più basso. Gli aggiornamenti sull’evasione di Natale finiscono il 29 dicembre, quando gli ultimi due in fuga, un diciassettenne e un diciottenne, vengono ritrovati. Di carceri minorili e dei suoi detenuti se ne parlò con morbosità e costanza in quei giorni. Stando ai dati aggiornati al 15 dicembre 2022, sono 14.211 i giovani in carica al servizio sociale minorile in Italia, 6.400 sono campani, 400 sono detenuti presso 17 istituti penitenziari minorili – a Pontremoli, in Toscana, ce n’è uno esclusivamente femminile -, 201 sono stranieri. Meno della metà sono minorenni, la maggior parte hanno tra 19 e 24 anni. Quelli diventati maggiorenni durante l’esecuzione della pena possono rimanere in Ipm fino a 25 anni.
Nisida è il carcere che ne ospita il maggior numero: 55, il 60 per cento italiani, sezione femminile chiusa di recente. Sono 27 quelli accusati di omicidio volontario – 8 hanno tra i 14 e i 18 anni – , 80 di tentato omicidio. La maggior parte sono accusati di reati contro il patrimonio: furti e rapine. Sotto i 14 anni i minori non sono imputabili. Il Codice del processo penale minorile risale al 1988. I suoi principi ricalcano con maggiore fedeltà l’articolo 27 della Costituzione – «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» -, puntano alla riparazione e alla ricostruzione prima che alla punizione, è raro che un minore che ha commesso un crimine finisca in carcere. La messa in prova, che sospende il processo per favorire un percorso psicoriabilitativo personalizzato, dal 2014 è stata estesa anche alla Giustizia ordinaria, agli adulti. “«e non faremo in modo che chi esce dal carcere sia migliore di come è entrato, sarà un fallimento per tutti. E se non ci arriviamo per civiltà, umanità e per rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, arriviamoci per egoismo. Conviene a tutti che quel rapinatore, quello spacciatore, una volta fuori cambi mestiere», ha detto nel suo monologo sugli IPM a Sanremo Francesca Fagnani. Ma quanta gente si sarà interessata al tema grazie alla fiction?
«È bello che questa serie abbia messo al centro il tema delle carceri minorili, però ho sempre l’impressione che allo stesso tempo i ragazzi che sono dentro vengano dimenticati, abbandonati a loro stessi. Non è vero che c’è il comandante che ti prende a cuore, che ti segue quando esci con la direttrice, come in una famiglia: questo a Nisida non c’era», racconta Raffaele Criscuolo che ha 28 anni e all’IPM napoletano c’è stato due volte, per uno scippo e per una rapina a mano armata. A Nisida ha cominciato a farsi le canne ma anche corsi da pizzaiolo, da barman, di ceramica. Oggi fa il pizzaiolo. «La serie l’ho vista tutta, l’ho fatta vedere anche a mio figlio. Si avvicina in molti casi a quello che si vive in carcere. All’IPM si diceva: ’Meglio Poggioreale che Nisida’, perché ogni giorno c’era un ragazzino che si svegliava e si atteggiava a Raffaele Cutolo, che voleva comandare, che vuole farsi notare. E quindi succedevano le tarantelle. Certo c’erano delle risse, dovevi imparare a farti rispettare per non diventare il fesso della situazione, ma non tutte quelle coltellate, non tutti quei permessi, le celle non sono aperte così spesso come può sembrare dalla fiction, anzi quasi mai, non si potevano incontrare le ragazze così spesso. C’è tanta realtà ma ovviamente c’è anche tanto romanzo».
Il romanzo dunque: in tutta la storia di Nisida, dalla fine degli anni ’80, ci sono state quattro evasioni; soltanto nella serie ce ne sono tre. Appare inverosimile che dopo certi eventi ci siano poche o nulle conseguenze nel carcere, quasi allettante l’atmosfera con tutti questi ragazzi e ragazze insieme da mattina a sera che sfocia nel mélo di amori shakespeariani, Giulietta e Romeo dei Quartieri e di Forcella. C’è il sangue, c’è il sesso, ci sono i soldi che mancano o che si guadagnano in ogni modo possibile. E ci sono poi questa Napoli cool e anti-Gomorra – perché qui c’è la speranza – e queste canzoni nella colonna sonora curata da Stefano Lentini diventate tormentoni.
Mare Fuori è un teen drama, genere esploso con prepotenza negli ultimi anni. Forse per il lockdown, che ha portato ognuno a riflettere sul suo passato, i propri traumi, in un labirinto che porta sempre lì, all’adolescenza se non prima. Come ha detto Fran Lebowitz in un’intervista a Il Corriere della Sera: «Il problema della vita è che sei sempre alle superiori: conta tantissimo quanto sei popolare, qualunque lavoro tu faccia». Mare Fuori è anche un prison drama, un sempreverde: da Prison Break a Orange Is The New Black. A segnare il passo del successo è stato lo scorso giugno l’approdo delle prime due stagioni su Netflix, un marchio di qualità, più trendy rispetto alla Rai. Servizio pubblico che non può dimenticare il suo ruolo: e infatti ci sono i pipponi, le prediche da servizio pubblico – da Un posto al Sole a Un Posto al Fresco insomma. Qualche mese prima i diritti erano stati acquisiti da Beta Film per la distribuzione internazionale, a marzo 2022 la stagione era stata rinnovata per una terza e una quarta stagione.
Quando un fenomeno diventa così pervasivo l’impressione però è che niente possa bastare a spiegarne il successo. Per resistere alla FOMO chiedere a Maria Franco, la maestra che per oltre trent’anni ha insegnato a Nisida. Ai giornalisti che l’hanno contattata ha risposto che lei la serie non l’ha vista, e non per pregiudizio o snobismo. Forse la vedrà, forse no. Con molte probabilità torneranno a vederla domani sera i più accaniti, tutti quelli che l’hanno già vista su RaiPlay ma che non ce la fanno ad aspettare un anno almeno per la quarta stagione, che non sono convinti da quel finale, che non ci stanno, che subodorano il giallo di Mare Fuori 3. Su TikTok era diventato virale nelle settimane scorse il video di una ragazza che telefonava alla Rai per chiedere conto del mistero dei minuti aggiuntivi. A Viale Mazzini non ne sapevano niente.
“Non esistono ragazzi cattivi”. Nella comunità di don Claudio il recupero è più importante della pena. La Kayros di Vimodrone accoglie minorenni autori di reato. Giovani che arrivano dal carcere e contesti difficili. Ma per il fondatore il metodo educativo è la strada per scoprire in loro risorse inimmaginabili. Francesca Barra su La Repubblica il 13 Febbraio 2023.
Quando entri nella comunità Kayros di Vimodrone, alzi gli occhi e leggi un cartello con la scritta: «Non esistono ragazzi cattivi». Che tu spacci, che tu uccida, che tu rubi, qui non sei percepito come fossi irrecuperabile. Non ci sono sbarre alle finestre o cancelli, perché la libertà soverchia il pregiudizio ed è il metodo educativo su cui si fonda ogni ingresso.
Don Claudio Burgio è il cappellano del carcere Beccaria di Milano e il fondatore della comunità che accoglie in questo momento cinquanta minori provenienti dal carcere e da difficili condizioni familiari. Con lui i giovani si sentono al sicuro, più che in qualsiasi altro contesto che ha sabotato il loro diritto alla felicità. Perché qui sentono di appartenere a una comunità.
«Bisognerebbe entrare nelle loro case e capire che spesso non hanno alternative culturali. In questi contesti è difficile aderire a un modello di vita differente». Questi adolescenti hanno a che fare con un mondo fuori asse: una mancanza, un abbandono, una storia di difficoltà, di sacrifici, di rabbia. Il reato è, nella maggior parte dei casi, la loro palude.
Un ragazzo di origini marocchine ha iniziato a rubare a dodici anni ed è scappato da venticinque comunità, prima di arrivare alla Kayros. Sogna di diventare un operatore cinematografico o un montatore dal giorno in cui ha visto una telecamera accesa. E si è acceso anche lui. Da qui non sta scappando, gli altri ragazzi sono diventati protettivi, fratelli maggiori. Se gli chiedi perché non va via, alza gli occhi e, come fosse la cosa più naturale del mondo, risponde: «Perché qui sto bene».
«Quando uno viene dal basso ha più fame», dicono i ragazzi. A volte quella fame porta alla rovina, ma prima o poi può portare a tirare fuori delle capacità insospettabili. Kayros è la risposta a una richiesta di aiuto, che non sempre viene esplicitata, un’opportunità senza protervia che, attraverso lo sport, il teatro, la musica, permette al ragazzo di specchiarsi in una versione migliore di sé stesso. Scoprendo risorse inimmaginabili.
Il carcere dovrebbe essere un aiuto, ma è concepito come un castigo, una vendetta che non educa, ed è difficile che ti cambi. Perché ti incattivisce. «Una bara che ti prepara a un’altra sepoltura», insomma. Il recupero, per don Claudio, è più importante della pena. Bisogna smettere di pensare che sbattere il mostro in cella basti per farci sentire al sicuro o migliori, perché animati dall’ansia di giustizialismo.
Un giorno don Claudio ha avuto un dialogo con un ragazzo in carcere.
«Don, è inutile che ti sbatti per me, tanto sono un tossico. Ti ringrazio, ma lo so che, quando uscirò, niente cambierà». «Non mi dire che sei un tossico. Sei un ragazzo che ha usato sostanze». E lui: «Vabbè, che differenza fa?».
Don Claudio gli ha spiegato che, invece, cambia tutto. Cambia il mondo. Perché, se un ragazzo pensa di essere il problema che ha, resterà chiuso, senza le infinite possibilità di bellezza che la vita può offrire.
«Vabbè, non mi hai convinto». Gli ha risposto quel ragazzo. Dopo due settimane, però, qualcuno l’ha chiamato dal fondo della cella e gli ha urlato: «Oh, sfigato!». Lui si è girato e, davanti a don Claudio, ha risposto: «Non sono sfigato. Sono un ragazzo che ha sfiga». Anche una storia sbagliata merita salvezza.
Rieducazione e misure alternative. Il metodo italiano per combattere la criminalità minorile è un modello virtuoso. Giuseppe Pastore su L’Inkiesta il 31 Gennaio 2023
Il nostro Paese fa un ricorso residuale alla detenzione di adolescenti e giovani adulti: sono 385 nei diciassette Istituti per i minori presenti sul territorio. Merito anche di una normativa molto avanzata, influenzata da una cultura di accoglienza e non di repressione
Certezza della pena non significa solo carcere. Certezza della pena significa garantire che lo Stato sia in grado di assicurare risposte immediate e, soprattutto, efficaci per il reinserimento sociale dei condannati. È una consapevolezza che negli ultimi trent’anni è maturata molto nella giustizia penale minorile italiana, al punto da renderla un modello virtuoso a livello europeo per il recupero dei minori e, di conseguenza, per il contrasto alla criminalità giovanile.
Sebbene nel 2022 siano aumentati del 14,3 per cento i reati commessi da minori di diciotto anni (rispetto al 2019), su circa quattordicimila arresti sono meno di quattrocento i giovanissimi presenti negli istituti penali per minorenni (Ipm). Più precisamente, secondo gli ultimi dati del Dipartimento per la Giustizia minorile, sono 385 i minori e i giovani adulti (dai diciotto ai ventiquattro anni che hanno commesso il reato quando erano minorenni) presenti nei diciassette Ipm sparsi per l’Italia.
È un indicatore del fatto che la giustizia minorile italiana sta progressivamente superando il modello della detenzione in carcere a favore di misure alternative, come le comunità residenziali e la messa alla prova. «L’Italia ha una normativa molto avanzata sui minori, in gran parte influenzata da una cultura di accoglienza e non tanto di repressione della devianza giovanile», dice a Linkiesta Michele Miravalle, componente dell’osservatorio nazionale di Antigone.
Rispetto agli altri Paesi europei l’Italia fa un ricorso davvero residuale alla detenzione dei minorenni. Per ogni centomila abitanti, infatti, nel nostro Paese i minori in carcere sono circa tre volte meno della Francia e quattro volte meno di Germania e Regno Unito. L’Italia si guadagna così uno dei primi posti in Europa insieme a Paesi come la Finlandia e l’Olanda. «La giustizia minorile italiana è ai primissimi posti – spiega Miravalle –. All’estero c’è molto interesse verso il nostro sistema: ad esempio negli Stati Uniti si dibatte, con posizioni politiche molto differenti, su una giustizia minorile che prescinda dallo strumento della galera a favore di strutture intermedie come le comunità».
Se si considera il reato come uno strappo che si consuma tra l’autore e la società, si comprende quanto sia complesso ricucire questa ferita. Tanto più se a commettere il reato è un adolescente: il suo reinserimento sociale sarà ancora più delicato di quello di un adulto e lo stigma dell’esperienza carceraria potrebbe segnarlo per sempre. È in termini rieducativi, quindi, che deve essere valutato un modello come quello italiano.
I numeri dicono che sono pochissimi i procedimenti penali a carico di minorenni che terminano con la condanna alla pena detentiva. Lo si deduce dal fatto che la maggior parte dei minori di diciotto anni presenti negli Ipm è in attesa del primo grado di giudizio.
Ma è sul piano rieducativo che va valutato il modello italiano: un ordinamento in cui si osserva un tasso di recidiva superiore per chi è stato in carcere. La differenza più marcata si nota nel confronto con lo strumento della messa alla prova. I minorenni che hanno usufruito della sospensione del processo penale (con relativa messa alla prova e successiva estinzione del reato), infatti, vantano un tasso di recidiva del venti per cento nei settantasei mesi successivi alla commissione del reato rispetto ai minori di diciotto anni che hanno sperimentato altre misure rispetto alla messa alla prova (tra cui il carcere), registrando un tasso di recidiva del trentuno per cento. La misura ha trovato applicazione crescente negli ultimi tre decenni: se nel 1992 si registravano 788 provvedimenti di messa alla prova, nel 2021 se ne contano ben 4.634.
Non è solo l’efficacia dello strumento in termini di recidiva che ha stimolato questo processo, ma probabilmente anche una maggiore sensibilità dei giudici. «Il punto è che una pena che prescinde dal carcere acquisisce più senso nella vita dei ragazzi», osserva Miravalle: «Nel momento in cui, invece, avviene l’ingresso in carcere assistiamo al deterioramento delle loro condizioni di vita, di salute e anche dei loro percorsi». È la descrizione di un carcere punitivo più che riabilitativo che «aggrava i percorsi di devianza – aggiunge il referente di Antigone – e incattivisce i ragazzi. Ecco perché, pur biasimando il gesto, capisco la voglia dei ragazzi del Beccaria di fuggire da quel posto, perché sono luoghi che hanno poco o nulla di costruttivo nel percorso di vita di un ragazzo».
Costruire o, meglio, ricostruire. Se persino il Beccaria di Milano, considerato uno dei migliori istituti penitenziari per minorenni, non riesce più a rispondere a questa missione, è bene che siano altre le strade da intraprendere. In Italia a fronte di diciassette Ipm, ci sono 637 comunità residenziali per minori o giovani adulti sottoposti a provvedimenti penali. In queste strutture vengono eseguite prevalentemente misure cautelari (meno afflittive del carcere), ma anche provvedimenti di messa alla prova. Una parte residua dei ragazzi in comunità, infine, proviene dagli Ipm perché ha ottenuto un alleggerimento della misura penale.
«Quando le comunità lavorano bene creano quei prerequisiti e quelle condizioni per far maturare il ragazzo e introdurlo alla vita sociale, lavorativa e pubblica», spiega don Claudio Burgio, fondatore della comunità Kayròs di Vimodrone, in provincia di Milano. Una realtà di eccellenza nel panorama italiano che, negli ultimi vent’anni, ha accolto decine di ragazzi in difficoltà riuscendo ad entrare «con discrezione nelle loro vite» e avviandoli a percorsi di crescita personali e professionali. Da qui, ad esempio, sono passati esponenti della scena trap contemporanea come Sacky e Baby gang che, con la loro musica, hanno descritto il disagio che li ha inghiottiti nel circuito penale. Merito di persone come don Claudio Burgio, aperte all’ascolto e disponibili ad assecondare passioni e inclinazioni dei ragazzi.
«È importante – prosegue don Burgio – che la comunità conservi quello che la parola communitas significa: un modello di vita dove l’uno aiuta l’altro. È indispensabile che in queste strutture operino educatori capaci di evitare che le dinamiche di gruppo, in cui spesso agiscono questi adolescenti, non si ripropongano anche qui perché rischierebbero di inficiare il loro percorso di crescita». Anche le comunità, proprio come il carcere, attraversano difficoltà: «Ci sono comunità che fanno un lavoro egregio – riconosce Miravalle –, ma esistono anche “comunità parcheggio” che non offrono quel quid in più alla vita del ragazzo. Bisognerebbe iniziare a fare questa distinzione».
Tuttavia, a differenza degli Ipm, le comunità sono naturalmente inclini a valorizzare la persona, accompagnandola in un percorso di rielaborazione del reato commesso. Questo è possibile anche perché la durata media di permanenza in comunità è superiore a quella in carcere che spesso si limita ad essere un luogo di transito di qualche mese. Sono forme alternative al modello detentivo i cui numeri ne certificano l’efficacia. «È per questo che l’Italia deve essere orgogliosa del proprio sistema di giustizia minorile invece di minarlo con proposte repressive come l’abbassamento dell’età per l’imputabilità o il maggiore ricorso al carcere per i minorenni», osserva Miravalle. Sono proposte «mai messe a terra – specifica – ma che girano nell’aria e rischiano di dare forti picconate al nostro sistema che, invece, dovrebbe essere ulteriormente migliorato laddove necessario».
In tema di prevenzione del reato, per esempio, l’esponente di Antigone rievoca «l’educativa di strada» che in Italia, tra gli anni Settanta e Ottanta, rappresentava un efficace modello preventivo nell’ambito dei servizi sociali e che oggi potrebbe ritrovare applicazione nel contrasto a fenomeni devianza giovanile come le baby gang, bande di giovani (tra i quindici e i diciassette anni) dedite alla violenza che, negli ultimi cinque anni, sono cresciute in tutte le regioni italiane, come chiarito dal report “Le gang giovanili in Italia” realizzato dal Centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica. «Dovrebbero essere gli educatori a cercare i ragazzi nei luoghi del disagio – dice Miravalle –. Non bisognerebbe aspettare, invece, che i ragazzi arrivino in carcere o nelle comunità per essere recuperati».
E poi, sul piano normativo, l’auspicio che l’Italia si doti di un codice penale per minorenni «perché un reato commesso dai minori non può essere trattato nello stesso modo di un reato commesso dagli adulti». È una richiesta che Antigone rinnova ormai da tempo. Per fare un esempio, «il furto in un supermercato commesso da un minorenne ha un significato sociale diverso dallo stesso furto commesso da un adulto», conclude Miravalle.
Don Gino Rigoldi: «I ragazzi del Beccaria? Sono fuggiti per cercare affetto. Una ‘crosta’ li isola dal mondo». Elisabetta Soglio su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.
Lo storico cappellano del carcere minorile di Milano e i “suoi” giovani: «Eravamo un modello. Poi è cambiato tutto». «E’ un carcere, sì, ma la filosofia non è mai stata ‘li sbatti dentro e butti via la chiave’. Piuttosto costruiamo speranze»
Don Gino Rigoldi, classe 1939, cappellano dell’Istituto Beccaria di Milano dal ‘72. Negli Anni 70, dopo aver fondato ‘Comunità Nuova’ per il reinserimento dei giovani usciti dal carcere, diede vita a un centro di disintossicazione (Fotogramma)
Intanto ci vuole passione: «Se non vuoi bene a questi ragazzi è meglio che cambi mestiere». E poi servono punti di riferimento autorevoli: «Se a capo delle guardie metti un ragazzo di 25 anni, difficile lo ascoltino». Infine, bisogna sfatare i miti: «Il Beccaria è stato un modello, ora non lo è più. Ma è anche inutile piangersi addosso: bisogna ripartire e bisogna farlo restando tutti insieme». Ecco, l’idea della rete educativa a don Gino Rigoldi, 83 anni compiuti e una testa che non smette mai di inventare progetti, piace davvero tanto. Ci ha speso una vita da prete e da cappellano dell’Istituto minorile Beccaria di Milano.
Una vita. Come comincia questa storia, don Gino?
«Comincia 51 anni fa. La struttura era appena diventata pubblica, prima era dell’Associazione nazionale Cesare Beccaria. Serviva il cappellano e mi feci avanti, accanto al direttore che si chiamava Antonio Salvatore ed era un maestro elementare. Era un educatore attento al bene dei ragazzi: si occupava anche delle mura e del personale, certo. Ma i ragazzi erano il suo pensiero fisso: li amava e sapeva anche trattarli con durezza quando serviva. C’erano gli educatori, arrivarono i primi volontari e si faceva molta attenzione anche a formare gli agenti che erano per lo più padri di famiglia. Eravamo tutti molto motivati, molto entusiasti di poter fare qualcosa per cambiare radicalmente le vite di questi giovani».
Una esperienza solo milanese?
«Ci confrontavamo anche con altre realtà. Ho in mente la nave scuola che aveva realizzato il maestro Garaventa a Genova: caricava questi giovani e facevano i mozzi, imparando da questa metafora il rispetto delle regole, il gioco di squadra, il valore dei propri talenti. Ma è stato davvero un momento unico: ci sentivamo parte di una bella impresa collettiva, fatta di competenze e di studio oltre che di passione».
Che ragazzi aveva davanti al Beccaria?
«All’inizio erano italiani quasi tutti del Sud: avevano alle spalle famiglie complicate, tantissima povertà e poche speranze. Noi cercavamo di proporre attività che li aiutassero a capire il valore della vita e di loro stessi come persone. La formazione professionale, la pasticceria, la falegnameria. E poi la scuola, uno snodo fondamentale per dare autentica emancipazione, e il teatro che ha aiutato davvero tanti a conoscersi, a misurarsi con le proprie capacità e le proprie fragilità».
Comunque era un carcere. O no?
«Beh, certo. Ma la filosofia non è mai stata li sbatti dentro e butti via la chiave. Anzi facevamo attività che aprivano all’esterno: come il torneo di calcio, una esperienza importante portata avanti partecipando a un campionato del Csi, il Centro sportivo italiano. Anche se poi lì ci fu un piccolo incidente».
Cosa accadde?
«Un ragazzo diede un pugno all’arbitro e il progetto venne sospeso. Però insomma, da lì passavano un migliaio di ragazzi ogni anno e tutto sommato la situazione è sempre rimasta sotto controllo: inoltre credo che davvero a tutti siano state offerte opportunità importanti di crescita».
Ha tenuto contatti? Che fine hanno poi fatto una volta fuori?
«Ho tenuto contatti con tantissimi e tanti si sono costruiti vite piene. Uno adesso è un grosso imprenditore in centro Italia, uno si è laureato e oggi fa l’avvocato, un altro è un importante commerciante in Puglia. Le racconto anche questa: avevamo molti ragazzi che arrivavano da Cerignola, chissà perché. Qualche anno fa stavo facendo un viaggio e mi sono fermato lì per mangiare qualcosa: ha cominciato ad avvicinarsi uno, poi un altro, “Don Gino, don Gino, ma non mi riconosci?”. E poi si sono passati la voce e tutti volevano che andassi a salutare le mamme e qualche nonna e in ogni casa mi offrivano da mangiare e da bere. Son venuto via da Cerignola contento ma distrutto dal cibo...».
E quello del pugno all’arbitro?
«Quando è uscito ha vissuto un po’ da me in comunità. Poi si è sposato e gli ho fatto da autista prendendo in prestito una macchina molto lussuosa perché voleva arrivare in Comune così. Gli ho anche fatto da testimone. Adesso ha quattro figli che sono dei piccoli lord e lui, dovreste vederlo: li sgrida anche se dicono mezza parolaccia, è un papà premuroso ma molto severo».
Descrive il carcere come se fosse un paradiso. Mai problemi?
«Un paio di rivolte c’erano state, ma in poche ore arrivavamo e in due giorni tornava tutto alla normalità. Un’altra volta uno ha rubato una pistola e sparava: sono salito da lui anche se la Polizia voleva fermarmi e l’ho convinto a buttare l’arma e a farsi portare via in ambulanza».
Questi i primissimi anni. Poi?
«Poi dagli Anni 90 sono arrivati gli stranieri: prima gli albanesi e ancora ancora si riusciva a tenere insieme il progetto. Poi sono arrivati i nordafricani e lì e cambiato tutto perché abbiamo dovuto affrontare una cultura nuova, anzi una non cultura, un vuoto totale di senso e di valore. Intendo dire che i loro Paesi di provenienza sono anche ricchi di cultura: ma da noi sono arrivati e arrivano ragazzi spesso analfabeti, prevalentemente di estrazione umilissima, da aree molto povere. E la loro cultura religiosa islamica si ferma a qualche vago rispetto di alcuni precetti, ma non sanno dare profondità. Infine, non conoscono la nostra grammatica relazionale, non sanno come rapportarsi all’interno della nostra società, e quindi rimangono intrappolati nel piccolo gruppo autoreferenziale di chi è del tutto simile a loro».
Come sono cambiate le generazioni?
«Se i primi ragazzi erano vittime di una cultura dell’accaparramento, dell’ottenere tutto con la strada più facile che per loro erano furti e rapine, poi abbiamo dovuto fare i conti con un grandissimo isolamento dal mondo: questi giovani non avevano mai visto un computer, raramente un cellulare, non avevano mai ascoltato musica né letto un qualsiasi libro. Vite che ruotavano intorno alla sopravvivenza».
«E quelli che arrivano oggi, che invece il cellulare lo hanno e un po’ di musica la ascoltano, hanno però lo stesso problema di isolamento: è come se avessero una crosta che li rende impermeabili a ogni stimolo e noi dobbiamo trovare un modo per rompere quel guscio».
Nel senso che questo è il compito del carcere?
«Non può essere solo punitivo: altrimenti scontano la condanna, escono e ci ricascano. Questi sono ragazzi intelligenti che però devono essere, diciamo così, “costruiti”. Gli devi dare stimoli, occasioni, visione di sé. Li devi aiutare a capire che la vita è più di mangiare, dormire e fare sesso. Sono ragazzi intelligenti, ma con loro è difficile anche parlare di calcio».
Come si è spiegato l’episodio di dicembre e l’evasione?
«È stata davvero una ragazzata, una leggerezza perché è capitata l’occasione. Questi sono ragazzi semplici, non violenti: al loro posto io sarei arrabbiato e penserei di spaccare tutto. A uno mancavano quattro mesi per finire, e adesso si prenderà una seconda condanna. Sottolineerei che sono scappati per andare in famiglia o nel proprio gruppo affettivo, amicale. Non hanno progettato latitanze per organizzare nuovi crimini. Semplicemente, avevano bisogno di ritrovare quel poco di affetto indispensabile per la sopravvivenza».
Non è troppo buono, don Gino?
«Io sto parlando di loro. Ma se mi chiede un giudizio sul contesto sono molto critico. Io non sono buono con noi adulti. L’errore è nostro e anche questo episodio ci dice che abbiamo fallito nella nostra missione formativa e che bisogna ricominciare in modo diverso».
Lei cosa farebbe?
«Intanto serve stabilità, quella che è mancata negli ultimi 10 anni: dopo tanti turn over abbiamo una direttrice facente funzioni che è competente e appassionata. Ripartiamo da lì e rimettiamoci insieme a fare squadra, con i volontari, gli educatori, la scuola; rimotiviamo gli agenti di polizia penitenziaria, rivediamo i progetti per affascinarli, coinvolgerli, stimolarli. Solo lavorando insieme aiuteremo loro e la società a crescere».
Al Beccaria pochi agenti, educatori precari e cantieri da 15 anni: così è stato «smontato» l’ex penitenziario modello. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 26 Dicembre 2022
I lavori iniziati nel 2007 avrebbero dovuto concludersi in tre anni, invece non finiranno prima di aprile 2023. Almeno nove mesi per un nuovo direttore
Il «colpevole», o almeno quello che ora fa comodo a tutti gli «sconcertati» scoprire come tale, e cioè il cantiere eterno dell’istituto minorile Beccaria (da dove a Natale sono evasi sette detenuti, ndr), tra non molto diventerà maggiorenne: perché è dal 2007 — quando iniziarono i lavori che avrebbero dovuto concludersi in 3 anni — che si trascinano le ristrutturazioni, riprogrammate a sempre nuove scadenze immancabilmente dilazionate (l’ultima, stando al recente accordo tra ministeri delle Infrastrutture e della Giustizia, è aprile 2023 per il secondo lotto iniziato nel 2018). Così come è una vita che il Beccaria non ha direttori titolari, ma ce li ha «a scavalco» con altri istituti, espressione burocratica per non dire chiaramente che, quando va bene, al Beccaria riescono a stare due giorni a settimana: da poco finalmente si è concluso l’iter per un titolare, che però, tra passaggi tecnici e formazione, difficilmente riuscirà a prendere servizio prima di nove mesi. «Questo scossone forse farà risvegliare il Ministero per mettere a fuoco una situazione in ombra da 20 anni», auspica l’ex cappellano don Gino Rigoldi, anima del periodo d’oro di quando, insieme all’ultimo direttore stabile Antonio Salvatore, il Beccaria veniva additato a modello di istituto di giustizia minorile in Italia e persino in Europa.
Gli attuali padiglioni detentivi sono del 2017 per 31 posti disponibili, e di solito quando i ragazzi arrivano a 38 scatta lo sfollamento verso Torino o altri istituti. Metà italiani e metà stranieri, molti vi entrano a titolo di «aggravamento», misura che consegue al fallimento di percorsi esterni in comunità, quando poi il giudice ordina l’ingresso ma solo per 30 giorni in attesa di collocazione. Gli educatori ministeriali sono un capo area che funge da vice-direttore, un educatore a tempo pieno, e due per 30 ore a settimana, mentre la Regione attraverso il Fondo Sociale Europeo ne finanzia 4 e il Comune 5, ma con contratti provvisori rinnovati a seconda delle risorse disponibili. La polizia penitenziaria conta in teoria 72 persone, ma l’affanno quotidiano è permanente, ad esempio i 7 scappati a Natale erano sul campo di calcio con un solo agente.
L’emergenza pandemica ha fatto sì che nel marzo 2020 il Centro di prima accoglienza (dove arrivavano tutti i minori arrestati e in attesa di udienza di convalida) fosse chiuso e adibito a isolamento Covid per i nuovi arrivati: ma così si è trasformato di fatto in una sezione detentiva ibrida, e in più tocca portare a Torino tutti i minori arrestati in Lombardia, con un viavai quindi di trasporti e scorte.
Altra zona sempre più ambigua dal punto di vista logistico — lo segnalava già il rapporto dell’Associazione Antigone a inizio 2022 — è l’infermeria perché spesso vi vengono parcheggiati detenuti per incompatibilità con altri ristretti o per maggior sorveglianza, insomma mescolando esigenze sanitarie con ragioni invece disciplinari e organizzative: «Alla domanda sul perché uno dei ragazzi avesse il materasso orizzontale rispetto alle reti di due letti — refertava ad esempio la visita di Antigone —, ha risposto che gli era stato imposto di dormire così per essere visto dallo spioncino».
Del resto nessuno degli «sconcertati» dall’evasione natalizia si era sconcertato granché quando non un secolo fa, ma una settimana fa, da un arresto disposto dal gip Guido Salvini in una inchiesta della pm Rosaria Stagnaro era emerso un fatto assai più grave: la feroce violenza sessuale e tortura delle quali la notte del 7 agosto era stato vittima un 16enne egiziano legato coi polsi alla finestra del bagno da tre compagni. Era infatti successo che «a fini di sua tutela» fosse stato appunto «collocato in infermeria», ma che il 6 agosto «fosse stato necessario spostarlo» in una cella (dove il 7 era stato aggredito) «per ragioni organizzative urgenti e non fronteggiabili in altro modo»: e cioè per l’inagibilità dell’infermeria sfasciata da un altro detenuto, e l’assenza appunto di spazi alternativi. «A volte — commenta il cappellano don Claudio Burgio — si ha davvero la sensazione che i diritti dei minori siano davvero minori».
Beccaria, il cappellano Don Burgio: «I ragazzi non ce la fanno più, chiedono farmaci per calmarsi o dormire». Elisabetta Andreis su Il Corriere della Sera il 28 dicembre 2022
Parla fondatore della comunità Kayros di Vimodrone e cappellano del Beccaria
Sembra che l’obiettivo primario di tutti sia, adesso, calmarli. Ma non li calmi, se non dai loro la prospettiva di potersi costruire giorno dopo giorno un futuro che a loro piace e interessa». Don Claudio Burgio, fondatore della comunità Kayros di Vimodrone e cappellano del Beccaria, ieri pomeriggio usciva sconsolato dall’Ipm di Milano dove si fronteggiava un’altra giornata di forti tensioni dopo la fuga di sette ragazzi e i disordini che sono seguiti.
Com’è la situazione?
«Alcuni ragazzi non ce la fanno più, pensano di non avere niente da perdere, sono provocatori a livello verbale, temono nuovi trasferimenti in carceri lontane. Spesso alla richiesta di farmaci per calmarsi o dormire la notte si acconsente ma anche la medicalizzazione, se diventa eccessiva, è un rischio: quando escono e tornano a casa o in comunità sostituiscono gli ansiolitici con le sostanze, pericolose a maggior ragione in presenza di disagi psichici. Dovrebbero riprendere a questo proposito laboratori trasversali e incisivi che informino sui danni dell’alterazione artificiale. I problemi sono molti, bisogna affrontarli uno ad uno con coraggio e spirito positivo, insieme a loro»
La detenzione, a maggior ragione per i minori, dovrebbe essere l’estrema ratio...
«Proprio così, ma il sistema fuori fa acqua. Non ci sono abbastanza comunità strutturate al punto da voler accogliere i casi difficili. Servono figure adulte con grande esperienza e predisposizione ma gli educatori sono pochi sia al Beccaria sia fuori».
In istituto penitenziario il minore dovrebbe sperimentare la possibilità di una vita diversa. Succede così?
«Non proprio. Il carcere è l’ultimo presidio totalitario, un sistema dove per definizione si reprime la libertà. Un luogo di violenza, dunque. In particolare mettere un adolescente, pur autore di reato, dietro le sbarre troppe ore al giorno è contro natura. Il rischio è l’effetto stigmatizzante che rafforza l’identità criminale. Oggi, quando sono andato via, battevano tutti contro i blindi, un rumore assordante. Per evitare che la violenza prenda il sopravvento bisogna che i ragazzi non avvertano il Beccaria come luogo solo di reclusione ma che lo vivano come un ambiente formativo costruito per loro: solo così investiranno su se stessi».
Lo scorso agosto c’è stato quell’episodio terribile venuto a galla, il ragazzo ferocemente abusato e picchiato in cella. È un’eccezione?
«Il bullismo che ha portato i ragazzi in carcere si ritrova spesso anche nelle celle e in particolare la prima accoglienza deve essere monitorata attentamente perché i rischi che si replichino certe dinamiche è molto alta».
Come sono le giornate di quei ragazzi?
«Troppo vuote, in particolare nei periodi di vacanza. Le attività, soprattutto dopo il Covid, sono state ridotte e si svolgono quasi solo all’interno delle sezioni, per la paura e la fatica organizzativa di trasferire in sicurezza e gestire gruppi di giovani in cortile o in palestra e teatro, luoghi peraltro ristrutturati e bellissimi che è un peccato non utilizzare con regolarità. Gli agenti sostengono uno sforzo enorme ma cosa deve succedere perché il ministero capisca che serve rafforzare l’organico e dare più stabilità al personale in continuo turnover?».
Che cosa non si riesce a organizzare regolarmente?
«Ad esempio allenamenti e partite di calcio e rugby o partite con esterni, come invece si faceva prima. L’osmosi tra dentro e fuori è oltremodo salutare, appoggio con stima l’idea della direttrice Maria Vittoria Menenti di creare una pizzeria interna. Servono aziende che investano in stage e tirocini: i ragazzi imparerebbero un mestiere e inizierebbero a guadagnare qualcosa con l’idea che iniziano a diventare grandi e dunque più responsabili».
Cesare Giuzzi per “il Corriere della Sera” il 27 dicembre 2022.
«Mi sono lasciato trascinare in questo casino, ho sbagliato a seguirli». Bryan è finito in carcere ai primi di marzo. Ha compiuto 18 anni dietro le sbarre del Beccaria. I carabinieri lo avevano arrestato con l’accusa di essere uno dei capi della gang «Z4» che aggrediva ragazzini, li picchiava e derubava. Ha origini ecuadoriane.
Appena saltato giù dal muro di cinta del carcere, senza sapere che fare né dove andare, ha bussato alla porta della suocera. I poliziotti erano lì ad aspettarlo e lo hanno preso. Interrogato dal pm Cecilia Vassena che lavora in sinergia con i magistrati dei minori, guidati da Ciro Cascone, non ha fatto i nomi dei compagni, ha solo detto che lui e altri si sono uniti seguendo chi fuggiva. È stato il primo a tornare in cella la sera di Natale.
Subito rientrato anche un 17enne originario del Comasco che s’è consegnato convinto dalla sorella. Gli ha spiegato che quella non era una «ragazzata» ma un’evasione che avrebbe comportato altre accuse, nuovi mesi di carcere. Il terzo è invece un 17enne milanese con precedenti per rapina e lesioni: era dalla zia.
Il profilo degli evasi ancora in fuga è quasi identico: non sono inseriti in contesti criminali, hanno famiglie disagiate e diversi precedenti. Un 19enne pavese, un 18enne italo marocchino, un 17enne marocchino e un coetaneo brianzolo. Uno solo ha un fine pena di cinque anni, alcuni sarebbero usciti entro pochi mesi per essere affidati in comunità, uno addirittura ai primi di gennaio. Tra loro ci sarebbe l’ideatore della grande fuga di Natale. E attraverso l’analisi dei filmati di sorveglianza gli investigatori della penitenziaria, guidati dal comandante Mario Piramide, stanno cercando di ricostruire ruoli e compiti.
Tutto avviene intorno alle 16. C’è l’ora d’aria, i ragazzi scendono in cortile. Di solito, soprattutto in inverno, c’è chi sceglie di restare in cella. Stavolta ci sono tutti e dodici gli ospiti del reparto. Con loro c’è un solo agente. «Il fatto che siano scesi in massa è anomalo — riflette un investigatore —. Di certo erano al corrente e hanno contribuito a distrarre la guardia». Una volta in cortile i ragazzi chiedono un pallone per fare due tiri a calcio.
L’agente si allontana per un attimo e quando torna con il pallone mancano sette detenuti. L’area è grande e i ragazzi rimasti cercano di distrarlo di nuovo. Quando si accorge che sono spariti alcuni reclusi sono ormai trascorsi più di due minuti. Fa scattare l’allarme, alcuni agenti escono dalla struttura di via Calchi Taeggi e puntano i fari verso i campi e lo stradone che porta a Settimo Milanese. Ma non c’è nessuno. Dal muro di cinta, alto meno di quattro metri, penzola il brandello di un lenzuolo. Guardando i filmati delle telecamere a ritroso gli investigatori ricostruiscono la fuga.
Quando l’agente è andato a parlare con la collega per farsi consegnare un pallone, i sette abbattono con un calcio un pannello che copre le impalcature del cantiere che da più di 16 anni interessa il carcere. Poi salgono lungo l’impalcatura e arrivati in alto legano il lenzuolo per calarsi. Ma si aggrappano in troppi e tutti insieme. Così la stoffa si spezza e uno soltanto riesce ad arrivare a terra. Libero.
A quel punto scatta il piano B. I sei rimasti corrono verso un altro angolo del cantiere, dove c’era il campo da calcio. Fanno una sorta di scala umana e raggiungono la recinzione. Saltano un pannello e una grata. Poi giù nel vuoto verso l’asfalto. Arrivati a terra tutti vanno in direzioni diverse. Sembra la scena di un film. In pochi secondi non c’è più traccia di quelle ombre che corrono. Viene avvertita la questura. Arrivano le volanti che circondano il carcere, si piazzano posti di blocco nelle strade vicine.
Gli agenti notano un tizio che gira intorno al carcere, forse era lì in attesa dei ragazzi. Ma un controllo approfondito esclude ogni legame. Per questo l’ipotesi degli inquirenti è che si sia trattato di un’azione «pianificata» con ampie dosi di improvvisazione. I ragazzi hanno agito in un giorno di festa, hanno portato un lenzuolo da una cella, scelto un punto della recinzione ben visibile dalla loro sezione.
Quindi sapevano cosa avrebbero trovato sulla loro strada. Ma fuori ad aspettarli non avevano nessuno e i primi già catturati hanno cercato rifugio in modo fin troppo scontato dalle famiglie. «È una situazione da tenere sotto controllo perché l’evasione è un reato che crea nei ragazzi ulteriori aggravamenti nella loro vita di recupero», dice la presidente del Tribunale dei minori Maria Carla Gatto. La loro libertà ha le ore contate, ma la loro vita rischia adesso di portare a lungo le cicatrici della grande fuga di Natale.
Ilaria Carrara, Massimo Pisa per repubblica.it il 27 dicembre 2022.
Un terzo detenuto, dei sette evasi ieri dall'Istituto penitenziario per minori Beccaria di Milano, è rientrato in carcere. La notizia ha trovato conferma da parte del sindacato Sappe della Polizia Penitenziaria. Sarebbero stati i genitori a convincerlo a tornare nell'istituto. […]
Dopo l'evasione dei ragazzi, quattro maggiorenni e tre minorenni, nel carcere c'è stata una protesta. I ragazzi hanno appiccato il fuoco ad alcuni materassi in un reparto, reso inagibile. La situazione è tornata sotto controllo solo nella tarda serata dopo l'intervento dei vigili del fuoco. I dodici detenuti nel reparto sono stati trasferiti in altri istituti. […]
Sulla stessa linea il sindaco di Milano Beppe Sala, che dice: "Non c'è proprio più spazio per chiacchiere o affermazioni generiche di 'sconcerto'". Un riferimento neanche troppo velato alle parole di Salvini che a caldo aveva parlato proprio di "sconcerto". "Il Beccaria era un carcere modello - continua Rigoldi - . Lo era nel passato, in un passato ormai remoto. […]
"Certamente il cantiere e i lavori che si protraggono da diversi anni e altre varie problematiche hanno inciso e agevolato il disegno dei ragazzi finalizzato ad allontanarsi dell'istituto", ha affermato Giuseppe Cacciapuoti, direttore generale del personale del Dipartimento per la giustizia minorile, dopo il sopralluogo all'istituto penitenziario. Il dirigente del Dap ha evidenziato anche criticità legate alla "carenza" e alla "formazione" del personale della Polizia penitenziaria.
"Certamente a volte si ha la sensazione che i diritti dei minori siano davvero minori": don Claudio Burgio, è il cappellano del carcere Beccaria, da cui ieri sette ragazzi sono evasi, ed è anche il responsabile della comunità Kayros. Anche oggi è entrato nell'istituto e ha incontrato la presidente del tribunale dei minorenni di Milano Maria Carla Gatto, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari e il responsabile per i Minori del Dap, Giuseppe Cacciapuoti.
Ci sono "lacune" ha spiegato all'ANSA da colmare per quanto riguarda il personale, non solo di agenti di polizia penitenziaria ma anche di educatori. Una "situazione annosa" in cui è difficile "gestire situazioni sempre più complesse, con ragazzi sempre più compromessi da esigenze psichiatriche", aggravate dagli abusi di droga e alcol.
"Nell'immediato occorre un'organizzazione all'altezza della situazione, per agenti ed educatori. Ne abbiamo parlato con il capodipartimento e con il sottosegretario. Il primo punto - ha sottolineato - è avere una situazione in sicurezza". E poi "anche con la presidente Gatto abbiamo parlato del fatto che Milano è piena di volontari, associazioni, no profit ma se mancano gli interlocutori al Beccaria tante risorse restano inutilizzate".
L'evasione dal Beccaria, il garante dei detenuti: "Una spacconata di carattere impulsivo"
Secondo il garante dei detenuti del Comune Francesco Maisto, l'evasione dei sette ragazzi è stata "una spacconata di carattere impulsivo". "I problemi del Beccaria - ha detto all'ANSA - sono due, amaramente cristallizzati nel tempo" ovvero la mancanza di un direttore e i lavori che proseguono da anni.
"Da 15 anni non c'è un direttore stabile e la mancanza di una guida sicura ha degli effetti. Pur nella professionalità, c'è stato un turn over di reggenti" che hanno già altri incarichi di cui occuparsi e che in più "sono direttori di istituti penali per adulti, mentre il direttore di un istituto minorile deve avere una formazione diversa". […]
Estratto dell'articolo di Ilaria Carra per milano.repubblica.it il 26 Dicembre 2022.
"Il Beccaria era un carcere modello. Lo era nel passato, in un passato ormai remoto". Nelle parole del sindaco di Milano Beppe Sala, che dopo l'evasione di sette detenuti e la rivolta avvenuta nel giorno di Natale è tornato a invocare l'intervento del governo, c'è tutta l'amarezza per la parabola discendente di un istituto minorile ritenuto in passato un fiore all'occhiello del sistema penitenziario milanese e non solo. Un esempio di come, grazie anche al 'dialogo' tra dentro e fuori, tra il carcere e la città, fosse possibile davvero dare un futuro alle vite spezzate dei ragazzi. Oggi, è un focolaio di problemi mai risolti negli anni, di questioni che si trascinano da tempo […]
Il carcere Beccaria di Milano e il cantiere infinito
Come tutte le carceri italiane, anche il Beccaria è malato di sovraffollamento. Attualmente sono 44 i detenuti, contro una capienza massima di 36 posti. Ma questo è solo uno dei problemi che si va a sommare a criticità ormai diventate croniche. Su tutte, la vicenda del cantiere infinito dell'istituto.
La ristrutturazione dell'edificio, in particolare dell'ex padiglione femminile, è iniziata nel 2008: i lavori sarebbero dovuti durare tre anni, ma non sono ancora terminati tra ostacoli e un iter, quello dell'appalto, rallentato. Risultato: un'intera ala è chiusa, con il conseguente dimezzamento dei posti disponibili e il trasferimento del reparto femminile altrove. […]
Il carcere Beccaria senza una guida
Senza contare che da tempo nell'ormai ex istituto penitenziario modello, che sorge in un quartiere periferico di Milano ma in grande espansione urbanistica come Bisceglie, manca una guida unica e dedicata. Come ricordano ancora Sala e don Gino Rigoldi, lo storico cappellano dei ragazzi, "da quasi vent'anni non c'è un direttore, e ce la si è cavata con dei 'facente funzione"". […]
Non solo. I sindacati segnalano come tante tensioni al Beccaria nascano dalla convivenza tra minorenni e maggiorenni. Come dice il segretario del Sappe Lombardia Alfonso Greco: "La legge lo prevede ma è assurdo e non ha senso tenere 25enni con ragazzini di 14 anni. I fatti si commentano da soli".
Le tensioni e i disordini al Beccaria, l'allarme inascoltato di don Rigoldi
I segnali di tensione e disordini all'interno della struttura minorile erano emersi anche negli ultimi anni. Già nel 2018, dopo un'altra, l'ennesima, rivolta con materassi e coperte dati alle fiamme dai ragazzi, don Gino Rigoldi aveva lanciato l'allarme: "Sono molto preoccupato, molto. La situazione al Beccaria è al limite e nessuno fa niente. Non so se bisogna aspettare che ci scappi il morto, perché il ministero si muova". Parole cadute nel vuoto. […]
La storia del Beccaria, da Vallanzasca a Erika De Nardo
L'istituto rappresenta un pezzo di storia della giustizia minorile in Italia. Nato nel 1950, il Beccaria ospitava inizialmente un riformatorio o casa di rieducazione per ragazzi "disadattati, irregolari nella condotta e nel carattere" secondo la definizione del tempo. Nei primi anni '70 l'istituto assunse l'attuale destinazione di carcere penale minorile.
Qui, negli anni, sono stati tanti gli ospiti. Da un giovanissimo Renato Vallanzasca, l'ex bandito della Comasina, che a soli otto anni trascorse 48 ore al Beccaria dopo aver cercato di far uscire da una gabbia la tigre di un circo che aveva piantato il tendone proprio vicino a casa sua. A Erika De Nardo che, nel 2011, a 16 anni, con il fidanzato Omar Favaro, 17, uccise la madre Susy e il fratellino di 12 anni, Gianluca e che al Beccaria ha trascorso quattro anni, conseguendo anche il diploma di geometra. Fino alle ultimissime vicende di cronaca e ai trapper arrestati tra accuse di sparatorie e furti come Baby Gang o Simba La Rue. […]
Carcere Beccaria di Milano: l’evasione, la rivolta e gli incendi. Cosa sappiamo. Il Domani il 26 dicembre 2022 Sul caso sta indagando sia la procura di Milano sia quella minorile, mentre per accertare le dinamiche della fuga è atteso nell’istituto penitenziario Giuseppe Cacciapuoti il capo del dipartimento per la Giustizia minorile. Tre fuggitivi sono stati ritrovati, mentre quattro agenti sono stati ricoverati in ospedale per intossicazione
Intorno alle 16:30 del giorno di Natale è scattato l’allarme nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, dopo che sette detenuti sono fuggiti approfittando dei lavori in corso iniziati da diverso tempo. Per due di loro la fuga è durata poche ore dato che sono stati rintracciati dalle forze dell’ordine. Un terzo è stato intercettato nella mattinata del 26 dicembre e sarebbe stato riaccompagnato in carcere da un famigliare.
Gli altri sono attualmente ricercati e tre di loro hanno un’età compresa tra i 18 e i 19 anni. Secondo Gennarino De Fazio, segretario generale dell’Uilpa sono scappati dal cortile passeggi approfittando del fatto di essere sorvegliati da un solo agente. I detenuti avrebbero aperto un varco nella recinzione e scavalcato così il muro di cinta.
Sul caso sta indagando sia la procura di Milano sia quella minorile, mentre per accertare le dinamiche della fuga è atteso nell’istituto penitenziario Giuseppe Cacciapuoti il capo del dipartimento per la Giustizia minorile.
LE PROTESTE
All’evasione sono seguite le rivolte. Alcuni detenuti hanno appiccato un incendio all’interno di diverse celle e nel cortile, dove sono stati date alle fiamme materassi e altri oggetti. Sul luogo sono intervenute quattro diverse squadre dei vigili del fuoco e cinque autoambulanze. Secondo il segretario generale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria Sappe, alcuni agenti sono rimasti intossicati. Per quattro di loro è stato necessario il ricovero in ospedale, di cui tre sono stati dimessi nella mattinata del 26 dicembre. Dopo la rivolta in carcere tutti gli agenti penitenziari sono stati richiamati in servizio.
LE REAZIONI DELLA POLITICA
«Innanzitutto la solidarietà agli agenti feriti e intossicati. E poi parlavo con diverse istituzioni e diversi colleghi ministri ieri: non è possibile. Non è possibile evadere così semplicemente. Ci sarò oggi per incontrare il direttore per capire come mettere in maggiore sicurezza non solo il carcere minorile di Milano ma anche tutte le carceri italiane, perché troppo spesso ci sono episodi violenti. Quindi, bisogna permettere a donne e uomini della penitenziaria di lavorare tranquilli», ha detto il ministro delle Infrastrutture e vicepremier Matteo Salvini che si è detto «sconcertato» per l’accaduto.
Sul caso è intervenuto anche il sindaco di Milano Beppe Sala che ha visitato l’istituto penitenziario lo scorso settembre: «Il Beccaria era un carcere modello. Lo era nel passato, in un passato ormai remoto. Da quasi vent’anni non c’è un direttore, e ce la si è cavata con dei “facente funzione”. Da una quindicina d’anni ci sono lavori in corso, che non finiscono mai. Questa è la situazione. Chi si vuole scandalizzare per l’accaduto è libero di farlo. Ma la realtà va guardata in faccia».
Da carcere modello a esempio di abbandono, la storia del carcere Beccaria di Milano. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 26 dicembre 2022 Lavori in corso da 15 anni, direttore assente da circa venti. La situazione del carcere di Milano è degenerata nel corso degli anni, passando da modello da seguire a modello da non seguire
Per anni il Cesare Beccaria è stato un istituto penitenziario definito “modello”, un esempio da seguire in tutta Italia. Dal giorno di Natale il carcere minorile è invece al centro della cronaca dopo che sette detenuti hanno approfittato della scarsa sorveglianza e dei lavori in corso nella struttura per scappare. Tre di loro sono di nuovo in carcere, mentre per altri quattro proseguono le ricerche.
Ma alla fuga ha fatto seguito una rivolta da parte dei detenuti che hanno incendiato alcuni materassi e oggetti all’interno del cortile della struttura. Il risultato è di quattro agenti ricoverati in ospedali per intossicazione, tre dei quali sono stati dimessi dopo poche ore. Immediatamente il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha annunciato la sua visita nel carcere. «Non è possibile evadere così semplicemente. Ci sarò oggi per incontrare il direttore per capire come mettere in maggiore sicurezza non solo il carcere minorile di Milano ma anche tutte le carceri italiane, perché troppo spesso ci sono episodi violenti. Quindi, bisogna permettere a donne e uomini della penitenziaria di lavorare tranquilli», ha detto il ministro Salvini mentre nella legge di Bilancio che arriverà il 27 dicembre in Senato è previsto un taglio da 36 milioni di euro per gli agenti della Polizia penitenziaria.
Nella giornata del 26 dicembre il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, e il direttore generale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Giuseppe Cacciapuoti, hanno eseguito un sopralluogo di circa due ore nel carcere minorile per parlare con la direttrice facente funzione Maria Vittoria Menenti e capire le dinamiche dell’accaduto.
I LAVORI PERENNI E IL DIRETTORE MANCANTE
Secondo una prima ricostruzione i fuggitivi hanno sfruttato i lavori per la ristrutturazione dell’ex padiglione femminile dell’edificio. Gennarino De Fazio, segretario generale dell’Uilpa, ha detto che sono scappati dal cortile passeggi approfittando della sorveglianza di un solo agente. Così, i detenuti avrebbero aperto un varco nella recinzione e scavalcato il muro di cinta dandosi alla fuga. Ma il cantiere, aperto da oltre quindici anni all’interno della struttura penitenziaria, sarebbe dovuto durare solo tre anni se non fossero sopraggiunti diversi problemi riguardo all’assegnazione degli appalti all’azienda edile del progetto originario. Fonti del ministro delle Infrastrutture fanno sapere che all’inizio di dicembre è stato firmato un accordo con il ministero della Giustizia per terminare i lavori al carcere minorile Cesare Beccaria di Milano entro aprile 2023. Si tratta dei lavori per la realizzazione del secondo e ultimo lotto fermo dal 2018 anche a causa della pandemia.
Ritardi su ritardi che hanno decretato una situazione di stallo all’interno del carcere e hanno quasi dimezzato il numero dei posti a disposizione della struttura passati da 50 a 31. La realizzazione dei lavori, invece, avrebbe aumentato i posti a disposizione fino a 70-80 unità.
Un altro elemento critico denunciato più volte dalla società civile e l’assenza da circa vent’anni di un direttore dell’istituto, gestito in maniera “emergenziale” da un direttore facente funzione sostituito più volte.
In un rapporto l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone ha segnalato i problemi legati alla struttura. Tra i problemi identificati dagli operatori celle «anguste» e mancanza di personale interno. «Piuttosto ambigua la gestione degli spazi detentivi attigui all’infermeria – si legge nella relazione finale – si tratta di celle chiuse e più anguste di quelle dei reparti ordinari che ospitano ragazzi non solo per ragioni sanitarie ma anche disciplinari e di mera organizzazione degli spazi. Le tante attività trattamentali proposte faticano a tradursi in percorsi significativi di inserimento lavorativo. Colpisce l’impegno di risorse umane e materiali da parte degli enti locali, unicum a livello nazionale».
Secondo quanto scrivono gli operatori all’interno del Beccaria ci sono tensioni tra i vari detenuti. «Il clima detentivo appare piuttosto teso, nei due gruppi di “trattamento” in cui è organizzato l’istituto si percepiscono dinamiche volte ad enfatizzare la leadership di alcuni a scapito di altri, ma anche un percepibile livello di apatia e assenza da parte di numerosi ragazzi». I ragazzi risultano svogliati nel partecipare alle attività formative ed educative che spesso vengono annullate per la mancanza di personale.
IL CASO DI STUPRO
Non è ancora chiaro chi abbia aizzato i detenuti alla rivolta del 25 dicembre, ma non è la prima volta che all’interno del carcere si verificano episodi di violenza. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, nella notte tra il 7 e l’8 agosto scorso un ragazzo di 16 anni sarebbe stato accerchiato, picchiato e violentato da altri detenuti all’interno della struttura che hanno approfittato del cambio turno degli agenti.
In sette evadono dal carcere minorile e al Beccaria scoppia la rivolta. La fuga dalla struttura milanese è avvenuta a Natale approfittando dei pochi controlli: in tre già catturati. Gli altri detenuti bruciano materassi per protesta. I sindacati denunciano: "Sovraffollamento e troppi maggiorenni". Paola Fucilieri il 27 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Milano La polizia penitenziaria, che sotto la direzione della Procura ordinaria e di quella dei minori li sta cercando un po' dappertutto, non esclude nulla. Nemmeno che qualcuno possa averli aiutati a fuggire e in queste ore abbia dato loro una mano a nascondersi in un rifugio sicuro anche se, per ovvie ragioni, non eterno.
Certo è stata una fuga programmata e studiata nei dettagli quella dei sette ragazzi scappati il pomeriggio di Natale, intorno alle 16, dall'istituto penitenziario per minori «Cesare Beccaria» in via dei Calchi-Taeggi, zona occidentale della città, ai limiti del quartiere Lorenteggio. E l'idea dell'evasione è partita da due semplici consapevolezze germogliate, nelle menti dei giovani «osservatori», un 19enne, due 18enni e quattro 17enni, di cui due maggiorenni già catturati dalla Penitenziaria nel tardo pomeriggio di domenica e riportati in carcere grazie a una mediazione tra i parenti (in un caso la nonna, che ha lanciato l'allarme quando si è trovata il nipote a casa, nell'altro la sorella che ha convinto il giovane fratello evaso) e la direzione del «Beccaria», mentre un terzo è tornato da solo ieri mattina dopo essere stato persuaso dai genitori. Il gruppo, composto originariamente in tutto da una dozzina di ragazzi, non solo ha realizzato infatti che l'unico agente della polizia penitenziaria predisposto a sorvegliarli durante la passeggiata pomeridiana costituiva un impedimento davvero troppo minimale alla fuga (infatti sarebbe stato distratto con una scusa), ma anche che i lavori in corso nel cantiere creato per il rifacimento del perimetro del carcere - proprio dentro il cosiddetto «cortile passeggi» utilizzato per l'«ora d'aria»- potevano agevolarli non poco ad aprire velocemente un varco e scavalcare la recinzione esterna da una impalcatura con un lenzuolo poi ritrovato in via dei Calchi-Taeggi.
Subito dopo l'evasione domenica nel carcere c'è stata una protesta. I ragazzi detenuti infatti hanno appiccato il fuoco ad alcuni materassi in un reparto del «Beccaria» che adesso è inagibile e senza luce. La situazione è tornata sotto controllo solo nella tarda serata dopo l'intervento dei vigili del fuoco. Quattro agenti di polizia penitenziaria sono stati trasportati all'ospedale San Carlo perché intossicati dal fumo, mentre dal penitenziario le turbolenze tra i detenuti ci hanno messo parecchio tempo a placarsi dopo che, la stessa notte, i 7 considerati responsabili della protesta sono stati trasferiti nel penitenziario minorile di Bari.
Gli evasi - cinque italiani originari di Milano, della provincia di Monza e Brianza, di Pavia e del Comasco, uno nato a Milano da una famiglia di origini marocchine e un ecuadoriano (ma adesso all'appello ne mancano solo ancora quattro)- erano già stati protagonisti di episodi di disturbo dentro l'istituto penitenziario.
Tutti detenuti al Minorile in custodia cautelare per reati contro il patrimonio, quindi furti e/o rapine, non per aver ricevuto condanne definitive, bensì perché il giudice aveva stabilito la misura del carcere in attesa del processo. All'interno del penitenziario è tornata anche la direttrice facente funzioni Maria Vittoria Menenti che si divide tre giorni alla settimana tra il Beccaria e il carcere di Opera, dov'è direttrice.
La situazione in via dei Calchi-Taeggi nell'ultima settimana si è fatta incandescente: l'antivigilia di Natale due agenti della polizia penitenziaria erano stati aggrediti da un detenuto. E adesso i sindacati ne approfittano comprensibilmente per alzare i toni.
«Da molto arrivano segnali preoccupanti dall'universo penitenziario minorile- ha spiegato il segretario generale del sindacato Sappe, Donato Capece -. Registriamo il ripetersi di gravi eventi critici negli istituti penitenziari per minorenni d'Italia».
E mentre il segretario del Sappe Lombardia Alfonso Greco parla di una «vera fuga di massa», il segretario generale lombardo dell'Uspp Gian Luigi Madonia, pur sottolineando che non si sa ancora con esattezza se «possano esserci responsabilità organizzative o professionali del Reparto o deficit strutturali che hanno indebolito i sistemi di sicurezza» definisce l'evasione «eclatante».
«Sette soggetti insieme è unevento che probabilmente non ha precedenti» conclude.
«Per ragioni legate anche al sovraffollamento penitenziario nelle carceri, l'età dei detenuti può arrivare fino ai 25 anni» fa sapere il segretario del sindacato Uilpa, Gennarino De Fazio. E l'aumento vorticoso dei casi di aggressione agli operatori, di sommosse e in questo caso di evasione, «sono imputabili a una serie di fattori» tra cui appunto «l'innalzamento del limite d'età».
Ieri intanto al Beccaria è arrivato il sottosegretario alla Giustizia con delega ai minori, il senatore leghista Andrea Ostellari. Che, dopo aver detto che sarà disposta una indagine sull'accaduto, ha dichiarato che sarebbe «vicina, speriamo la cattura anche degli altri soggetti che sono fuggiti.
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 27 dicembre 2022.
C'è stato un momento, all'inizio della pandemia, in cui la situazione, già pesante, è sfuggita di mano. L'8 marzo 2020 nel carcere di Modena scoppia una rivolta: i detenuti saccheggiano la farmacia e si impadroniscono dei flaconi di metadone e psicofarmaci. È una strage con nove morti. Il giorno dopo scene da Sudamerica vanno in scena a Foggia: evadono dalla prigione in settantadue. Un record nel pur disastrato mondo dei penitenziari italiani.
Poi il mondo che sta dietro le sbarre torna nelle retrovie: i problemi non sono risolti, ma chi è fuori ha già i suoi guai e quelli di chi è in cella interessano poco. Si dice che sia il sovraffollamento l'emergenza numero uno, ma non è così. Non quest' anno che si avvia alla chiusura con un macabro primato che ha fatto indignare l'appena arrivato guardasigilli Carlo Nordio: i suicidi, arrivati ai primi di dicembre a quota 79. Un'ecatombe, un picco che non trova confronti nelle statistiche degli ultimi dieci anni e un valore che è quindici-diciotto volte più alto di quello delle persone libere.
C'è una relazione fra le cifre dei «prigionieri» e il numero di quelli che si tolgono la vita. Ma il legame spiega fino a un certo punto: nel 2021 c'erano stati 58 suicidi, 62 nel 2020 e 54 nel 2019. Dieci anni fa, nel 2012, si erano uccise in cella 56 persone, ma la popolazione carceraria era molto più alta: 66mila persone contro le circa 55mila di oggi.
C'è dell'altro evidentemente: il disagio psichico, la fragilità, la solitudine di molti stranieri, il fatto che circa il 40 per cento dei carcerati faccia uso di psicofarmaci. Colpisce anche un altro dato: 31 detenuti sucidi erano in attesa del giudizio di primo grado.
E allora come interpretare questa strage silenziosa? «Il 62 per cento dei Il numero di suicidi nelle carceri italiane, una media diciotto volte più alta rispetto a fuori dal carcere suicidi avviene nei primi sei mesi di carcere - nota il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma - sembra quindi che lo stigma percepito dell'essere approdati in carcere costituisca l'elemento cruciale che spinge al gesto estremo».
Per Nordio c'è naturalmente in cima alla lista la costruzione di nuove carceri: in Italia i tempi per realizzare una struttura sono lunghissimi, almeno dieci anni, e dunque la soluzione che il ministro propone è quella dell'utilizzo delle caserme dismesse. Ma poi c'è il tema incandescente delle pene alternative, particolarmente per i tossicodipendenti che sono circa il 40 per cento dei carcerati. «C'è una mia sensibilità sul punto - spiega il ministro - .
Non è detto che ci debba essere necessariamente solo il carcere, soprattutto per i reati che non sono di particolare allarme sociale. Ci sono delle comunità dove la sicurezza è garantita al massimo. Io ho visitato a suo tempo San Patrignano».Insomma, si cerca di tracciare la strada per uscire da un perenne affanno.
C'è poi, questione dentro una questione più grande, la situazione difficile delle carceri minorili. La rivolta al Beccaria di Milano e la fuga di sette ragazzi porta in prima pagina le difficoltà dei più giovani. C'è una specificità legata al Beccaria, un tempo considerato una prigione modello e oggi in crisi per diverse ragioni: anzitutto, come denunciato dal sindaco Giuseppe Sala, l'assenza di un direttore da vent' anni, con diversi reggenti che hanno fatto quel che potevano in uno stato di precarietà e sospensione.
E c'è poi l'eterna questione dei cantieri che vanno avanti da troppo tempo, con lavori iniziati nel 2008 in quello che allora era il reparto femminile. Ancora, è facile immaginare quel che può accadere nella convivenza fra ragazzini di 14-15 anni e i loro compagni più grandi di 25 anni, perché per legge questo è il limite d'età per gli istituti minorili.
Più in generale, questo circuito è riuscito a trasformare la detenzione nell'eccezione: al 15 gennaio 2022 erano 316 i detenuti, solo il 2,3 per cento di quelli in carico ai servizi della giustizia minorile. Ma dopo la flessione legata alla pandemia c'è nel primo semestre del 2022 un aumento del 16,7 per cento di under 18 denunciati, fermati o arrestati. E quasi un terzo delle rapine è opera di giovanissimi.
Carcere minorile Beccaria: da modello a sintomo di cosa non va nelle prigioni italiane. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 27 Dicembre 2022
Nel pomeriggio del 25 dicembre sette giovani, tra i 17 e i 19 anni, sono riusciti a evadere dal carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, struttura in cui si trovavano in attesa di processo per aver commesso furti e rapine. Due di loro sono stati trovati e riportati in carcere poco dopo la fuga, un altro invece si è costituito il giorno dopo, convinto dai familiari. Nel frattempo nell’istituto si è verificata anche una rivolta degli altri ragazzi detenuti. Oltre alla notizia in sé, ampiamente raccontata nelle scorse ore, il punto è un altro: Cosa ci raccontano fatti come questo sullo stato delle carceri minorili in Italia?
Stando alle prime ricostruzioni, frutto di un collage di informazioni tra quanto detto dai sindacati e quanto invece dichiarato dagli agenti di polizia penitenziaria, pare che i ragazzi siano riusciti a distrarre il poliziotto che vigilava le attività pomeridiane, chiedendogli di poter avere un pallone per giocare. Approfittando dell’assenza di controllo e dei lavori di ristrutturazione di una parte del perimetro della struttura, i sette sono riusciti a ricavarsi uno spazio nella recinzione. Da lì scavalcare il muro di cinta è stato piuttosto semplice. Sorprende che protagonista di tale episodio sia stato proprio l’istituto Cesare Beccaria, per anni considerato modello assoluto da seguire in tutta Italia. «Non è possibile evadere così semplicemente», ha commentato il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, annunciando la sua visita immediata al carcere.
Le possibilità si moltiplicano, invece, se quei lavori in corso e quelle impalcature, presenti ormai da 15 anni (anche se la ristrutturazione sarebbe dovuta durare non più di tre) finiscono per diventare complici della fuga. Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia del Governo Meloni, dice che i piani prevedono la fine dei cantieri entro aprile 2023 e che i ritardi sarebbero scaturiti in seguito a problemi con l’assegnazione di alcuni appalti.
In realtà, come vi abbiamo più volte raccontato su L’Indipendente, il problema delle carceri non è solo fuori: è soprattutto dentro. L’associazione Antigone, che da anni si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, ha più volte segnalato alcune criticità nella struttura. Le stesse che, con uno sguardo a 360 gradi, si ripetono in tutti gli istituti. Celle troppo piccole, sovraffollamento (i dati dicono che l’occupazione è superiore alla capienza in 6 istituti su 15) mancanza di personale e attività rieducative che alla fine non portano da nessuna parte. E sempre più suicidi. Pare che proprio all’interno del Beccaria molte delle attività in calendario siano cancellate per mancanza di partecipazione da parte dei ragazzi o per mancanza di agenti. Tali mancanze possono alcune volte alimentare un sentimento di frustrazione e rabbia. “Il clima detentivo appare piuttosto teso […] si percepiscono dinamiche volte ad enfatizzare la leadership di alcuni a scapito di altri, ma anche un percepibile livello di apatia e assenza da parte di numerosi ragazzi”, scrive Antigone.
Tant’è che dopo la fuga dei 7 ragazzi, nell’istituto ha preso il via una vera e propria rivolta e alcuni detenuti hanno incendiato materassi e oggetti. Sarà che una parte delle colpe spetta anche all’assenza di un’organizzazione solida a monte. Sono circa vent’anni che la struttura lamenta l’assenza, oltre che di personale, anche di un direttore stabile, figura fino ad ora coperta da gestori “emergenziali” incaricati e deposti continuamente. La situazione generale dunque è piuttosto caotica. Giuseppe Cacciapuoti, direttore generale del personale del Dipartimento per la Giustizia Minorile, dice che sono previste assunzioni di nuovi educatori e 57 nuovi direttori per gli istituti penitenziari in tutta Italia. Andrea Delmastro, deputato di Fratelli D’Italia, ha alzato ancora di più il tiro: «Abbiamo la necessità su 190 carceri di trovare 190 direttori e 190 comandanti, e li troveremo. Come di aumentare educatori e psicologi per evitare i suicidi. Poi serve un intervento serio sull’edilizia penitenziaria. Aumentare l’organico di polizia penitenziaria serve per umanizzare la pena, migliorando il servizio».
Parole che suonano in contrasto con quanto previsto dal testo della legge di Bilancio 2023, votato qualche giorno fa dal governo Meloni – e che dovrà essere definitivamente approvato entro la fine dell’anno. Fra tutti i tagli che l’esecutivo ha annunciato di voler introdurre c’è anche quello sulla giustizia, che comprende, tra le altre cose, la riduzione del personale penitenziario, già sotto organico. Non sfuggirà ai tagli nemmeno il Dipartimento di giustizia minorile, a cui è stato chiesto di tirare la cinghia per risparmiare all’anno almeno 331.583 euro per il 2023, 588.987 per il 2024 e 688.987 dal 2025, attraverso “l’efficientamento dei processi di lavoro nell’ambito delle attività per l’attuazione dei provvedimenti penali emessi dall’Autorità giudiziaria e la razionalizzazione della gestione del servizio mensa per il personale”. [di Gloria Ferrari]
L'evasione e l'ipocrita crudeltà degli adulti. Caso Beccaria, ma cosa ci fanno in galera quei ragazzi? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Dicembre 2022
La parola più tremenda è “catturati”. Evoca gli animali nella giungla, le trappole degli uomini cacciatori, i trofei. Invece qui si sta parlando di ragazzini che hanno infranto le regole e che il giorno di Natale si sono sentiti eroi, e come tali li considerano i loro compagni, e hanno saltato il muro. Che è non solo il margine dell’istituto minorile Cesare Beccaria di Milano, che un tempo, sotto lo sguardo vigile di don Rigoldi, per tutti solamente Gino, era un modello di quanto più contrario al carcere si sia mai visto. Il “muro” è il simbolo dell’emarginazione di questi ragazzi. Che non sono, come si potrebbe pensare, nella gran parte venuti da lontano. Gli immigrati sono solo il 45%, e in genere sono responsabili di reati meno gravi di quelli commessi dai ragazzi italiani.
Quello della nazionalità alla fine non è neppure un dato così importante. Quel che conta è che la giustizia minorile sia capace di tirar fuori questi ragazzi dalla propria identità di soggetto deviante. Perché quando la società dei buoni e onesti repressori ti avrà cucito addosso quel vestito, rischi di non togliertelo più. Perché sarai tu stesso a vederti nel tuo personale specchio sempre e solo così. Siamo noi società degli adulti, né buoni né cattivi, né onesti né disonesti, ma semplicemente adulti, a dover saltare un muro, oggi. Non per gridare la nostra soddisfazione nell’averli “catturati”, nel far loro scontare una condanna ulteriore, ad alcuni per la loro fuga di Natale e agli altri per aver bruciato i materassi con la rabbia di non essere riusciti a scappare anche loro, come i loro eroi che hanno saltato il muro. E neanche per usare la pena come deterrente rispetto ai comportamenti futuri. Cosa che non funziona con gli adulti, figuriamoci con i ragazzini.
Il punto è proprio un altro, i giudici e gli operatori specializzati del settore minorile non possono avere come orizzonte il puro accertamento del reato, ma l’incontro con persone ancora in formazione. Come sono i minori, e anche i giovani adulti, che da un po’ di tempo, con grande scandalo di alcuni, rimangono per qualche anno negli istituti minorili anche dopo i diciotto anni. E spesso si salvano la vita, proprio perché vengono tenuti lontano dal carcere. Potrà parere “scandaloso”, ma lo dice lo stesso codice di procedura penale minorile il fatto che la detenzione debba essere uno strumento residuale, la famosa ultima spiaggia dopo il fallimento di soluzioni alternative. Ma il pericolo è che la detenzione, in luogo di essere utile per un cambiamento, se non un difficile ravvedimento, ottenga l’effetto opposto, cioè la conferma della propria emarginazione, il rafforzamento dell’immagine identitaria di sé come soggetto deviante.
Non conosciamo, giustamente, l’identità dei ragazzi che hanno saltato il muro del Beccaria il giorno di Natale, e non conosciamo il motivo del gesto. Forse quel ragazzo che, dopo i primi due “catturati”, si è fatto convincere dai familiari a tornare indietro, darà qualche spiegazione. Se ci fidiamo del maggior conoscitore delle vite di questi ragazzi, dei loro pensieri, delle solo fantasie e sogni, cioè di don Gino, possiamo pensare che abbiano vissuto il gesto come qualcosa di eroico, qualcosa che abbia loro dato un’identità positiva. Anche io so fare qualcosa, qualcosa per cui essere ammirato. E pensare che la strada della loro crescita verso la società degli adulti dovrebbe passare proprio di lì, dalla scuola, dalla possibilità di aiutare ciascuno di loro a trovare dentro di sé quella lampadina accesa sulla possibilità di essere capace.
Capace di apprendere, capace di fare. Rompere il muro dell’insicurezza, in definitiva, dire a ciascuno di questi ragazzi “tu vali”, tu non sei solo quella cosa lì, la devianza, il reato. Quindi va benissimo che, anche con l’intervento del ministro Salvini, si concludano quei lavori all’interno del Beccaria che paiono fermi da quindici anni. E naturalmente solidarietà agli agenti intossicati dal fumo prodotto dagli incendi. Ma, per carità, pur senza far finta che il gesto di ribellione sia esistito e vada in qualche modo sanzionato, non cominciamo a chiedere pene esemplari anche per i ragazzi. Ricordiamo invece sempre che, accanto ai loro doveri, ci sono i loro diritti: all’educazione, alla formazione, ma anche alla protezione. Perché una società che non sa proteggere i propri figli è una società feroce che pensa solo a “catturare”. Una società sconfitta, alla fine.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Detenuti evasi dal carcere Beccaria, in tre rientrano convinti da genitori e nonna: “Istituto senza direttore da anni”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 26 Dicembre 2022
Tre dei sette giovani detenuti evasi nel pomeriggio di Natale dal carcere minorile Beccaria sono rientrati nell’istituto milanese dopo la mediazione di genitori e parenti. I primi due, entrambi maggiorenni, sono stati convinti dalla nonna e dalla sorella. L’anziana donna ha telefonato ai carabinieri comunicando che il nipote si trovava nella sua abitazione. La sorella invece dell’altro giovane detenuto, grazie anche alla mediazione dell’istituto minorile, è riuscita a far ragionare il ragazzo e a farlo rientrare in serata.
Nella mattinata di Santo Stefano il terzo dei sette evasi è rientrato nel carcere Beccaria dopo l’opera di convincimento dei genitori. Restano tutt’ora ricercati i quattro giovani. Ad evadere poco dopo le 16 del 25 dicembre sono stati due 18enni, un 19enne e quattro 17enni, tutti nel carcere minorile in custodia cautelare per piccoli reati contro il patrimonio.
I sette avrebbero approfittato dei lavori in corso nel “cortile passeggi”, aprendosi un varco nella recinzione e scavalcando il muro di cinta. Alla notizia dell’evasione alcuni detenuti hanno appiccato il fuoco all’interno del cortile carcere per protesta. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco, con diversi mezzi, che hanno subito domato le fiamme.
Un episodio che riaccende le polemiche sulla gestione del carcere minorile milanese, senza direttore da troppi anni e con una serie di lavori in corso che rendono la struttura un cantiere a cielo aperto. La direttrice facente funzioni è infatti Maria Vittoria Menenti, che si divide tre giorni alla settimana tra il Beccaria e il supercarcere di Opera di cui è vicedirettrice. Immediata la caccia ai fuggitivi, con posti di blocco e controlli delle forze dell’ordine in tutta la Regione, mentre sulla vicenda verranno aperte un’indagine interna e una della magistratura.
L’EX CAPPELLANO: “CARCERE SENZA DIRETTORE DA TROPPO TEMPO” – Durissime le parole di don Gino Rigoldi, ex storico cappellano del carcere minorile milanese. “Questo scossone forse farà risvegliare il ministero e il nuovo ministro per mettere a fuoco la situazione del Beccaria che è in ombra da circa vent’anni. Con il primo direttore Salvatore abbiamo fatto il carcere modello a Milano e in Europa del minorile. Via lui è stato un rotolare continuo di facenti funzioni che ha smontato un po’ il lavoro fatto. Serve che ci siano operatori in numero adeguato, competenti e soprattutto che sia capaci di lavorare in equipe”. Riguardo ai detenuti ancora in fuga, l’ex cappellano si dice convinto che “mi telefoneranno e porterò loro indietro”.
Don Rigoldi sottolinea poi un altro aspetto, quello relativo all’abbandono di figure educative che avviene nei giorni rossi: “Intanto era Natale e il Natale mobilita la voglia di essere da qualche altra parte. Volevano spaccare tutto, sono andato su di corsa e dopo un po’ hanno anche smesso di fare. Vuol dire che tutto sommato con gli adulti che stanno con loro questi ragazzi riescono anche a intendersi. Il clima adesso? I ragazzi sono tutti blindati, sono super controllati e sono anche tranquilli. La vivono come un’avventura, a questa età non sono mica consapevoli. Hanno vissuto la splendida avventura della fuga, gli altri erano erano invidiosi di non averla potuta fare. Il fatto che questi sette la pagheranno cara e anche più in generale ci sarà un restringimento della disciplina non ce l’hanno mica in mente, non è roba da 16-17enni. Non torneranno da eroi perché andranno a finire in altre carceri in giro per l’Italia“.
IL SINDACO: “QUI LAVORI DA 15 ANNI” – Sulla vicenda è intervenuto anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala: “Ieri sette giovani sono fuggiti dal carcere Beccaria. Da quanto so, tre sono stati ripresi. Io il Beccaria lo conosco bene. L’ultima mia visita risale a poco tempo fa, per la precisione a settembre. E comunque più volte ci sono stato insieme a Don Gino Rigoldi. Sempre insieme a lui abbiamo fatto continui richiami ai Governi che si sono succeduti per mettere mano a questo problema ormai fin troppo evidente”.
“Non c’è proprio più spazio per chiacchiere o affermazioni generiche di ‘sconcerto’ – scrive su Facebook Sala – il Beccaria era un carcere modello, lo era nel passato, in un passato ormai remoto. Da quasi vent’anni non c’è un Direttore, e ce la si è cavata con dei ‘facente funzione’. Da una quindicina d’anni ci sono lavori in corso, che non finiscono mai. Questa è la situazione. Chi si vuole scandalizzare per l’accaduto è libero di farlo. Ma la realtà va guardata in faccia”, conclude.
“Una vera fuga di massa” l’ha definita il segretario del Sappe Lombardia Alfonso Greco: “La legge lo prevede ma è assurdo e non ha senso tenere 25enni con ragazzini di 14 anni. I fatti si commentano da soli”.
Secondo una prima ricostruzione, i sette avrebbero distratto un agente della polizia penitenziaria che li sorvegliava durante l’attività pomeridiana, intorno alle 16, e sono poi riusciti a fuggire approfittando dell’area di cantiere. Avrebbero poi scavalcato la recinzione lungo via Calchi Taeggi. In serata due di loro sono stati individuati e catturati dagli investigatori.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Beccaria, la fuga degli evasi finita in 4 giorni: nessuno aveva un piano organizzato. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.
Accelerazione del cantiere: la fine dei lavori nel carcere è prevista per la primavera. In arrivo anche un nuovo direttore
In quattro giorni s’è chiusa definitivamente la fuga di tutti i sette giovani evasi il pomeriggio di Natale dal Beccaria. Un’evasione che, nei fatti, è stata più l’espressione di un raptus di libertà anticipata. Anche perché nessuno dei giovani evasi — quattro 17enni, due 18enni e un 19enne — aveva un piano organizzato fuori dal carcere.
C’è stato chi si è arreso già la sera di Natale, convinto da una ramanzina della sorella. Chi è stato beccato a casa dei parenti e chi è stato invece «segnalato» da famigliari e amici. La latitanza costa, comporta la necessità si una rete criminale di sostegno, e soprattutto attira molte attenzioni degli investigatori. Così una volta, fuori i ragazzi non hanno saputo neppure dove cercare aiuto. C’è chi s’è consegnato spontaneamente, come il 19enne che mercoledì sera s’è presentato in questura grazie anche alla mediazione dell’eurodeputato Pierfrancesco Majorino e di alcuni conoscenti. E chi neppure ha provato a nascondersi: come il 17enne catturato martedì dai carabinieri a Sesto San Giovanni grazie a una segnalazione anonima. Era in piazza, stava ascoltando musica con gli amici, come se fosse un pomeriggio qualsiasi.
Un po’ come successo agli ultimi due a ritornare in cella, un 18enne e un 17enne, presi giovedì dalla polizia penitenziaria in Brianza. Si erano rifugiati a casa di un amico. E quando gli agenti sono entrati nell’appartamento, loro erano seduti sul divano con gli occhi immersi nello smartphone. Più che il sogno di spiagge caraibiche o quello di una latitanza in Sud America, il concetto di libertà di questi due giovani — uno in cella per rapina l’altro per spaccio di droga — era la voglia della «normalità» di migliaia di loro coetanei. E questo da solo racconta come il profilo dei fuggitivi sia, tutto sommato, quello di ragazzi problematici ma lontani da veri contesti criminali. Ma anche quanto pesi per questi giovani l’assenza di una vita quotidiana simile a quella di tanti adolescenti. Certo, si trovano in carcere perché hanno sbagliato, e molti di loro devono rispondere di reati gravi, ma in questi giorni di ossessiva attenzione mediatica al tema della giustizia minorile sono emerse le molte storture di un sistema che doveva essere un fiore all’occhiello dell’ordinamento italiano e, tra tagli economici e di personale e anni di disinteresse, è diventato un esempio di inadeguatezza e inefficacia.
La cattura dei sette ragazzi non chiude la questione. Resta aperto il cantiere di via Calchi Taeggi che paralizza buona parte dell’istituto. Il governo ha annunciato un’accelerazione dei lavori con la fine prevista per la primavera. Ma restano le incognite. E resta viva la carenza agenti, operatori ed educatori che è andata solo peggiorando dopo la pandemia. Questo è avvenuto nonostante i ripetuti allarmi degli esperti, dei magistrati e delle forze dell’ordine sull’aumento dei casi di disagio giovanile dopo il lockdown. Per questo parlare oggi di emergenza non solo è sbagliato ma rischia di essere l’ennesimo vociare disordinato intorno al problema.
Tra poco il Beccaria avrà finalmente un direttore a tempo pieno. Un atto dovuto che sembra un miracolo dopo decenni di gestione «divisa» tra altri penitenziari (a loro volta non esenti da problemi). Il secondo passaggio sarà dare dignità, anche economica, ai percorsi educativi. Chissà.
Viaggio nell’Icam di Lauro tra le mamme detenute con i loro bambini. Bambini in carcere con le madri, una vita da reclusi: “Trattati come boss, Salvini venga a vedere come vivono”. Rossella Grasso su Il Riformista il 21 Aprile 2023
“Questo è proprio un carcere e lo stanno facendo i bambini, un 41 bis. E soffrono”, dice una mamma. “Non lo so se mia figlia un domani mi potrà mai perdonare per dove l’ho portata. Ci penso ogni giorno. E mi fa stare male”. Sono questi i pensieri di due madri detenute insieme ai loro bambini nell’Istituto di Custodia Attenuata per Madri di Lauro, provincia di Avellino. Il Riformista ha potuto visitare il carcere insieme al Garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello, chiacchierare con le mamme che sono lì insieme ai loro figli e toccare con mano come vivono. “È un ossimoro dire mamme e carcere – ha detto Ciambriello entrando nella struttura – Qui dentro ci sono bambini da 3 o 5 anni. Come crescono? Io sono indignato”. Nell’Istituto di lauro ci sono 11 madri e 13 bambini. “Le mamme detenute possono tenere accanto i loro figli fino all’età di 8 anni, fino a qualche anno fa il limite era a 6”, spiega Ciambriello. Una scelta facoltativa per le madri che devono scontare una pena: “Io vengo dall’ordinario e non ho sofferto come soffro qua – racconta una mamma – Con il mio primo figlio ho preferito lasciarlo a casa e io scontare la pena da sola al carcere ordinario. Ma lui era a casa e soffriva per me. Adesso, il secondo figlio, ho deciso di tenerlo qui con me. Ma soffre. Se torna a casa dopo 15 giorni vuole la mamma. È piccolo, è normale. Che fare? Ti giuro qui stanno male. Io ho finito le lacrime a furia di piangere per questa situazione”.
“Sono qui da quasi un anno con mio figlio che ha 6 anni, ne aveva 5 quando è entrato”, dice una mamma. “Sto qua da 9 mesi, ho una bambina che quando siamo entrate aveva 3 anni. Ha festeggiato, per modo di dire, il suo quarto compleanno qui dentro”, racconta un’altra. La sua storia è emblematica perché si intreccia con il dramma della lungaggine della giustizia italiana. Racconta di stare scontando ora un reato commesso 13 anni fa quando era una persona diversa. E soprattutto di avere una figlia, all’epoca, non aveva nemmeno mai pensato. “Tredici anni dopo arriva la condanna – racconta – se avessi potuto scontare all’epoca la pena, ora mia figlia sarebbe a casa sua in grazia di Dio, non con me in carcere. Perché questo è un carcere, non una casa famiglia come tanti credono”. La mamma racconta al Riformista che quando è stata condannata al carcere a sua figlia ha detto che insieme dovevano andare al campeggio per un certo periodo. “Ho cercato in tutti i modi di non farle pesare questa situazione raccontandole che era solo una vacanza in un posto dove c’erano anche altri bambini – continua – All’inizio ci ha creduto, credo. Poi qui ha parlato anche con altri bambini che sono più grandi che sanno dove si trovano. Purtroppo tra di loro se ne parla. Io spero che con il lavoro che sto facendo riuscirò ad annebbiare il ricordo di mia figlia di questo posto. Ho provato a dirle che io devo restare qui per lavorare. Lei mi ha detto che vuole andare a casa dai fratelli e che soldi non ne vuole. A volte non so cosa dirle. Io ringrazio l’Icam perché da una parte mi ha dato la possibilità di essere qui con mia figlia ma davvero non so se un domani mia figlia mi potrà perdonare”.
L’ambiente dell’Icam non è proprio “penitenziario”: sui muri ci sono disegni dei personaggi Disney (alcuni un po’ scrostati), la sala colloqui è tutta colorata e a dimensione di bambino. In un’area comune all’aperto ci sono panchine, uno scivolo, qualche altalena e qualche altro gioco per i bambini. Giochi colorati che stagliano sul grigiore di sfondo: quello delle sbarre vicino alle finestre. Ogni mamma ha a disposizione una cella attrezzata come una sorta di piccolo appartamento per cercare di garantire al bambino una dimensione familiare. C’è la cucina dove la mamma può cucinare a pranzo e a cena, la camera da letto con un letto matrimoniale vero e un bagno con doccia e lavandino. “Comunque sono celle – racconta una mamma mostrando le foto appese nelle cornici – Qualcuno dice che sono mini-appartamenti ma sono celle”. Ogni mamma cerca di “arredare” la stanza come farebbe a casa con foto della famiglia e piccoli giochi. Qualcuna ha messo le tende alle finestre cercando di occultare le sbarre. Ma ci sono, è innegabile. “Io e mia figlia qui dentro passiamo il tempo da detenute, entrambi. Non facciamo nulla o quasi dalla mattina alla sera. Penso che non è giusto: non è il modo per educare noi o i bambini”, racconta ancora un’altra mamma.
Anche la porta della stanza-cella viene aperta e chiusa secondo i dettami del carcere. “Nei periodi invernali i passeggi sono chiusi presto – racconta una mamma – i bambini sanno già cosa vuol dire ‘assistente’, ‘apertura’, ‘chiusura’. Quando sentono il rumore delle chiavi hanno paura”. Le detenute raccontano una giornata tipo all’Icam: al mattino sveglia e colazione in cella, poi le mamme preparano i bimbi per andare a scuola. Uno scuolabus li prende e li accompagna a scuola o all’asilo e alle 16 li riporta all’Icam. Qualcuno fa anche delle attività pomeridiane come ad esempio il calcetto. “Di solito tornano alle 16 e la giornata è finita, si torna in stanza. Non c’è nient’altro da fare e lui dice sempre che si annoia – racconta ancora una madre – È seguito da uno psicologo ma spesso ha crisi di pianto o sfoga mangiando tutto quello che trova davanti. È l’unico modo che ha per sfogarsi”.
In realtà i bambini che sono nell’Icam sono liberi. Il problema e che dovrebbero avere qualcuno che li accompagna a fare attività e come in ogni carcere non sempre c’è il personale a disposizione. Le mamme raccontano che non possono lasciare la struttura, nemmeno per andare a parlare con le maestre o andare a vedere la recita o accompagnarli nel primo giorno di scuola. “Mia figlia ha fatto la prima recita della sua vita all’asilo. L’ho preparata io da qui, nella nostra stanza. L’ho dovuta salutare sull’uscio dell’Icam. Nonostante siano venuti i nostri familiari dalla Puglia per non farle mancare l’affetto, lei si è rifiutata di farla. Voleva la sua mamma e non poteva averla”.
“I nostri sono ‘i bambini reclusi’ e vittime di pregiudizio fuori da qui – continua la mamma – Sono figli di detenuti e devono essere messi da parte. C’è una bambina che ha sentito parlare del panino del McDonald’s da uno degli ‘amici liberi della scuola’, come li chiamiamo noi, e voleva mangiarlo. Come fai a spiegarle che non lo può avere?”. C’è un’altra cosa che le mamme proprio non sanno come spiegare ai loro figli: “Ogni mese abbiamo i colloqui con i familiari e due telefonate a settimana – spiega una mamma – quando mio figlio piange che vuole parlare con il papà come faccio a dirgli che mamma ha finito il tempo? È giusto che il bambino debba aspettare?”.
“Per noi è come una terza carcerazione qui dentro perché vedi tuo figlio soffrire e non puoi fare niente”, racconta una madre. “Mi manca proprio fare la mamma – racconta un’altra mamma – Se io sto qua con mia figlia io credo che è per continuare a fare la mamma però poi non ci danno la possibilità di farlo”. Le parole delle mamme arrivano dritte al cuore come un pugno. Nei loro occhi c’è tutto il dolore di chi sa di aver sbagliato ma sa bene che la loro colpa è caduta ingiustamente anche sui figli e non se lo perdonano. Per loro è un dramma è quando pensano al loro presente e anche al loro futuro. “Mio figlio non ha mai vissuto fuori da qui – spiega un’altra donna – cosa penserà del mondo fuori? È come se qui dentro stesse diventando più cattivo, arrabbiato, aggressivo”.
Tra le difficoltà che le madri raccontano c’è il vitto. “Non viene dato in base alle esigenze del bambino – spiega Ciambriello – per cui le mamme devono ricorrere all’acquisto del sopravvitto, una spesa aggiuntiva che non sempre è sostenibile per loro. Ci vorrebbe una dieta specifica per i bambini non di quello che offre la gara al ribasso di una ditta. Servirebbe anche un pediatra che indichi una dieta adatta a un bambino e che fosse fisso perché adesso c’è solo per alcune ore e a chiamata. Ho chiesto anche maggiore personale femminile e personale che possa accompagnare più spesso i bambini fuori per attività all’aperto. Inoltre serve sostegno permanente per i bambini e le loro mamme, più educatori, assistenti sociali e pedagoghi”.
“Ho sentito che Salvini promuove la costruzione di altri posti come questo – dice una mamma, arrabbiata – ma lo sa cosa com’è vivere qui dentro con un figlio? Come vivono? Comunque ci sono le misure alternative: i domiciliari, le case famiglia,…perché non darci la possibilità di scontare lì le nostre pene senza far soffrire i nostri figli?”. Mentre la mamma parla è impossibile non pensare a come sarà quel drammatico momento del distacco, quello che alcune di loro dovranno vivere per forza di cose quando il bimbo sarà troppo grande per restare lì ma loro dovranno andare all’ordinario per finire la pena. Un dolore enorme che probabilmente il bambino non dimenticherà mai. E chissà come questo si trasformerà nella sua vita.
Samuele Ciambriello da tempo si batte insieme a Paolo Siani per l’eliminazione di luoghi di reclusione come l’Icam. Per quanto nell’istituto si veda lo sforzo enorme per rendere la vita delle detenute madri e dei loro figli più vivibile e meno traumatica, resta una situazione paradossale e problematica nella sua concezione. “Può continuare a esistere la maternità in carcere? Come cresce un bambino in carcere? Che tipo di affetto e di relazioni potrà mai avere? È vero, possono andare a scuola. Ma non è meglio per loro un luogo alternativo al carcere? Una non deve venire in carcere con i figli. L’anno scorso il parlamento ha approvato una legge per far uscire dal carcere i bambini, creando delle comunità di accoglienza. Ebbe solo 6 voti contrari. Quest’anno è stata bloccata al Senato”.
In tutta Italia ci sono 17 bambini detenuti con le loro madri, numero che negli ultimi giorni è lievemente aumentato. “In Italia non c’è più né fascismo né comunismo, c’è il giustizialismo che fa più morti alcune volte – continua Ciambriello – Il populismo politico e penale vuole che se una ha sbagliato deve andare in carcere. Peccato che qui ci sono anche persone accusate di piccolo spaccio con una condanna a tre anni. Perché non fargli vivere una misura alternativa al carcere? L’indifferenza è un proiettile silenzioso che uccide lentamente. Chiediamoci perché stanno qui loro con i figli. E chiediamoci perché 12mila minori in Italia e 6.400 in Campania vivono una disgregazione familiare, affettiva, familiare, economica. Quando ci occupiamo di loro? Quando commettono un reato grave? Non vorrei che la pubblicistica comune porti a non dare speranza a queste persone. Dico ‘No ai bambini in carcere’ e quindi liberando i bambini dobbiamo liberare anche le mamme. Lo so a volte la politica tra il dire e il fare ci mette il mare. Io chiedo di mettere il coraggio. Dobbiamo intervenire per ricucire queste vite disgregate altrimenti queste lacerazioni crescono. E i ragazzi che vivono qui dentro che idea si fanno? Non solo dei genitori ma dello Stato. Uno Stato vendicativo? Occorre liberare i minori ed educare gli adulti”.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
Psicologi in carcere. Quell’opportunità così poco sfruttata...Il Dap ha aperto un tavolo congiunto con l'ordine nazionale, ma persistono i problemi: in Sicilia la carenza degli psicologi ha mandato in tilt il sistema. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 aprile, 2023
Concretizzare le linee di lavoro e collaborazione tra l’amministrazione penitenziaria e l’Ordine degli Psicologi. Valorizzare l’apporto e la presenza della professione psicologica nelle carceri, ampliare l’offerta organica e qualificata delle prestazioni psicologiche per detenuti e personale, aggiornare e valorizzare le modalità di selezione ed impiego degli psicologi esperti e migliorare la presenza dei servizi psicologici del Ssn.
Questo il compito del tavolo di lavoro congiunto tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e il consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi (Cnop) che si è insediato alla presenza del Capo de Dap Giovanni Russo e del Presidente Cnop David Lazzari accompagnato da Donatella Fiaschi, Ilaria Garosi, Daniela Pajardi, e Giorgia Zara.
L’obiettivo generale è quello di valorizzare l’apporto e la presenza della professione psicologica nel contesto carcerario, “sia nei ruoli esistenti che in nuovi ruoli” ed in particolare “ampliare l’offerta organica e qualificata delle prestazioni psicologiche” per i detenuti ed il personale, aggiornare e valorizzare le modalità di selezione ed impiego degli psicologi esperti ex art. 80, migliorare la presenza dei servizi psicologici del Ssn.
Il capo dipartimento Dap Giovanni Russo ha evidenziato l’importanza di questo lavoro per le esigenze dell’amministrazione e la volontà di dare concretezza agli obiettivi concordati. “Le premesse sono importanti e chiare e devono segnare una svolta nella presenza e collaborazione tra la professione e mondo delle carceri” ha sottolineato nell’incontro il presidente Lazzari.
Resta il fatto che, tuttora, La psicologia nel contesto carcerario è una realtà indispensabile ma ampiamente sottovalutata e sottoutilizzata. Non utilizzare gli strumenti che può offrire, al personale e ai detenuti, presente, di fatto, un’arretratezza culturale e operativa. Ancora è presente il bisogno di un rafforzamento di questa presenza ma anche di assegnargli un ruolo appropriato, in linea con le più avanzate esperienze internazionali.
“Bisogna ricordarsi che prevenire è fondamentale anche in carcere, che la riduzione dello stress e la gestione dei conflitti richiedono competenze specifiche”, ha sottolineato il presidente Cnop David Lazzari all’indomani della notizia sui pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Nell’ambito penitenziario, tre istituzioni si interfacciano al fine di definire le modalità di esecuzione delle pene e di metterle in atto: il Tribunale di Sorveglianza, le strutture detentive e gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna. Queste istituzioni interloquiscono costantemente con i servizi per la salute mentale e i servizi per il trattamento delle dipendenze. Il mandato sociale che fonda i rapporti tra questi enti e servizi è dato dall’art. 27 della Costituzione che sancisce la funzione rieducativa della pena “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Gli psicologi sono presenti, con funzioni differenti, in ciascuna di queste istituzioni/ servizi.
Negli istituti penitenziari e negli UEPE lavorano psicologi esperti ex art. 80 O. P. che operano con incarico affidato dall’amministrazione penitenziaria oppure dall’UEPE. In molti istituti penitenziari sono presenti anche psicologi afferenti al SSN (servizi per le dipendenze e per la salute mentale) o del privato sociale.
L’intervento psicologico nel sistema penitenziario, sia durante la detenzione nella struttura carceraria, sia durante le misure alternative alla detenzione, richiede elevata professionalità e risponde al principio di individualizzazione del trattamento penitenziario. Gli psicologi, pertanto, all’interno del sistema penitenziario svolgono una serie di attività finalizzate a definire il programma di trattamento penitenziario più consono al singolo condannato.
Per fare tutto ciò, è importante il lavoro di equipe con le altre figure professionali. Però emerge un problema. La figura dello psicologo in carcere, non ha il numero di ore né gli strumenti adeguati. In più gli psicologi esperti ex art. 80 hanno un numero di ore così esiguo che non resta tempo per lavorare sul trattamento oltre che sull’osservazione e spesso nemmeno per lavorare in maniera integrata con i loro colleghi dei servizi sanitari. Problema che ha trovato l’apice nella regione Sicilia.
L’ufficio del Garante Nazionale, nel corso del 2021, è stato subissato di richieste mancato intervento rivolto ai detenuti. Tra le maggiori criticità continua a rientrare, in particolare, l’insufficiente disponibilità di psichiatri e di psicologi, essendo molto rilevante anche negli istituti siciliani il numero dei soggetti, sia in custodia cautelare, sia condannati, che soffrono di patologie psichiatricamente rilevanti o comunque di disturbi di personalità nonché di disagi psichici di varia natura.
Le aziende sanitarie locali dovrebbero assicurare un costante sostegno psichiatrico e psicologico, con la predisposizione di programmi riabilitativi. Nell’ultima relazione al parlamento, il Garante fa anche l’esempio del carcere di Perugia dove sono impiegati dalla USL psicologi per un monte di 30 ore settimanali, e psichiatri per 15 ore (dato riferito a dicembre 2020), a fronte di oltre 163 soggetti in osservazione/ terapia psichiatrica che, in queste condizioni, non può che essere semplicemente di tipo contenitivo- farmacologica. Addirittura, nell’istituto ternano non è stata garantita per almeno un anno, la presenza in istituto di specialisti, con ulteriori evidenti ripercussioni in termini di continuità terapeutica.
Resta il fatto che, come si legge nel rapporto di Antigone del 2019, la media nazionale delle ore di presenza settimanale di psicologi ogni 100 detenuti, è di 13,5. Significa che, virtualmente, lo psicologo dedica al singolo detenuto intorno agli 8 minuti settimanali. Si tratta di numeri che devono far riflettere sull’efficacia dell’intervento terapeutico e riabilitativo in un contesto peculiare come quello penitenziario e su quanto il mancato o insufficiente intervento dei professionisti della salute mentale rischi di scaricare il problema sulle altre figure che vivono e lavorano in carcere, dagli educatori, al personale di sicurezza ai compagni di detenzione. Ma da qualche tempo, si è aperto uno spiraglio almeno per la polizia penitenziaria. Di recente vari provveditorati hanno aperto i bandi di procedura per la selezione di professionisti per Supporto Psicologico rivolto agli agenti. Bandi scaturiti dalla circolare 4 febbraio del 2022 n. 035776 e ss. della Direzione Generale del Personale che ha fornito le linee guida per l’elaborazione dei progetti finalizzati al supporto psicologico. Questo perché, dovrebbero essere stanziate più risorse in tal senso.
Il buco nero della gestione dei farmaci nelle carceri. Quello dei farmaci è uno dei punti critici ricorrenti nelle nostre carceri che comporta ingestibili eventi critici: la relazione del garante. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 aprile 2023
Quello dei farmaci è uno dei punti critici ricorrenti nelle nostre carceri che comporta ingestibili eventi critici. Ed è quello che emerge dalla relazione annuale redatta da Roberto Cavalieri, il garante regionale delle persone private della libertà dell’Emilia Romagna.
Secondo il garante, la questione denota un quadro rilevante e di complessa gestione. Si riporta l’esempio del trasferimento di detenuti da territori non regionali e che giungono in carcere con terapie farmacologiche che possono non trovare l’assenso dei nuovi sanitari oppure prevedere farmaci non presenti nei protocolli regionali. Il tema si concentra in particolare sui farmaci psicoattivi. Emerge che il fenomeno dell’uso improprio di farmaci è assai diffuso nelle strutture penitenziarie e rappresenta una preoccupazione per la tutela della salute dei detenuti e la sicurezza degli istituti. Nel mese di dicembre il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emanato una circolare contenente l’invito ai Provveditorati di vigilare sull’uso improprio del farmaco Lyrica, farmaco utilizzato per la cura delle patologie neurologiche per trattare l’epilessia, il dolore neuropatico e il Disturbo d’Ansia Generalizzata (Gad). Perché la necessità di questa circolare? Il garante Cavalieri denuncia che i detenuti dividono in metà le capsule inalando il contenuto per raggiungere effetti simili a quelli offerti dalla cocaina e quindi altamente eccitanti. L’assunzione così descritta non è circoscritta ai detenuti destinatari della prescrizione ma si estende agli altri reclusi che entrano in possesso, in modo improprio e con meccanismi spesso coercitivi, del farmaco con quelli che si definiscono meccanismi di “scambio”. Questa tipologia di fenomeno è largamente presente negli istituti penitenziari.
Sempre nella relazione annuale relativa agli istituti penitenziari dell’Emilia Romagna, si osserva che gli unici deterrenti al fenomeno dell’uso improprio dei farmaci appaiono essere: il controllo delle prescrizioni di farmaci e delle tipologie di farmaci, la somministrazione a vista dei farmaci, la riduzione della concentrazione di detenuti che abusano di sostanze in una medesima sezione detentiva. Tutti queste possibili azioni di contrasto – denuncia il Garante Cavalieri nella relazione - comportano problematiche attuative data l’alta richiesta di farmaci da parte dei reclusi, il maggior impiego di operatori sanitari che richiede la somministrazione a vista, l’impossibilità di ridurre la concentrazione di detenuti tossicodipendenti rappresentando questi una larga parte della popolazione detenuta.
Emerge anche che la distribuzione dei farmaci comporta criticità assai complesse. Dal rischio di abuso, traffico e anche accumulo generando così degli eventi critici. Anche le competenze circa la distribuzione dei farmaci cosiddetti da banco ha generato problemi di competenza in alcuni istituti. Nel mese di agosto il Garante regionale Cavalieri è dovuto intervenire dopo che la sanità penitenziaria aveva interrotto la distribuzione di farmaci non prescritti alle detenute del reparto AS3 generando una serie di problematiche intere e la protesta delle recluse. “È opportuno richiamare la necessità di autonomia dei sanitari nelle decisioni che devono avere carattere unicamente deontologico e finalizzato alla tutela della salute del paziente. In alcun modo la somministrazione di farmaci può essere sollecitata o richiesta da personale di Polizia Penitenziaria per la gestione di detenuti con problematiche comportamentali”, osserva il Garante nella relazione.
Il carcere più complesso e difficile sul versante sanitario è quello di Parma. Trattasi di un Istituto che nel corso degli anni è stato destinatario di diversi interventi che ne hanno determinato una vocazione primaria nell'ambito del circuito alta sicurezza (AS1, AS3 e 41 bis), riducendo contestualmente la capienza per i detenuti appartenenti al circuito media sicurezza, presenti sia in sezioni circondariali che di reclusione. Lo scorso anno è stato aperto il nuovo padiglione, di circa 200 posti destinato a detenuti di media sicurezza. La complessità e le problematiche dell'istituto sono aggravate dalla presenza di un SAI (Servizio Assistenza Intensificata) e di una sezione minorati fisici. Ciò continua a determinare numerose assegnazioni di detenuti anche da altri distretti, a causa delle carenze dei servizi della sanità penitenziaria in alcune regioni. L’elevato numero di tali assegnazioni determina l’allocazione dei detenuti assegnati per problematiche di salute prevalentemente nelle sezioni ordinarie.
Il Garante sottolinea le ricorrenti criticità che si riscontrano in ambito sanitario in questa struttura di massima sicurezza: alto numero di persone assegnate e bisognose di essere collocate nel centro clinico invece che nella sezione comune ( si è spesso superato il numero di 200 persone), necessità che la sanità riceva preventivamente informazioni sui soggetti che giungono per cure da altri istituti al fine di permettere una valutazione e programmare gli interventi necessari, ridurre le barriere architettoniche presenti, predisposizione di una sezione dimittendi.
Non solo. L’alto numero di detenuti non autosufficienti nel carcere di Parma e comunque bisognosi di un sostegno nelle attività di vita quotidiana indicano la necessità di avere personale socio- sanitario dedicato superando l’assegnazione ai cosiddetti piantoni (detenuti assunti dall’amministrazione penitenziaria per assistere i detenuti malati) privi delle necessarie competenze.
A luglio scorso è stato evidenziato alla direzione del carcere e al referente sanitario il fatto che dai colloqui con i ristretti emergevano preoccupazioni, in particolare da parte di coloro che soffrono di patologie cardiopatiche, in relazione alla qualità della vita quotidiana in quanto persone malate. I punti attenzionati sono stati diversi. Gli orari in cui si svolgono le ore di aria che vengono collocate in momenti in cui il caldo parrebbe indicare un pericolo nell’esposizione all’aperto di persone detenute cardiopatici. Sul punto il Garante regionale ha indicato la necessità di offrire alternative all'accesso all’ora d’aria tali da tutelare la salute dei detenuti cardiopatici optando per ambienti coperti e orari antimeridiani che sfruttino le prime ore di luce. Punto due. Favorire l’accesso ad attività motorie anche con il coinvolgimento di istruttori; Altri punti sono il rispetto delle diete alimentari e, conseguentemente, la fornitura di pasti corretti ove prescritti; la necessità di collocare sia dei defibrillatori che siano visibili e accessibili nei piani delle sezioni per un pronto intervento in caso di urgenza, sia di fornire un valido supporto psicologico per sostenere le preoccupazioni dei pazienti cardiopatici; ridurre i tempi di accesso degli operatori del 118 quando interpellati per le urgenze. A ciò si aggiungono le criticità, diffuse, legate alla fornitura di vitti per persone con patologie. Ricorrenti sono le lamentele dei detenuti in tal senso. Il problema rilevato dal Garante regionale si concentra su due punti: da una parte l’assenza della prescrizione del nutrizionista e dall’altra le difficoltà delle direzioni nell’assicurare con i servizi interni questa tipologia di bisogno. Cavalieri ha constatato che in tutte le carceri è apparso insufficiente l’attenzione prestata alla carta dei servizi sanitari erogati nelle strutture detentive. La documentazione non è reperibile nei contesti penitenziari, appare essere nei contenuti disallineata o non aggiornata rispetto ai servizi presenti, poco comprensibile sulle modalità di accesso ai servizi, in un solo caso esistono traduzioni in lingua. In tutte le documentazioni esaminate è assente l’indicazione del servizio di relazione con il pubblico con i riferimenti ai quali rivolgersi in caso di criticità.
Mancanza di agenti in carcere? Dai dati emerge una “fuga dalle sezioni”. Secondo una ricerca di Rita Bernardini (Nessuno Tocchi Caino), una parte significativa del personale penitenziario è impiegato negli uffici e non nelle sezioni degli istituti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 giugno 2023
Si parla giustamente della carenza di agenti penitenziari nelle carceri, ma da una analisi dei dati condotta da Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino” e dalle affermazioni del sindacalista Gennarino De Fazio della Uilpa-PolPen durante la trasmissione “Radio Carcere”, condotta da Riccardo Arena su Radio Radicale, emerge il sospetto che diversi agenti operano presso gli uffici amministrativi o nei provveditorati e non nelle sezioni delle carceri dove, appunto, c’è una esigenza di gran lunga maggiore così come prevede la pianta organica. Da ciò è scaturita una interrogazione parlamentare da parte di Roberto Giachetti di Italia Viva rivolta al ministro della Giustizia, Carlo Nordio.
L’interrogazione del deputato Giachetti, come detto, si basa sul lavoro di ricerca condotto da Rita Bernardini, membro di “Nessuno Tocchi Caino”, che ha analizzato le “schede trasparenza” dei 189 istituti penitenziari. I risultati della ricerca evidenziano discrepanze significative tra la pianta organica prevista e gli agenti effettivamente assegnati alle carceri italiane, sollevando interrogativi sulle modalità di distribuzione del personale.
Secondo i dati raccolti da Bernardini, a livello nazionale, la Pianta Organica prevede un totale di 37.181 agenti della polizia penitenziaria. Eppure, gli agenti assegnati agli istituti penitenziari sono solamente 31.085, evidenziando una carenza di oltre 6.000 unità. Un ulteriore aspetto rilevante emerso dalla ricerca riguarda la discrepanza tra il numero di agenti e detenuti all'interno dei diversi istituti penitenziari. Alcuni istituti presentano un eccesso di agenti rispetto al numero di detenuti, come nel caso della Casa di reclusione di Alba, che ha un agente ogni 0,37 detenuti, o della Casa di cura di Potenza, con un agente per ogni 0,60 detenuti. Al contrario, altri istituti mostrano un notevole squilibrio, come la Casa di reclusione di Fossano, dove ogni agente deve gestire tre detenuti, o la Casa circondariale di Pescara, con un rapporto di 3,33 detenuti per agente.
Durante la trasmissione “Radio Carcere” Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa-PolPen, ha fornito ulteriori dettagli sulla situazione dell'organico penitenziario. De Fazio ha sottolineato che molti agenti assegnati a determinati istituti penitenziari in realtà prestano servizio presso il Provveditorato o il tribunale di Sorveglianza, o in altri uffici dell'amministrazione penitenziaria. Pertanto, non tutti gli agenti assegnati a un determinato istituto sono presenti effettivamente in sezione, a diretto contatto con i detenuti.
L'interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti pone quindi diverse domande al ministro della Giustizia, al fine di comprendere le cause di tali discrepanze e le modalità di assegnazione del personale nelle carceri italiane. Roberto Giachetti chiede: a cosa è dovuta la differenza tra la pianta organica prevista e gli agenti effettivamente assegnati agli istituti penitenziari? Quali sono i criteri che hanno stabilito le diverse dotazioni di organico nei 189 istituti penitenziari e le assegnazioni per ogni istituto? Come si giustificano le diverse dotazioni di organico e di personale effettivamente assegnato tra l'istituto di Firenze-Sollicciano e quello di Prato? Quanti sono gli agenti, distinti per sede diversa, che lavorano presso sedi diverse dagli istituti penitenziari? Cosa intende fare il ministro per far applicare quanto previsto dal comma 3 del D.M 2-10-17, che prevede provvedimenti per il personale che eccede i limiti delle dotazioni organiche stabilite per ciascuna sede ed ufficio?
L’interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti, basata sul lavoro di ricerca di Rita Bernardini di “Nessuno Tocchi Caino”, solleva questioni cruciali riguardo all'organico della polizia penitenziaria e alle modalità di assegnazione del personale all'interno delle carceri italiane. E sembrerebbe che ci sia una vera e propria “fuga dalle sezioni” da parte di un numero significativo di agenti. Ecco perché emerge una carenza di agenti penitenziari rispetto alla pianta organica prevista nelle carceri.
La nomina del nuovo capo del dap. Perché Carlo Renoldi è stato cacciato dal Dap. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 17 Dicembre 2022
Carlo Renoldi, un mite ed esperto giudice di Sorveglianza, reo di essere fedelmente appassionato alla idea costituzionale della pena come strumento di recupero sociale del reo, è stato rimosso da Direttore del Dap dopo appena nove mesi di svolgimento del delicato incarico. Sin dalla sua nomina, voluta fortissimamente dalla Ministra Cartabia, egli fu immediatamente fatto oggetto di sconsiderati attacchi politici dalla destra parlamentare e dai grillini. Lo accusavano di non essere allineato con l’idea idolatrica del regime detentivo speciale del 41 bis, una impurità culturale che lo avrebbe perciò reso inadeguato ed anzi pericolosamente lassista ed indulgente verso i detenuti per reati di mafia.
La politica italiana, soprattutto in tema di giustizia e di carcere, si ciba preferibilmente di simili, grossolane imbecillità, che però funzionano mediaticamente. E quindi, una volta acquisito lo stigma, non puoi più liberartene. Renoldi era l’uomo giusto al posto giusto, essendo un giudice di Sorveglianza, perciò conoscitore accurato delle dinamiche e delle criticità, anche le più minute, che costellano la vita del pianeta carcere e più in generale la fase di esecuzione della pena. Un know-how che, ovviamente, non ha -non può avere- un Pubblico Ministero, che al più si occupa di mandare le persone in carcere, non del carcere. Ed invece puntualmente la regola adottata quasi senza eccezione dalla nostra politica, di destra e di sinistra, è quella di nominare al Dap pubblici ministeri, possibilmente qualificati da meriti professionali antimafia. Anche questa, a ben vedere, è una bizzarria, visto che nel pianeta carcere la popolazione legata a consorterie mafiose ed a reati di mafia rappresenta una fetta del tutto minoritaria, ed ancor più minoritaria quella ristretta in regime di 41 bis. Potenza dei simboli e del conformismo politico.
Comunque, questo atto di spoil-system era largamente annunciato, e lo stesso Ministro Nordio (che sono certissimo non ne condivida le ragioni) ha dovuto adeguarsi alla volontà politica della sua maggioranza. Salutiamo con rammarico Renoldi, e diamo il doveroso benvenuto a Giovanni Russo, Pubblico Ministero della Direzione Nazionale Antimafia, così i furori iconoclasti dei “garantisti sul processo e giustizialisti sulla pena” si saranno finalmente placati. E qui però comincia il bello. Perché una scelta così brusca (dopo soli nove mesi!) e tecnicamente immotivata (sebbene legittima) necessariamente dovrà tradursi in atti significativi, in una concreta idea progettuale del carcere e della esecuzione della pena che sappia segnare la differenza dalla gestione interrotta, così giustificandosene la ragione. E cosa dovrà fare mai Russo, mi chiedo, di così significativamente diverso da Renoldi, di fronte alla implacabilità terrificante dei suicidi in carcere (siamo ad 80 dall’inizio dell’anno)? E cosa, di fronte al sovraffollamento, alla fatiscenza delle strutture, alle condizioni di lavoro durissime della polizia penitenziaria, insomma alla nostra perdurante condizione di “fuori legge” rispetto alle censure ripetutamente espresse dalla giurisprudenza sovranazionale? Cosa di fronte al dilagare della droga e dei telefoni cellulari nelle nostre carceri? Ed anche con riguardo al regime del 41 bis, suvvia!, cosa si potrà mai aggravare rispetto al già spaventoso quadro regolamentare attuale, già indegno di una società civile?
Staremo a vedere, ma senza fare sconti, e senza indulgenze rispetto a questa melassa conformista e sgrammaticata della “certezza della pena” intesa come “certezza del carcere”. Lo sa bene per primo il Ministro Nordio che quello della certezza della pena è un principio di derivazione illuministico-liberale, che non ha nulla a che fare con questa dozzinale filosofia del “buttare la chiave”, cibo da dare in pasto ai social, ma che non è una cosa seria. La soluzione è e rimane la de-carcerizzazione, da perseguire mediante il rafforzamento delle misure alternative alla detenzione intramuraria. È ovvio che le misure alternative devono acquisire -esse si!- effettività, certezza, forza sanzionatoria che oggi è obiettivamente incerta e flebile. Ma lo voleva già la Commissione Giostra, a conclusione degli Stati generali della Esecuzione penale del 2017.
Quando saranno finite queste vacue e futili iniziative di comunicazione politica per simboli e slogan, cerchiamo tutti di rimettere mano a quello straordinario lavoro portato avanti e concluso da avvocati, magistrati, operatori penitenziari, direttori delle carceri. Fatevela, signori della maggioranza (e non solo), mentre vi costringete a spargere fuffa sulla edilizia carceraria sempiternamente prossima a realizzarsi, una chiacchierata con il prof. Glauco Giostra, e date una paziente lettura alle proposte finali di quella formidabile commissione. Così, finalmente, si potrà cominciare seriamente a parlare di carcere, e di soluzioni concrete a questa tragedia, che ora è nella vostra responsabilità. Contenti di aver giubilato Renoldi? Bene. Ora però tocca occuparsene, del carcere; sul serio, non su Facebook o su Twitter; auguri di buon lavoro.
Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane
Persa l'occasione di un segnale di discontinuità. Renoldi troppo garantista, al Dap va Giovanni Russo di Magistratura Indipendente. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Dicembre 2022
Avrebbe potuto dare un segnale di discontinuità politica, magari scegliere una persona affine a sé per pensiero sulla giustizia e sul carcere, proprio come è l’attuale capo del Dap Carlo Renoldi. Invece il ministro Carlo Nordio ha preferito, a quanto pare, restare nell’alveo della tradizione, di destra e di sinistra, e pensare di nominare per l’incarico più ambito del ministero di giustizia, un magistrato contiguo politicamente.
Giovanni Russo è un esponente di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice delle toghe, decisamente più affine a un governo di centrodestra, e in particolare al mondo della premier Giorgia Meloni, il cui partito ha eletto Nordio in parlamento, prima ancora di sponsorizzarlo per il governo. E Renoldi non solo è di sinistra, ma così garantista da aver stuzzicato la sua stessa parte politica proprio su qualcosa di intoccabile come l’antimafia militante, quella che si ricorda di Giovanni Falcone come del quadretto da tenere sul muro dietro la scrivania e metterlo bene in evidenza durante qualche collegamento tv, piuttosto che apprezzarlo per la sua visione di politica giudiziaria. Per esempio sulla separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale.
Ma il guardasigilli con questa scelta di occasioni ne perderà due. La prima è da “peccato veniale”. Perché in fondo l’alternanza sinistra-destra non toglie nulla al valore professionale di ambedue le toghe. Del dottor Renoldi sappiamo che è stato per dieci anni giudice di sorveglianza a Cagliari, che ha fatto parte di una commissione per l’ordinamento penitenziario e che sullo stesso tema ha sollevato questioni di costituzionalità che la Corte ha accolto. In questi pochi mesi dalla sua nomina, da quando lo aveva scelto la ministra Cartabia il 27 febbraio di quest’anno, non ha avuto modo ancora di mostrare le sue doti di riformatore. Ha anche dovuto affrontare il dramma di una vera strage di circa 80 suicidi all’interno delle carceri. Ma è comunque uno che conosce l’istituzione cui ha dedicato una parte della sua carriera di giudice. Giudice, per l’appunto, non pubblico ministero.
E qui entriamo in area “peccato mortale”. Perché il dottor Russo altri non è se non il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, il braccio destro di Giovanni Melillo. Non è difficile quindi intuirne la mentalità, la cultura. Perché è molto difficile ricoprire un ruolo di tale prestigio e importanza e non avere come proprio orizzonte culturale quello della sicurezza. Intendiamoci, il carcere è un luogo di custodia di circa 60.000 detenuti e con 40.000 agenti di polizia penitenziaria, ovvio che debba essere un luogo sicuro. Ma la Costituzione non dice questo, dice invece che i soggetti che si occupano di coloro che devono scontare una pena debbano prima di tutto prendersene cura, e rieducarli fino a riuscire a riammetterli nella società civile. Giustizia riparativa, ha sempre sostenuto la ministra Cartabia, e con lei una parte del mondo giuridico, laico e cattolico.
Ricucire, dovrebbe essere la parola d’ordine di chi deve gestire le prigioni. E’ in grado un pubblico ministero, uno che di mestiere fa l’accusatore, e in particolare un magistrato “antimafia”, di assumere la veste del riformatore, fino a mettere in discussione la funzione rieducatrice del 41-bis? Carlo Renoldi sicuramente lo era, non perché era di sinistra, ma perché conosceva da prima il mondo che era stato chiamato a governare, perché non confondeva il reo con il reato ed era pronto a scommettere sulla realizzazione, in gran parte, dell’articolo 27 della Costituzione. E’ una questione di mentalità. Prima ancora che di cultura politica. Infatti proprio da sinistra, oltre che dal Fatto, dai grillini e una parte del centrodestra, erano arrivati i siluri, sempre nel nome di Falcone e Borsellino, ma in realtà dell’antimafia militante. Tanto che Carlo Renoldi era stato costretto, prima ancora di essere nominato a capo del Dap, a una sorta di autodafé che desse garanzie ai dispensatori di purghe di destra e di sinistra.
Ma non sarebbe giusto, e non è nelle nostre intenzioni né abitudini, processare preventivamente il dottor Giovanni Russo, di cui conosciamo per ora solo il curriculum e la storia professionale. Oltre che una parte di quella familiare, perché la stampa più virtuosa e informata ci ha già segnalato che il prossimo capo del Dap è fratello di un ex parlamentare di Forza Italia, ora passato, anche a causa dei suoi legami politici con Mara Carfagna, al partito di Carlo Calenda. Che cosa dovremmo dedurre da questa, secondo noi inutile, notizia? Che anche il fratello potrebbe esser stato marchiato dall’infamia della vicinanza a Berlusconi? O al contrario che questa contiguità potrebbe avergli inoculato il seme del garantismo? Ma i principi dello Stato di diritto dovrebbero essere la stella polare di ogni magistrato, quindi siamo certi che lo siano anche per il dottor Russo. Cui facciamo i migliori auguri di buon lavoro, come avevamo già fatto con il suo predecessore.
Quel che ci preoccupa è invece il nostro vizio della memoria. Che ci riporta alle serate della domenica in cui nelle trasmissioni di Massimo Giletti veniva messo alla berlina il capo del Dap Francesco Basentini, reo non solo di aver emesso una circolare per salvare la vita a un po’ di detenuti nel momento tragico dell’epidemia da covid, ma soprattutto di non essere Nino Di Matteo. Cioè colui cui il ministro Bonafede aveva in un primo momento promesso quell’incarico. Lo stesso guardasigilli era guardato con il sospetto che avesse cambiato idea perché intimorito dalla mafia. Brutti tempi, allora. Ma non sono mai tempi tranquillizzanti quelli in cui si rischia di estendere anche a quel 90% di detenuti che nulla hanno a che fare con le cosche il regime di sicurezza da camicia di forza, quello del 4-bis e del 41-bis.
Perché, anche se formalmente non è così, il pericolo c’è, se gli occhi di chi deve governare le prigioni sono abituati a vedere in un solo modo. Ci dispiace, ministro Nordio, perché noi del Riformista siamo suoi estimatori, e ci dispiace anche per un alto magistrato come il dottor Russo che non conosciamo, ma temiamo che questa scelta possa rivelarsi poco in linea con il suo programma di riforme sulla giustizia. Saremo felicissimi di esserci sbagliati.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il Reato di Tortura.
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Quell'odio mal celato e gratuito verso le Forze dell'Ordine. Andrea Soglio su Panorama su il 7 Giugno 2023
L'inchiesta sulle violenze di 5 agenti di Polizia a Verona ha ridato voce a chi, da sempre, non sopporta poliziotti, carabinieri e agenti di ogni tipo
«Fatti di una gravità enorme». Le parole del Ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, sottolineano la gravità di quanto emerso dall’inchiesta sulle azioni di 5 agenti di Polizia che sarebbero responsabili di violenze ingiustificate ed ingiustificabili contro alcuni extracomunitari e senzatetto (7 gli episodi contestati). Nell’inchiesta sono finiti altri 17 colleghi che avrebbero saputo delle aggressioni ma non avrebbero denunciato come dovuto. Quando è una persona in divisa a macchiarsi di episodi di violenza e di atti criminali è giusto pretendere la maggior severità e fermezza possibile. Chiunque indossi una divisa, chiunque rappresenti lo Stato e le sue regole ha molto più degli altri il dovere di rispettarle per primo, proprio in nome di quella divisa indossata che non si può sporcare e soprattutto non si deve «smacchiare» in qualche modo. Chi ha sbagliato paghi, e salato. Questo però non deve sfociare nell’esagerazione, anzi, nella generalizzazione. Da ieri, da quando le prime notizie dell’inchiesta di Verona hanno cominciato a circolare in rete è partito forte, più forte che mai, il tam tam di chi ha una concezione molto chiara sugli uomini e le donne di Polizia, carabinieri, Guardai di Finanza e quant’altro. Chi ha una divisa è a prescindere di tutto un violento, un fascista, un essere pericoloso, dal manganello facile, voglioso di picchiare, sparare e magari anche uccidere. Persone che odiano, cattive e da attaccare ogni qual volta emerge un caso che confermi questa loro folle teoria. C’è come una sorta di antipatia mal nascosta verso le forze dell’ordine ed i militari. Solo così si spiegano certi commenti sui social e persino certi titoli di giornale. Un quotidiano oggi apriva con queste parole: «A Verona i criminali sono i poliziotti». Capito? Capita l’uguaglianza? Poliziotto= Criminale. Un odio talmente presente e profondo da non far capire a queste persone che l’inchiesta è partita proprio da altri poliziotti, perbene, che non hanno provato a difendersi nascondendo la polvere sotto il tappeto, ma hanno portato il marcio alla luce del sole nel rispetto della loro divisa e della loro onestà. Sono decine di migliaia gli uomini delle Forze dell’ordine; saranno 400 quelli alla Questura di Verona. Definirli tutti criminali per le azioni di 5, ed il silenzio di 17, è misero.
Poliziotti violenti, Amnesty: «Giorgia Meloni vuole azzerare il reato di tortura. Ci saranno mille Verona impunite». La denuncia del portavoce italiano Riccardo Noury: «C’è un clima in atto che fomenta un accanimento verso le persone più vulnerabili». Simone Alliva su L'Espresso il 7 Giugno 2023
«Sembra di essere tornati alla caserma di Bolzaneto, 22 anni fa» dice a L’Espresso Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia mentre commenta il caso dell'indagine sulle violenze compiute da alcuni poliziotti di Verona. Fotogrammi dell’orrore che a leggere le carte sulla vicenda di Verona ritornano: il sangue misto alla pipì. I racconti e le immagini di quei ragazzi messi nudi contro il muro in piedi, gambe divaricate, per ore. O delle ragazze umiliate e minacciate di stupro. Gli ordini: «Canta faccetta nera», «viva il Duce» e ancora gli urli della ragazza a cui fu strappato il piercing dal naso. Il reato di tortura all’epoca non c’era. Approvato solo nel 2017, oggi la destra al Governo vuole abolirlo. «C’è un clima», ripete Noury, «oggi chi è sempre stato contrario al reato di tortura è al governo».
Riccardo Noury: il caso della donna trans pestata dalla polizia locale di Milano, quello del carabinieri che prende a calci in testa un uomo arrestato e adesso Verona. Questi episodi cosa ci dicono?
«Che c’è accanimento nei confronti delle persone con vulnerabilità, in molti di questi casi c’è un’aggravante di odio razziale e questo rende il tutto ancora più inaccettabile. Si tratta in uno squilibrio di forze tra chi è indifeso e chi si ripara dietro una divisa, contando su un certo clima politico».
In che senso “un clima politico”?
«Non parlo soltanto di un certo atteggiamento nei confronti di persone vulnerabili, ma di un tentativo scivoloso di porre al centro del dibattito politico il tema del reato di tortura. Ne parla il ministro della Giustizia Carlo Nordio, ad esempio, ci sono proposte di legge di Fratelli d’Italia che dichiarano di voler “migliorare” la legge, in realtà la vogliono cancellare. Succede con l’aborto, succede con il reato di tortura. Questa è l’aria che si respira nei palazzi a Roma ed è qualcosa che scende nelle strade e nelle città».
Come ricordava lei, in una lettera indirizzata a un sindacato autonomo di polizia prima del voto, Giorgia Meloni prometteva che una volta al Governo la destra avrebbe abolito il reato di tortura. Il disegno di Fdi vuole definire la tortura come un aggravante e non un reato riferibile in particolare modo ai pubblici ufficiali.
«Ci abbiamo messo 29 anni ad avere una legge che non è perfetta e rischiamo che in 29 giorni questa legge venga cancellata. La legge italiana prevede la tortura come reato comune, ma aggravato se commesso dal pubblico ufficiale, questo elemento già all’epoca era problematico. Ma, sa, all’epoca le associazioni per i diritti umani si sono detti: prendiamo questo testo anche se non è perfetto, ma non ci sono condizioni politiche. Adesso si vuole fare un passo indietro. Ufficialmente per adattare il testo italiano alla normativa internazionale mentre in realtà ha un intento neanche troppo mascherato di acuire».
Quali sono i rischi?
«Se si modifica il testo bisogna chiedersi cosa ne è dei processi in corso, se cambia la fattispecie è evidente che c’è un problema. Questa narrazione sulle modifiche e sulle migliorie nasconde altro. Quelli che per quasi 30 anni, dall’1989 al 2017, erano contrari al reato di tortura ora sono al Governo e hanno la maggioranza».
Ma non si potrebbe intervenire prima. Fare un lavoro di prevenzione?
«Il reato di tortura introdotto nel 2017 pecca anche di elementi sulla prevenzione. La tortura è uno dei più gravi crimini internazionali, non è tollerabile servirebbero delle condanne forti, unanime da chi è al potere in questo Paese. Il Presidente del Senato ha rilasciato ieri una dichiarazione cauta, va bene. Ma non basta una dichiarazione isolata. Non bisogna tentennare. Il che vuol dire che questo Governo deve porre fine anche ai tentativi di azzerare il reato di tortura. Altrimenti ci saranno mille Verona e non saranno punite».
Il 16 e 17 giugno 1973. Storia della protesta che ha rotto l’isolamento di 30mila detenuti. La rivolta si estende agli altri raggi e viene subito ripresa nel resto delle carceri italiane: a macchia d’olio negli istituti di pena del Sud come nel Nord. Paolo Persichetti su L'Unità il 31 Maggio 2023
Nella notte tra sabato 16 e domenica 17 giugno 1973 scoppia la rivolta nel carcere di Rebibbia, un istituto di pena inaugurato appena un anno prima. Centinaia di detenuti prendono il controllo fino all’alba dei «bracci» e della «rotonda» centrale. I rivoltosi staccato mobilio e suppellettili dalle loro celle per innalzare barricate davanti ai cancelli d’ingresso dei reparti.
Alle prime luci del giorno la protesta si placa, i reclusi rientrano nelle celle ma dopo alcune ore di apparente calma all’inizio del pomeriggio della domenica riprendono la protesta. Un gruppo di detenuti del G8 dopo l’aria rifiuta di entrare nelle celle e raggiunge il tetto del carcere. Sono una cinquantina a riaccendere la rivolta che si estende agli altri raggi e viene subito ripresa nel resto delle carceri italiane: Cagliari, Marassi, san Gimignano e poi nelle settimane successive a macchia d’olio negli istituti di pena del Sud come nel Nord. Dopo circa un ventennio di «pace carceraria», seguito alle rivolte dell’immediato dopoguerra, nel corso del biennio 68-69 era ripresa la mobilitazione nelle prigioni, prima alle Nuove di Torino, poi il Marassi di Genova e San Vittore a Milano. Non è un caso se a mobilitarsi per prime sono le carceri giudiziarie del triangolo industriale, rivolte che ricalcano quanto avveniva nelle fabbriche e nei quartieri di quelle città.
Le mutazioni sociologiche avvenute all’interno della popolazione detenuta con un incremento notevole dei condannati per reati contro il patrimonio, la diffusione della nuova cultura della «stecca para» che rompeva le rigide gerarchie nel mondo della malavita, dando vita a batterie di rapinatori che suddividevano in modo equo il bottino, accompagnava una nuova autopercezione egualitaria e solidale del mondo della illegalità. Tutto ciò era favorito dal fervore critico e rivoluzionario penetrato all’interno degli istituti di pena con i primi militanti politici dei gruppi della nuova sinistra incarcerati.
Una nuova coscienza critica si era diffusa tra i detenuti non più governabile con il paternalismo e la repressione dei decenni precedenti. Le istituzioni totali venivano viste come simbolo estremo dell’ordine capitalistico e luogo di sovversione dello stesso. Le lotte dentro le mura di cinta si pensavano come parte della più generale battaglia contro il capitalismo condotta all’esterno. Paradossalmente sarà proprio la dura repressione con i trasferimenti punitivi dei rivoltosi che favorirà l’allargamento a macchia d’olio delle proteste e delle rivendicazioni in tutte le carceri dove questi arrivavano.
La creazione di Commissioni interne crea embrioni di democrazia dentro le mura di cinta e trasforma i detenuti in nuovi soggetti politici che pensano, scrivono, elaborano piattaforme, si incontrano con parlamentari della Sinistra in visita nelle carceri. Il primo regolamento della futura riforma del 1975 fu scritto dalla commissione carceri dei detenuti di Poggio Reale. Molti istituti innovativi, come la socialità, vennero pensati dalla commissione di Poggio Reale. Prima in carcere si parlava di “ricreazione”, come all’asilo.
Venne istituzionalizzata la rappresentanza dei detenuti, poi recepita nel regolamento carcerario. Un ruolo decisivo verrà svolto dalla «Commissione carceri nazionale» messa in piedi da Lotta continua e dalla rubrica dell’omonimo giornale, «I dannati della terra», che agiranno da catalizzatore della stagione di lotte fino alla fuoriuscita di una parte dei suoi militanti – molti dei quali erano stati tra i protagonisti delle Commissioni interne – che darà vita alla esperienza dei Nuclei armati proletari.
***
Questo articolo di Aladino Ginori è apparso sull’Unità del 24 giugno 1973.
C’è un dato che ha dell’incredibile. II più alto numero di suicidi in carcere, avviene durante l’ultimo mese di detenzione. Anche a questo porta il più micidiale del meccanismi di isolamento umano che la nostra società possa offrire. Quando il detenuto e prossimo alla libertà – come dicono gli esperti – quando avverte che dovrà tornare a fare i conti con una realtà esterna che lo ha già respinto una o più volte, l’angoscia diventa incontenibile ed i più deboli cedono fino a giungere all’atto irreparabile.
Chi esce dal carcere, invece, più che confrontarsi con la comunità reale, mette in moto reazioni imprevedibili di fronte alla realtà immaginata durante la detenzione; una realtà che vede densa di minacce, verso la quale si pone in un conflitto aperto. Questo, il più delle volte, il risultato d’un periodo di pura e sterile «punizione» nel quale si accumulano, in un ambiente disumano, le esasperazioni, e l’individuo si abbrutisce nelle ore, nei giorni e negli anni vuoti e sempre uguali nella loro miseria.
La cosiddetta rivolta delle carceri ha le sue radici in moltissimi fattori. Lo hanno riaffermato in questi giorni i detenuti che hanno dato luogo a proteste clamorose a Roma (Rebibbia, il carcere definito «modello»), a Torino, a Cagliari, a Palermo, a Siracusa, a Milano, a Firenze, a Frosinone, a Spoleto. Migliaia dl uomini e donne (sono circa trentamila i carcerati in Italia) hanno posto un cumulo di rivendicazioni: dalla carcerazione preventiva, da un trattamento più umano nelle carceri, al diritto al lavoro e allo studio. Una protesta che, come quella altrettanto vasta del 1969, e stata bloccata con la repressione più dura, con i trasferimenti in massa, con la cella d’isolamento, con le punizioni sorde e cariche dl rancori, anche personali. A Roma e a Firenze si è anche sparato e si è fatto ricorso al candelotti lacrimogeni.
Tuttavia la tensione resta. E, cosa ancora più grave, restano tutti i problemi. Qualcuno osservava che la protesta dei detenuti non poteva cadere in un momento peggiore: crisi di governo e Camere bloccate non permetterebbero, infatti, di affrontare la vasta gamma dl richieste avanzate dai detenuti. Ma di riforma dei codici e di nuova regolamentazione sul carcere preventivo si parla almeno da venticinque anni in Italia. Ci sono quindi precise responsabilità politiche se, fino ad oggi, non si e mosso un dito. Se, per ovviare al pesante inconveniente dei detenuti in attesa dl giudizio (sono il 56 per cento) e per sgomberare le aule dei tribunali da migliaia di fascicoli si è preferito ricorrere per ben venticinque volte alla amnistia, dal dopoguerra ad oggi.
[…]
Delle quasi trecento prigioni esistenti oggi in Italia, infatti, 177 sono state costruite per altra destinazione. Solo una ventina sono state edificate dopo il 1955 ed altre sedi dopo il 1930. Tutte le altre sono ex conventi o ex fortezze e, fra queste, basti citare il Mastio di Volterra, (una fortezza medicea del 1334). Il carcere di Trento, (risale all’epoca napoleonica), quello dl Trani (un vecchio castello), quello dl Procida (ex fortezza borbonica), quello in uso a Rimini fino al 1969 (una rocca malatestiana). E ancora: il San Vittore dl Milano ha cento anni di vita. Le «Nuove» di Torino risalgono al 1857, il Poggioreale di Napoli è del 1912.
Dentro queste «fabbriche dell’isolamento» avviene di tutto.
[…]
Fra tutte, comunque, la realtà più scandalosa del nostro sistema carcerario resta quella del lavoro. Il terzo del detenuti che trova occupazione in carcere (per tutti dovrebbe essere, un diritto) è sottoposto alle leggi del più brutale sfruttamento, sia che lavori alle dirette dipendenze dell’amministrazione carceraria sia che lavori per ditte di appalto. E la cosa più incredibile sta nel fatto che è proprio lo Stato a rendersi protagonista o complice di questo sfruttamento: pagando salari vergognosi (in media 800 lire al giorno, ma decurtate le spese di «soggiorno» ne restano poco più della metà) o pretendendo tangenti del 110 per cento dalle ditte che appaltano i lavori e che «usano» i carcerati in una misura che rasenta davvero il codice penale.
E’ questo, quindi, per linee sommarie il retroterra della protesta che e divampata nelle carceri in questi ultimi giorni. Una situazione terribile, dove è comprensibile anche che si possa arrivare a forme di lotta disperate quanto inefficaci e perfino controproducenti. L’Italia destina all’amministrazione della Giustizia il 41 per cento delle sue spese pubbliche. Nel 1973 alle carceri sono stati destinati circa 90 miliardi. Sono cifre tra le più basse d’Europa che non sfiorano nemmeno lontanamente la sostanza del problema. Ma non solo di cifre si tratta, ovviamente. Il nodo di fondo da sciogliere è di carattere politico.
II sistema carcerario fa parte del più vasto apparato della Giustizia che – come più volte e stato sottolineato dalle forze politiche democratiche – ha bisogno dl profonde riforme. Bisogna andare alla riforma dei codici, alla riforma della regolamentazione sulla carcerazione preventiva. Bisogna, quindi, entrare nelle terribili «fabbriche dell’isolamento» e guardarne per modificarli i regolamenti arcaici. I detenuti chiedono dl lavorare e studiare. Lottano per ottenere diritti ormai acquisiti da decenni in quasi tutti i paesi del mondo. Da noi non più e possibile attendere oltre. Paolo Persichetti
(ANSA il 2 ottobre 2023) - Otto agenti della questura di Piacenza sono indagati con le accuse di arresto illegale, calunnia, falso in atto pubblico, mentre un nono poliziotto è accusato di false dichiarazioni all'autorità giudiziaria.
Ne riferisce questa mattina il quotidiano Libertà precisando che l'inchiesta, condotta dai carabinieri e coordinata dalla sostituto procuratrice Daniela Di Girolamo, riguarda episodi del periodo tra gennaio e luglio 2022, con una più recente coda relativamente alle false informazioni fornite al pubblico ministero. Gli indagati operavano sulle volanti. Le accuse a loro carico sono state mosse anche sulla base di intercettazioni
Sotto l'occhio della Procura sono finiti incriminazioni e arresti che secondo le accuse sarebbero stati effettuati dai poliziotti abusando dei loro poteri e sulla base di verbali redatti con false ricostruzioni e attestazioni, in certi casi estorte dalle vittime dietro "minacce di ripercussioni".
Pestaggi nel carcere di Viterbo: 10 agenti a processo. Stefano Baudino su L'Indipendente il 2 ottobre 2023.
Dieci agenti della polizia penitenziaria sono ufficialmente a processo con l’accusa di aver riempito di botte un detenuto nel carcere di Mammagialla, a Viterbo. Mercoledì scorso si è svolta la prima udienza, quella di ammissioni prove, al tribunale di Viterbo per lesioni personali aggravate e, per tre degli imputati, anche per calunnia e falso. La vittima del presunto pestaggio è il 35enne romano Giuseppe De Felice, che sarebbe stato picchiato fino a perdere l’udito il 5 dicembre 2018 nel carcere di Rebibbia.
Secondo i pm i dieci poliziotti alla sbarra avrebbero “percosso De Felice cagionando lesioni personali e segnatamente, tra l’altro, edema al condotto uditivo destro, trauma costale e contusione toracica destra”, abusando “della qualità di agente del corpo di polizia penitenziaria, approfittando di circostanze tali da ostacolare la privata difesa, quali lo stato di detenzione della vittima e l’assenza di videocamere nei luoghi in cui si sono svolti i fatti”. Dopo una caotica perquisizione della cella di De Felice, gli agenti avrebbero infatti percosso l’uomo sulle scale di Mammagialla, un luogo non inquadrato dalle telecamere della struttura.
A far scattare l’allarme è stata Teresa, la moglie del detenuto, dopo aver visto il marito in sede di colloquio con il volto tumefatto e pieno di lividi. Tramite l’attivista napoletano Pietro Ioia, la donna ha potuto contattare l’esponente del partito radicale Rita Bernardini, che ha inviato una segnalazione urgente al garante nazionale dei detenuti, a quello regionale, al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e al direttore del carcere di Viterbo, a cui ha chiesto di verificare quanto denunciato dalla moglie di De Felice e di «far visitare urgentemente il detenuto in modo da mettere agli atti della sua cartella clinica il relativo referto». L’uomo ha infatti dichiarato che, in seguito al pestaggio, l’avrebbero mandato per un’ora in isolamento senza provvedere a refertare le sue condizioni fisiche. Dopo aver ricevuto la missiva da parte della moglie di De Felice, il direttore del carcere ha raccolto la sua denuncia. Il direttore sanitario ha visitato l’uomo, diagnosticandogli la perdita di udito.
«Gli hanno perquisito la cella, messo a soqquadro tutto e hanno calpestato la foto che ritraeva noi due – ha raccontato Teresa sulla base di quanto riferitole da De Felice -, mio marito ha reagito urlandogli contro, prendendoli a parolacce». Questo episodio avrebbe fatto scattare le violenze.
Tra gli imputati, un sovrintendente e due assistenti capo rispondono di calunnia e falso a causa dei contenuti delle loro relazioni di servizio, in cui hanno cercato di far ricadere le colpe sul detenuto. “Onde evitare che la situazione degenerasse – ha scritto il primo – ordinavo al personale di polizia penitenziaria che aveva preso parte alla perquisizione ordinaria, di non allontanarsi dal posto e di prelevare il detenuto De Felice dalla propria stanza di pernottamento per allontanarlo dalla sezione IV B, mantenendo così l’ordine e la sicurezza all’interno della stessa. De Felice, con fare spavaldo e arrogante usciva dalla propria stanza incurante del nutrito numero di agenti di polizia penitenziaria presenti sul posto e subito allungava il passo per recarsi sulla rotonda della sezione”. Secondo i pm, tale ricostruzione dei fatti sarebbe falsa, così come il seguito: “De Felice si scagliava addosso agli assistenti capo Palozzi e Alfonsini, rei a suo dire di aver fatto una perquisizione contro i suoi diritti. Nasceva una colluttazione fisica tra il detenuto e l’unità di polizia penitenziaria presente e, con molta fatica, si riusciva a riportare alla calma il detenuto, contenendolo fisicamente, rendendolo così inoffensivo per la sicurezza degli operatori. Si rendeva necessario bloccare le braccia del detenuto e portarlo a forza in modo coatto alla locale infermeria… nonostante il nutrito numero di agenti è occorso uno sforzo non indifferente per bloccare il detenuto che, con tutta la sua forza, sfruttando la sua importante mole fisica, aveva messo in atto un’importante azione attiva di aggressione…”.
Sulla stessa scia i due assistenti capo, i quali hanno scritto che il detenuto “si scagliava fisicamente verso i sottoscritti, rei a suo parere di avergli fatto degli abusi. Solo la presenza di svariati colleghi impediva al detenuto di avere la meglio verso di noi e con molta fatica si conteneva l’azione fisica…”. Sarà il processo a chiarire ogni passaggio e tutte le responsabilità dietro questa storia. [di Stefano Baudino]
Pestaggi a Viterbo, ecco perché pm e procuratore rischiano il processo. Il 29 giugno il gip di Perugia deciderà sul caso aperto dopo gli esposti dei familiari di Sharaf al Csm e alla Procura generale per rifiuto e omissioni di atti d'ufficio in seguito alle presunte violenze del 2018 al "Mammagialla". Damiano Aliprandi Il Dubbio il 25 maggio 2023
Dovranno affrontante l’udienza preliminare a seguito della richiesta di rinvio a giudizio per rifiuto di atto d’ufficio. Secondo la procura di Perugia, il procuratore capo Paolo Auriemma e la pm Eliana Dolce della procura di Viterbo avrebbero chiuso un occhio a seguito delle denunce e segnalazioni soprattutto da parte del garante regionale dei detenuti Stefano Anastasìa sui pestaggi avvenuti nel 2018 al carcere di Mammagialla. Su Il Dubbio abbiamo più volte ha riportato eventi tragici che si sarebbero verificati all’interno del carcere “duro” di Viterbo. Due storie su tutte. Quella di Hassan Sharaf, cittadino egiziano di 21 anni, che il 23 luglio del 2018 si è tolto la vita impiccandosi nella cella di isolamento dove si trovava da due ore. Il 9 settembre, neanche due mesi dopo, sarebbe tornato in libertà. Invece non ha retto la pressione di quel luogo. Il ragazzo, durante la visita di una delegazione del garante regionale dei detenuti, mostrò all'avvocata Simona Filippi alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima. Il Garante Anastasia ha presentato un esposto sulla vicenda di Hassan, sottolineando che il ragazzo aveva riferito di avere «molta paura di morire».
L'altra vicenda emblematica è quella di Giuseppe De Felice che ha denunciato di essere stato massacrato di botte da dieci agenti con il volto coperto, che hanno utilizzato anche una mazza per picchiarlo. Portato in infermeria per qualche ora nessuna si è occupato di lui. Un racconto constatato ancora una volta dal Garante dei detenuti e dal consigliere regionale del Lazio di + Europa, Alessandro Capriccioli, e amplificato dalle parole della moglie del 31enne, che si è rivolta a Rita Bernardini del Partito Radicale. Racconto portato per la prima volta alla luce dalle pagine di questo giornale. Ma Giuseppe e Hassan erano solo la punta dell'iceberg di una violenza quotidiana e sistematica, secondo quanto emerge dalle numerose lettere arrivate nel 2018 ad Antigone. Tanto che il garante Stefano Anastasia non esitò a parlare del Mammagialla di Viterbo come di un carcere punito, in un Paese “dove il carcere punitivo non esiste”. A pensare che nel 2019, l’allora sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, in risposta a una interpellanza di Riccardo Magi di + Europa, rispose che la Procura stava compiendo accertamenti su tutti i casi elencati e ha sottolineato che l’allora ministro della Giustizia, dopo la pubblicazione dell’articolo de Il Dubbio sui presunti pestaggi, avrebbe subito attivato il Dap per effettuare l’ispezione necessaria previo il nulla osta dell’autorità giudiziaria. Ma essendoci una indagine in corso, ancora non era stato possibile. Da sottolineare che, per quanto riguarda il presunto pestaggio di Giuseppe De Felice, il pm di Viterbo Stefano D’Arma ha chiesto il rinvio a giudizio nel 2020.
Ma ritorniamo alla notizia odierna. Tutto parte quando il Pubblico ministero Gennaro Iannarone ha emesso una richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Paolo Auriemma ed Eliana Dolce, entrambi accusati di un reato previsto dall'articolo 328 del codice penale italiano. I due imputati, rispettivamente Procuratore e della Repubblica e Sostituto presso la Procura della Repubblica di Viterbo, sono stati indagati a seguito degli esposti dei familiari di Sharaf al Csm e alla Procura generale, da cui anche l’avocazione a Roma del procedimento principale sulla morte del ragazzo.
L'accusa mossa nei confronti di Paolo Auriemma riguarda il suo ruolo di pubblico ufficiale in qualità di Procuratore della Repubblica di Viterbo. L'imputazione specifica che, l’ 11 agosto 2018, Auriemma avrebbe indebitamente rifiutato l'iscrizione nel registro delle notizie di reato riguardanti una segnalazione presentata dal Garante. Nonostante emergessero specifiche notizie di reato, Auriemma avrebbe registrato il caso come “fatti non costituenti notizia di reato” solo il 20 settembre 2021, omettendo di compiere le necessarie indagini sulle presunte violenze subite dai detenuti presso la Casa di Reclusione Mammagialla di Viterbo.
Analogamente, Eliana Dolce, in qualità di Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Viterbo, è accusata dello stesso reato. Secondo l'accusa, Dolce avrebbe indebitamente rifiutato di iscrivere nel registro delle notizie di reato le informazioni provenienti dalla denuncia presentata dal Garante per i detenuti del Lazio. Nonostante le specifiche notizie di reato emerse dalla denuncia, Dolce avrebbe mantenuto il procedimento registrato come ' fatti non costituenti notizia di reato' nel registro mod. 45 dall’ 11 agosto 2018 al 20 settembre 2021. Inoltre, Dolce è stata anche accusata di aver omesso di compiere le necessarie indagini sulle dichiarazioni dei detenuti riguardo alle presunte percosse e violenze subite, non presentando alcuna richiesta di archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Nel procedimento, la persona offesa risulta essere anche il ministero della Giustizia, il quale è stato citato per comparire con lo scopo di esercitare la facoltà di costituirsi parte civile per richiedere il risarcimento del danno. Le prove acquisite nel procedimento includono anche le comunicazioni di notizia di reato relative alla querela sporta dai famigliari di Hassan Sharaf, il ragazzo egiziano che presentò lividi di presunti pestaggi e che poi fu ritrovato suicida. Questa querela è stata presentata dall'avvocato di fiducia Michele Andreano del Foro di Roma e allegata agli atti del procedimento. Inoltre, come già detto, un altro elemento di prova rilevante è rappresentato dall'esposto presentato dal Garante delle persone private della libertà della regione Lazio. Tale esposto ha portato all'apertura del procedimento penale nei confronti di Paolo Auriemma ed Eliana Dolce, in quanto riportava le dichiarazioni di diversi detenuti della Casa di Reclusione Mammagialla di Viterbo che avevano denunciato di aver subito percosse e violenze. L'esposto del Garante dei detenuti costituisce quindi una testimonianza fondamentale per la prosecuzione del procedimento.
Ora i due imputati togati dovranno affrontare l’udienza preliminare fissata per il 29 giugno prossimo presso il Gip del Tribunale di Perugia. L'udienza preliminare rappresenta una fase fondamentale del processo penale, durante la quale il giudice valuterà le prove e gli argomenti presentati dalle parti coinvolte per decidere se rinviare il caso a giudizio o archiviarlo. Sarà quindi l'occasione in cui l'accusa e la difesa potranno esporre le proprie argomentazioni e fornire le prove a supporto delle rispettive posizioni.
«Pestati in cella». Ma con la riforma non è più “tortura”. Violenze e umiliazioni. Accusati 28 agenti del carcere di Biella. Ma con la nuova legge...Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 30 marzo 2023
Atti di violenza fisica e psicologica, minaccia grave, senza pantaloni e abbassati gli slip per generare umiliazione, con tanto di manette ai polsi e nastro adesivo nelle gambe. Così avrebbero agito i 28 agenti della Polizia penitenziaria nei confronti di tre detenuti stranieri del carcere di Biella, e quindi accusati di tortura a partire da primo episodio avvenuto l’11 giugno del 2022.
L’indagine è partita quando il vice Comandante pro tempore aveva redatto una comunicazione di notizia di reato nei confronti di un detenuto deferito in stato di libertà. Nella nota, il Comandante sottolineava una serie di violenze e minacce da parte del detenuto, asserendo di «aver dovuto utilizzare del nastro adesivo» per legarlo per qualche minuto nonostante quest'ultimo fosse già ammanettato. Una chiara violazione dell'art. 41 della Legge sull'Ordinamento Penitenziario. La comunicazione, invece di smorzare qualunque domanda sui soprusi, ha fatto dunque partire un'indagine da parte della Procura.
Indagine che ha portato, con l’ordinanza del GIP depositata il 22 marzo scorso, all’applicazione di misure cautelari nei confronti dei 28 agenti della polizia penitenziaria del carcere di Biella dove appunto sarebbero avvenute le torture. Ma potrebbero essere anche di più, visto che ancora non sono stati identificati altri agenti che avrebbero partecipato alla violenza. Un episodio riguarda il detenuto Mehdi Hozal. Contenuto con manette ai polsi e nastro adesivo sulle gambe, avrebbe ricevuto - così si legge nell’ordinanza - acute sofferenze fisiche dovute ai colpi inferti, refertate come «arrossamento al costato sinistro e graffi in regione sternale» e un verificabile trauma psichico sfociato anche in atti di autolesionismo sottoponendolo tra l'altro ad un trattamento inumano e degradante per la dignità della sua persona.
In particolare, su ordine del commissario, dopo aver condotto il detenuto Mehdi all'interno della cella situata presso la sezione nuovi giunti, lo avrebbero ammanettato con le braccia dietro la schiena e poi lo avrebbero accerchiato mentre uno di loro lo avrebbe colpito con degli schiaffi sul volto e, dopo averlo scaraventato per terra, ancora con dei calci sul fianco sinistro. Successivamente, sempre su ordine del commissario, lo avrebbero di nuovo accerchiato e legato con del nastro adesivo apposto sulle caviglie, sulle ginocchia e sulle spalle nonostante fosse stato già ammanettato e, per evitare che il detenuto si dimenasse, uno di loro gli avrebbe messo un piede sul petto. Non solo, dopodiché lo avrebbero trascinato dentro la cella tenendolo per le spalle mentre veniva preso per la gola e minacciato dicendo: "sei un uomo di merda io ti rovino, sei solo un delinquente" e infine lo avrebbero spinto dentro la cella scaraventandolo sulla panchina.
Usiamo il condizionale, anche se alcune scene sono riprese dalle telecamere della videosorveglianza. E proprio in questi filmati si vede chiaramente che alcuni agenti penitenziari si sono resi conto delle violenze gratuite e hanno allontanato alcuni di loro. Complessivamente la persona offesa è stata tenuta ammanettata e legata con il nastro adesivo per tre ore, fino a quando non è stato trasferito nel carcere di Cuneo. Mentre si trovava all'interno della cella "nuovi giunti", Mehdi era stato anche visitato da due medici, come riferito dal detenuto e come risulta dai referti. La dottoressa, nel suo referto, dà atto del fatto che Mehdi era legato con il nastro adesivo, ma non aveva riscontrato la presenza di lesioni in quel momento, difformemente da quanto certificato al momento dell'arrivo del detenuto nel carcere di Cuneo. Sentita a sommarie informazioni ha precisato che "la mancata certificazione della contusione al torace sta ne/fatto che le ecchimosi o l'ematoma possono insorgere a distanza di 416 ore rispetto all'evento contusivo pertanto non l'ho riscontrato nell'immediato anche perché il paziente è stato immediatamente tradotto verso altra casa circondariale. Dunque è verosimile che i segni siano comparsi in un momento successivo".
Stesse violenze sarebbero avvenute nei confronti di un altro detenuto, Katcharava lraklia, tanto che i violenti colpi ricevuti gli hanno causato una "algia emicostato sx e mandibolare" e un verificabile trauma psichico sfociato in disturbo post-traumatico. Su ordine del commissario, un gruppo di agenti lo avrebbero trascinato fuori dalla cella d'isolamento scaraventandolo a terra. Lo avrebbero umiliato togliendogli i pantaloni e poi con un piede in testa per tenerlo fermo, gli sarebbe stata rivolta la seguente frase "qua noi facciamo così sono le nostre regole, merda". Lo avrebbero ammanettato con le braccia dietro la schiena, legato anche le caviglie e colpito su tutto il corpo dandogli anche degli schiaffi sul viso.
Stessa sorte nei confronti del detenuto Bourzaik Ossama. Lo avrebbero dapprima minacciato con i manganelli e, dopo averlo condotto nella cella sita nel corridoio della sezione nuovi giunti, lo avrebbero umiliavano facendogli abbassare i pantaloni e gli slip e facendogli alzare la maglia fino al collo appoggiandogli il manganello sotto il mento e sul corpo rivolgendogli la seguente frase "avanti forza parla cosa hai da dire ora". E lo avrebbero ancora minacciato dicendo "se reagisci ti lego con il nastro adesivo e ti porto via come un salame", dopodiché lo avrebbero messo con il volto contro il muro e lo colpito su tutto il corpo con manganelli, gomitate, calci, schiaffi e gli avrebbero tirato i capelli insultandolo con le seguenti frasi "marocchino di merda, tu non comandi qui" e ammonendolo dicendo "ti è bastato? con me non si scherza".
Si configura il reato di tortura? Come ben argomenta il GIP, in tutti e tre gli episodi contestati le condotte sono state ripetute, sebbene nel medesimo contesto cronologico. Quanto al dolo, viene sottolineato che non vi è nessun dubbio che vi fosse la consapevolezza di infierire sui detenuti. Si osserva che la componente psicologica è particolarmente evidente con riferimento ai fatti occorsi l'11 giugno del 2022. L'arrivo del detenuto Bourzaik Ossama, infatti, è stato preceduto da una attenta pianificazione e – come scrive il GIP nell’ordinanza, senza che vi fosse stata alcuna forma di resistenza da parte del detenuto, gli agenti lo hanno comunque circondato di sorpresa, armati di manganello, sopraffacendolo in maniera totale e immotivata. Anche con riferimento ai fatti occorsi il 321 luglio e 3 agosto 2022, per il Gip è evidente il dolo, trattandosi di condotte gratuite e finalizzate a terrorizzare e sottomettere i detenuti. Risultano, quindi, sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di tortura.
Ma se dovesse passare la proposta di legge presentata da Fratelli d’Italia, questa condotta che avrebbero commesso gli agenti del carcere di Biella, sarebbe derubricata in reato di percosse o lesioni personali. Quindi, anche se formalmente il ministro Nordio dice che il reato di tortura non viene abrogato, nei casi in esame, di fatto, viene tolto eccome.
Abolire il reato di tortura infanga l’immagine delle forze dell’ordine. GLAUCO GIOSTRA su Il Domani il 29 marzo 2023 Abbiamo impiegato più di trent’anni per introdurre nel nostro sistema il reato di tortura in attuazione della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata il 10 dicembre 1984 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e già se ne propone la soppressione.
Scorrendo le ragioni che militerebbero a favore di questo dietrofront, ci si imbatte in un free climbing argomentativo che mette a dura prova le capacità di resistenza di chi intendesse seguire i proponenti in tale spericolata arrampicata (nonostante il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, abbia imposto una frenata - almeno parziale - al proposito).
In primo luogo, la fattispecie di reato disciplinata dal nuovo art. 613-bis c.p. risulterebbe «essere prima facie profondamente divergente rispetto a quella adottata dalla citata Convenzione». Problema di nessuna rilevanza: anche ad ammettere che la divergenza consista in un più ampio ambito applicativo della fattispecie nazionale rispetto a quella sovranazionale, è infatti espressamente previsto sin dall’esordio del testo convenzionale (art. 1 comma 2) - benché non fosse difficile desumerlo - che ogni Paese possa introdurre una legge di portata più ampia.
Si lamenta poi il fatto che nella Convenzione di New York il reato di tortura è configurato come reato proprio del pubblico ufficiale (cioè che può essere commesso soltanto da un pubblico ufficiale), mentre in base al “nostro” art. 613-bis co. 2 c.p. è dubbio se siamo dinanzi ad un’autonoma figura di reato proprio o a una circostanza aggravante(esserne autore un pubblico ufficiale) del reato comune di tortura delineato dal comma precedente.
Ergo, verrebbe da pensare, i proponenti vorranno connotare la condotta di tortura come reato proprio del pubblico ufficiale, più in linea con la formulazione convenzionale. No, si vuole addirittura eliminare il reato di tortura e “derubricare” la corrispondente condotta ad una delle diverse circostanze aggravanti che possono astrattamente collegarsi a qualsiasi reato. L’inerpicata si fa sempre più impraticabile per i nostri modesti mezzi.
LA POLIZIA PENITENZIARIA
Quando poi nella relazione accompagnatoria della proposta abrogativa si legge che a lasciare sopravvivere l’attuale disciplina legislativa del reato di tortura gli appartenenti alla polizia penitenziaria che debbono procedere alla «collocazione del detenuto in una cella sovraffollata (…) rischierebbero quotidianamente denunce per tale reato a causa delle condizioni di invivibilità delle carceri e della mancanza di spazi detentivi», sopraggiungono le vertigini.
Non riusciamo neppure a immaginare come si possa pensare di chiamare a rispondere del reato di tortura l’agente di polizia penitenziaria che, eseguendo un ordine legittimo dell’autorità giudiziaria, assegna il condannato ad una cella con la possibilità, diciamo pure con la probabilità, che l’esecuzione della pena per questo soggetto si riveli alla lunga degradante per le condizioni in cui lo Stato costringe molti dei ristretti a espiarla.
Tanto più, se si considera che l’art. 613-bis c.p. esclude espressamente che il pubblico ufficiale possa rispondere di tortura «nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». Preferiamo “scendere”, sarebbe da irresponsabili continuare l’ascesa tenuto conto dell’inconsistenza di qualsiasi appiglio.
Al primo contatto con il suolo della realtà, ci nasce un dubbio: se, per giustificare l’abolizione del delitto di tortura, si è costretti a dar fondo alla più spericolata fantasia argomentativa, le vere ragioni dell’iniziativa debbono essere altre.
LE VERE RAGIONI
E infatti le troviamo onestamente esplicitate in uno dei passaggi conclusivi della relazione illustrativa. L’abrogazione del delitto di tortura servirebbe «per tutelare adeguatamente l'onorabilità e l'immagine delle Forze di polizia».
Questo, in verità, dovrebbe costituire un forte argomento per mantenere, non per abrogare il reato di tortura. I rappresentanti delle Forze di polizia, che con impegno e rischio assolvono quotidianamente compiti delicati e gravosi per garantirci una convivenza civile e sicura, non potrebbero infatti che vedere infangata “la loro onorabilità e la loro immagine” dalla indegna condotta di alcuni di loro, se lo Stato rinunciasse a punirla severamente, quasi la considerasse una prerogativa che rientra nella funzione svolta.
Considerazione persino avvalorata proprio dal riferimento dei proponenti alla polizia penitenziaria, i cui uomini devono sapere non meno degli appartenenti alle altre forze di sicurezza fronteggiare pericoli, spesso persino più insidiosi; devono affrontare gravosi sacrifici quotidiani in un contesto doloroso e mortificante; devono essere garanti della sicurezza degli operatori e dei detenuti, usando nei confronti di questi metodi rispettosi, ma non imbelli; devono svolgere una così delicata funzione all’ombra di fatiscenti strutture, mai rischiarata dai riflettori e dalle gratificazioni dei media.
Si vuole davvero che questi onesti servitori del Paese siano percepiti dall’opinione pubblica come quelli ai quali lo Stato strizza l’occhio di una complice tolleranza anche rispetto a ripugnanti comportamenti criminali?
Subirebbero un’immeritata, gravissima degradazione nella percezione sociale: da responsabili custodi di uomini a irresponsabili depositari di corpi.
GLAUCO GIOSTRA. Professore ordinario di Diritto processuale penale all'università La Sapienza di Roma
Nordio finge di difendere il reato di tortura, ma dice le stesse cose di FdI che vuole abolirlo. GIULIA MERLO su Il Domani il 29 marzo 2023 Il ministro ha detto che «il governo non ha intenzione di abrogare il reato», apparentemente contraddicendo l’iniziativa del partito che lo ha eletto. Ha aggiunto che però andranno fatte correzioni tecniche: renderlo a dolo specifico e separarlo da quello di “trattamenti inumani”. Gli stessi argomenti usati da FdI nella sua proposta di abrogazione
Fratelli d’Italia e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, fanno il gioco delle tre carte con il reato di tortura.
Apparentemente, il guardasigilli e il partito che lo ha eletto sono in aperto contrasto. FdI, infatti, ha presentato un disegno di legge per abrogare gli articoli 613 bis e ter del codice penale, ovvero il reato di tortura e di istigazione alla tortura, trasformandole in una semplice aggravante, che prevede l’aumento fino a un terzo della pena.
Il ministro, invece, ha risposto al question time del Pd dicendo che «senza se e senza ma, il governo non ha intenzione di abrogare il reato di tortura», sia per ragioni di «ottemperanza a norme internazionali» che di «coerenza». Tuttavia, ha aggiunto, «vi sono aspetti tecnici da rimodulare», perchè l’attuale formulazione del reato «ha delle carenze tecniche di specificità e tipicità». Proprio in questo corollario solo apparentemente secondario si nasconde invece l’elemento determinante.
NORDIO DICE LE STESSE COSE DI FDI
Il ministro, infatti, ha detto che, per ottemperare alla previsione della convenzione di New York, il reato di tortura dovrebbe essere «circoscritto al dolo specifico» e quindi prevedere che un comportamento sia tortura solo se ha «finalità di ottenere confessioni, punire o intimidire». Invece, nella sua formulazione attuale, il reato è a cosiddetto dolo generico, perchè punisce chiunque provochi acute sofferenze fisiche o un trauma psichico a chi è privato della libertà personale o è affidato alla sua custodia. Secondo Nordio, l’assenza di dolo specifico «ha eliminato il tratto distintivo della tortura, rendendo concreto il rischio di vedere applicata questa disposizione in caso di casi leciti di tutela dell’ordine pubblico».
Ha aggiunto poi che bisognerebbe separare i reati di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, che sono distinti sul piano del diritto internazionale e hanno una offensività diversa. Nordio ha concluso minimizzando, dicendo che si tratta di «questioni tecniche, ma il reato rimarrà».Peccato che esattamente queste stesse argomentazioni siano usate anche dai depositari del progetto di legge di Fratelli d’Italia che punta ad abrogarlo.
Nel progetto di legge, infatti, si legge che la Convenzione contro la tortura prevede che si tratti di «un reato proprio», circoscrivendo le condotte a quelle «per raggiungere le finalità di ottenere informazioni o confessioni, punire, intimidire, discriminare». Quindi, «il nostro legislatore ha eliminato il tratto distintivo della tortura rispetto agli altri maltrattamenti rendendo concreto il rischio di vedere applicata la disposizione nei casi di sofferenze provocate durante operazioni lecite di ordine pubblico e di polizia». Anche la seconda argomentazione utilizzata da Nordio – l’unione del reato di tortura e di trattamenti inumani e degradanti – viene ripresa in modo identico dai firmatari, che parlano di «inopportuna fusione in un'unica fattispecie».
Le argomentazioni sono sostanzialmente le stesse utilizzate da Nordio per rispondere al question time. A cambiare è solo la conclusione del ragionamento. Il ministro la lascia sospesa limitandosi a un proclama generico di intoccabilità del reato. FdI ha invece esplicitato l’obiettivo: abrogare i due reati autonomi, che secondo loro hanno una pena «chiaramente sproporzionata. Duque, «per tutelare adeguatamente l'onorabilità e l'immagine delle Forze di polizia», è sufficiente introdurre una nuova aggravante comune, da sommare ai reati di percosse, lesioni personali, sequestro di persona e tutte le norme repressive simili. L’ambiguità della posizione di Nordio viene usata in chiave politica da entrambi i lati dell’emiciclo. Le opposizioni hanno fatto leva soprattutto le prime parole di Nordio, che ha assicurato che il reato non verrà abrogato. «Chiarisca con FdI che il reato rimane», è la richiesta della dem Debora Serracchiani, e anche Ivan Scalfarotto del terzo polo ha chiesto che il progetto di legge «venga ritirato». Il capogruppo di FdI, Tommaso Foti, invece, ha fatto valere l’inciso successivo sui correttivi, dicendo che «quanto dichiarato dal ministro Nordio è esattamente in linea con quanto sostenuto da FdI».
IL RISCHIO
Se il progetto di legge venisse approvato, dunque, il risultato sarebbe quello di ridurre in modo sostanziale le pene per le forze dell’ordine. Il reato di tortura, nel suo caso meno grave, è punito con una pena che va dai 4 ai 10 anni. Nel caso in cui la stessa condotta si tramutasse nel reato di percosse (reclusione fino a 6 mesi) o lesioni personali (da 6 mesi a 3 anni), anche con l’aggravante la pena quasi certamente non supererebbe l’anno. Inoltre, l’aggravante generica può venire compensata con una attenuante e quindi non produrre aumenti di pena.
Non solo. Abrogare il reato significa anche inficiare l’esito di processi in corso, uno su tutti quello contro i pestaggi ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, per cui a quasi metà dei 105 agenti imputati viene contestato proprio il reato di tortura.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Il reato di tortura è nel codice militare dal 2001. E nessuno si è mai lamentato. Dal 2017 è entrato nel nostro ordinamento dopo le sentenze Cedu sulle violenze al G8 di Genova e nelle carceri. Processi e sentenze ne smentiscono la problematica applicabilità sollevata da Fratelli d’Italia. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 marzo 2023
Una delle motivazioni addotte da Fratelli D’Italia per giustificare la modifica del reato di tortura, di fatto abolendolo, è che la polizia penitenziaria rischierebbe di subire denunce e processi strumentali che potrebbero disincentivare e demotivare la loro azione contenitiva. Eppure, tale reato esiste da oltre vent’anni nel nostro codice penale militare di guerra nell’articolo 185-bis. Nessuno ha sollevato obiezioni del genere, a maggior ragione in un contesto decisamente più problematico.
Fino a pochissimi anni fa (solo nel 2017 è stato introdotto il reato), c’è stato il paradosso che gli obblighi internazionali (la Corte europea ci aveva sanzionati) appaiono rispettati nell’ordinamento italiano solo nell’ambito del diritto militare di guerra e non nel diritto penale “ordinario”. Tale inadempienza, ha portato la Corte europea dei diritti dell’uomo (Affaire “Cestaro c. Italia”) a sanzionare l’Italia in quanto, con riferimento alle violenze della polizia nella Scuola Armando Diaz al termine del G8 di Genova, «la legislazione penale italiana applicata nel caso di specie si è rivelata, al contempo, inadeguata quanto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e priva dell’effetto dissuasivo necessario a prevenire altre violazioni simili dell’art. 3 Cedu». Proprio a seguito della condanna della Cedu l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato una accelerazione dell’iter della proposta di legge a firma dell’allora senatore Luigi Manconi, fino alla sua approvazione. Una proposta di legge che era stata presentata nel 2013.
Ad accelerare l’approvazione della legge sul reato di tortura non è solo la sentenza sui fatti del G8 di Genova, ma anche quelle sul carcere. Diverse sono state le sentenze Cedu che, a seguito delle violenze sui detenuti da parte di alcuni agenti penitenziari, hanno evidenziato la problematica della mancata introduzione di tale reato. Parliamo del caso “Cirino e Renne c. Italia”. Nell’ottobre del 2017 viene pronunciata questa sentenza che vede l’Italia ancora una volta protagonista relativamente ad alcune vicende che si sono svolte nell’istituto penitenziario di Asti. Si tratta questa volta dei ricorsi proposti da Andrea Cirino e Claudio Renne nel dicembre 2014, le cui osservazioni denunciano la violazione ancora una volta dell’art.3 Cedu riguardo ai maltrattamenti a cui sono stati sottoposti nel dicembre 2004, durante il loro periodo di detenzione; la inadeguatezza della condanna verso i responsabili; e il fallimento dello Stato di porre in essere tutte quelle misure necessarie dirette a una efficiente prevenzione degli episodi di tortura e trattamenti inumani e degradanti.
I ricorrenti avrebbero, a seguito di un alterco con un comandante di reparto della polizia penitenziaria, subito la reclusione in due diverse celle d’isolamento, dopo essere stati percossi da vari agenti. Privi di un materasso o coperte, di acqua corrente e di riscaldamento, i detenuti sono stati soggetti a violenze e percosse per almeno una settimana, privati del sonno, offesi verbalmente e costretti praticamente al digiuno ed alla somministrazione di piccole quantità d’acqua. Il 16 dicembre 2004, il ricorrente Renne viene condotto in ospedale a causa della sua precaria condizione di salute a seguito dell’isolamento. Il 7 luglio 2011, cinque agenti della polizia penitenziaria sono portati a processo con le accuse di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., le aggravanti di cui all’art. 61 c.p. n. 9, lesioni personali ex art. 582 c.p. e abuso di autorità contro arrestati o detenuti ex art. 608 c.p.: tutti i reati però prescritti durante il procedimento.
Sul versante delle sanzioni disciplinari, che corrono su un binario parallelo rispetto ai procedimenti penali, soprattutto in relazione alla tortura e ai trattamenti inumani, vediamo l’applicazione della sospensione dal servizio dai 4 ai 6 mesi (nessuno di queste però disposte durante l’indagine), e solo due agenti licenziati, di cui uno reintegrato. Le Corti Italiane non possono fare altro quindi che confermare l’accertamento dei fatti così come descritti dai ricorrenti, in un contesto (quello degli anni 2004 e 2005), in cui è ravvisata nel carcere di Asti una sistematica pratica di maltrattamenti simili nei confronti dei detenuti considerati “problematici”. Tutto questo è avvenuto nella più completa impunità dovuta all’acquiescenza dell’allora amministrazione penitenziaria riguardo a tali incresciosi episodi di violenza.
La Corte di Strasburgo anche questa volta non nutre dubbi sulla qualificazione delle sevizie subite dai ricorrenti come tortura ai sensi dell’art. 3 Cedu considerando: la reiterazione delle torture che hanno portato all’ospedalizzazione di una delle due vittime; gli effetti psicologici derivati dal trattamento considerando anche la situazione di vulnerabilità in cui verte chiunque sia sottoposto alla custodia di agenti di polizia; l’azione combinata di violenza fisica e privazioni materiali completamente gratuite; la premeditazione ed organizzazione da parte degli agenti; la sistematicità del maltrattamento all’interno dell’istituto e l’elemento volontaristico diretto verso un obiettivo repressivo, punitivo verso i detenuti, nella convinzione di creare un monito diretto agli altri condannati che rafforzasse la disciplina all’interno del carcere. Anche in questo caso, la Cedu ha parlato dell’assenza del reato di tortura all’interno del codice penale italiano.
Il dramma è che il testo della proposta di legge di FdI approdata in commissione Giustizia, osserva che «la struttura della norma non permette tra l’altro di stabilire con chiarezza se la figura tipizzata al secondo comma abbia natura circostanziale o sia una fattispecie autonoma di reato, creando notevoli difficoltà applicative – anche in relazione al possibile bilanciamento di circostanze – che la giurisprudenza si troverà a dover affrontare». Ma i fatti smentiscono tale assunto. Non solo dai processi in corso, ma anche da alcuni esiti giudiziari come le condanne nei casi del carcere di Ferrara e San Gimignano. Nonostante l’attuale legge sia in realtà debole (ad esempio il reato viene ricollegato a più condotte), alla fine la giurisprudenza non ha trovato difficoltà applicative.
L’Italia è stato l’ultimo Paese europeo ad aver introdotto il reato di tortura, dopo decenni di resistenze e condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e rinunciare ora a questa conquista di civiltà significherebbe operare per riportare il Paese indietro anziché promuoverne il progresso. L’esistenza del reato di tortura non impedisce alle forze dell’ordine di svolgere diligentemente il loro lavoro, anzi, è una misura che tutela anche chi opera per il rispetto della legge. D’altronde, come detto in premessa, tale reato esiste già nel codice militare e non è certo ostativo al lavoro dei nostri soldati. Figuriamoci nelle carceri o nelle strade, dove non si è in guerra. E se anche lo fosse (ma non deve esserlo, perché non siamo l’Iran), la tortura deve essere sanzionata e inquadrata nel nostro ordinamento “ordinario” così come richiesto ripetutamente dalle corti internazionali.
Punì sindacalista per le denunce sui morti nel carcere di Agusta: Dap condannato. Il giudice del lavoro di Siracusa ha condannato l’amministra penitenziaria per condotta antisindacale. Il Dubbio il 19 agosto 2023
Il giudice del lavoro di Siracusa ha condannato il ministero della Giustizia-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria(Dap) e la casa di reclusione di Augusta per condotta antisindacale nei confronti di un dirigente nazionale del Sippe, Sebastiano Bongiovanni, agente penitenziario in servizio nel carcere di Augusta. Il sindacalista, nei mesi scorsi, si era reso protagonista di alcune denunce, attraverso comunicati stampa ed interviste rilasciate agli organi di informazione, legate alla gestione della struttura, tra cui l’organizzazione del lavoro, e aveva chiamato in causa l’amministrazione penitenziaria sollevando il caso dei due detenuti morti in ospedale per le conseguenze di uno sciopero della fame.
Al dirigente del Sippe, affiliato al Sinappe, nel maggio scorso è stata comminata una sanzione disciplinare che il giudice del Lavoro di Siracusa ha annullato, condannando il Dap e la Casa di reclusione di Augusta al pagamento delle spese sostenute dal Sippe per un importo di 1500 euro. «Il Tribunale di Siracusa - affermano il presidente del Sippe Alessandro De Pasquale ed il segretario generale del Sinappe Roberto Santini - ha accolto in pieno il nostro ricorso con una decisione che, oltre a non avere precedenti nel Corpo di Polizia Penitenziaria, conferma il principio di libertà sindacale che si è tentato di ledere».
Secondo il giudice, Sebastiano Bongiovanni «si era limitato a denunciare con post e comunicati stampa - in qualità di dirigente sindacale e non nelle funzioni istituzionali lavoratore dipendente - le condotte poste in essere dall’Amministrazione nei suoi confronti, con espressioni sì aspre ma non eccedenti i limiti dell’esercizio del diritto di critica e della libertà sindacale». La vicenda non è finita qui: il sindacato svela che la direzione del carcere di Augusta ha notificato a Bongiovanni un altro rapporto disciplinare per un’intervista che il sindacalista, nelle sue funzioni, aveva rilasciato al quotidiano nazionale La Repubblica. «Abbiamo già dato mandato al nostro legale - concludono i due sindacalisti - affinchè valuti ogni possibile azione e nelle sedi opportune perchè siamo davanti ad un comportamento antisindacale senza precedenti».
Rimini, l’incubo della prima sezione dove sono violati i diritti umani. Accertate le condizioni disumane e degradanti, il Partito Radicale, la Camera Penale e le Organizzazioni da tempo ne chiedono la chiusura. E arrivano le prime ordinanza di risarcimento per i detenuti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 14 luglio 2023
Pessime condizioni igienico sanitarie, docce in comune non funzionanti a causa degli scarichi sempre bloccati, scarafaggi, sovraffollamento. Nel corridoio viene raccolta la spazzatura di tutti i detenuti della sezione: il contenitore è sempre pieno e dallo stesso proviene un forte odore, motivo per il quale non è possibile sostare nel corridoio e i detenuti passano molto tempo all'interno delle celle. Ed ora che il caldo si fa sentire, la questione diventa sempre più drammatica. Parliamo della condizione della prima sezione del carcere di Rimini, da sempre denunciata dalle visite effettuate dalla delegazione del Partito Radicale guidata da Ivan Innocenti e dalla Camera penale riminese.
IL GIUDICE DI SORVEGLIANZA HA STABILITO DEI RISARCIMENTI PER I DETENUTI
Nonostante le varie denunce arrivate fino al consiglio comunale, nulla è cambiato. Nel contempo arrivano i risarcimenti per il trattamento disumano e degradante che subiscono i reclusi nella famigerata sezione. Recentemente c’è stata una ordinanza emessa dal magistrato dell'ufficio di Sorveglianza di Bologna, che ha evidenziato le gravi violazioni dei diritti umani che si verificano all'interno della prima sezione di questo istituto penitenziario. E lo ha fatto soprattutto constatandolo di persona. Sovraffollamento, condizioni igienico- sanitarie precarie e trattamenti inumani sono solo alcune delle problematiche.
La situazione del carcere riminese richiama l'attenzione sull'importanza di garantire dignità e rispetto per coloro che scontano una pena detentiva, come sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla Costituzione italiana. Il detenuto che ha presentato il reclamo, ha subito una detenzione prolungata per oltre tre anni, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che proibisce trattamenti inumani o degradanti. Nell'ordinanza si fa riferimento alle condizioni estremamente critiche presenti nella Prima sezione, tra cui il sovraffollamento delle celle, la mancanza di acqua calda e di docce funzionanti, l'infestazione di scarafaggi e il degrado igienico- sanitario generale. Inoltre, viene sottolineato che la promiscuità tra il bagno e la cucina rende le condizioni ancora più inumane.
LA AUSL HA RILEVATO UNA SERIE DI CRITICITÀ IGIENICO- SANITARIE
Ma il magistrato di sorveglianza evidenza anche altri aspetti. Nonostante gli spazi di detenzione siano stati dichiarati conformi alle norme ha sottolineato che tali calcoli non hanno tenuto conto degli spazi occupati dai letti, che riducono ulteriormente lo spazio effettivamente disponibile per i detenuti. Inoltre, le osservazioni contenute nel reclamo, confermate da un'ispezione dei tecnici della prevenzione dell'Ausl, hanno rivelato una serie di criticità igienico- sanitarie che hanno superato la soglia del trattamento inumano e degradante, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. L'analisi del magistrato ha messo in evidenza che, anche considerando gli spazi formali di detenzione, questi non tengono conto della presenza dei letti, che riducono ulteriormente lo spazio libero di movimento dei detenuti. Questa considerazione è fondamentale per comprendere l'entità effettiva dello spazio disponibile nelle celle. Considerando anche l'occupazione dei letti, le dimensioni delle camere si riducono drasticamente, arrivando a soli 1,76 metri quadrati per le camere da quattro detenuti, 3,01 metri quadrati per le camere da tre detenuti e 5,51 metri quadrati per le camere doppie.
Come già detto, le osservazioni contenute nel reclamo presentato dal detenuto sono state confermate dai tecnici della prevenzione dell'Ausl durante un'ispezione effettuata nel dicembre 2021. Gli specialisti hanno segnalato una serie di criticità non risolvibili con interventi di ordinaria manutenzione. Tra queste, vi erano tracce di umidità su pareti e soffitto nelle aree docce, bagni delle celle utilizzati anche come angolo cottura e condizioni igienico- sanitarie molto scadenti, con un evidente rischio per la salute dei detenuti. La Corte di Cassazione stessa ha sottolineato che la promiscuità di spazi in cui i detenuti utilizzano il bagno, mangiano e dormono è una circostanza di particolare rilievo, in quanto influisce sulla salubrità dell'ambiente. La presenza di gravi carenze, ancora irrisolte, ha contribuito senza dubbio ad intensificare la sofferenza dei detenuti e ha superato la soglia del trattamento inumano e degradante, violando così l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Queste condizioni, unitamente all'evidente promiscuità degli spazi e alle criticità igienico- sanitarie, hanno reso la condizione detentiva ancora più difficile e dolorosa per i detenuti.
LA CHIUSURA DELLA SEZIONE CHIESTA DA ESPONENTI POLITICI E GARANTI
Diverse personalità e organizzazioni si sono schierate a favore della chiusura della Prima sezione del carcere di Rimini. Ivan Innocenti, componente del Consiglio generale del Partito Radicale, ha sottolineato che, nonostante alcuni progetti positivi promossi dalla direttrice del carcere, la Prima sezione rimane un luogo terribile e di tortura. Anche l'avvocata Annalisa Calvano dell'Osservatorio carcere Camera penale di Rimini ha affermato che le condizioni presenti sono inumane e degradanti. Il neo insediato garante dei Diritti delle persone private della libertà del comune di Rimini, l’avvocato Giorgio Galavotti, ha dichiarato che la situazione della Prima sezione è intollerabile e richiede un intervento immediato. Egli sottolinea che un trattamento carcerario del genere viola l'articolo 27 della Costituzione italiana, che sancisce il diritto alla rieducazione del condannato e vieta trattamenti inumani. In un gesto di vicinanza e ascolto, Galavotti ha deciso di recarsi in carcere ogni venerdì pomeriggio per ascoltare le testimonianze dei detenuti.
Le gravi carenze nella Prima sezione del carcere di Rimini richiedono un'azione immediata e risolutiva da parte delle autorità competenti. È fondamentale affrontare le criticità igienico- sanitarie, garantire spazi adeguati e rispettare i diritti umani fondamentali dei detenuti. L'ordinanza del magistrato di Sorveglianza rappresenta un importante passo avanti nell'evidenziare le condizioni inumane e degradanti che persistono all'interno di questa sezione del carcere. È responsabilità delle istituzioni competenti adottare misure concrete per risolvere le problematiche evidenziate da tempo da Ivan Innocenti del Partito Radicale e la camera penale, assicurando un ambiente di detenzione che sia rispettoso della dignità umana e che promuova la rieducazione e la reintegrazione sociale dei detenuti.
A interessarsi della vicenda è anche Roberto Cavalieri, garante della regione dell’Emilia Romagna. Meno di un mese fa ha visitato nuovamente il carcere di Rimini, in particolare la famigerata prima sezione: nulla è cambiato e presenta le medesime condizioni descritti dall’ordinanza della magistratura di sorveglianza. Ha provato a sensibilizzare la commissione comunale, spiegando che l’unico rimedio è che tutti i detenuti presenti nelle sezioni facciano reclamo. Forse solo in questo modo, le autorità competenti saranno costrette ad intervenire.
Reggio Emilia: 14 agenti carcerari sospesi e indagati per tortura. Roberto Demaio su L'Indipendente sabato 15 luglio 2023.
Schiaffi, calci e pugni mentre la testa veniva tenuta coperta da una federa. Decisive le immagini registrate dalla videosorveglianza interna, le quali hanno consentito agli investigatori della Polizia penitenziaria e alla procura reggiana di ricostruire nei dettagli l’accaduto e identificare gli agenti responsabili. La vittima è un tunisino, il quale ha subito azioni brutali, violente e umilianti. I 14 agenti sono ora indagati per tortura e sospesi dal servizio. Anche se rimane da chiarire se l’accaduto sia o meno collegato al colloquio precedente con la direttrice, ciò che è certo è che l’Italia deve intervenire sulle condizioni di detenzione.
Il 3 aprile scorso la vittima è stata trasferita a Reggio Emilia da Bologna. Secondo le ricostruzioni, terminato il colloquio con la direttrice, nella via di ritorno verso la cella, il carcerato viene circondato dagli agenti. Uno di loro gli copre la testa con una federa bianca e gliela stringe intorno al collo mentre gli altri gli bloccano braccia e gambe. Dopo pochi metri lo sgambetto, seguito da schiaffi, calci e pugni al capo. L’umiliazione non si ferma. Il tunisino poi viene fatto rialzare e, prima di essere accompagnato verso il reparto di isolamento, gli vengono strappati pantaloni e mutande, lasciandolo nudo dalla cintola in giù. Infine viene gettato in una camera di pernottamento, dove riceve altri calci e pugni prima di essere liberato del cappuccio che per tutto il tempo era stato tenuto stretto al collo e controllato da un poliziotto. Una volta rimasto solo in cella, il detenuto inizia ad urlare, a sbattere la finestra e, riuscendo a rompere il lavandino, si procura un coccio di ceramica con cui si taglia l’avambraccio sinistro. Gli altri pezzi vengono lanciati contro le plafoniere del soffitto. Oltre un’ora dopo le prime botte, il medico viene fatto entrare in cella e il detenuto viene poi trasferito in infermeria, dove lamenta forti dolori alla testa e si registra la perdita di molto sangue.
Il 7 luglio, tre mesi dopo, il gip Luca Ramponi ha firmato l’ordinanza che impone a 10 dei 14 indagati la sospensione dal servizio e l’obbligo quotidiano di firma. Viste le immagini fornite dalle registrazioni e le testimonianze raccolte, secondo il giudice l’ipotesi più adatta sarebbe il reato di tortura. Ma per alcuni agenti non finisce qua: alcuni di loro dovranno rispondere anche di falso ideologico in atto pubblico per aver redatto e firmato relazioni di servizio false. Secondo le ricostruzioni manipolate, la responsabilità ricadeva sulla vittima, inventando lamette e oggetti di ferro che non compaiono nelle riprese. Ciò che resta da chiarire è se la tortura sia in qualche modo legata al colloquio avvenuto precedentemente con la direttrice del carcere: secondo l’esposto-denuncia è il tunisino stesso a raccontare che in quella conversazione si era lamentato per il vitto e i vestiti e aveva insultato la direttrice.
L’accaduto è solo uno tra i tanti episodi di tortura che avvengono nelle carceri italiane. Tra i peggiori abusi di potere già trattati dall’Indipendente c’è la mattanza di Santa Maria Capua Vetere, dove sempre grazie agli occhi delle telecamere venne catturata una vera e propria violenza di gruppo, il pestaggio di Ranza, che portò cinque agenti alla condanna per tortura e il caso della tortura alla questura di Verona, che portò all’arresto di cinque poliziotti. Questi episodi sono conferma di ciò che emerge dal diciannovesimo Rapporto Antigone sulle condizioni di detenzione: sovraffollamento, condizioni sanitarie impossibili, suicidi, violenze e torture. Se come affermava Voltaire “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, l’episodio di Reggio Emilia è solo uno di una lunga serie che dimostra quanto l’Italia debba ancora migliorare su diritti e civiltà. [di Roberto Demaio]
Torture nel carcere di Modena, nessun colpevole: chiesta l’archiviazione per i poliziotti. Monica Cillerai su L'Indipendente l'1 luglio 2023.
La procura di Modena, con la firma del procuratore capo Luca Masini, ha formalizzato il 23 giugno – e reso nota il 29 – la richiesta di archiviazione per i 120 agenti della polizia penitenziaria indagati per violenza, lesioni e tortura verso numerosi detenuti del carcere di Sant’Anna. I fatti risalgono alla rivolta che ha avuto luogo nel penitenziario l’8 marzo 2020, risoltasi con un bilancio di nove morti e diversi feriti. Secondo la procura, le testimonianze dei detenuti sulle botte e le torture subite sono “inattendibili”. Non ci sono video, e la documentazione sanitaria è insufficiente, mentre le dichiarazioni su luoghi e modalità dei pestaggi sarebbero “discordanti”. Nel giugno 2021 era già stata archiviata l’indagine sulle nove morti, in quanto si era esclusa ogni responsabilità delle forze dell’ordine, attribuendo i decessi unicamente all’overdose di metadone e psicofarmaci. Se la richiesta di archiviazione venisse accolta, verrebbe così scritta la parola “fine” a una delle pagine più nere della storia italiana degli ultimi anni. L’unica indagine a rimanere ancora aperta sarebbe quella contro gli stessi carcerati per devastazione e saccheggio, resistenza e lesioni aggravate a pubblico ufficiale. Alcuni dei detenuti imputati sono gli stessi che hanno denunciato le violenze subite.
«La complessa e articolata attività di indagini espletata – hanno scritto i PM – ha messo in evidenza la totale inattendibilità dei racconti forniti da ciascuno dei soggetti coinvolti». Accuse infondate, dicono, testimonianze inattendibili. «I presunti pestaggi non trovano riscontro nella documentazione sanitaria acquisita» ribadiscono. Ossia, non vengono riportate ferite. O in altri casi le ferite riscontrate sui detenuti sarebbero da correlare alle «condotte particolarmente attive e facinorose» messe in atto durante la rivolta. Insomma, i detenuti si sono fatti male da soli, così come si sono uccisi da soli.
Ma non solo. Per i pubblici ministeri: «Appare oltremodo inverosimile che, a fronte di una situazione così allarmante, il personale di polizia penitenziaria concentrasse la propria presenza e le proprie energie per portare a compimento azioni di pestaggio in danno dei detenuti, piuttosto che impegnarsi affinché quella che appariva come una rivolta dalle dimensioni “epocali” potesse essere gestita nel migliore dei modi e nel minor tempo possibile». Secondo i PM, le guardie avevano troppo da fare per mettersi a picchiare i prigionieri. A nulla valgono le testimonianze, le ferite riportate, le morti. La polizia penitenziaria si è trovata a gestire l’emergenza, è scritto nella richiesta di archiviazione, prodigandosi «nell’interesse e a tutela in primo luogo dell’incolumità» dei detenuti.
Alice Miglioli, del Comitato verità e giustizia per la strage del Sant’Anna di Modena, ha pubblicato un contributo in cui esprime la sua indignazione per l’archiviazione e le sue giustificazioni. Per esempio, sull’assenza di video di sorveglianza. «Video che prima non ci sono, poi ci sono, poi non ci sono di nuovo» scrive. Prima perché i detenuti hanno distrutto le telecamere. Ora perché i secondini hanno staccato la corrente. «Video di cui la procura non vuole parlare e che (…) potrebbero comparire magicamente nel momento in cui ci sarà da accusare di devastazione e saccheggio i detenuti ritenuti responsabili della rivolta.» Gli avvocati delle parti offese, tra i quali figurano il il Garante nazionale delle persone private della libertà e l’associazione Antigone, valuteranno le oltre 240 pagine appena presentate dalla procura e decideranno se tentare un’opposizione alla richiesta di archiviazione.
Il senatore e capogruppo di Fratelli d’Italia, Michele Barcaiolo, dà per scontato che l’archiviazione verrà confermata e scrive in un comunicato stampa: «Non ci furono torture al carcere Sant’Anna. Ora si chieda scusa ai nostri agenti. Per loro finisce il calvario. Per questo mi dico soddisfatto dell’epilogo, e rinnovo il ringraziamento verso quegli uomini e quelle donne che con spirito di sacrificio lavorano per assicurare ordine, legalità e sicurezza».
Prove scomparse, testimonianze – quelle dei detenuti – infondate: una consuetudine, ormai, quando si indagano le responsabilità degli uomini in divisa. Conclude Alice Miglioli, nel contributo pubblicato: «Le morti, le botte e le ingiustizie, lo Stato le sta imputando ai detenuti stessi, nell’operazione di capovolgimento tra vittima e colpevole di cui è maestro. In questo gioco perverso, più si è impossibilitati ad agire, più in basso si è tra i gradini della scala sociale, più si è facili vittime di accuse, mentre i veri responsabili si allontanano sempre più dal luogo del fatto.» [di Monica Cillerai]
Cinque agenti sono stati condannati nel primo processo in Italia per tortura. Stefano Baudino su L'Indipendente il 13 marzo 2023.
Sono stati condannati per i reati di tortura, falso e minaccia aggravata 5 agenti di Polizia penitenziaria che, l’11 ottobre del 2018, avrebbero messo in atto un pestaggio ai danni di un detenuto tunisino nel carcere di Ranza, a San Gimignano, durante un caotico trasferimento di cella. Il collegio del Tribunale di Siena presieduto dal giudice Simone Spina, dopo quasi 7 ore di camera di Consiglio, ha stabilito per loro pene comprese tra i 5 anni e 10 mesi e i 6 anni e mezzo di detenzione, nonché sanzioni pecuniarie e risarcimenti che superano la cifra di 50mila euro a testa.
La vicenda rappresenta un tassello importante della storia giudiziaria del nostro Paese, dal momento che il procedimento è stato il primo in Italia in cui – accanto a lesioni, minaccia e falso ideologico – si è contestato il reato autonomo di tortura a componenti delle forze dell’ordine, che nella decisione finale dei giudici è stato confermato e ha assorbito quello delle lesioni. Per gli stessi fatti, nel febbraio 2021 altri 10 agenti erano stati condannati in abbreviato a pene dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi.
L’inchiesta da cui è scaturito il processo è emersa grazie alle segnalazioni delle educatrici della casa circondariale, le quali avevano raccolto le testimonianze di altri detenuti. “Gli hanno abbassato i pantaloni, è caduto e hanno continuato a picchiarlo, sentivo le urla”, si legge in una delle testimonianze agli atti. L’accusa ha parlato di “aggressione ingiustificata” e di un “trattamento al detenuto disumano e degradante”: al centro dell’indagine, un video di 4 minuti e 32 delle telecamere interne che ha ripreso il pestaggio.
“Leggeremo con attenzione gli argomenti a sostegno della decisione di condanna – ha dichiarato l’avvocato Fabio D’Amato, legale di un ispettore superiore –. Adesso c’è solo amarezza, perché ritenevamo nel corso dell’istruttoria di aver portato elementi tali da rimettere in discussione almeno il reato di tortura. Usciamo scontenti ma lasciamo la parola ai gradi successivi di appello per dimostrare la buona fede e la bontà di un operatore stimato da tutti come il mio assistito”.
Il reato di tortura, presente dal 2017 all’interno del codice penale con l’introduzione dell’art. 613-bis, riguarda “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”, punendolo con la reclusione da 4 a 10 anni “se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. La pena si alza da 5 a 12 anni ove i fatti siano “commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”. Ci si è dunque allontanati dall’ottica della Convenzione Onu, che inquadra la tortura come un crimine proprio di un pubblico ufficiale, inserendo una serie di restrizioni non previste nel trattato.
Da anni, sul punto, va in scena uno scontro rovente tra forze politiche di diverso colore. Mentre il Pd si è sempre intestato l’introduzione del reato di tortura, le forze della sinistra radicale lo hanno invece bollato come “debole” e “inefficace” rispetto alla sua applicazione pratica. I principali attori della compagine di centro-destra la pensano invece in maniera diametralmente opposta. Un anno dopo l’entrata in vigore della legge, la leader di Fdi Giorgia Meloni, ora Presidente del Consiglio, presentò addirittura due proposte di modifica al fine di trasformare la tortura da reato a circostanza aggravante e aumentare le pene per i reati di minaccia o resistenza a pubblico ufficiale. «Gli agenti sono stati mortificati», aveva commentato, sostenendo che per loro fosse sufficiente un «insulto per rischiare pene fino a 12 anni». Sulla stessa linea il leader leghista Matteo Salvini: «Ormai lo sport preferito da alcuni detenuti è la denuncia immotivata di violenza o tortura da parte di donne e uomini in divisa – aveva dichiarato nel 2019, promettendo ai poliziotti del Sap di abolire il reato di tortura –. Bisogna rivedere quella normativa perché c’è l’avvocato a gratis, all’infinito, non per i poliziotti ma per i delinquenti. Quando torniamo al governo dobbiamo rivedere questa legge perché non si può lavorare col terrore». Sarà il tempo a dirci se Meloni e Salvini, che ora occupano da alleati gli alti scranni dell’Esecutivo, vorranno davvero tener fede a queste promesse, riportando indietro le lancette del diritto e contravvenendo alle sentenze della Corte europea dei diritti umani (CEDU) che più volte, prima del 2017, aveva chiesto all’Italia di approvare leggi adeguate a punire, e quindi prevenire, gli atti di tortura commessi dalle forze dell’ordine. Stefano Baudino
Torture nel carcere di San Gimignano, altri 5 agenti condannati per il pestaggio di un detenuto: “Gli hanno abbassato i pantaloni e lo hanno picchiato”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 10 Marzo 2023
Pene dai 5 anni e mesi fino a 6 anni e 6 mesi per torture, falso e minaccia aggravata. Sono le condanne inflitte dai giudici del tribunale di Siena che nel pomeriggio di giovedì 9 marzo hanno condannato cinque agenti penitenziari del carcere di San Gimignano.
Secondo l’accusa della Procura, riscontrata nel giudizio di primo grado, i cinque agenti di polizia penitenziaria sarebbero responsabili del pestaggio di un detenuto tunisino nell’ottobre 2018 in un trasferimento di cella.
Sostanzialmente accolte le richieste del pm dopo sette ore di camera di consiglio del collegio giudicante: il pubblico ministero aveva chiesto infatti tra sei e otto anni di condanna, ma soprattutto il riconoscimento del reato di tortura.
Secondo quanto emerso nell’inchiesta, i cinque agenti andarono in forze a prelevare il detenuto, recluso in isolamento, per trasferirlo da una cella all’altra del carcere. Fu in quei momenti che l’uomo venne trascinato per il corridoio del reparto isolamento e picchiato con pugni e calci. “Gli hanno abbassato i pantaloni, è caduto e hanno continuato a picchiarlo. Sentivo le urla“, si legge in una delle testimonianze agli atti dell’inchiesta.
I cinque imputati erano in aula alla lettura della sentenza, alcuni sono scoppiati in lacrime, uno ha urlato “Vergogna“.
Altri 10 agenti per gli stessi fatti furono in passato condannati in abbreviato il 17 febbraio del 2021. Per loro il Gup di Siena, Jacopo Rocchi, aveva inflitto pene che vanno dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi. In precedenza il gup di Siena aveva già condannato a quattro mesi di reclusione il medico dello stesso penitenziario, accusato di rifiuto di atti d’ufficio perché si sarebbe rifiutato di visitare e refertare il detenuto.
“Ricorreremo in appello“, ha annunciato dopo la lettura del dispositivo da parte del presidente Simone Spina, l’avvocato Manfredi Biotti, difensore di quattro dei cinque imputati. “Non comprendiamo quale è stato il ragionamento dei giudici ma ne prendiamo atto; vedremo le motivazioni e faremo appello, certo è un segnale molto brutto“, ha aggiunto Biotti.
Di tutt’altro avviso invece l’avvocato Michele Passione, legale del Garante dei detenuti: ”Abbiamo sostenuto che il reato di tortura sia più grave quando è commesso dal pubblico ufficiale perché disegna un rapporto di potere che viene estorto tradendo la fiducia che ognuno deve avere nelle forze di polizia che sono nella massima composizione sane”.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Sesso represso, il vero movente della strage nel carcere di Alessandria nel '74. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023
Il 9 maggio nel penitenziario scoppiò la rivolta. Per sedarla, decisa la linea interventista: morirono in tutto 7 persone
Sugli accadimenti di Alessandria del 9 maggio del 1974 le coordinate, almeno quelle, sono pacifiche. Nel gennaio più di duecento carcerati nella vetusta casa circondariale di piazza Don Soria si erano coalizzati in sciopero — per ciò che potevano — rinunciando ai momenti di socialità e dandosi a isolate resistenze passive.
Destata l’attenzione pubblica, accolsero una delegazione di giornalisti e politici con una lista lunga così di desiderata. In quella prigione, a loro dire, il concetto di punizione sovrastava il dettato costituzionale su dignità e scopo rieducativo della pena: pasti scarsi, bagni e docce in condizioni orripilanti, attività lavorative e di svago insufficienti. Il responsabile degli agenti penitenziari, poi, veniva ritenuto duro, talora crudele, e così alcuni dei suoi collaboratori.
Due anni prima, alcuni giovani detenuti alessandrini si erano già asserragliati sul tetto per protestare contro le disposizioni sulla detenzione e i regolamenti interni del penitenziario, ancora informati ai principi del Ventennio, ma la loro iniziativa era rimasta inascoltata. Erano mesi di fuoco. Le spinte verso la modernità, contrastate da muscolari resistenze conservatrici, tendevano la corda sociale italiana fino allo strappo: bussava la scadenza del referendum sul divorzio e scuoteva la società la prima propaganda armata delle Brigate rosse che, un mese prima di quelle maledetta storia, avevano rapito per la prima volta un rappresentante dello Stato, il pubblico ministero Mario Sossi.
Cesare Concu, Domenico Di Bona (condannati per omicidio) ed Edoardo Levrero (rapina) non nutrivano, probabilmente, altrettante spinte ideali. Una volta realizzato che nessuno li avrebbe ascoltati, passarono all’azione per riprendersi con la violenza le loro libertà. Alle nove del mattino di quel giovedì, armati di pistole e coltelli entrati chissà come in cella, annunciarono la rivolta nell’aula di disegno.
Stiparono nell’infermeria del carcere tredici ostaggi, compreso un collega detenuto che, ormai a fine pena, si era detto contrario alla sommossa. Scattato l’allarme grazie a un detenuto che informò un appuntato, il trio si chiuse nell’infermeria e mandò all’esterno una generica richiesta di libertà mentre i carabinieri si ammassavano nel cortile del carcere e, fuori dalle mura, lievitava il parterre: i procuratori di Alessandria, il questore, il procuratore generale di Torino, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, cronisti locali, giornalisti nazionali. A metà pomeriggio, i colloqui — a pistole spianate — prima con il pubblico ministero Buzio, poi con tre giornalisti noti a Levrero tra cui Emma Camagna, ai tempi corrispondente del Corriere.
Le richieste: duecento milioni e un pulmino parcheggiato nel cortile, a disposizione per la fuga. L’opinione dominante sembrava accomodarsi dal lato della trattativa finché, alle sette di sera, i sequestratori notarono strani preparativi, intravidero una putrella adatta a fare da ariete e mandarono a parlamentare con l’esterno il dottor Roberto Gandolfi, anni quarantotto, due figli adolescenti ginnasiali, medico del carcere.
«Fermatevi, questi sono pronti a tutto». Invece il procuratore generale diede il via libera. Lacrimogeni nei corridoi, porte sfondate, spari: nel caos di urla, lettighe che accorrevano, agenti che entravano e uscivano dal braccio del carcere. Dissolta la nube del gas, a terra giacevano i corpi del professor Pier Luigi Campi — quarantadue anni, padre di due bambini di sei e tre anni, insegnante di estimo per i detenuti e colpevole di aver tentato di far desistere i tre dalla loro azione — e di Gandolfi. Il secondo, morto sul colpo per un proiettile alla testa.
Il primo, nonostante la medesima dinamica da esecuzione sommaria, moribondo e deceduto dopo dieci giorni di cure disperate.
Neanche la prima velleità di sfondamento, fallita, fece desistere l’ala interventista della legge. Ci provarono ancora due sacerdoti, personalità locali, i pubblici ministeri della città ma il pomeriggio successivo, confidenti nella stanchezza dei tre, scattò una seconda irruzione, ancora più possente e decisa a risolvere una volta per tutte lo stallo. Cosa che, in effetti, fu: solo che Di Bona fece in tempo a freddare il brigadiere Gennaro Cantiello e l’appuntato Sebastiano Gaeta, raggiungere nel bagno Concu e sparare in testa alla povera assistente sociale Graziella Giarola, volontaria tra gli ostaggi nella convinzione di poterli ricondurre alla ragione. Concu tentò di uccidere un altro prigioniero, don Martinengo, ma l’arma si inceppò e venne falciato da una raffica di mitra. Di Bona si sparò un attimo prima d’essere acciuffato e, in Assise, a prendersi un quarto di secolo ulteriore di galera arrivò il solo Levrero, l’unico privo di pistola. In tutto, cinque morti più due dei tre detenuti responsabili del guaio.
Il sindaco di Alessandria presentò un esposto, presto archiviato, contro il procuratore generale e pure contro Carlo Alberto Dalla Chiesa come «ideatori e responsabili dell’azione» che, si leggeva, era stata concepita «con leggerezza e sprezzo delle vite umane». L’argomento poggiava sull’opinione dei magistrati cittadini che avevano cercato, inutilmente, di trattare con i rivoltosi per poi vedersi scavalcare da chi scelse per due volte di sbrogliare l’impiccio con la forza. Da parte di chi agì, si provò a giustificare il secondo assalto con una serie di spari avvertiti dall’interno che, però, vennero negati da tutti i sopravvissuti e pure dalle sentenze.
Il capo della cronaca del Corriere, Arnaldo Giuliani, se n’era tornato dal Piemonte già nel primo fine settimana post strage con una notizia clamorosa, poi tumulata dalle polemiche sull’esito della rivolta: sì, certo, Concu era il capobanda, il carismatico, l’uomo coi contatti con la sinistra extraparlamentare e armata, quella del sequestro Sossi. Sì, la protesta di gennaio era stata in minima parte assecondata con qualche concessione ma nulla di sostanziale e la rabbia pervadeva le celle dell’istituto. Ma il movente del capo non era politico né sindacale: «Non so per gli altri due, che forse lo hanno seguito, ma il gesto di Concu è un’esplosione di sesso represso», gli confidò un funzionario.
«Il suo chiodo fisso è quello: un giorno mi ha detto che non ne poteva più, che voleva una donna». A parlare a Giuliani, «una signora che ha fatto recentemente visita all’uxoricida», suggerendo come causa autentica gli effetti collaterali dell’amor che move il sole e l’altre stelle.
Torture in carcere a Biella, 23 agenti sospesi dal servizio dopo le accuse di tre detenuti. Redazione su Il Riformista il 23 Marzo 2023
Sospesi dal servizio 23 agenti della polizia penitenziaria di Biella per presunte torture a danno di tre detenuti stranieri reclusi nella casa circondariale di via Tigli nel capoluogo di provincia piemontese. La sospensione è arrivata in esecuzione di un’ordinanza del gip per il reato di tortura di Stato commesso all’interno della casa circondariale. “Il 6 febbraio scorso il gip, su richiesta dei pm, aveva ordinato l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari a carico del vicecomandante pro-tempore, riservandosi, all’esito degli interrogatori, sull’applicazione delle richieste di misure interdittive nei confronti degli altri ventisette agenti coinvolti” riferisce la Procura.
L’ordinanza è stata eseguita dal Nucleo investigativo dei carabinieri di Biella e il procedimento della Procura, coordinata dalla procuratrice Teresa Angela Camelio, ha preso avvio da una comunicazione di notizia di reato del 3 agosto 2022, redatta dal vicecomandante pro-tempore nei confronti di un detenuto che veniva deferito in stato di libertà per violenza e minaccia nei suoi confronti, nonché per oltraggio a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato.
La stessa notizia di reato, riporta l’Ansa, “dava atto, minimizzando la circostanza, della ‘necessità’ di impiegare del nastro adesivo per contenere per un tempo minimo, pari a qualche minuto, il detenuto, nonostante fosse già ammanettato, e ciò in esplicito contrasto con il divieto previsto dall’articolo 41 della legge sull’ordinamento penitenziario” rileva la Procura. Secondo le indagini quello menzionato non era un episodio da ridurre a un mero “illecito contenimento del detenuto” ma che si erano verificati “veri e propri atti di violenza fisica ai suoi danni”. Gli approfondimenti avevano portato a scoprire che in almeno in altre due occasioni alcuni detenuti sarebbero stati destinatari della stessa condotta da parte del vicecomandante e degli altri agenti.
Solo uno dei detenuti aveva deciso di procedere penalmente, mentre “gli altri non avevano manifestato immediatamente tale intenzione, poiché sfiduciati o peggio, preoccupati di poter subire ripercussioni all’interno dei penitenziari” dove erano stati trasferiti. L’indagine era quindi partita dalla denuncia di tre detenuti stranieri. Secondo le indagini uno dei pestaggi denunciati sarebbe stato ripreso anche dalle videocamere all’interno del penitenziario biellese. Sempre secondo le denunce uno dei detenuti, un cittadino georgiano accusato di furto arrivato in carcere in stato di agitazione, sarebbe stato messo a terra nel corridoio con gambe e braccia legate da corde mentre chi dirigeva l’operazione avrebbe zittito chi aveva provato a intervenire. Secondo la procura vi sarebbero poi altre due vittime, due detenuti marocchini che hanno raccontato agli inquirenti di esser stati percossi e di aver ricevuto tra l’altro offerte di droga da parte degli agenti in cambio della fede nuziale.
Al momento il carcere biellese è retto da un direttore facente funzione. L’Istituto era stato colpito già da altre inchieste sul presunto uso illecito di tamponi destinati ai detenuti e su un presunto traffico di droga all’interno della struttura. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, finito al centro della bufera esplosa alla Camera per le carte “sensibili” passate al collega di partito Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli sull’anarchico detenuto al 41bis Alfredo Cospito, aveva visitato il carcere e assicurato che il nuovo direttore del carcere sarebbe stato assegnato entro l’anno, così come il nuovo comandante della polizia penitenziaria, e nuovi rinforzi alla polizia.
Estratto dell'articolo di Mauro Zola per “la Stampa” il 10 febbraio 2023
Un commissario della Penitenziaria, Antonio Pisa, agli arresti domiciliari e altri ventisette agenti in servizio nella casa circondariale per i quali il procuratore Teresa Angela Camelio ha chiesto la sospensione dal servizio […]. È il bilancio della chiusura dell'indagine sulle violenze al carcere di Biella, che ha portato la magistratura a formulare per tutti gli indagati il reato di torture. Gli episodi contestati riguardano tre detenuti che sarebbero stati legati, gettati in cella e poi picchiati, fatti che risalirebbero all'estate scorsa.
[…] due, entrambi cittadini marocchini, avrebbero raccontato che oltre alle botte sarebbe stato offerto loro di comprare della droga, dando in cambio la fede nuziale. Sul possibile coinvolgimento di agenti nel traffico di stupefacenti, cellulari e schede Sim, è da tempo in corso un'altra indagine da parte della squadra mobile, c'è già un arrestato, probabili altri sviluppi.
[…] I video sono stati esaminati fotogramma per fotogramma, sentiti decine di testimoni per capire se quei metodi erano la norma o un'eccezione. Alla fine ci sono andati di mezzo tutti,: chi ha partecipato ai presunti pestaggi e anche chi ha soltanto visto ma non ha fatto nulla per impedirli.
A partire da lunedì i ventisette indagati sfileranno davanti al giudice delle indagini preliminari che deciderà sulle sospensioni.
Una tempesta in più sul personale della casa circondariale già decimato da altre inchieste, soprattutto quella sui «furbetti del tampone», […] I tamponi destinati soltanto ai detenuti venivano utilizzati da agenti, infermieri, educatori, persino da familiari, fatti entrare la sera in carcere senza permesso.
In totale sono ventidue gli indagati che aspettano il rinvio a giudizio. Da anni la mobile indaga anche su un traffico di droga, che arriverebbe in carcere con la complicità degli operatori. I primi sospetti erano arrivati dopo l'arresto di un gruppo che lanciava cocaina, cellulari e persino tablet sopra il muro. All'interno nessuno se n'era mai accorto. Cinque agenti sono stati trasferiti, uno arrestato dopo che in casa gli è stato trovato dello stupefacente che aveva tentato di nascondere gettandolo dalla finestra.
Il penitenziario già decimato da altre indagini. Torture nel carcere di Biella, 28 indagati nella nuova inchiesta piemontese: detenuti pestati e legati. Carmine Di Niro su Il Riformista il 10 Febbraio 2023
Dopo Torino e Ivrea, un terzo carcere del Piemonte diventa ‘protagonista’ di una storia di presunte torture nei confronti dei detenuti. L’inchiesta riguarda ora la casa circondariale di via Tigli a Biella, dove si sono concluse, con la richiesta di rinvio a giudizio, le indagini della Procura che coinvolgono 28 agenti di polizia penitenziaria.
Indagine nata la scorsa estate dopo la denuncia da parte di tre detenuti stranieri dei pestaggi subiti da parte di agenti della polizia penitenziaria, che li avrebbero picchiati e legati in cella.
Nell’ambito di questa indagine un commissario della penitenziaria è agli arresti domiciliari e altri ventisette agenti della casa circondariale rischiano la sospensione: la decisione spetta al gip dopo i primi interrogatori in programma nei prossimi giorni.
Il pestaggio di uno dei tre detenuti che hanno denunciato le torture sarebbe stato ripreso anche dalle videocamere all’interno del penitenziario biellese. Telecamere che hanno ripreso l’arrivo in carcere in stato di agitazione di un cittadino georgiano accusato di furto: l’uomo sarebbe stato messo a terra nel corridoio con gambe e braccia legate da corde e il commissario che dirigeva l’operazione avrebbe zittito chi aveva provato a intervenire.
Secondo la procura vi sarebbero poi altre due vittime, due detenuti marocchini che hanno raccontato agli inquirenti di esser stati percossi e di aver ricevuto tra l’altro offerte di droga da parte degli agenti in cambio della fede nuziale.
Soltanto pochi giorni fa il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, finito al centro della bufera per le carte “sensibili” passate al collega di partito Giovanni Donzelli su Alfredo Cospito e utilizzate da quest’ultimo per attaccare alla Camera i parlamentari PD, aveva visitato il carcere biellese attualmente retto da un direttore facente funzione. Delmastro aveva assicurato che il nuovi direttore del carcere sarebbe stato assegnato entro l’anno, così come il nuovo comandante della polizia penitenziaria, promettendo inoltre rinforzi alla polizia.
Il personale di polizia del carcere biellese è stato infatti “decimato” da altre inchieste sull’uso illecito di tamponi destinati ai detenuti e sul presunto traffico di droga all’interno della struttura. La prima, che vede coinvolta anche l’ex direttrice dell’istituto e nel complesso 22 indagati, riguarda il presunto uso illecito dei tamponi destinati ai detenuti, che invece secondo gli inquirenti veniva utilizzato da agenti, infermieri e persino familiari del personale fatti entrare la sera in carcere senza permesso.
Ci sono poi le altre inchieste riguardanti le carceri piemontesi, come ricorda l’Ansa. A Ivrea sono due: in una, relativa a fatti del 2016 e 2017, condotta dalla Procura generale, gli indagati sono 25, nella seconda, coordinata dalla locale Procura 45, sono coinvolti agenti della polizia penitenziaria e medici in servizio nel carcere ma anche funzionari giuridico pedagogici e direttori pro-tempore della casa circondariale, che riguarda episodi degli ultimi anni.
A Torino sono stati rinviati a giudizio in 22, tra cui l’ex direttore del carcere: una parte del processo è in corso con il rito abbreviato, l’altra comincerà a luglio.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
(ANSA giovedì 9 novembre 2023) - "Avevo il busto per gravi problemi alla schiena, dissi che non ne potevo fare a meno, un agente lo ripetè a un collega che mì colpì con un manganello sulla schiena, quindi fui preso a schiaffi, passando da un agente all'altro come una pallina di ping pong nel corridoio". E' stato il giorno di Emilio Lavoretano, che sta scontando la pena definitiva a 27 anni per l'omicidio della moglie Katia Tondi - uccisa il 20 luglio 2013 - al processo per i pestaggi in carcere commessi il 6 aprile 2020 dagli agenti penitenziari nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta).
Un processo che vede imputate davanti al collegio di Corte d'Assise del tribunale sammaritano 105 persone tra agenti, funzionari del Dap e medici dell'Asl. Lavoretano, costituitosi parte civile, era al Nilo quando iniziò la perquisizione, anticipata "dall'improvvisa mancanza di segnale della tv in cella e dalle urla che provenivano dai piani bassi" del reparto detentivo. Lavoretano, sottoposto all'esame del pubblico ministero Alessandra Pinto, racconta che il 6 aprile entrarono nella sua cella "agenti con manganelli da me non riconosciuti perché avevano il volto coperto da caschi e bandana".
Afferma che "il carcere fu preso in mano da agenti esterni che non conoscevamo, ci dissero che erano di Secondigliano, anche i giorni successivi ai fatti, mentre quelli in servizio in carcere sembravano inermi, non potevano fare nulla, qualcuno - riconosciuto poi nell'imputato Biagio Braccio - era avvilito e cercò di darci anche dei consigli, un altro, una brava persona, provò ad aiutarmi (l'imputato Paolo Buro, ndr)". Anche Lavoretano, il detenuto teste al processo contro le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, come altri, fu portato fuori cella e gli fu ordinato di fare le flessioni.
"Fui colpito inizialmente anche da un agente donna con il casco, - ha raccontato ai giudici - la riconobbi dalla coda dei capelli; dopo un po' la incontrai di nuovo e le dissi che avevo il busto e il sangue, lei lo disse ai colleghi che mi colpirono ancora più forte. Mi diedero anche una manganellata dietro al collo che fece conficcare il rosario che portavo nella carne. Anche lungo le scale fui menato, alla fine della rampa presi un calcio in faccia. Un agente iniziò a cantare una canzone in dialetto e chiese ad un detenuto se la sapeva; 'no' fu la risposta, e partì uno schiaffo. Quando tornai in cella tremavo di paura e freddo, si bloccò la gola, mi sentivo di morire".
Sul ruolo della Commissaria di polizia penitenziaria Annarita Costanzo, imputata, Lavoretano ha confermato quanto già riferito nel corso delle indagini preliminari, ossia di non aver visto la funzionaria nella giornata del 6 aprile quando sono avvenuti i pestaggi.
Il difensore della Costanzo, Luca Tornatora, ha poi depositato una memoria in dibattimento che smentisce le dichiarazioni del teste Fabio D'Avino, sentito nelle scorse udienze; D'Avino, parte civile nel processo e attualmente detenuto, aveva affermato di aver visto la commissaria, appena sceso al piano terra, picchiare col manganello il detenuto Cristian De Luca, che stava scendendo in quel momento anch'egli al piano terra dalle scale della sua sezione. Nella memoria depositata è stato fatto notare che dai video si vede invece che De Luca scende al piano terra un'ora dopo il D'Avino, circostanza che confuta dunque il racconto reso dal teste.
Santa Maria Capua Vetere: 22 agenti a processo per le torture sono tornati in servizio. Stefano Baudino su L'Indipendente il 22 agosto 2023.
Ventidue agenti di sorveglianza sotto processo per le torture ai danni dei detenuti emerse nell’aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) sono stati reintegrati in servizio dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP). Una decisione a lungo sollecitata dal sindacato di polizia penitenziaria, ma fortemente criticata dai movimenti in favore dei diritti dei detenuti, che sottolineano come molti carcerati si troveranno ora nuovamente di fronte a parte degli agenti sospettati di essere autori delle violenze, ampiamente testimoniate dalle immagini a circuito chiuso della casa circondariale. Tra poliziotti e funzionari, sono in tutto 105 i soggetti sotto processo, accusati a vario titolo di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino 28enne Lakimi Hamine (addebitato a 12 individui), che fu posto in isolamento subito dopo il pestaggio e fu poi trovato morto il 4 maggio 2020. Tra gli individui alla sbarra, ci sono anche alcuni medici, a cui si imputa di non aver refertato le violenze subite dai detenuti con l’obiettivo di “coprire” i responsabili.
In quella caldissima primavera del 2020, i tafferugli scoppiarono in seguito a una protesta scatenata dai detenuti per la difficile situazione interna al carcere dovuta al diffondersi della pandemia da Covid-19. Era l’inizio della pandemia e, di fronte alle immagini diffuse dalla tv, tra i carcerati si era diffuso il terrore del contagio, alimentato dal fatto che nelle celle sovraffollate essi non potevano certo rispettare il distanziamento sociale consigliato dalle autorità politiche. Alla protesta dei detenuti gli agenti della polizia penitenziaria risposero con immane violenza: le immagini registrate dalle telecamere di sicurezza del carcere hanno mostrato chiaramente le manganellate, i calci, i pugni e le testate inferte dai poliziotti penitenziari a detenuti spesso inermi, barcollanti sulle scale della struttura o stesi a terra.
In seguito alla sospensione, il sindacato di Polizia Penitenziaria Uspp aveva più volte chiesto al Ministero e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di reintegrare in servizio gli agenti – in particolare quelli le cui posizioni erano considerate più lievi – a causa delle difficoltà economiche che avrebbero patito a causa della conseguente riduzione dello stipendio. Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio, rispettivamente presidente nazionale e segretario campano dell’Uspp, ricordano di aver «scritto più volte sulla inutilità di un provvedimento eccessivamente penalizzante, certi che gli esiti del mega processo in atto potranno essere meno rilevanti per la maggior parte degli agenti coinvolti. E, finalmente, proprio dopo il nostro ennesimo sollecito a revocare la misura della sospensione, grazie alla determinazione del Sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro, è arrivata la riammissione in servizio di altri 22 colleghi». E il sindacato, ora, auspica la veloce riammissione degli agenti penitenziari ancora sospesi.
Nella cornice del processo scaturito dall’inchiesta aperta dalla Procura, il reato più grave ipotizzato dai pm, contestato a una cinquantina di pubblici ufficiali, è quello di tortura. Introdotta nell’ordinamento nel 2017, tale fattispecie di reato potrebbe presto scomparire: Fratelli d’Italia, la forza politica di maggioranza di cui è leader il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha infatti recentemente presentato alla Camera un progetto di legge per la sua abrogazione, prevedendo “l’introduzione di una nuova aggravante comune per dare attuazione agli obblighi internazionali discendenti dalla ratifica della CAT [la Convenzione contro la tortura, ndr] e la contestuale abrogazione delle fattispecie penali della tortura e dell’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura”. Nel 2019, il suo principale partner al governo, il leader della Lega Matteo Salvini, aveva promesso ai poliziotti del Sap l’abrogazione del reato, aggiungendo che «ormai lo sport preferito da alcuni detenuti è la denuncia immotivata di violenza o tortura da parte di donne e uomini in divisa».
[di Stefano Baudino]
Il falso scoop di Repubblica sulle torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Stefano Baudino su L'Indipendente il 17 Maggio 2023
“La rivelazione arriva proprio durante le battute finali dell’udienza. I referti dei detenuti picchiati sono spariti. I carabinieri non li hanno trovati. Ed è un giallo, l’ennesimo, in una vicenda terribile e non ancora del tutto chiarita: il pestaggio dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere“. È questo l’incipit dell’articolo, uscito il 10 maggio su La Repubblica a firma Raffaele Sardo, riferito al processo che si sta tenendo davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – in cui figurano 105 imputati tra agenti, funzionari del Dap e medici dell’Asl – sui gravissimi fatti avvenuti il 6 aprile 2020 all’interno della casa circondariale campana. In realtà, ciò che viene venduto come uno scoop sensazionale è una non-notizia.
Il giornalista prosegue infatti citando tra virgolette quello che sarebbe il contenuto di uno scambio avvenuto in aula tra il pm Daniela Pannone, il vicebrigadiere Vincenzo Medici e il Presidente della Corte d’Assise Roberto Donatiello: “«Avete sequestrato i referti medici per i detenuti feriti e portato in infermeria?», chiede il pubblico ministero Pannone al brigadiere dei carabiniere Medici. «Non li abbiamo trovati», è la risposta che gela l’aula, del sottufficiale dell’Arma. Il presidente del collegio della Corte di assise, Roberto Donatiello, interviene, vuole approfondire, sembra sorpreso. «Mi faccia capire – dice il presidente del collegio di Corte d’Assise Roberto Donatiello – non c’erano i referti medici dei detenuti assistiti il 6 aprile?». È il giorno della ‘mattanza’. Come è possibile che quelle carte non ci siano più?. «Abbiamo trovato quelli degli agenti, non quelli dei detenuti», ripete il brigadiere dei carabinieri Medici […]”. Leggendo questo passaggio, il lettore potrebbe essere fisiologicamente portato a ipotizzare un qualche ruolo dei carabinieri nella copertura degli agenti sotto indagine e, soprattutto, a chiedersi per quale motivo il pm e il Presidente del collegio della Corte d’Assise abbiano fatto passare in sordina una questione così scottante. Insomma, lo spaccato sembra quello di un “giallo” dai contorni torbidi.
La verità è che il cronista ha completamente travisato il contenuto di quello scambio, che riportiamo qui di seguito nella sua interezza dopo aver ascoltato attentamente l’audio ufficiale dell’udienza. “P.M.: «Nel corso dell’attività d’indagine avete acquisito documentazione medica, referti medici riportanti lesioni di detenuti per gli eventi del 6?». Vicebrigadiere: «No, dei detenuti no. Non in riferimento al 6 aprile». P.M.: «Sono stati rinvenuti altri referti?». Vicebrigadiere: «I referti medici degli agenti, attestanti le lesioni degli agenti». Presidente Corte d’Assise: «Il passaggio in infermeria delle persone…». Vicebrigadiere: «Non sono state refertate, presidente». Presidente Corte d’Assise: «E come l’avete accertato?». Vicebrigadiere: «Perché abbiamo le dichiarazioni dei detenuti che sono stati portati in infermeria…». Presidente Corte d’Assise: «… che sono andati, a cui non hanno rilasciato referto. Va bene»”. Assolutamente nulla di nuovo sotto al sole, come dimostra la chiosa “consapevole” del presidente Donatiello. Tanto è vero che, tra i soggetti alla sbarra, ci sono anche alcuni medici, cui è notorio sia stato imputato proprio di non aver refertato le violenze subite dai detenuti per “coprire” i responsabili.
No, non è una notizia che “i referti dei detenuti picchiati sono spariti“: semplicemente (potremmo affermarlo in maniera ufficiale ove le accuse nei confronti dei medici siano infine confermate) quei documenti non sono probabilmente mai stati prodotti. Proprio per questo motivo, non è affatto vero che il Presidente della Corte d’Assise si è mostrato “sorpreso” rispetto a quanto ricordato dal vicebrigadiere Vincenzo Medici, né che tale dichiarazione abbia “gelato l’aula“. Il giornalista scrive peraltro che tale “rivelazione” sarebbe arrivata “proprio durante le battute finali dell’udienza”: altro dato assolutamente non corretto, poiché il rapido confronto verbale oggetto dell’articolo ha luogo dopo 2 ore e 55, nella cornice di un’udienza che si è protratta per oltre 6 ore.
Mentre da un lato giornali mainstream additano le nuove realtà dell’informazione come troppo poco autorevoli o acchiappa-click, dall’altro si dimostrano ogni giorno pronti a riportare i fatti in maniera non fedele.
Evidentemente, proprio per ottenere in fretta e furia qualche click in più. Piuttosto che prediligere il fattore quantitativo, noi preferiamo invece puntare sulla qualità delle notizie pubblicate, prenderci il tempo che ci serve a scandagliare i fatti al fine di offrirvi un’informazione approfondita, seria e fedele alla realtà. [di Stefano Baudino]
Pestaggio in carcere: vietato pubblicare la registrazione del processo. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 23 marzo 2023
Radio radicale non potrà pubblicare le registrazioni delle udienze del maxi processo in corso per le violenze della polizia penitenziaria nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
La sospensione, per il momento, decisa dalla corte d'assise, presidente Roberto Donatiello, riguarda solo l'ultima udienza in attesa di decidere, il prossimo 29 marzo, sulla richiesta degli avvocati di difesa che vorrebbe il divieto esteso anche alle prossime udienze.
Sul banco degli imputati ci sono 105 persone accusate, a vario titolo, di quanto accaduto il 6 aprile 2020 nel carcere casertano, Francesco Uccella.
Radio Radicale non potrà pubblicare le registrazioni delle udienze del maxi processo in corso davanti al tribunale di Santa Maria Capua Vetere per le violenze avvenute nel carcere Francesco Uccella il 6 aprile 2020. La sospensione, per il momento, decisa dalla corte d'assise, presidente Roberto Donatiello, riguarda solo l'ultima udienza in attesa di decidere, il prossimo 29 marzo, sulla richiesta degli avvocati di difesa che vorrebbero il divieto esteso all’intero processo. Sul banco degli imputati ci sono 105 persone accusate, a vario titolo, di quanto accaduto nel carcere in provincia di Caserta.
IL PESTAGGIO
Nelle prime settimane di pandemia, i reclusi del carcere di Santa Maria Capua Vetere, come molti altri carcerati in tutta Italia, avevano inscenato proteste per chiedere, dopo il primo caso di contagio in carcere, mascherine e dispositivi di sicurezza. Per tutta risposta, il 6 aprile 2020, quasi 300 poliziotti penitenziari, provenienti anche da altri istituti detentivi, sono entrati in carcere e per oltre quattro ore hanno colpito con manganelli, schiaffi e ginocchiate i detenuti. Una mattanza documentata dai video che Domani ha pubblicato nel giugno del 2021.
Il processo è iniziato, lo scorso novembre, nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere davanti alla Corte d’assise, a carico di 105 persone: agenti penitenziari, funzionari e medici coinvolti a vario titolo nel pestaggio. Sono accusati di tortura pluriaggravata, lesioni, falso, calunnia, depistaggio e altri reati.
Fino all'ultima udienza il processo è stato registrato e pubblicato sul sito di Radio radicale, ma adesso è arrivato il momentaneo stop che potrebbe diventare definitivo.
L'avvocato Carlo De Stavola, difensore di alcuni imputati, alla cui richiesta si è associato l'avvocato Claudio Botti (che difende insieme a Sabina Coppola l'ex provveditore campano alle carceri Antonio Fullone), ha sollecitato la Corte a disporre il divieto di pubblicazione dell'audio dopo ogni udienza, come Radio radicale fa da anni anche per altri processi importanti, e di prevedere che la pubblicazione delle registrazioni avvenga alla fine del processo.
Ma per quale motivo? Il legale ha spiegato che non si deve inficiare la genuinità delle dichiarazioni rese in aula dai testimoni, la pubblicazione dell'audio dopo l'udienza, potrebbe permettere a testimoni non ancora sentiti di ascoltare le parole dette da altri testimoni, e dunque in teoria di decidere cosa dire e in che modo. Insomma, pubblicare l'audio potrebbe condizionare e svelare la strategia difensiva, ma il processo è pubblico e ciascuno può seguirlo, cosa dicono gli altri testimoni potrebbe essere raccontato anche dalle cronache giornalistiche.
LA REAZIONE
In attesa della prossima udienza e della decisione della corte, è intervenuto anche Alessio Falconio, direttore dell'emittente, che ha chiesto di rivedere questa decisione. «Radio Radicale vuole continuare ad assicurare il servizio che da oltre 40 anni consente agli italiani la diretta conoscenza dei processi che rivestono un particolare interesse pubblico, qual è senz’altro quello in questione. La pubblicità delle udienze è posta a base della garanzia per la corretta amministrazione della giustizia e il servizio che svolge Radio radicale è funzionale a questa esigenza», dice Falconio.
A processo ci sono anche i dirigenti che avevano disposto la perquisizione del 6 aprile finita in pestaggio: l’ex provveditore, Antonio Fullone, il commissario coordinatore della polizia penitenziaria del carcere, Gaetano Manganelli, il comandante del nucleo traduzioni, Pasquale Colucci, le comandanti dei nuclei operativi e parte del gruppo di supporto e interventi, Tiziana Perillo e Nunzia Di Donato.
Il processo deve accertare le responsabilità personali su quelle quattro ore di pestaggi contro detenuti inermi, picchiati in ogni angolo del reparto Nilo dalle scale all'area socialità, dai corridoi alle celle. Barbe tagliate, disabili colpiti con manganelli, capannelli di agenti che infliggevano ogni tipo di violenza e umiliazione ai reclusi.
Ma non è finita con il pestaggio, si è scritta nelle ore successive a quel 6 aprile un'altra pagina che trova spazio nei faldoni del processo: il depistaggio. False informative, foto di pentolini d’acqua fatti passare per recipienti d’olio bollente, video e scatti manomessi: materiale che doveva servire a giustificare quanto accaduto il 6 aprile. È il processo al pestaggio e al depistaggio di stato e non può essere silenziato.
NELLO TROCCHIA È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Nello Trocchia per editorialedomani.it il 7 gennaio 2023.
«Non rimanga sorpreso se chi le scrive è uno degli agenti della polizia penitenziaria imputato per i fatti del 6 aprile 2020 nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere».
Inizia così la lettera di un poliziotto penitenziario, del quale non riveleremo l’identità, che ha deciso di raccontare la sua storia e i fatti accaduti in quella giornata buia per la democrazia. In piena emergenza pandemica, il 6 aprile 2020, 283 agenti della polizia penitenziaria sono entrati all’interno dell’istituto Francesco Uccella, nel reparto Nilo.
Per quattro ore i detenuti sono stati picchiati, un pestaggio di stato al quale è seguito il depistaggio finalizzato a cancellare le prove di quanto accaduto. A distanza di oltre due anni da quella giornata di sangue, botte e umiliazioni è iniziato un processo che vede imputate 105 persone per tortura, lesioni, abuso d’autorità, depistaggio, falso e altri reati.
Tra questi imputati 77 sono stati sospesi dal servizio dal giugno 2021, quando su richiesta della procura locale, il giudice Sergio Enea aveva autorizzato gli arresti e altre misure cautelari. Altri, invece, sono rimasti in servizio nonostante rispondano di oltre 30 capi di imputazione ottenendo anche promozioni.
«Tutto questo non è giusto, io e altri 14 agenti non siamo stati raggiunti da misure cautelari e siamo stati sospesi dal ministero mentre ci sono dirigenti mai sospesi che sono stati anche destinatari di nuovi incarichi e che rispondono di decine di capi di imputazione», dice il poliziotto.
Il riferimento è, tra gli altri, a Tiziana Perillo, che risponde di una trentina di capi di imputazione, mai sospesa e che, di recente, è stata nominata dalla provveditrice regionale, Lucia Castellano, come consigliera di fiducia per l’attuazione del codice contro le molestie sessuali.
Il poliziotto e gli altri, invece, sono stati sospesi perché colpevolmente presenti in reparto. «Il loro riconoscimento non è controverso, ma, come emerge, dalle immagini del circuito di videosorveglianza e dalle dichiarazioni dei detenuti escussi, essi erano solo presenti ai fatti, ma non hanno compiuto alcun atto di violenza ai danni dei detenuti medesimi», si legge nelle carte processuali.
Una quindicina di agenti dunque non ha partecipato alle violenze, ma non hanno mai denunciato l’accaduto nonostante vi abbiano assistito. Alcuni non erano in servizio e sono stati richiamati proprio per quell’operazione, altri erano già all’interno dell’istituto.
Il governo, che vuole riformulare il reato di tortura, vorrebbe rivedere le sospensioni, ma il rischio è che si peggiori la situazione, tenuto conto che nel momento in cui sono state disposte – all’epoca c’era il governo Draghi - si è proceduto applicando una disparità di trattamento.
«La procura non ha determinato alcuna misura cautelare nei nostri confronti, ma restiamo sospesi dal servizio, per disposizione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fino a data imprecisata. E la parola “sospeso” dice di più di una disposizione amministrativa: su questa sospensione si appende una divisa, si consegna un distintivo, si mettono in archivio anni di servizio onesto, quando si è cercato di conservare, soprattutto dinanzi a situazioni difficili, umanità ed equilibrio», dice il poliziotto. Ma come è possibile parlare di umanità ed equilibrio considerando quanto accaduto?
«Ho fatto tantissime operazioni, a Santa Maria non è mai successo niente tranne quel giorno, mai uno schiaffo, mai un’esagerazione. Il 6 aprile sono arrivati gli agenti dall’istituto di Secondigliano con caschi e manganelli, non pensavo li facessero entrare e, invece, all’improvviso ce li siamo visti ai piani. I funzionari, i nostri dirigenti hanno sbagliato tutta l’operazione. La perquisizione si doveva fare, il reparto era allo sbando, ma non così, non così», dice l’agente. Ma perché nessuno ha fermato quelle quattro ore di massacro? «Non lo so, come facevo a mettermi contro Colucci (uno dei vertici imputati, ndr) e gli altri superiori? Io non sapevo cosa fare, niente. Guardavo quello che accadeva», risponde.
Attualmente chi è sospeso guadagna la metà del salario previsto, c’è chi vive con mille euro al mese da un anno e mezzo. Nonostante la situazione, rimane un fatto: nessuno ha denunciato quanto è accaduto quel giorno. «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca», diceva Don Lorenzo Milani. «Pensavo che lo avrebbero fatto i nostri superiori, che avrebbero fatto luce su tutto quello, su quella giornata orribile», dice l’agente. In ogni caso, si tratta di omertà, di silenzio complice rispetto ai fatti. I presenti avrebbero potuto denunciare anonimamente le violenze ma non lo hanno fatto. «Lo so, lo so, ho capito l’omertà, ma è successa una cosa troppo grande», aggiunge.
Il poliziotto ammette di aver cercato di fermare le violenze, di dire basta: «Ci ho provato, ma era inutile. Era una baraonda, non ci ho capito niente, non sapevo che fare. Stavo lì durante le violenze, è vero, ma non ho partecipato. Avrei dovuto picchiarmi con i colleghi, non lo so, non lo so».
Ma cosa resta addosso a un poliziotto penitenziario dopo quella giornata di orrori? «A Santa Maria c’erano al massimo una decina di facinorosi, gli altri non c’entravano niente, niente, e si poteva facilmente affrontare la situazione, ma non in quel modo. I superiori hanno fatto un disastro». Delle risposte che darà al processo durante l’interrogatorio ne discuterà «con l’avvocato. Rispondo di un paio di contestazioni, solo della mia presenza quel giorno, ne uscirò assolto».
Giuseppe Legato per “la Stampa” il 14 dicembre 2022.
«Poco dopo essere entrato in carcere avevo tentato il suicidio legando un lenzuolo prima alle sbarre e poi al collo. I primi agenti accorsi mi dissero: "Questo infame non si sa fare la galera". Mi portarono allora in una stanza tutta a vetri in cui non c'era né un letto né un materasso. Quel giorno entrarono 12 agenti, dieci di loro indossavano i guanti neri, uno per uno. Sono rimasto completamente nudo. Mi colpivano anche con calci e pugni e con un manganello ai testicoli dove ero stato operato in passato. Quando ho chiesto di essere portato in infermeria un assistente con accento romano mi ha detto: "Se parli col comandante o con il medico ti ammazzo".
Poi il trasferimento nella cella licia: "Mi hanno buttato in quello stanzone come un sacco di patate. C'era solo un letto piantato per terra e un materasso di spugna sporco. Mi hanno concesso di mettere le mutande, solo quelle. Non potevo parlare col mio avvocato, non mi era consentito comunicare con gli altri detenuti, mi era negata l'ora d'aria". L'inferno nel carcere di Ivrea del detenuto Vincenzo Calcagnile è agli atti dell'inchiesta per tortura che vede indagati 45 tra agenti della polizia penitenziaria, educatori, medici interni al penitenziario e vertici - amministrativi e militari - dell'istituto. Meglio: ex vertici. Il Dap li ha rimossi nelle scorse ore dall'incarico nominando due nuovi dirigenti.
Contestualmente il gip di Ivrea ha disposto l'interdizione per otto agenti travolti dalla bufera giudiziaria accusati di essere una squadra di picchiatori libera di fare il bello e - soprattutto - il cattivo tempo tra le mura del penitenziario. Non potranno rimettere piede al lavoro per un anno in attesa che l'inchiesta faccia il suo corso. Il giudice descrive il trattamento riservato al detenuto come «connotato da inaudita disumanità che ha causato una altrettanto inaudita lesione della sua dignità di persona». In un mese quest' uomo ha perso 18 chili.
«Mi somministravano un ansiolitico contro la mia volontà. A seconda di quanto insistevo nel chiedere di parlare col mio avvocato mi costringevano a bere dalle 30 alle 50 gocce. Mi hanno ridotto come un morto vivente, ho paura della mia ombra, ho il terrore anche di sognare. L'unico mezzo per comunicare con l'esterno erano i telegrammi ma mi dicevano sempre: "Hai rotto il cazzo, ora basta"».
Una notte arrivò anche una crisi di panico: «Venne un assistente siciliano e mi disse: "Non rompere la minchia e dormi"». Basterebbe questo per raccontare cosa - per i pm - accadeva in questo carcere di provincia al centro di 6 inchieste negli ultimi 5 anni tutte avocate dal procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo una volta preso atto che avevano imboccato la strada dell'archiviazione.
Quarantacinque indagati in un filone, 25 in un altro ma in entrambi c'è più di un elemento che convoglia i fatti in un unico imbuto di orrore. Le botte, certo e una presunta squadretta in divisa blu - con nomignoli del tenore di Shumacher, Harley Davidson, Sansone e Kamikaze - che lo stesso ex comandante dei secondini, Michele Pitti, sentito dai pm il 22 novembre scorso, racconta cosi: «Nel tempo ho capito che c'era un gruppo di colleghi più anziani che aveva maturato questo modo di lavorare, probabilmente perfezionato durante il periodo in cui erano senza comandante e sono stati lasciati un po' a se stessi».
Un metodo «di contro segnalazione» dunque, secondo il quale - dice ancora l'ex capo delle guardie penitenziarie - «taluni detenuti malmenati o percossi variamente dai colleghi venivano denunciati per fatti commessi in danno del personale e nessun credito veniva dato alle loro denunce». Colleghi temuti da tutti «anche dagli altri agenti che non so se per minacce implicite o esplicite - dice ancora Pitti - tendono a non riferire le ose come stanno neppure quando li interrogo».
Reticenti anche i medici del penitenziario: «Non riferiscono mai sulle modalità con cui possono essere state prodotte certe lesioni ai detenuti e addirittura in alcuni casi non si trovano i referti e le cartelle". Una cosa è certa per tutti: "Certo erano anomali i plurimi infortuni accidentali. C'è ancora - e rileva nell'economia delle contestazioni agli indagati - la storia di un detenuto marocchino convocato in un ufficio per comunicargli "il trasferimento ad altro istituto".
Si legge agli atti: "Riceveva un colpo fortissimo alla spalla, lo colpivano al ginocchio e ancora calci pugni e manganellate a cui lui non opponeva resistenza. Si metteva in posizione fetale per proteggersi e in quel momento l'assistente capo lo strangolava alla gola dicendogli: Tu sei un boss ah ah abbiamo un boss". Ancora a un detenuto italiano è stato spezzato un braccio: "Lo hanno aggredito in quattro - ha confermato un vicino di cella - poi lo hanno fatto sedere su una sedia-. Lui piangeva e sveniva. Quando sono entrato in cella ho visto che faceva braccio di ferro con un agente che vantava di avere rapporti con il clan dei Casalesi e per questo era temuto. Ho sentito crac". Gli indagati dichiararono "che era scivolato perché c'era dell'acqua per terra".
Il rapporto dell'organo del Consiglio d'Europa. Cosa è l’isolamento e perché va abolito, il rapporto del Comitato europeo anti-tortura. Angela Stella su Il Riformista il 26 Marzo 2023
“Il sovraffollamento carcerario rappresentava un problema, con carceri che operavano al 114% della loro capacità ufficiale di 50.863 posti al momento della visita. Affrontare il problema del sovraffollamento richiede una strategia coerente più ampia, che copra sia l’ammissione in carcere sia il rilascio, per assicurare che la detenzione sia veramente la misura di ultima istanza. Allo stesso tempo, è necessario prendere delle misure per migliorare le condizioni materiali nelle carceri visitate”: così si legge nel rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti pubblicato ieri in merito alla sua visita periodica in Italia condotta nel periodo marzo/aprile 2022.
In realtà alcune carceri avevano tassi di overcrowding superiori al 140% della loro capacità ufficiale, come Monza, Lorusso e Cutugno (Torino) e Regina Coeli (Roma). “È vero, le nostre carceri sono sovraffollate,– ha commentato il Ministro Nordio a margine di un convegno ad Udine – abbiamo ampi progetti per ridurre questa criticità. Un progetto a lungo termine riguarda la dismissione delle vecchie carceri, come Regina Coeli che può essere venduto sul mercato, prevedendo la costruzione di nuove case, ma anche un progetto a lungo termine, soluzione più ambiziosa e definita, di utilizzare una serie di edifici, a cominciare da caserme dismesse, che hanno struttura compatibile con il carcere”.
Ha aggiunto: “Con pochi soldi potremmo ristrutturare queste caserme dismesse e questo ci consentirebbe una detenzione differenziata per i detenuti condannati per reati di diversa gravità, con uno sfoltimento della popolazione carceraria con queste caserme che sono molto diffuse, e che hanno degli spazi compatibili con una delle funzioni essenziali della pena – ha concluso il ministro – che è quella rieducativa, attraverso la pratica dello sport e il lavoro all’interno dello spazio carcerario”. Il rapporto ha evidenziato “inoltre numerose segnalazioni di violenza e intimidazioni tra i detenuti nelle carceri visitate. Le autorità italiane devono istituire una strategia onnicomprensiva per prevenire tali violenza e intimidazioni attraverso, inter alia, la promozione di un vero sistema di sicurezza dinamica (sorveglianza dinamica) da parte del personale penitenziario che migliorerebbe il controllo e la sicurezza e renderebbe il lavoro degli agenti di Polizia penitenziaria più appagante. La delegazione ha ricevuto inoltre alcune denunce di maltrattamento di detenuti da parte del personale di Polizia penitenziaria. Le autorità italiane dovrebbero migliorare la formazione del personale sull’uso di metodi di controllo e contenzione sicuri, in particolare per i detenuti con tendenza all’autolesionismo e disturbi mentali”.
In relazione alle misure restrittive e ai regimi di isolamento, il CPT chiede una serie di interventi, tra cui l’abolizione dell’ isolamento diurno e “il riesame della gestione dei detenuti sottoposti al regime “41-bis”, in linea con le raccomandazioni di lunga data del CPT (confliggerebbe con l’articolo 27 della Costituzione, ndr), che il Comitato ritiene potrebbe essere raggiunto attraverso l’adozione di una Circolare di modifica del regime in questione emessa dal DAP”. “Quello che emerge nel rapporto – ha sottolineato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – è in larga parte coerente con la situazione che Antigone denuncia da tempo e che avevamo avuto modo di manifestare durante la consultazione che avemmo con la delegazione, nonché con le proposte che da noi arrivano per una riforma del sistema penitenziario che guardi alla pena come elemento di risocializzazione della persona”.
In particolare sulla questione del sovraffollamento ha dichiarato: “da tempo Antigone chiede un incremento delle misure alternative, sottolineando come ci siano migliaia di detenuti con pene brevi, che ben potrebbero accedere a percorsi diversi dalla detenzione in carcere. Inoltre, da tempo, chiediamo che su alcuni temi, ad esempio quelli legati alle politiche sulle droghe, si proceda a una serie di depenalizzazioni così da affidare le persone con dipendenze a un percorso di cura e non a un percorso penale e detentivo”. Angela Stella
Laura Tedesco per corriere.it il 12 gennaio 2023.
A dieci anni esatti da quando si evirò nel carcere veronese di Montorio usando una lametta che non sarebbe mai dovuta entrare nella sua cella, il ministero della Giustizia è stato condannato a risarcirgli i danni. Lo Stato italiano dovrà rifondere all’incirca 50 mila euro - per l’esattezza 48.533 euro, cifra attualizzata al momento della decisione - a favore del detenuto per concorso di colpa nel gravissimo atto autolesionistico da lui commesso in cella.
E questo perché, trattandosi di un soggetto notoriamente affetto da serie problematiche di tipo psichico, non sarebbe stato vigilato a dovere. Secondo i magistrati all’interno della casa circondariale scaligera si sarebbe dovuto impedire che nelle mani del detenuto giungesse «l’arma del reato», vale a dire quella lametta da lui usata per ferirsi irrimediabilmente con l’evirazione. Nei suoi riguardi, dal punto di vista della sorveglianza, si sarebbero dovute prestare le massime accortezze soprattutto perché, appena due giorni prima del «fattaccio», era già riuscito a tagliarsi i polsi.
La sentenza di condanna pronunciata in sede civile nei confronti del ministero è definitiva e non più impugnabile: emessa in primo grado dal tribunale di Venezia e pubblicata il 30 luglio del 2019, è stata poi confermata in toto dai magistrati d’appello lagunari. Dopodiché non c’è stato neppure bisogno di attendere l’ultima parola della Cassazione, perché i termini entro cui lo Stato avrebbe potuto presentare un ulteriore ricorso agli Ermellini sono nel frattempo scaduti.
Nella motivazione della condanna inflitta allo Stato, si contesta in particolare alla «amministrazione penitenziaria il non aver esercitato una vigilanza idonea ad impedire al detenuto la disponibilità di una lametta». Da parte dell’avvocato Edoardo Lana, che ha tutelato gli interessi del detenuto risarcito, si sottolinea che «questa sentenza rappresenta una grande soddisfazione umana e professionale, non solo per il tema di natura assolutamente personale trattato, ma anche per la complessità istruttoria espletata nel corso dei due gradi di giudizio.
La sentenza riequilibra una situazione di grave ingiustizia morale e giuridica che affliggeva da anni il cliente che, per vedere riconosciuta la responsabilità del Ministero della Giustizia, ha dovuto affrontare un iter processuale durato diversi anni».
In effetti, è stata necessaria un’attesa ben decennale prima di giungere a una pronuncia definitiva, se si considera che il gravissimo gesto autolesionistico risale al 17 novembre 2012, quando si evirò con quella famigerata lametta nel carcere di Verona. A sostegno della domanda risarcitoria il detenuto aveva ripercorso con il suo legale la propria storia personale, connotata da ricorrenti problemi psichiatrici e da un precedente atto di autolesionismo ai polsi, compiuto solo due giorni prima, in ragione del quale era sottoposto a regime di grande sorveglianza, deducendo la responsabilità della struttura penitenziaria, per non avergli impedito la disponibilità delle lamette.
All’istanza risarcitoria il ministero si era opposto sul presupposto che la relazione medica del 15 novembre 2012, redatta in occasione dell’atto di autolesionismo ai polsi, aveva escluso intenti suicidiari e sostenendo che comunque la sorveglianza, pur non continuativa, era stata adeguatamente esercitata, dovendosi ravvisare quanto meno un concorso di colpa del detenuto. Diverso però il giudizio dei magistrati, secondo i quali «l’amministrazione penitenziaria non è stata in grado di adottare tutte quelle misure che, attese le specifiche ragioni di rischio, avrebbero dovuto impedire che l’appellato potesse avere di nuovo la disponibilità di una lametta».
Per i giudici, «la relazione della direzione della casa circondariale, datata 28 novembre 2012, dà atto del fatto che non si può escludere che le lamette siano state passate da altri detenuti nella sezione infermeria, oppure attraverso le inferriate della cella, posto che, nel corridoio antistante, erano transitati, in quella giornata, per due volte, 42 detenuti, i quali avrebbero potuto consegnare al detenuto una lametta attraverso le inferriate;
in tale contesto, non solo si deve concludere che la vigilanza fu di fatto inadeguata a prevenire il rischio di nuovi atti di autolesionismo, ma neppure può sostenersi che il comportamento del detenuto sia stato del tutto imprevedibile e come tale non evitabile, posto che, al contrario, la condotta posta in essere dal medesimo ha costituito una reiterazione, due giorni dopo, proprio del gesto posto in essere il 15 novembre 2012, rispetto al quale la vigilanza, alla quale l’amministrazione penitenziaria era tenuta, si è rivelata inadeguata».
La strage silenziosa: un suicidio in cella ogni cinque giorni. Nel 2023 già 54 detenuti si sono tolti la vita. L'allarme inascoltato del Garante: la maggior parte dei suicidi avvengono nelle prime settimane in carcere o poco dopo il rilascio. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 novembre 2023
Un giovane detenuto di 28 anni si è tolto la vita domenica 29 ottobre nella Casa circondariale di Caltanissetta, dove era recluso dal luglio del 2021. Sarebbe uscito dal carcere tra sei mesi. La sua morte porta il numero dei suicidi nelle carceri italiane nel 2023 a 54, creando una media spaventosa di un suicidio quasi ogni cinque giorni, con alcune tragedie che si sono succedute in modo rapidissimo, come dimostrato dai due recenti casi che sono avvenuti nel giro di sole 24 ore. A comunicarlo è il Garante nazionale delle persone private della libertà.
Questo oscuro trend, che sembra non mostrare alcun segno di declino, non può essere ignorato. Dati allarmanti già emersi dal precedente documento del Garante Nazionale, che mettono in evidenza una situazione critica: dal 2018, escludendo il picco tragico del 2022 con 85 suicidi, si è mantenuta una costante di circa 60 suicidi in carcere ogni anno. Questo segnale inquietante, soprattutto alla fine di ottobre, rischia di superare questa già spaventosa cifra.
Oltre ai suicidi confermati, bisogna considerare anche i “morti per causa da accertare”, che spesso risultano essere casi di suicidio. Finora, nel 2023, come riporta il comunicato del Garante Nazionale, ne sono stati registrati 21. Questi numeri non sono semplici statistiche, ma rappresentano persone, ognuna con una storia di disperazione e vulnerabilità trascurate dalla società.
Lo studio condotto dal Garante nazionale delle persone private della libertà ha già messo in luce una verità sconvolgente: il tasso di suicidi in carcere è stato superiore di 18 volte rispetto a quello della società esterna. Questo fenomeno, lontano dall’essere marginale, è un problema sociale profondo. Molte vittime si tolgono la vita nelle prime settimane di detenzione o poco dopo il rilascio, segnalando una mancanza di prospettive e uno stigma sociale che aspetta coloro che lasciano il carcere, di cui la società è collettivamente responsabile.
Questa situazione solleva interrogativi profondi sulla nostra società nel suo complesso. Affrontare questo problema richiede una risposta collettiva. Le soluzioni non sono semplici e coinvolgono l’intera collettività e i suoi fondamenti culturali. Il Garante nazionale ha riportato che delle 54 persone che si sono tolte la vita in carcere quest’anno, tre avrebbero potuto uscire entro la fine dell’anno, cinque nel 2024, tre entro i primi mesi e due alla fine. Collegare questi atti di disperazione alle condizioni della vita detentiva è complesso e spesso improprio. Piuttosto, è cruciale considerare la mancanza di prospettive e lo stigma sociale che affligge chi esce dal carcere.
Il Garante nazionale richiama l’attenzione su queste tragiche realtà e sottolinea l’importanza di non abbassare la guardia. L’andamento dei suicidi in carcere nel 2023, pur essendo leggermente inferiore rispetto all’anno precedente, richiede un impegno costante. Le autorità, la politica ed ogni persona coinvolta nel sistema penitenziario e giudiziario è chiamata a riflettere su queste tragedie umane.
Fine pena mai. In Italia si continua a morire di carcere. David Allegranti su L'Inkiesta il 4 Novembre 2023
L’ennesimo suicidio dietro le sbarre, a Caltanissetta, si aggiunge alle altre cinquantatré persone del 2023. Lo stigma legato alla detenzione sembrerebbe essere l’elemento cruciale dietro questo trend costante negli ultimi cinque anni, a esclusione del picco del 2022
Un altro suicidio in carcere. Stavolta è un ventottenne che sarebbe uscito fra sei mesi e che si è tolto la vita, il 29 ottobre scorso, nella Casa circondariale di Caltanissetta, dove era detenuto dal luglio del 2021. Con la sua morte salgono a cinquantaquattro le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio del 2023. «Una media di un suicidio quasi ogni cinque giorni, talvolta con successioni molto rapide, come è accaduto per gli ultimi due casi, avvenuti nell’arco di ventiquattro ore», calcola l’ufficio del Garante delle persone private della libertà personale.
«È una linea di tendenza che soltanto un ottimismo ingenuo può far pensare abbia segnato, con quello di ieri, l’ultimo caso dell’anno», argomenta il Garante: «È una linea di tendenza che si è manifestata costante, nei numeri, negli ultimi cinque anni: a esclusione del 2022 con il picco tragico di ottantacinque i dati dal 2018 indicano una costante di suicidi in carcere intorno ai sessanta. Una costante che, considerato il numero odierno, alla fine di ottobre, rischia pericolosamente di essere di nuovo superata». A questo conto, «in cui ogni caso ha un nome e un vissuto di drammaticità e di fragilità rimasto sostanzialmente inascoltato, devono aggiungersi i “morti per causa da accertare”, giacché spesso gli accertamenti riconoscono nel suicidio la causa della morte: sono 21 dall’inizio dell’anno».
Nell’aprile di quest’anno, il Garante nazionale ha pubblicato un interessante e tragico studio sui suicidi in carcere. Nel 2022, si sono tolte la vita ottantacinque persone, di cui ottanta erano uomini e cinque donne. «Se si prende in considerazione non solo lo stesso numero di mesi ma tutti i dodici mesi per ogni anno, si tratta del più alto di suicidi mai registrato negli ultimi dieci anni», scrive il Garante nazionale nella sua analisi: «Tale dato risulta ancora più allarmante se lo si rapporta al totale della popolazione detenuta nei diversi anni: infatti, nel 2022 si registra una popolazione detenuta media visibilmente inferiore a quella del 2012 – ben undicimilaseicentottantasette persone detenute in meno – ma con ventinove suicidi in più rispetto a quelli verificatisi in quell’anno. Negli ultimi dieci anni, negli Istituti penitenziari nazionali, si sono verificati cinquecentottantanove suicidi, di persone di età compresa tra i diciotto anni e gli ottantatré anni, quasi la metà delle persone era in attesa di una sentenza definitiva (tasso simile alle persone che si sono suicidate nel 2022)», scrive ancora il Garante nella sua analisi.
Alcuni dei detenuti che si sono suicidati nel 2022 stavano per uscire dal carcere, come nell’ultimo caso del ventottenne a Caltanissetta. «Troppo breve è stata in molti casi la permanenza all’interno del carcere, troppo frequenti sono anche i casi di persone che presto sarebbero uscite. In questi casi sembra piuttosto che lo stigma percepito dell’essere approdati in carcere costituisca l’elemento cruciale che spinga al gesto estremo. Cinquanta persone, pari al sessantadue per cento del totale, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, ventuno nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e quindici entro i primi dieci giorni, nove delle quali addirittura entro le prime ventiquattro ore dall’ingresso. Questo vuol dire che circa un suicidio su cinque si verifica nei primi dieci giorni dall’ingresso nel carcere».
Inoltre, fra le ottantacinque persone suicidatesi nel 2022, cinque avrebbero completato la pena entro l’anno in corso quarantadue avevano una pena residua inferiore a tre anni; solo quattro avevano una pena residua superiore ai tre anni e di cui una aveva una pena residua superiore ai dieci anni. «Un picco si è registrato nel mese di agosto, quando in carcere gran parte delle attività si fermano, con ben diciassette casi».
Già in questo dossier di aprile il Garante aveva ricordato che il tasso di suicidi in carcere è stato superiore di diciotto volte a quello dei suicidi nella società libera: «Le risposte e la ricerca di soluzioni non sono certamente semplici e investono l’intera collettività e i suoi fondamenti culturali se, come abbiamo segnalato in più occasioni, sono numerosi i casi di suicidio che si verificano nelle prime settimane di detenzione e anche numerosi quelli a poco tempo dall’uscita dal carcere, magari dopo una lunga detenzione: delle cinquantaquattro persone che si sono tolte la vita in carcere quest’anno fino a oggi, tre sarebbero uscite entro la fine dell’anno, cinque nel 2024, tre entro i primi mesi e due alla fine».
È assai difficile, per non dire improprio, «connettere questi atti di disperazione alle condizioni della vita detentiva, soprattutto se sperimentate per molto tempo e se si è prossimi a lasciarle. Più serio è ricondurle a quella mancanza di prospettive e a quello stigma sociale che attende spesso chi esce dal carcere, di cui tutta la società esterna è responsabile. Per questo interrogano tutti noi», ribadisce oggi il Garante nazionale.
Di carcere insomma si continua a morire. Perché il carcere non è solo l’università del crimine, come diceva già Tocqueville. È anche il posto in cui i ristretti, posti sotto tutela dello Stato, non possono vivere ma devono sopravvivere. Perché, magari, non hanno l’assistenza sanitaria adeguata, come spiegano i detenuti di Rebibbia in una lettera resa pubblica da Antigone, nella quale si appellano ai medici alla ricerca di aiuto: «Il carcere, come anche il mondo esterno, risente molto dai tagli e dalle difficoltà che il Servizio Sanitario Nazionale subisce», sottolinea Antigone, associazione presieduta da Patrizio Gonnella: «Con l’unica differenza che, per chi è recluso, non c’è la possibilità – anche laddove ci siano le risorse economiche – di affidarsi a visite specialistiche private. Questo comporta tempi di attesa a volte anche di alcuni mesi. Inoltre, non in tutte le carceri, l’assistenza medica o infermieristica è fornita per tutte e ventiquattro le ore della giornata. Spesso, al fianco dei medici di medicina generale, mancano gli specialisti o la loro presenza è prevista solamente per poche ore».
Drammatiche le parole dei detenuti contenute nella lettera: «La realtà del carcere è dura, difficile e impegnativa per medici e personale sanitario almeno quanto quella in un Pronto Soccorso, ma senza le relative indennità e le possibilità di carriera. Fate bene a richiederli alle autorità sanitarie regionali e nazionali, noi e i nostri familiari vi sosteniamo…. ma non ci abbandonate! Abbiamo bisogno della vostra professionalità e competenze! Siate umanamente solidali con noi come noi lo siamo con voi, con le vostre richieste. Venite in carcere, curateci, fate in modo che i giovani medici vi affianchino a fare tirocinio. Che esperienza straordinaria farebbero affermando sul campo il diritto alla cura e che occasione avrebbero per superare paure e pregiudizi e scoprire quanta umanità c’è dietro le sbarre». Una umanità che chiede di poter vivere.
Dov’è la politica? Susan John è sta stata uccisa dallo Stato: Nordio il più cinico. Muoia Susanna, muoia Azzurra, muoia Andrea. I risultati elettorali mica cambiano. Piero Sansonetti su L'Unità il 13 Agosto 2023
Susan è morta di fame e di sete, perché faceva lo sciopero della fame e della sete. Lo Stato l’aveva in custodia. L’ha lasciata morire. Lo Stato l’ha condannata a morte. Deve risponderne perché in Italia la pena di morte è vietata dalla Costituzione. Non risponderà. Azzurra invece è morta perché aveva deciso di morire. Perché non sopportava il carcere. Perché lo viveva come una sopraffazione, un’ingiustizia, un’ingiustizia più grande ancora del suo istinto di conservazione.
Azzurra si è impiccata. Nello stesso giorno nel quale è morta Susan. Nella stessa prigione. Lo Stato non le ha impedito di morire. Le ha imposto la sua legge, la follia di una sua legge che prevede il carcere per punire. Il carcere, la tortura, l’infamia. Ieri invece è morto Andrea Muraca. A Rossano, in Calabria. Il suo nome lo abbiamo scoperto su Facebook. Lo Stato non ce l’ha detto. Aveva in custodia anche lui, lo Stato. Anche Andrea. Non lo ha custodito bene. Aveva 42 anni, qualche anno fa aveva perduto un figlio. Immagino un ragazzo. Non sappiamo altro. Sappiamo che numero è: il numero 47. Cioè la quarantasettesima persona che si è suicidata in carcere quest’anno.
I suicidi sono numeri. Sigle. Età. Reati. Reato stupefacenti, dicono al carcere di Rossano. Come Susan. Era in prigione da febbraio, detenzione preventiva imposta dalla Dda di Catanzaro. Quella di Gratteri. Lo accusavano – se ho capito bene – di piccolo spaccio. Le prigioni italiane sono ormai piene zeppe di ragazzi, di donne, di adulti che sono accusati di questo reato. Mica solo a Rossano. Probabilmente se si legalizzasse la droga leggera le carceri non sarebbero più affollate. Ma non sarebbe questo il rimedio definitivo.
Le carceri vanno abolite perché non servono a punire i delitti: le carceri sono un delitto. Il più grave delitto dello Stato. Ieri nel carcere di Torino dove è morta Susan John, 42 anni, due figli, uno di 4 anni, è esplosa la protesta quando si è presentato il ministro Nordio. Urla, e la tradizionale battitura coi cucchiai sulle sbarre delle celle. Come è possibile che nessuno sapesse che da 20 giorni una detenuta stava facendo lo sciopero della fame, perché si dichiarava innocente e perché voleva rivedere il suo bambino piccolo, che vive senza la mamma. Spesso succede così: la mamma viene mandata in prigione e lascia a casa dei bambini piccoli che scontano così la condanna anche loro.
Ma non ci avevano spiegato che le carceri sono il rimedio estremo? Non ce l’avevano detto anche il latino: extrema ratio? E vi pare che sia così, extrema ratio, se si mette in prigione una signora che ha un figlio di quattro anni, che soffre come un cane senza la sua mamma? E vi pare che sia extrema ratio tenere in cella una donna che da 20 giorni non mangia e non beve e che i medici dicono che sta per morire? Nessuno si muove per salvarla?
La magistratura di sorveglianza è stata avvertita? Perché non è stata avvertita la garante dei detenuti? Qualcuno ha preso in considerazione l’ipotesi di liberarla? Per una società moderna e civile vale di più lo scalpo di una donna forse innocente o forse colpevole, o vale di più la vita umana? La politica, la politica! Dov’è la politica? Si è manifestata nella persona del ministro Nordio che è andato al carcere, ieri, per dire che quella signora non stava facendo lo sciopero della fame e non ce l’aveva col governo, e ha detto che le circostanze e la ragione della morte sono “dettagli tecnici” che non ha approfondito: Non ci credete? Sì, sì, ha detto così il ministro garantista. Ha voluto prenderla lui la medaglia d’oro che spetta al ministro più cinico dell’anno.
E il resto della politica? E i liberali? E la sinistra? Si, lo so, lo so, non portano voti i detenuti. Anzi, cacciano via i voti delle persone per bene che vogliono che i carcerati stiano lì, serrati nelle celle, e dicono che se i detenuti non vogliono mangiare affari loro: crepino. Lo so, me lo ricordo. Però penso che tanti anni fa, quando in Italia infuriava la mafia e il terrorismo, c’erano dei politici che si occupavano dei carcerati, c’era un parlamento che votava quasi all’unanimità la legge Gozzini che alleggeriva la sofferenza e aumentava la possibilità di uscire.
Quanto tempo è passato? Due secoli, dieci secoli? Come si è dissolto quel fiume carsico della politica che erano le idee, i valori, persino i sentimenti? Oggi il cuore della politica sono i sondaggi. E i sondaggi dicono di lasciare stare le carceri. Muoia Susanna, muoia Azzurra, muoia Andrea. I risultati elettorali mica cambiano.
Piero Sansonetti il 13 Agosto 2023
Morta detenuta in sciopero fame e sete da metà luglio. Angelo Vitolo su L'Identità l'11 Agosto 2023
Una detenuta di origine nigeriane di 43 anni si è lasciata di morire di fame nel carcere di Torino dove era detenuta. A nulla sono servite le sollecitazioni ad alimentarsi da parte dei medici e del personale di polizia penitenziaria. A darne la notizia solo il Sindacato autonomo polizia penitenziaria per voce del segretario regionale del Piemonte, Vicente Santilli.
“Il pur tempestivo intervento dei nostri agenti di polizia penitenziaria di servizio non ha purtroppo impedito la morte della detenuta” racconta Santilli, spiegando che “la donna stava scontando una pena per cui era prevista il termine nell’ottobre 2030. “È deceduta intorno alle 3 del mattino, nell’articolazione di salute mentale presso cui era ristretta e la morte è stata accertata dal personale medico e paramedico del 118, immediatamente chiamato dagli agenti” prosegue Santilli, precisando che “la donna, entrata in carcere poco dopo la meta del luglio scorso, si era da subito rifiutata di assumere alimenti, rifiutava ogni cura e sollecitazione a mangiare e persino i ricoveri in ospedale”.
Il segretario del Sappe Piemonte ricorda poi che “in Piemonte vi sono 13 istituti penitenziari sui 189 nazionali, con la capienza regolamentare regionale stabilita per decreto dal ministero della Giustizia di 3.999 detenuti, ma l`ultimo censimento ufficiale (al 31 luglio 2023) ha contato 4.036 reclusi, che ha confermato come il Piemonte sia tra le regioni d`Italia con il maggior numero di detenuti. Le donne detenute sono complessivamente 160 – conclude – mentre gli stranieri ristretti sono circa 1.600”.
“La situazione sanitaria nelle carceri resta allarmante, come hanno anche confermato in più occasioni anche gli esperti della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria: altro che emergenza superata” dichiarato il segretario generale del Sappe, Donato Capece, ricordando che “secondo un rapporto su ‘Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere’ del Comitato nazionale per la Bioetica, osservando le tipologie di disturbo prevalenti sul totale dei detenuti presenti, al primo posto troviamo la dipendenza da sostanze psicoattive (23,6), disturbi nevrotici e reazioni di adattamento (17,3%), disturbi alcol correlati (5,6%)”.
Una morte per uno sciopero della fame e della sete di cui “nemmeno il garante dei detenuti sapeva nulla – denuncia Riccardo Magi, segretario di Più Europa -. Se le circostanze sono confermate è allucinante la notizia che arriva da Torino. Presenterò un’interrogazione urgente al ministro Nordio, anche per fare chiarezza sulle condizioni di detenzione delle persone con problemi psichiatrici”.
Durissimo sull’accaduto Igor Boni, presidente dei Radicali Italiani: “Inutile cercare singoli responsabili in quel che sta accadendo da tempo nelle carceri italiane. È l’intero sistema che è corrotto, nel senso di guasto per putrefazione, decomposto. Un sistema che porta dietro le sbarre soprattutto persone con problemi psichiatrici, poveri allo stremo, immigrati senza fissa dimora, tossicodipendenti di varie sostanze, per un terzo del totale detenuti in attesa di giudizio definitivo. Ogni storia è diversa tra i detenuti come è diversa per ciascuno di noi che vive fuori. Ma nella sostanza il degrado delle strutture, il sovraffollamento, la commistione di decine e decine di nazionalità ed etnie, la carenza di organici tra la polizia penitenziaria e gli amministrativi, la mancanza di direttori, la carenza di educatori e mediatori culturali, l’assistenza sanitaria in alcuni casi insufficiente, la presenza di un terzo dei detenuti per violazione della legge criminogena sulla droga, rende questi luoghi delle vere e proprie discariche umane”.
“Luoghi – afferma Boni – dove una donna può non assumere liquidi e cibo fino a morire senza che nessuno se ne accorga, senza che nessuno lanci un allarme. Siamo tutti responsabili e dovremmo tutti occuparcene. Per questo da mesi con l’iniziativa di Radicali Italiani #devivedere stiamo aprendo le celle delle carceri italiane a semplici cittadini che vogliano vedere e toccare con mano, annusare il carcere, sentirne i rumori. Capire. Questa donna nigeriana è la punta di un enorme iceberg invisibile che vogliamo vedere e far vedere. Perché si smetta una buona volta di usare la carcerizzazione come unica risposta, si smetta di dire ‘buttate le chiavi’, si smetta di speculare sulla pelle di poveracci per ottenere qualche voto. Si smetta di essere disumani”.
Il dramma l'indifferenza: nessuno sapeva nulla. Donna si lascia morire in carcere a Torino, cibo e acqua rifiutati per settimane: “Voglio solo vedere mio figlio”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'11 Agosto 2023
E’ morta nell’indifferenza di tutti. Nessuno sapeva che Susan John, detenuta di nazionalità nigeriana, rifiutava acqua, cibo e medicine da settimane nel carcere delle Vallette di Torino. Ripeteva sempre la stessa frase: “Voglio vedere mio figlio“. Nulla di più. Stava scontando una condanna a oltre 10 anni, inflitta dai giudici di Catania, per tratta e immigrazione clandestina. Aveva 43 anni. Sarebbe tornata libera nel 2030 ma è morta nel giro di pochi giorni senza che nessuno facesse qualcosa. L’hanno trovata cadavere nella sua cella nelle prime ore dell’11 agosto. Accanto a lei un biglietto con scritto: “Se mi succede qualcosa chiamate il mio avvocato“.
Era arrivata nel carcere del capoluogo piemontese il 21 luglio scorso. Era rinchiusa in un settore speciale della sezione femminile, dotato di quattro celle, riservato alle recluse con problemi psichiatrici o comportamentali. Un reparto dove è previsto il regolare passaggio di medici e un sistema di videosorveglianza h24, di cui si occupa il personale di polizia penitenziaria. Adesso sul decesso la procura di Torino vuole vederci chiaro con il pm che ha disposto l‘autopsia e aperto un fascicolo sulla vicenda. Susan si professava innocente e da quando era arrivata alle Vallette non mangiava e non beveva e rifiutava di essere visitata dai medici. E lo ha fatto per ben 18 giorni senza che nessuno, all’esterno del carcere, fosse a conoscenza di questa vicenda.
“Sono rammaricata, ma dal carcere non ci sono mai giunte segnalazioni relative al caso di questa persona” afferma Monica Cristina Gallo, garante comunale per i diritti dei detenuti a Torino, raggiunta dall’ agenzia ANSA. “I nostri contatti sono regolari – afferma – eppure nessuno ci aveva informato. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Però, almeno, avremmo potuto attivare le nostre procedure e tentare qualcosa”. “Provo rammarico – conclude Gallo – perché le informazioni, in chiave preventiva, andrebbero scambiate. Credo che sia il minimo. Si tratta di salvare delle vite”. Vuole vederci chiaro anche il legale della donna, l’avvocato Manuel Perga: “Dalle prime informazioni che abbiamo raccolto sembra che si sia verificato un crollo psicofisico cui non è stata prestata sufficiente attenzione. Per questo sono perplesso. E arrabbiato. Vedremo gli sviluppi”.
Nello stesso carcere, a poche ore dalla morte di Susan, un’altra detenuta si è tolta la vita. Si tratta di una giovane donna italiana, 28 anni, che era stata trasferita a fine luglio da Genova. Il suo è il 43esimo suicidio del 2023 nelle carceri, 16esimo solo tra giugno e agosto. Sovraffollamento e, in estate il caldo, spiega Antigone rendono ancora più drammatica la situazione dei detenuti “non è un caso che, durante i mesi estivi, proprio il numero dei suicidi cresca”, osservano dalla associazione che ricorda come nelle carceri italiane siano detenute 10mila persone in più dei posti disponibili con un tasso di sovraffollamento del 121%. Preoccupati i sindacati: il Sappe afferma che i due decessi in poche ore nel carcere di Torino “impongono al Ministro della Giustizia Carlo Nordio un netto cambio di passo sulle politiche penitenziarie del Paese”. “E’ necessario – afferma il segretario generale, Donato Capece – prevedere un nuovo modello custodiale. Le carceri sono in ebollizione da mesi”. Per Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, “a fronte di un’emergenza che appare insanabile non possiamo che ribadire l’estrema urgenza di provvedere a un commissariamento del sistema penitenziario italiano”.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Estratto dell’articolo di Luca Monaco per “la Repubblica” domenica 13 agosto 2023.
«Aspettavo di vederla al colloquio la prossima settimana — dice la madre — ero molto preoccupata per le sue condizioni: l’ultima volta che ci siamo parlate in video chiamata mi ha detto: “Mamma non ce la faccio più”». È distrutta Monica Campari, la madre di Azzurra, la 28enne che venerdì è stata trovata impiccata in una cella del carcere femminile Lorusso e Cutugno di Torino.
Campari, originaria di Riva Ligure, il Comune di 2 mila abitanti in provincia di Imperia, era detenuta dal maggio scorso, stava scontando un cumulo di pene comminate per dei reati contro il patrimonio commessi 10 anni prima, come il furto di una bicicletta, l’oltraggio a pubblico ufficiale: effetti della tossicodipendenza.
Azzurra aveva troncato i rapporti con il padre ormai anni fa, tanto che appena diventata maggiorenne aveva deciso di prendere il cognome della madre. «Conviveva con un grande dolore», racconta una sua ex compagna di cella. Campari non era nuova ai gesti di autolesionismo, prima della detenzione era in cura al Serd. […]
Era arrivata a Torino dalla casa circondariale di Genova-Pontedecimo il 29 luglio. Sarebbe tornata in libertà nel marzo del 2025. Oltre alla madre, una donna di 50 anni che si guadagna da vivere come colf, Campari lascia un fratello. […] «Assisto Azzurra da tempo — afferma l’avvocato Marzia Ballestra — era una ragazza che doveva essere seguita con particolare attenzione ».
La pm della procura di Torino Chiara Canepa ha aperto un fascicolo di indagine a carico di ignoti per istigazione al suicidio. È un tecnicismo che permette di poter disporre un’autopsia: l’incarico al medico legale verrà conferito domani. L’attenzione degli inquirenti si concentra adesso sulla dinamica del suicidio.
Campari era detenuta nell’articolazione per la tutela mentale (Astm), in una cella singola, video sorvegliata. Era noto a tutti che la 28enne soffrisse di problemi psichiatrici e che per questo andasse monitorata con attenzione. Cosa che non è accaduta. Come non è stata evitata la morte di Susan John, la 42enne nigeriana condannata a 10 anni e quattro mesi per tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione. Dopo l’arresto, il 22 luglio, la donna ha smesso di bere e di mangiare chiedendo rivedere il figlio di tre anni. […]
"A Rebibbia un educatore ogni 150 reclusi". “Il carcere è obsoleto, Susan voleva solo vedere il suo bambino. Un detenuto in comunità costa meno che in cella”, parla Rita Bernardini. Roberto Giachetti su Il riformista il 18 Agosto 2023
Rita Bernardini è una storica militante radicale, Presidente di “Nessuno tocchi Caino”. La battaglia per il mondo carcerario, per i diritti dei detenuti, è stata una battaglia condotta con forza da Marco Pannella. E in Rita c’è la stessa determinazione, la stessa passione, la stessa dedizione che si traduce in visite quotidiane nelle carceri non solo per capire quale sia la condizione dei detenuti e dei “detenenti” (copyright Pannella), ma anche quali possano essere i modi attraverso i quali rendere più dignitosa la vita di tutti i reclusi.
In questi giorni si parla stranamente molto di carcere: forse perché ci sono stati tre suicidi in poche ore o perché essendo Ferragosto le notizie scarseggiano. La vicenda di Susan, detenuta nel carcere di Torino, morta dopo uno sciopero della fame e della sete, quindi largamente prevedibile, al contrario di chi si mette un cappio al collo e si suicida, come la definiresti?
«È l’orrore del silenzio, anche delle istituzioni. Questa donna chiedeva di poter vedere il suo bambino, capisci? È mancato il dialogo, i garanti non sono stati informati. Susan si trovava in una zona del carcere, l’articolazione di salute mentale, “isolata”. Ha rifiutato il ricovero in ospedale. Occorreva quindi che tutti fossero mobilitati, dal garante, agli psicologi, per tentare di salvarla. Ma questo non è stato fatto e Susan è morta nel silenzio. Questa vicenda ti dà la cifra di quello che è diventata (e peggiora ogni giorno di più) questa istituzione obsoleta che è il carcere».
Vorrei che tu ci parlassi di un’esperienza, quella del gruppo “Le ragazze di Torino”. Un gruppo che è molto attivo, che ha fatto molte battaglie e che ha sposato un’iniziativa che tu hai ideato e io ho presentato in Parlamento, che è quello della Liberazione Anticipata Speciale.
«Sì, sono molto attive dentro il carcere, ma anche fuori, perché Marina e Stefania, le prime che si sono messe in contatto con me, finalmente sono uscite dal carcere e stanno lavorando, ma non si sono dimenticate delle loro compagne. Mara Marina, così le piace essere chiamata, si sta anche laureando, oltre che lavorare: sta facendo un percorso eccezionale. Chiedono spesso che tu le vada a trovare, sei il loro idolo».
Appena potrò camminare. Il fatto che Marina e Stefania lavorino non dovrebbe essere un’eccezione perché è quello che la nostra Costituzione prevede: se si finisce in carcere o si accede a pene alternative perché si è commesso un reato, dovere dello Stato e della comunità è di recuperare queste persone per consentire il loro reinserimento nella società.
«È previsto proprio dall’ordinamento penitenziario con i Consigli di aiuto sociale che però non ci sono: dal 1975 nessun Governo ha mai voluto attivarli senza peraltro mai abrogare le norme che li prevedono. È la legge, lettera morta».
Se in carcere ci fossero le persone che ci devono stare e non ci fossero le tante persone che non dovrebbero starci, il problema del carcere in questo paese non esisterebbe o addirittura ci sarebbero energie e risorse per consentire che diventi molto di più un luogo di recupero e di reinserimento sociale. Penso ai tossicodipendenti o ai tanti casi psichiatrici che sono reclusi perché non c’è l’alternativa.
«Certo e accanto a questo va considerato l’errore di aver smantellato o depotenziato i centri di salute mentale sul territorio e i SERD. Così nessuno intercetta più i casi critici per fare prevenzione. Il tutto per “risparmiare”, scaricando il disagio sociale sulla collettività e, alla fine, spendendo molto di più».
Vedo un problema di fondo però, che è nelle istituzioni: il Ministro Nordio di fronte a quello che è accaduto ha fatto delle dichiarazioni che a me hanno fatto venire la pelle d’oca. Per risolvere il problema del sovraffollamento Nordio vuole utilizzare le caserme. Io sono d’accordo con i sindacati degli agenti di custodia, che hanno detto sì, ma hanno chiesto di avere ulteriore personale apposito. Servono soggetti qualificati per gestire una situazione che diventa ancora più complicata. In generale penso che la via sia però opposta: noi dobbiamo fare in modo che in carcere ci siano meno persone possibili, cioè che ci siano tutta una serie di alternative al carcere che consentano di espiare la pena, soprattutto per coloro che devono starci poche settimane, pochi mesi, forse anche pochi anni.
«Il ministro Nordio, purtroppo, fino a questo momento ha fatto tutto il contrario di quello che ha detto in questi anni. Ma vediamo il bicchiere mezzo pieno. Il suo messaggio, inviato alla comunità penitenziaria dei 189 istituti, è stato un’innovazione; io non ricordo Ministri della Giustizia che si siano rivolti con un messaggio alla popolazione che abita le carceri; quindi, questa è una cosa sicuramente positiva. L’altra cosa positiva è l’impegno che ha preso pubblicamente di aumentare le telefonate che i detenuti possono fare, non è secondario anche se pensiamo al numero dei suicidi e degli atti di disperazione che si verificano nelle carceri. E poi Veniamo alle caserme. Tutti i Ministri della Giustizia, quando si trovano di fronte al problema del sovraffollamento, soprattutto nelle dichiarazioni fatte all’inizio del mandato, propongono di usare le caserme, come se fosse un problema solamente di avere un luogo fisico e come se quel luogo fisico non dovesse essere poi abitato da tutto il personale che è previsto. Questa sciocchezza in realtà potrebbe non divenirla se questi luoghi (o altri in disuso e di proprietà pubblica) divenissero posti dove i condannati che non hanno una casa possano scontare la detenzione domiciliare».
Anche perché in galera ci sono anche molte persone che potrebbero tranquillamente stare agli arresti domiciliari ma che non possono semplicemente perché non hanno una casa.
«L’altro giorno nella visita a Rebibbia ne ho incontrati diversi. Inoltre, potrebbe essere importante per i detenuti meno pericolosi, tossicodipendenti o altre categorie, tornare a un modello simile agli Istituti a Custodia Attenuata, che non richiedono molte forze dell’ordine, ma personale sicuramente qualificato dal punto di vista psicologico. Fra l’altro costerebbe meno allo Stato inviare un detenuto in comunità anziché in carcere: andrebbero favorite nuove comunità anche di tipo sperimentale: molte comunità, infatti, non raggiungono l’obiettivo di far uscire le persone da dipendenze problematiche perché sono troppo rigide o perché non hanno personale adeguatamente preparato. Per i malati psichiatrici, a parte le REMS destinate alle misure di sicurezza per coloro che sono stati dichiarati incapaci di intendere e di volere al momento della commissione del reato, occorre prevedere comunità terapeutiche assistenziali come quelle che ci sono in Sicilia che sono piccole (al massimo ospitano 20 persone), hanno personale preparato e fondi regionali destinati (e vincolati) al reinserimento sociale di queste persone. Le soluzioni, se ci si mette al lavoro, ci sono. Il primo obiettivo comunque deve essere combattere il sovraffollamento».
Dal carcere del nuovo complesso di Rebibbia che numeri emergono? Qual è la realtà del carcere romano che hai visitato il giorno di Ferragosto?
«A Rebibbia c’è una bravissima direttrice, la dottoressa Rossella Santoro, tanto è vero che nello sfacelo generale dei 189 istituti penitenziari Rebibbia la collocherei ben oltre la metà classifica.
Ma i numeri sono comunque sconvolgenti: 1506 detenuti per mille posti regolamentari. Il sovraffollamento è del 150%. Tenendo presente che è un grande carcere e che ci sono zone come il 41bis dove il sovraffollamento (purtroppo per loro) non c’è perché sono in isolamento in una cella, in alcune sezioni si arriva anche al 180%, al 200%.
A Rebibbia, 321 detenuti devono scontare da un giorno a un anno a 12 mesi, 314 devono scontare una pena residua che va da un anno a due anni. 246 da due a tre anni
190 da tre a quattro anni. Il totale?
971 persone su 1500, quindi, devono scontare una pena sotto i quattro anni. Il che vuol dire che molti di loro potrebbero accedere a misure alternative. Dati analoghi si registrano per Milano San Vittore che ho visitato recentemente».
E gli educatori?
«10 per 1500 detenuti. Ogni educatore deve farsi carico di 150 detenuti. Non è possibile, non può fare niente, tanto è vero che abbiamo incontrato, nelle sezioni più critiche, persone che l’educatore non l’hanno mai visto, non sanno neanche chi è. Se andiamo a vedere però anche la polizia penitenziaria, qui scopriamo che il personale previsto, le famose piante organiche, è di 815 agenti, però come forza operativa ce ne sono 705, ma da questi bisogna sottrarre il nucleo traduzioni che in sezione non ci sta».
Sono quelli che portano i detenuti nei vari ospedali, processi…
«Esattamente. Poi ci sono le unità dei cinofili, le unità distaccate e scendiamo così a 531, ma di questi 531, 27 sono all’ospedale Sandro Pertini, ma non finisce qui perché ci sono altri 150 funzionari, che in sezione non ci stanno, per cui alla fine scendiamo a 350 unità presenti in sezione per 1500 detenuti! Accade così che il sabato non ci siano più di 20 agenti a presidiare tutto l’istituto. Poi naturalmente non ci sono gli educatori, quindi io ho il sospetto che il sabato gli psicofarmaci circolino di più degli altri giorni, perché bisogna tenere calmi questi 1.500 esseri umani intrappolati. È una situazione esplosiva, drammatica».
Come rispondono gli interlocutori istituzionali?
«L’incontro che abbiamo avuto come “Nessuno tocchi Caino” con il capo del DAP, il Dr. Giovanni Russo, è stato veramente importante, perché ha dimostrato di conoscere questa realtà e sa come bisognerebbe intervenire. Naturalmente in alcuni casi bisognerebbe intervenire con modifiche di legge e lui non può farlo: devono farlo Governo e Parlamento. Credo che sulle telefonate il Ministro Nordio abbia ascoltato il capo del DAP, io chiedo al Ministro di ascoltarlo anche su tutto il resto».
Intanto, alla ripresa dei lavori, sarebbe ora che il Parlamento si facesse carico di intervenire, per esempio calendarizzando la legge sulla liberazione anticipata speciale.
«E quella di riforma della liberazione anticipata prevista dall’ordinamento penitenziario. Prevede, in sintesi, che si passi dai 45 giorni (già previsti ogni semestre di pena) a 60 giorni di liberazione anticipata per tutti i detenuti che hanno avuto un buon comportamento in carcere. Prevede inoltre che sia direttamente l’istituto a concederla e non il magistrato di sorveglianza già oberato da molte incombenze. L’altra proposta, di liberazione anticipata “speciale”, è di 75 giorni ogni semestre, soprattutto per compensare i due anni terribili che i detenuti hanno vissuto con il COVID». Roberto Giachetti
Mattanza di Stato. Chi è Azzurra Campari, la 28enne si è tolta la vita in carcere. Il fratello Mirko: “Ho letto molte bugie”. La giovane è stata una delle tante vittime dell'insano sistema penitenziario italiano. Troppi i detenuti che si tolgono la vita nelle celle del Belpaese. Il chiarimento del fratello con un post pubblicato su Facebook. Redazione Web su L'Unità il 14 Agosto 2023
Chi è Azzurra Campari la 28enne suicida nel carcere di Torino. Innanzitutto non era una tossicodipendente. Come se esserlo fosse una colpa. E non aveva neanche abbandonato gli studi. A chiarirlo, smentendo diversi articoli pubblicati in questi giorni dalla stampa, è stato il fratello della giovane, Mirko Campari. Quest’ultimo lo ha fatto attraverso un post pubblicato su Facebook. Il giovane ha anche specificato che la madre ha visto l’ultima volta la figlia in carcere, in presenza e non in video chiamata, lo scorso 5 agosto. Inoltre, la donna non ha rilasciato alcuna dichiarazione a nessuna testata giornalistica.
Chi è Azzurra Campari
Dunque, Azzurra vittima due volte: dello Stato e dello sciacallaggio mediatico. La 28enne è stata la seconda vittima in un giorno. Si è tolta la vita nel carcere di Torino. Con lei l’ha fatto anche Susan John. Il duplice suicidio ha fatto scattare l’allarme in via Arenula e costretto il Ministro dell'(In)Giustizia Carlo Nordio a correre presso il penitenziario piemontese per un’ispezione. Azzurra era una ragazza dolce e sensibile ma dal carattere forte. È cresciuta in provincia di Imperia insieme al fratello e solo con la madre. Il papà è andato via di casa molto tempo fa e con lui la 28enne non ha mai stretto un buon rapporto.
Il post del fratello Mirko
“Sono Mirko Campari, il fratello di Azzurra Campari, la ragazza di 28 anni deceduta nel carcere di Torino venerdì scorso. Purtroppo molti giornali stanno scrivendo parecchie cose non vere in alcuni dei loro articoli. Ho provato a mandare delle email ad alcune testate per chiarire quali punti fossero imprecisi o totalmente errati, ma senza risultato: né rettifica, né risposta. Anzi, gli errori sono stati “copia/incollati” da una testata giornalistica all’altra e alcune menzogne stanno piano piano diventando “verità” (nel senso che si continua a divulgare il falso e sempre più gente lo scambia per vero).
Ritengo importante chiarire alcuni punti:
– Mia sorella Azzurra non era tossicodipendente. Mi sono chiesto come questa cosa fosse potuta saltare in mente a chi l’ha scritta, poi ho pensato che probabilmente lo hanno collegato al fatto che andasse al SERT. Bene, per chi non lo sapesse al Sert va anche chi ha alcune problematiche psicologiche non collegate all’utilizzo di droga/alcool et similia, ed era il caso di mia sorella. Inoltre, se davvero fosse stata tossicodipendente avrebbe potuto scontare la sua pena in una comunità di recupero e quindi non si sarebbe trovata in carcere.
-Mia sorella non ha abbandonato l’istruzione, si era iscritta all’Ipc di Sanremo e ha lasciato al primo anno, ma in seguito ha ottenuto una qualifica di terza superiore presso Aesseffe a Sanremo.
– Nostra madre Monica non fa la colf ma un altro lavoro.
– Alcuni giornali dicono che nostra madre ha visto per l’ultima volta Azzurra in videochiamata, in realtà mia madre era stata in visita (di presenza quindi) nel carcere di Torino il 5 agosto.
– Nostra madre, allo stato attuale delle cose, non ha parlato con nessun giornalista. Eppure, molti articoli menzionano addirittura dei virgolettati di frasi che nostra madre “avrebbe” pronunciato (…)
Ci sarebbero altri errori e imprecisioni da segnalare, ma per il momento mi vorrei fermare qua. Qualora dovessi cambiare idea o dovessero uscire fuori altre falsità aggiornerò il post. Grazie per chi vorrà condividere“. Redazione Web 14 Agosto 2023
Cucchi: "Presenterò interrogazione a ministro Nordio". Donna muore a Rebibbia, era lì da poche ore e dopo un malore è stata lasciata sola in cella: “Così si perde la vita nelle carceri italiane”. Francesca Sabella su Il Riformista il 7 Marzo 2023
È morta da sola, in una cella, isolata dal mondo di fuori e dal mondo di dentro. Camilla (nome di fantasia) è stata trovata morta questa mattina nel suo letto nel carcere di Rebibbia. Aveva 47 anni e da tre giorni era detenuta nel penitenziario romano, si trovava in isolamento sanitario in base alle norme sul Covid-19. “La detenuta, con gravi problemi di tossicodipendenza, ieri pomeriggio ha accusato un malore. Intorno alle 23.30 – ha riferito la garante per i detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni – è stata visitata in carcere dal medico ma è poi rimasta in cella, sempre in isolamento. Questa mattina è stata trovata nel letto priva di vita. Questo grave episodio conferma che soggetti con patologie di questo tipo non possono essere “assorbite” e curate dal carcere”.
Camilla è morta, certo ancora non si sa perché e se forse qualcosa di più per salvarla poteva essere fatto. Magari affiancarle un piantone che potesse monitorarla e aiutarla in caso di un altro malore, viste la già precarie condizioni di salute. Magari trasferirla prima in ospedale e poi in carcere o magari non portarcela proprio in carcere. La questione di detenuti con problemi di dipendenza da droga o alcol o con problemi psichici in carcere è seria e grave.
Questi soggetti non dovrebbero proprio entrarci in carcere, dove mancano medici, psicologi e personale adeguato, ma dovrebbero entrare in strutture ospedaliere specializzate nella cura di queste patologie e nell’accoglienza dei detenuti. Ora saranno le indagini a chiarire la morte di Camilla, ma quel che è chiarissimo è che il sistema penitenziario cosi com’è non rieduca, non reinserisce nella società, non rende migliori, spesso uccide.
“Oggi a Roma, nel carcere femminile di Rebibbia, è stata trovata senza vita nella sua cella una donna di 47 anni. Era in carcere da soli 3 giorni in isolamento sanitario in base alle norme sul Covid-19 e ieri si era sentita male. Dopo un breve accertamento è stata lasciata sola in cella, e oggi la tragedia. Morta come si muore nei Paesi dove lo Stato di diritto è negato. Morta, come si muore nelle carceri italiane. Un fatto gravissimo sul quale sto presentando un’interrogazione al Ministro della Giustizia per verificare se ci possano essere stati errori o sottovalutazioni. Dobbiamo fermare questa strage. È una strage senza fine” afferma la senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi.
Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Il dramma nel silenzio. Lasciata morire da sola in sciopero della fame e della sete, il carcere è solo infamia. Ma le autorità? Lo sapevano? E se lo sapevano perché non hanno informato il garante dei detenuti e i giornali e le Tv? Perché non si è aperto un caso? Piero Sansonetti su L'Unità il 12 Agosto 2023
Si chiamava Susan John. Interessa a qualcuno il suo nome? Figuratevi: non solo era detenuta ma era anche nigeriana. Diciamo pure: negra. E vi pare che possa interessare a qualcuno sapere come si chiamasse una detenuta negra? È morta ieri mattina alle 3. Di fame e di sete.
Ce l’hanno detto quelli del sindacato delle guardie carcerarie. Cioè: non ce l’ha detto lo Stato. Eppure era lo Stato che l’aveva in custodia, è lo Stato che doveva rispondere della sua vita e della sua incolumità. Non ha risposto. Non ho letto neppure una frase di cordoglio, un telegramma, un tweet, del ministro o del capo del governo, o almeno del prefetto, del sindaco, del Presidente della Regione. Mi sarà sfuggita. E’ morta dopo meno di trenta giorni di sciopero della fame.
Diceva di essere innocente, voleva tornare dai suoi bambini, aveva 43 anni, due figli piccoli. L’hanno accusata di aver fatto parte di una organizzazione che sfruttava la prostituzione e l’hanno condannata a sette anni. Lei si ostinava a dire di no, che non era colpevole. Lo Stato ha sostenuto che forse era pazza, però ha deciso non di curarla ma di metterla in un reparto speciale di una prigione torinese. E quando lei ha iniziato a fare lo sciopero della fame se ne è infischiato. Ha pensato: vedete che è pazza! Si, i medici, le guardie carcerarie, persone per bene, hanno fatto quel che hanno potuto, a quanto ne sappiamo. Hanno cercato di convincerla a smettere di digiunare. Lei era ostinata, decisa. Forse sperava che qualcuno intervenisse a suo favore. Illusa. Ma le autorità? Lo sapevano? E se lo sapevano perché non hanno informato il garante dei detenuti e i giornali e le Tv? Perché non si è aperto un caso?
Io chiedo questo, a voi persone magari appena un po’ ragionevoli: ma se una signora che dice di essere innocente, che sicuramente, peraltro, non ha ucciso nessuno, che ha due bambini a casa, se inizia a digiunare e mette sul piatto la sua vita – la vita, dico, la vita! – ma voi persone di buonsenso cosa fate? La lasciate morire o le mettete un braccialetto elettronico e la mandate a casa? È possibile che l’autorità, tra la vita e un puntiglio legalitario, scelga il puntiglio legalitario? C’è qualcosa che assomiglia al Diritto – nel senso pieno di questa parola – in questo osceno legalitarismo? Le prigioni sono una infamia prodotta da una modernità che non riesce a liberarsi del suo medioevo.
Sono solo un modo per assicurare ai buoni che loro sono buoni. Tranquilli. Godete pure dei cattivi che soffrono. Sono ideologia pura, della peggior specie. Sono morte, illegalità, violazione del diritto, cinismo, farabuttaggine. E hanno fatto di nuovo il loro lavoro, hanno lasciato morire Susan, nel silenzio generale. Vedete che funzionano!. Se è un suicidio è il sedicesimo in 70 giorni. Non vi vergognate almeno un po’?
P.S. Toc toc. Esiste ancora un palazzo della politica? A questo palazzo le carceri interessano? Susan? È un tema che non porta voti, quindi verboten? Piero Sansonetti 12 Agosto 2023
Detenuto si impicca in cella nel carcere di Rossano. A nulla sono valsi i soccorsi della polizia penitenziaria e dei sanitari prontamente intervenuti. Il recluso era originario di Lamezia Terme. Il Dubbio il 13 agosto 2023
Un uomo, detenuto nel carcere di Rossano, in Calabria, si è suicidato ieri mattina impiccandosi nella sua cella. A darne notizia è l'organizzazione sindacale Uilpa polizia penitenziaria. Gennarino De Fazio, Segretario Generale afferma: «Aveva 44 anni, originario di Lamezia Terme, era detenuto per reati connessi al traffico di stupefacenti». «A nulla sono valsi i soccorsi della polizia penitenziaria e dei sanitari prontamente intervenuti», aggiunge, «mentre il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, esterna improbabili e confuse teorie a Torino, in carcere la carneficina non si ferma».
«Con questo sono 47 i suicidi di detenuti in carcere nel corso del 2023, cui bisogna aggiungere altre morti le cui cause sono incerte, e un omicidio, nonché un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria che parimenti si è tolto la vita», aggiunge De Fazio. «A fronte di tutto ciò, è inaccettabile che il Guardasigilli continui a teorizzare confusamente senza produrre nulla di concreto», continua, «per questo invochiamo nuovamente l’interessamento diretto del Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, affinché si prenda atto dell’emergenza e si vari un decreto carceri per affrontarla attraverso immediate assunzioni straordinarie. Alla Polizia penitenziaria mancano 18mila unità, dotazione di equipaggiamenti e revisione del modello custodiale anche con riferimento ai reclusi malati di mente. Parallelamente, inoltre, il Parlamento dovrebbe approvare una legge delega per la re-ingegnerizzazione dell’apparato carcerario e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria. Il resto è solo un placebo».
Il 'mostro di cemento'. Il carcere di Montorio a Verona, l”inferno’ dove Cristian Mizzon ha perso la vita: la notizia della morte pubblica dopo 4 giorni. Tante le denunce degli attivisti che da tempo segnalano le condizioni disumane alle quali i detenuti sono condannati. L'ultimo tragico caso di cronaca: la morte del 44enne. Quest'ultima si è saputa ben 4 giorni dopo il decesso. Ed è diventata di dominio pubblico grazie all'associazione 'Sbarre di zucchero'. L'attivista Micaela Tosato: "Nel penitenziario è assente il lavoro, c'è la 'terapia facile' e mancano le docce: in 20-25 devono farla e condividerla in un'ora soltanto". Andrea Aversa su L'Unità il 17 Agosto 2023
L’ultima vittima è stato Cristian Mizzon. Aveva 44 anni e una storia fatta di fragilità e solitudine. Un mix mortale quando ci si ritrova dentro un carcere. Quando si è costretti a condividere una cella con altre 4-5 persone (se sei fortunato). Quando non si riesce a lavorare. Quando non si è assistiti adeguatamente. Quando il silenzio prevale su tutto, anche sulla giustizia. Mizzon è deceduto durante la notte di martedì scorso.
Il carcere di Montorio a Verona
I suoi compagni di cella l’hanno trovato senza vita il mercoledì mattina. La notizia è stata resa pubblica solo domenica. E non dalle istituzioni. Il caso è emerso grazie al passaparola tra i detenuti, grazie al lavoro instancabile dei volontari dell’associazione ‘Sbarre di zucchero‘, grazie all’informazione di Radio Carcere. Sul caso vi sono i dovuti accertamenti in corso. Il 44enne sarebbe morto per un’overdose causata da farmaci. Si sospetta l’ennesimo suicidio.
Il caso Mizzon
Il carcere di Montorio a Verona presenta le criticità che purtroppo caratterizzano la gran parte (se non tutti) dei penitenziari d’Italia. Sovraffollamento, strutture fatiscenti, servizi igienici vergognosi, mancanza di acqua calda, scarsa assistenza sanitaria, la quasi assenza di educatori, poche attività ricreative e lavorative, polizia penitenziaria in sotto organico. È questo il contesto nel quale è avvenuta la morte di Mizzon.
Silenzio e ingiustizia
Scenario nel quale, solo tre settimane fa (a fine luglio), è scoppiata una rivolta culminata in un incendio che ha intossicato degli agenti. Eppure, se non fosse per i volontari e le associazioni, tante informazioni resterebbero nascoste. Perché si preferisce il silenzio alla verità. L’ingiustizia alla giustizia. Come è possibile che la morte di una persona in custodia dello Stato, diventi di dominio pubblico dopo ben quattro giorni? Siamo in attesa che chi di dovere fornisca delle risposte.
I volontari
Montorio è il carcere dove si è tolta la vita Donatella Hodo. Per l’attivista Micaela Tosato nel penitenziario di Verona, “sono due le emergenze che meriterebbero particolare attenzione. La prima è quella dell’assenza di lavoro. La cooperativa che si occupava di organizzare le attività professionali nel carcere è stata fatta fuori dopo tanti anni di collaborazione. Il motivo? Anomalie fiscali emerse, così, improvvisamente. Poi c’è l’abuso della terapia, con la somministrazione troppo facile di farmaci pesanti. Ma non è da trascurare la questione igienico – sanitaria: sono solo due le sezioni che hanno la doccia in cella. Immaginiamo 20-25 persone che in un’ora devono farla e condividerla“. Andrea Aversa 17 Agosto 2023
Da giugno già 11. Carceri, in 7 mesi già 39 suicidi in cella: “Con l’estate aumentano gli episodi, urgono provvedimenti”. Redazione Web su L'Unità il 21 Luglio 2023
L’ultimo è un 30enne che aveva subito la mattanza a Santa Maria Capua Vetere. Di volenza ne ha vista. Non ce l’ha fatta: ha preferito togliersi la vita nella sua cella. E’ il 29esimo dall’inizio del 2023, ma i numeri in estate stanno già aumentando. L’ultima vittima per questa strage di stato che nel 2022 ha fatto 85 morti, si chiamava Fakhri Marouane. È morto nelle scorse ore mentre si trovava al Policlinico di Bari dove era stato ricoverato a fine maggio, dopo essersi dato fuoco mentre si trovava nel carcere di Pescara. Il ragazzo, di 30 anni, era testimone al processo per quella che è stata definita la “mattanza” del carcere di Santa Maria Capua Vetere quando, il 6 aprile 2020, decine di detenuti subirono violenza da parte di agenti di polizia penitenziaria. Fakhri era uno di coloro che quelle violenze le aveva subite. A raccontare la sua storia è Antigone.
“Il suo suicidio è un fatto tragico – dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – L’ennesimo fatto tragico che interessa le carceri italiane dove, dall’inizio del 2023, si sono suicidate già 39 persone detenute. Un numero ancora una volta enorme che prosegue nella scia di quello registrato nel 2022, quando furono 85 le persone a togliersi la vita in un istituto di pena”.
“Ancora una volta – prosegue Gonnella – l’arrivo dell’estate sta facendo registrare un aumento di questi episodi. Dall’inizio di giugno se ne contano già 11. L’anno scorso, solo il mese di agosto furono 16. Per questo c’è bisogno di provvedimenti immediati e urgenti: riempire la vita nelle carceri di attività anche in questi mesi, garantendo l’accesso di volontari; dare alle persone detenute la possibilità di effettuare telefonate e videochiamate ogni giorno con i propri cari; contro il caldo garantire la presenza di ventilatori e frigoriferi nelle celle. Il grande numero dei suicidi registrato lo scorso anno aveva acceso l’attenzione sul mondo delle carceri, c’è bisogno di tornare a parlarne e garantire che, questa volta, le buone intenzioni si trasformino in atti concreti”, conclude il presidente di Antigone. Redazione Web 21 Luglio 2023
La tragedia dei suicidi in cella. Meglio uccidersi che vivere in carcere: nessuna rieducazione, resta solo la punizione. Giuseppe Belcastro, Cesare Gai su Il Riformista il 28 Aprile 2023
Prosegue a ritmo serrato il macabro conteggio. Dall’inizio di questo 2023, 16 esseri umani, 16 persone, detenute e perciò affidate alla cura dello Stato, hanno deciso che è meno gravoso uccidersi che vivere in carcere. Toglie il fiato, pensarci. È ancora nell’aria l’eco di un tempo politico recente nel corso del quale buttare la chiave è stata la parola d’ordine di improvvisati pensatori del diritto e del processo. Ma, passato quel tempo, pensavamo che la nuova temperie culturale avrebbe finalmente messo a fuoco l’acuta tragicità del “tema dei temi”, provando almeno a ragionare seriamente su come ricucire la ferita che il carcere italiano infligge ogni giorno da decenni alla Carta Costituzionale.
Siamo i primi a ritenere che il carcere rappresenti talvolta la risposta istituzionale alle esigenze di tutela della collettività, ma viene da chiedersi se la deriva che negli ultimi tempi ha contraddistinto la gestione delle strutture penitenziarie non esprima la completa sconfitta di quel principio costituzionale scolpito nell’art 27 che ormai sembra dimenticato. Si sta sempre lì a salmodiare sulla necessità di contenere il sovraffollamento, di fare prevenzione, di rendere più dignitosa la disgraziata esistenza di chi, talvolta suo malgrado, con questa terribile esperienza ha avuto in sorte di confrontarsi. È come se, nell’idea collettiva, ci fosse ancora tempo per parlarsi addosso, senza avere ben chiaro di cosa si stia effettivamente discutendo, non solo nelle prospettive tecniche che una discussione di questo tipo inevitabilmente comporta, ma pure negli aspetti più semplicemente umani.
In questo tempo sospeso viviamo noi, avvocati penalisti, che con la sofferenza di questi luoghi si confrontano ogni santa mattina, assorbendo il dolore di chi sta dentro una cella ma pure di chi, stando fuori, è comunque detenuto: i figli, le mogli, i mariti, le madri, i padri, i fratelli, le sorelle di questi ultimi della terra. Ma è solo per questo peso sul cuore che la Camera Penale di Roma, al congresso UCPI di Pescara, ha reiterato ancora una volta una mozione che impegna la Giunta dell’Unione a operare perché tornino nell’agenda politica quei provvedimenti di clemenza che il disastro delle carceri italiane impone. Amnistia e indulto sono un impegno indifferibile. Ed è per lo stesso motivo che vorremmo restasse sempre acceso il riflettore su quel ganglio giurisdizionale deputato al funzionamento dell’esecuzione penale che è la Giurisdizione di Sorveglianza e che invece, nel nostro Distretto, è letteralmente al collasso.
A nulla sono valse le astensioni, le proteste e le plurime interlocuzioni tentate con la locale magistratura di sorveglianza per provare a garantire alla pena la sua finalità rieducativa, mentre occorre tristemente prendere atto che una delicata materia quale quella dell’esecuzione penale venga relegata ai margini della giurisdizione, trascurata in termini di risorse e resa ancora meno accessibile attraverso scelte sconsiderate che precludono al difensore qualsiasi tipo di attività in grado di agevolare la decisione del Magistrato o del Tribunale di Sorveglianza. Sappiamo delle carenze di risorse anche umane in cui il Tribunale di Sorveglianza naviga, ma questo non ci allevia quel peso sul cuore, tanto più nei casi in cui, nelle pieghe di quei deficit, si annidano sicuri alibi per l’insipienza; e, ahinoi, ne abbiamo quotidiana prova.
Abbiamo indetto ancora un’assemblea dei soci per il 3 maggio e discuteremo su altre iniziative che alimentino la riflessione su una nuova idea della esecuzione penale e releghino il carcere al ruolo di parte del tutto; una parte, auspichiamo, sempre meno rilevante. Discuteremo del Tribunale di Sorveglianza e della necessità che qualcuno riesca a farlo funzionare. Ma non è più il tempo di approcciare la questione come fosse materia per iniziati: è fuori dalle aule e dai convegni che occorre parlare del carcere, di cosa sia, di cosa dovrebbe essere. È fuori dalle aule che occorre far capire alla collettività che quelli dentro sono esseri umani, tali e quali a noi, con il loro carico di sciagura e molta meno fortuna e che, anche quando hanno sbagliato, non meritano il degrado in cui li abbiamo costretti. Serve un sussulto di coscienza, uno scatto di reni. Non ci sarà forse, nemmeno stavolta. Ma noi continueremo a chiederlo in ogni modo che ci sia consentito. Non siamo noi a girare il chiavistello alla sera serrando le sbarre, ma quel peso sul cuore ci rende questa storia così gravosa che a volte ce ne dimentichiamo.
Giuseppe Belcastro, Cesare Gai
Estratto dell’articolo di Federica Cravero per la Repubblica il 27 aprile 2023.
Sono stati condannati a 8 e 9 mesi di carcere tre agenti della polizia penitenziaria di Torino ritenuti responsabili della morte di Roberto Del Gaudio, che si è suicidato il 10 novembre 2019 impiccandosi al finestrone della cella del carcere Lorusso e Cutugno in cui era rinchiuso per aver ucciso la moglie pochi giorni prima. Era un detenuto a rischio, Del Gaudio, e avrebbe dovuto essere controllato a vista.
Invece nessuno degli agenti in servizio si accorse di lui mentre verso le dieci e mezza di sera si mise ad armeggiare per diversi minuti con i pantaloni del pigiama per creare un cappio. Eppure c’era una sala video con un monitor che inquadrava le 19 celle di quella sezione in cui c’erano i detenuti a rischio suicidio o avrebbero potuto vederlo passando di persona nel corridoio. Perché allora nessuno lo vide? “Si era rotto lo schermo, era caduto dal muro a cui era attaccato”, è stata la difesa degli imputati, assistiti dall’avvocato Marco Feno.
(...)
E di fronte a tutti questi interrogativi le indagini dei carabinieri, coordinate dai pm Giulia Marchetti e Francesco Pelosi, avevano avanzato una possibile ricostruzione, ovvero che gli agenti in servizio stessero guardando la partita Juventus-Milan, quando Del Gaudio si è ucciso. Un sospetto avanzato seguendo i tempi dell’intervento: quando si accorgono del corpo senza vita del detenuto appeso alla finestra l’incontro di calcio è finito da pochi minuti.
E poi ci sono le intercettazioni raccolte nell’ambito di un’altra inchiesta, quella sulle torture al padiglione C. Sono proprio dei colleghi a dare una lettura di cosa possa essere accaduto quella sera, facendo riferimento alla prassi di inserire la scheda della pay tv nel monitor del circuito di videosorveglianza quando c’erano delle partite di Serie A. A chiedere di fare luce su quanto accaduto a Del Gaudio c’era anche il legale della famiglia, Riccardo Magarelli, e l’avvocato Davide Mosso, che si è costituito parte civile per il garante nazionale dei detenuti.
(ANSA il 20 aprile 2023) - Il governo italiano ha riconosciuto davanti alla Corte europea dei diritti umani che le autorità dello Stato sono responsabili del suicidio di un detenuto, Anas Zemzami, avvenuto nel carcere di Pesaro il 25 ottobre del 2015: in una comunicazione alla Corte di Strasburgo Roma afferma di aver violato il diritto alla vita e a non subire trattamenti inumani e degradanti di Anas Zemzami, e che verserà alla sorella 32mila euro per danni morali e altri 1.000 per coprire le spese legali che ha sostenuto.
A perorare la causa di Anas Zemzami alla Cedu è stata proprio la sorella. Il 2 marzo del 2020 ha presentato un ricorso in cui sosteneva che le autorità non avevano preso tutte le misure necessarie a proteggere la vita di Anas e che le indagini sulla sua morte sono state inefficaci. Inoltre la donna afferma che le autorità carcerarie, attraverso il trattamento riservato al fratello prima del suicidio, e in particolare la presunta incapacità di fornirgli cure mediche tempestive e adeguate, l'hanno sottoposto a trattamenti inumani e degradanti.
La sorella di Anas non voleva accettare la dichiarazione di colpevolezza del governo italiano e avrebbe preferito che la Cedu proseguisse l'esame del caso, soprattutto perché Roma non si è impegnata a riaprire un'indagine su quanto è accaduto prima del suicidio di Anas. Ma a questo proposito la Cedu evidenzia che la sua decisione di accettare la dichiarazione del governo non esime le autorità italiane dal loro obbligo di condurre un'indagine approfondita ed efficace per far luce sui fatti, anche in considerazione del fatto che l'Italia ha riconosciuto la violazione dei diritti di Anas.
Il record di suicidi in cella e il boom di baby detenuti. Il sovraffollamento non è l'emergenza primaria. Nordio: "Pene alternative per i reati meno gravi". Stefano Zurlo il 27 Dicembre 2022 su Il Giornale.
C'è stato un momento, all'inizio della pandemia, in cui la situazione, già pesante, è sfuggita di mano. L'8 marzo 2020 nel carcere di Modena scoppia una rivolta: i detenuti saccheggiano la farmacia e si impadroniscono dei flaconi di metadone e psicofarmaci. È una strage con nove morti. Il giorno dopo scene da Sudamerica vanno in scena a Foggia: evadono dalla prigione in settantadue. Un record nel pur disastrato mondo dei penitenziari italiani.
Poi il mondo che sta dietro le sbarre torna nelle retrovie: i problemi non sono risolti, ma chi è fuori ha già i suoi guai e quelli di chi è in cella interessano poco.
Si dice che sia il sovraffollamento l'emergenza numero uno, ma non è così. Non quest'anno che si avvia alla chiusura con un macabro primato che ha fatto indignare l'appena arrivato guardasigilli Carlo Nordio: i suicidi, arrivati ai primi di dicembre a quota 79. Un'ecatombe, un picco che non trova confronti nelle statistiche degli ultimi dieci anni e un valore che è quindici-diciotto volte più alto di quello delle persone libere.
C'è una relazione fra le cifre dei «prigionieri» e il numero di quelli che si tolgono la vita. Ma il legame spiega fino a un certo punto: nel 2021 c'erano stati 58 suicidi, 62 nel 2020 e 54 nel 2019. Dieci anni fa, nel 2012, si erano uccise in cella 56 persone, ma la popolazione carceraria era molto più alta: 66mila persone contro le circa 55mila di oggi.
C'è dell'altro evidentemente: il disagio psichico, la fragilità, la solitudine di molti stranieri, il fatto che circa il 40 per cento dei carcerati faccia uso di psicofarmaci. Colpisce anche un altro dato: 31 detenuti sucidi erano in attesa del giudizio di primo grado.
E allora come interpretare questa strage silenziosa? «Il 62 per cento dei suicidi avviene nei primi sei mesi di carcere - nota il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma - sembra quindi che lo stigma percepito dell'essere approdati in carcere costituisca l'elemento cruciale che spinge al gesto estremo».
Per Nordio c'è naturalmente in cima alla lista la costruzione di nuove carceri: in Italia i tempi per realizzare una struttura sono lunghissimi, almeno dieci anni, e dunque la soluzione che il ministro propone è quella dell'utilizzo delle caserme dismesse. Ma poi c'è il tema incandescente delle pene alternative, particolarmente per i tossicodipendenti che sono circa il 40 per cento dei carcerati. «C'è una mia sensibilità sul punto - spiega il ministro - . Non è detto che ci debba essere necessariamente solo il carcere, soprattutto per i reati che non sono di particolare allarme sociale. Ci sono delle comunità dove la sicurezza è garantita al massimo. Io ho visitato a suo tempo San Patrignano».
Insomma, si cerca di tracciare la strada per uscire da un perenne affanno.
C'è poi, questione dentro una questione più grande, la situazione difficile delle carceri minorili. La rivolta al Beccaria di Milano e la fuga di sette ragazzi porta in prima pagina le difficoltà dei più giovani. C' è una specificità legata al Beccaria, un tempo considerato una prigione modello e oggi in crisi per diverse ragioni: anzitutto, come denunciato dal sindaco Giuseppe Sala, l'assenza di un direttore da vent'anni, con diversi reggenti che hanno fatto quel che potevano in uno stato di precarietà e sospensione. E c'è poi l'eterna questione dei cantieri che vanno avanti da troppo tempo, con lavori iniziati nel 2008 in quello che allora era il reparto femminile. Ancora, è facile immaginare quel che può accadere nella convivenza fra ragazzini di 14-15 anni e i loro compagni più grandi di 25 anni, perché per legge questo è il limite d'età per gli istituti minorili.
Più in generale, questo circuito è riuscito a trasformare la detenzione nell'eccezione: al 15 gennaio 2022 erano 316 i detenuti, solo il 2,3 per cento di quelli in carico ai servizi della giustizia minorile. Ma dopo la flessione legata alla pandemia c'è nel primo semestre del 2022 un aumento del 16,7 per cento di under 18 denunciati, fermati o arrestati. E quasi un terzo delle rapine è opera di giovanissimi.
Suicidio numero 81 dall'inizio dell'anno. Va in carcere e si uccide, dramma a Poggioreale: Francesco aveva 30 anni e due gemellini neonati. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 13 Dicembre 2022
Aveva 30 anni, si chiamava Francesco Terracciano ed era papà di due gemelli nati sette mesi fa il detenuto che si è tolto la vita nella casa circondariale di Poggioreale a Napoli. E’ il suicidio numero 81 registrato nel 2022 in tutte le carceri italiane. Una strage senza precedenti che prosegue indisturbata e nell’indifferenza più totale. Tra suicidi e decessi sono 195 le vittime totali di un anno che terminerà tra poche settimane.
Francesco, che viveva in provincia di Napoli, era in carcere per spaccio dal gennaio 2022, pochi mesi prima della nascita dei due figli. Era recidivo dopo una condanna scontata anni fa. E’ un dramma nel dramma, un inferno che preoccupa poche, pochissime persone. Poco importa se le carceri sono sempre più sovraffollate, se la presenza di educatori, psicologi, medici e personale penitenziario scarseggia, se il nuovo governo ambisce a costruirne di nuovi e se le misure alternative alla detenzione sembrano quasi un miraggio.
Francesco “ha compiuto, nella nottata, il folle gesto, lasciandosi morire impiccato nella sua cella” si legge in un comunicato del Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. E’ il settimo detenuto che si toglie la vita nelle carceri campane. Una vera e propria ecatombe, fotografata la scorsa settimana dal garante nazionale Mauro Palma (584 suicidi negli ultimi 10 anni, di cui ben 22 registrati a Poggioreale che ha questo raccapricciante primato).
“Sono scosso e attonito”, afferma Ciambriello, secondo cui “si continua a morire per le troppe speranze deluse, si muore di fragilità umana e di abbandono”. “I numeri sulle morti per suicidio negli istituti di pena – aggiunge – sono allarmanti e devono indurre ad un’attenta riflessione. Si devono trovare soluzioni in fretta, altrimenti diveniamo complici di queste morti. Chi vive in una condizione psicologica precaria deve poter contare sull’aiuto di figure specializzate e in maniera costante e continuativa, perché, a volte, anche solo parlare con una persona può aiutare a superare un disagio. Per questi detenuti più fragili si potrebbe anche ipotizzare di incrementare le telefonate con i familiari, sempre nell’ottica di dare loro un sostegno, che mira ad evitare che l’espiazione della pena si trasformi in disgrazia”.
Il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria (Spp) Aldo Di Giacomo parla di ”una situazione di intollerabile vergogna a cui va rapidamente messo fine”. “Il personale di polizia penitenziaria è stanco di tenere il conteggio dei detenuti che si tolgono la vita e di rinnovare l’allarme a fare presto. E poi altro elemento sempre più preoccupante si abbassa l’età dei detenuti suicidi a riprova che i giovani, insieme ai tossicodipendenti e a quanti hanno problemi psichici sono i più fragili e vulnerabili“, prosegue. Secondo il Spp “questa mattanza silenziosa deve finire con misure e azioni concreti perché lo Stato ha in carico la vita dei detenuti e ne risponde. Si ascoltino le proposte del sindacato di polizia penitenziaria che quotidianamente si misura con l’emergenza suicidi e si metta mano alla manovra di bilancio rimediando al taglio di spesa imposto all’Amministrazione Penitenziaria e al personale”.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Il ricordo delle amiche a un anno dalla sua scomparsa. “Elvira si è tolta la vita in carcere a 27 anni, nessuno ne parlò perché dovevano inaugurare l’area cani”. Rossella Grasso su Il Riformista il 13 Dicembre 2022
Il 2022 sarà certamente ricordato come l’anno horribilis delle carceri Italiane. Ad oggi sono 80 i suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, secondo il dossier aggiornato di Ristretti Orizzonti. Il numero più alto di sempre: solo nel 2009 a fine anno i suicidi superarono le 70 unità, fermandosi però a 72. Non si tratta di numeri ma di storie, vere, umane. Drammi che fotografano il disastro del carcere e continua a produrre vittime. Una tragedia che troppo spesso avviene nel silenzio. Come è avvenuto per Elvira che si è tolta la vita in carcere il 13 dicembre 2021. Secondo quanto raccontano le amiche di Elvira, quella morte sfuggì alle cronache, non se ne parlò. Ma le sue compagne, le ragazze di Sbarre di Zucchero, hanno deciso di ricordarla “per donare ad Elvira, ad un anno di distanza, la dignità di una menzione che il suo suicidio non ha mai avuto”, scrivono. Riportiamo di seguito il ricordo di Micaela Tosato e Monica Bizaj per Sbarre di Zucchero.
Elvira era una giovane donna rumena di 27 anni, con un trascorso di tossicodipendenza ed aveva pochi mesi da scontare per giungere al suo fine pena. Era rientrata in carcere dopo essere scappata da una comunità, per amore, come tante volte accade. Il 13 dicembre dello scorso anno però decise di farla finita, dopo una telefonata alla famiglia che le negò il domicilio per poter richiedere una misura alternativa alla detenzione in carcere. Quel pomeriggio Elvira, approfittando del fatto che la sua compagna di cella era in permesso, decise di impiccarsi, decise che le sue speranze ed i suoi sogni erano finiti. Fu trovata da una ragazza che ai tempi faceva la “spesina” nella sezione femminile dell’Istituto e che provò a tirarla giù da quel cappio improvvisato, ma per lei non c’era già più nulla da fare, la vita le era già scivolata via dalle mani.
Il suicidio di Elvira però passò inosservato, doveva passare inosservato, per non rovinare l’evento previsto il giorno successivo, ovvero l’inaugurazione dell’area cani all’interno del carcere, con la presenza delle Istituzioni locali, e così fu, non ci fu giornale o tv locale che ne parlò, Elvira si suicidò nel silenzio più assordante. Il giorno successivo le ragazze lì ristrette, quando videro che i tg locali non ne fecero menzione, privilegiando la notizia dell’inaugurazione del canile interno al carcere, inscenarono una protesta rumorosa con la battitura, ma furono subito redarguite dal personale penitenziario che paventò rapporti disciplinari se la battitura fosse proseguita.
Successivamente alla tragica morte di Elvira successe che E., sua compagna di detenzione, cadde in una profonda depressione, come testimoniato ad uno dei convegni di Sbarre di zucchero, e chiese di poter avere un supporto psicologico per affrontare la sua sofferenza, ma le fu negato dall’Istituto, le fu detto dall’area sanitaria che essendo ancora giudicabile non le spettava questo genere di supporto, come se la sofferenza psicologica facesse distinzione in base alla posizione giuridica di una persona. Ed oggi le ragazze di Sbarre di zucchero vogliono ricordarla così, per donare ad Elvira, ad un anno di distanza, la dignità di una menzione che il suo suicidio non ha mai avuto: “Un anno fa, dopo aver fatto una telefonata, si suicidava in carcere Elvira. Allora nessuno ne fece menzione, gli unici servizi in TV il giorno dopo furono solamente sull’ inaugurazione della nuova area cani del carcere. Elvira era una ragazza dolce, tranquilla, non si sentiva mai. Le parlavi e ti sorrideva. Non possiamo immaginare il male che si portava dentro per decidere di impiccarsi… Ciao Elvira, sei e rimarrai nei nostri pensieri.
Estratto dell'articolo Francesco Grignetti per “la Stampa” il 14 gennaio 2023.
Vietare ai detenuti di fare sesso con i loro partner potrebbe colpire i diritti costituzionali. E siamo sicuri che costringerli a una vita asessuata favorisca la loro crescita personale, la maturità della persona, la rete di relazioni familiari che dovrebbe accoglierli all'uscita dal carcere? Il giudice di sorveglianza di Spoleto si è posto alcuni problemi non banali, che dovrebbero interrogare l'intera società, e intanto ha posto il quesito alla Corte costituzionale.
[...] il problema è che la legge non lo consente. […] Il carcere non è mai considerato un luogo privato, ma pubblico per definizione. E va da sé che il sesso in un luogo pubblico non si può fare perché, a rigore, è un reato in sé.
Sullo scoglio della legge si è bloccata ogni fuga in avanti. […] Ci riprova adesso il giudice Fabio Gianfilippi, chiamato in causa da un reclamo di un detenuto. [...] Quel che è permesso ai detenuti di Francia, Svizzera, Austria, Slovenia o Spagna, infatti, e complessivamente in 31 Paesi europei (ma anche in India, Messico, Israele, Canada) agli italiani è negato.
E ci sarebbero pure in questo senso le Raccomandazioni del Consiglio d'Europa o del Parlamento europeo che auspicano le «visite coniugali» ai detenuti. E c'è anche la Corte europea dei diritti dell'Uomo, il tribunale internazionale di Strasburgo, a manifestare apprezzamento per gli Stati che prevedono i colloqui intimi e l'esercizio dell'affettività anche di tipo sessuale. […]
In Italia, non si può. «Una amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell'affettività - scrive allora il giudice Gianfilippi - finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta».
Siccome non ci sarebbero motivi di sicurezza ad impedirlo […] la negazione della sessualità a chi sta dietro le sbarre «si volge in mera vessazione, umiliante e degradante, peraltro non soltanto per il condannato, ma per la persona con lui convivente, […]». [...] a vietare i rapporti sessuali, poi, non si contravviene allo spirito della Costituzione sulla protezione della famiglia, anche quella di un condannato? [...]
Vallanzasca è malato ma ...Vallanzasca è malato ma perché i giudici lo vogliono in carcere?
L'ex capo della Mala milanese è dietro le sbarre dal 1977. Oggi è un innocuo signore di 72 anni ma per i magistrati non ha diritto alla semilibertà. Ora arriva anche l'isolamento. Paolo Delgado su Il Dubbio il 20 gennaio, 2023 Forse non basta più neppure scomodare Javert, il rigidissimo poliziotto dei Miserabili, diventato proverbiale sinonimo di una giustizia inflessibile e cieca, sostanzialmente ingiusta oltre che inumana. Ma il caso di Renato Vallanzasca va persino oltre. Il bandito più celebre degli anni ' 70, ma certo non il più efferato, è in carcere dal 15 febbraio 1977. Aveva meno di 27 anni, oggi ne ha 72. La libertà condizionale gli è stata negata più volte, nonostante fosse stata consigliata dagli psicologi e analisti del Carcere di Bollate, dove è detenuto. Il 18 aprile 2018 il Tribunale di sorveglianza di Milano ha respinto la richiesta: manca il “requisito di sicuro ravvedimento” senza contare il “carattere intemperante”.
Da allora la libertà condizionale e la semilibertà sono state respinte di nuovo più volte. Renato Vallanzasca non deve mettere piede fuori dal carcere.
Però non basta. La pm dell'Ufficio esecuzioni Adriana Blasco ha chiesto di comminare al pericolo pubblico 6 mesi di isolamento diurno. Non che la pena dipenda da qualche nuova “intemperanza”. E' il riconteggio della pena con aggiunta l'ultima condanna, quella per cui il bandito della Comasina ha perso nel 2014 la semilibertà, che imporrebbe la misura severissima con 9 anni di ritardo sul delitto: il furto di due mutande e un paio di cesoie.
Gli avvocati hanno chiesto la perizia medico- legale per verificare la capacità del detenuto, malato, di sottoporsi a giudizio. Altrimenti quelle mutande che René ha già pagato con quasi 10 anni di galera e l'impossibilità di accedere a qualsiasi pena alternativa gli costeranno anche l'irrigidimento delle misure cautelari.
Ma quello che lo Stato non perdona a Vallanzasca non è il furtarello che in una quantità di articoli è stato promosso a “tentata rapina”, forse per vergogna. E' il non aver accettato di riconoscere l'autorità, è la mancanza dell'atto formale e ufficiale di prosternazione e da questo punto di vista il suo caso non è molto diverso da quello dell'ex capo brigatista Mario Moretti e dell'ex terrorista nero Mario Tuti, che restano in galera perché non si decidono a spedire le lettere con la richiesta di perdono alle famiglie delle vittime. Un atto formale, sul cui significato profondo nessuno si racconta bugie, ma che ha appunto il valore di un atto di prosternazione. Loro però almeno hanno accesso alle pene alternative, anche se Tuti viene vessato spesso e senza motivo. Vallanzasca no. Per lui c'è solo la galera perché il rifiuto di riconoscere l'autorità dello Stato non passa solo per atti mancati, come le suddette lettere, ma anche per reati, sia pure di serie z come quel fatale taccheggio.
Per tutta la vita “il bel René” ha dovuto fare i conti con un carattere spavaldo e ribelle che è rimasto indomato e anche se l'uomo non rappresenta più un pericolo sociale quel carattere ribelle deve essere punito. Il primo reato, commesso a 8 anni insieme al fratello è esemplare: il tentativo di liberare gli animali di un circo. Lo affidano alla prima moglie del padre, al Giambellino, e alla fine degli anni ' 60 è già un protagonista della malavita milanese. Guida una banda tra cui spiccano Antonio Colia, detto “Pinella”, secondo alcuni il vero cervello del gruppo e Rossano Cochis. Sono banditi quasi all'antica, mettono a segno una serie di rapine ma senza vittime
e senza rapporti di sorta con la criminalità organizzata, vivono alla grande, spendono tutto in macchine e abiti, il capo, Renato, si vanta di vestire solo abiti cuciti da Caraceni. La corsa finisce nel 1972. A Milano c'è un nuovo capo della polizia, Achille Serra. Convoca e interroga Vallanzasca che lo sfida. Si sfila il rolex d'oro, lo mette sulla scrivania: “Se riesce a incastrami è suo”. Serra mastica amaro ma proprio in quel momento arriva la telefonata che incastra Renato. Durante la perquisizione sono stati trovati in un cestino della spazzatura i resti di un biglietto che prova la colpevolezza del bandito spavaldo e del fratello Roberto. Serra restituisce l'orologio ma Vallanzasca va in galera. Ci resta quattro anni, poi evade.
La leggenda del “pericolo pubblico” nasce in quei pochi mesi di latitanza dal luglio 1976 al febbraio 1977. René rimette insieme la banda della Comasina. In ottobre attacca il carcere di Lodi e fa evadere Colia. Le rapine si contano a decine. La faida con la banda di Francis “Faccia d'Angelo” Turatello il boss numero 1 della mala milanese insanguina bische e night club. I due si riconcilieranno anni dopo in carcere, con un espediente diplomatico. Vallanzasca sposerà una delle tante ammiratrici che gli riempiono la cella di lettere d'amore. Turatello sarà testimone e il rito salva la faccia a entrambi.
Nei mesi ruggenti la banda della Comasina si dedica anche ai sequestri. Il principale è quello della sedicenne Emanuela Trapani, figlia di un industriale. E' un sequestro sui generis: una notte la ragazza imbocca la porta dell'appartamento dove la tengono prigioniera e torna a casa. Forse Vallanzasca, che la sorvegliava, si era addormentato. Forse avevano una relazione, avevano litigato e la ragazza si era innervosita: di certo non era la prima volta che lasciava la “prigione”. Di fatto la sequestrata arriva sotto casa e fa in tempo a citofonare. Poi il carceriere la raggiunge in macchina e la convince a tornare a casa.
In febbraio una sparatoria a un posto di blocco sull'autostrada si conclude con la morte di due agenti e un bandito. Il capobanda, ferito, verrà arrestato otto giorni dopo a Roma. In carcere Vallanzasca non è stato un detenuto tranquillo: ha tentato tre evasioni e in una di queste è riuscito a restare fuori dal carcere per venti giorni, nel 1987. Ha ucciso un ragazzo della sua banda che lo aveva tradito sfidandolo in una sorta di duello rusticano, dopo avergli fornito il coltello. Un omicidio è sempre un omicidio ma negli sanguinosi dei boia delle carceri sembra una scena da romanzo.
Renato Vallanzasca è un bandito e lo resterà in un certo senso sempre. Ma dopo quasi 50 anni di galera senza contare i 4 dal 1972 al 1976, invecchiato e malato, senza che rappresenti più un pericolo, non concedergli la condizionale, di cui godono condannati con una storia ben più sanguinosa e addirittura tenerlo in isolamento non è giustizia e neppure vendetta. E' sadismo.
Estratto dell’articolo di Umberto Aime per “Il Messaggero” il 6 aprile 2023.
Fine pena? Nel 2032, quando dovrebbe compiere 119 anni dietro le sbarre, secondo i giudici della Corte d'Assise di Cagliari. Perché, l'altra mattina, il novantenne Giuseppe Doa è finito in carcere, visto che ancora deve scontare gran parte della pena di 30 anni, la sentenza è definitiva, per aver ucciso, nel 2016, ad Arzana, nel Nuorese, due nipoti al termine di una lite su un'eredità.
Diversi mesi fa, era stato scarcerato proprio aver superato gli 80 anni. Dopo una scia di ricorsi anche in Cassazione, la Procura generale di Cagliari ha messo in esecuzione la sentenza, con un ordine di cattura immediato.
[…] Malfermo sulle gambe, è salito sulla Gazzella. Prima e unica tappa, il carcere di Uta. Ora il suo avvocato presenterà appello contro l'arresto in esecuzione della pena, motivandolo proprio con l'età del detenuto e ripetendo pressappoco le stesse tesi del ricorso, con cui aveva ottenuto la scarcerazione in attesa della sentenza definitiva.
Doa sarà di sicuro il detenuto più anziano d'Italia, nonostante la legge preveda che «oltre i 70 anni, fatte alcune eccezioni legate al tipo di reato, il cittadino può chiedere e ottenere la cosiddetta detenzione domiciliare e di conseguenza espiare la pena a casa propria».
Per ricostruire la storia bisogna ritornare indietro fino al 2016. Nella famiglia Doa-Caddori, il cognome dei due nipoti uccisi, i rapporti erano tesi da tempo per la suddivisione dell'eredità lasciata da alcuni parenti.
La sera del 10 agosto Andrea e Roberto Caddori, 43 e 46 anni, si presentarono a casa dello zio, al tempo 83enne, per chiarire la faccenda e trovare un accordo, almeno nelle intenzioni, dopo che il pensionato s'era convinto che la sorella Maria stesse per intestare tutti i beni alla badante, che era la sorella dei fratelli Caddori.
[…] Come oggi si legge negli atti del processo, convinto di essere sopraffatto dai nipoti, Giuseppe Doa sparò ben quattro colpi di pistola. Subito dopo, ancora armato, riuscì a fuggire a piedi. Fu arrestato il giorno dopo a Lanusei, distante 10 chilometri, davanti all'ospedale dove i fratelli Caddori erano stati ricoverati in fin di vita e dove moriranno la mattina dopo. […]
Per le persone transgender, il carcere è un inferno due volte. Sessantatré donne sono in stato di detenzione, ma la destinazione è limitata a 12 istituti. Molte in sezioni promiscue con i sex offender, con terapie ridotte e assistenza inesistente. Marco Grieco su L’Espresso il 19 giugno 2023
Nelle carceri italiane, così anomale da essere definite col superlativo di un superlativo come «sovraffollate», le persone transgender vivono una doppia prigione. La loro reclusione diventa, cioè, l’espiazione di una colpa verso una società che ancora oggi non tutela i loro diritti, specialmente in carcere, dove Il codice culturale è binario e fortemente sessualizzato.
Oltre le sbarre, la mancanza di tutela esercita nelle persone transgender detenute vere e proprie forme di segregazione, non solo fisica. In Italia gli istituti che accolgono persone transgender sono dodici, di cui otto al nord, due al centro, due al sud. Secondo le ultime stime dell’associazione Antigone, si contavano 63 trans negli istituti penitenziari italiani, tutte donne per l’82 per cento non italiane, recluse per reati legati allo spaccio di stupefacenti o alla prostituzione. Numeri che, però, fluttuano: soltanto la sezione di Rebibbia Cinotti conta 20 recluse dalle 15 di inizio anno. Cittadinanza italiana o meno, molte ammettono di aver subito qualche forma di ostracismo, come emerso dalle numerose testimonianze raccolte da associazioni come Antigone o attraverso i centri di ascolto come Gay Help Line, o da amici e conoscenti.
Alessia Nobile, assistente sociale e attivista transgender, negli anni è divenuta punto di riferimento per le detenute trans pugliesi: «Anni fa una mia amica, reclusa nel carcere di Poggioreale di Napoli, mi scrisse disperata una lettera: mi chiedeva semplicemente dei trucchi, per continuare a sentirsi donna. Percepiva che stava regredendo, non voleva ritornare uomo», spiega. Oggi Nobile, che ha in comune un passato di abbandono e discriminazione, vuole infondere loro una speranza nel luogo dove la speranza è la prima a morire.
Per il loro passato da sex worker, infatti, tante detenute sono collocate in sezioni promiscue insieme ai sex offenders, cioè i detenuti reclusi per reati di natura sessuale, e questo crea in loro un costante senso di paura. A ciò si aggiunge lo stigma. Fino a poco tempo fa era consuetudine recludere le persone in transizione su base strettamente anagrafica, senza considerare cioè l’identità di genere da esse percepita.
Ancora oggi sotto il profilo amministrativo si utilizza una terminologia confusa per definire le persone transgender: aspetto problematico specialmente per coloro che, essendo in transizione, presentano un’identità anagrafica difforme dal proprio aspetto esteriore. Occorre ricordare che la tutela delle persone transgender non solo rispecchia le linee guida indicate dall’American Psychological Association nel 2015, ma è garantita dal diritto: la sentenza della Corte Costituzionale 221/2015 ha sganciato il diritto all’identità di genere di una persona dall’imposizione di un trattamento ormonale o chirurgico, perché viola gli artt. 3 e 32 della nostra Costituzione, peraltro in sintonia con quanto riconosce la Corte europea dei diritti dell’uomo (art.8).
Eppure, a cinque anni dal pronunciamento, nelle maglie imbrigliate delle carceri sovraffollate i nodi restano. Lo dimostra l’ordinanza n. 682 del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che nel 2020 ha accettato le richieste di una detenuta presso la Casa Circondariale di Sollicciano a cui era stato negato l’accesso al reparto femminile, malgrado l’adeguamento dei suoi dati anagrafici: «Oggi a Firenze Sollicciano le detenute trans sono allocate nella sezione femminile, fanno attività scolastiche e ricreative. Ma è stata una conquista difficile», spiega l’avvocato Elia De Caro, difensore civico dell’associazione Antigone. Questo e altri casi portati in tribunale sono le spie di un sistema carcerario in affanno, dove a pagarne le conseguenze sono «le segregate due volte», come spiega Porpora Marcasciano, presidente onoraria del Movimento Identità Trans (Mit) e figura di spicco della comunità transgender italiana, con una militanza di 50 anni: «Quando entri in carcere varchi la porta dell’inferno, è una sensazione che non riesci più a toglierti di dosso, fatta di impotenza e disperazione».
Nel 1981 a Porpora bastò un accenno di trucco per essere arrestata appena fuori dall’università e reclusa quattro mesi nel carcere romano di Regina Coeli. Sullo stipite della sua cella trovò incisa la parola travestito: un’epigrafe della vergogna, oggi non più visibile, ma incarnata nei corpi che ancora subiscono un linguaggio sessualizzante o persino le angherie di chi lavora negli istituti di pena, come spesso denuncia chi si rivolge a Gay Help Line: «Negli anni Ottanta con il Mit abbiamo seguito diverse donne trans arrestate: erano in media quattro a settimana e potevano restare in carcere anche tre mesi. Da allora, alcune cose sono cambiate, ma il volto della disperazione quando vai a trovarle è sempre lo stesso» spiega Marcasciano.
Alcune di loro non ce la fanno a vivere in un sistema che le discrimina e non accetta ciò per cui hanno lottato ingaggiando il loro stesso corpo. Nel padiglione Roma del carcere napoletano di Poggioreale, per esempio, è ancora vivido il ricordo del 2010, quando in due settimane tre di loro si tolsero la vita. L’ultima, Francesca, aveva solo 34 anni, ma preferì porre fine alle sue sofferenze inalando il gas da una bomboletta in dotazione nella cella. Nella reclusione, le donne transgender vedono sul loro corpo la parabola discendente di un percorso di liberazione personale, pagato con la l’ostracismo e il totale abbandono: «Quando Francesca si prostituiva, si sentiva nell’indifferenza di tutti. In fondo, lei sognava solo una vita migliore per sé e per quelle come lei», dice Alessia Nobile, la voce incrinata dall’emozione.
Malgrado negli anni siano state stilate regole europee che impongono alle autorità penitenziarie la tutela della salute dei detenuti, la realtà è superiore alle soft law e alle convenzioni internazionali. Ci sono delle mancanze oggettive, come spiega De Caro: «Nel nostro sistema penitenziario mancano professionisti della salute mentale, ma occorre anche formare il personale, inserire mediatori culturali. Quando nessuna detenuta trans riesce a ottenere un permesso per uscire dal carcere per studio o lavoro, qualche domanda occorre farsela».
Da tempo il Mit si occupa del reinserimento delle detenute nella società, come Mary: «Ha da poco acceso un mutuo e lavora», dice commossa Marcasciano. Ma l’indifferenza dello Stato verso la salute mentale delle persone transgender detenute è la punta d’iceberg di un problema che investe una situazione più complessa, quella che fa dei luoghi deputati al reintegro nella società zone di trincea per chi vive già sulla sua pelle il coraggio di stare in frontiera.
Denuncia De Caro: «In alcuni istituti, la terapia ormonale è ristretta alla somministrazione di un solo ormone» che – le fa eco Marcasciano - «viene prescritto come se fosse aspirina, senza un piano terapeutico individuale. Noi come Mit collaboriamo con il carcere di Reggio Emilia, da cui le detenute trans - oggi sono in dieci - escono per essere seguite da uno specialista endocrinologo». Fa scuola l’ordinanza emessa il 13 luglio 2011 dal Tribunale di Spoleto, che ha riconosciuto il diritto della persona detenuta a proseguire il proprio percorso ormonale, anche in assenza di una normativa regionale.
È un diritto alla salute, che andrebbe garantito non solo dalle regioni erogatrici dei servizi, ma dallo Stato, puntualizza De Caro: «Noi non possiamo chiedere all’amministrazione penitenziaria quello che va chiesto al Ministero della Salute e agli altri Ministeri competenti». È la legge uguale per tutti, che campeggia sulla testa di un giudice, ma che a volte cade con una sentenza. Diventa un verdetto di vita e di morte per una persona transgender, a cui attende dietro le sbarre un buco nero, che strappa la vita e pure il nome.
Anche in prigione le donne sono vittime di discriminazione. Senza bidet, escluse dal lavoro, al massimo fanno l’uncinetto. Oscillano tra il 4 e 5% della popolazione detenuta, ma sono disperse tra le varie carceri pensate esclusivamente al maschile. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 marzo 2023
Al 28 febbraio, su 56.319 detenuti presenti nelle nostre carceri, sono 2.425 le donne ristrette. Esistono soltanto 4 istituti penitenziari esclusivamente femminili: Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia. E sono, sempre secondo gli ultimi dati del ministero di giustizia, un totale di 622. Il resto delle detenute, quindi 1803, sono disperse nel resto delle carceri, pensate esclusivamente al maschile.
Ma non solo. Tale dispersione è anche dovuta dal vincolo di vicinanza territoriale ai propri affetti previsto dall’Ordinamento penitenziario: quel che manca, è la riorganizzazione della mappa stessa degli Istituti penitenziari, con almeno un carcere femminile per regione. Le detenute oscillano sempre tra il 4 e il 5% della popolazione carceraria. Non solo le donne in carcere sono poche, ma la maggioranza è in comunità molto piccole, all’interno di strutture disegnate per gli uomini. La bassa incidenza statistica sulla popolazione detenuta totale, potrebbe far illudere di una maggiore attenzione istituzionale nel costruire percorsi di reinserimento sociale, ma nella pratica è una causa di discriminazione. Il tempo sottratto alla vita esterna per un uomo e per una donna non hanno uguale peso, relativamente ai contesti lasciati, agli affetti, alle funzioni esercitate prima che la privazione della libertà li troncasse, alle relazioni da riannodare una volta scontata la pena.
Quasi 10 anni fa, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva attivato un apposito settore dedicato alla riflessione sulla detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete. Di ciò non si è più avuta notizia. Progetto completamente abbandonato nonostante il Dap, nel 2019, ha riconosciuto che il sistema penitenziario ha, di fatto, una visione “maschio-centrica”. Così pensata al maschile che ad esempio, il 60% delle detenute non ha il bidet in cella nonostante sia previsto dalla legge. Come ha spiegato l’avvocato Carlotta Toschi su “Sbarre di Zucchero”, non ci sono norme ad hoc nella legge 26 luglio 1975, n. 354 tuttavia le disposizioni relative ai servizi sono contenute nel regolamento di attuazione. I vani in cui sono collocati i servizi igienici devono essere forniti di acqua calda corrente, calda e fredda, dotati di lavabo, di doccia e negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet. Sempre Toschi sottolinea che le donne, in particolare, sono più a rischio degli uomini di sviluppare un’infezione urinaria. Soprattutto nel periodo delle mestruazioni hanno una maggiore necessità di igiene ma molte carceri, appunto, non offrono il bidet.
Altro problema è che le detenute vengono escluse dalla già carente offerta lavorativa e trattamentale, che si tende a proporre alla popolazione carceraria più numerosa, ovvero quella maschile. In alcune sezioni vige il vuoto trattamentale: assenza di lavoro, di progetti, di laboratori e talvolta anche delle stesse attività scolastiche, per la mancanza dei numeri minimi per comporre una classe. Ristrette in piccole sezioni, non di rado si devono accontentare di fare piccoli lavori a maglia o all’uncinetto per riempire in qualche modo il tempo vuoto del carcere. Attività figlie di una visione stereotipata per cui le donne possono solo fare questi tipi di lavoro. La discriminazione, però, non nasce da una volontà istituzionale, ma dalla mancanza di un pensiero sulla differenza di genere. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre, a volte anche un marito che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro. Non di rado ne derivano conseguenze fisiche. Dai disturbi al ciclo mestruale, all’ansia, ma anche depressione, anoressia e bulimia. Vi è stata nel tempo una persistente difficoltà culturale ad affrontare la problematica della donna-delinquente-detenuta, in quanto, storicamente, la donna deviante, che cioè contravveniva alle regole che la società (maschile), non è mai stata considerata, in ragione della sua inferiorità biologica e psichica, come portatrice cosciente di ribellione, ma o una “posseduta” (la strega) o una malata di mente (l’isterica). Non si poteva ammettere che la donna potesse coscientemente desiderare di infrangere le regole.
La donna delinquente è sempre stata stigmatizzata di aver abiurato la propria natura femminile dedita alla maternità e alla cura; colpevole dunque, di fronte alla legge degli uomini, e a quella di natura. Nella società libera non è corretto – riferendosi alle donne – parlare di soggetti vulnerabili. Però in carcere, in una situazione privata della libertà, tale definizione è appropriata. Lo spiega il rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà del 2019. Parlare di soggetti vulnerabili è giusto, perché «il carcere è un’istituzione punitiva e di controllo pensata per i maschi e continua a essere tale, pur tra le molteplici voci che si alzano a dire che l’esecuzione penale è uguale per tutti e al contempo attenta a ogni specificità, a cominciare da quella di genere».
Da meno di un anno, le donne hanno deciso di organizzarsi. Tutto è partito dalla ex detenuta Micaela Tosato che ha deciso di uscire allo scoperto soprattutto dopo il suicidio in carcere di Donatella Hodo, una giovane madre di 27 anni reclusa al carcere veronese di Montorio. Si è dato così vita al movimento “Sbarre di Zucchero” . Nel giro di pochi mesi è cresciuto e si sono aggiunte nuove persone. Ad esempio si è aggiunta Monica Bizaj, sempre impegnata per i diritti, fino ad arrivare a giuristi e tanti altri addetti ai lavori. In soli 4 mesi hanno organizzato convegni, beneficienze, e ha aperto altri due distaccamenti a Roma e a Napoli. Le donne si organizzano. Così come, da non dimenticare, che nel carcere di Torino, da tempo, le detenute si sono organizzate tramite numerose iniziative come lo sciopero della fame (grazie anche all’appoggio dell’instancabile attivismo di Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino) per sensibilizzare la politica ai problemi devastanti del sistema penitenziario.
Il rapporto Antigone. Donne ai margini di un carcere che parla al maschile. Federica Brioschi su Il Riformista il 9 Marzo 2023
Il nostro sistema penitenziario è declinato nelle norme e nell’organizzazione istituzionale al maschile. Non vi è una specifica attenzione rivolta alle donne detenute nelle leggi, nei regolamenti penitenziari e nel management penitenziario anche per via dei numeri esigui che, in Italia come altrove, rappresentano questa minoranza le cui necessità rischiano di rimanere inascoltate. Proprio per portare una specifica attenzione su questi bisogni, Antigone ha deciso di dedicare loro uno specifico rapporto, presentato non a caso l’8 marzo, in occasione della Festa Internazionale della Donna.
Rapporto che è anche stato un’occasione di riflessione. Le donne infatti radicalizzano una serie di caratteristiche della popolazione carceraria nel suo complesso che sempre più sono rappresentate nella massa delle persone che la società rinchiude in galera. La massa della popolazione detenuta è costituita da persone che provengono dagli strati più marginali della società, che sperimentano povertà economica ed educativa, che vivono un’emarginazione che il periodo di detenzione non fa altro che approfondire, che presentano uno scarso spessore criminale (i reati per cui vengono condannate sono meno gravi e le pene comminate inferiori) e anche una scarsa pericolosità penitenziaria.
Se si guarda ai dati erano 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2023, di cui 15 madri con 17 figli al seguito, ovvero il 4,2% dei detenuti in Italia.
A queste donne si aggiungono anche le circa 70 donne trans ospitate in apposite sezioni protette all’interno di carceri maschili. Infine, inserite all’interno del circuito penale minorile sono presenti anche alcune ragazze minori e giovani adulte. Al gennaio 2023, sui 385 giovani reclusi nelle carceri minorili italiane solo 10 erano ragazze, le comunità ospitavano 58 ragazze sottoposte a misure penali e altre 1.300 (il 9,4% del totale) erano in carico ai servizi per la giustizia minorile. Vista l’esiguità dei numeri, le carceri femminili presenti sul territorio italiano sono solamente quattro e si trovano a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia. Ospitano 599 donne, pari a un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro ospita 9 madri detenute e altri tre piccoli Icam ospitano 5 donne in totale. Le altre 1.779 donne sono distribuite in 44 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili.
Le celle che ospitano le donne generalmente non differiscono molto da quelle che ospitano gli uomini. Le condizioni strutturali sono però spesso migliori, e solitamente appaiono anche più pulite e più curate. In particolare, il bagno, molto più spesso che nel caso degli uomini, è in ambiente separato e dotato di doccia e di bidet. Venendo invece alla vita in carcere risultano scarsissime le attività in comune con gli uomini, presenti soltanto nel 10% degli istituti che ospitano donne. Dal punto di vista delle attività lavorative e di formazione professionale le donne risultano tendenzialmente più rappresentate rispetto alla media delle loro presenze in carcere. Invece dall’analisi dei numeri relativi all’istruzione emerge come nei gradi inferiori di istruzione le donne iscritte e promosse rispetto al totale delle donne presenti tendano a essere percentualmente più rappresentate degli uomini iscritti e promossi sul totale degli uomini presenti. Tuttavia nei gradi più alti (università inclusa) la situazione si ribalta.
Oggi come in passato, le donne tendono a frequentare corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana e gli altri corsi di primo livello, accedendo meno ai corsi di secondo livello. Sono questi dati e questa analisi che portano Antigone a chiedere che si riparta dall’immaginare un modello di detenzione nuovo e più aperto, dove il tempo della pena acquisti direzione e significato, dove il raccordo con il territorio circostante sia capillare e continuo. Federica Brioschi, Ricercatrice Associazione Antigone
Lettere dal carcere a Sbarre di Zucchero. Il carcere con gli occhi delle donne: storie di madri, mogli, figlie e sorelle in lotta per il diritto di essere femmina, a cura di Rossella Grasso su Il Riformista l’8 Marzo 2023
L’otto marzo è la Festa della Donna. Una giornata in cui in tutto il mondo si celebrano le conquiste sociali e politiche delle donne, le loro battaglie per non essere considerate diverse dagli uomini, il loro coraggio, la loro tenacia nel combattere per i diritti di tutte le donne. Comprese quelle che ogni giorno vivono o hanno vissuto il carcere. Perché essere femmina è un diritto sempre e ovunque, anche se le pesanti mura di cemento del carcere sembrano volerlo sopprimere. In occasione della festa della donna alcune donne hanno deciso di affidare a carta e penna i loro pensieri di lotta per un unico diritto: quello di essere donna sempre. Le loro sono storie di resistenza e coraggio nell’affrontare le difficoltà del vivere il carcere da detenuta, fidanzata o madre, privata degli affetti e dell’amore e da moglie di un detenuto. Perché il carcere è un mondo di sofferenza che per una donna è ancora più difficile da sopportare. Eppure la donna resiste, non si arrende, pensa a suo figlio o alla gioia dell’amore ed è così che va avanti. Una lotta perenne che le donne riescono a vincere, anche se non è facile. Una donna difficilmente cede alle sue fragilità. Riportiamo qui di seguito tre lettere di altrettante donne a Sbarre di Zucchero in occasione dell’otto marzo. Dai loro testi è nato un video girato presso l’Ex Opg ‘Je So’ Pazzo’ di Napoli con le lettere lette dalle attiviste di Sbarre di Zucchero.
E poi ci sono amori costruiti sulla parola, che non sono meno amori di quelli che si vedono in giro. Ma hanno la fragilità di castelli di carte che la solitudine e l’assenza minano dall’interno perché l’amore richiede progetti e futuro possibile condiviso e diventa pesante, insostenibile un legame quando non lo puoi vivere. E non ci sono gli abbracci fatti con le braccia e nemmeno i calci sugli stinchi o qualsiasi forma di fisicità che stempera la tensione. Si tende, nella speranza di raggiungere ancora e ancora. E si spera che oltre le parole e le distanze e il cemento ci sia il modo per trovarsi e fondersi e ritrovare una sacrosanta energia per amare che senza amore siamo tutti niente e nessuno.
LA DONNA IN CARCERE RESTA PUR SEMPRE UNA DONNA! L’8 Marzo in origine non aveva nulla da fare con i sentimenti verso la donna vista come individuo, con la sua tenerezza, delicatezza, bellezza e il suo ruolo materno. Questa giornata sembrava ricordare la donna come persona, cioè un essere umano dotato dei diritti, faticosamente conquistati in un mondo dominato dagli uomini, destinati a permettere alla donna di essere un essere umano forte e autonomo. La festa della donna e un ‘occasione importante per festeggiare ovunque le signore e le signorine, siano esse nonne, madri, fidanzate e mogli. Dietro alle sbarre restiamo pur sempre donne, madri, mogli! Ho avuto dei momenti in cui oltre all’assenza di una via d’uscita, percepivo di non essere più quella di prima però il pensiero di mio figlio mi ha dato la forza di combattere, non potevo deluderlo con la mia fragilità. Avrei voluto quella mattina di 8 Marzo 2022 poter sentire la voce di mio figlio che mi fa gli auguri come ogni anno, e come figlia di poter fargli alla mia madre, però non fu possibile. Un augurio dal cuore alle donne forti che ogni giorno combattono con le difficoltà della vita e alle donne deboli, che riescono a trovare la forza dentro di loro per sistemare quello con va!
Nel 2008 faccio una denuncia per maltrattamenti a mio marito perché faceva uso di cocaina. Nel 2018 viene condannato in via definitiva, nel frattempo in quei 10 anni non faceva più uso di cocaina, lavorava, si era rieducato e reinserito. Oggi mi ritrovo, dopo 4 anni e mezzo di detenzione, a pagare debiti di cocaina fatti in carcere, dove tutti sanno che ci sono piazze di spaccio. A 56 anni mio marito non solo ha ripreso a farne uso ma ha iniziato ad assumere psicofarmaci che mai aveva preso in tutta la sua vita. Questo è il calvario che subiscono le donne che hanno un proprio caro detenuto. Buon 8 marzo DONNE! a cura di Rossella Grasso
Il prelievo ai detenuti di parte dello stipendio per il fondo delle vittime? È incostituzionale da 30 anni. La proposta del sottosegretario alla giustizia Ostellari si scontra con la sentenza numero 49 del 1992 della Consulta. Trattenere tale onere dovrebbe ricadere su tutta la collettività e non solo sui detenuti lavoratori. Per questo si configura una violazione dell'art. 3 Costituzione. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 agosto 2023
Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, ha annunciato l'istituzione di un fondo a favore delle vittime dei reati, finanziato tramite una parte della retribuzione dei detenuti, nota tecnicamente come “mercede”. Questa iniziativa ha suscitato qualche timida polemica, specialmente a causa dei miseri stipendi che la maggior parte dei reclusi percepisce e che ancora vengono chiamati mercede. Come evidenziato da Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, si tratta principalmente di retribuzioni modeste derivanti da attività quali “scopino”, “portavitto”, “spesino” o la rammendatura di federe e lenzuola. Ma c’è anche dell’altro, che questa volta ha scovato la redazione di Ristretti Orizzonti: già 30 anni fa, la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 49 del 1992, ha dichiarato incostituzionale tale trattenuta.
Per avere una comprensione più approfondita, è necessario esaminare il percorso legislativo riguardante la retribuzione dei lavoratori detenuti. L'intento iniziale del legislatore nel 1975 era di regolare due diversi livelli di compensi all'interno della retribuzione: la remunerazione, che rappresentava la parte effettivamente ricevuta dal detenuto (ridotta opportunamente di una o più quote), e la mercede, che rappresentava l'intero compenso dovuto per la prestazione (calcolato per ciascuna giornata lavorativa in base alla categoria di appartenenza). Secondo questa previsione normativa, la differenza tra remunerazione e mercede non aveva significato nel caso dei lavoratori detenuti; tuttavia, nel caso di imputati e condannati, veniva applicato un meccanismo di decurtazione che riduceva la remunerazione a sette decimi della mercede. I tre decimi differenziali erano destinati alla Cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime del reato, mentre la parte relativa alla retribuzione degli imputati veniva accantonata e versata all'avente diritto in caso di proscioglimento o assoluzione, o alla stessa Cassa in caso di condanna.
La riforma introdotta dalla legge n. 663 del 1986 ha poi abrogato la disposizione relativa ai tre decimi destinati alla Cassa, comportando la scomparsa della distinzione tra mercede e remunerazione (attualmente, entrambi i termini rappresentano lo stesso valore economico della prestazione lavorativa). Tuttavia, al posto della Cassa, i tre decimi venivano comunque trattenuti a favore di Enti o Regioni.
Negli anni successivi all'entrata in vigore della legge Gozzini, che ha riformato tale disciplina, la Corte Costituzionale ha emesso due sentenze di particolare rilevanza in materia. Richiesti di decidere sulla costituzionalità della trattenuta dei tre decimi (art. 23 O.P.), e sulla compatibilità della normativa che consente una retribuzione inferiore ai livelli salariali previsti dai contratti collettivi di lavoro (art. 22 O.P.), i giudici della Consulta hanno raggiunto una soluzione di compromesso nella sentenza n. 1087/1988. In sintesi, non hanno rilevato violazioni costituzionali nell'articolo 22 O.P., ma hanno riconosciuto l'applicabilità delle garanzie costituzionali anche al lavoro penitenziario, pur ritenendo ragionevole una differenza di trattamento economico tra lavoro interno ed esterno. In pratica, la Corte ha stabilito che l'art. 22 O.P. (che prevedeva una decurtazione fino a due terzi) si applicava solo ai lavori domestici dipendenti dall'amministrazione penitenziaria, riconnettendo la norma agli standard di proporzionalità e sufficienza dell'articolo 36 della Costituzione. Questo significa che tale disciplina non si applica ai soggetti che svolgono lavoro extramurario, ai quali verrà corrisposta una retribuzione conforme ai contratti collettivi di lavoro.
Ma passiamo alla sentenza decisiva. La pronuncia n. 49 del 1992 ha risolto definitivamente la questione sulla legittimità costituzionale dell'art. 23 O.P. Con la scomparsa del vincolo di solidarietà tra autori e vittime del reato e la soppressione della Cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime, è emersa un'ingiustificata disparità di trattamento tra detenuti e cittadini. La Corte ha stabilito che, in assenza di destinazione specifica delle trattenute a favore delle vittime, queste hanno scopi di beneficenza pubblica. Poiché tale onere dovrebbe ricadere su tutta la collettività e non solo sui detenuti lavoratori, si configura una violazione dell'art. 3 Costituzione, con un'ingiustificata discriminazione tra detenuti e altri cittadini. Riportiamo direttamente i passaggi dei giudici costituzionali, i quali hanno ritenuto che “essendosi sostituiti alla Cassa enti portatori di interessi plurimi, sono venuti meno la specifica destinazione delle trattenute di cui trattasi al soddisfacimento dei bisogni delle vittime delle azioni delittuose e il vincolo di solidarietà tra detenuti e vittime dei delitti, sicché le trattenute sono dirette a soddisfare finalità di beneficenza pubblica. E siccome il relativo onere deve gravare sull’intera collettività e non solo sui detenuti che lavorano, sussiste violazione del richiamato art. 3 Cost., ponendosi un’irrazionale ingiustificata discriminazione tra i detti detenuti e gli altri cittadini”.
Di conseguenza, dopo questa pronuncia, è stato riconosciuto ai detenuti lavoratori il diritto di ottenere i tre decimi della mercede precedentemente trattenuti. Questi importi, un tempo destinati alla Cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime, e in seguito alle Regioni ed enti locali dopo l'abrogazione, vanno ora ai detenuti lavoratori. In sintesi, il Consiglio dei ministri non può approvare la proposta del Sottosegretario Ostellari. Se lo facesse, il Presidente della Repubblica avrebbe difficoltà a promulgare una legge incostituzionale. Ma sicuramente, di questo, ne è già a conoscenza il ministro della Giustizia Nordio. O almeno è auspicabile che lo sia.
I racconti dei detenuti. Come vivono i detenuti, il libro denuncia di suor Emma Zordan. “Devono marcire in galera”: sono frasi del genere le fondamenta dell’indifferenza verso le carceri: un mix di rancore e odio verso chi ha sbagliato che i racconti di 19 detenuti ribaltano. Susanna Schimperna su L'Unità il 14 Novembre 2023
Dei penitenziari sappiamo poco e non abbiamo intenzione di saperne di più. Però ne parliamo, con frasi slogan che dovrebbero racchiudere la soluzione di ogni male, ripulire le strade dalla delinquenza, garantirci la sicurezza: «Bisogna inasprire le pene», «Chiuderli e buttare la chiave», «Marciscano in galera», «La colpa è del buonismo, il 41bis va esteso a tutti i ladri e gli assassini», «In carcere devono soffrire, non è mica un albergo».
I più sono convinti, spesso in buonafede, che segregare chi ha trasgredito le regole e trattarlo con la massima durezza possibile possa funzionare come deterrente, quando non soltanto è provato che non è così, ma “massima durezza” e “rieducazione” non sono espressioni che vanno d’accordo. Il problema è che alla rieducazione e quindi al reinserimento nella società non si crede, quasi fosse un’utopia di anime belle.
La realtà è la violenza crescente, il senso costante di pericolo che proviamo tutti noi, perché se una volta (si dice, e in parte è vero) i ladri erano professionisti, oggi puoi trovarti chi per quattro spicci ti ammazza, chi entrando in una casa dove ci sono anziani e non trovando quello che sperava li riduce in fin di vita a forza di botte. E allora via, tutti al gabbio. Senza se e senza ma.
Ammassati e chissene importa se si suicidano, anzi, meglio (54 dall’inizio dell’anno ad oggi, a cui vanno aggiunte 71 morti per cause non accertate, malattia, omicidio e overdose, senza dimenticare i suicidi di appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, un’altra tragedia di cui non si parla mai).
Inascoltate le voci che arrivano da chi il carcere lo conosce. Operatori istituzionali, volontari, e naturalmente parenti e amici dei carcerati e carcerati stessi. Tra loro, qualunque sia l’orientamento politico, il rozzo schieramento destra giustizialista/sinistra perdonista salta. Aver visto, aver vissuto sia pure indirettamente, porta tutti a un cambiamento di prospettiva.
Si propone di fare proprio questo, la suora Emma Zordan, da anni volontaria alla cassa di reclusione di Rebibbia: dare voce a chi è coinvolto, a chi sa di cosa parla e non per sentito dire. Il punto su cui Zordan insiste, tanto da averlo usato nel titolo del libro e averlo proposto come stimolo di riflessione agli intervistati, è l’indifferenza: Ristretti nell’indifferenza.
Testimonianze dentro e fuori il carcere (ed. Iacobelli) è un grido sommerso, dolente e continuo contro la mentalità comune che, come sottolinea il cardinal Matteo Maria Zuppi nella prefazione, pretende non solo il diritto di essere indifferente, ma anche un sistema che non faccia vedere i problemi, li nasconda, se possibile li cancelli.
Il carcere come mondo parallelo, per cui ci sentiamo, noi che ne siamo al di fuori, perfettamente abilitati a disconoscerlo, a negarne qualunque possibile relazione col nostro, il “mondo dei giusti”. L’indifferente, osserva Zuppi, è convinto di non avere fatto niente di male, invece l’indifferenza genera degli inferni, perché il male non è indifferente, anzi, prolifica negli spazi lasciati liberi dal non amore e semina conforto, violenza, disillusione, odio.
Nel libro sono diciannove le voci dei detenuti, cinque di quelli condannati al fine pena mai, due dei detenuti in semilibertà, due ai domiciliari, due immigrati, quattro ex detenuti. Aniello Falanga, detenuto: «Non sono né vivo né morto. Peggio! Sono uno che viene lasciato morire lentamente nella dimenticanza, nella totale solitudine interiore… L’ergastolano non vive, mantiene in vita un corpo che non gli appartiene più perché è diventato proprietà della giustizia».
Antonio Di Sero, detenuto, racconta dell’umiliazione subita all’ospedale Pertini in cui, nonostante la temperatura rigida, è stato portato in pantofole e accompagnato da due agenti della Polizia Penitenziaria come da regolamento, ed è stato mortificato dagli sguardi della gente di passaggio o in attesa di visita, «sguardi precisi che sapevano di diffidenza celata sotto una totale indifferenza».
Alfonso de Martino, fine pena mai, si domanda perché il Signore non voglia prenderlo con sé, e Marco Fagiolo, anche lui fine pena mai, conclude che l’unica cosa da fare è gettare la spugna con la ferma decisione di non lottare, non fare più niente, lasciarsi andare.
Racconta anche che uno dei motivi di scoramento è l’indifferenza evidente in ogni atto burocratico, in primis nei tempi di attesa per la presentazione della relazione sul comportamento del recluso, necessaria per accedere ai benefici di legge: «Sono tempi che sfiancherebbero chiunque, ma che i detenuti sono costretti a sopportare con apprensione ed estrema pazienza, pazienza che a volte viene meno e può portare a compiere atti di autolesionismo, se non gesti estremi come il suicidio… Suicidi, per assurdo, anche loro destinati alla più completa indifferenza».
Fagiolo compie anche un passo successivo: «È certamente giusto lamentarsi della tanta indifferenza che ci circonda. Ma sarebbe altrettanto giusto fare un mea culpa proprio per l’insensibilità provata verso gli altri, verso le vittime… maturare la consapevolezza della sofferenza inferta direttamente o indirettamente, sia alle vittime dei reati che ai nostri stessi familiari: altrimenti, a cosa sarebbe servito espiare la pena?». Appunto.
Davvero si può ritenere che questa consapevolezza, obiettivo della “rieducazione”, passi attraverso sofferenze fisiche e morali che si aggiungono alla privazione della libertà? Una rivelazione amara quella di Michele Cuffari, fine pena mai: «Ho visto i più buoni diventare indifferenti e le vittime diventare carnefici nell’indifferenza. Con il passare del tempo, l’indifferenza ha lentamente fatto il suo ingresso anche in carcere, un luogo che dovrebbe essere l’esempio della solidarietà».
Antonella Rasola, direttrice del carcere di Rebibbia, non ha dubbi sulla strada da seguire: «Sappiamo bene che l’approccio giusto da adottare è quello di favorire quanto più i contatti con la società civile, mettendo in atto le condizioni per offrire alle persone detenute le possibilità opportunità inclusive, attraverso l’accesso al lavoro, alla formazione professionale, allo studio, allo sport; perché il tempo trascorso in carcere non rimanga vuoto e sospeso, ma abbia un senso, divenga risorsa preziosa da cui attingere per affrancarsi e divenire persone nuove». E prima di tutto: «È necessario che fuori si sappia cosa accade dentro». Susanna Schimperna 14 Novembre 2023
È stato torturato all’hotel Asinara, ora lo Stato presenta il conto per il “ soggiorno”. È l’ex ergastolano ostativo e scrittore Carmelo Musumeci, noto per le sue battaglie per i diritti dei detenuti e per essere l’esempio vivente di come una persona può cambiare. DAMIANO ALIPRANDI su Il Dubbio l'1 settembre 2022. Aggiornato, 10 agosto 2023
Oltre al danno, la beffa. Per lunghi periodi di detenzione gli è stato riconosciuto il trattamento disumano e degradante, compresi quelli riguardanti la reclusione presso il famigerato carcere dell’Asinara. Finito di scontare la pena, gli è arrivata la cartella esattoriale dove si ritrova costretto a pagare il mantenimento anche per quei periodi di tortura ricevuta. Parliamo dell’ex ergastolano ostativo e scrittore Carmelo Musumeci, noto per le sue battaglie per i diritti dei detenuti e per essere l’esempio vivente di come una persona può cambiare, tanto da essere un esempio per tutti coloro che sono aggrappati alla speranza.
E pensare, che per ottenere la liberazione anticipata dovette rimuovere un ostacolo: ha dovuto rinunciare al risarcimento di 28mila euro che aveva ottenuto per le condizioni disumane e degradanti che ha subito negli anni 90 nel famigerato carcere dell’Asinara. Da una parte il ministero della Giustizia ti risarcisce, ma dall’altra si riprende i soldi. Però l’ha fatto ben volentieri pur di ottenere la libertà e dimostrare, con un comportamento concreto, il ravvedimento anche lasciando allo Stato i soldi che gli spettavano. Questo fino a poco tempo fa. Ora che è arrivato il conto da pagare per il mantenimento ( più di 14 mila euro), oltre ad aver rinunciato ai soldi che gli spettavano, gli toccherà pure tirarli fuori di tasca sua. Lo Stato ci guadagna due volte: si riprende i soldi del risarcimento e ne vuole quasi altrettanto per il periodo di mantenimento, compreso quello dove subì la tortura. A Carmelo Musumeci toccherà pagare il mantenimento carcere per il periodo che ha subito atti inumani e degradanti dallo Stato. Per comprenderne l’assurdità può venire in aiuto questo passaggio della Cassazione del 2008: «I periodi di detenzione caratterizzati dalla accertata illegalità convenzionale del trattamento non possono fondare il diritto di credito dell'amministrazione, atteso che è proprio l'offerta trattamentale che è causa di danno». I giudici della corte suprema sottolineano che «ostano a tale riconoscimento ragioni di carattere logico, in quanto le modalità trattamentali inumani o degradanti determinano una detenzione illegittima nel quomodo, tale che il primo rimedio apprestato dal legislatore alla detenzione in condizioni inumane è quello della riduzione di pena, e sistematico, non potendo la condotta contra legem comportare l'esistenza di un contestuale onere a carico del soggetto che quel danno ha subìto».
Ricordiamo che Musumeci non è un ex boss, non ha mai fatto parte di Cosa nostra, ma era a capo di una banda, un clan che era dedito alla bisca clandestina. Non ha mai negato di essere stato un criminale. Anzi, ha sempre ammesso di aver commesso crimini di sangue per guerra tra “clan”. «O sparavo io, oppure loro sparavano me», ha sempre raccontato. Il suo spirito ribelle, però, lo ha sempre portato fuori dall’appartenenza alla criminalità organizzata: non ha mai accettato una struttura verticistica dal quale prendere ordini o professare obbedienza. Ha commesso dei reati, anche gravi, ma paradossalmente è stato condannato all’ergastolo ostativo per un omicidio che lui dice di non aver mai commesso. Per questo ora si sta attivando per chiedere la revisione del processo.
Parliamo dell’omicidio dell’imprenditore carrarese Alessio Gozzani avvenuto nel 1991. Fu il periodo nel quale, il mafioso colletto bianco Antonino Buscemi ( personaggio che fu considerato uno dei massimi consiglieri di Totò Riina), aveva il controllo delle cave di Massa Carrara entrando in società con il gruppo Ferruzzi Gardini. Prendendo il controllo, Buscemi mandò a gestire le cave suo cognato Girolamo Cimino. Fu proprio quest’ultimo che ebbe un battibecco con Gozzani perché si oppose alla loro presenza. Dopo qualche giorno, quest’ultimo fu assassinato in autogrill. Su questo omicidio stava indagando l’allora procuratore Augusto Lama, colui che aveva condotto l’inchiesta sull’infiltrazione mafiosa nelle cave, ma fu travolto da provvedimenti disciplinari del Csm. Abbandonò l’indagine e da allora fa il giudice del lavoro. Nel frattempo, però, per la giustizia il mandante dell’assassinio era senza se e senza ma Musumeci. E questo nonostante che in seguito cominciarono a collaborare taluni pentiti, Angelo Siino in primis, che hanno affermato il contrario, indirizzando i responsabili proprio verso i Buscemi. Quindi Musumeci avrebbe scontato l’ergastolo ostativo, alternato da lunghi periodi al 41 bis e trattamenti disumani accertati, per un reato che non avrebbe mai commesso. Ora si ritrova a dover pagare perfino il mantenimento per la tortura subita.
Lettere dal carcere dal passato: tanti detenuti in attesa di giudizio sospesi in spazi strettissimi, in 50 anni non è cambiato nulla. Rossella Grasso su L'Unità il 28 Luglio 2023
Dal carcere si è sempre scritto tanto. Lettere a familiari, ad amici, alle fidanzate. Se per un attimo coprissimo le date delle lettere scritte dai detenuti negli anni ’70 non ci accorgeremmo di nulla di strano: quello che si scriveva un tempo è identico a quello che si scrive oggi. Sbarre di Zucchero ha voluto fare questa prova. Arrigo Cavallina, attivista, ha recuperato e donato tre lettere del 1975 scritte dai detenuti. Ed è incredibile costatare che potrebbero essere state scritte ieri. Raccontano di sovraffollamento, vite sospese nel nulla, rapporti umani inesistenti e soprusi. “Queste lettere secondo noi sono importanti proprio perché dimostrano che quello che veniva scritto nel 1975 è uguale a quello che viene scritto nel 2023. Questo è una pietra miliare del senso di quello che facciamo. Noi cerchiamo il cambiamento perché da 48 anni non c’è nessun cambiamento, è sempre tutto uguale”, spiega Monica Bizaj di Sbarre di Zucchero. Riportiamo di seguito le tre lettere recuperate dal passato.
16 Aprile 1975
Quasi quasi sono più libero io, che alla mattina vado a girare di corsa lungo muri di cemento grigio alti più di due metri. E pensa quanto mi sento importante: da una torre una telecamera riprende tutti i miei allenamenti. Io ogni tanto saluto con la mano. Chissà che non mi vedi qualche volta, se all’ospedale hai la televisione. Tu però hai un vantaggio: sai che questo periodo di male (di letto, di sofferenza) non dura tanto: forse anche un mese, o due, sai che poi tutto ritorna come prima. L’importante per non scoraggiarsi quando si sta male è pensare a dopo: Pensa che il tuo “dopo” è di qualche settimana, qui c’è gente che aspetta anni. La “giustizia” è così: che uno intanto sconta la pena (il carcere) e poi – dopo un periodo che va fino a 8 anni – capisci, 8 anni! – si deciderà se è colpevole o no. Qui a San Vittore pochissimi hanno avuto il processo. Quasi tutti stanno aspettando, e non sanno fino a quando.
Oggi m’hanno consegnato un nuovo ordine di cattura. Vuol dire che per me la vita potrebbe essere solo questo, come non esistesse altro. Come fossimo nati per vivere in una stanza e camminare qualche ora dentro triangoli di muri. Che cosa strana la televisione, la lettera, i venti minuti settimanali di colloquio: una visita all’osservatorio astronomico, dove capti con curiosità strani messaggi di un mondo lontano. Non si soffre a non poter andare sulla luna. La vostra vita per me è la luna, non esiste. Sono altre le notizie che cerchi sul giornale: le vicende personali di chi conosci, quelle sulle carceri, quelle di Milano per sapere se verrà una persona nuova in cella con te. Se la vita è solo questa, dentro di lei si guarda la televisione, si beve, si gioca a pallone, si parla per ore di cose che un inverosimile me del passato considerava stupide. Si legge poco, non si fa l’amore (non esistono le ragazze), c’è tanta solidarietà ma nessuna mano, guancia liscia.
Lettera alla fidanzata
4 Aprile 1975
Qualche giorno fa finalmente ho insistito e il brigadiere mi ha accompagnato nella biblioteca. Abbiamo passato la porta chiusa del piano terra e (al contrario di quando vado al colloquio) ci siamo diretti al centro, dove confluiscono tutti i raggi, proprio come i raggi di una bicicletta. Il centro si chiama ‘la rotonda’, in mezzo c’è l’altare e domenica funziona da cappella. Anche durante la messa, però, tra ogni raggio e la rotonda c’è una porta di sbarre. Abbiamo dunque passato due cancelli per entrare nella rotonda e poi nel terzo raggio. Poi porticina, scalette, porticina, biblioteca: percorso e ambiente da soffitta kafkiana, inaspettato, che non c’entra niente con tutto il resto. Vecchietto con gli occhiali sulla punta del naso, che dice “praticamente, abbiamo tutto” e vuole sapere di cosa m’interesso, che ci pensa lui a darmi il libro adatto. Scorro il lungo elenco alfabetico, non c’è quasi niente. Quando bisbiglio “Don Chisciotte” il brigadiere, che si sentiva un po’ tagliato fuori, si illumina e dice trionfante: “E’ di Cervantes?”. Prendo “Oblomov”, e il bibliotecario dice che passa lui dal raggio ogni giovedì. Ma poi giovedì non è passato e siamo al punto di prima.
Ho cominciato a fare ginnastica, anche se devo fare gli esercizi senza orologio, che qui è vietato. All’aria scendo in cortile, che è composto da alcuni spicchi geometrici e un po’ irregolari, divisi da muri. Lo spicchio più grande è quasi un quadrato. E a girare attorno vicino al muro si fanno circa 60-70 metri. La mattina faccio giri di corsa, il pomeriggio di marcia. All’aria (o se piove nei corridoi) si chiacchiera camminando. Ma la necessità di moto, gli spazi strettissimi, la tensione nervosa sono tali, che vedi ognji gruppo camminare a passo affrettato continuando a fare dietro front vicini al muro. Il passo veloce e i continui dietro front sono l’andatura tipica, angosciosa del detenuto. Sembra che in molte carceri (anche qui) ci sia tensione. Vedi sul giornale quanti episodi. In realtà molte cose sono sempre successe, quotidianamente, e la novità è solo il fatto che le pubblicano. La libertà vuol dire principalmente tu. All’inizio pensavo addio montagne, spiagge; adesso non ci tengo più molto. La stangata del carcere è nei rapporti personali. Questo non toglie che devo stare attento a sorvegliare i ricordi, che non emergano troppo vivi, perché allora è brutta e ci vuol del tempo a riprendere il controllo; per un attimo eri tu, una spiaggia piena di sole, e una sberla con voglia di piangere.
Anche la repressione sessuale è durissima. Attende considerazioni e dibattiti su ogni ragazza alla televisione. Ieri mi sono sognato che mi hanno accompagnato in un posto a parte per fare l’amore con te, che anche eri detenuta, ma dovevamo fare in fretta per lasciare il posto ad altri. Poi siamo usciti e avevamo pochi attimi per parlare prima che ci separassero. Ma, visto che non c’era la guardia, ci siamo allontanati alla chetichella, in mezzo alla gente libera, e abbiamo camminato tenendoci per mano sui prati assolati, liberi. Pensando però che l’evasione è un reato, che poi bisogna stare latitanti tutta la vita, e che probabilmente saremmo usciti in breve tempo per via legale, abbiamo deciso di rientrare, ognuno nel proprio carcere, lasciandoci e salutandoci da lontano.
18 Aprile 1975
Certo mi piacerebbe avere la piantina che tua mamma vorrebbe consegnarmi. Ma, oltre alla prevedibile difficoltà burocratica di farla entrare, c’è un altro inconveniente. Circa ogni dieci giorni viene la “perquisa” (= perquisizione). Cioè una squadra numerosa di guardie ci svegliano la mattina presto, ci fanno uscire in corridoio e devastano la stanza senza mai trovare niente, naturalmente. Allora trovano la scusa per portarci via qualcosa: attaccapanni, o coperte, o posate, ecc. Quando rientriamo è tutto sparpagliato: devo cercare le lettere sparse sul pavimento, ci accorgiamo che hanno strappato per dispetto e buttato via pagine di libri, o fracassato lavoretti di fiammiferi incollati su un disegno, ecc. Se ne vanno sfottendo. Lo fanno probabilmente per provocare reazioni, ma noi stiamo sempre calmi. Ecco, non vorrei che se la prendessero anche con la piantina (magari con la scusa di vedere se c’è nascosto qualcosa sotto terra). Ci resterei troppo male.
Rossella Grasso - 28 Luglio 2023
L'iniziativa di Sbarre di Zucchero. “Caro carcere, ti scrivo le parole che non ti ho detto”: i problemi del carcere, per i detenuti e per gli agenti. Redazione su Il Riformista il 28 Aprile 2023
Sbarre di Zucchero è un movimento nato ad agosto del 2022, non ancora costituitosi in associazione, che si occupa della sensibilizzazione a favore delle tematiche inerenti ai detenuti, soprattutto di sesso femminile. Sbarre di Zucchero si è fatta promotrice affinchè venissero esternate le problematiche che coinvolgono non solo i detenuti ma anche la Polizia Penitenziaria. Di questo si è discusso il 26 aprile 2023, in congresso online, che ha visto coinvolto il movimento insieme alla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, alla Conferenza nazionale dei Garanti delle persone detenute e private della libertà personale e a due Sindacati di Polizia Penitenziaria, FS – Co.S.P. e UILPA.
Tra i relatori, Simone Bergamini, avvocato, componente osservatorio Carcere UCPI, Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della CNVG, Stefano Anastasia, Portavoce Garanti Regionali, Emanuela Belcuore, Garante della Provincia di Caserta, e per i sindacati UIPLA Pol. Pen. e FS – Co.S.P rispettivamente Gennarino De Fazio e Domenico Mastrulli. Moderazione a cura di Carlotta Toschi, avvocato e volontaria di Sbarre, con relazioni iniziali e conclusive della fondatrice Micaela Tosato e Michele Nardi. Numerosi gli argomenti, tra cui sovraffollamento e garanzia di sicurezza, tutela della salute mentale e fisica (compresi gli estremi gesti di suicidio ed autolesionismo), tutela degli affetti, minorenni e donne nonché madri.
Tutti hanno convenuto sulla circostanza che è urgente agevolare il contatto del recluso con l’esterno, anche per il tramite delle telefonate: aumentare le opportunità di contatti, soprattutto con la famiglia, è necessario per la salute fisica e mentale ma non solo, si pone nell’ottica di rieducazione e reinserimento sociale, come declamata in costituzione. FS – Co.S.P. e UILPA hanno avanzato la loro disponibilità a sottoscrivere, con Sbarre di Zucchero, raccolta firme a favore dell’ampliamento del diritto dalle telefonate, già garantito ed ampliato in corso di pandemia Covid – 19. È essenziale che vengano incoraggiate le pratiche virtuose a beneficio di tutti. Una telefonata evita autolesionismo, suicidio e previene situazioni critiche e potenzialmente dannose per il personale di Polizia Penitenziaria nonché la commissione di ulteriori delitti.
La permanenza in detenzione di un soggetto più sereno rende maggiormente vivibile e sicuro l’ambiente per tutti coloro che ivi accedono ma non solo agevola il ruolo, già complesso, dei difensori. Attraverso la voce e le testimonianze di coloro che vivono il carcere a 360 gradi (garanti, volontari, avvocati, ex detenuti), si è discusso, inter pares, di problemi che coinvolgono da troppo tempo il carcere e che non vengono risolti. Particolare clamore, a seguito della conferenza, ha destato la notizia, comunicata da Ornella Favero, che in data 27 aprile il direttore della Casa Circondariale di Padova, dopo aver sospeso il servizio di chiamate giornaliere nato in corso di emergenza Covid – 19, lo ha ripristinato. I reclusi presso il Carcere di Padova, pertanto, possono fruire delle telefonate tutti i giorni. Sbarre di Zucchero si impegna a proporre un nuovo congresso dove sollecitare ulteriori proposte e riflessioni da parte di tutti i soggetti interessati.
Doveva uscire dal carcere il giorno dopo, a 30 anni ha avuto paura della libertà: “Solo e senza soldi, non sapeva cosa fare” a cura di Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Febbraio 2023
Può un uomo chiuso tra 4 mura da anni avere paura della libertà quando arriva il suo momento? Un concetto che può risultare assurdo, eppure la paura di tornare in libertà è un sentimento che pervade tantissimi detenuti poco prima di uscire dal carcere. Sono tante le persone che quando arriva quel momento non sanno cosa fare, dove andare. È quello che è successo a un detenuto egiziano di 30 anni. A raccontare la vicenda è il suo compagno di cella. Il giovane era solo in Italia, il carcere per lui era l’unico posto dove sapeva di poter stare per certo. Aveva solo un’altra paradossale certezza: “Non ho un euro. Domattina già commetterò un reato perché salirò sull’autobus senza biglietto”. E così quel ragazzo preso da un terribile horror vacui della vita ha preferito farla finita. Non è mai più tornato in libertà fisicamente. Ha avuto paura della libertà. Riportiamo di seguito le parole della lettera a Sbarre di Zucchero del detenuto che racconta il dramma del suo compagno di cella.
Era il mio quarto anno in carcere, il secondo che ero in infermeria (dopo un infarto). All’epoca vivevamo (per modo di dire) in 3 detenuti in una cella. Il carcere si era svuotato velocemente dopo l’indulto del 2006. Il mio dirimpettaio era un ragazzo, giovane 30-35 anni. Egiziano. Mi vergogno ma non mi ricordo più il suo nome. Sono passati troppi anni. Era in infermeria perché si era autoinflitto dei tagli profondissimi al basso addome ed alle braccia con il coperchio di una scatoletta di tonno “elaborata”. Dopo quell’avvenimento gli ‘spesini’ (detenuti addetti alla consegna della spesa in carcere come attività lavorativa, ndr) potevano consegnare il tonno solo su un piatto, dovevano riportare la scatola all’ufficio sopravvitto. Lascio a voi pensare quanto poteva durare il tonno aperto e senza frigo ovviamente.
Era solo in cella sotto osservazione sanitaria speciale. Aveva scontato 5 anni e mezzo di detenzione e quel giorno avrebbe dovuto essere molto felice in quanto sarebbe stato liberato (fine pena) la mattina seguente. Però lo vidi più sottotono del solito. Gli chiesi il perché di questo suo stato d’animo. Per me era incomprensibile. Io avrei fatto salti di gioia, avrei già preparato il famoso sacco nero delle immondizie con le mie robe che avrei voluto portarmi a casa. Lui invece era triste e preoccupato. Mi raccontò che era solo in Italia e che non conosceva nessuno fuori dal carcere. Mi disse: “Non ho un euro. Domattina già commetterò un reato perché salirò sull’autobus senza biglietto. Non so quale autobus prendere. Da chi vado? A chi posso rivolgermi per chiedere aiuto? Dove dormo? Chi mi darà qualcosa da mangiare?”.
Gli scrissi qualche numero telefonico…don Paolo, La Fraternità, una mia zia (anch’io non avevo parenti in Italia). Mi disse: “il mio cellulare era una prova al processo…non ce l’ho più. Ma anche se l’avessi…non ho i soldi per una scheda. Come faccio a telefonare?”. Gli scrissi anche qualche indirizzo dove sicuramente lo avrebbero aiutato. Ero sconvolto da questo dialogo…disperazione pura. Avevo, per la prima volta, toccato con mano la paura di uscire. Inimmaginabile per una persona ‘normale’. Avrei capito col passare degli anni che tanti detenuti avevano questa paura. Paura della libertà! Paura di una vita senza futuro! Paura di tornare a delinquere per necessità! Paura di tornare nell’inferno del carcere! Feci un caffè e, con l’aiuto della scopa, glielo passai dall’altra parte del corridoio. Non abbiamo più parlato. Non sapevo cosa dirgli per fargli coraggio. Poco dopo è passato l’agente a chiudere i blindi. “Buonanotte! Buonanotte!”. Verso le cinque del mattino mi svegliai perché c’erano due rumori insoliti nel corridoio. Non feci in tempo di avvicinarmi allo spioncino che è passato un agente e chiuse tutti gli spioncini della sezione. Sapevamo tutti cosa vuol dire…non dovevamo vedere quello che stava succedendo.
Sono tante le “opzioni” per questa misura. Portano un detenuto “speciale“”(appartenente a le forze dell’ordine p.e.) oppure un collaboratore di giustizia ma più probabile che entrassero in una cella per picchiare un detenuto. Eh sì, “la squadretta” con l’assistente capo sardo che prima di entrare in cella indossava i guanti in pelle nera…Certo, eravamo in infermeria, poteva anche succedere che uno di noi “se ne andasse”. Ma a questa possibilità non volevamo credere. Invece, quando 3 ore dopo aprirono i blindi, abbiamo capito subito. La cella del ragazzo egiziano rimase chiusa. Arrivò il sovrintendente capo che mi fece qualche domanda…Poi mi raccontò che il ragazzo “liberante” si era impiccato. La paura della libertà! a cura di Rossella Grasso
Dentro l’inferno di Poggioreale, topi, muffa e dignità calpestata. Francesca Sabella su Il Riformista il 13 Febbraio 2023
È l’inferno in terra. È un luogo disumano. Di uomini privati della libertà personale e di ogni diritto. Non è più vita. È il carcere di Poggioreale, il penitenziario più affollato d’Europa. E lo ha detto bene il presidente della Camera Penale di Napoli Marco Campora che oggi, nella biblioteca Tartaglione del Nuovo Palazzo di Giustizia ha preso parte alla conferenza stampa organizzata da Magistratura Democratica (MD) per illustrare il report della recente visita effettuata insieme con l’associazione Antigone a Poggioreale. “Non c’è possibilità di salvare questo carcere, è una struttura vetusta e inadeguata” ha detto senza mezzi termini Campora. Ma pare che qui nessuno lo capisca, entrare a Poggioreale vuol dire avviarsi a morte.
Dalla visita, risalente allo scorso 4 febbraio, è emerso un quadro deprimente, esclusivamente a tinte fosche che, quando rappresenta alcuni padiglioni, diventa assume i colori cupi di un girone dell’Inferno dantesco. La capacità dell’istituto prevede una presenza massima di 1639 detenuti, ma ce ne sono 2003 (qualche mese prima, lo scorso ottobre, erano 2126) il 50% dei quali con pena definitiva. Numeri impressionanti che, per Marco Campora, possono essere fronteggiati unicamente con un’amnistia e un indulto. Poi, ha spiegato che “l’unica soluzione per il futuro è la depenalizzazione, ma la politica deve affrontare il tema con serietà, perché si tratta di un’emergenza democratica, costituzionale e, ancora prima, umana”. Dietro quelle sbarre c’è un mondo infernale, ma siamo tutti cechi, sono tutti ciechi.
Umidità e muffa nelle celle, che i detenuti cercano di arginare con la carta, mentre con il cartone si cerca invece di ostacolare l’ingresso dei topi: si è trovata davanti anche questo la delegazione di Magistratura Democratica. A illustrare il report è stata oggi il sostituto procuratore di Napoli Gloria Sanseverino, segretaria di Magistratura Democratica (MD) che ha parlato di un “appuntamento particolarmente sentito, non solo dagli operatori ma anche dal cittadino che si interroga sul sistema penitenziario e sulla possibilità di calpestare la dignità umana”.
La strage in carcere continua, detenuto 20enne si toglie la vita in cella: l’anno horribilis si chiude con 84 vittime
Strage nelle carceri, si uccide il “detenuto numero 82”: condannato a meno di 2 anni, sarebbe uscito tra sei mesi
Sanseverino ha illustrato una situazione gravissima, a dispetto degli sforzi della direzione del carcere: a Poggioreale, accanto ai padiglioni chiusi tempo fa per gravissime carenze (“c’erano i wc a pochissima distanza dalla cucina e dalla tavola dove i detenuti consumavano i loro pasti”), come il Roma, attualmente in ristrutturazione, “ce ne sono anche altri dove la situazione è dignitosa (i padiglioni Firenze e Genova) ma anche altri dove invece sono state registrate importanti criticità, come gli spazi per la socialità pressocché assenti e le docce in comune e mal messe. Al sovraffollamento si affianca, ha spiegato Sanseverino, carenza di personale (tra la polizia penitenziaria, i medici e i mediatori culturali). “Anche in carcere le persone di ammalano”, ha detto il magistrato, “ma ci sono pochissimi medici”.
Una situazione inimmaginabile. “Per capire cosa sia il carcere di Poggioreale – ha detto ancora il presidente della Camera Penale – bisogna entrarci. La visione è choccante. C’è gente annichilita, inebetita. Altro che reinserimento sociale: quando quelle persone lasceranno la detenzione non potranno fare altro che mostrare rancore contro chi è libero perché a loro non è stata data alcuna chance. E questo è intollerabile”. Cos’altro stiamo aspettando? Che sia troppo tardi? È già troppo tardi.
Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
La storia di Lorenzo S.: «Entrai in carcere a 10 giorni, ne sono uscito dopo 20 anni». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 14 Febbraio 2023.
Lorenzo S., l’autore di «Io ero il Milanese», ispirato all’omonimo podcast Rai di Mauro Pescio: «Oggi mi occupo di giustizia riparativa». A 12 anni la prima rapina. In tuttoalmeno 25 processi. «Sono stato in 14 prigioni. Mai viste le tombe dei miei genitori e di mio figlio»
Non è da tutti finire in galera a 10 giorni dalla nascita. A Lorenzo S. capitò questa sventura nell’ottobre 1976. Fra le braccia della madre A., varcò il cancello del carcere milanese di San Vittore, dov’era recluso D., che aveva messo incinta la donna poco prima di finire arrestato per due rapine in banca. Il padre di Lorenzo avrebbe trascorso lì dentro i successivi 10 anni e imparato la lezione: uscito di prigione, si guadagnò da vivere onestamente come robivecchi per il resto della vita. Ora, che altro poteva fare, quel frugoletto, se non seguire le orme del genitore? Lorenzo aveva appena 12 anni quando compì la sua prima rapina; ne aveva 14 quando cominciò a rubare le Fiat 500 usando le chiavette apriscatole della carne Simmenthal; ne aveva 15 quando finì al Beccaria, istituto penale per minorenni. Uscitone dopo un anno e 10 mesi, era pronto per una carriera criminale che lo fece diventare il Milanese e al cui confronto quella paterna sbiadisce: un numero imprecisato di rapine, 5 arresti, almeno 25 processi e altrettante condanne («dovrei vedere il certificato del casellario giudiziale, ma l’ho sepolto in cantina»), per un totale di 57 anni e 6 mesi di reclusione, che in Italia non si possono neppure scontare per intero, giacché la pena massima, se non scatta l’ergastolo ostativo, si ferma a 30 anni.
Lorenzo S. oggi è un uomo libero. Ha soggiornato nelle carceri di Milano, Cuneo, Alba, Novara, Matera, Alessandria, Catania, Bari, Piacenza, Bologna, Ravenna, Ferrara, Torino. Al Due Palazzi di Padova ha trovato la sua redenzione, quella che ne ha fatto un mediatore penale e sociale esperto in giustizia riparativa, narrata nel libro Io ero il Milanese (Mondadori), appena uscito, e ben compendiata da un brano dell’evangelista Giovanni in quarta di copertina, benché lui si dichiari ateo: «La luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno mai vinta». Lo ha scritto con Mauro Pescio, autore e attore che ne aveva tratto un podcast di successo in 14 puntate per Rai Play Sound.
Il Due Palazzi come luogo di riscatto.
«Veramente ci ho conosciuto il serial killer Donato Bilancia, e il capo delle Bestie di Satana, Nicola Sapone, condannato a due ergastoli, e Alberto Savi, uno dei fratelli della Uno bianca, la banda che uccise 24 persone e ne ferì 102».
In quel carcere il cappellano è don Marco Pozza, amico di papa Francesco.
«Nella mia cella non è mai entrato».
Dov’è nato?
«Al Giambellino, a Milano. Vedevo mio padre a San Vittore un’ora a settimana, quattro volte al mese. Mi aveva fatto credere che era elettricista là dentro».
Chi le disse la verità?
«Pino, suo fratello. Aveva avuto anche lui guai con la giustizia. Piansi fino a sera. Mi sentivo tradito. Mia madre faceva le pulizie, lo zio ci aiutava economicamente. Mi mise nel Convitto nazionale Longone. I compagni di classe m’indicavano la prigione dalle finestre e ridevano: “Ecco dov’è rinchiuso tuo papà”».
Ma poi suo padre uscì.
«Non è che ne gioii. In casa spadroneggiava, ficcava il naso in camera mia, mi vietava di giocare per strada. Ci portò a vivere nella sua città natale, Catania, dove al rione Librino scoprii di avere tre fratelli nati dalla relazione con un’altra donna. Il primo aveva 7 anni più di me. Legai con Giovanni, quasi mio coetaneo. Fu lui a ribattezzarmi il Milanese. Nei quartieri malfamati, da San Cristoforo a San Berillo, ho tuttora quel nomignolo».
Giovanni la avviò al crimine.
«Rapinammo 80.000 lire a un fruttivendolo. Ma prima rubammo un go-kart: avevamo sentito che serve un’auto per la fuga... Quella stessa sera, il negoziante si presentò a casa nostra. Mio padre gli restituì i soldi e mi massacrò di botte. Mi ritrovai a testa in giù, tenuto per i piedi».
Che ne aveva fatto del malloppo?
«Magliette e scarpe Nike. Per la prima volta in vita mia mi ero sentito ricco».
Ma non aveva paura?
«Non del carcere. Eravamo protetti dal casco, niente pistole. Lei deve capire che il 99,9 per cento del successo di un colpo sta nell’intenzione. Mi è capitato di compiere rapine armato solo di una penna».
La scuola non la frequentava?
«Finsi di andarci fino ai 14 anni. In terza media fui bocciato. Se oggi ho un diploma di ragioniere, lo devo alla prigione. Vorrei laurearmi in giurisprudenza».
Quindi rapinava anziché studiare.
«Esatto. Quattro diciottenni catanesi mi proposero un colpo a Milano: “Ti diamo 1 milione se fai l’apertura”. In gergo, è il momento in cui un incensurato a volto scoperto grida: “Questa è una rapina”. Salimmo al Nord in auto. Assaltammo un’agenzia Cariplo al Lorenteggio. La targa era probabilmente segnalata perché fummo subito beccati. Io finii al Beccaria e gli altri, che si erano appena spartiti un’ottantina di milioni, a San Vittore».
Nel frattempo aveva conosciuto Teresa, la sua prima ragazza.
«A 13 anni. I genitori e i 10 fratelli mi vedevano come la peste, perciò facemmo la fuitina. Si rassegnarono a lasciarci vivere in una casa popolare occupata. Nacque Salvuccio. La prima volta che lo abbracciai aveva già 30 giorni. Mia madre me lo portava in carcere, da Catania a Milano, due volte al mese. Gli sono stato accanto per meno del 10 per cento della sua breve vita. Sentivo che mi voleva bene, ma io ero capace di soddisfare solo le sue esigenze materiali e poi sparivo. A 8 anni fu colpito da un tumore al cervelletto, a 13 era già morto».
Mi spiace. E Teresa che fine ha fatto?
«Mi tradì mentre ero in galera».
Quindi la lasciò. Altre donne?
«Valeria, estetista, l’amante storica. Giorgia, volontaria conosciuta in carcere a Padova: l’ho mollata nel 2019, ma resta la mia migliore amica. Da un anno e mezzo ho una compagna che mi ha dato una figlia. Non mi sono mai sposato. Presto provvederà Mauro Pescio, il coautore del libro, a celebrare le nozze civili».
Che armi usava nei colpi in banca?
«Revolver. Smith & Wesson 38 special e 357 Magnum, comprate per 100.000 lire in una sala giochi di Catania. Mi allenavo al tiro sui terrazzi dei falansteri del Librino, progettati da Kenzo Tange».
Era pronto a uccidere?
«Non volevo farmi arrestare».
Quindi sì o no?
«Forse no, sa? Ero pronto a morire».
Come spendeva i soldi delle rapine?
«Puttane. Night. Champagne Dom Pérignon e Cristal Roederer. Una Bmw 530. Moto Kawasaki Ninja e Honda Hornet. Mi chiamavano “il bandito che veste Armani”. Negli assalti indossavo completi neri dello stilista, di lino in estate».
Investire i soldi e rifarsi una vita, no?
«Ero dipendente dal denaro. Uscivo di casa con 1.000 euro. Se me ne restavano in tasca solo 500, dovevo tornare indietro a prenderne altri 500. E poi c’era l’adrenalina del rischio, quella che mi ha tenuto lontano da eroina e cocaina».
Allora perché suo padre smise?
«Vorrei tanto chiederglielo, ma non posso: è morto. A causa del pericolo di fuga, m’impedirono di andare al suo funerale e anche a quello di mia madre».
S’ispirava a qualche malavitoso?
«A Renato Vallanzasca. La mafia avrebbe voluto affiliarmi. Non ci riuscì. Per vendetta, prese a sventagliate di mitra le vetrine della cartoleria di Teresa».
Il giorno più brutto della sua vita?
«Quando morì mio figlio. Non sono mai stato sulla sua tomba e neppure su quella dei miei genitori».
Per quale motivo?
«Sono sepolti a Catania. Ma io non voglio tornare in Sicilia, dove per tutti resto il Milanese. Da otto anni ho tagliato i ponti con i miei fratelli. Avvertivo che erano ancora invischiati in brutti giri. Mi spiace soprattutto per Giovanni, vorrei tanto che si rifacesse una vita».
Quanti anni ha passato in prigione?
«Venti. L’avvocato d’ufficio, Maurizio De Nardo di Torino, mi fece ottenere la continuazione dei reati. Fu ricalcolata la pena a partire dal primo arresto: risultò che l’avevo già ampiamente scontata. Il 19 luglio 2017 fui scarcerato».
Ora si occupa di giustizia riparativa.
«Merito della giornalista Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, volontaria nel carcere Due Palazzi. Mi ha inserito nella redazione. Nel 2018 ho aperto a Padova il Centro per la mediazione sociale e dei conflitti, con l’aiuto del criminologo Adolfo Ceretti, il mio formatore, e dell’avvocata Federica Brunelli, giurista. Faccio incontrare i carnefici con chi ha patito i reati da loro commessi, per esempio con Agnese Moro, con Manlio Milani, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di piazza della Loggia, con Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia».
È stipendiato?
«Sì, dal Comune: 1.000 euro al mese».
In carcere ha imparato qualcosa?
«A rapinare meglio».
Vorrebbe abolire i penitenziari? E con che cosa li sostituirebbe?
«Non li sostituirei. Vorrei solo che si evitasse di segregarvi i tossicodipendenti, i malati psichici, le persone con disagi, i delinquenti non abituali. La detenzione non fa altro che aumentare il desiderio di riabbracciare il crimine».
Ma lei che garanzie può offrire alla società circa il fatto che non tornerà mai più a delinquere?
«Una sola: il mio lavoro. Collaboro con i tribunali e la magistratura».
Perché non ha firmato il suo libro?
«Non per vergogna, né per paura. Volevo tutelare le persone che mi sono care. Non vivo mica in un reality show».
Dorme sereno la notte?
«Oggi sì. Ma per molti anni ho sofferto di incubi».
Che genere di incubi?
«Rumori di chiavistelli che cigolano e di cancelli che si chiudono».
Il manduriano si trova ristretto nel carcere di Opera a Milano. Modeo, lettera dal carcere: "trattamento disumano". La Redazione su La Voce di Manduria. Il 13 febbraio 2023.
Walter Modeo. Starebbe vivendo un incubo perché la direzione sanitaria del carcere di Milano dove è detenuto, gli negherebbe ogni diritto alle cure. È il manduriano 48enne Walter Modeo a dichiararlo in una lettera-denuncia indirizzata al nostro giornale: «Ricevo torture psico-fisiche, ora basta voglio denunciare tutto», ha confessato l’uomo. Modeo, allettato ancora prima del suo arresto per problemi alla colonna vertebrale, è sottoposto a misura cautelare dal 14 ottobre 2020 perché coinvolto nell’inchiesta sulla presunta “Cupola” mafiosa manduriana (in primo grado è stato condannato a 20 anni di reclusione) e denuncia il presunto «trattamento disumano e degrado sanitario» sottopostogli, a sua detta, dalla casa di reclusione Opera.
Ma il problema non sarebbe solo il carcere di Milano, perché il detenuto manduriano confessa nell’epistola di non aver mai ricevuto un’adeguata cura dalle strutture sanitarie carcerarie dove è stato recluso sin ora: prima in quello di Taranto e poi Ancona, ma anche in quello di Rovigo e ora di Milano, afferma. «Mi negano ogni tipo di cura per affrontare la detenzione con serenità», scrive Modeo dipingendosi come «carne da macello del sistema penitenziario». «Mi somministrano antidolorifici, oppiaci e lassativi per risolvere gli effetti collaterali dei farmaci», racconta Modeo accusando non solo l’area sanitaria di Opera ma anche quella di Rovigo per mancanza di igiene: «Sono stato gettato in una brandina e costretto a lavarmi la faccia in un bidè impregnandomi di urina», sono le sue parole. Accuse molto forti da parte del manduriano che è in attesa della sentenza di appello.
Modeo rivendica inoltre la mancanza di un accompagnamento ai colloqui con i famigliari, di videoconferenze ospedaliere e di essere stato sanzionato al rapporto disciplinare di cinque giorni di isolamento dopo aver sporto denuncia al comando dei carabinieri di Manduria per i trattamenti ricevuti. Marzia Baldari
Lettere sul carcere a Sbarre di Zucchero. “Sono un ex detenuto, lo sarò sempre. Dell’etichetta non ti liberi nemmeno se vuoi”. Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Febbraio 2023.
La vita dopo il carcere esiste? Certo, ma è pieno di insidie burocratiche e all’insegna del pregiudizio. A raccontarlo in una lettera a Sbarre di Zucchero è un ex detenuto che invoca il diritto di chi ha sbagliato e ha pagato a ricominciare. Racconta di quella terribile etichetta “ex detenuto” che chi entra i carcere poi si porta addosso per sempre. Come se la possibilità del cambiamento non fosse minimamente presa in considerazione. “Quindi io sono un ex detenuto e lo sarò per sempre. Anche se ho scontato una condanna a 24 anni, anche se chiederò una riabilitazione. Dall’etichetta non ti liberi, neanche se vuoi, perché è un’etichetta che ti resta impressa addosso, indelebile”, scrive. Riportiamo qui di seguito le sue parole.
In verità è poi questo in sostanza e o poche parole quello che succede. Un detenuto viene giudicato per tre gradi di giudizio, condannato da un giudice. Ricondannato dalle inevitabili opinioni di educatori e personale polizia penitenziaria, e anche quando hai scontato la tua pena il mood o lo status resta quello di “exdetenuto”. Quindi io sono un ex detenuto e lo sarò per sempre. Anche se ho scontato una condanna a 24 anni, anche se chiederò una riabilitazione. Dall’etichetta non ti liberi, neanche se vuoi, perché è un’etichetta che ti resta impressa addosso, indelebile. Il reinserimento lavorativo avviene sempre tramite cooperative sociali che nell’80% speculano sullo stato di detenuto pensando all’italiana “manovalanza tanta”, costo zero. Infondo tu hai bisogno di uscire, quindi a prescindere ti fai andare bene tutto.
Poi se per caso chiedi un diritto, diventi presuntuoso e poco credibile perché l’etichetta abbaglia come un evidenziatore. Se vuoi migliorarti, perché davvero una volta fuori da quei cancelli con la forza e il coraggio necessari, hai avuto modo di rifarti una vita, la burocrazia non ti aiuta. E in merito a questo vi racconto una storia. M. per una condanna lunga, esce prima in art. 21 esterno, segue semilibertà e affidamento in prova ai servizi sociali. Cammino extra murario impeccabile. In art. 21 prende anche la patente, che usa per lavorare e per condurre una vita sufficientemente normale. Nel 2018 durante la semilibertà, la coop. chiede a M. di prendere la patente C. Questo potrebbe migliorare la sua posizione lavorativa in termini anche economici. Ma M. non può perché a dire della procura, avendo in sentenza delle misure di prevenzione e sicurezza queste fungono da motivo per un diniego.
Ma guida M. Può guidare la macchina ma non il camion. Estinte le misure la procura risponde che M. non può ancora prendere la patente C perché è necessaria la riabilitazione. M. continua a guidare la macchina ma non il camion. Sembra un paradosso, ma è una delle tante realtà con cui un ex detenuto si scontra. Non è solo il pre-giudizio, non è solo il giudizio quasi sempre gratuito, a questo è necessario aggiungere la burocrazia, l’ostatività di tutto quello che si scontra con quello che oggettivamente è la realtà. Il messaggio che passa è: hai sbagliato, tu sei quello che ha sbagliato, e più di la non puoi andare, più di tot. non puoi fare.
E si innescano tutti quei meccanismi umani, di pensieri sociali come: è giusto così, non se lo merita, ha sbagliato, lasciamolo sbattere tanto chi se ne frega, i suoi diritti sono di certo inferiori ai miei. Mi piacerebbe che un giorno lo status di ex detenuto venisse sostituito da quello di semplice e normale essere umano. Che poi tra l’altro M. come tanti altri, ha scontato la sua pena. Ha o no diritto di ricominciare? Forse è questa la domanda che bisognerebbe porsi. Una volta posta questa domanda alle nostre coscienze, forse le risposte negli atteggiamenti, nei modus operandi della burocrazia e nella realtà di tutti i giorni sarebbero diverse da quelle che troviamo oggi. Rossella Grasso
Habeas corpus. Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente il 21 gennaio 2023.
Faccio fatica a scrivere sul carcere. Mi viene in mente un turbinio di immagini che concernono l’esilio e la colpa, il movente e il processo. Kafka allora, e il potere come incubo, la condanna senza conoscere le accuse. E poi Pavese con il romanzo Il carcere, l’esilio politico e i corti, soffocanti orizzonti. Dostoevskij con le Memorie del sottosuolo, dal socialismo giovanile alla prigionia in Siberia, i Quaderni del carcere di Gramsci, ossia la politica senza paure, le incisioni di Giovan Battista Piranesi e i suoi vortici di scale multidimensionali, la ronda dei carcerati dipinta da Van Gogh mentre si trovava in manicomio, quei prigionieri che camminano meccanicamente in circolo, opera ispirata a Gustave Doré…
Risuona nella mente L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo (1829). “Tutto è prigione attorno a me; ritrovo la prigione sotto tutte le forme, sotto forma umana come sotto forma di cancello o catenaccio. Questo muro, è prigione di pietra; questa porta, è prigione di legno; questi secondini, sono prigione di carne e ossa. Sono in balia della prigione. Mi cova, mi avviluppa con tutte le sue pieghe”. Ma sopra tutti svetta Se questo è un uomo di Primo Levi, e quel giorno con lui presso l’Enciclopedia Einaudi, lassù in quello studio, quando mi spiegò con uno sguardo la sua poesia: “Considerate se questo è un uomo… / che muore per un sì o per un no”. E le memorie di mio padre scritte cinquant’anni dopo essere tornato dal campo di prigionia di Siedlce, dove le donne polacche sfidavano i nazisti gettando le pagnotte al di là del filo spinato. E poi chissà perché Nick mano fredda, Paul Newman su quelle rotaie e la ballata della colonna sonora. Grande confusione tra realtà e fantasia, tra reclusione ed esilio, sequestro e schiavitù, prigionia e ostracismo, dal greco òstrakon, frammento di terracotta su cui veniva scritto il nome di chi doveva essere cacciato, degnamente o indegnamente, dalla patria. E la damnatio nominis o càpitis, l’essere cancellati dai registri della memoria non meritando nemmeno di appartenere alla lista dei perduti. Abitudine, questa, invalsa ancora tra le oscure conventicole delle istituzioni. Ma la più grande confusione è quella tra colpevolezza e innocenza, tra abuso di potere e pena meritata, tra giustizia e ingiustizia.
Il silenzio degli innocenti non esisterebbe senza le urla dei dannati, il pianto delle vittime non avrebbe senso senza il ghigno dei torturati, il miglio verde senza la pista del deserto, la preghiera in clausura senza
all’opposto la folla che reclama. I sommersi e i salvati, allora, per tornare con Primo Levi oppure quell’altro Levi, Carlo, il pittore e scrittore, confinato dal fascismo, autore delicato e acuto di Cristo si è fermato a Eboli. Il confino che diventa una occasione di arte, di lotta simbolica, di riflessione. E perché no, anche il corpo pensato come prigione dell’anima: così sostenevano Pitagora e Platone. E il corpo di chi è stato sequestrato, per vendetta o in vista di riscatto, la condanna a non poter vivere, non comminata da giudici ma da gente come te. Anche il sopruso è una prigione e così l’oppressione e l’educazione sbagliata che un po’ alla volta ti convince che non vali nulla. Tante le carceri senza sbarre, troppe le pene senza giudizio che ti allenano al senso di colpa, che ti caricano di rabbia e frustrazione.
E allora benvenuti all’Habeas corpus, caposaldo del nostro diritto occidentale, che riconosce da 350 anni l’inviolabilità della libertà personale del cittadino, il quale deve sapere di cosa è accusato e deve potersi difendere. Non rinunciamo dunque all’Occidente, non vergogniamoci noi che ne facciamo parte, anche se l’Occidente ha orrende colpe scritte nei registri della storia. In questo do ragione a Oriana Fallaci, non bisogna arretrare dai nostri principi, dal saper fare l’esame preciso dell’accaduto, separando la ragione dalla sopraffazione e dall’oppressione, esercitando la critica invece del furore ideologico, e dell’odio cieco per cui non c’è riparo.
Una civiltà è come una persona, merita la prova d’appello, la richiesta di un perdono, l’occasione di un riscatto, il tempo di uno svelamento e di una ripresa. Ci si chiede se il carcere serve, se è più utile alla società o alla persona che è reclusa. Chiediamo che, se è la reclusione la condanna, e quindi la negazione della libertà di spostamento, allora a questa pena non se ne aggiungano altre, trasformando il carcere in un ambiente ripugnante per chi è recluso e per chi ci lavora. La pena da scontare sia come una malattia di cui sappiamo che esiste una via d’uscita ma bisogna che il malato possa collaborare perché la terapia funzioni. Non è però così se scatta la vendetta dei più, se il condannato ha davanti a sé non soltanto la sua colpa ma quella di altri che si accaniscono, che lo perseguitano. L’errore travolgente, irreparabile, d’altra parte, è che si debbano dare colpe anche agli estranei, a chi commette reati impuniti, a chi giudica trascurando altre responsabilità. Come se la propria colpa riconosciuta andasse commisurata alla libertà immeritata di altri. Ma io ragiono per astratto, non conosco la realtà vera di questa discarica sociale che è il carcere, come l’ha chiamata recentemente un esperto del settore. Io continuo con la fantasia, con l’immaginazione, questa forza che Aristotele diceva nascondere qualcosa di divino.
È come se esistessero due ordini di realtà, uno che ci permette di ricostruire le motivazioni e le dinamiche dei fatti criminali, l’altro, quello decisivo, che consiste nell’aprire un giudizio e nel comminare una pena, sino al culmine finale che consiste nell’accertare se essa è servita alla piena restituzione alla società di colui che è stato recluso. In carcere ci vanno i singoli mentre fuori del penitenziario vive una società plurima, multiforme, poliedrica. Per questo il tema in questione si presta a diventare oggetto di storie, mettendo a confronto la posizione del singolo con le dinamiche della società. La fantasia dunque, ad esempio, che mi fa pensare a Un giorno come tanti, film di Jason Reitman con Kate Winslet. Frank è un evaso che incontra nel general store un ragazzino a cui chiede aiuto. Ferito, verrà accolto e nascosto a casa sua dove vive con Adele, la mamma. Tra Adele e l’evaso nascerà una storia e i tre vivranno quattro giorni di felicità mista ad incubo dove il corpo si esprime al massimo. C’è il ragazzino disabile, figlio della vicina di casa, che gioca a baseball con il generoso Frank, i due amanti che ballano la rumba, la nuova piccola famiglia che impasta gioiosa una torta di pesche, l’evaso che si dà da fare con mille lavori manuali, Adele e Frank a letto insieme. Il corpo riprende così tutta la sua tridimensionalità in quei pochi giorni di libertà provvisoria e circoscritta. E allora per una volta avrà vinto l’Habeas corpus? Sì, speriamo dappertutto, in ogni caso, oui, yes, ja, da, sim, joo, nai, tak…
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Lettere a Sbarre di Zucchero. “Vi racconto una giornata nell’inferno del carcere, uno spazio dove esistono solo i morti viventi”. Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Gennaio 2023
M. ha trascorso molto tempo in carcere. Se c’è una cosa che proprio non riesce a dimenticare è il silenzio “rumoroso” della notte, tra grida di aiuto inascoltate e quando anche il più piccolo scricchiolio è aumentato a dismisura, “per non parlare delle chiavi, quando ti chiudono il blindo fanno un rumore infernale, particolare, che ti rimane nella testa finché vivi”, scrive. Poi c’è il grigio che predomina su tutto e trasmette ai detenuti un senso di disperazione. M. racconta che per lui è stato fondamentale continuare ad avere una precisa cura di se stesso, anche se rinchiuso tra quattro mura strettissime, perchè, racconta “non si deve perdere mai la dignità, forse l’unica cosa che rimane alle persone recluse”. Ancora più importante per affrontare l’inferno del carcere è stata la possibilità di lavorare: “Affronto la giornata lavorativa con molta professionalità, e questo mi ha salvato in questi lunghi anni. Essere utile per me stesso e per gli altri”, scrive. Poi la doccia con l’acqua gelata come se fosse un’ulteriore punizione, e pranzi e cene prestissimo per poi tornare alla solita routine: la rumorosa notte, il brusio dell’alba con l’odore del caffè nel naso e negli occhi il grigio di tutto e le richieste di aiuto troppo spesso inascoltate. Riportiamo di seguito la lettera di M. A Sbarre di Zucchero.
Non è poi così difficile descrivere una giornata tipo in carcere, per uno che come me ha passato molti anni della sua vita e sulla propria pelle l’inferno del carcere. Vorrei iniziare proprio dalla notte, difficilmente si possono dimenticare le notti passate in carcere. Disteso nel letto di metallo contemplo il soffitto, vedo la solita crepa, che nel tempo è diventata sempre più marcata, nell’angolo della stanza la tela di un ragno, che nessuno ha mai pensato di togliere, in fondo quando si è soli anche il ragno tiene compagnia. Però sembra strano, mai mi sarei immaginato in vita mia di essere controllato mentre dormo. Se ci pensate è un privilegio per pochi, ma che non auguro a tutti.
Cerchi di dormire, che poi in carcere dormire è una parola grossa, pensandoci bene o prendi dal carrello magico dell’infermiera le gocce o pasticche che ti fanno addormentare all’istante, ma è un sonno artificiale, oppure senti tutti i rumori immaginabili nel profondo silenzio della notte, anche il più piccolo spostamento di uno sgabello è un rumore amplificato, per non parlare delle chiavi, quando ti chiudono il blindo fanno un rumore infernale, particolare, che ti rimane nella testa finché vivi, fino al passo pesante delle guardie, che ogni ora fanno il giro delle celle per controllare che tutto sia tranquillo, e quella luce che viene accesa anche per pochi secondi. Ma che tu comunque percepisci, interrompendo quel sonno leggero, che a volte ti fa rimanere sveglio fino al mattino, non riuscendo più a prendere sonno. Insomma, anche la notte in carcere non è molto gradevole. Eppure, durante la notte avvengono la maggior parte dei suicidi, pertanto questo controllo non serve quasi a nulla se non a svegliarti.
Poi alle prime luci dell’alba, inizia un brusio di tv che parlano ininterrottamente, non importa cosa trasmettono, ma l’importante è che siano accese per tutto il giorno, un tempo interminabile di parole, se solo servissero a far capire che il tempo perso in carcere è un tempo perso se non si pensa al futuro. Mi alzo e preparo il mitico caffè: questo è un rito che ogni detenuto affronta quasi in contemplazione. Prendo la moka, metto l’acqua e già immagino il profumo che riempie la mia stanza. Certo basta una macchinetta piccola, perchè la stanza è talmente microscopica, che una moka grande riempirebbe l’intera sezione. Poi metto sul fornello la caffettiera e aspetto che esca il caffè. Quando sento il rumore le mie papille gustative già pregustano il suo sapore, prendo il bicchierino di carta perchè di altro materiale è vietato e aspetto che si freddi un po’.
Poi lo degusto davanti alla finestra e guardo il panorama, che è sempre uguale. Il muro di cinta grigio. Una cosa che non ho mai capito del carcere, perchè deve essere tutto grigio. Non vi è colore nel carcere, forse volutamente, questo non lo so. Un carcere grigio fa aumentare la depressione. Pensa un carcere a colori: darebbe gioia anche alle persone detenute che ci vivono, e alle persone che vengono a trovarti. Prendo il caffè, lo sorseggio pensando a quando finalmente potrò gustarlo seduto davanti al mare…la mente spazia in ogni luogo quando ti fermi a pensare…
Mi rado ogni mattina, mi piace essere in ordine, anche se siamo reclusi dentro quattro mura grigie non si deve perdere mai la dignità, forse l’unica cosa che rimane alle persone recluse. Perché i diritti anche se costituzionalmente scritti, non esistono più quando si varca quel cancello. Mi vesto e mi preparo per affrontare la mia giornata: in carcere se sei fortunato lavori. Ecco il lavoro, questo rende una persona dignitosa, perchè non devi dipendere dalla tua famiglia, o dai volontari o dalla beneficenza di altri detenuti, perchè le persone detenute si aiutano molto tra di loro. Il lavoro è fondamentale, ti aiuta a capire i sacrifici che fai per arrivare a prendere lo stipendio, non dai tutto per scontato. Affronto la giornata lavorativa con molta professionalità, e questo mi ha salvato in questi lunghi anni. Essere utile per me stesso e per gli altri.
Poi ci sono giorni dove ci sono colloqui con i familiari, allora cambia totalmente la giornata, ci si alza con uno spirito diverso, si prepara qualcosa per mangiare insieme, si fa la doccia e poi ci si veste con un po’ più di attenzione: tutto deve essere impeccabile, loro non devono vedere in te la sofferenza, o che stai male per tutto quello che affronti e affrontano loro insieme a te, devi sempre dare la sensazione che insieme si può superare questo momento difficile, e quante volte dopo aver avuto un rigetto da parte del magistrato devi farti coraggio e dirgli che va tutto bene, e che le cose si aggiusteranno… e quante volte mi è successo in questo lungo periodo. Ma quando vedevo mia figlia e mio figlio, un sorriso si stampava nella mia faccia, e loro si rasserenavano. Il distacco da loro era molto meno traumatico, perchè è assurdo che si possa credere di tenere un rapporto decente con la famiglia in una sola ora di colloquio, non riesci neppure a dire quello che senti per loro… ma qui in Italia è così, dicono che vogliono cambiare, ma credo che sia molto difficile, i tempi non sono ancora maturi perché questo accada, la maggior parte della società è più sicura buttando la chiave, non sapendo che il carcere deve essere un luogo dove si sconti la pena, cercando però di recuperare valori e metabolizzando gli errori del passato, solo così si può uscire consapevoli della propria coscienza. Solo così la società avrà maggior sicurezza, restituendo persone consapevoli della loro nuova vita.
Passata la mattinata, tra lavoro, studio e colloqui, il pomeriggio il carcere si ferma, come se il tempo si cristallizzasse. Mi sembra illogico, il mondo è proiettato verso l’utilizzo massimale del tempo, mentre le persone detenute ne fanno uno spreco immenso. Si potrebbe utilizzare questo tempo per risarcire la società, con delle attività di pubblica utilità. Ripulire i giardini, pulire gli spazi pubblici, accudire gli anziani (certo i detenuti ci metterebbero tanto amore).
Io finito di lavorare torno nella mia stanza, dove leggo molto, e ricevo i miei compagni per prendere un caffè, qualsiasi scusa è sempre buona per fare un buon caffè. Giochiamo a carte, si discute di calcio, tutto questo per arrivare alla cena, altra cosa fuori senso, in carcere si pranza presto, e si cena prestissimo. Quasi una vita da monaco tibetano, non si può uscire da certi canoni non scritti ma che esistono in carcere. Prima si pensa alla pulizia personale, si fa la doccia, quando l’acqua calda lo permette, altrimenti bisogna aspettare che si ricarichi lo scaldabagno, questo è uno dei problemi più seri in carcere, vorrei sapere dove è scritto che una persona detenuta deve lavarsi con acqua fredda. In tutto questo lungo tempo sia estate che inverno mi sono lavato con acqua fredda, e quante volte ho fatto la doccia con acqua gelata… questa punizione in più a cosa serve? Certo non a migliorarmi, ripeto la dignità prima di tutto, e una persona che non pensa alla sua pulizia perde la sua dignità.
Fatta la doccia ci si prepara a cenare, questo è dovuto alla chiusura della cella, infatti se vuoi mangiare insieme ad altri compagni, con cui condividere le prelibatezze che si cucinano in carcere o per mangiare il cibo che i tuoi familiari ti hanno portato con tanto amore, devi farlo alle 19.00, altrimenti non riesci poi a sistemare le pentole e il resto, gli spazi sono ristretti non puoi lasciare tutto in mezzo. Finito di mangiare si lavano le pentole e poi si passeggia un po’ per il corridoio, si dice per digerire. Poi una volta chiusi si sta sulla branda fino alle 8.30 del mattino seguente… 12 lunghe ore, dove devi trovare il tuo spazio vitale. C’è chi scrive una lettera, chi legge, chi guarda la tv, a me personalmente piace leggere, ho riscoperto il gusto di farlo: ti fa evadere dalla routine del carcere, ma non la diciamo, questa parola…in carcere è vietata.
In questo lungo tempo rimani con te stesso, e devi trovare la concentrazione su quello che fai, i rumori, le grida di disperazione ti distraggono, e tutto quello che si sente una volta chiusi in stanza non sai mai da dove provenga, perchè le voci sono tutte uguali attutite dai blindati chiusi, dalla tv accesa. Ma queste richieste di aiuto non vengono quasi mai ascoltate, in carcere poca gente ti ascolta, e chi lo fa, molto spesso lo fa con poca attenzione. Tante volte è troppo tardi per salvare un ragazzo in difficoltà… 83 persone detenute che si sono tolte la vita… questo dipende molto dal fatto di non essere ascoltati e dalle difficoltà di chi è solo. Se ci fosse più ascolto alle richieste d’aiuto, se ci fosse più personale qualificato che riuscisse a comprendere le difficoltà di chi parla…tutto questo forse non accadrebbe. Poi ricomincia la notte, i rumori, i passi pesanti…si ritorna in quello spazio dove esistono solo i morti viventi… noi detenuti. Rossella Grasso
La lettera trovata dal padre 4 mesi dopo la morte. Donatella morta suicida in carcere, le speranze in una lettera (mai arrivata) a Maria De Filippi: “Aiutami, voglio smetterla di distruggermi con le mie mani”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 3 Gennaio 2023
La sua morte per suicidio all’interno del carcere di Montorio (Verona) quattro mesi fa aveva spinto Vincenzo Semeraro, magistrato presso il Tribunale di Sorveglianza, a chiedere scusa “per non averla capita”.
Ora emergono nuovi dettagli sulla scomparsa di Donatella Hodo, la 27enne di origini albanesi che nella notte tra l’1 e il 2 agosto 2022 si uccise inalando gas dal fornelletto in cella, dopo aver scritto un’ultima lettera d’amore al suo fidanzato. “Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami”, le sue parole.
A scoprirli il padre di ‘Dona’, come veniva chiamata dalle amiche. La figlia, in carcere per qualche furterello, dopo una adolescenza difficile e problemi di dipendenza, si era rivolta alla regina della televisione per parlare del suo caso, delle sue speranze.
Il 10 ottobre 2020 dalla dalla casa circondariale di Montorio, dove nell’agosto del 2022 deciderà di farla finita, Dona si arma di carta e penna e scrive una lettera a Maria De Filippi.
“Ciao Maria, ti scrivo questa lettera per raccontarti la mia storia e per chiederti aiuto. Mi chiamo Donatella Hodo, ho appena compiuto 26 anni, sono di origini albanesi ma sono cresciuta in Italia. Ora purtroppo mi trovo nel carcere di Montorio, sono finita qui perché ho avuto un’infanzia e un’adolescenza difficili con tanti problemi, non ho avuto la forza di reagire e mi sono buttata nella droga..”, le parole di Donatella.
La sue speranze erano molteplici: ma l’obiettivo era quello di cambiare vita, anche per quel figlio, Adam, che le era stato tolto all’età di 21 anni. “Ti chiedo di aiutarmi, voglio uscire fuori da tutta questa situazione, voglio smettere con la droga, voglio finire con il carcere, ma ho bisogno di qualcuno che mi dia una possibilità…”, scriveva la 27enne alla conduttrice di “C’è posta per te”, programma in cui sognava di partecipare.
Alla conduttrice Donatella rivolgeva un vero e proprio appello, chiedeva una nuova chance per fare del bene: “Maria, te lo chiedo con il cuore in mano, se hai qualche possibilità di aiutarmi a scontare fuori dal carcere, poi starà a me dimostrare che ce la voglio fare… io ti chiedo di aiutarmi, di darmi una possibilità, so fare tante cose e soprattutto ho ritrovato la voglia di vivere, di recuperare gli anni persi, voglio smetterla di distruggermi con le mie mani. Ora ti saluto, ti mando un abbraccio e aspetto la tua risposta con tutto il cuore”.
Quella lettera però a Maria De Filippi non è mai arrivata. A trovarla è stata il padre di Dona, Nevruz, riordinando le cose della figlia dopo la sua tragica scomparsa. Probabilmente a causa di un indirizzo sbagliato la missiva è tornata indietro al suo indirizzo di casa a Verona, fino alla scoperta da parte del genitore.
Parole recuperate e pubblicate poi da “Sbarre di zucchero”, il gruppo di attiviste che si sono ‘riunite’ proprio a seguito della tragedia che ha spezzato la vita di Donatella.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Donatella chiese aiuto a Maria De Filippi. Il suo appello e la sua morte sono la nostra sconfitta. Donatella Hodo, suicida in carcere a 27 anni. Quattro mesi fa si è tolta la vita in cella, a 27 anni. Ora il padre trova una lettera andata perduta: era una supplica alla conduttrice per cambiare vita. Davide Varì su Il Dubbio il 3 gennaio 2023
Donatella era in carcere per un paio di furti. Poca roba, in realtà: qualche centinaio d’euro per comprare qualche dose di eroina. Donatella non era una criminale, era una tossica che rubava per assecondare la sua dipendenza. La verità è che avrebbe dovuto alloggiare in una comunità di recupero e non in una prigione.
Donatella si è uccisa quattro mesi fa. Era nella sua cella del carcere di Verona e ha inalato la bomboletta di gas del fornelletto. Lo fanno molti detenuti: è il modo più rapido, indolore ed economico per uccidersi.
Quei giorni anche il giudice di sorveglianza chiese scusa: “Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente”, scrisse il dottor Vincenzo Semeraro. Un’amica di Donatella lesse quelle parole il giorno del suo funerale. Le lesse tutte d’un fiato e in chiesa piombò il silenzio.
Prima di uccidersi, Donatella scrisse una lettera al fidanzato. Stavolta era lei che chiedeva scusa: “Perdonami, caro Leo - diceva -, sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno, ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami...». Poi il silenzio.
Ma oggi, a distanza di mesi, la voce di Donatella torna a parlare, a urlare. Lo fa attraverso un’altra lettera che era andata perduta ma che l’ostinazione amorevole di suo padre ha salvato dall’oblio. Donatella, pensate, non scrisse né a giudici né ad avvocati. La sua richiesta d’aiuto volle inviarla a Maria De Filippi: “Maria ti prego, ti chiedo di aiutarmi, voglio uscire fuori da tutta questa situazione, voglio smettere con la droga, voglio finire con il carcere, ma ho bisogno di qualcuno che mi dia una possibilità... Ho 26 anni, ho ancora una vita davanti, voglio sistemarmi, avere un futuro, riprendere i rapporti con la mia meravigliosa famiglia... Oggi ho la voglia, il coraggio di voler cambiare, voglio ricominciare e lasciarmi tutto alle spalle, ho bisogno di un aiuto, di trovare un lavoro... voglio vedere gli occhi di mia madre piangere nel vedermi realizzata e non perché sta soffrendo per colpa mia...».
Ma quella lettera non è mai arrivata a Maria De Filippi. La sua supplica, la speranza di poter avere una seconda possibilità è caduta nel vuoto. Lo stesso vuoto nel quale si è persa irrimediabilmente.
Tutto questo accade nei giorni in cui 700 “semiliberi”, rientrano in galera dopo la fine delle misure antiCovid. Nonostante gli sforzi per ricominciare una nuova vita e i comportamenti esemplari, lo Stato ha infatti deciso di rinchiuderli di nuovo in cella. Questo accade perché, in spregio al fine rieducativo della pena, alcune esistenze sono considerate semplicemente irredimibili.
Servirebbe l’afflato e la consapevolezza di un Cardinal Martini, il quale ripeteva: “La pena deve guardare sempre al futuro, è chiamata a svolgere una funzione pedagogica ed educativa ed è volta a sostenere un reale cambiamento della persona , anche di chi si fosse macchiato dei delitti più ripugnanti”. Ma così non è, e purtroppo ci ritroveremo ancora chissà quante Donatella alle quali dover chiedere scusa.
Lettere dal carcere a Sbarre di Zucchero. “Emarginato in questo deposito di vite, ho capito che il carcere riguarda tutti”. Rossella Grasso su Il Riformista il 29 Dicembre 2022
“Ogni giorno scopro che il mostro di turno è un avvocato, una maestra d’asilo o un carabiniere, un operaio ex-fidanzato, il salumiere sotto casa, un banchiere, una badante, un amministratore Pubblico, finanche un prete ecc. Uno di noi. Una persona che come le altre può sbagliare in quanto la nostra stessa natura regge sulla fallibilità umana; siamo quindi tutti a rischio”. Scrive così V. in una lettera dal carcere. Detenuto, affida a carta e penna le sue riflessioni sul mondo all’interno del carcere completamente contrapposto a quello che c’è fuori. Un “problema culturale”, lo definisce, senza che nessuno si accorga che il dentro e il fuori sono assolutamente connessi. Sia perchè quel che c’è dentro è di fatto quello che c’è fuori, sia perchè prima o poi chi è dentro sarà fuori. Quello che manca e su cui si dovrebbe lavorare concretamente è una riflessione collettiva che ristabilisca un contatto tra dentro e fuori e che possa migliorare tutti. “Perché il problema della Giustizia, del carcere riguarda tutti e tocca tutti da vicino in un modo o nell’altro. A tal punto che farsene carico non è (come detto) una questione di pura pietà o altruismo, bensì di un vero e proprio interesse collettivo”, scrive V. Riportiamo di seguito le sue parole nella lettera a Sbarre di Zucchero che inizia con una preziosa citazione.
“La personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino”.
Corte Costituzionale, Sentenza n. 149/2018
Giudice relatore Francesco Viganò
Durante la mia carcerazione, emarginato in questo deposito di vite, mi sono interrogato su molte cose. Mi sono ritrovato a chiedermi anche se questo microcosmo, data la sua caratteristica natura, fosse una realtà a sé stante oppure, se la si potesse considerare ancora come qualcosa appartenente alla società. In questi anni ho sentito chiamare questo luogo in molti modi: discarica sociale, contenitore di mostri, cattedrale nel deserto ecc. Non so (se c’è) quale sia il modo più giusto per definirlo, visto che il carcere è molte cose.
Anche se le persone libere lo definiscono in modi diversi chiamandolo diversamente, restano in gran parte accumunati da una medesima posizione: loro non sbagliano. Sono sicuri di non sbagliare e di essere al di sopra di ogni sospetto, perché nulla di loro può essere messo in discussione. In definitiva: loro non avranno Mai a che fare con le carceri e i carcerati. Il tono di certe affermazioni mi ricorda sempre di quando anch’io procedevo e ragionavo per assolutismi, per visioni unidimensionali, ripentendomi che “non mi beccheranno mai…”. Evidentemente mi sbagliavo!. Infatti, ogni giorno si scopre che il mostro di turno è un avvocato, una maestra d’asilo o un carabiniere, un operaio ex-fidanzato, il salumiere sotto casa, un banchiere, una badante, un amministratore Pubblico, finanche un prete ecc. Uno di noi. Una persona che come le altre può sbagliare in quanto la nostra stessa natura regge sulla fallibilità umana; siamo quindi tutti a rischio. Pur rispettando le opinioni altrui, credo che nessun uomo sia un alieno, visto che partecipiamo tutti alla comune umanità, persino a quella più derelitta e sconfitta relegata in un carcere. C’è poi chi (più politicamente corretto) si ritiene, sì, simile a chi sbaglia (in quanto uomo) ma ribadendo di contro che il detenuto non è un suo simile; quindi, il detenuto non è un uomo o una persona…?!?
La verità, almeno la più diffusa oggi è che il carcere incarna un proiettore d’ombre, un mondo che non appartiene a nessuno, circondato da una terra di nessuno. Una specie di cortina fatta di barriere materiali e di ancor più insormontabili barriere psicologico-culturali. Nessuno vi vuol guardare dentro e ai pochi che intendono farlo, appare per lo più incomprensibile come per coloro che lo abitano. Questo perché non è una realtà trasparente ma un mondo sommerso che l’immaginario sociale popola di dannati, dove la coscienza collettiva ha paura di riconoscersi e allora, cerca di allontanarlo da sé, di rimuoverlo escludendolo, ghettizzandolo. Così, il carcere (con i suoi abitanti) diventa una struttura fuori dal mondo. Qualcuno ha detto: Il carcere riflette la società in cui viviamo, ma la società (per la maggiore) non lo riconosce come una sua parte. Tuttavia, eludere i problemi di certo non li risolve…
In effetti, ho scoperto sulla mia pelle quanto la società sia lontana dal conoscere e sapere cos’è il carcere e quali gli effetti della pena. Nondimeno, per quanto sia una realtà difficile da penetrare, accettare e capire, resta di certo utile conoscerla. Conoscere il carcere come azione sociale, in forma diretta, potendolo così guardare e giudicare per quello che nella sostanza è. Visto che, se pensiamo alla recidiva, la storia ci ha ormai abbondantemente insegnato di come la dimensione contenitiva del carcere non serva come difesa sociale. Ciononostante, quell’agglomerato umano non è una strada di non ritorno e il carcere può essere una realtà ben diversa. Una dimensione che seppur di colpa, ricerchi opportunità e crei occasioni per migliorarsi.
Personalmente, so di essere parte della società, in quanto da essa provengo e ad essa intendo tornare. Per questo, nonostante tutto, credo che il carcere sia società e appartenga alla stessa (o di certo così dovrebbe essere), in quanto esso ha un prima, un durante e un dopo. Un prima, dove l’individuo che commette il reato viene imprigionato, tolto dalla società; un durante, in cui quel soggetto dovrà vivere e non sopravvivere regredendo; un dopo, perché quella persona ritornerà alla società libera di cui è parte. Pertanto, dato che come altri dal carcere tornerò nella società, ritengo che non possa esserci separatezza, estraneità per la quale la società si senta esentata dal prendere concretamente in considerazione la realtà carceraria.
Perché dal carcere (quasi) tutti prima o poi escono: ma quali persone usciranno? Questa è la domanda che la società dovrebbe porsi e per la quale non dovrebbe permettersi di non sentirsi chiamata in causa, orfana della consapevolezza che è suo preciso interesse occuparsi di ciò che avviene dentro un carcere. Volenti o non, esiste un dopo che per essere positivo necessita di un durante solidale costruttivo e non indifferente. La società non può chiamarsi fuori (senza aspettarsi deleteri risultati), considerando quel perimetro un corpo morto a lei estraneo; considerato soprattutto che spesso è la stessa (società) purtroppo che con i suoi squilibri e disvalori, le sue ingiustizie e iniquità sociali ne partorisce le trasgressioni e le correlate devianze, che poi alimentano la condizione del sovraffollamento.
A me, persona detenuta, è chiesto di lavorare interiormente per sostenere un cambiamento e passare da quei modelli negativi che hanno prodotto la mia catastrofe, a punti di riferimento certi. Eppure fuori, tra gli uomini liberi di cui intendo tornare a far parte, mi rendo conto che i modelli “per bene” non sono poi così moralmente forti. Parlo di quei modelli “del branco” (anche tra persone adulte), del “traguardo a tutti i costi”, della “competitività che annulla l’altro”, dell’irremovibile individualismo, arrivismo e razzismo sociale ancor prima che razziale, ecc. Il carcere certo è pieno di tutto, come di persone dalla bassa levatura morale pronte ad “avvelenare” il prossimo suo senza apparenti ragioni né riguardi. Ma, “paradossalmente” è anche vero che capita di trovare più umanità, empatia e solidarietà tra queste mura, tra dannati piuttosto che nel mondo esterno. E allora forse, con estrema umiltà, anche dall’interno di una cella può nascere una riflessione che conduca a un’ipotesi di lavoro su cui tutti potremmo impegnarci…
Ciò che serve è una vera azione sociale, che inneschi un auspicato ripensamento culturale e alimenti attenzione solidale tra società e carcere. Quella che si evoca non è una richiesta-offerta di tolleranza, di filantropismo, di perdono elargiti a buon mercato, che riduca tutto a buoni sentimenti o a mere forme di assistenzialismo che per quanto apprezzabili, se fini a sé stessi risultano sterili. La solidarietà richiamata dal carcere è la stessa che s’innalza silenziosa dalle periferie, dalle città, dal mondo a cui dobbiamo dare un senso. Una solidarietà attiva, mossa da valori per cui non esiste solamente il mio orticello e che comporta mettersi nei panni degli altri, persino di chi ha sbagliato. Un progetto che parta da continui contatti e rapporti ripetuti con la società esterna. Un’interazione tra entità che collaborano alla creazione di iniziative che coinvolgano tutti, nessuno escluso. Un percorso da consolidare fiduciosi dove ricercare momenti di confronto nelle attività personali e collettive; per poter crescere e costruire nuove gestualità in comune.
Un esempio di solidarietà fatta di gesti concreti e atti vissuti, anzi, convissuti con gli altri. Perché quando s’intrecciano relazioni significative, l’esperienza collettiva assume significati positivi e allora, il delitto sarebbe mettere un limite al potenziale umano, a quell’umanità che vuol tornare a far parte della società di cui tutti ci sentiamo parte e alla quale si vorrebbe poter dare quanto è nelle proprie capacità. Questa è la visione con cui poter rispondere alle attese e alle richieste della comunità tutta, riuscendo “insieme” a sostituire le parole misconoscenza e paura, con le parole consapevolezza e comprensione. In questo recondito altrove senza tempo, ciò che mi tiene desto è l’energia prodotta dal mio fuoco interiore, alimentato dalla speranza… Speranza di assistere ad un’elevazione collettiva, che induca a riflettere su alcune verità e sui molteplici legami necessari per rendersi solidale verso il carcere. Perché il problema della Giustizia, del carcere riguarda tutti e tocca tutti da vicino in un modo o nell’altro. A tal punto che farsene carico non è (come detto) una questione di pura pietà o altruismo, bensì di un vero e proprio interesse collettivo. Rossella Grasso
Rinchiusi e dimenticati nel reparto “minorati fisici”. Redazione su Il Riformista il 23 Dicembre 2022
Al Tribunale di Sorveglianza di Reggio Emilia.
A Ministro della Giustizia
Al Garante Nazionale delle persone private della libertà
È da un reparto dove sono ufficialmente ristretti minorati fisici portatori di gravi patologie, molti dei quali in età ben avanzata, che vi giunge questo appello per un trattamento umano, adeguato all’attenzione medica, della quale dovrebbe farsi specialmente carico questo Istituto, oltre a garantire un trattamento dignitoso e di reinserimento come prevede l’Ordinamento Penitenziario. Con riferimento all’attenzione medica, ribadiamo le speciali necessità che questo reparto richiede ed è perciò che denunciamo la grave mancanza di assistenza specialmente nelle urgenze. Le cosiddette “terapie salvavita” sono specialmente concentrate proprio in questo reparto, ciò nonostante e anche in casi gravi, è cosa corrente che un detenuto colpito da una crisi acuta resti per ore se non per giorni disatteso. Specialmente dopo gli orari di chiusura delle celle, quando la sorveglianza è minima se non del tutto assente anche per diverse ore di seguito, in quanto le celle sono sprovviste di campanelli per allertare la sorveglianza.
Proprio questi detenuti che dovrebbero essere seguiti con maggior cautela, vivono in condizioni igieniche pietose: l’acqua calda è una scommessa contro un impianto superato ed insufficiente al quale da decenni si applicano inutili quanto peggiorativi rattoppi; il riscaldamento è inesistente, tranne in quei reparti o corridoi esclusi alla permanenza dei detenuti minorati fisici; dalle finestre, anch’esse mai rimpiazzate o perlomeno inadeguatamente isolate, entrano spifferi d’aria gelata tanto da rimanere infagottati giorno e notte; l’umidità la fa da padrone, muri e soffitto gonfi sotto la solita quanto iniqua mano di pittura. Per aggravare il tutto, da qualche tempo questo reparto è stato trasferito integralmente in una sezione, se possibile, ancor più fatiscente con il risultato che la quasi totalità dei detenuti è attualmente affetta da disturbi respiratori. Vogliamo anche sottoporre alle autorità competenti altre inadempienze, concernenti le limitazioni ai diritti sanciti per la protezione della popolazione carceraria.
Il campo sportivo, che pure è un diritto ormai acquisito nel sistema penitenziario, qui, è fuori uso e, pur disastrato, quando funzionava la frequenza di accesso per detenuti era tanto ridotta da potere addirittura commemorarne le volte in cui si andava. L’area dei colloqui dovrebbe offrire uno spazio per ricevere bambini, ma fin qui non ci è stata mai proposta questa possibilità, nemmeno dietro precisa richiesta. La palestra, che dovrebbe servire almeno cinque sezioni, si riduce a uno spazio le cui dimensioni corrispondono esattamente a quelle di due celle alle quali è stato demolito il muro di separazione; gli attrezzi, non potrebbe essere altrimenti, sono ridicolmente insufficienti oltre che degradati.
Di fatto è impossibile accedere alla biblioteca, tra l’altro minuscola: dopo un minuto o due per scegliere un libro, a distanza di guardia, si viene letteralmente messi alla porta. L’area trattamentale mostra tutta la sua inefficacia quando a ogni richiesta di un seppur minimo beneficio a questo ufficio di sorveglianza la risposta tipica è: “… perché ad oggi il programma di trattamento prevede unicamente attività intramurarie, in attesa del completamento dell’osservazione personologica preso l’Istituto di Parma”. Si fa osservare che questa è la risposta data anche a detenuti qui ristretti da oltre dieci anni, ciò indicherebbe forte inadempienza da parte del personale addetto all’osservazione e/o sintesi. In questo senso, le domandine inoltrate per conferire con questo personale specializzato restano puntualmente lettera morta.
Il diritto di telefonare al difensore, ma adesso anche alla propria famiglia, dovrebbe essere libero e illimitato. A Parma si ha diritto a tre telefonate alla settimana a ore e giorni stabiliti. Ossia, se c’è un’urgenza, sia familiare che di ordine giudiziario, bisognerà per forza rispettare il calendario mensilmente imposto dalla Direzione. Si fa inoltre notare che il prezzo di una chiamata a un cellulare, oggi le più frequenti, può costare fin a due euro o comunque non meno di 1,80. Prezzi esorbitanti, improponibili all’esterno da qualsiasi azienda telefonica. Un costo che rappresenta un impedimento di fatto nei contatti con la famiglia per quei detenuti che non possono permettersi simili spese.
I detenuti del reparto “Minorati fisici” del carcere di Parma si chiedono quali sarebbero queste speciali attenzioni che dovrebbero ricevere ma che non sono mai state all’ordine del giorno in questo Istituto, il quale sembra fare della restrizione di diritti previsti dall’Ordinamento Penitenziario una bandiera a parte. Per queste ragioni, chiediamo l’immediato intervento delle autorità competenti affinché sia ristabilito un trattamento dignitoso nella persona del detenuto e nel rispetto delle norme di diritto previste in legge.
Lettere dal carcere al Riformista. “Gogna mediatica, carcere e solitudine: non fa paura l’inferno dopo averci vissuto” a cura di Rossella Grasso su Il Riformista il 20 Dicembre 2022
L. è in misura alternativa per gravi problemi di salute. La detenzione ha reso la sua vita un inferno, non solo quando era in carcere ma anche dopo. È in cella che sono iniziati i suoi gravi problemi di salute e con il tempo sono peggiorati. Conosce le “ingiustizie, e scrivo perché ne ho viste e ne ho subite…e ne subisco”, scrive in una lettera. “Non fa paura l’inferno dopo averci vissuto“, dice, parlando dei giorni in carcere ma non solo. Anche dopo in misura alternativa “i giorni meno buoni diventano la quotidianità”. Dalle sue parole trapela tutta la solitudine che vive L., solo e inascoltato, con nel cuore solo il grande peso del passato, di quello che ha vissuto e di un marchio, quello di essere stato in carcere, di cui teme che non riuscirà mai a liberarsi. “E poi mi sento sconfitto e non c’è l’orologio per tornare indietro…Potessi credimi che lo farei, tutti lo farebbero”, continua nella lettera.
L. ha 42 anni, studia e scrive per non impazzire. Il suo passato è duro ma può riscattare tutto, inseguire i suoi sogni ed essere ciò che vuole e che è: un uomo pieno di passioni e amore da dare. L. ci sta provando e può riuscirci, nonostante le storture della società che ancora non accetta che chi ha sbagliato può cambiare. L., come tutti gli ex detenuti, non si deve arrendere e continuare a credere che la sua vita può cambiare. Presto realizzerà tutti i suoi sogni perchè ci crede. Riportiamo qui di seguito la sua lettera al Riformista.
Non sono sempre stato un delinquente, fino ai trent’anni ho condotto una vita fatta di viaggi amore e poesie, non ho mai nascosto a nessuno la mia omosessualità e ho dovuto combattere contro un mondo che scorre all’incontrario. Accade però che quel mondo incantato cessi di esistere e che la mente si ammali d’improvviso. Ecco che perdi il lavoro, l’ amore e la poesia. Troppa vergogna dirlo a chi ti circonda e allora costruisci un castello di sabbia per far vedere al mondo che va tutto bene e cominciano i primi reati contro il patrimonio a cui se ne susseguono altri per tappare i buchi dei precedenti.
Al primo passo falso, gogna mediatica e ho perso tutto, famiglia compresa, infatti sono 6 anni che non vedo e non parlo con i miei fratelli, per la vergogna di quanto hanno scritto di me i giornali. Penso anche di sparire, perché è l’ unica soluzione. Ecco perché capisco e comprendo chi non vuole più vivere e vuole andarsi un po’ a risposare.
Inizio la mia detenzione in carcere, un inferno. Sul serio non fa paura l’inferno dopo averci vissuto. Sento che nella mia vita manca quello che ho sempre desiderato, qualcuno che tenga a me sul serio e che capisca che la mia testa non funziona bene più, ormai ho imparato i giorni buoni e non. Sopraggiungono problemi seri di salute, e prossimamente dovrò essere sottoposto ad alcune operazioni, cominciano anche i disturbi alimentari e qualche episodio di autolesionismo. Dopo due anni di lotta mi danno la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, ma è un inferno anche così.
Quando sei solo e non hai nessuno con cui parlare, psichiatra a parte, inizi a scrivere e a studiare per non perdere quella parte ancora sana della mente. Ci si mettono poi controlli invasivi, magistratura che pretende il più piccolo cavillo quando ti sposti per andare in ospedale e richieste di aiuto al mondo che non vengono ascoltate. E i giorni meno buoni diventano la quotidianità. Vado spesso a parlare a mio padre deceduto l’anno scorso e li mi sfogo senza ritegno, tanto non mi vede nessuno, parlo di quello che vorrei e che mi manca, gli dico che non riesco a stare solo, ma la mia condizione non permetterà più di avere qualcuno…chi si potrà mai innamorare di uno che è stato in carcere? Sono come un contenitore che ingloba qualcosa ogni giorno e si gonfia lentamente. Pensare che ho ancora due anni in queste condizioni e che non vedo la fine mi fa sentire che non ci sarà più possibilità per me.
Allora mi aggrappo al nulla, e diventa importante anche quel nulla, quando esco mi faccio carino ma uso sempre mascherina e occhiali come se non volessi che nessuno si accorga di me…E sopravvivo pensando alle ingiustizie, e scrivo perché ne ho viste e ne ho subite…e ne subisco. Non so cosa accadrà nel mio futuro, non mi pongo il problema quasi mai perché la mia mente se ne va in un posto dove ho paura. E poi mi sento sconfitto e non c’è l’orologio per tornare indietro… Potessi credimi che lo farei, tutti lo farebbero…Si vive di ricordi, io ripenso spesso al mio primo ragazzo e ripenso alle estati insieme tra feste di paese, pale eoliche e le terme, come ripenso al dolore che ho dato all’ ultimo, non raccontandogli che dietro al ragazzo perfetto si nascondeva una seconda vita. Ho imparato a conoscermi meglio però e quando scrivo non soffro più. a cura di Rossella Grasso
Lettere sul carcere a Sbarre di Zucchero. “In carcere a 23 anni, se fossi rimasta lì sicuramente sarei peggiorata”. Rossella Grasso su Il Riformista il 12 Dicembre 2022
Il carcere per una donna può essere un’esperienza davvero difficile non solo emotivamente ma anche strutturalmente. M. racconta di essere entrata in carcere a 23 anni. Era poco più che una ragazzina, sola e impaurita. Era tossicodipendente e quando è entrata in carcere poco dopo è andata in astinenza. Anche lei, come altre donne che hanno vissuto il carcere, racconta che la salvezza sono state le compagne che l’hanno tranquillizzata e accolta in quel momento particolarmente drammatico. Restare all’improvviso senza niente, ne soldi ne vestiti fino al primo colloquio, smarrita e con la possibilità di potersi lavare un giorno sì e uno no, stare chiuse in cella, anche in tre persone, senza poter fare alcun tipo di attività ha reso la vita di M. un vero inferno. Lei, ragazza fragile, precipitata nel vortice della droga, aveva bisogno di un poso diverso da quell’inferno per cambiare. Dopo oltre un anno di detenzione in carcere è entrata nella comunità di San Patrignano. “Ora posso dire di aver cambiato vita, se fossi rimasta in carcere sicuramente sarei peggiorata ma ora posso dire di avercela fatta”, scrive. Riportiamo di seguito la lettera di M. a Sbarre di Zucchero.
A Novembre 2017 entro in carcere, era la mia prima detenzione e dopo una notte di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine finalmente riesco a sdraiarmi nello scomodo letto di quella piccola cella. Ero abbastanza spaventata, avevo solo 23 anni, ero in astinenza e ovviamente il metadone l’avrei ricevuto solo dopo l’ok del Sert che arriva alle 4 di pomeriggio. Sono stata accolta dalle altre ragazze inizialmente, anche perché fino al primo colloquio non hai soldi, vestiti o altro. Passavo le giornate con le ragazze conosciute li dentro che mi spiegavano come funziona il “sistema” lì dentro.
Ricordo bene il coordinatore del carcere femminile, un uomo alto e prepotente, non mi spaventa dire come era perché era cattivo e a parere mio odiava le donne e secondo me un uomo che coordina un carcere femminile non è giusto. Se chiedevi di essere messa in cella con un amica anche per poter passare questo periodo di reclusione in una maniera più leggere ti faceva penare le pene dell’inferno prima di darti l’ok. Abbiamo passato 3 mesi a regime chiuso, in piena estate, alcune in 3 in cella senza poter uscire, se ci lanciavamo del caffè o dello zucchero da cella in cella venivamo richiamate o c’era la possibilità che se non ti veniva lanciato bene se lo prendeva l’agente e non te lo dava più. Venivamo trattate come bestie, come se le guardie avessero schifo di noi. Il femminile non ha la doccia in cella e potevamo lavarci un giorno si un giorno no, in estate se ti intrufolavi nelle docce nel giorno in cui non toccava a te venivi richiamata, ma noi andavamo uguale!
Sono stata in carcere poco più di un anno, le giornate erano tutte uguali, ma cercavamo di farcele passare nella maniera migliore, tra amiche, a ascoltare la musica, cantare a squarciagola, farci i capelli, caffè e tante risate, pianti, litigate, insomma si cercava di fare sembrare tutto normalità ma poi entravano le guardie alla quale dava fastidio se cantavi, ridevi e ovviamente ti facevano smettere. Penso che il carcere per le donne sia straziante, in quel carcere non c’erano corsi, scuola, attività, sono ben poche quelle per donne. Le guardie sono sempre incazzate e incattivite, erano poche quelle con un cuore… dopo un anno sono entrata in comunità a San Patrignano dove ho finito di scontare la mia condanna e ho fatto 3 anni e mezzo lì anziché in carcere e ora posso dire di aver cambiato vita, se fossi rimasta in carcere sicuramente sarei peggiorata ma ora posso dire di avercela fatta. Lavoro, pago l’ affitto, le bollette, vado in palestra e la domenica al lago, ho una vita normale ed è la prova che chiunque può farcela.Rossella Grasso
Il 41 bis.
L’ergastolo «ostativo».
Cos’è il 41bis.
Incostituzionale.
Quanti sono.
Lettere dal carcere.
Il Caso Cospito.
Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa” il 9 marzo 2023.
La Cassazione ha deciso. La nuova legge sull'ergastolo ostativo, il primissimo provvedimento del governo Meloni, emanato con decreto il 31 ottobre scorso, di cui la premier disse in conferenza stampa di essere «fiera», secondo i giudici della Suprema corte rispetta i criteri della Costituzione e le indicazioni della Corte costituzionale. Perciò si può andare avanti così.
C'erano molte perplessità su questa legge, espresse da più giuristi. È stata recepita infatti l'indicazione principale della Corte costituzionale ovvero che il divieto di benefici penitenziari non è più assoluto e non può essere automatico per la mancata collaborazione con la magistratura, ma relativo.
Si può e si deve valutare caso per caso. Questo ergastolo ostativo nella versione Meloni contiene però un rovesciamento della prova definito «diabolico». Spetta al detenuto provare che non ha più contatti con l'organizzazione criminale di riferimento e non allo Stato.
[…]
È a questi organismi sovranazionali europei che "Nessuno tocchi Caino" con il suo monitoraggio continuerà a fornire tutti gli elementi per valutare se la nuova normativa e la sua applicazione rispetta la sentenza Viola contro Italia».
Ostativo, la Cassazione rinvia. E c’è il rischio della prova diabolica. Torna davanti al Tribunale di Sorveglianza il caso che ha fatto finire il 4 bis davanti alla Corte costituzionale. Nessuno tocchi Caino: «Anche noi rispediamo indietro la riforma». Valentina Stella su Il Dubbio il 9 marzo 2023.
Ieri la Prima sezione penale di Cassazione, riunita in Camera di Consiglio, ha deciso sul ricorso di Salvatore Francesco Pezzino contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di L’Aquila, con il quale gli era stata negata la liberazione condizionale in ragione della mancata collaborazione con la giustizia (e preso atto dell’assenza della cosiddetta collaborazione impossibile).
L’uomo, attualmente recluso nel carcere sardo di Tempio Pausania e in carcere dal 1984, tramite l'avvocato Giovanna Araniti aveva presentato il ricorso “pilota” che ha spinto la Consulta a fare pressioni sul legislatore perché modificasse la norma sul fine pena mai. «La decisione – spiega una nota di piazza Cavour - segue alla restituzione degli atti alla Corte di Cassazione che era stata disposta dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 227 del 10 novembre 2022, alla quale era stata rimessa la questione di legittimità costituzionale delle norme del cd. ergastolo ostativo, perché era sopraggiunta una nuova disciplina per l’accesso ai benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti con condanna all’ergastolo per reati cd. ostativi ( d. l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv. con modificazioni con la l. 30 dicembre 2022, n. 199). Il Collegio ha annullato l’ordinanza impugnata, così come richiesto anche dalla Procura Generale».
La difesa in via principale invece aveva chiesto di far tornare la nuova norma all’attenzione propria della Consulta, considerando che c’è una disposizione transitoria che prevede l’applicazione retroattiva della legge, contenendo elementi peggiorativi. In subordine era stato chiesto l’accoglimento del ricorso previa lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni peggiorative. «L’annullamento – prosegue il comunicato - è stato disposto con rinvio al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila affinché, alla luce della nuova disciplina, valuti con accertamenti di merito preclusi al giudice di legittimità la sussistenza o meno dei presupposti ora richiesti dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti per reati cd. ostativi non collaboranti». Questa decisione non deve sorprendere: era più che plausibile che gli ermellini rinviassero, considerato che la nuova norma fa cadere la preclusione della non collaborazione per l’accesso ai benefici. Toccherà quindi ai magistrati abruzzesi valutare se per Pezzino esistono i presupposti per poter accedere alla liberazione condizionale.
Il timore, come sottolineato da diversi giuristi, è che però dovrà superare una prova diabolica per ottenere quella libertà persa ormai da decenni. Come ci spiega il legale di Pezzino, l’avvocato Giovanna Araniti: «Al momento non abbiamo le motivazioni della decisione adottata oggi dalla Cassazione ( ieri, ndr). La difesa rimane in attesa di poterle leggerle. Adesso è prematura qualsiasi considerazione, in quanto la motivazione potrebbe essere molto complessa sulle varie questioni sollevate». Ciò non esclude che in base ad essa la difesa possa chiedere al Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila di sollevare nuovamente un dubbio di costituzionalità.
Insomma la strada per Pezzino per vedersi libero è ancora lunga. Ma, come ci disse in una intervista esclusiva, «sono dell’idea che, seppur tra sconforto e sofferenza, il “gioco vada portato avanti fino alla fine”’ perché finché c’è vita c’è speranza, finché la lucidità regge». In merito alla decisione della Cassazione hanno commentato i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti: «Rinvio è la parola che ha connotato la riforma del 4bis dopo la condanna dell’Italia da parte della Cedu nel caso Viola vs Italia.
La Corte Costituzionale ha rinviato al Parlamento, poi ha rinviato l’esame della legge di conversione del decreto alla Cassazione che a sua volta ha rinviato al Tribunale di Sorveglianza la valutazione del caso. Rinviare è rimandare indietro e questa è la valutazione che facciamo di questa riforma del 4bis che, seppur metta la parola fine alla presunzione assoluta di pericolosità, introduce tanti e tali paletti, da rendere davvero difficile l’esercizio del diritto alla speranza».
Per loro «la partita però non è ancora chiusa, perché il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ancora aperta la procedura nei confronti dell’Italia. È a questi organismi sovranazionali europei ( Comitato dei Ministri e Corte Europea) che Nessuno tocchi Caino con il suo monitoraggio continuerà a fornire tutti gli elementi per valutare se la nuova normativa e la sua applicazione in concreto rispetta la sentenza Viola contro Italia».
L’ergastolo «ostativo» e la rinuncia dello stato a rieducare il condannato. Carnelutti: «L’ergastolano visto come un animale incapace di ritornare un uomo». Mimmo Mazza su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Gennaio 2023
È dal giorno dell’arresto di Matteo Messina di Denaro che in ogni talk show e sulle pagine dei giornali si sente e si legge parlare di «ergastolo ostativo», una espressione coniata dai commentatori che non si trova in alcun testo di legge.
Nel nostro ordinamento esistono due tipi di ergastolo. Il primo, che la dottrina definisce «comune, è suscettibile di essere mitigato rispetto al fine pena mai: il condannato al carcere a vita può, al ricorrere di certe condizioni (sostanzialmente con il decorso del tempo e la buona condotta) accedere al lavoro all’esterno, ai permessi premio, alla semilibertà e persino alla liberazione condizionale.
L’ergastolo cosiddetto «ostativo», invece affligge, dal 1992 (l’anno delle stragi di mafia), chi è stato condannato associazione per delinquere di stampo mafioso e quelli ad essa assimilati, i quali, tuttavia, non sempre riguardano azioni delittuose commesse in un contesto di criminalità organizzata. Sino a poco fa, c’era la preclusione assoluta a qualsiasi beneficio penitenziario per il condannato che non avesse instaurato un valido rapporto di collaborazione con la giustizia. Un varco è stato aperto dalla Corte costituzionale, la quale nel 2019 è intervenuta a scalfire, per l’accesso ai soli permessi premio, l’ostatività, tramutando la presunzione di permanenza della pericolosità sociale del condannato da assoluta in relativa. Per gli altri benefici penitenziari, invece, restava ferma la necessità della collaborazione o dell’accertamento, operando, in caso contrario, la totale preclusione legislativa. Il Governo Meloni ha confermato l’esistenza del doppio binario: ergastolo comune ed ergastolo ostativo (anzi, più in generale, si distingue ancora tra reati comuni e reati «ostativi»). L’adozione della nuova disciplina da parte del legislatore ha consentito alla Corte costituzionale di rimettere gli atti alla Corte di Cassazione per una nuova valutazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza della questione.
Ma sulla compatibilità dell’ergastolo con i principi costituzionali – e in particolare con quello di risocializzazione enunciato dal terzo comma dell’articolo 27 («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato») - il dibattito è aperto da oltre mezzo secolo.
Nel lontano 1956, l’avvocato e giurista Francesco Carnelutti sostenne apertamente che la pena dell’ergastolo fosse inconciliabile con lo scopo della rieducazione cui deve tendere la sanzione: escludendo il ritorno del condannato nella società, l’obiettivo espresso dalla Costituzione si ridurrebbe ad una «rieducazione a vuoto […], una rieducazione in funzione morale, non in funzione sociale; e perciò non la rieducazione voluta dalla Costituzione». Così fatto, l’ergastolo implicherebbe che «la vera offesa alla libertà dell’uomo è quella di vedere ormai in lui un animale incapace di ritornare un uomo». Questa impostazione, tuttavia, è rimasta del tutto minoritaria, specie nell’opinione pubblica, che di certo non si è mai mostrata favorevole all’abolizione dell’ergastolo (si pensi ai diversi quesiti referendari abrogativi, che hanno sempre avuto esito largamente negativo). La spiccata tensione populista che innegabilmente orienta, in misura sempre maggiore, le riforme della giustizia, si muove nel senso del rafforzamento della certezza della pena e della sua funzione repressiva. In questa prospettiva, la pena detentiva perpetua conserva una sua innegabile utilità: non rieducare, ma punire il male con il male. La Costituzione, però, dice tutt’altro. Che non vuole dire apparecchiare a Matteo Messina Denaro la possibilità prima o poi di uscire dal carcere, sia chiaro. Ma nemmeno far dimettere lo Stato dalla funzione risocializzatrice e rieducatrice che gli è propria.
Cosa è e come funziona il 41bis, ce lo svela un libro. Frank Cimini su L'Unità l'11 Agosto 2023
“Pensare l’impensabile tentare l’impossibile” è il titolo di un lavoro di 73 pagine (10 euro Edizioni Colibrì’) – a cura dell’Archivio Primo Moroni, Calusca City Lights e Csoa Cox 18 – che sintetizza un dibattito avvenuto a Milano nei mesi scorsi e va oltre aggiornando il caso di Alfredo Cospito e del 41bis del quale viene messa in discussione la definizione di carcere duro perché significherebbe pensare che possa esistere un carcere leggero. Insomma il problema è il carcere. “Pensare l’impensabie, tentare l’impossibile” è una frase di Alfredo Cospito riferita da uno dei suoi legali Maria Teresa Pintus. “Il 41bis è una misura di pressione non una condanna come si sente dire nei talk show e pure nei telegiornali. La condanna la infligge il giudice, il 41bis no – sostiene Pintus- La sottoscrizione avviene a firma del ministro della Giustizia, quindi dell’esecutivo. Se da un punto di vista tecnico è un errore, da un punto di vista popolare il 41bis invece resta effettivamente una condanna di cui è molto difficile ottenere la revoca. Il 41bis diventa un marchio. L’unico giudice competente a revocarlo è nel nostro paese il Tribunale di Sorveglianza di Roma che si configura come un tribunale speciale”.
E non è vero che il 41bis viene applicato solo a chi ha l’ergastolo ostativo. Tra i destinatari anche reclusi in attesa di giudizio. Charlie Bernao parla del collegamento fortissimo tra guerra è populismo penale, attività interna di repressione di punizione e di uso della tortura. “I giuristi creano a tavolino il diritto penale del nemico e contro il nemico si creano i presupposti per utilizzare la tortura che sarebbe vietata dalle convenzioni internazionali. Gli psichiatri e gli psicologi ci dicono che l’effetto dell’isolamento sulle funzioni cerebrali del prigioniero è molto simile a ciò che succede quando un uomo viene picchiato affamato o privato del sonno”. Insomma il 41bis è una forma aggiornata e particolarmente disumana di tortura. Elton Kalica parla di “carcere di annientamento” oltre che di tortura. Kalica che è stato detenuto in regime di alta sicurezza racconta che “ti contavano i calzini le mutande i pantaloni le magliette e soprattutto i libri. Al 41bis sono morti gran parte dei membri di Cosa Nostra e altri ormai in età avanzata moriranno nei prossimi anni. Poi si cercherà altra gente a mettere al 41bis o si deciderà di chiuderlo? “A mio avviso – conclude Kalica – il fatto di averlo reso permanente attesta l’intenzione di perpetuarlo. Magari mi sbaglio ma voi non contateci”.
“In tanti vogliono il morto ma nessuno si assume la responsabilità di vestire i danni del boia – dice Anna Beniamino coimputata di Cospito nel processo per i pacchi bomba di Fossano – in compenso sono tanti i becchìni pronti per preparare la fossa all’anarchico, un balletto sguaiato intorno a una forca. La lotta di un anarchico in sciopero della fame ha spezzato la narrazione imperante nonostante il ridicolo tentativo di dipingerlo colluso con i mafiosi”.
L’avvocato Flavio Rossi Albertini ricorda che quando Cospito ha deciso di interrompere lo sciopero della fame ha ringraziato tutti e tutte coloro che hanno reso possibile “questa tenace quanto inusuale forma di protesta”.
Considerazione finale inevitabile. Di questo lavoro sarebbe stato orgoglioso, e lo dimostra la partecipazione all’iniziativa dell’Archivio, il Maestro Primo Moroni che aveva dedicato molti anni della sua vita alla battaglia contro il carcere e l’articolo 90 il padre del 41bis all’inizio dell’infinita emergenza italiana. Infinita e infatti siamo ancora qui. Frank Cimini 11 Agosto 2023
Il 41bis è un tunnel senza uscita, in tanti ci restano più di 20 anni. Angela Stella su Il Riformista il 4 Aprile 2023
Il 41-bis così come applicato rischia di violare la Costituzione: è quanto emerso ieri durante la presentazione del rapporto sul regime speciale di detenzione tenuta dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Mauro Palma ha parlato di “criticità tra il diritto alla finalità rieducativa della pena, di cui è titolare ogni persona detenuta, le particolari misure adottate nella quotidianità dell’esecuzione di tale regime e le spesso parziali applicazioni di quanto ordinato dalla Magistratura di sorveglianza a seguito dell’accoglimento di reclami”.
Il Garante ha rilevato, infatti, dopo aver visitato tutte le sezioni del 41 bis, “la permanenza di una serie di restrizioni, peraltro previste dalla Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 2017, tuttora vigente, che incidono significativamente sulla qualità della vita delle persone ristrette”. Restrizioni che “non appaiono allineate alla finalità del regime: il diametro massimo di pentole e pentolini, mantenuto anche quando la Corte aveva annullato il divieto di cucinare; la limitatezza dei generi di acquisto di modico valore o cibi che risulta diversa da quella adottata nei circuiti di alta sicurezza (una circolare ancora indica che si può acquistare una melanzana); il numero di matite o colori ad acquarello detenibili nella sala pittura (non oltre 12); il numero di libri (4); le dimensioni e il numero delle fotografie che si possono tenere nella camera; il divieto di affissione alle pareti e alle altre superfici di fogli e fotografie, salvo «una singola fotografia di un familiare»; l’esclusione dell’acquisto di alcuni quotidiani a diffusione nazionale”.
Tutti aspetti che per il Garante nazionale “rischiano di far venir meno il fondamento assolutamente condiviso di un circuito che efficacemente interrompa la possibilità di mantenere contatti, comunicazione e linee di comando con le organizzazioni criminali”. Il Garante ha poi denunciato una “sospensione del trattamento tout court”. E “il passo tra ‘sospensione del trattamento’ e il rischio di abbandono della finalità costituzionale della pena che sempre è molto breve”. Al momento della redazione del Rapporto, le persone sottoposte al regime speciale sono 740, tra cui 12 donne, distribuite in 60 sezioni all’interno di 12 Istituti. Delle 740 persone in regime speciale: 613 hanno una condanna definitiva, 121 sono esclusivamente in misura cautelare, 6 sono internate in misura di sicurezza in una struttura definita come “Casa di lavoro” e sottoposte anch’esse a tale regime. Quanto alle pene definitive: 204 sono condannati all’ergastolo, 250 sono condannati a pena temporanea.
Quest’ultimo dato evidenzia “il fatto che un numero consistente di persone (nello scorso anno 28) rimane in regime speciale fino all’ultimo giorno di esecuzione della propria pena temporanea. Tale situazione è ritenuta particolarmente critica sotto il profilo della sensatezza (perché rinnovare la misura nell’ultimo biennio, sapendo che nel corso di quei due anni la persona uscirà a fine pena?)”. Nel corso delle proprie visite, il Garante ha riscontrato un considerevole numero casi di persone soggette costantemente al regime da oltre 20 anni, a volte dall’inizio della detenzione. Ciò indica che l’apparato motivazionale “si risolve correntemente nell’affermazione della «assenza di ogni elemento in senso contrario» alla capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva, in adesione letterale alla formula della norma che su questo parametro fonda la reiterabilità del regime”. Tale formula limita la motivazione della proroga del regime speciale “alla prova di una circostanza negativa (una sorta di probatio diabolica) riferita a un elemento potenziale soggettivo – la «capacità» della persona di mantenere collegamenti con la criminalità associata – e non a uno oggettivo quale sarebbe l’effettiva permanenza dei collegamenti con l’associazione criminale”.
Nel Rapporto il Garante indica alcune raccomandazioni, tra cui: “tutti gli ambienti siano riconfigurati in modo tale da permettere un sufficiente passaggio di aria e di luce naturale, a partire dalla rimozione delle schermature delle finestre, salvi i casi limitatissimi in cui siano indispensabili a impedire il contatto con altri detenuti o con personale esterno; siano ripensati e adeguati i cortili di passeggio in maniera da non incidere negativamente sulla capacità visiva e consentire effettivamente attività fisica e sportiva; sia avviato con urgenza un percorso di alfabetizzazione e istruzione di base e sia potenziato comunque l’accesso agli studi ai diversi livelli; sia emanata una nuova Circolare sulle modalità di attuazione del regime speciale con linee-guida generali che assicurino l’esclusione di misure restrittive non strettamente funzionali alla prevenzione dei collegamenti interni ed esterni con la criminalità organizzata”. Angela Stella
La detenzione speciale e l'articolo 90. Storia del 41 bis, nato col caso Moro altro che decreto Martelli…Frank Cimini su Il Riformista l’8 Febbraio 2023
C’era ospite a Domenica in Margareth von Trotta la regista del film “Anni di piombo”. Scorrevano le immagini del colloquio tra la detenuta e la sorella che era andata a farle visita. Non potevano abbracciarsi neanche toccarsi con le mani. A dividerle una parete di vetro. In applicazione dell’articolo 90 del regolamento penitenziario, l’antenato del 41bis. Pippo Baudo rivolgendosi ai telespettatori disse: “Ecco che cosa accade in Germania”. Certo, in Germania. In Italia era pure peggio. Ma nel nostro paese gli intellettuali che avevano capito poco o fatto finta di non capire per lungo tempo scelsero di parlare di rischi di “germanizzazione”. Invece era l’Italia con la sua emergenza che sarebbe diventata infinita per arrivare fino si nostri giorni a dare lezioni al mondo.
L’articolo 90 faceva parte della riforma penitenziaria della metà degli anni ‘70. Il carcere duro fece il suo esordio a partire dal rapimento Moro e la pratica non ha mai smesso di esistere. Le condizioni di detenzione puntavano all’annientamento psico-fisico dei detenuti, a negare la loro identità politica. In pratica i reclusi non avevano diritti non esistevano regole. Sui libri che potevano tenere in cella sui giornali da leggere, sulla socialità, sulle visite dei familiari osteggiate in ogni modo possibile e immaginabile soprattutto per gli “ospiti” dell’Asinara carcere che poi venne chiudo in seguito alla vicenda relativa al rapimento del giudice D’Urso. C’è l’episodio raccontato da Pasquale Abatangelo nel libro “Correvo pensando ad Anna” quando dice al figlio di spostarsi “perché papà deve fare una cosa”.
Vale a dire spaccare il vetro divisorio della sala colloqui. Va ricordato come abbiamo tutti potuto vedere in un recente documentario su Sky che vi furono numerosi episodi di tortura a cominciare da quello di Enrico Triaca, formalmente riconosciuto in un processo a Perugia a anni di distanza dopo che all’epoca il diretto interessato era stato condannato per diffamazione. La finta esecuzione ai danni di Francesco Giordano. Giovanni Senzani ricevette un trattamento speciale a suon di botte e il suo arresto comunicato ufficialmente solo cinque giorni dopo.
Il regime delle carceri speciali raggiunge il suo culmine come disumanità nei cosiddetti “braccetti morti” in funzione nei primi anni ‘80 alle Nuove di Torino, a Foggia, Ariano Irpino, Ascoli Piceno come ricorda l’avvocato Giuseppe Pelazza. Soltanto 4 ore d’aria la settimana in un passeggio ricoperto di grate chevostacolavano la vista del cielo. Era consentito detenere una sola matita fornita dal carcere e un numero ridotto di fogli. Bel 1983 ci fu una circostanziata denuncia senza esiti contro il ministero rettò da Clelio Darida. Pelazza aggiunge che vi fu un paradossale seguito con Darida coinvolto nello scandalo delle “carceri d’oro”.
L’articolo 90 del regolamento penitenziario faceva parte del pacchetto preteso e ottenuto dalla magistratura alla quale la politica aveva delegato interamente la risoluzione della questione relativa alla sovversione interna insieme alle leggi premiali per pentiti e dissociati. Tutto incostituzionale o no? È semplice rispondere. Si è anche no. Perché la Costituzione formale del 1948 venne messa da parte e sostituita con una Carta sostanziale adeguata alle leggi di emergenza.
Nel 1986 formalmente l’articolo 90 fu accantonato dalla riforma Gozzini ma i detenuti continuarono a ricevere il trattamento carcerario a seconda del comportamento processuale. Una vera e propria differenziazione. Fino alle stragi mafiosi di Capaci e via D’Amelio che porteranno al varo del 41bis che sarà utilizzato anche previ detenuti politici nonostante la lotta armata fosse finita da tempo. Frank Cimini
41 bis, quante bufale. “Già i Ds contrari al 41bis poi morì Falcone, ma il Pd oggi si dimostra ipocrita”. Edoardo Sirignano su L’Identità l’8 Febbraio 2023
“Sul 41 bis, il Partito Democratico è sempre stato il partito dei controsensi”. A dirlo Tiziana Maiolo, ex parlamentare e simbolo dell’universo garantista.
Nel 1992 la sinistra lo voleva davvero quel 41 bis, che oggi difende con le unghie e con i denti?
Assolutamente no. Alla votazione finale quella sinistra, a cui fa riferimento, si è astenuta. Anzi ho sempre dovuto fare una battaglia, essendo contraria da sempre a questo provvedimento.
Perché?
Ritengo sia una misura disumana. L’essere umano deve stare nel sociale. Se lo metti in isolamento, invece, muore, diventa matto. La storia è andata in questo modo: dopo l’omicidio Falcone si diede inizio a una misura per isolare. All’inizio non era carcere duro, ma impermeabile, cioè finalizzato a evitare semplicemente che il boss dal carcere potesse dare direttive dall’interno per commettere stragi come quelle di Capaci.
Poi cosa è successo?
La discussione andò per le lunghe. In realtà il 41 bis non lo voleva nessuno. Il decreto voluto dal ministro dell’Interno Scotti e dal Guardasigilli Martelli non si voleva convertire in legge. Questa è la verità. Non erano d’accordo non soltanto i liberali, i radicali, i socialisti, ma anche gran parte di quello che era allora il Pds. Quest’ultimo, pure quando fu ucciso Borsellino, si astenne.
Col ministro Orlando, invece, perché è cambiata la linea?
Stavo parlando di una storia di trenta anni fa. Orlando è stato un ministro della Giustizia decisamente innovatore. La riforma carceraria da lui prospettata era molto importante. Il problema, però, è che non è mai stata attuata, o meglio ancora non si è mai voluto farla approvare.
Perché?
Ci furono allora le elezioni e Orlando certamente non dimostrò di essere un coraggioso. Quel testo, quindi, rimase nel cassetto. La verità è che nella tradizione del Partito Comunista Italiano, oggi Pd, convivono due anime: quella impersonata una volta da Luciano Violante, che tra l’altro oggi ha abbastanza cambiato idea, più simile a certi ambienti della destra e poi c’è quella più libertaria, il cui massimo esponente adesso è Renzi e non quelli del Partito Democratico. L’ex sindaco di Firenze è certamente più attento ai diritti delle persone e a quelli dei carcerati rispetto ai suoi ex compagni di paritto.
Quale tra le due anime prevale?
Sicuramente quella forcaiola. Prevale, purtroppo, per paura e non per ideologia.
Come giudica le tanto discusse visite a Cospito da parte di una delegazione dem?
Ho fatto centinaia di visite in carcere. Non ho mai avuto paura di parlare con i mafiosi perché in quel momento per me erano detenuti. Non stavo a chiedere loro di che reato fossero responsabili. Insieme a Sgarbi, nel 1996, siamo stati inquisiti per otto mesi solo perché avevamo parlato col boss della ‘Ndrangheta Piromalli. Non ho mai avuto timore. Se loro sono andati alle carceri di Sassari con una delegazione di persone con ruolo così importante, dovevano sicuramente comportarsi in modo diverso. Non dimentichiamo che Verini era il responsabile giustizia del partito, Orlando l’ex ministro della Giustizia e la Serracchiani, capogruppo del Partito Demcoratico alla Camera. Non stiamo parlando degli ultimi arrivati. Se fossero stati persone, come quando ero io parlamentare o semplicemente come sono oggi Roberto Giachetti o Riccardo Magi, dovrebbero rivendicare il loro diritto-dovere di andare a parlare con i detenuti per vedere le loro condizioni di salute. Ciò vale per tutti, non soltanto per il Cospito di turno. Non hanno, invece, il coraggio di farlo. Verini addirittura se ne vergogna.
Stiamo parlando delle stesse persone, però, che dicono di essere favorevoli al 41 bis…
Stiamo parlando, infatti, di un partito che contraddice sé stesso, in disfatta. Mi sembra tanto che hanno perso la guerra e ora stanno facendo una sorta di nuova ritirata dalla Russia. Sembrano soldati sparsi nella neve, che non hanno né un esercito, né un capo, né un’identità, né un bel niente.
Così via d’Amelio accelerò la conversione in legge...Una valanga di bufale nel dibattito parlamentare sul 41 bis, a partire da come è nato, il suo scopo originario e del perché, di fatto, si è trasformato in tortura di Stato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 6 febbraio 2023
L’aver varato il 41 bis è stata davvero una conquista di civiltà? La mafia corleonese è stata sconfitta grazie ad esso? Per Totò Riina era realmente il suo incubo peggiore visto che ha ordinato l’attentato di Via D’Amelio nel momento in cui c’era un Parlamento fortemente garantista tanto che solo a causa della strage, spinto dalla più che giustificata onda emotiva, ha deciso di accelerare l’iter, convertendo in legge il “decreto antimafia Martelli-Scotti” rimasto nel limbo dall’8 giugno 1992? Il 41 bis era una misura temporanea, oppure ordinaria?
La vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito ha accesso fortemente il dibattito, ma porta con esso una valanga di bufale, partendo proprio dalla sua ratio fino al fatto che oggi è usato in maniera abnorme tanto da avere più di 700 detenuti reclusi al carcere speciale. Nasce per i boss, ma risulta difficile credere che esistano centinaia e centina capi clan in Italia. Un numero che nemmeno esiste nei cosiddetti narco – Stati del Sudamerica. Ciò significa che c’è un evidente abuso di tale strumento che con il passare degli anni, oltre ad estenderlo anche alla “manovalanza” (quindi non solo ai capi delle organizzazioni criminali), ha avuto un surplus di pene vessatorie del tutto inutili.
Il rapimento Moro dette il via all’applicazione antesignano del 41 bis
Nei primi anni 70, il sistema penitenziario era al collasso con le incessanti evasioni e rivolte dei detenuti, quest’ultime dirette a sollecitare una riforma dell’ordinamento. Nell'aprile del 1973, il Parlamento affrettò l'esame della riforma penitenziaria, cercando di apportare poche modifiche al progetto di legge iniziale, ma proprio le proteste e le evasioni dei detenuti fecero sì che, durante l'esame della Commissione Giustizia della Camera, il progetto di legge subisse numerosi emendamenti, tanto da portare ad uno stravolgimento del testo iniziale. Nel 1975 si varò la riforma che non aveva con se elementi innovatrici tanto da destare numerose critiche dal mondo giuridico e politico garantista. Ed è in questa riforma che nasce l’articolo 90, l’antesignano dell’attuale 41 bis. Ma per anni non fu mai applicato, perché considerata una misura altamente eccezionale.
Arriviamo al 16 marzo 1978. In via Fani, un commando delle Brigate Rosse rapisce il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e uccide i cinque uomini della scorta. A questo fatto di cronaca, viene legittimata per la prima volta l’applicazione dell’articolo 90. Arriviamo nel 1986 con la legge Gozzini che ha abrogato tale norma a causa delle distorsioni applicative alle quali aveva dato luogo e dei molti aspetti di dubbia costituzionalità.
Totò Riina ha dato la spinta per l’approvazione
Come fu con l’azione terrorista nei confronti di Aldo Moro, le stragi mafiose del 1992 dettero l’impulso nel rispolverare l'articolo 90 attraverso, appunto, la conversione in legge del 41 bis. Il 23 maggio, a Capaci, esplode una quantità abnorme di tritolo. Una tragedia immane. L’ esplosione ha investito l’autovettura sulla quale viaggiavano gli agenti di Pubblica Sicurezza Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e quella che seguiva immediatamente dopo, cioè quella nella quale si trovavano i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. I primi soccorritori hanno potuto constatare che quest’ultimi erano ancora in vita.
La dottoressa Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza, invece Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli venivano dai soccorritori. Malgrado gli sforzi profusi dai soccorritori prima e dai sanitari dopo, entrambi i magistrati sarebbero poi deceduti in serata per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione. Tale tragedia spinse i ministri Martelli e Scotti a elaborare un decreto che inasprisce diverse misure, tra le quali l’introduzione del 41 bis. In quel momento storico, il Parlamento era trasversalmente attraversato da partiti fortemente garantisti, dai liberali, passando per i Radicali e i Socialisti, fino ad arrivare agli eredi del Partito comunista. Avevano espresso forti perplessità per questa misura che va in antitesi con la riforma Gozzini. Il decreto legge tardava per essere convertito in legge.
Arriviamo al 19 luglio 1992 quando Totò Riina decide di accelerare la strage di Via D’Amelio. Paolo Borsellino era diventato troppo pericoloso per Cosa Nostra. Tutte le sentenze sulle stragi affermano che l’uccisione fu volta non solo per una questione vendicativa (esito del maxiprocesso), ma soprattutto “preventiva” visto il suo interessamento all’indagine su mafia appalti. Per Totò Riina l’esigenza maggiore era quella di preservare i suoi affari miliardari e patti (in un caso addirittura entrò in società tramite i Buscemi) con i potentati economici, anziché rischiare che passi il decreto sul regime del 41 bis. L’attentato di Via D’Amelio fece crollare il “muro” garantista. L’iter per la conversione in legge fu accelerato e l’8 agosto 1992 il parlamento convertì il decreto Martelli – Scotti e quindi anche il 41 bis.
Da emergenziale a ordinario, fino a diventare duro
Così come per l’ergastolo ostativo (nello specifico il 4 bis), si strumentalizza Falcone per difendere l’attuale 41 bis. Il giudice ha voluto il rispolvero dell’articolo 90, non per torturare o convincere i boss a collaborare. La finalità, così come anche oggi è sulla carta, era necessaria per i capi mafia, coloro che erano al vertice dell’organizzazione, onde evitare ogni possibile collegamento e contatto tra i detenuti all’interno delle carceri e i criminali esterni. Punto. Nient’altro. Quando nell’agosto del ’92 c’è stata la conversione in legge, secondo l'intento del legislatore tale misura dove essere emergenziale e soprattutto temporanea. Tuttavia la sua vigenza è stata assicurata nel corso degli anni, per quasi un decennio, da reiterati provvedimenti legislativi di proroga, fino alla sua definitiva stabilizzazione nel sistema penitenziario a opera della legge del 23 dicembre 2002 con il governo Berlusconi.
Non solo. Attraverso la legge del 15 luglio 2009 n. 94, e sempre con il governo di centrodestra, il 41 bis ha avuto un inasprimento. Una legge che ha inserito gravose misure afflittive del tutto inutili rispetto alla finalità di sicurezza. Eppure, la ratio è quella di impedire i contatti che si realizzano soltanto attraverso due canali: da un lato la corrispondenza epistolare, telegrafica o telefonica, dall’altro, i colloqui. Non ci sono altri mezzi con cui il detenuto può comunicare. Quindi, non si comprendono determinate misure afflittive che appaiono surreali.
L’ex senatore Luigi Manconi, durante la trasmissione In Onda su La7, sottolineando nuovamente che lo scopo del 41 bis è recidere i legami con i propri sottoposti dell’organizzazione criminale, ha fatto un esempio ponendosi questa domanda: «Perché a un detenuto, come nel caso di Cospito, ancorché sottoposto al regime speciale di 41-bis, viene interdetta la possibilità di tenere nella propria cella la foto dei propri genitori defunti prima che il sindaco della città di appartenenza di quelle persone fotografate abbia riconosciuto l'autenticità?».
Misure eccessive, afflizioni inutili e un uso abnorme di tale misura, tanto da raggiungere più di 700 reclusi al 41 bis. Non è possibile immaginare un Paese composto da quasi mille capi mafia. Così come non è possibile immaginare un anarchico individualista come Cospito, al vertice di una organizzazione: è un ossimoro. Oppure, basti pensare a Nadia Desdemona Lioce che è al 41 bis nonostante non esistano più le cosiddette “Nuove Brigate rosse”. A chi dovrebbe dare gli ordini? Bisogna partire dal fatto che il 41 bis dovrebbe essere una misura del tutto eccezionale e invece ha subito un processo dilatatorio fino a diventare una sovrastruttura dove la tortura, di fatto, viene normalizzata. Concludiamo con le parole di Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti: «È tutto misurato al limite della paranoia, e la persona isolata al 41 bis diventa paranoica perché è il sistema che la porta a questo punto.
C’è una puntata della serie tv Law & Order dedicata proprio a questo. Un poliziotto si fa mettere in isolamento per cercare di capire cosa significhi, e in una settimana praticamente impazzisce senza rendersi conto che era trascorsa una settimana, mentre lui era convinto fosse passato chissà quanto tempo. Ecco, per sottolinearne la mostruosità».
Tutti ne parlano, ma nessuno spiega cos’è Il 41bis, la cattiva informazione sul carcere duro: sadico, crudele, disumano, la sicurezza non c’entra. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 5 Febbraio 2023
Abbiamo detto mille volte che i temi della giustizia penale si discutono ormai come si parla di calcio tra curve contrapposte. Ignoranza, visceralità, totale indisponibilità all’ascolto. Il tema del 41 bis ovviamente non si sottrae a questa desolante regola, anzi la esalta, come stiamo vedendo in questi giorni. Come uscire da questo pantano, da queste sabbie mobili nelle quali annegano razionalità e civiltà del confronto di idee? È semplice: basterebbe fare della buona, onesta, documentata informazione.
Chi come me -e come da sempre tutti i penalisti italiani- denuncia con forza la barbarie di questo istituto, non pensa nemmeno per un attimo che lo Stato non abbia il diritto e anzi il dovere di differenziare i regimi di detenzione a seconda della pericolosità criminale del detenuto. È ovvio che un soggetto qualificato come un pericoloso capomafia debba essere ristretto in condizioni tali da non poter continuare a esercitare il proprio potere criminale. Questa finalità preventiva del regime custodiale, a garanzia della sicurezza sociale, non può sensatamente essere messa in discussione da nessuno.
Senonchè il regime normativo e regolamentare dell’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario persegue questa legittima e giustissima finalità con modalità tali da risolversi invece nella sistematica -e in alcuni casi addirittura sadica- umiliazione delle condizioni minime di dignità della persona detenuta, senza che peraltro ciò abbia nulla a che fare con la tutela della sicurezza sociale. E questo ha una ragione storica, visto che la norma fu introdotta sull’onda delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, in pieno stragismo mafioso. Lo Stato reagì con straordinaria durezza, letteralmente “murando vivi” i detenuti per mafia di più alto lignaggio e più pericolosi. Ciò fu possibile perché la norma nacque come provvedimento esplicitamente eccezionale e transitorio, così giustificandosi la ferocia delle misure. À la guerre comme à la guerre, insomma. Senonchè quella eccezionalità, proroga dopo proroga, è divenuta la regola, e da pochi mesi o forse un anno che avrebbe dovuto sopravvivere, esiste e prospera da trent’anni.
Dicevo allora della buona informazione, che nessuno fa. Vorrei darvene io qualcuna. I detenuti al 41 bis hanno l’obbligo di rimanere in cella per 21 ore al giorno. Hanno diritto massimo a due ore d’aria (in cortili con alte mura) e a una di “socialità”, riducibili a una sola ora d’aria per ritenute ragioni di pericolosità. Nelle “aree riservate”, cioè di massima sorveglianza (dei veri e propri sottoscala) l’ora d’aria si fruisce in piccoli e ristretti cortili, che non permettono nemmeno di azzardare un passo di corsa. Colloqui con moglie, figli, familiari: un’ora al mese, e sempre divisi da un vetro. Un detenuto non può nemmeno sfiorare la mano di un figlio o di una moglie per anni, quando non per il resto della propria vita. Tranne un paio di eccezioni, i reparti 41 bis non sono dotati di struttura sanitaria adeguata. Salvo necessità di natura ospedaliera, le visite mediche, qualunque ne sia la natura, urologica o odontoiatrica, si svolgono nella medesima stanza, con le ovvie conseguenze in termini di igiene.
Ma soprattutto -udite udite- avvengono alla presenza di un agente della polizia penitenziaria, che sta addosso a medico e paziente ascoltando la conversazione ed assistendo alla visita, qualunque manovra il medico debba compiere: e qui la umiliazione della dignità della persona tocca l’apice. Lo scambio di piccola oggettistica tra soggetti dello stesso gruppo di socialità è vietato, salvo autorizzazione del Giudice di Sorveglianza, reclamabile dal Dap. Fino al 2018 era vietato cucinare in cella (è dovuta intervenire la Corte Costituzionale). Non si possono ricevere libri per studiare, non si può essere seguiti da professori o tutor. Abbigliamento e libri di lettura contingentati. Solo da pochi anni si può guardare la TV, ma i canali sono limitatissimi. Non si può ascoltare musica, per quanto incredibile questo possa essere. E molto altro ancora potrei raccontarvi.
Voi pensate che tutto questo abbia a che fare con la tutela della nostra sicurezza? Io penso proprio di no. Io penso che sia una feroce, stupida, sadica volontà di annientamento della persona. E questa, qualunque sia il crimine che possa aver commesso quella persona, è una vergogna indegna di un Paese civile. Io non credo che ascoltare Chopin in un buco di cella possa mettere in pericolo la sicurezza nazionale. E nemmeno farsi controllare la prostata lontano dagli occhi di una guardia carceraria. E nemmeno baciare la guancia dei propri figli, o la mano della propria moglie. E penso che chi lo pensi, dovrebbe vergognarsene, e magari farsi visitare da un bravo psicologo.
Possiamo cominciare a parlarne, finalmente, di 41 bis?
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “La Stampa” il 20 Gennaio 2023.
È la tomba dei vivi, il 41bis, ovvero il carcere duro per mafiosi e terroristi. Ciò che davvero fa paura alla criminalità. Fu inventato ai tempi della mafia arrembante e la logica è intuitiva: serviva per spezzare i collegamenti con l'esterno, evitare che i boss continuassero a comandare da dentro le celle, e chiuderla con lo scandalo di certe carceri dove i padroni erano loro.
Neanche troppo velatamente, c'è però un'altra motivazione meno nobile, ossia piegare le volontà più riottose e spingerle alla collaborazione.
Le condizioni di vita del detenuto soggetto al 41bis sono obiettivamente pesanti. Obbligatoriamente chiuso in una cella singola per l'intero giorno. Ha diritto ad appena due ore al giorno di «socialita» in gruppi composti da massimo quattro persone, tutti allo stesso livello di sicurezza.
La regola non vale però per i boss più in vista, il Gotha del Gotha criminale, che vengono detenuti nelle cosiddette aree «riservate» e svolgono la socialità con una sola altra persona, e sempre la stessa.
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Colloqui
Ciò che più li spaventa sono le restrizioni nei colloqui: uno solo al mese (invece di sei), di un'ora al massimo, e dietro un vetro divisorio, tranne se hanno figli minori di 12 anni, videosorvegliati da un agente di polizia penitenziaria. Su ordine della magistratura possono essere ascoltati dagli agenti.
«Nel caso in cui i detenuti non effettuino il colloquio visivo mensile, possono essere autorizzati, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, a svolgere un colloquio telefonico con i familiari, che devono recarsi presso l'istituto penitenziario piu vicino al luogo di residenza al fine di consentire l'esatta identificazione degli interlocutori. La partecipazione alle udienze avviene esclusivamente "da remoto" in videoconferenza», sintetizza l'associazione Antigone.
A luglio scorso erano 732 i detenuti al 41bis, in leggero calo rispetto al rapporto Antigine del 2020 (759). La maggior parte sono nelle carceri dell'Aquila, di Opera, Sassari e Novara. Nel penitenziario abruzzese, Matteo Messina Denaro incontrerà vecchi sodali. C'è ad esempio Filippo Graviano, condannato anche lui per le stragi del '92 e '93.
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Ecco, Filippo Graviano è al 41bis da tempo immemorabile come il fratello. Entrambi sono riusciti nell'impresa apparentemente inspiegabile di avere concepito un figlio con le legittime moglie nonostante il carcere duro.
«Non racconterò mai a nessuno come ho concepito mio figlio mentre ero al carcere duro, perché sono cose intime mie. Dico solo che non ho fatto niente di illecito, ci sono riuscito ringraziando anche Dio e sono rimasto soddisfatto.
Non ho chiesto alcuna autorizzazione, ma ho approfittato della distrazione degli agenti», spiegò Giuseppe Graviano in un processo.
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Come nasce il carcere duro. Quando e perché è nato il 41 bis, il carcere duro contro cui la sinistra era contraria. Tiziana Maiolo su Il Riformista l’1 Febbraio 2023
“Queste modifiche all’ordinamento penitenziario”, cioè quelle che hanno introdotto l’articolo 41 bis, oltre a tutto in modo retroattivo, “sono gravissime”. Non lo ha detto l’anarchico Alfredo Cospito nel 2023, ma il comunista Ugo Pecchioli nel 1992. Non era certo un libertario, il compagno Ugo. Ma erano altri tempi. Quando la sinistra era sinistra, quando votava il bilancio dello Stato anche nel suo ruolo di principale partito dell’opposizione, quando il Pds, figlio del Pci, aveva un’identità politica e particolare attenzione alla società delle regole.
Oggi abbiamo l’esponente del Pd Deborah Serracchiani che, in una giusta polemica con Giovanni Donzelli che l’ha accusata di aver istigato alla lotta l’anarchico detenuto, rivendica con orgoglio il suo, e quello del suo partito, entusiasmo per l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Quello nato per impedire che il detenuto per reati gravi di mafia e terrorismo mantenga anche dalla cella rapporti con le organizzazioni criminali all’esterno e possa, in quanto boss riconosciuto, anche impartire ordini per la commissione di reati. Era nato come carcere impermeabile, l’articolo 41-bis, ma nel tempo, e soprattutto dopo che (sciaguratamente) il governo Berlusconi nel 2002 lo ha stabilizzato facendogli perdere per strada la natura di strumento emergenziale e provvisorio, è diventato carcere duro, il “carcere del carcere”.
L’isolamento quasi totale, un colloquio al mese con il vetro, due ore d’aria al giorno con non più di quattro persone, il blocco della corrispondenza, rischiano di portare la persona all’impazzimento, oltre a degradarla nel fisico. Perché l’assenza forzata di socialità fa ammalare e priva la persona del diritto alla salute. E questo dimostra anche la sua incostituzionalità. Non è un caso che l’articolo 41-bis sia stato introdotto nell’ordinamento penitenziario, dopo una grande stagione di riforme, sia pur nel clima emergenziale del 1992, in via transitoria. Il problema è che sia stato poi rinnovato ogni tre anni nel decennio successivo, fino a diventare organico all’ordinamento penitenziario come un macigno nel 2002.
Per capirne l’origine e le finalità, occorre fare un tuffo nella prima repubblica, nell’ultimo governo Andreotti e nei giorni successivi alla sentenza del maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone con la decapitazione per via giudiziaria della cupola dei corleonesi, e poi l’omicidio mafioso di Salvo Lima. Il progetto di una legge che modificasse il processo penale e l’ordinamento penitenziario in direzione antiriformatrice è nato in quei giorni. C’era anche Falcone nella cabina di regia al ministero di giustizia. E il suo assassinio il 23 maggio fu quello che diede la svolta, che fece anche perdere un po’ la testa a quel governo. La durezza divenne violazione di norme costituzionali, la sicurezza divenne disumanità. Il decreto Scotti-Martelli, che prese il nome dei ministeri di interno e giustizia, interveniva sulle indagini preliminari, allungandone i tempi, sul regime della prova con la rinuncia alla piena formazione nell’aula dibattimentale nei processi di mafia, in totale stravolgimento della riforma del 1989 e del sistema accusatorio.
Nascevano quel giorno i reati “ostativi”, quelli che impedivano l’applicazione dei benefici previsti dalla riforma carceraria del 1975 e dalla legge Gozzini. E veniva introdotto l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, il figlio cattivo del precedente articolo 90, che si applicava però solo in caso di sommosse o gravi situazioni di pericolo all’interno degli istituti penitenziari. Il decreto fu una bomba nel mondo della giustizia e delle carceri. I detenuti iniziarono un digiuno a rotazione limitandosi ad assumere acqua e si iscrissero in massa al Partito radicale. Documenti di protesta da parte dell’Associazione dei professori di procedura penale presieduta dal professor Conso, dell’Unione camere penali e della stessa Anm si ammonticchiavano sui tavoli dei ministri. Gli avvocati scesero subito in sciopero. Si buttava alle ortiche un’intera stagione di riforme. Il processo penale rischiava di perdere, con la logica del doppio binario nelle inchieste di mafia, la sua appartenenza al sistema accusatorio.
Ma il vero disastro immediato, soprattutto per l’applicazione retroattiva della norma, fu l’entrata in vigore, oltre che dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, dei reati ostativi. Furono ricondotti in carcere 240 ex detenuti che godevano già del regime di semilibertà. Persone che con la libertà avrebbero potuto distaccarsi dal dominio dei boss all’interno delle prigioni venivano riconsegnati all’antica appartenenza criminale. Altri che fruivano dei permessi di lavoro esterno vennero nuovamente rinchiusi nelle celle. Ogni permesso fu bloccato. Ci fu un invito esplicito a “pentirsi”, anche a chi, detenuto da moltissimi anni, non aveva ormai niente da raccontare ai magistrati sull’organizzazione cui era un tempo appartenuto.
Queste osservazioni, potrà parere strano per chi ha conosciuto il Pci e le successive evoluzioni fino all’odierno Pd, e anche per chi ha ascoltato la rivendicazione d’amore per il 41-bis della deputata Serracchiani, vennero esposte proprio dai comunisti di allora. In una conferenza stampa del 7 luglio 1992 il senatore Ugo Pecchioli e il deputato Massimo Brutti chiesero al governo di ritirare il decreto, a causa dello “stravolgimento del processo penale, della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario”. Una certa maretta del resto c’era anche tra i socialisti e nel mondo cattolico, i liberali e i radicali erano contrari e così anche Rifondazione. Al Senato si tennero audizioni su audizioni, nelle quali il decreto Scotti-Martelli non trovò estimatori. Anche perché, nonostante le condanne al maxiprocesso, eravamo ancora all’anno zero sulle attività di repressione e di intelligence per arrivare alla cattura di Totò Riina e degli altri boss latitanti. E le restrizioni sui processi e sui detenuti avevano il sapore della vendetta da parte di uno Stato che si rifaceva sui più deboli per la propria incapacità a catturare i capi. C’era una situazione di stallo, nella commissione giustizia del Senato.
Ma tutto il resto andava di corsa, le Camere votavano a rotta di collo sulle autorizzazioni a procedere sulle inchieste di Tangentopoli e intanto si toglieva la vita Renato Amorese, il primo di 41 suicidi. E Craxi teneva il suo primo discorso per denunciare l’esistenza di bilanci falsi nelle casseforti di tutti i partiti. A un certo punto il governo pensò di ritirare il decreto. Ma provvide la mafia, a togliere le castagne dal fuoco. Il 19 luglio, in via D’Amelio a Palermo fu assassinato il giudice Paolo Borsellino. Il 4 agosto il decreto era legge. Gli uomini del Pds tennero in tasca i loro discorsi di fuoco per la difesa dello Stato di diritto e si attennero a quelle di circostanza. Sembrava di essere a un funerale, quel giorno a Montecitorio.
Ma non possiamo mettere la parola fine a questa storia, non solo perché l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e anche una parte di quel deterioramento del processo penale sono ancora tra noi, ma perché da quel che successe in quei giorni è nata anche la favola della Trattativa dello Stato con la mafia. Chi c’era sa bene che nel governo Andreotti e nel successivo guidato da Giuliano Amato non c’erano i buoni e i cattivi nella lotta alla mafia. C’erano semplicemente una grande forza della mafia con le sue bombe e una grande debolezza dello Stato. Non è vero che il ministro Scotti era il “duro”, sostituito con Mancino, il morbido trattativista. Era semplicemente accaduto che, su iniziativa di Ciriaco De Mita, Scotti fosse promosso agli esteri e poi rimasto semplice parlamentare per propria scelta, perché nella fase del moralismo di tangentopoli, il suo partito, la Dc, aveva abolito il doppio incarico. E l’immunità era meglio di un ministero.
Nessun eroismo e nessuna punizione, quindi. Quanto a Claudio Martelli, semplicemente si dimise da guardasigilli dopo la telefonata in cui il procuratore Borrelli gli preannunciava l’invio di un’informazione di garanzia. Nessuno lo ha cacciato. Solo per questo arrivò Conso, non certo per dare una mano ai mafiosi. Lo stesso ragionamento vale per la direzione del Dap: Nicolò Amato era il morbido e Di Maggio il duro con suoi colloqui investigativi. Ma il pm Nino Di Matteo, nella sua requisitoria al “Processo Trattativa”, parlò dei due avvicendamenti naturali come di due cacciate, due siluri politici frutto della necessità di concretizzare il dialogo dello Stato con la mafia. Era una bufala e sappiamo come è andata a finire. Anche questo fa parte della storia del 41-bis.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
L’isolamento estremo di una “tortura democratica”. Che cos’è e come funziona il 41 bis, le regole del carcere duro a cui è sottoposto Alfredo Cospito. Elena Del Mastro su Il Riformista il 30 Gennaio 2023
Negli ultimi giorni la vicenda legata all’anarchico Alfredo Cospito ha riaperto il dibattito su uno dei più controversi regimi carcerari, il 41 bis. Un articolo dell’ordinamento penitenziario che consiste in una serie di limitazioni imposte ai detenuti che definiscono quello che è comunemente chiamato il “carcere duro”. Questa formula esiste dal 1992, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio a Palermo, per limitare il più possibile la frequenza dei contatti con l’esterno degli esponenti di vertice delle organizzazioni criminali ed evitare che potessero continuare a comunicare e impartire ordini ai clan.
In Italia ci sono 749 detenuti al 41 bis, di cui 13 donne, secondo un rapporto di Antigone del 2021. La maggior parte dei detenuti in regime di 41-bis sono nella casa circondariale dell’Aquila seguita da quella di Opera (Milano), Sassari, Spoleto, Novara, Cuneo, Parma, Tolmezzo (Udine), Roma-Rebibbia, Viterbo, Terni, Nuoro. Come si vive al 41 bis? “Provate voi a vivere per 21 ore al giorno in un bagno”, disse Antonio Iovine, ex capo del clan camorristico dei casalesi oggi collaboratore di giustizia, un tempo detenuto in regime di 41-bis, ai membri della commissione del Senato in visita al carcere di Badu ’e Carros.
Di norma il principio è quello di garantire l’isolamento più assoluto del detenuto. I detenuti al 41 bis durante la giornata non fanno sostanzialmente nulla. Carmelo Musumeci, che ha trascorso in carcere 25 anni di cui cinque in regime di 41-bis, dice al Post: “Definisco quel tipo di detenzione una ‘tortura democratica’. Il 41-bis annienta le persone. Io lo vissi nel carcere dell’Asinara, in Sardegna, negli anni Novanta, poco dopo la sua introduzione. Le condizioni igienico-sanitarie erano terribili: dalla turca uscivano i topi. Per impedire ai ratti di entrare nella cella usavo una bottiglia che chiudeva il buco”.
Ci sono regole generali e altre che variano da istituto a istituto. La posta in entrata e in uscita viene controllata e sottoposta a censura, non è ammesso l’invio di libri dall’esterno. In cella possono essercene non più di tre forniti e reperiti direttamente in carcere o preventivamente autorizzati. Non sono ammesse riviste nè il detenuto può scrivere per giornali. All’Aquila non sono ammessi abiti o tessuti trapuntati che possano nascondere oggetti. I detenuti al 41 bis sono condannati al silenzio e alla solitudine. Trascorrono nelle loro celle quasi tutte le ore della giornata salvo una o due ore al massimo in cui possono socializzare con i pochi detenuti della stessa sezione. Secondo quanto riportato dal Post, alcuni avvocati di detenuti raccontano che i loro assistiti perdono la capacità di dialogare per più di pochi minuti. E questo sarebbe successo anche all’ ex brigatista Nadia Desdemona Lioce. Condannata all’ergastolo per gli omicidi di Marco Biagi e di Massimo D’Antona e dell’agente della polizia ferroviaria Emanuele Petri, è al 41 bis da 20 anni. potendo contare solo su un’ora al mese di colloquio con i familiari e, in caso di bisogno, di massimo di due ore al mese con gli avvocati, la detenuta in un anno solare aveva parlato solo per 15 ore, per cui adesso per lei è impossibile sostenere un colloquio se non di pochi minuti.
I colloqui sono limitati a un’ora al mese e avvengono attraverso un vetro divisorio, salvo la presenza di figli minori di 12 anni. Al colloquio sono ammessi familiari e conviventi, per altre persone serve un permesso speciale concessa solo in casi eccezionali. Il detenuto al 41 bis può fare solo una telefonata al mese di 10 minuti e in sostituzione del colloquio personale. Telefonata che viene sempre registrata. In cella non c’è nulla oltre al letto saldato a terra e il bagno alla turca. Anche gli oggetti che si possono tenere in cella hanno delle limitazioni e devono essere sempre controllati. In alcuni penitenziari ci sono liste in cui viene descritto ciò che è ammesso e ciò che non lo è. Fino al 2018 i detenuti in cella non potevano nemmeno cucinare. Ma una sentenza della corte Costituzionale ha stabilito che il divieto di cuocere cibi non si può fondare sulla necessità di impedire che il condannato continui a mantenere contatti con l’esterno e il gruppo criminale di appartenenza.
Poi ci sono i limiti sulla somma di denaro che un detenuto può avere sul conto. A ogni “nuovo giunto” vengono sequestrati i soldi e messi su un conto all’interno del carcere su cui i familiari potranno versare dei soldi tramite vaglia postale o lasciandoli nella portineria del carcere. Normalmente il detenuto può spendere poco più di 100 euro alla settimana. Per quelli sottoposti a 41-bis non esiste una cifra stabilita (varia a seconda degli istituti), ma è comunque inferiore a quella degli altri carcerati. Per assegnare un detenuto al 41 bis c’è bisogno di due presupposti: l’uno “oggettivo”, cioè la commissione di uno dei delitti “di mafia”, previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, l’altro “soggettivo”. Occorre infatti dimostrare la presenza di “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica ed eversiva”. Negli anni l’elenco di reati per cui si può essere sottoposti al 41-bis si è ampliato. Attualmente comprende terrorismo, mafia, prostituzione minorile, pedopornografia, tratta di persone, acquisto o vendita di schiavi, violenza sessuale di gruppo, sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione, associazione a delinquere per contrabbando di tabacchi, associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga.
Un regime carcerario durissimo che, come si legge nel XVIII rapporto di Antigone, è anche usato come maggiormente punitivo: “Un regime detentivo che si definisce duro non può non evocare l’idea di un sistema intransigente che mira a ‘far crollare’ (anche sul piano psicofisico) chi vi viene sottoposto, puntando, sempre in forma latente, alla ‘redenzione’, cioè alla collaborazione con la giustizia, principale ‘criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata’. Proprio l’effettiva ‘collaborazione’ fa venir meno l’applicazione di questo regime”.
Alfredo Cospito è il primo anarchico a essere sottoposto a questo regime carcerario. Per lui fu stabilito il 41 bis per il presunto rischio che dal carcere dia ordini agli altri membri della sua organizzazione. La ministra della Giustizia Marta Cartabia giustificò l’applicazione del 41-bis a Cospito con i “numerosi messaggi che, durante lo stato di detenzione, ha inviato a destinatari all’esterno del sistema carcerario”. Si trattava di interventi che Cospito scriveva dal carcere, con il permesso, per pubblicazioni di area anarchica, in cui secondo Cartabia invitava “esplicitamente a continuare la lotta contro il dominio, particolarmente con mezzi violenti ritenuti più efficaci”. L’avvocato di Cospito, Flavio Rossi Albertini, era sufficiente attuare un controllo più stretto sulla corrispondenza, o emettere uno specifico provvedimento per quello specifico reato. Inoltre Cospito si riconosce nella Federazione anarchica informale, che, ha spiegato più volte in queste settimane Rossi Albertini, non ha vere strutture gerarchiche organizzate: “È un ossimoro, una contraddizione, pensare che una struttura orizzontale, come è stata ritenuta dagli stessi giudici di Torino, possa avere un capo”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Da ieri è ufficiale: l’Italia usa il 41 bis come forma di tortura politica. L'Indipendente martedì 24 ottobre 2023.
Il dovere etico di giornalisti ci impone di tornare su di un tema che, va constatato, interessa poco all’opinione pubblica. Eravamo stati il primo giornale a parlare del caso Cospito, proprio perché in esso avevamo intravisto il sintomo di una persecuzione politica. Avevamo trattato la questione molto prima che si trasformasse in un argomento da salotto televisivo, destinato a stancare presto l’audience dopo un breve periodo di sovraesposizione mediatica. I palinsesti hanno colmato il vuoto dei propri momenti di magra con opinionisti, politici e giuristi che dicessero la propria sul caso, poi più nulla. Il risultato è che ieri, di fronte a una sentenza dalla portata enorme, nessun media ha prestato attenzione alla cosa. E i lettori, verosimilmente stanchi di aver sentito questo nome fin troppe volte, non vi presteranno più orecchio.
Tuttavia, l’enormità delle implicazioni della sentenza di ieri è innegabile, ed è necessario parlarne. Perché ufficialmente, da ieri, il 41 bis (definito da Amnesty nel 2003 come trattamento in alcuni casi “crudele, inumano e degradante”) può essere usato in Italia non come strumento della legislazione antimafia, ma come regime carcerario di punizione politica. La sensazione c’era già, ma ora possiamo scriverlo senza timore di smentita. Anzi, sfidiamo chi la pensa diversamente a smentirci al riguardo. Per ben due volte la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (DNAA) aveva infatti decretato che non sussistessero ragioni per le quali Alfredo Cospito dovesse rimanere al 41 bis. Tali pareri, tuttavia, sono stati del tutto ignorati dai giudici e dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Per ben due volte. Dunque, se la valutazione dei massimi esperti in materia viene del tutto ignorata, resta una sola interpretazione dei fatti: si è voluta imporre a Cospito una punizione politica esemplare.
In cosa consiste questa punizione? Vediamo di rinfrescare un po’ la memoria ai lettori. Il regime di 41 bis prevede la segregazione di una persona in un cubicolo di cemento che se va bene misura 3 metri per 2, se va male 2,5 per 1,5. L’unica finestra è posta abbastanza in alto per impedire di guardare fuori ed il triplice livello di sbarre lascia passare poca aria e poca luce. In quel cubicolo tra i 4 e i 6 metri quadrati vi devono stare un letto, un lavandino, una televisione e un cesso alla turca, con tutto il suo fetore. Vi si trascorrono 22 ore al giorno, senza libri né riviste (a meno di specifiche autorizzazioni), niente foto alle pareti, col divieto di parlare anche da soli. Niente carta e penna a meno che non sia il direttore a concederne l’uso, niente dispositivi elettronici. Si hanno a disposizione due ore d’aria, da trascorrere in un cortiletto di dimensioni analoghe a quelle della cella, circondato da mura alte oltre 5 metri. Un solo colloquio al mese, della durata di un’ora. Se si vuole telefonare a qualcuno, è necessario rinunciare al colloquio.
La sentenza di ieri sancisce che tutto questo possa essere inflitto per fini politici. Ma, d’altronde, il caso di Alfredo Cospito era politico fin dall’inizio. Non può non essere così, se si pensa che gli è stata inflitta una condanna a 23 anni per aver piazzato una bomba a basso potenziale in un punto scelto proprio perché non vi transitava nessuno, di notte, senza causare il ferimento di alcuno. Di fatto, anche i danni erano stati pressoché nulli, dal momento che ad essere danneggiati erano stati due cassonetti della spazzatura. Un atto dimostrativo, incasellabile tuttavia dai giudici nell’ambito del reato di strage contro la sicurezza dello Stato. Nemmeno gli attentati di Capaci e di via D’Amelio sono stati classificati come tali. E gli è pure andata bene, perché ha corso il rischio di essere condannato all’ergastolo ostativo.
Per protestare contro il regime di carcere duro che gli era stato inflitto, Cospito ha portato avanti per sei mesi uno sciopero della fame che lo ha ridotto in fin di vita. Proprio questo è stato usato come pretesto fondante della condanna di ieri. Con incredibili voli pindarici carpiati e qualche spettacolare piroetta, i giudici del Tribunale di Sorveglianza hanno decretato che proprio il “clamoroso” digiuno portato avanti dall’anarchico ne sancisce la pericolosità. In sostanza: se protestate in maniera violenta ne pagherete le conseguenze, se lo fate in maniera pacifica pure (ne sanno qualcosa gli studenti che sono scesi in piazza a Torino o i militanti del movimento No TAV). Anche se lo fate utilizzando l’unica cosa che vi resta dopo che tutto vi è stato tolto, ovvero il vostro corpo. Di fatto, è quello che le persone private della libertà personale fanno di continuo, ingoiando batterie, tagliandosi le braccia o impiccandosi alle sbarre (un metro di giudizio abbastanza impietoso di quella che è la situazione nelle carceri del nostro Paese).
Abbiamo scritto queste righe perché la speranza è che un’opinione pubblica ormai annoiata dal tema comprenda la portata di quanto sta accadendo non solo a Cospito ma, più in generale, alla nostra società. Perché quanto accaduto è sintomo del fatto che le fondamenta democratiche dello Stato stanno pericolosamente barcollando.
Caro Ranucci, il cosiddetto papello di Riina non è mai esistito...Sigfrido Ranucci, direttore di Report
Il conduttore di Report, per rispondere ai penalisti, ricorda il papello in cui si chiede l’abolizione del 41 bis.
Ranucci, il conduttore di Report, per rispondere agli avvocati delle camere penali, tra le varie argomentazioni ricorda il papello in cui si chiede l’abolizione del 41 bis. Che Totò Riina non abbia sopportato questo istituto carcerario è scontato. Nessuno può sopportare questo tipo di carcerazione differenziata che, almeno sulla carta, non dovrebbe essere dura. Che le stragi continentali siano state volte anche a piegare lo Stato, affinché ritirasse questo regime, è altrettanto pacifico. Ma affermare con certezza l’esistenza del cosiddetto “papello” di Riina, è errato. La tesi che sarebbe stato consegnato da Vito Ciancimino agli ex ros Mori e De Donno, i quali, in concorso con l’allora ministro Mannino ed altri, si sarebbero adoperati per esercitare una pressione sul governo, mirante all'approvazione di provvedimenti validi a soddisfare le pretese di Riina, tra le quali appunto l’abolizione del 41 bis, approvato dopo l’attentato di Via D’Amelio, non torna. Quindi Riina si sarebbe sabotato da solo?
Andiamo con ordine. La prima inchiesta giudiziaria sulla Trattativa Stato-mafia nasce nel 2000. La procura di Palermo avanza l’ipotesi che nel '92 Riina, con la mediazione di Vito Ciancimino e l'apporto di veicolatore del medico mafioso Antonio Cinà, avesse esercitato un ricatto allo Stato, spedendo un suo "papello" di richieste di benefìci per Cosa nostra, dettate da lui stesso come contropartita della cessazione dell'attacco stragista allo Stato e a una controparte composta da appartenenti alle istituzioni pubbliche e o politiche. L'identità di tale controparte istituzionale non risultava però accertata e uno degli obiettivi che quell'indagine si prefiggeva era proprio di identificarla. Nemmeno risultava accertato se, ed eventualmente quali risultati utili all’organizzazione mafiosa tale ricatto avesse conseguito a livello istituzionale. Quindi nel 2004, viene archiviata l’inchiesta.
Poi arriva la svolta. Spunta nel 2008 Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Con le sue dichiarazioni l’accusa si estende nei confronti di Mori e De Donno, Subranni, Dell'Utri, Mannino, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e così via, fino ad approdare al processo trattativa. In sostanza si attribuisce ai coimputati della parte politico-istituzionale di avere trattato con la parte mafiosa, sulle pretese riassunte nel "papello", in particolare sulle applicazioni del trattamento carcerario del 41 bis, e quindi di avere concorso con la parte mafiosa in quel ricatto allo Stato, che sarebbe stato effettivamente veicolato alla compagine governativa, col conseguimento di alcuni risultati.
Ciancimino, per corroborare ciò, tira fuori dal cilindro il “papello”: la madre di tutte le produzioni, propagandata su tutti gli organi di stampa. Ed è la “prova regina” che dette impulso al processo. Senza di quella, ci sarebbe stata l’ennesima archiviazione. Cosa è risultato dopo anni? Il “papello” consegnato ai Pm da Ciancimino è chiaramente frutto di una sua grossolana manipolazione: lo ha fornito ai Pm solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all'estero non avrebbe impedito la consegna dell'originale. Risulta evidente che le fotocopie, con l'uso di carte e inchiostri datati, impediscano l'accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura. Lo stesso Massimo Ciancimino ha invece fornito l'originale, e non la fotocopia, del post-it manoscritto a matita dal padre che recita '"consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Ros”, attaccato alla fotocopia del “papello”. Si scoprì che quel post-it riguardava la consegna del libro di don Vito ai Ros. Un libro dal titolo “Le mafie”, ritenuto privo di valore. Ma attaccandolo alla fotocopia di quel “papello”, ha creato una manipolazione. Molto grossolana.
Non solo. Si è accertato che il “papello” non è scritto da Riina, da Ciancimino o alcuno dei soggetti presi in considerazione per le comparazioni grafiche. A questo si aggiungono altri racconti e documenti forniti da Ciancimino senza alcun dato autentico e utile ad identificarlo. In quel periodo, a differenza di Palermo, c’era la procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari che aveva ben inquadrato Massimo Ciancimino: una persona che mentiva. Quindi, in soldoni, parlare ancora del “papello” di Riina, significa continuare a propagandare ciò che è stato smentito con i fatti. Non esiste e nessuno ha dimostrato il contrario. Il giornalismo è separare i fatti dalle opinioni. Ecco il fatto: l’unico “papello” che è stato tirato fuori, è risultata una patacca.
Gli avvocati penalisiti querelano Report: “Diffamati e calunniati”. Angela Stella su Il Riformista il 12 Aprile 2023
Il Direttivo della Camera Penale di Roma, presieduta dall’avvocato Gaetano Scalise, all’unanimità ha deciso di proporre denuncia querela nei confronti del giornalista Sigfrido Ranucci. Secondo i penalisti capitolini, si legge in una nota, «nella trasmissione Report del 3 aprile scorso sono andate in scena gravissime insinuazioni e gratuite diffamazioni che sfociano persino nella calunnia nei confronti di alcuni dei più apprezzati componenti della nostra Associazione, incredibilmente additati a sospetto come possibili veicoli per la diffusione al di fuori del carcere di ordini criminali provenienti dai detenuti posti in regime di 41 bis».
Il pm Nino di Matteo, in merito ai messaggi che i reclusi al carcere duro riescono comunque a veicolare all’esterno, durante la trasmissione «rappresentava la possibile strumentalizzazione a fini illeciti dei colloqui dei detenuti coi loro familiari, sottolineando subito dopo che “è capitato anche in recenti inchieste palermitane che sono stati arrestati dei legali che fungevano poi da tramite per portare fuori gli ordini” e denunciando al riguardo il fenomeno della “concentrazione di assistiti al 41 bis in capo ad alcuni avvocati”». Concetto poi ribadito da Sebastiano Ardita. Ad un certo punto una voce fuori campo sosteneva che «sull’argomento la Commissione parlamentare Antimafia ha commissionato nel 2016 al Dap uno studio finora rimasto riservato: dal censimento degli avvocati che assistono i detenuti al 41 bis è emerso che moltissimi legali seguono tra i 10 e i 30 boss mafiosi in contemporanea e due avvocati in particolare sono arrivati ad assisterne 100».
Veniva poi diffuso un vero e proprio elenco di nomi degli avvocati, insinuando il dubbio che avessero svolgo il ruolo di messaggeri. Tra questi diversi del Foro di Roma. «Si deve pertanto rilevare come le gravissime insinuazioni in oggetto abbiano chiaramente leso l’onore e il decoro collettivo della nostra associazione». Nell’esposto querela poi si chiede di accertare come sia stato divulgato quell’elenco «definito nel servizio “come uno studio rimasto riservato” e “commissionato al Dap dalla Commissione parlamentare antimafia”, ovvero nell’ambito di poteri di indagine normativamente equiparati a quelli dell’autorità giudiziaria i cui risultati possono essere a loro volta secretati». Vi è stata la complicità di qualche membro della Commissione o del Dap nel fornirli alla redazione di Ranucci? Tutto questo, leggiamo ancora nella nota della Cp di Roma, «è addirittura avvenuto in prima serata pubblicando un elenco riservato della cui illegittima divulgazione riteniamo che i responsabili debbano essere chiamati a rispondere». Angela Stella
Estratto dell’articolo di Paolo Berizzi per repubblica.it il 3 aprile 2023.
Terroristi neri dei Nar e di Ordine Nuovo, ex bombaroli, detenuti, ex detenuti e detenuti vip, sottosegretari. Cooperative e favori, in una girandola di sponde interne al mondo del neofascismo che vede, tra i presunti protagonisti, anche il figlio di Bruno Vespa, Federico Vespa, giornalista come il padre. Il suo nome compare, insieme a quello dell'ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro, in un'intercettazione agli atti di un'inchiesta della procura di Roma. Di questa intercettazione e di molto altro racconta - con documenti inediti - un servizio di Report intitolato "Ombre nere" in onda questa sera su Rai 3.
L'approfondimento […] scava nelle attività di Luigi Ciavardini e Francesca Mambro nel settore carcerario. I due ex terroristi dei Nuclei armati rivoluzionari, condannati insieme a Valerio Fioravanti […] quali autori materiali della strage di Bologna. Interessante è la parte che riguarda i bilanci di due cooperative che fanno capo alla famiglia Ciavardini, cooperative che lavorano con ex detenuti nel verde pubblico: insieme nel 2021 hanno fatturato 2,5 milioni di euro, e una delle due, negli ultimi cinque anni, cinque milioni.
La capofila è Agm, fondata dal figlio di Ciavardini insieme al vice garante regionale dei detenuti del Lazio Manuel Cartella, una vera e propria miniera d'oro. Poi c'è Gruppo Idee, l'associazione creata in carcere dallo stesso Ciavardini per la promozione di attività sportive e per generare lavoro presentato come occasione per riabilitare i detenuti: un "sistema" usato, in realtà, per tirare fuori dalle sbarre i reclusi "amici".
Report documenta che a beneficiare della rete di Gruppo Idee […] ci siano stati, tra gli altri, Gilberto Cavallini, anche lui ex Nar, anche lui condannato per la strage di Bologna. Nel 2017 Cavallini (detto "il Negro") ottiene la semilibertà. La avrebbe ottenuta - secondo quanto ricostruito e dimostrato da documenti acquisiti da Report - proprio grazie al ruolo del "cooperatore" Ciavardini. E poi grazie all'interessamento al sottosegretario all'Ambiente di Fratelli d'Italia, Claudio Barbaro, arrestato negli anni '80 per associazione a delinquere e detenzione di armi.
L'intercettazione
Gruppo Idee ha avuto tra i suoi iscritti anche Totò Cuffaro, quando era recluso a Rebibbia. L'ex governatore siciliano - stando alla ricostruzione di Report - avrebbe usato alcuni eventi sportivi organizzati in carcere dall'associazione (presieduta da Germana De Angelis, moglie di Ciavardini e sorella degli ex militanti di Terza Posizione Nanni e Marcello De Angelis) per incontrare informalmente alcuni suoi ex collaboratori. Qui c'è la parte che riguarda lui, Cuffaro, e Federico Vespa.
In un audio inedito che verrà mandato in onda parlano la moglie di Cuffaro e il figlio di Bruno Vespa - giornalista e direttore del giornale distribuito in galera da Ciavardini. Nella conversazione […] la moglie di Cuffaro spiega a Federico Vespa che ha difficoltà a far entrare dei fogli a Rebibbia e lui la rassicura sul fatto che può farli entrare senza problemi. Come? Infilandoli in un quaderno, perché, essendo un volontario (lui, Vespa), non viene mai controllato con attenzione all'ingresso.
Federico Vespa nega con decisione la circostanza: "Non sono nemmeno indagato - replica - non ho mai portato nessun pizzino, è una invenzione assoluta". Per il commissario regionale della Dc, Totò Cuffaro, "Stasera 'Report' rimesta una storia farlocca. È assurdo raccontare che mia moglie avesse bisogno di qualcuno per portarmi alcuni fogli mentre ero in carcere. In realtà, mia moglie mi portava regolarmente fogli ove erano trascritti al computer miei scritti a mano che le avevo precedentemente consegnato.
E il tutto era regolarmente controllato, foglio per foglio, dal personale carcerario e poi autorizzato: si trattava di fogli relativi al libro "Il candore delle cornacchie" che ho scritto in carcere. Allusione falsa e cattiva è dunque parlare di 'pizzini', quando tutto è avvenuto in maniera legale, trasparente e autorizzata. 'Pizzini'? Ma è possibile che un tipo di giornalismo possa ridursi a tanto?".
[…]
Dagonews il 13 aprile 2023.
Gli avvocati penalisti querelano Sigfrido Ranucci per la puntata realizzata sul 41 bis e a rappresentarli contro il conduttore di Report scelgono l'avvocato di Renzi. "Il Direttivo della Camera Penale di Roma all'unanimità ha deciso di proporre denuncia querela nei confronti del giornalista Sigfrido Ranucci" perché "Nella trasmissione Report del 3 aprile scorso sono andate in scena gravissime insinuazioni e gratuite diffamazioni che sfociano persino nella calunnia nei confronti di alcuni dei più apprezzati componenti della nostra associazione, incredibilmente additati a sospetto come possibili veicoli per la diffusione al di fuori del carcere di ordini criminali provenienti dai detenuti posti in regime di 41 bis".
L'auspicio è che i vertici della Rai "avviino una seria riflessione al riguardo". La speranza è che anche i magistrati Di Matteo ed Ardita, "a loro volta apparsi nella puntata di Report con brevi interviste sul punto, vogliano prendere fermamente le distanze dal taglio diffamatorio che ha contraddistinto la puntata andata in onda".
I penalisti hanno indicato a rappresentarli Giandomenico Caiazza, avvocato di Renzi e Boschi nei processi di Firenze sulla vicenda Open. Caiazza aveva posto la questione dell'inviolabilità delle prerogative parlamentari ha spazio fisso su Riformista, l'Opinione e il Dubbio. Se ha tutti gli avvocati penalisti contro, con in testa l'avvocato di Renzi, ce ne sarà uno disponibile a tutelare il povero Ranucci ? nel frattempo si difende da solo sui social.
La difesa dei diritti non è una maglietta che si indossa di giorno per poi riporla in un cassetto la sera'. "Nessuna diffamazione o insinuazione. Solo fatti documentati. La puntata di 'Report' oggetto di contestazione aveva come unica finalità evidenziare le falle del 41 bis in un contesto di estrema attualità partendo dalla ricostruzione del caso Cospito.
Ho chiarito all'inizio della trasmissione che il 41 bis è uno strumento che è al limite della violazione dei diritti umani e che si regge esclusivamente sul presupposto di tutelare la sicurezza della collettività e che per questo va gestito con estrema cautela.
Il documento pubblicato da 'Report' denunciava che i casi di oltre 100 mafiosi al 41 bis fossero gestiti da un solo avvocato: è un fatto e non era assolutamente secretato, sottolinea il giornalista. "Che sia un'anomalia è l'idea, non di 'Report', ma della commissione parlamentare antimafia che ha approfondito la vicenda proprio per valutare la portata. 'Report' ha correttamente riportato la notizia sottolineando il rischio che comporta un'anomalia del genere, coadiuvato anche dal parere di esperti magistrati antimafia, sottolineando la buona fede e professionalità degli avvocati".
Per Ranucci, "aver mostrato tale anomalia rappresenta, come detto in trasmissione, una tutela per gli stessi avvocati". La difesa dei diritti non è una maglietta che si indossa di giorno per poi riporla in un cassetto la sera. Chi accusa 'Report' di non avere cura per i diritti dei detenuti e la possibilità di un loro reinserimento nella società, non ricorda le numerose puntate realizzate negli anni, l'ultima appena due anni fa in pieno Covid.
Report da sempre si batte per la difesa dei diritti dell'uomo e della libertà di espressione. Ma Report ha anche il culto per la memoria: quello di ricordare il dolore dei familiari delle vittime delle stragi di mafia e del terrorismo e che il 41 bis è un'architrave della lotta alla mafia che Totò Riina voleva far abolire inserendolo nel papello. Sigfrido Ranucci
Dagospia il 3 aprile 2023. RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO – LA PRECISAZIONE DI FEDERICO VESPA RIGUARDO ALLA TELEFONATA CON LA MOGLIE DI TOTÒ CUFFARO, CHE STASERA “REPORT” MANDERA’ IN ONDA: “VORREI RICORDARE CHE L'EPISODIO FU RIPORTATO DA REPUBBLICA NEL 2015, DOPO LA SCARCERAZIONE DI CUFFARO. RIBADISCO CHE NON SONO MAI STATO ASCOLTATO SUL PUNTO E TANTOMENO INDAGATO”
Riceviamo e pubblichiamo:
Caro Dago, in merito all'articolo di Repubblica rilanciato dal tuo sito, vorrei ricordare che l'episodio fu riportato dallo stesso giornale nel 2015 dopo la scarcerazione di Cuffaro. Ribadisco che non sono mai stato ascoltato sul punto e tantomeno indagato.
Cordialità.
Federico Vespa
Dagospia il 3 aprile 2023. RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO – SIGFRIDO RANUCCI RISPONDE A FEDERICO VESPA: “LUI LIQUIDA LA STORIA CHE RACCONTEREMO STASERA COME GIÀ NOTA E USCITA NEL 2015. MA STASERA MANDEREMO IN ONDA LA TELEFONATA INEDITA TRA VESPA E LA MOGLIE DI CUFFARO CHE COMUNICA LA DIFFICOLTÀ NEL FAR ENTRARE IN CARCERE ALCUNI FOGLI PER IL MARITO. FEDERICO VESPA LA RASSICURA: “LI FACCIO ENTRARE IO, LI METTO IN UN QUADERNO…”
Caro Dago,
nella lettera che ti ha inviato, Federico Vespa liquida la storia che racconteremo stasera come già nota e uscita nel 2015. In realtà, tutto ciò che fino a oggi si sapeva del suo ruolo durante la reclusione di Cuffaro a Rebibbia era compreso in quest’unica frase: “tra i volontari su cui l'ex governatore fa affidamento c'è Federico Vespa, figlio di Bruno e di Augusta Iannini”.
Stasera manderemo in onda la telefonata inedita tra il dott. Vespa, direttore del giornale che l’ex Nar Luigi Ciavardini distribuisce in carcere a Rebibbia, e la moglie di Cuffaro. Nel corso della conversazione la consorte dell’ex presidente della Regione Siciliana gli comunica la difficoltà nel far entrare in carcere alcuni fogli per il marito e Federico Vespa la rassicura: “Li faccio entrare io, li metto in un quaderno… non mi fanno molte storie se entro con un quaderno”.
Circostanza che, per come prospettata al telefono, rappresenterebbe una grave violazione delle leggi penitenziarie, tanto più che il detenuto interessato era recluso per una condanna definitiva per favoreggiamento della mafia.
L’inchiesta ricostruisce inoltre la rete di affari dell’associazione Gruppo Idee e delle cooperative legate alla famiglia Ciavardini. Lavorano nel verde pubblico con ex detenuti e l’anno scorso hanno fatturato quasi 2 milioni e mezzo
Ombre nere. Report Rai PUNTATA DEL 03/04/2023 di Giorgio Mottola
Consulenza di Andrea Palladino
Collaborazione di Norma Ferrara
La battaglia dell’anarchico Alfredo Cospito in sciopero della fame da 11 mesi al 41 bis.
Alfredo Cospito è da 11 mesi al 41 bis. Report mostrerà video e documenti esclusivi che pongono alcuni dubbi sulla sua condanna per l’attentato alla Caserma di Fossano e sulla sua permanenza al carcere duro. Della battaglia dell’anarchico in sciopero della fame da oltre 160 giorni sperano di potersi avvantaggiare i boss della mafia in galera. Da trent’anni provano ad approfittare di tutte le falle del carcere duro: ci sono stati capimafia che dietro le sbarre sono riusciti ad appartarsi con le mogli e concepire i propri figli, come racconta un boss in un documento che Report mostrerà in esclusiva, iscrizioni ad atenei distanti migliaia di chilometri dal luogo di reclusione e carriere universitarie particolarmente generose nei voti, nonché una anomala concentrazione di oltre cento mafiosi difesi dallo stesso avvocato. Nonostante tutti i problemi e gli intoppi, il 41 bis è stato lo strumento più importante ed efficace nella lotta contro le mafie. Oggi, però, è sotto attacco. Dopo la sentenza della Corte Europea di Strasburgo e la conseguente riforma dell’ergastolo ostativo, i detenuti mafiosi in alta sicurezza potranno uscire dal carcere senza dover collaborare con la giustizia. Per l’accesso ai benefici e alla libertà anticipata dei boss sarà determinante il ruolo di associazioni e cooperative del settore carcerario. In importanti penitenziari italiani alcune di queste realtà associative sono legate al mondo dell’estrema destra, guidate dai protagonisti delle pagine più sanguinose della storia italiana.
“OMBRE NERE” Di Giorgio Mottola Consulenza di Andrea Palladino Collaborazione di Norma Ferrara Immagini di Carlos Dias, Alfredo Farina e Andrea Lilli Ricerca immagini di Alessia Pelagaggi
LELLO VALITUTTI – MILITANTE ANARCHICO Abbiamo diritti di difenderci!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alfredo Cospito è al 41 bis da 11 mesi, 166 giorni fa ha iniziato il suo sciopero della fame e oggi le sue condizioni di salute sembrano molto gravi. Ma lunedì scorso il tribunale di sorveglianza di Milano ha rigettato la sua richiesta di domiciliari. E un mese fa la Cassazione ha confermato il carcere duro per Cospito. ANARCHICI Assassini, assassini!
LELLO VALITUTTI – MILITANTE ANARCHICO Da oggi ufficialmente sono degli assassini, saranno responsabili di tutto quello che succederà. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La storia giudiziaria di Alfredo Cospito inizia intorno alle 8.10 del 7 maggio 2012, quando in questa via di Genova nei pressi dello stadio Marassi, è da poco uscito di casa Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. Viene avvicinato da una moto con a bordo due uomini coperti da casco integrale. Uno dei due scende dallo scooter e spara nella gamba destra del manager un colpo di pistola.
CORRADO PAGANO – AVVOCATO DI ROBERTO ADINOLFI Era una volontà di fare del male ma non troppo. Sono stati individuati abbastanza agevolmente perché lui pur ferito da terra ha avuto modo di vedere la targa del motorino, li hanno praticamente individuati e arrestati quasi subito.
GIORGIO MOTTOLA Non è stato un attentato particolarmente brillante?
CORRADO PAGANO – AVVOCATO DI ROBERTO ADINOLFI Sono stati un po’ maldestri, ecco.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il giorno dell’attentato diverse telecamere segnalano la presenza di Cospito e del suo complice nelle vicinanze della via in cui hanno sparato ad Adinolfi. Vengono arrestati nel giro di qualche settimana e finiscono subito a processo. Nella prima udienza Alfredo Cospito rivendica l’azione terroristica.
PROCESSO ADINOLFI 21/10/2013 ALFREDO COSPITO - MILITANTE ANARCHICO Allora prima di iniziare l’udienza io avrei da leggere una testimonianza.
GIUDICE Le dichiarazioni spontanee non sono consentite. In questa fase, in questo momento…
ALFREDO COSPITO - MILITANTE ANARCHICO Guardi io poi il foglio glielo lascio, io inizio a leggerlo.
GIUDICE Le devo togliere la parola….le devo togliere la parola…
ALFREDO COSPITO - MILITANTE ANARCHICO In una splendida mattina di maggio ho agito ed in quelle poche ore ho goduto a pieno della vita. In una Europa costellata di centrali nucleari, uno dei maggiori responsabili del disastro nucleare che verrà è caduto ai miei piedi.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per l’agguato a Adinolfi Cospito viene condannato a 10 anni, ma mentre è in carcere viene accusato anche di un altro attentato compiuto nella notte del 2 giugno 2006. Davanti alla scuola allievi dei Carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, vengono piazzate due cariche da 500 grammi ciascuna di polvere pirica, in due bidoni dell’immondizia di fronte all’ingresso. Gli ordigni esplodono alle tre di notte, senza uccidere o ferire nessuno. Questo video esclusivo girato all’indomani dell’attentato mostra il bidone dopo l’esplosione, come si può notare, nonostante la deflagrazione dell’ordigno al suo interno i due cassonetti accanto rimangono intatti. Secondo il tribunale di Torino, l’attentato rivendicato dalla Federazione Anarchica Informale poteva non solo uccidere ma provocare una strage.
FLAVIO ROSSI ALBERTINI – AVVOCATO ALFREDO COSPITO Iniziamo a dire che sono 500 grammi di polvere pirica, stiamo parlando chiaramente dei fuochi d’artificio di Capodanno, per cui non stiamo parlando di tritolo non stiamo parlando di esplosivo ad alto potenziale.
GIORGIO MOTTOLA Dentro ai bidoni c’erano anche biglie e sfere di metallo.
FLAVIO ROSSI ALBERTINI – AVVOCATO DI ALFREDO COSPITO Esattamente come in altri analoghi episodi in cui è stato dimostrato l’assoluta assenza di volontà degli autori di ledere o colpire qualcuno. In realtà, sono meramente intimidatori.
GIORGIO MOTTOLA Questi ordigni a Fossano esplodono alle tre di notte per un errore?
FLAVIO ROSSI ALBERTINI – AVVOCATO DI ALFREDO COSPITO No, assolutamente, c’era un temporizzatore per cui la volontà degli attentatori è che scoppiassero esattamente a quell’orario, quando non c’era nessuno.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per le bombe a Fossano, Alfredo Cospito si è sempre professato innocente ma la Cassazione lo ha riconosciuto colpevole di attentato alla sicurezza dello Stato, reato punito con l’ergastolo. Introdotto in Italia durante il fascismo, all’epoca prevedeva la pena di morte. Non è stato finora applicato né per la strage di Capaci, né per quella di Bologna, né per Piazza Fontana.
FLAVIO ROSSI ALBERTINI – AVVOCATO DI ALFREDO COSPITO Per la strage di Bologna, i giudici hanno ritenuto che anche un fatto così grave come 85 morti, non fosse in grado di mettere in pericolo la sicurezza dello Stato.
GIORGIO MOTTOLA E nel caso di Cospito, anche se non ci sono stati morti, lo Stato è stato messo in pericolo?
FLAVIO ROSSI ALBERTINI – AVVOCATO DI ALFREDO COSPITO Esattamente. Secondo i giudici lo Stato è messo in pericolo perché la rivendicazione di quel gesto in realtà diceva che volevano offendere sostanzialmente lo Stato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dal carcere Cospito ha continuato a inviare ai gruppi anarchici proclami in cui esaltava la lotta armata come in questa lettera del 2019, in cui spiega che la rivoluzione può farla solo chi ha il diavolo in corpo rivendicando di essere un terrorista.
GIORGIO MOTTOLA Sembra un’incitazione alla lotta armata quella di Cospito?
FLAVIO ROSSI ALBERTINI – AVVOCATO DI ALFREDO COSPITO Il tribunale della libertà di Perugia, per due volte, afferma esattamente il contrario. L’ultima decisione, il dispositivo è del 16 marzo del 2023, in cui si ribadisce per la seconda volta che in realtà non contiene alcunché di istigatorio, perché Cospito non fa altro che manifestare il proprio pensiero.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così Alfredo Cospito finisce al 41 bis in modo da evitare che possa fornire i suoi ordini dal carcere alla Federazione Anarchica Informale, di cui viene indicato dal tribunale di Torino come capo e leader indiscusso.
LELLO VALITUTTI – MILITANTE ANARCHICO È ridicolo, ma loro lo sanno che è ridicolo.
GIORGIO MOTTOLA Cospito è una persona in grado di dare ordini?
LELLO VALITUTTI – MILITANTE ANARCHICO Ma non solo non è in grado di darli, lui non li darebbe mai e nessuno gli obbedirebbe mai.
GIORGIO MOTTOLA Secondo lei ha una caratura criminale tale da richiedere l’applicazione del 41 bis?
CORRADO PAGANO – AVVOCATO DI ROBERTO ADINOLFI No, non lo vedo come un capo. Ecco. Non mi sembrava una grande caratura di terrorista, ecco.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nelle settimane scorse il procuratore generale della Cassazione ha chiesto la sospensione del 41 bis per Cospito e anche la Direzione nazionale antimafia, pur ribadendo la pericolosità dell’anarchico, ha invitato il governo a riflettere sulla possibilità di spostare Cospito dal carcere duro all’alta sicurezza. Ma entrambi i pareri sono stati finora ignorati dal ministro della Giustizia a cui spetta per legge l’ultima parola.
GIORGIO MOTTOLA Dopo la relazione della Procura nazionale antimafia e anche dopo il pronunciamento del procuratore generale della Cassazione, forse non era il caso di rivedere la decisione sul 41 bis?
FRANCESCO PAOLO SISTO – VICEMINISTRO DELLA GIUSTIZIA Guardi, il ministero si è espresso, ora aspettiamo quello che dice la Cassazione ma per fortuna sono due cose diverse.
GIORGIO MOTTOLA Questo per fortuna, però la Procura nazionale antimafia ha detto in modo abbastanza chiaro che…
FRANCESCO PAOLO SISTO – VICEMINISTRO DELLA GIUSTIZIA Me lo ha già chiesto…
GIORGIO MOTTOLA Sì certo però visto che ha dato un parere che è molto importante.
FRANCESCO PAOLO SISTO – VICEMINISTRO DELLA GIUSTIZIA Se vuole le do la stessa risposta, la Procura nazionale antimafia ha espresso un parere, c’è anche la procura generale che ha espresso un altro parere.
GIORGIO MOTTOLA Ed entrambe dicevano che forse il 41 bis forse è eccessivo.
FRANCESCO PAOLO SISTO – VICEMINISTRO DELLA GIUSTIZIA Sono due cose completamente diverse, i giudici decidono e il ministero ha deciso per conto suo. Questo è nelle regole del gioco, il nostro è un Paese che si regge su questo. Ciascuno fa il suo e la democrazia cammina.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma mentre la democrazia cammina, qualche dubbio è venuto anche a un ex presidente della Corte costituzionale.
GUSTAVO ZAGREBELSKY – PRESIDENTE CORTE COSTITUZIONALE 2004 Tra mondo dell’anarchia e mafia o altre strutture analoghe c’è una differenza qualitativa. La mafia è una struttura con i propri organi interni, le proprie gerarchie. L’anarchia, come dice la parola, è invece un movimento ideale che rifugge da queste strutture organizzate. Adesso questo non vuol dire che non sian pericolosi, ma io ho l’impressione che in questo caso si scontri non tanto la razionalità, guidata dai principi costituzionali, ma il fatto che bisogna mostrare il volto arcigno dello Stato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma al momento l’effetto sortito dal volto arcigno è un curioso paradosso. Se il 41bis a Cospito è stato comminato per impedire le sue comunicazioni con l’esterno, c’è da dire che finora per come è stato applicato non sembra aver molto funzionato. In una relazione riservata il Ros fa notare che “il regime del 41 bis non solo non ha azzerato le comunicazioni, ma ha prodotto la nefasta conseguenza di aumentare il proselitismo e creare un’alleanza tra mondo anarchico e mondo della lotta armata”.
GUSTAVO ZAGREBELSKY – PRESIDENTE CORTE COSTITUZIONALE 2004 C’è un cortocircuito, c’è la possibilità che questo detenuto assurga al ruolo di emblema, di punto di riferimento, che coaguli le iniziative del mondo anarchico. GIORGIO MOTTOLA Si è trasformato in un simbolo?
GUSTAVO ZAGREBELSKY – PRESIDENTE CORTE COSTITUZIONALE 2004 È diventato un simbolo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo diciamo subito, a scanso di equivoci. Il pugno di ferro lo Stato lo deve utilizzare contro i duri. Già nella sua applicazione il 41 bis è ai limiti della violazione del diritto umano e la sua applicazione si regge solo in base ad una considerazione: quella della tutela della sicurezza della collettività. È uno strumento da usare con molta sapienza. Ce lo dice il giudice costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, che più volte ha legittimato l’utilizzo del 41 bis. Ma sul caso Cospito dice: attenzione a non trasformarlo a un simbolo, a qualcosa che va al di là di quello che effettivamente rappresenta. Ora Cospito già rappresenta adesso una figura aggregante di un movimento che storicamente è sempre stato composto da cani sciolti, senza padroni. Ora rischia di diventare invece il simbolo per la criminalità organizzata, di quella che potrebbe essere la spallata definitiva al 41 bis. Ecco, come si è arrivati a questo punto? Perché a Cospito è stato applicato il 41 bis nel momento in cui ha inneggiato la lotta armata. Per evitare che questa strategia criminale trapelasse all’esterno. È stato posto al regime del carcere duro, ha cominciato uno sciopero della fame, e dopo 65 giorni, quando era già diventato un caso, è stato spostato dal gruppo di comunità ed è finito insieme a dei boss mafiosi con i quali ha dialogato e ha avuto dei colloqui. Al punto che oggi Cospito ha chiesto, continuando il suo sciopero della fame, ha chiesto per smetterlo, di cessare l’applicazione del carcere duro. Su di lui o su quei boss che sono malati. Ecco, perché Cospito è stato spostato, con quale finalità, che cosa si è detto con quei boss? Il nostro Giorgio Mottola è riuscito ad avere in esclusiva il report che ha preparato il ministero della Giustizia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con lo spostamento al 41bis e l’inizio dello sciopero della fame, Alfredo Cospito sembra essere diventato un simbolo anche per i boss mafiosi che sperano di trarre vantaggio dalla battaglia dell’anarchico.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA Il 28 dicembre 2022, poche settimane fa, Cospito ha avuto un confronto con Francesco Presta, killer di rara freddezza. E Presta lo esortava: devi mantenere l’andamento, vai avanti. E Cospito rispondeva: fuori non si stanno muovendo solo gli anarchici ma anche altre associazioni.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con questo intervento l’onorevole Donzelli rivela il contenuto di una relazione riservata del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria di cui Report ha ottenuto uno stralcio. Nei brogliacci in nostro possesso oltre alle parole del boss della ‘ndrangheta, Francesco Presta, vengono riportati alcuni stralci di conversazioni di Cospito con un altro vicino di cella, il boss dei casalesi Francesco Di Maio, il quale lo esorta ad andare avanti: “questa miccia non deve essere spenta, noi ti siamo solidali”. E ridendo afferma: “nel caso anche noi faremo lo sciopero della fame”.
FLAVIO ROSSI ALBERTINI – AVVOCATO DI ALFREDO COSPITO È stato assolutamente voluto che Cospito entrasse in contatto con dei boss.
GIORGIO MOTTOLA Aspetti, aspetti, in che senso voluto?
FLAVIO ROSSI ALBERTINI – AVVOCATO DI ALFREDO COSPITO Voluto perché Cospito nei primi sette mesi di 41 bis è stato con un gruppo di socialità, con persone con cui sostanzialmente quasi non faceva né l’aria né la socialità perché tendevano a non uscire neanche più dalla cella, questi signori, il 24 dicembre 2022, a per cui 65 giorni dall’inizio dello sciopero della fame…
GIORGIO MOTTOLA Quando Cospito era diventato un caso…
FLAVIO ROSSI ALBERTINI – AVVOCATO DI ALFREDO COSPITO È stato posto in un altro, in diverso gruppo di socialità, con persone estremamente pericolose ed è stato chiaramente indotto. Se Cospito era da 65 giorni in sciopero della fame, chiaramente l’argomento era lo sciopero della fame e le ragioni che lo avevano indotto a realizzare questa iniziativa di protesta.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E tale curiosa circostanza viene confermata anche dal ministro della Giustizia che durante un question time ha rivelato che dopo sette mesi di reclusione, il 24 dicembre scorso, il direttore del carcere di Sassari ha disposto la sostituzione dei vicini di cella, nonché compagni di ora d’aria, di Alfredo Cospito.
QUESTION TIME DEL 16/02/2023 CARLO NORDIO - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA In data 24/12/22, quindi recentemente, Cospito è stato inserito, su proposta del responsabile ROM e conseguente disposizione del direttore del carcere di Sassari, in un ulteriore e diverso gruppo di socialità a causa dell'ingresso in carcere di un detenuto che non poteva essere unito a detenuti, secondo il 41 bis, della medesima area criminale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’altro mistero riguarda anche le modalità con cui Donzelli è entrato in possesso di queste conversazioni. Il ministero della giustizia ha infatti specificato che il dossier in questione, pur non essendo stato secretato, risultava riservato.
GIORGIO MOTTOLA Buongiorno, sono Giorgio Mottola di Report, Rai3. Vorrei chiederle come ha fatto ad entrare in possesso di informazioni riservate come quelle delle conversazioni fra Cospito e altri detenuti?
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA Guardi di questo per correttezza nei confronti di più realtà istituzionali, non sto parlando da un mese e quindi non parlo nemmeno con lei, grazie.
GIORGIO MOTTOLA Però nel suo intervento in Parlamento ha detto che tutti i parlamentari avevano accesso a quelle informazioni, però questo non è vero.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA Lo sta dicendo lei e anzi stia attento a quello che dice perché poi dopo su queste cose io un giorno potrei anche decidere di fare delle querele.
GIORGIO MOTTOLA Però altri parlamentari hanno chiesto di avere accesso a quei dati e il ministero della giustizia ha rifiutato.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA Glielo rispiego. Lei sta dicendo delle cose di cui si prende la responsabilità perché non è così.
GIORGIO MOTTOLA No, sono dati oggettivi che le sto ponendo.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA No, sta dicendo delle bugie e se insiste, poi ne risponderà.
GIORGIO MOTTOLA Dei parlamentari hanno chiesto accesso ed è stato rifiutato, è stato detto che erano riservati quegli atti.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA Mi sta impedendo di rispondere ad altre domande di altri colleghi.
GIORGIO MOTTOLA In questo modo anche i boss della mafia sono stati informati fuori… però non faccia così non scappi…onorevole!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per capire se i documenti erano davvero riservati, dopo l’intervento in aula di Donzelli, anche il deputato Angelo Bonelli ha chiesto al ministero della giustizia di avere copia della relazione del Nucleo investigativo della polizia penitenziaria.
ANGELO BONELLI – DEPUTATO ALLEANZA VERDI E SINISTRA Ho chiesto al ministero della Giustizia di avere gli stessi documenti di cui ha fatto riferimento Donzelli e mi è stato risposto, con tanto di lettera sottoscritta e firmata, che non li posso avere.
GIORGIO MOTTOLA Perché non li può avere?
ANGELO BONELLI – DEPUTATO ALLEANZA VERDI E SINISTRA Perché sono riservati, lo scrive Nordio. Per me come per altri deputati sono riservati, non possono essere resi pubblici, ma per Donzelli non sono riservati, insomma…una cosa francamente incredibile.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le conversazioni dei detenuti al 41 bis devono rimanere riservate poiché il senso principale del carcere duro è bloccare la comunicazione all’esterno di possibili strategie criminali, come ad esempio, l’appoggio dato a Cospito da parte dei boss in carcere, che Donzelli ha reso pubblico con il suo intervento.
GIORGIO MOTTOLA Queste informazioni riguardavano l’interlocuzione di Cospito con alcuni boss al 41 bis, quindi fuori anche i membri delle cosche sono stati al corrente del fatto che ci fosse un’interlocuzione. È un’informazione, diciamo, molto sensibile e molto pericolosa da un certo punto di vista.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA Lo sta dicendo lei.
GIORGIO MOTTOLA Io le sto chiedendo.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA Io su questo non parlo.
GIORGIO MOTTOLA Le sto chiedendo se ci ha ripensato e se secondo lei è stato opportuno.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA Lei sta continuando a dire le cose di cui si prende la responsabilità.
GIORGIO MOTTOLA Ma io mi assumo sempre la responsabilità.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA E io le dico, come le ho detto dall’inizio di questo non parlo, le ripeto per rispetto alla procura e al gran giurì della Camera.
GIORGIO MOTTOLA Questo però non riguarda la procura.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA No, no, lei sta dicendo delle cose di cui le si prende la responsabilità perché lei sta dicendo delle cose gravissime.
GIORGIO MOTTOLA Come sempre onorevole, me e tutti i miei colleghi.
GIOVANNI DONZELLI – DEPUTATO, COORDINATORE NAZIONALE FRATELLI D’ITALIA Grazie, buon lavoro.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora, al di là delle responsabilità, è un fatto che le dichiarazioni dell’onorevole Donzelli abbiano di fatto vanificato lo spirito del 41 bis, che è quello di impedire che una strategia criminale venisse comunicata all’esterno. Di fatto con le dichiarazioni pubbliche dell’onorevole Donzelli, si è comunicato all’esterno quelli che erano i contenuti dei dialoghi tra il killer della ‘ndrangheta Presta e Cospito in merito all’incitamento a continuare questa battaglia contro il 41 bis e che i mafiosi fossero contenti, insomma, si intuisce anche dai colloqui tra Cospito e il suo vicino di cella, Francesco Di Maio, boss di Camorra, il quale lo invita a non spegnere la micia, anzi mostra anche la sua solidarietà e afferma di essere pronto di cominciare anche lui lo sciopero della fame. Insomma, come si è arrivati a questo punto? Perché qualcuno ha pensato di spostare Cospito vicino a dei boss altolocati e anche molto loquaci. La decisione secondo il ministro Nordio è stata presa dai reparti speciali della polizia penitenziaria, al direttore del carcere di Sassari. Insomma, indipendentemente da tutto questo, si rischia di far diventare Cospito un simbolo di una battaglia contro quelle che è l’architrave della lotta alla mafia da 30 anni a questa parte. Fino a oggi il ministro Nordio ha tenuto, ha riconfermato il 41 bis, ma prima di diventare ministro aveva dichiarato che il 41 bis era una scelta incivile, pari o peggio addirittura della castrazione chimica. Pensate invece che c’è chi al 41 bis come Giuseppe Graviano ha addirittura concepito un figlio, che è successo quella notte lo sentiremo nelle stesse parole in un video inedito. Graviano, fratello di Filippo, entrambi autori delle stragi, accusati di essere gli autori delle stragi di via D’Amelio e delle bombe di Firenze, Roma e Milano. E in carcere, al 41 bis c’è chi ha costruito una brillante carriera universitaria, migliore addirittura di qualche magistrato.
GASPARE MUTOLO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA – EX CLAN DEI CORLEONESI Per i mafiosi il carcere è sempre diciamo stato bello, l’hanno soprannominato l’hotel 5 stelle. Infatti, non ci mancava niente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino al 1992 per un boss della mafia finire in carcere era come andare in villeggiatura. Erano i tempi del leggendario Grand Hotel Ucciardone: in galera a Palermo i capimafia dormivano nei letti comodi dell’infermeria invece che nelle celle, trasformate all’occorrenza in depositi di pregiate leccornie di cui era responsabile Gaspare Mutolo, ex killer di Cosa nostra e autista di Totò Riina, prima di iniziare a collaborare con la giustizia.
GIORGIO MOTTOLA E lei aveva le chiavi di questo magazzino, ecco?
GASPARE MUTOLO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA – EX CLAN DEI CORLEONESI Era una dispensa.
GIORGIO MOTTOLA Una dispensa, la vostra dispensa. E che c’era dentro a questa cella?
GASPARE MUTOLO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA – EX CLAN DEI CORLEONESI C’erano i migliori formaggi, i migliori prosciutti, le migliori bottiglie di champagne. E dopo c’era la guardia della mensa, lo abbiamo mandato nel ristorante, arrivava qualsiasi cosa noi volevamo.
GIORGIO MOTTOLA Da che ristoranti arrivava il cibo?
GASPARE MUTOLO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA – EX CLAN DEI CORLEONESI Ristoranti di lusso che a volte erano loro che ci mandavano le cose. Per esempio, c’era un compleanno di un personaggio, per esempio di Buscetta, di Gerlando Alberti, ci si faceva sapere al ristorante e quelli mandavano il furgoncino e il furgoncino entrava tranquillamente.
GIORGIO MOTTOLA Senza che nessuno controllasse?
GASPARE MUTOLO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA – EX CLAN DEI CORLEONESI Senza che nessuno controllava, però si prendeva la responsabilità il direttore.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per arginare lo strapotere dei mafiosi in carcere, quando si trasferisce al ministero della giustizia, Giovanni Falcone scrive il testo dell’attuale 41 bis che introduce l’isolamento e il blocco delle comunicazioni per i boss. Il magistrato però non farà in tempo a vederlo approvato. Il 41 bis viene infatti presentato in Consiglio dei ministri l’8 giugno del ‘92, dopo la strage di Capaci, e viene subito bocciato da una larga parte del Parlamento. Il primo decreto vedrà la luce solo dopo l’uccisione di Paolo Borsellino il 20 luglio del 1992.
CLAUDIO MARTELLI – MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1992-1993 Sì, il giorno dopo la strage di via d’Amelio, si fece fatica a trovare qualcuno al Dap, dal direttore che era assente in quel momento ad altri suoi sostituti, per cui per chiudere la partita in fretta li firmai io come ministro, sul cofano della macchina prima di imbarcarmi sul volo per Roma. Eravamo a Palermo e fu in quella circostanza che si diede attuazione a forse quella che era la parte più controversa e più contestata del cosiddetto decreto Falcone.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con il decreto applicativo del 41 bis firmato da Martelli, 37 boss, i più potenti capi dell’epoca di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, vengono trasferiti nelle carceri di massima sicurezza di Pianosa e dell’Asinara.
ANTONINO DI MATTEO – SOSTITUTO PROCURATORE DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA È stato uno strumento importante e continua ad essere importante e decisivo soprattutto perché vietando il collegamento con l’esterno mina definitivamente il prestigio criminale e il potere criminale del detenuto all’interno dell’organizzazione, lo sterilizza da questo punto di vista. Non fa più considerare, come avveniva prima, il carcere come un normale passaggio nella vita criminale di un mafioso. Lo fa considerare come un momento in cui lo si pone in condizioni di non fare più il mafioso.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 41 bis impone al detenuto l’isolamento totale in una cella singola guardata a vista da agenti della polizia penitenziaria. È previsto solo un incontro al mese con i familiari e due ore al giorno di socialità con al massimo altri quattro detenuti al 41 bis. Questa è la vita che ha condotto ogni giorno per 25 anni Totò Riina. La cui unica compagnia concessa era un boss della camorra. Qualche giorno prima di questo video, l’ex capo dei capi, senza sapere di essere intercettato aveva espresso al suo compagno di socialità, il desiderio di vedere ucciso il pm di Matteo in un attentato spettacolare.
TOTÒ RIINA Che combina? che combina Berlusconi?
ALBERTO LORUSSO Ieri è uscita la notizia vostra.
TOTÒ RIINA Sì, ma chi c’era… ecco?
ALBERTO LORUSSO Riina minaccia il pubblico ministero Di Matteo.
TOTÒ RIINA Sentono le parole nostre?
ALBERTO LORUSSO E stanno vedendo se dargli una protezione, mandargli una protezione seria a Di Matteo.
TOTÒ RIINA Ma come lo minaccio? come lo minaccio? io non sono al 41?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante le durissime restrizioni previste dal 41 bis, i boss della mafia sono riusciti ad approfittare di ogni falla e di ogni piccolo spiraglio, sin dall’inizio quando, sulla carta, risultavano completamente isolati a Pianosa e all’Asinara.
GIORGIO MOTTOLA Nei primi quattro anni è un 41 bis part time, praticamente?
SEBASTIANO ARDITA – DIRETTORE GENERALE DIPARTIMENTO DETENUTI E TRATTAMENTO DEL DAP 2002-2011 I più conosciuti boss di Cosa nostra, Riina, Santapaola, Bagarella, Madonia, sono stati sei mesi su quattro anni, in media. Tutto il rimanente tempo lo avevano trascorso presso le carceri dove si celebravano i processi che li riguardavano.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante uno di questi spostamenti, nel 1997, i boss Filippo e Giuseppe Graviano, autori e pianificatori delle stragi di mafia del 1993 a Roma, Firenze e Milano, mentre erano al 41 bis sono riusciti ad avere in carcere un rapporto sessuale con le rispettive mogli e a concepire, in quell’occasione, i rispettivi figli. In questo video inedito risalente al 2016, il boss Giuseppe Graviano racconta a un altro detenuto, il camorrista Umberto Adinolfi, i dettagli del giorno in cui riuscì a far entrare in carcere la moglie.
GIUSEPPE GRAVIANO Vuoi sapere il mio stato d’animo, ti dico, che sono più ansioso, è stato prima di farlo. no prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie. i giorni in cui sapevo che doveva avvenire la situazione, tremavo.
UMBERTO ADINOLFI Stavi in ansia GIUSEPPE GRAVIANO In ansia? Umbè… tremavo tutto, tremavo. L’ho nascosta tra i vestiti, l’ho nascosta tra i vestiti e abbiamo dormito insieme nella cella assieme. Cose da pazzi… tremavo!
UMBERTO ADINOLFI E’ comprensibile, magari se n’è accorta e non ti ha detto manco niente.
GIUSEPPE GRAVIANO Tremavo, dissi… dissi cioè l’importanza di una persona non è essere l’uomo più ricco del mondo, l’importante è lasciare la prole, perché il proprio DNA cammina, continua a camminare.
ANTONINO DI MATTEO – SOSTITUTO PROCURATORE DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Un fatto che di per sé è veramente dimostrativo del fallimento in quel momento del 41 bis. Non possiamo che pensare che ci siano state delle coperture a questa vicenda, per cui qualcuno dello Stato ha voluto che comunque il desiderio di avere figli di Giuseppe e Filippo Graviano venisse esaudito. Questo del concepimento dei figli di Graviano è un capitolo ancora aperto, da approfondire che potrebbe aprire il varco a conoscenze ancora più importanti degli equilibri tra mafia e Stato in quel periodo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 1998 vengono chiusi i reparti del 41 bis delle carceri dell’Asinara e di Pianosa e i boss vengono smistati nei vari penitenziari italiani. Lo stesso anno viene introdotta la videoconferenza e così i detenuti smettono di fare la spola con i tribunali di mezza Italia, ma per aggirare l’isolamento del carcere duro i mafiosi mettono in campo altri espedienti.
SEBASTIANO ARDITA – DIRETTORE GENERALE DIPARTIMENTO DETENUTI E TRATTAMENTO DEL DAP 2002-2011 Una di questi sono le questioni sanitarie, molti detenuti anche in ragione dell’età, hanno delle patologie anche croniche hanno chiesto di volta in volta di cambiare circuito, di cambiare sedi penitenziarie e addirittura di avere dichiarata la incompatibilità con il regime carcerario. Poi c’è la questione che riguarda l’università, ricordo che fino a un certo punto i detenuti chiedevano di essere trasferiti, per fare l’università che si trovava a duemila chilometri di distanza.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Rispetto alla popolazione carceraria italiana, al 41 bis c’è la più alta concentrazione di detenuti iscritti all’università. Report è riuscito a entrare in possesso dei libretti universitari dei boss sottoposti al carcere duro che registrano quasi tutti voti altissimi. Il boss Pietro Aglieri, spietato killer dei Corleonesi, è iscritto a lettere, e ha conseguito tutti 30 e 30 e lode. Anche i Graviano si sono distinti. Filippo in Economia ha conseguito 30 a quasi tutti gli esami e si è laureato con 110 e lode. Anche il boss Giuseppe Graviano, iscritto a Scienze, ha voti eccellenti persino in Fisica, una delle materie di solito più ostiche per gli studenti. Una delle rare note stonate è il figlio di Totò Riina, Giovanni, che a giurisprudenza dal 2015 ha dato un solo esame, Diritto Costituzionale, ed è andato così così, 22.
SEBASTIANO ARDITA – DIRETTORE GENERALE DIPARTIMENTO DETENUTI E TRATTAMENTO DEL DAP 2002-2011 Da una verifica fatta, ci siamo accorti che sostanzialmente nessun detenuto era stato mai rimandato in una materia all’università.
GIORGIO MOTTOLA Che spiegazione ha?
SEBASTIANO ARDITA – DIRETTORE GENERALE DIPARTIMENTO DETENUTI E TRATTAMENTO DEL DAP 2002-2011 Non saprei darla, è un dato obiettivamente un po’ anomalo. Io mi sono laureato in quattro anni ma una volta sono stato rimandato in una materia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In molti processi è emerso che, sebbene i contatti con l’esterno siano estremamente limitati e soprattutto controllati, molti boss dal carcere duro sono riusciti comunque a dare indicazioni al clan e in alcuni casi a ordinare omicidi.
GIORGIO MOTTOLA L’informazione poi come usciva?
ANTONINO DI MATTEO – SOSTITUTO PROCURATORE DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Quello più evidente è quello, comunque, del colloquio con i familiari. Ed è capitato, anche in recenti inchieste palermitane, sono stati arrestati dei legali che fungevano poi da tramite per portare fuori gli ordini. E c’è un fenomeno sul quale va tenuta la guardia alta. C’è stata una concentrazione di assistiti al 41 bis in capo ad alcuni avvocati.
SEBASTIANO ARDITA – DIRETTORE GENERALE DIPARTIMENTO DETENUTI E TRATTAMENTO DEL DAP 2002-2011 La prima volta che venne censita questa circostanza, questo dato, credo nel 2007-2008, c’era un avvocato che difendeva 34 detenuti e ci sembrò una cosa abbastanza anomala.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sull’argomento la Commissione antimafia ha commissionato nel 2016 al Dap uno studio rimasto finora riservato. Dal censimento degli avvocati che assistono detenuti al 41 bis è emerso che moltissimi legali seguono fra i 10 e i 30 boss mafiosi in contemporanea. E due avvocati, in particolare, sono arrivati ad assisterne simultaneamente oltre 100.
GIORGIO MOTTOLA E quasi 10 anni dopo invece abbiamo trovato avvocati che sono arrivati ad avere oltre 100 detenuti al 41 bis.
SEBASTIANO ARDITA – DIRETTORE GENERALE DIPARTIMENTO DETENUTI E TRATTAMENTO DEL DAP 2002-2011 Addirittura? Eh insomma… diciamo che il problema si è allargato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il record di clienti, con 109 assistiti al 41 bis, lo detiene un’avvocata aquilana: Piera Farina. È stata nominata difensore dai più importanti e feroci boss della mafia: i calabresi Giuseppe Mancuso e Nino Imerti, detto Nano Feroce, il capo Corlonese Piddu Madonia, il cognato di Messina Denaro Filippo Guttadauro e il boss Giuseppe Graviano.
GIORGIO MOTTOLA È vero che lei ha il record di assistiti al 41 bis?
PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41 BIS Ma no, chi l’ha detto?
GIORGIO MOTTOLA È arrivata a 108 a un certo punto.
PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41 BIS Oddio no, ne sa più me? Le giuro che… no, non lo so. Mi lascia… non ne ho la più pallida… come ha fatto a contarli?
GIORGIO MOTTOLA Perché la commissione antimafia fece una ricognizione.
PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41 BIS Ah si?!
GIORGIO MOTTOLA Sì. PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41 BIS O madonna Santa mi spaventa.
GIORGIO MOTTOLA Oggi quanti ne ha?
PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41 BIS Ma mi crede? Non glielo so dire
GIORGIO MOTTOLA È diventata una star però al 41 bis?
PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41BIS Allora sa… io mi dedico, io mi dedico tanto.
SEBASTIANO ARDITA – DIRETTORE GENERALE DIPARTIMENTO DETENUTI E TRATTAMENTO DEL DAP 2002-2011 Se un detenuto che sta al 41bis, e non stiamo parlando dei cadetti dell’accademia di Modena ovviamente, viene a sapere che il suo difensore può parlare con altre 34 persone può metterlo in difficoltà. Può chiedergli lui di rivolgere o di chiedere un’informazione al difensore. Poi il difensore naturalmente deontologicamente la rifiuterà ma lo mette a rischio, lo mette in imbarazzo. Questa è un’altra questione che non si è mai ben definita.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I detenuti al 41 bis, infatti, non sono clienti solo sulla carta, ma vengono incontrati abitualmente attraverso colloqui in carcere con i loro avvocati che, secondo la legge, non vengono registrati. Nel 2016, ad esempio, l’avvocato Farina risultava aver incontrato 70 assistiti su 109 totali, sparsi tra il carcere dell’Aquila, Ascoli Piceno, Milano, Parma e Sassari.
GIORGIO MOTTOLA C’è il rischio che il detenuto, dal momento che il 41 bis blocca le comunicazioni, provi a trasformare l’avvocato in strumento di comunicazione anche con altri.
PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41 BIS Quello sì, i casi ci sono, non è che non ci sono.
GIORGIO MOTTOLA Ecco, è successo.
PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41 BIS Io dico sempre: mai e poi mai a me è stato chiesto di fare una cosa illecita.
GIORGIO MOTTOLA Però conviene che sia un po’ rischioso averne così tanti?
PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41 BIS Sì, io ho avuto paura, tante volte…però mi deve credere sono persone educate, si approcciano sempre con educazione, ti danno sempre del lei.
GIORGIO MOTTOLA Nessuno le ha mai chiesto di riportare informazioni a un altro detenuto al 41 bis che era tra i suoi clienti?
PIERA FARINA – AVVOCATA SPECIALIZZATA IN 41 BIS Salutami… mi dicono salutami tizio, io dico: non saluto proprio nessuno.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E meno male. Insomma, fatta salva la professionalità degli avvocati, è sicuramente pericoloso e sottolinea Nino Di Matteo anche anomalo, che un avvocato da solo possa gestire ben oltre 300 detenuti alla 41 bis. Abbiamo visto che la posta in gioco è alta e l’interesse di un cliente potrebbe coincidere anche con quello di un altro. Ora, la piacevole scoperta invece andando a vedere i libretti universitari è che la nostra migliore classe dirigente potenziale è al carcere duro. Proprio il 41 bis conta la più alta percentuale di detenuti iscritti all’università. Oltre a quelli che abbiamo visti, la lista è lunghissima. C’è il boss Mario Capizzi, autore dell’efferato omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il bambino che poi è stato, il cui corpo è stato sciolto nell’acido. Ecco, si è laureato in agraria con 104, ha collezionato tutti 28,30. Un solo 18 in matematica ed elementi di fisica. Poi, il boss di camorra Ferdinando Cesarano si è laureato in sociologia con voti altissimi e un bel 30 l’ha preso in elementi di diritto pubblico e storia del giornalismo. Giuseppe La Mattina, uno degli autori della strage di via d'Amelio si è iscritto a scienze religiose, dove ha ottenuto tutti 30 e un solo 29. E un discreto libretto ce l’ha anche il boss della Sacra Corona Unita Antonio Vitale che sta scrivendo la tesi di laurea in giurisprudenza. Ora bisognerebbe andare a vedere ovviamente all’interno di ciascun libretto se è tutto oro quello che luccica. Va detto che avere un brillante curriculum universitario non porta alcun beneficio perché al 41 bis. Mentre potrebbe diventare fondamentale qualora il detenuto passasse al regime di carcere di alta sicurezza per ottenere benefici di legge. Insomma, diventerebbe fondamentale se il 41 bis venisse abolito ed è proprio quello che in qualche modo sta cercando di fare con la sua battaglia Cospito. Il suo avvocato ha annunciato il ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani che ci ha già bacchettato e sanzionato dopo un ricorso del ‘ndranghetista Marcello Viola. Marcello Viola è stato accusato di essere l’ispiratore di una violenta, tremenda faida nel paese di Taurianova e nel quale sono stati uccisi con modalità efferate e addirittura decapitate delle vittime. Per la Corte Europea lo stato italiano avrebbe posto Viola difronte a un ricatto: o collabori o non esci dal carcere. Dopo decenni anche di 41 bis, di carcere di alta sicurezza, Viola non si è né dissociato, né pentito, non ha collaborato, si è professato innocente. Questa sentenza era molto attesa tra i mafiosi del 41 bis. Anche perché lo ricordiamo, tra le richieste di Riina che ha scritto nel papello consegnato da Vito Ciancimino al generale Mori, c’era espressamente la richiesta dell’abolizione del 41 bis, della possibilità anche di concedere anche dei benefici di legge a chi si dissociava senza collaborare o addirittura di far avere i benefici anche semplicemente a chi non collaborava.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2016, Giuseppe Graviano viene convocato a testimoniare al processo sulla Trattativa Stato-mafia, in cui sono imputati il generale del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Nelle intercettazioni disposte dal pm di Matteo che hanno portato nuovi elementi sulla strage dei Gergofili, si sente Graviano interrompere il granitico silenzio duranto quasi vent’anni.
GIUSEPPE GRAVIANO Quando devo parlare in questo processo, posso colpire il generale.... in qualsiasi maniera.
ANTONINO DI MATTEO – SOSTITUTO PROCURATORE DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Quando tra i due si parlava della possibilità che Graviano iniziasse a collaborare e dicesse anche tutta la verità sulle stragi, ricordo che Graviano disse ad Adinolfi, ma guarda io voglio aspettare che cosa succeda sull’ergastolo perché mi dicono che dall’Europa dovrebbero arrivare notizie positive e quindi in questo caso qual è l’interesse a collaborare se io che ho già scontato tanti anni di reclusione posso uscire dal carcere senza pentirmi?
GIUSEPPE GRAVIANO Mi ero convinto Umbè, dopo il colloquio con l’avvocato, mi disse: “sì ma ormai la devono finire, penso che il 41 …”. quindi per me erano cose fatte, nel frattempo ricevo la lettera della corte europea pure positiva!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le buone notizie a cui si riferiva Graviano sono arrivate tre anni dopo da questo palazzo di Strasburgo che ospita la Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel 2019 ha assestato un duro colpo alla legislazione antimafia italiana accogliendo un ricorso presentato dall’avvocato Antonella Mascia, per conto di un suo cliente, il boss di 'ndrangheta Marcello Viola.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha dato una bella picconata a un pezzo di legislazione antimafia italiana molto importante?
ANTONELLA MASCIA – AVVOCATA DI MARCELLO VIOLA Io ho voluto solo far stabilire un principio, cioè che la pena dell’ergastolo ostativo non permetteva al signor Viola di essere valutato nel suo percorso di cambiamento che aveva avuto in 30 anni di carcere.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Finora, in base alla legge italiana sull’ergastolo ostativo un mafioso poteva uscire dal carcere solo se collaborava con la giustizia. Per questa ragione sono state sempre respinte tutte le richieste di permessi premio e semilibertà avanzate da Viola, che in trent’anni di carcere non si è mai pentito e neanche dissociato dalla sua cosca.
GIORGIO MOTTOLA Perché Marcello Viola non ha collaborato con lo Stato?
ANTONELLA MASCIA – AVVOCATA DI MARCELLO VIOLA Secondo lui non era possibile fare nessuna collaborazione, perché lui si è sempre professato innocente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Marcello Viola si professa innocente ma varie sentenze definitive lo hanno riconosciuto tra i principali responsabili della faida di Taurianova, la guerra di ‘ndrangheta che all’inizio degli anni ’90 provocò 32 morti.
GAETANO PACI – PROCURATORE AGGIUNTO REGGIO CALABRIA 2014-2022 Marcello viola ha avuto un ruolo direttivo, egli è stato condannato per essere uno dei capi della cosca. Quindi uno degli ispiratori della strategia di morte che infiammò il piccolo centro di Taurianova.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante ciò, la Corte Europea ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante nei confronti di Viola, il quale secondo i giudici di Strasburgo sarebbe stato posto dalla Repubblica italiana di fronte ad un ricatto morale: o collabori o non esci dal carcere.
ANTONELLA MASCIA – AVVOCATA DI MARCELLO VIOLA Se tu non collabori c’è questa presunzione che tu sei e continui ad essere assolutamente pericoloso.
GIORGIO MOTTOLA Marcello Viola sostiene di essere stato costretto a rimanere in carcere sebbene dopo 30 anni non abbia più alcun collegamento con la sua cosca e la corte europea gli ha dato ragione. Secondo i giudici lo stato italiano nega a Viola la possibilità di dimostrare che non è più mafioso.
GAETANO PACI – PROCURATORE AGGIUNTO REGGIO CALABRIA 2014-2022 Mah, che non sia più mafioso in realtà non è proprio così perché i giudici di merito hanno attestato la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.
GIORGIO MOTTOLA Quindi secondo la magistratura italiana ci sono ancora collegamenti tra Viola e le cosche di ‘ndrangheta di Taurianova?
GAETANO PACI – PROCURATORE AGGIUNTO REGGIO CALABRIA 2014-2022 Sì, esattamente e grazie a questi collegamenti la sua famiglia e quindi anche il suo ruolo in carcere è pur sempre quello di un soggetto apicale dell’organizzazione criminale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per rendersene conto ai giudici di Strasburgo sarebbe bastato dare una occhiata a questa sentenza del 2020, secondo cui la cosca di Viola è ancora attiva e non ci sono prove che dimostrino la recisione dei rapporti con il clan da parte del boss in carcere. D’altronde sua moglie Italia Zagari è stata arrestata per ‘ndrangheta nel 2017 e un anno prima era toccato al cognato di Viola, Ernesto Fazzalari, che all’epoca era il secondo latitante più ricercato d’Europa, dopo Messina Denaro.
GIORGIO MOTTOLA Ma voi queste cose alla Corte Europea le avete dette?
GAETANO PACI – PROCURATORE AGGIUNTO REGGIO CALABRIA 2014-2022 No, noi non siamo stati interpellati dalla Corte Europea. GIORGIO MOTTOLA In questo modo la Corte Europea ha deciso di riconoscere anche ai detenuti mafiosi il diritto di poter uscire in anticipo dal carcere senza l’obbligo di dover collaborare con lo Stato. Stabilendo di fatto il diritto al silenzio anche per i boss, proprio come chiedevano gli avvocati di Viola.
GIORGIO MOTTOLA È come se si sancisse una sorta di diritto all’omertà?
ANTONELLA MASCIA – AVVOCATA DI MARCELLO VIOLA Ma non è vero, il diritto al silenzio è un diritto che spetta a tutti, cioè io posso intimamente pensare che non ho …non voglio dire delle cose.
GIORGIO MOTTOLA Con il principio del diritto del silenzio effettivamente si abbatte completamente l’istituto del pentitismo in qualche modo.
ANTONELLA MASCIA – AVVOCATA DI MARCELLO VIOLA Non penso che sia questo, non c’è nessun pericolo che si spunti le armi all’antimafia, assolutamente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La sentenza della Corte Europea ha indotto il governo Draghi ad approvare in tutta fretta una riforma dell’ergastolo ostativo, confermata poi all’inizio di quest’anno in Parlamento dal governo Meloni. In base alla riforma potranno accedere ai permessi premio e alla scarcerazione anticipata anche i mafiosi detenuti in alta sicurezza che non hanno mai collaborato con la giustizia.
ANTONINO DI MATTEO – SOSTITUTO PROCURATORE DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Se noi accettiamo l’ipotesi che un irriducibile, stragista magari, che non abbia collaborato con la giustizia, esca dal carcere, noi creiamo una situazione in cui si disincentiva ulteriormente la collaborazione con la giustizia.
GASPARE MUTOLO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA EX CLAN DEI CORLEONESI È come sputarci in faccia a Falcone e Borsellino. Io penso che la maggior parte delle persone che si sono pentite è perché hanno capito che dalla galera non si usciva più.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mutolo fu fra i primi a collaborare con Giovanni Falcone prima e con Borsellino poi. Raccontò le collusioni con cosa nostra di molti politici e magistrati e rivelò il ruolo dei servizi segreti nelle trame mafiose degli anni ’80 e ’90.
GASPARE MUTOLO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA EX CLAN DEI CORLEONESI Questo è diciamo il completamento del famoso papello che aveva fatto Riina Salvatore. Quello che gli pungeva di più era il 41bis e il carcere ostativo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, intanto specifichiamo che la Corte Europea insomma valuta in base al fatto al rispetto delle convenzioni internazionali sui diritti umani. Nel caso del ricorso di Marcello Viola sull’ergastolo ostativo che cosa dice la Corte: tu stato italiano quando proponi ad un detenuto di scegliere tra collaborare e uscire dal carcere o rimanere in carcere, in realtà non lo poni difronte a una libera scelta ma a un ricatto morale. E poi dice: tu stato italiano non puoi pensare a priori che se un detenuto non collabora, che sia di per sé pericoloso. Ecco, insomma, si tratta ovviamente di principi condivisibili però insomma, vengono da giudici che poco sanno di reati di mafia e in particolare sottovalutano un aspetto: che un detenuto se non si è dissociato, se non collabora può rappresentare nella gerarchia mafiosa ugualmente un simbolo. Nel caso poi specifico di Marcello Viola il procuratore Paci ha detto: guardate che io ho dato al governo italiano tutti gli elementi giusti per controricorso, ho mostrato le carte che proverebbero la sua contiguità con la mafia, la sua pericolosità sociale. Ma non so che uso ne hanno fatto perché nessuno mi ha chiamato. Il controricorso da parte del governo italiano funziona così: viene rappresentato il governo italiano da due agenti, il controricorso è altamente riservato; quindi, non sappiamo come il governo italiano abbia usato le carte di Paci. Sappiamo però che in base alla sentenza, è stato costretto lo stato a riformare l’ergastolo ostativo e in seguito alla riforma, Marcello Viola ha potuto usufruire di un permesso-premio. In base alla riforma Cartabia, ora la scarcerazione dei detenuti al regime di alta sicurezza avviene attraverso il tribunale di sorveglianza. Quello più vicino sul territorio al carcere. Bene, sono 29, sono formati spesso da magistrati che poco sanno di reati di mafia, c’è il rischio, come è successo all’esordio del 41 bis, di avere delle sentenze contradittorie tra di loro. Quando? Nel caso del 41 bis si sono addirittura ottenute delle revoche degli imputati eccellenti. E poi come giudicheranno questi magistrati? Sempre secondo la Cartabia, insomma, i parametri saranno un po’ complicati perché ha messo sullo stesso piano le prove che portano a discolpa il detenuto con quelle a carico portate dal magistrato. A quel punto l’ago della bilancia diventerà il comportamento del detenuto in carcere. Cioè se avrà partecipato a progetti di volontariato, o a progetti anche di reinserimento, quelli che sono coordinati da alcune associazioni e cooperative. Bene e sarà anche derimente se una di queste associazioni o cooperative richiederà il detenuto in questione per fargli ottenere la scarcerazione. Da chi dipendono queste cooperative?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Luigi Ciavardini, ex membro dell’organizzazione terroristica neofascista Nar, è stato condannato per l’omicidio del giudice Mario Amato e per la strage di Bologna, in cui sono state uccise 85 persone. Nel 2009 fonda nel carcere di Rebibbia l’associazione Gruppo Idee che ha avuto fra i suoi iscritti vari detenuti eccellenti come il comandante della Costa Concordia Francesco Schettino e capimafia di alto livello come Raffaele Bevilacqua, boss di Barrafranca, arrestato da Borsellino nel ’92. Dopo mafia capitale e la fine delle cooperative di Salvatore Buzzi, Gruppo Idee è diventata una delle più potenti associazioni nelle carceri di Roma e del Lazio dove svolge attività sportive e laboratori di cucito che hanno conquistato anche la ribalta delle televisioni nazionali.
TG2 COSTUME E SOCIETÀ - 8 MARZO 2016 L’otto marzo delle donne in carcere… una occasione per guardare al futuro con speranza. “Manca ancora un ultimo passo, il negozio fuori, perché il negozio fuori vuol dire che loro da qui saranno insieme con noi, anche all’esterno”.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’interno del carcere di Rebibbia, il Gruppo Idee distribuisce e realizza un mensile, “Dietro il cancello”. Il giornale ha avuto per un periodo un redattore d’eccezione: l’ex presidente della Regione Sicilia, Totò Cuffaro, che ha scontato nel penitenziario romano la condanna a cinque anni per favoreggiamento della mafia.
GIORGIO MOTTOLA In carcere a Rebibbia lei è diventato un mio collega?
SALVATORE CUFFARO – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001-2008 Beh sai io in carcere ho fatto di tutto. Mi sono messo a scrivere articoli, di buon risultato, ho avuto parecchie menzioni su questa cosa.
GIORGIO MOTTOLA Il giornale si chiamava “Dietro il cancello” giusto?
SALVATORE CUFFARO – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001-2008 Dietro i cancelli, si.
GIORGIO MOTTOLA Ed era diretto da Federico Vespa, il figlio di Bruno Vespa?
SALVATORE CUFFARO – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001-2008 Mah per un periodo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il giornalista e conduttore radiofonico Federico Vespa, figlio di Bruno Vespa, è stabilmente il direttore del giornale “Dietro il cancello”, sin dalla sua registrazione. E con Ciavardini sembra avere un rapporto molto stretto. Sulla strage di Bologna ha pubblicato un post di sostegno all’ex terrorista neofascista. FEDERICO VESPA - GIORNALISTA È un mio grandissimo amico.
GIORGIO MOTTOLA Come mai lei ha fatto anche un post di sostegno a Ciavardini sulla strage di Bologna?
FEDERICO VESPA – GIORNALISTA Sì, io ritengo che quella di Bologna sia stata una grande ingiustizia ma non è che lo ritengo solo io. Essendo convinto dell’innocenza di tutti e tre per altro, non soltanto di Luigi ho fatto quel post, sì.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mentre Cuffaro era in carcere, Federico Vespa sembra aver preso particolarmente a cuore le sorti dell’ex presidente della Regione Sicilia. Dalle carte di una inchiesta della procura di Roma, risulta che la moglie di Cuffaro comunica al giornalista la difficoltà nel far entrare alcuni fogli in carcere destinati al marito e Federico Vespa si propone di aiutarla.
FEDERICO VESPA - GIORNALISTA Tra l’altro non sono stato nemmeno indagato, io non ho mai portato nessun pizzino, è una invenzione assoluta.
GIORGIO MOTTOLA Tu non hai mai detto alla moglie di Cuffaro che potevi fare entrare tu dentro al carcere i fogli, infilandoli dentro un quaderno?
FEDERICO VESPA - GIORNALISTA No, non mi risulta proprio, guarda.
INTERCETTAZIONE FEDERICO VESPA - GIORNALISTA Per qualsiasi cosa, se martedì non dovessero farla entrare. GIACOMA CHIARELLI io la richiamo, eh…
FEDERICO VESPA - GIORNALISTA Quando esce dal colloquio mi chiama, ci vediamo e le faccio entrare io in qualche modo, le metto in quaderno, un modo lo trovo, e gliele consegno io.
GIACOMA CHIARELLI Sono parecchi fogli però.
FEDERICO VESPA - GIORNALISTA E li metto dentro… un modo si trova sempre
GIACOMA CHIARELLI Vedrà lei di fare quello che riterrà opportuno
FEDERICO VESPA - GIORNALISTA No, io l’articolo 17, quindi non mi fanno molte storie se entro con un quaderno.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il riferimento è all’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario che consente alle persone autorizzate dal direttore di entrare in carcere a fare volontariato e attività di rieducazione.
GIORGIO MOTTOLA Tra l’altro alla moglie di Cuffaro menzioni l’articolo 17 proprio per far capire che non avresti avuto troppi problemi a superare i controlli.
FEDERICO VESPA - GIORNALISTA Non ho mai fatto una cosa del genere. Comunque, anche se l’avessi detto non l’ho mai fatto in assoluto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo le indagini della procura di Roma finita in proscioglimenti e prescrizioni sull’ingresso a Rebibbia di persone vicine a Cuffaro a seguito di vari parlamentari, in occasione di una partita di calcio promossa dal Gruppo Idee che non è mai stata indagata Cuffaro avrebbe fatto invitare dall’associazione di Ciavardini alcuni suoi stretti collaboratori: “così – scrive Cuffaro in un messaggio a uno di loro - potrai stare insieme a me e potremo parlare”.
SALVATORE CUFFARO - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001-2008 Se c’è stata una partita e io abbia detto che potevano vedere la partita può darsi che ci sia stato. Ma che abbiano parlato con me è escluso perché non potevano parlare con me.
GIORGIO MOTTOLA Lei sapeva chi era Ciavardini?
SALVATORE CUFFARO – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001-2008 No, onestamente no.
GIORGIO MOTTOLA Non sapeva che fosse l’autore della strage di Bologna?
SALVATORE CUFFARO – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2001-2008 Assolutamente no.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma da allora il Gruppo Idee ne ha fatta di strada. Lo scorso anno le due cooperative che fanno capo alla famiglia Ciavardini e lavorano con detenuti ed ex detenuti nella manutenzione del verde pubblico hanno fatturato quasi due milioni e mezzo di euro. G
IORGIO MOTTOLA Salve Ciavardini
LUIGI CIAVARDINI - EX NAR Chi è?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ci imbattiamo in Ciavardini mentre sta riponendo qualcosa nel cofano di questo suv da 55 mila euro intestato a una delle cooperative. GIORGIO MOTTOLA Giorgio Mottola di Report LUIGI CIAVARDINI – EX NAR La ringrazio ma non voglio avere rapporti con voi.
GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda sul Gruppo Idee, come ha fatto a diventare così potente
LUIGI CIAVARDINI – EX NAR Ha chiuso. GIORGIO MOTTOLA E che ci fa lei qui? Le cooperative però no siamo quasi tre milioni.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Una delle cooperative si chiama Agm, l’anno scorso ha fatturato un milione e 100mila euro: il figlio di Ciavardini, Andrea, siede nel suo cda e presidente ne è Manuel Cartella, dirigente storico dell’associazione Gruppo Idee nominato nel 2021 vice garante regionale dei detenuti dalla Regione Lazio.
GIORGIO MOTTOLA Ci sono norme che regolano i potenziali conflitti d’interesse di un garante?
GABRIELLA STRAMACCIONI – GARANTE DEI DETENUTI ROMA CAPITALE 2017- 2023 Il regolamento a cui ho partecipato io non dovevi avere intanto interessi con le associazioni, né interessi di lavoro, né interessi professionali, è evidente.
GIORGIO MOTTOLA Neanche con le cooperative che lavorano con il carcere o con i detenuti?
GABRIELLA STRAMACCIONI – GARANTE DEI DETENUTI ROMA CAPITALE 2017- 2023 No, è incompatibile. Almeno sulla carta è incompatibile.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’altra cooperativa è la Essegi 2012 e negli ultimi tre anni ha fatturato quasi cinque milioni di euro. Nel cda siede la moglie di Ciavardini, Germana De Angelis, presidente dell’associazione Gruppo Idee e sorella di Nanni De Angelis, esponente del gruppo neofascista Terza Posizione, suicidatosi in carcere nel 1980.
GIORGIO MOTTOLA Germana De Angelis? Sono Giorgio Mottola di Report, Rai 3.
GERMANA DE ANGELIS – MOGLIE DI LUIGI CIAVARDINI No, grazie.
GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda sul Gruppo Idee.
GERMANA DE ANGELIS - MOGLIE DI LUIGI CIAVARDINI No, grazie, sto lavorando.
GIORGIO MOTTOLA Sono stato anche da suo marito e m’ha risposto la stessa cosa.
GERMANA DE ANGELIS - MOGLIE DI LUIGI CIAVARDINI Quindi gentilmente…
GIORGIO MOTTOLA Ma qualcuno della famiglia potrebbe rispondere?
GERMANA DE ANGELIS - MOGLIE DI LUIGI CIAVARDINI No, no.
GIORGIO MOTTOLA Perché avete anche due cooperative molto importanti che vi fanno riferimento.
GERMANA DE ANGELIS - MOGLIE DI LUIGI CIAVARDINI Vi ringrazio io sto qui in un negozio.
GIORGIO MOTTOLA Quasi tre milioni di euro.
GERMANA DE ANGELIS - MOGLIE DI LUIGI CIAVARDINI Non ne ho idea.
GIORGIO MOTTOLA La cooperativa Essegi e Agm.
GERMANA DE ANGELIS - MOGLIE DI LUIGI CIAVARDINI Grazie buon lavoro.
GIORGIO MOTTOLA Posso solo chiederle se è vero che attraverso la Essegi.
GERMANA DE ANGELIS - MOGLIE DI LUIGI CIAVARDINI No, grazie buonasera.
GIORGIO MOTTOLA Avete fatto uscire dal carcere Cavallini?
GERMANA DE ANGELIS - MOGLIE DI LUIGI CIAVARDINI Non so di che cosa… arrivederci grazie.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gilberto Cavallini è un altro membro dei Nar condannato per la strage di Bologna. Dal suo profilo Linkedin risulta impiegato presso la cooperativa Essegi 2012. Nel 2017, l’ex terrorista neofascista è uscito anticipatamente dal carcere, ottenendo la semilibertà per motivi di lavoro.
GIORGIO MOTTOLA Sono due, tre ore, che la stiamo aspettando.
LUIGI CIAVARDINI – EX NAR Dopo 20 anni di galera solo di carcere posso occuparmi.
GIORGIO MOTTOLA Posso chiedere se…proprio di carcere… volevo sapere se è vero che avete tirato fuori voi dal carcere Cavallini. LUIGI CIAVARDINI – EX NAR Magari avessi avuto sto potere, ma non è così.
GIORGIO MOTTOLA Ma è vero che lavorava con la Essegi, giusto?
LUIGI CIAVARDINI – EX NAR Ti ringrazio, buon lavoro.
GIORGIO MOTTOLA Però visto che parlo della vostra cooperativa…
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ciavardini nega il coinvolgimento della sua associazione, ma nel provvedimento del tribunale di sorveglianza si legge che viene concessa la semilibertà a Cavallini perché lavora come operaio e addetto dell’ufficio commerciale della Essegi2012, che ha sede presso l’associazione Gruppo Idee di Terni. L’associazione di Ciavardini presso i tribunali di sorveglianza gode di ottima fama d’altronde le sue iniziative in carcere si fregiano del patrocinio ufficiale del Coni, che nel 2016 ha tenuto a battesimo il progetto della squadra di Rugby dei “Bisonti”.
RUGBY OLTRE LE SBARRE 13/08/2016 GIOVANNI MALAGÒ – PRESIDENTE CONI Un progetto diverso, vincente, coraggioso innovativo, deve diventare a tutti gli effetti sempre di più un fiore all’occhiello della federazione.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla presentazione, in prima fila c’è Germana De Angelis, moglie di Luigi Ciavardini che si nota nelle retrovie. Al tavolo dei relatori c’è Claudio Barbaro, ex parlamentare di Fratelli d’Italia e attuale sottosegretario all’Ambiente. Barbaro viene da una lunga militanza nel Movimento Sociale Italiano e con Ciavardini sembra avere un rapporto molto stretto.
GIORGIO MOTTOLA Come mai ha dei rapporti così stretti con Luigi Ciavardini?
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Luigi Ciavardini… ehm… questa è una domanda che francamente non è oggetto dell’incontro di oggi, era un fatto che risale a tanti anni fa, basta, fine.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Claudio Barbaro oltre che sottosegretario in quota Fratelli d’Italia è il presidente dell’associazione un tempo organica al movimento sociale italiano, l’ASI, associazione sportiva nazionale. Proprio in qualità di presidente dell’ASI, nel 2009 ha fatto ottenere la semilibertà a Ciavardini assumendolo come operaio qualificato e lo ha poi nominato responsabile dell’associazione per le attività in carcere, incarico che ricopre ancora oggi.
GIORGIO MOTTOLA Perché lei lo ha fatto uscire dal carcere?
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Non ho intenzione di rispondere ad altre domande.
GIORGIO MOTTOLA Grazie a lei ha ottenuto la semilibertà.
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Non ho intenzione di rispondere ad altre domande sul tema. Grazie.
GIORGIO MOTTOLA Però è anche dirigente dell’ASI.
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Non ho intenzione di rispondere ad altre domande, mi dispiace.
GIORGIO MOTTOLA Però è sottosegretario, mi scusi.
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Perfetto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il nome di Claudio Barbaro compare nelle carte di un’inchiesta su Ciavardini di qualche anno fa. Il sottosegretario non è mai stato indagato, ma in un’informativa si segnala che Claudio Barbaro è stato arrestato fra il ‘77 e l’80 per associazione a delinquere e detenzione abusiva di armi. E poi in seguito nell’89 la Digos lo ha segnalato quale soggetto eversivo di destra.
GIORGIO MOTTOLA Lei è stato tra l’altro indicato dalla Digos come un soggetto eversivo, della destra eversiva degli anni ‘80.
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA C’è una denuncia in merito, si pronuncerà la magistratura, grazie.
GIORGIO MOTTOLA È vero che è stato arrestato per associazione a delinquere e porto d’armi?
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Vuole una denuncia? Lei vuole una denuncia? Io non sono mai stato denunciato per un reato del genere.
GIORGIO MOTTOLA Vorrei una risposta, prima di una denuncia, una risposta.
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Non sono mai stato denunciato per un reato del genere.
GIORGIO MOTTOLA Mai stato arrestato?
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Sono stato arrestato per reato d’opinione.
GIORGIO MOTTOLA Ah ecco, per associazione a delinquere?
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA No, per carità di Dio e se insiste la faccio portare fuori, perché lei mi sta offendendo, ok?
GIORGIO MOTTOLA Ma no io le chiedo dei rapporti con Ciavardini, visto che è dirigente della sua associazione.
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA C’è un servizio d’ordine che possa allontanare una persona indesiderata cortesemente?
GIORGIO MOTTOLA Perché indesiderata?
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Perché lei mi sta offendendo, lei mi sta offendendo.
GIORGIO MOTTOLA Io pongo una domanda, sottosegretario.
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA ENERGETICA Perfetto io non intenzione di rispondere alle sue domande, ok? Perfetto, grazie
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il sottosegretario è talmente infastidito dalle nostre domande che chiede agli organizzatori di allontanarci. DONNA O ti cacciano o lui se ne va.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma per fortuna nessuno ci caccia. Noi rimaniamo a seguire il convegno e il posto del sottosegretario rimane vuoto.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Alla fine è andato via il sottosegretario Barbaro, infastidito dalle domande del nostro Giorgio che gli chiedeva la natura dei rapporti con Luigi Ciavardini. Però Barbaro è sicuramente una figura fondamentale nella carriera di Luigi Ciavardini. Ciavardini era stato condannato all’ergastolo in quando uno degli esecutori della strage di Bologna, ma grazie a Barbaro e all’associazione presieduta da Barbaro è potuto uscire dal carcere anticipatamente, perché è stato assunto dalla ASI, Associazione Sportiva Italiana, associazione che faceva riferimento storicamente al Movimento Sociale Italiano, come operaio e come addetto al centralino. Poi è stato nominato responsabile dell’associazione nei rapporti con i detenuti. Poi, successivamente, Ciavardini ha fondato una sua associazione, Gruppo Idee, con la quale attraverso due cooperative è diventata leader nelle carceri nel Lazio di Roma. Insomma, lo abbiamo preso con le mani dietro un cofano di un Suv BMW del valore di 55 mila euro intestato ad una delle società di famiglia. Una di queste società, l’Agm, aveva fatturato l’ultimo anno un milione di euro. Nel cda siede il figlio e anche Manuel Cartella, che è vice garante dei detenuti nel Lazio. Insomma, sarebbe un palese conflitto di interesse. Poi c’è un’altra società, la Essegi, e dentro il cda c’è la moglie, Germana De Angelis. Ha fatturato negli ultimi tre anni 5 milioni di euro e attraverso questa società, la Essegi, è stato scarcerato un altro Nar: Gilberto Cavallini. Anche lui condannato in primo grado come esecutore materiale della strage di Bologna, è stato assunto come operaio e responsabile dell’ufficio amministrativo. Ecco, è uscito anticipatamente dal carcere anche lui. È scattata una sorta di catena nera di Sant’Antonio: l’associazione di Barbaro ha scarcerato Ciavardini; l’associazione che fa riferimento a Ciavardini ha scarcerato Cavallini. Insomma, la catena è lunga, è variegata con molte diramazioni e si tinge ogni tanto anche di rosso.
INTERCETTAZIONE EMANUELE MACCHI DI CELLERE – EX NAR A tutta ‘sta gente non gente non gliene frega un cazzo di me…. è così. salvano il culo lor e… abbiamo sbagliato tutto, considerando anime sta gente, così è
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lui è Emanuele Macchi di Cellere, ex terrorista dei Nar, all’epoca del video era stato da poco arrestato per l’omicidio di Silvio Fanella, cassiere di Gennaro Mokbel, il noto faccendiere neofascista condannato per le truffe da due miliardi di euro nel caso Fastweb-Telecom-Sparkle. Dalla galera, visti i suoi problemi di salute, Macchi di Cellere chiede aiuto ai camerati fuori per poter uscire.
MOGLIE DI EMANUELE MACCHI DI CELLERE Allora io ieri ho chiamato Francesca Mambro, non mi ha risposto, gli ho mandato un messaggio.
EMANUELE MACCHI DI CELLERE – EX NAR hai chiamato chi?
MOGLIE DI EMANUELE MACCHI DI CELLERE Mambro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In un’intercettazione Macchi di Cellere parla con il fratello Umberto e spiega: “io per tirare fuori Concutelli ho pagato cinquemila euro per una perizia, duemila un’altra, era perché sono riuscito ad arrivare a Marroni. Marroni, tramite la Mambro ci sono arrivato, è lei che ha avuto sti contatti”. Il riferimento è a Pierluigi Concutelli, il terrorista neofascista che ha assassinato il giudice Occorsio, scarcerato nel 2011 per motivi di salute, stando all'intercettazione, grazie all’intervento della Mambro su un certo Angiolo Marroni. Esponente del partito comunista prima e del Pd poi, nel 2004 è stato eletto garante dei detenuti in Lazio con un voto quasi unanime di destra e sinistra, quando presidente della Regione era Francesco Storace. GIORGIO MOTTOLA Nell’intervento di sostegno alla candidatura di Marroni come garante lei dice che il nome di Marroni le era stato suggerito da Francesca Mambro.
FRANCESCO STORACE - PRESIDENTE REGIONE LAZIO 2000-2005 Non me lo ricordo questo dettaglio ma se l’ho detto sarà stato vero. Francesca Mambro sicuramente aveva stima di Marroni. Tra l’altro, ecco questo mi fa ricordare una cosa. Marroni fu tra i promotori di un comitato in consiglio regionale che poi approvò anche un ordine del giorno “E se non fossero stati loro a Bologna”. Era convinto della non colpevolezza della Mambro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E dopo settimane di ricerca riusciamo finalmente a ritrovare a Ostia anche Emanuele Macchi di Cellere, che dopo essere stato prosciolto dalle accuse per l’omicidio Fanella, lavora in un cantiere navale.
GIORGIO MOTTOLA Lei è Macchi di Cellere? Salve sono Giorgio Mottola, un giornalista di Report, la trasmissione di Rai3.
EMANUELE MACCHI DI CELLERE – EX NAR Che bella cosa. Come mai qua? Come mi avete trovato qua?
GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda su Francesca Mambro perché quando lei è in carcere per l’omicidio Fanella, cerca di contattare Francesca Mambro.
EMANUELE MACCHI DI CELLERE – EX NAR Io Francesca la conosco da ragazzino. Quando feci… mi occupai di far uscire Concutelli l’intervento con Marroni era tramite lei perché…
GIORGIO MOTTOLA Francesca Mambro. Aveva un rapporto molto stretto con Angiolo Marroni…
EMANUELE MACCHI DI CELLERE – EX NAR Sì, sì. Tant’è che poi riuscì ad avere una sospensione della pena e andò a Genova.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oltre all’ergastolo per la strage di Bologna, Francesca Mambro è stata condannata ad altri otto ergastoli per altrettanti omicidi, tra cui i poliziotti Francesco Evangelista e Francesco Straullo e il giudice Mario Amato. Se per la strage di Bologna non ha mai ammesso la colpa, professandosi innocente, ha invece rivendicato gli altri otto omicidi.
FRANCESCA MAMBRO – LA NOTTE DELLA REPUBBLICA – 28/03/1990 Io ho preso i miei ergastoli per aver portato a termine delle uccisioni verso esponenti delle forze dell’ordine. Io non ho fatto saltare dei padri di famiglia che andavano a pagare delle bollette.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante i nove ergastoli, Francesco Mambro ha scontato in regime ordinario solo 16 anni di carcere prima di essere ammessa al lavoro esterno, a conti fatti sono poco più di due mesi per ciascuna delle 85 vittime di Bologna. Il marito Giusva Fioravanti invece il primo permesso premio lo ha ottenuto dopo 18 anni di reclusione. Entrambi perché richiesti dall’associazione dei radicali “Nessuno Tocchi Caino”, il cui presidente è Sergio D’elia, ex militante dell’organizzazione di estrema sinistra “Prima Linea” condannato a 25 anni per la lotta armata.
GIORGIO MOTTOLA Francesca Mambro ha il primo permesso dopo 16 anni, con nove ergastoli fra l’altro.
EMANUELE MACCHI DI CELLERE – EX NAR Eh, io ne ho fatti 21 più altri 10 senza reati di sangue.
GIORGIO MOTTOLA È come se ci fosse stata una protezione dello Stato rispetto invece a loro che avevano fatto Bologna?
EMANUELE MACCHI DI CELLERE – EX NAR Le protezioni certo che le hanno avute, penso di sì, non è che ci sta da fare tanto la spia.
GIORGIO MOTTOLA Cioè lei quanti anni si è fatto?
EMANUELE MACCHI DI CELLERE – EX NAR 30. 21 più otto e tre di domiciliari
GIORGIO MOTTOLA Senza avere reati di sangue?
EMANUELE MACCHI DI CELLERE – EX NAR Mai avuti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Proviamo a parlare con Francesca Mambro alla presentazione del suo libro organizzata da una associazione romana di estrema destra. Dopo il dibattito, il pubblico si mette in fila per farsi firmare la copia dall’ex terrorista dei NAR. Vedendola così disponibile con i suoi fan ci avviciniamo per farle qualche domanda.
GIORGIO MOTTOLA Salve buonasera sono Giorgio Mottola di Report, Rai3, volevo farle qualche domanda.
FRANCESCA MAMBRO – EX NAR No.
GIORGIO MOTTOLA Come no?
FRANCESCA MAMBRO – EX NAR No. Io con Report non parlo.
GIORGIO MOTTOLA Perché non parla con Report? FRANCESCA MAMBRO – EX NAR Non ci parlo, non mi interessa.
GIORGIO MOTTOLA Volevo sapere se lei quando è uscita dal carcere ha provato a far uscire anche altri eversori fascisti?
FRANCESCA MAMBRO – EX NAR Vai, vai, buona sera.
GIORGIO MOTTOLA Emanuele Macchi di Cellere perché si rivolge a lei per provare a uscire dal carcere? Mi sta portando via il microfono?
ARIANNA FIORAVANTI No, lo sto portando fuori così vieni fuori anche tu.
GIORGIO MOTTOLA Ma mi sta portando via il microfono.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La ragazza che ci porta via il microfono è Arianna Fioravanti, figlia di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. A lei risulta intestata la casa in questa via di Roma in cui vive con il padre e la madre. Secondo l’atto notarile sarebbe stata Arianna Fioravanti ad acquistarla in prima persona nel 2002, vale a dire quando aveva appena un anno. All’epoca entrambi i genitori erano fuori dal carcere, ma su di loro pendeva una richiesta di risarcimento da parte dei familiari delle vittime della strage di Bologna, che ammonta ancora oggi a un miliardo di euro.
PAOLO BOLOGNESI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME DI BOLOGNA Loro sono incapienti e pertanto non possono dare nulla.
GIORGIO MOTTOLA Loro si sono sempre dichiarati incapienti?
PAOLO BOLOGNESI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME DI BOLOGNA Lavorando presso “Nessuno Tocchi Caino” lo stipendio lo prendono. Potevano dire dieci lire al mese io li metto a disposizione dei familiari delle vittime, mai successa una cosa del genere.
GIORGIO MOTTOLA Lo sa che poco dopo che è uscita Francesca Mambro è stata acquistata una casa che è la casa in cui vivono entrambi che risulta intestata alla figlia e all’epoca aveva un anno?
PAOLO BOLOGNESI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME DI BOLOGNA Questa è una bella notizia, vuol dire che non sono più incapienti e vuol dire che qualcuno gli ha dato i soldi. Anche questo potrebbe essere oggetto di un’inchiesta per capire quella verità che la Mambro non vuol dire.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da dove siano venuti i soldi, non siamo in grado di dirlo. Sebbene in un’intercettazione telefonica del 2003, Gennaro Mokbel raccontava al mafioso Carmine Fasciani che la scarcerazione di Mambro e Fioravanti gli fosse costata un milione e 200mila euro. Fatto sta che oggi, che la condanna al risarcimento da un miliardo è diventata definitiva, quella casa non è comunque pignorabile dallo Stato perché intestata alla figlia Arianna.
GIORGIO MOTTOLA Come avete comprato la casa? E vorrei anche chiedere i suoi rapporti con Mokbel?
ARIANNA FIORAVANTI Prendo anche questo?
GIORGIO MOTTOLA Può prendere anche questo, immagino che lei sia abituata a fare queste cose. Può farlo, prenda anche questo.
ARIANNA FIORAVANTI E’ un diritto di una persona non farsi intervistare. Per favore può non dare fastidio a mia madre?
GIORGIO MOTTOLA Io sto facendo delle domande.
UOMO Visto che questo è un luogo privato ce ne andiamo.
GIORGIO MOTTOLA Non posso fare delle domande?
UOMO Le fa qua, le fa qua. Faccia le domande qua fuori alla porta.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mambro e Fioravanti si sono sempre dichiarati incapienti. Visto che erano già scattate le richieste di risarcimento per i familiari delle vittime della strage di Bologna, come ha fatto la figlia Arianna ad acquistare e intestarsi a un solo anno di età l’appartamento? L’attenzione finisce sull’intercettazione di Gennaro Mokbel del 2007. Il faccendiere legato all’eversione di destra, ai servizi segreti e alla massoneria deviata che parlando con il mafioso Carmine Fasciani, dichiara di aver pagato un milione e 200 mila euro per la scarcerazione di Mambro e Fioravanti. Fioravanti ha sempre negato di aver ricevuto soldi da Mokbel e che i suoi legali fossero stati pagati da lui. Però i rapporti tra Fioravanti, Mambro e Mokbel emergono chiaramente a seguito dell’inchiesta sulla gigantesca truffa Fastweb – Telecom Sparkle. Emerge che i tre stavano lavorando alla costituzione di un partito, Alleanza Federalista, al quale si erano già iscritti tutti i familiari della Mambro. E poi è un vecchio pallino quello di costituire i partiti per Mokbel: aveva anche ipotizzato una Lega del Sud in accordo con alcuni importanti politici del centro destra. In quel momento Mokbel aveva già collezionato un bel pedigree criminale, aveva precedenti penali, e Mambro e Fioaravanti erano in regime di semilibertà o libertà condizionale. Insomma, la legge vieterebbe di avere rapporti, anche se non commetti reati, tra criminali della stessa area perché rischi di perdere i benefici di legge. Ecco, questo nel loro caso non è successo. Poi, secondo la testimonianza di Macchi Di Cellere, la Mambro avrebbe avuto un ruolo anche nella scarcerazione di Pierluigi Concutelli. È uscito dal carcere nel 2011 per motivi di salute, è scomparso pochi giorni fa. È stato condannato per essere il killer del giudice Vittorio Occorsio, il primo magistrato che aveva intuito che dietro le stragi c’era la mano dell’eversione di destra, della P2, dei servizi segreti. Morto Occorsio, le carte sono passate in mano al giudice Mario Amato che ha continuato da solo le inchieste sull’eversione di destra. Ben 600 fascicoli. Anche lui era arrivato alla conclusione che dietro le stragi c’era la mano della massoneria deviata, dei 007 e dei terroristi neri. Per questo aveva anche chiesto aiuto, nel corso di un’audizione, davanti al CSM, il 13 giugno del 1980. Ad ascoltarlo c’era il vicepresidente del CSM, Ugo Ziletti, che risulterà poi legato e appartenere alla galassia di Licio Gelli. Il giudice Amato aveva chiesto aiuto anche nei tentativi di delegittimazione che lo stavano colpendo. Il grido di aiuto che è rimasto inascoltato. Dieci giorni dopo Amato viene ucciso da un commando formato da Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini. I mandanti: Mambro e Fioravanti. Cioè i protagonisti della strage di Bologna che avverrà un mese e mezzo dopo. Quella strage finanziata da Licio Gelli, organizzata dal capo dei servizi segreti Federico Umberto D’Amato. Ora, la Mambro è stata accusata di oltre novanta omicidi, condannata a nove ergastoli e, con il compagno Fioravanti, è dipendente retribuita dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Insieme a Luigi Ciavardini che gestisce altre società e che fattura la bellezza di milioni e milioni di euro. La Mambro scrive, firma e autografa libri e li vende. Ciavardini incassa. Nessuno di loro ha mai pagato un euro di risarcimento di quel miliardo di euro che devono - dovrebbero almeno - ai familiari delle vittime della strage di Bologna.
Cospito e il servizio di Report, la replica di Saluzzo: «L'attentato a Fossano un micidiale congegno a trappola che avrebbe potuto colpire molte persone». Redazione online su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2023
Il magistrato afferma che nel corso della trasmissione l'avvocato di Cospito ha «ridotto la gravissima vicenda a un mero gesto dimostrativo senza alcun intento di far male, e alla esplosione di petardi da fiera paesana»
L'attentato del 2006 alla scuola allievi ufficiali dei carabinieri a Fossano, in provincia di Cuneo, attribuito ad Alfredo Cospito, l'anarchico in sciopero della fame per protesta contro il 41 bis, era un «micidiale congegno a trappola» che avrebbe potuto colpire «molte persone» con «le conseguenze che tutti possono immaginare». È la replica del procuratore generale del Piemonte, Francesco Saluzzo, a un servizio della trasmissione tv Report.
Il magistrato, in particolare, afferma che nel corso della trasmissione l'avvocato di Cospito ha «ridotto la gravissima vicenda a un mero gesto dimostrativo senza alcun intento di far male, e alla esplosione di petardi da fiera paesana». Ma «la realtà è del tutto diversa da quella che risulta dagli atti processuali», tanto che, osserva Saluzzo, la Cassazione «ha già stabilito che si trattò di un reato gravissimo».
«È sufficiente vedere il video della procura: neppure i cassonetti di plastica sono stati danneggiati». La risposta del difensore di Alfredo Cospito Flavio Rossi Albertini. «Ogni ulteriore commento - aggiunge il legale - è superfluo».
E così i segugi di Report scoprirono le associazioni che aiutano i detenuti...A finire nel mirino della trasmissione Rai ora sono Antigone e Nessuno tocchi Caino. Il motivo? Sono “infiltrate” da ex terroristi... Il Dubbio l'8 maggio 2023
Stavolta Report vola alto e spiazza tutti. La sedicente trasmissione d’inchiesta della Rai ha infatti scoperto che Antigone, l’associazione che da decenni si occupa dei diritti delle persone detenute, avrebbe battagliato per chiedere la scarcerazione di centinaia di malati ristretti in cella.
Che poi, a ben vedere, Report è interessato solo al destino di uno di loro: a Marcello dell’Utri. E chi altri, sennò? All’uomo “nero” di Silvio Berlusconi, che è stato scarcerato qualche mese prima che finisse la sua pena per certificate ed evidenti ragioni di salute.
Ma non finisce qui. I fini segugi di Report hanno anche scoperto che Nessuno tocchi Caino sarebbe “infiltrata” da ex terroristi. Ai nostri Sherlock Holmes del giornalismo deve essere sfuggito che Nessuno tocchi Caino è nata trent’anni fa esatti - dicasi trent’anni - con lo scopo di integrare ex detenuti da “riconsegnare” alla nostra società.
Insomma, stavolta il Pulitzer non glielo toglie nessuno. Anche se per ora si tratta solo di anticipazioni. Tra poche ore – quando la puntata andrà in onda su Rai3 - scopriremo i nuovi teoremi dei giornalisti di Report che, rimasti orfani della Trattativa Stato-mafia, cavalcata per anni ma azzoppata definitivamente dai giudici, sono alla disperata ricerca di una nuova ragione di vita. Staremo a vedere…
Report e lo sconosciuto mondo dell’esecuzione penale: ecco come ti costruisco un teorema. Il programma di Rai3 ha messo su un vero e proprio frullatore, che crea una narrazione “suggestiva”, ma costellata da omissioni e improbabili fili logici. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 maggio 2023
Insinuazioni, sospetti, l’idea di fondo che esista un sistema con a capo gli ex neofascisti, alcuni ex detenuti terroristi neri, che attraverso le loro cooperative condizionano le scelte della magistratura di sorveglianza per la concessione o meno delle misure alternative alla detenzione. E associazioni lontane anni luce dal neofascismo come “Nessuno Tocchi Caino” o i membri storici dell’associazione “Antigone” come il garante regionale Stefano Anastasìa, usate come strumento per favorire questo sistema. È l’ennesimo teorema di Report, la trasmissione di Rai3 in prima serata.
Lo fa insinuando sospetti a persone integerrime, che credono nel loro lavoro per far rispettare i diritti durante l’esecuzione penale e che si sono battute contro le torture che avvengono nella Patrie Galere. Persone con un curriculum di tutto rispetto come l’avvocata Simona Filippi, “rea” di aver difeso l’ex senatore Marcello Dell’Utri per chiedere una misura alternativa per gravi motivi di salute. Non fu poi scarcerato per istanza dell’avvocata, ma per autonoma iniziativa della stessa magistratura di sorveglianza visto che, di fatto, l’ex senatore si è dovuto operare non a uno, ma a ben tre tumori. E pensare che la stessa Filippi, per conto di “Antigone”, difende soprattutto gli extracomunitari, i senza fissa dimora, tossicodipendenti. Gli ultimi di questa terra.
Ma bisogna costruire il teorema, basato ovviamente sul nulla e soprattutto ben sapendo che la stragrande maggioranza dei telespettatori è a digiuno del tema della detenzione, del lavoro fondamentale del terzo settore come appunto le cooperative che fanno lavorare i detenuti, il discorso della figura del garante e della magistratura di sorveglianza. E allora c’è gioco facile per creare un filo apparentemente logico. Ad esempio Report ripesca una dichiarazione del garante regionale del Lazio Stefano Anastasìa a favore della misura alternativa per Dell’Utri (evitando di dire che all’epoca c’era un dibattito pubblico sull’argomento e quindi, forse addirittura da Il Dubbio stesso o Radio Radicale, è stato intervistato per un parere) e poi lo collegano al fatto che “stranamente” in quello stesso periodo il suo ufficio ha assunto l’avvocata Filippi come consulente. Avvocata che difendeva all’epoca Dell’Utri per la questione detentiva.
Basterebbe leggere il suo curriculum pubblico, e si scoprirebbe che forse è una delle rare persone che hanno una sterminata competenza per quanto riguarda l’esecuzione penale. E un giornalismo serio, avrebbe dovuto rendere noto il lavoro svolto durante la sua consulenza. Ad esempio grazie alle visite effettuate al carcere di Viterbo si è potuto scoprire l’orrore che accadeva dietro quelle mura. Ma di tutto questo, nel servizio di Report non vi è traccia.
Ma per unire puntini inesistenti, rende noto che esistono cooperative che fanno lavorare i detenuti gestiti da ex terroristi neri. Per esempio, Report cita l’ex Nar, Luigi Ciavardini e la moglie, Germana De Angelis, che è presidente del “Gruppo Idee Aps”. Che cos’è? Una cooperativa che ha per finalità sociali la reintegrazione nella società delle persone detenute. E qui l’affare si fa grosso. Hanno svelato corruzione, sfruttamento della manodopera, gestione sospetta, tangenti? No, lo scandalo è che ci sono persone, provenienti dalla terribile lotta armata degli anni 70 e 80, le quali – finito di pagare per i propri errori - hanno deciso di guadagnare i soldi onestamente con il recupero dei detenuti.
Uno scandalo vedere persone che, in gioventù, militavano nell’estrema destra e hanno commesso reati legati al fanatismo ideologico (così come, d’altronde, persone della lotta armata dell’estrema sinistra e alcuni di loro hanno creato cooperative simili), stanno mettendo in pratica l’articolo 27 della Costituzione nata dall’antifascismo. E addirittura è scandaloso che usufruiscano della cosiddetta legge Smuraglia, che prende il nome dell’ex partigiano recentemente morto. Dovrebbe essere un esempio virtuoso, e invece Report lancia il sospetto. Forse sarebbe stato meglio che si fossero dati alla delinquenza?
Ma le “ombre nere” e quelle “mafiose”, seguendo la narrazione distorta di Report, trovano il loro anello di congiunzione nell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”. Lo scandalo è che Rita Bernardini ha visitato le carceri assieme a dei membri di Casapound. Così “indicibile”, tanto da renderlo noto come di consueto. Basterebbe seguire Radio Radicale. Ma si insinua il sospetto. Come diavolo si può concepire una associazione che mette in pratica, da tempo immemore, il pensiero radicale che consiste nell’accogliere chiunque voglia lottare per i diritti umani e per la difesa dello Stato di Diritto? Lo “scandalo” radicale è proprio questo. E forse, in nome della difesa dei sacri principi della costituzione, dovremmo esserne grati. Se persone di estrema destra vengono coinvolti per la difesa dei diritti dei detenuti, è tutto di guadagnato.
Pensiamo a Sergio D’Elia, uno dei fondatori di “Nessuno Tocchi Caino”. Un uomo che è l’esempio vivente di come si possa passare dalla violenza (nel suo caso ideologica) alla non violenza, attraverso lo strumento del Diritto. D’altronde la stessa associazione è un macro laboratorio dove persone che hanno avuto trascorsi diversi, anche ideologicamente contrapposti, convivono e lottano per i principi umanitari. C’è, come detto, D’Elia, il quale ha un passato di sinistra extraparlamentare, ma anche Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, provenienti dall’organizzazione dell’estrema destra Nar.
E l’altro scandalo che Report ha scoperto solo ora? Nel direttivo di qualche anno fa ci sono stati ben sette ergastolani ostativi, i protagonisti del docufilm “Spes contra spem” di Ambrogio Crespi. Un film che era stato presentato al Festival del Cinema di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma, alla presenza dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. In quel film sono loro, i carcerati, i “senza speranza” a raccontarsi. Report poi narra la stranezza che solo negli ultimi anni, l’associazione radicale, si sarebbe occupata dell’ergastolo ostativo e 41 bis. E ciò dimostra una ignoranza abissale. Le prime battaglie contro il carcere speciale la fecero proprio loro. Basti pensare al primo libro bianco contro il 41 bis a firma dello stesso D’Elia e Maurizio Turco, l’attuale presidente del Partito Radicale.
Così come, non è una novità che nel partito si iscrivano anche detenuti mafiosi. Marco Pannella fece già “scandalo” quando si recò al carcere di Palermo per dare la tessera del Partito Radicale a Michele Greco, il “papa della mafia”. Parliamo di 40 anni fa. Oppure, e siamo al 1987, lo “scandalo” di Giuseppe Piromalli. Parliamo dello spietato boss della ‘ndrangheta che da ergastolano si tesserò, ed era il periodo della campagna per il tesseramento finalizzato alla salvezza del Partito Radicale. Ecco cosa disse Marco Pannella in quella occasione: «Penso piuttosto che proprio Piromalli, non quello “trionfante” libero e potente, ma quello sconfitto e ormai inerme abbia voluto essere “anche” radicale, “anche” nonviolento, lasciare magari ai suoi nipoti, a chi comunque crede, ha creduto in lui, questo segnale. Sta di fatto che egli ha voluto concorrere a “salvare” il Partito Radicale. Se avesse avuto ancora da conquistare, contrattare, salvare “potere”, allora avrebbe avuto contatti con tutti, tranne che con noi».
E cosa fa Report? Non trovando nessun caso di cronaca, pesca l’unico evento avvenuto nell'arco di oltre mezzo secolo di battaglie nonviolente radicali. Il caso di Antonello Nicosia, arrestato con l’accusa di associazione mafiosa, che si iscrisse ai radicali italiani e approfittò delle visite in carcere per millantare credibilità di fronte a detenuti dentro per mafia. La stessa Rita Bernardini, vedendo come si comportava in maniera non professionale, aveva interrotto i rapporti. D’altronde anche il giudice che ha convalidato l’arresto, ha ben distinto la sua posizione da quella dei radicali che si battono legittimamente per la tutela dei dritti umani. Ma tutto questo Report (forse) non lo sa.
Ombre grigie. Report Rai PUNTATA DEL 08/05/2023
di Giorgio Mottola
Consulenza di Andrea Palladino
Collaborazione di Norma Ferrara
Report torna a occuparsi di uno degli autori della strage di Bologna, Luigi Ciavardini, e delle sue attività nel settore carcerario.
Dopo aver ottenuto la semilibertà nel 2010 ha riallacciato i rapporti con figure criminali legate al mondo dei Nar, protagonisti negli ultimi anni della scena mafiosa romana. L’estrema destra sembra da tempo molto interessata al mondo dei penitenziari italiani. Di recente molti esponenti di organizzazioni neofasciste hanno aderito a Nessuno Tocchi Caino, una delle principali e più autorevoli associazioni che si occupa di carceri in Italia. Fondata negli anni ’90 sotto l’egida di Marco Pannella e del Partito Radicale negli ultimi anni sembra essersi focalizzata sulla lotta contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, con una presenza massiccia di detenuti ed ex detenuti condannati per mafia nei suoi organismi dirigenti.
Ombre grigie di Giorgio Mottola consulenza Andrea Palladino collaborazione Norma Ferrara immagini Carlos Dias, Dario D’India e Andrea Lilli montaggio e grafiche Giorgio Vallati
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ci imbattiamo in Ciavardini mentre sta riponendo qualcosa nel cofano di questo suv da 55 mila euro intestato a una delle cooperative.
GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda sul Gruppo Idee, come ha fatto a diventare così potente?
LUIGI CIAVARDINI – EX NAR Ha chiuso.
GIORGIO MOTTOLA E che ci fa lei qui? Le cooperative però no siamo quasi tre milioni.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gilberto Cavallini è un altro membro dei Nar condannato per la strage di Bologna. Dal suo profilo Linkedin risulta impiegato presso la cooperativa Essegi 2012. Nel 2017, l’ex terrorista neofascista è uscito anticipatamente dal carcere, ottenendo la semilibertà per motivi di lavoro
GIORGIO MOTTOLA Volevo sapere se è vero che avete tirato fuori voi dal carcere Cavallini?
LUIGI CIAVARDINI – EX NAR Magari avessi avuto sto potere, ma non è così.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ciavardini nega il coinvolgimento della sua associazione, ma nel provvedimento del tribunale di sorveglianza si legge che viene concessa la semilibertà a Cavallini perché lavora come operaio e addetto dell’ufficio commerciale della Essegi2012, che ha sede presso l’associazione Gruppo Idee di Terni.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Torniamo su Luigi Ciavardini, condannato per essere uno degli esecutori materiali della strage di Bologna. A lui fa riferimento a Gruppo Idee, associazione leader che opera nel mondo delle carceri, soprattutto Roma e Lazio, Rebibbia. Ecco, a questa associazione fanno riferimento anche altre cooperative che svolgono le loro attività con detenuti ed ex detenuti. Hanno fatturato negli ultimi anni milioni di euro. E ai vertici ci sono Manuel Cartella, che è anche vice garante dei detenuti del Lazio, il figlio di Luigi Ciavardini e, fino a pochi giorni fa, anche la moglie Germana De Angelis. Attraverso queste cooperative è stato assunto nel 2017 Gilberto Cavallini, altro condannato per essere uno degli esecutori della strage di Bologna, ma in primo grado. Grazie a questa assunzione è potuto uscire prima dal carcere. Si è replicato quello che era accaduto con lo stesso Ciavardini nel 2009, quando era stato assunto dall’Associazione sportiva italiana il cui presidente era proprio Barbaro, l’attuale sottosegretario all’Ambiente. Ecco, si era innescata una sorta di catena di sant’Antonio, una catena nera di sant’Antonio. E dopo la nostra inchiesta il tribunale di sorveglianza di Roma ha avviato degli accertamenti sulle attività del Gruppo Idee. Mentre tra le carte di mafia capitale il nostro Giorgio Mottola ha trovato i contatti pericolosi di Ciavardini.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’associazione dell’ex terrorista Ciavardini a Rebibbia è titolare di una serie di progetti, tra cui la squadra di Rugby composta da detenuti. Un’iniziativa che era stata voluta in prima persona da Rosella Santoro, direttrice di un’ala del penitenziario romano. Quando nel 2019 ha chiesto aiuto al Coni per realizzare il progetto le è stato detto di affidarsi all’associazione di Ciavardini.
ALDO DI GIACOMO – SEGRETARIO NAZIONALE E SINDACATO POLIZIA PENITENZIARIA E il Coni di tutta risposta sembrerebbe che abbia mandato la moglie di Ciavardini a trovare le possibili altre soluzioni. Be’, questo evidentemente la dice lunga su come il sistema in sé sia malato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La moglie di Ciavardini è Germana De Angelis, presidente del Gruppo Idee. È lei che per conto della Federazione di Rugby, affiliata al Coni, ha messo in piedi il progetto della squadra di detenuti che però sembra fermo da un po’ di tempo.
GIORGIO MOTTOLA Germana De Angelis, buongiorno.
GERMANA DE ANGELIS – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE GRUPPO IDEE No, no, senta, arrivederci! Per favore, un’altra volta.
GIORGIO MOTTOLA Non ci ha neanche risposto alle e-mail quindi sono costretto a venire.
GERMANA DE ANGELIS – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE GRUPPO IDEE Grazie e arrivederci. Arrivederci e grazie.
GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle se è vero che la Federazione ha mandato lei come intermediaria?
COLLABORATRICE ASSOCIAZIONE GRUPPO IDEE Oh mamma mia, puoi chiamare i carabinieri che sono in un’attività privata?
GIORGIO MOTTOLA Io però non so come altre fare delle domande visto che non mi rispondete in nessun modo
GERMANA DE ANGELIS – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE GRUPPO IDEE Non vi vogliamo rispondere, sono obbligata a risponderle? No.
GIORGIO MOTTOLA Avete cooperative che gestiscono soldi pubblici, che vincono bandi pubblici.
GERMANA DE ANGELIS – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE GRUPPO IDEE Puoi dirglielo tu che chiamo i carabinieri? Arrivederci, grazie.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’episodio della squadra di Rugby fa capire quanto sia diventata importante e potente l’associazione di Luigi Ciavardini, che due anni fa ha ottenuto la sua consacrazione anche dalla Regione Lazio. Il consiglio regionale, infatti, ha votato come vice garante regionale dei detenuti Manuel Cartella, dirigente storico del Gruppo Idee e socio del figlio di Luigi Ciavardini in una cooperativa di detenuti, legata all’associazione.
GIORGIO MOTTOLA È opportuno che il dirigente di un’associazione fondata e di fatto ancora diretta da uno stragista, condannato in via definitiva, ricopra un incarico istituzionale come questo?
STEFANO ANASTASIA – GARANTE REGIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE - LAZIO Capita, capita a tanti. Io stesso, non ho difficoltà a dirlo, sono stato tra i fondatori dell’associazione Antigone.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Stefano Anastasia, sposato con la deputata del Pd Cecilia D’Elia, è il presidente onorario di Antigone, una delle più importanti associazioni che si occupa di carcere in Italia, fondata all’inizio degli anni ‘90 da alcune delle figure più autorevoli della sinistra italiana: Rossana Rossanda, Stefano Rodotà e Luigi Manconi.
GIORGIO MOTTOLA Lei è tra i fondatori di Antigone e ne è presidente onorario. E come gestisce gli eventuali conflitti di interesse?
STEFANO ANASTASIA – GARANTE REGIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE - LAZIO Mah, non ce ne sono. Antigone non prende contributi da nessuna istituzione pubblica italiana.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, è proprio un possibile conflitto di interesse che ha attirato la nostra attenzione. Nel 2017 a Rebibbia c’è un detenuto eccellente: Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo 4 anni di reclusione, l’ex senatore di Forza Italia chiedeva di essere scarcerato per gravi motivi di salute ma il tribunale di sorveglianza inizialmente negò i domiciliari. Ne nacque uno scontro politico molto animato che indusse a intervenire nel dibattito anche il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia.
GIORGIO MOTTOLA Lei disse che non erano le sue condizioni compatibili con il carcere.
STEFANO ANASTASIA – GARANTE REGIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE - LAZIO Mhm, può essere.
GIORGIO MOTTOLA Facendo una ricerca in realtà non ho mai visto nessun altro intervento da parte sua in favore della scarcerazione di altri detenuti.
STEFANO ANASTASIA – GARANTE REGIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE - LAZIO Francamente non ricordo, immagino che qualche altro intervento ci sia stato.
GIORGIO MOTTOLA Ad personam è stato l’unico.
STEFANO ANASTASIA – GARANTE REGIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE - LAZIO Non so quali sono le circostanze in cui il caso è diventato pubblico.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Qualche mese dopo le decine di appelli in suo favore, nel luglio del 2018, Dell’Utri viene scarcerato per motivi di salute. La pratica della concessione dei domiciliari all’ex senatore viene seguita dall’avvocato Simona Filippi, ingaggiata da Dell’Utri dopo il trasferimento a Rebibbia. Simona Filippi è un’avvocata romana molto vicina a Stefano Anastasìa e ad Antigone. All’interno dell’associazione ricopre infatti l’incarico di responsabile del contenzioso e nel 2017, quando era già stata nominata avvocata di Dell’Utri, era stata assunta a 14 mila euro all’anno come consulente giuridico dell’ufficio del garante dei detenuti, all’epoca presieduto proprio da Anastasia.
GIORGIO MOTTOLA Il fatto che lei chieda la scarcerazione di Dell’Utri nonostante il suo avvocato lavori per lei, sostanzialmente, per il garante, non è una situazione un po’ così, strana?
STEFANO ANASTASIA – GARANTE REGIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE - LAZIO Allora, non credo che sia stata quella dichiarazione che ha cambiato le sorti, diciamo così, del percorso detentivo di Dell’Utri.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fedor Dostoevskij sosteneva che il grado di civilizzazione di un popolo si misura dalle sue prigioni. Ma, guardando al caso del Lazio, le galere possono essere il metro anche per valutare gli equilibri politici. L’elezione del garante e del suo vice hanno infatti seguito una logica di rigorosa spartizione tra i partiti della maggioranza e della minoranza in consiglio regionale.
GIORGIO MOTTOLA Sembra quasi che ci sia uno spoil system fra destra e sinistra. Cioè lei era il candidato della sinistra e Cartella quello della destra?
STEFANO ANASTASIA – GARANTE REGIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’ PERSONALE - LAZIO Quello che succede in aula non le deve chiedere a me.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da quanto abbiamo ricostruito la nomina di Manuel Cartella, uomo di Ciavardini, a vice Garante dei detenuti viene avanzata nella Prima Commissione del consiglio regionale laziale da Pino Cangemi, ex paracadutista e dirigente del Movimento Fiamma Tricolore, oggi vicepresidente regionale del Lazio, in quota Lega. La candidatura viene poi appoggiata dalla consigliera di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo, che non ha mai fatto mistero della sua vicinanza all’ex terrorista. E così non gli mai negato sostegno un altro pezzo da 90 di fratelli d’Italia, il sottosegretario Claudio Barbaro, grazie al quale Ciavardini ha ottenuto la semilibertà nel 2010.
GIORGIO MOTTOLA Come mai ha dei rapporti così stretti con Luigi Ciavardini?
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO AL MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA Luigi Ciavardini… ehm… questa è una domanda che francamente non è oggetto dell’incontro di oggi, è un fatto che risale a tanti anni fa, basta, fine.
GIORGIO MOTTOLA Perché lei lo ha fatto uscire dal carcere?
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO AL MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA Non ho intenzione di rispondere ad altre domande.
GIORGIO MOTTOLA Grazie a lei ha ottenuto la semilibertà.
CLAUDIO BARBARO – SOTTOSEGRETARIO DI STATO AL MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA Non ho intenzione di rispondere ad altre domande sul tema. Grazie.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nel 2010, mentre Ciavardini è in semilibertà assunto da Barbaro come archivista e centralinista dell’Associazione sportiva italiana, sul tavolo di due magistrati della procura di Roma arriva una segnalazione del Ros dei carabinieri.
LUCA TESCAROLI – SOSTITUTO PROCURATORE – PROCURA DELLA REPUBBLICA DI ROMA 2001-2018 Si faceva riferimento ad una ipotesi relativa alla sussistenza di un’associazione per delinquere che aveva come finalità quella di commettere delle rapine in una prospettiva di autofinanziamento di soggetti appartenenti al mondo della destra estrema.
GIORGIO MOTTOLA Nell’ipotesi investigativa chi erano i protagonisti di questo disegno criminale?
LUCA TESCAROLI – SOSTITUTO PROCURATORE – PROCURA DELLA REPUBBLICA DI ROMA 2001-2018 Luigi Ciavardini, Carlo Gentile, Matteo Costacurta ed altri soggetti inseriti nel mondo della destra estrema.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Matteo Costacurta, all’epoca pregiudicato, è oggi imputato con l’accusa di essere stato negli ultimi dieci anni un killer al soldo della mafia albanese e di altre organizzazioni criminali. Anche l’altra frequentazione di Ciavardini, Carlo Gentile, aveva all’epoca molti precedenti ed è oggi in carcere per due omicidi.
GIORGIO MOTTOLA È normale che un detenuto in semilibertà frequenti altri pregiudicati?
LUCA TESCAROLI – SOSTITUTO PROCURATORE – PROCURA DELLA REPUBBLICA DI ROMA 2001-2018 No, questo non dovrebbe accadere. Obiettivo del reinserimento sociale, della rieducazione della pena dovrebbe svolgersi in condizioni da recidere i rapporti con il mondo della criminalità.
GIORGIO MOTTOLA E come mai non è stata revocata la semilibertà a Ciavardini, nonostante questi rapporti così stretti che intratteneva con altri pregiudicati.
LUCA TESCAROLI – EX SOSTITUTO PROCURATORE PROCURA DELLA REPUBBLICA DI ROMA Guardi, io questo tema non l’ho approfondito.
GIORGIO MOTTOLA Dalle indagini su Ciavardini la Procura di Roma arriva a Massimo Carminati, dando così il via all’inchiesta diventata famosa con il nome di Mafia Capitale. La posizione di Ciavardini verrà archiviata ma agli atti restano le frequentazioni mentre era in semilibertà anche con un altro pregiudicato, Massimiliano Colagrande, condannato a 30 anni nel 2020 con l’accusa di essere il braccio destro a Roma del boss della camorra Domenico Pagnozzi. Nel 2010 Colagrande chiama Ciavardini e gli propone di “combinare un po’ di lavoro”: “Cominciamo a fa girare qualcosa di meglio perché sennò così siamo destinati a morì”. E Ciavardini risponde: “Ho capito controlliamo questa cosa…. Ma non vorrei morire adesso… ho altre cose a cui pensare”. Tra i due il rapporto risaliva nel tempo: fino agli inizi degli anni 2000 la moglie di Ciavardini, Germana De Angelis, era socia della sorella di Colagrande in due aziende che gestivano bar e ristoranti.
GIORGIO MOTTOLA Io non voglio importunarla però vorrei chiederle dei rapporti con Colagrande.
GERMANA DE ANGELIS – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE GRUPPO IDEE C’è il sole andate a prendere un gelato, arrivederci.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma Ciavardini non è l’unica figura dell’estrema destra italiana che guarda con interesse alle questioni carcerarie. Negli ultimi tempi altri esponenti della galassia neofascista si sono avvicinate a una delle più importanti associazioni del settore carcerario, Nessuno Tocchi Caino. La scorsa Pasqua, alla rituale visita ai carcerati, la presidente dell’associazione federata al partito radicale, Rita Bernardini, non si è presentata da sola.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Carlotta.
CARLOTTA CHIARALUCE – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Dimme Rì.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Guarda, facciamo una cosa per Radio Radicale.
CARLOTTA CHIARALUCE – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Ok, va bene.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La donna con i capelli rossi è Carlotta Chiaraluce, dirigente nazionale di Casapound che, insieme ad altri militanti dell’organizzazione di estrema destra, oggi fa parte della delegazione di Nessuno Tocchi Caino.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Buona Pasqua. Voi siete?
GIORGIO MOTTOLA Report, Rai3.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Ah, oddio!
CARLOTTA CHIARALUCE – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND Sei contenta, buona Pasqua. Hanno mandato, vedi, la faccia quella simpatica.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Che meraviglia!
GIORGIO MOTTOLA Posso chiederle come mai siete qui oggi con una delegazione di Casapound?
CARLOTTA CHIARALUCE – DIRIGENTE NAZIONALE CASAPOUND E te pareva.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO GIORGIO MOTTOLA Iscritti a Casapound… Ci sono degli iscritti a Nessuno tocchi Caino di Casapound, sì. Abbiamo già fatto altre visite, non ve ne siete accorti?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È la terza volta nel giro di pochi mesi che Bernardini porta con sé nelle ispezioni a Rebibbia una rappresentanza di dirigenti di Casapound. L’ultima volta ne faceva parte anche Luca Marsella, marito di Chiaraluce e coordinatore del movimento neofascista a Ostia, dove sono stati oggetto di polemica i suoi rapporti con Roberto Spada, esponente dell’omonimo clan. Nel 2017, Marsella è stato condannato per le minacce a un gruppo di studenti.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Noi tutti coloro che sono impegnati ad attuare la costituzione, ci teniamo moltissimo, abbiamo una storia pannelliana.
GIORGIO MOTTOLA Anche Casapound attua la Costituzione? Anche le parti transitorie sulla non ricostituzione del partito fascista?
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Non mi pare che abbia ricostituito il partito fascista e su questa cosa della pena siamo perfettamente d’accordo.
VIDEO INTERVISTA DEL FATTO QUOTIDIANO DEL 21/05/2016 GIORNALISTA Le piace la definizione di fascisti del terzo millennio?
GIANLUCA IANNONE – PRESIDENTE CASAPOUND ITALIA A noi ci piace fascisti. Terzo millennio lo possiamo pure accantonare.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Poche settimane prima dell’ispezione di Pasqua a Rebibbia, Rita Bernardini insieme ai vertici di Nessuno Tocchi Caino ha partecipato alla presentazione del libro di Francesca Mambro, organizzata da un’altra nota organizzazione dell’estrema destra romana, Magnitudo Italia.
GIORGIO MOTTOLA Abbiamo notato una certa assiduità di frequentazione, in Nessuno Tocchi Caino, con diverse organizzazioni di estrema destra.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO I centri sociali non ci invitano, non so perché. Non so se loro hanno in mente la funzione costituzionale della pena. Gli altri non ci invitano perché noi dialoghiamo con tutti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi tempi ha aderito a Nessuno Tocchi Caino anche una vecchia e affezionata conoscenza di Report, nonché esponente storico dell’estrema destra italiana, Rainaldo Graziani, che con la sua cooperativa Arnia gestisce questa magnifica masseria in riva al lago di Varese. Lo avevamo incontrato nel 2019 quando organizzava il tour italiano di Alexander Dugin, colui che tutti indicano come l’ideologo di riferimento della strategia imperialista di Vladimir Putin.
GIORGIO MOTTOLA Caro Rainaldo, da quanto tempo.
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Ma dai!
GIORGIO MOTTOLA Come stai?
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Ti fischiano le orecchie.
GIORGIO MOTTOLA Stavi per farmi il saluto…
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Cameratesco. Perché ti considero consimile.
GIORGIO MOTTOLA Ah, consimile?
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Sì, per assenza di stupidità.
GIORGIO MOTTOLA Allora è un complimento. Lo prendo come un complimento.
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Altro che!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fondatore negli anni ‘90 del movimento neofascista Meridiano Zero, Rainaldo Graziani ha di recente ricostituito il Centro Studi Ordine Nuovo, a cui aveva fondato negli anni ‘60 anni suo padre Clemente Graziani insieme a Pino Rauti. Nel 2020 la Cooperativa Arnia, da lui presieduta, ha aderito in blocco a Nessuno Tocchi Caino.
GIORGIO MOTTOLA Voi come cooperativa lavorate da anni con i detenuti, giusto?
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Li scegliamo, cioè noi non accogliamo detenuti tout court. Per esempio, il detenuto più complesso per noi è stato un pluriergastolano della mafia siciliana.
GIORGIO MOTTOLA Che ha lavorato alla cooperativa Arnia?
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Assolutamente. Ha fatto due anni di percorso netto. Lo abbiamo anzi riavvicinato e reinserito socialmente grazie all’aiuto delle vecchiette di un paese.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma c’è un detenuto in particolare che la Cooperativa Arnia e Graziani hanno molto a cuore. Nel loro ultimo bilancio che registra un fatturato di 700 mila euro hanno messo nero su bianco la volontà di assumere – e così contribuire alla sua scarcerazione – di un ex socio attualmente detenuto, l’ex Nar Egidio Giuliani, arrestato per l’omicidio di Silvio Fanella, custode del tesoro da due miliardi di euro del faccendiere legato a servizi segreti e massoneria, Gennaro Mokbel.
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Credo che abbia diritto ai servizi esterni, quindi la semilibertà. Però presuppone un’assunzione di lavoro che gli dia sostenimento.
GIORGIO MOTTOLA Che voi come cooperativa offrivate?
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Siamo sicuramente disponibili ma credo non ne abbia bisogno.
GIORGIO MOTTOLA Tu a Egidio Giuliani sei molto affezionato.
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Di più, più che a te.
GIORGIO MOTTOLA Non ho dubbi.
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA E questo so che non ti crea un problema.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oltre a Egidio Giuliani, nel commando che uccise Fanella c’era anche un altro socio fondatore della Cooperativa Arnia, Giovanni Battista Ceniti, ex militante di Casapound, presso la cui residenza era anche registrata la sede legale della cooperativa di Graziani. Durante l’assalto al tesoriere di Mokbel, Ceniti viene ferito e subito arrestato. Egidio Giuliani invece si dà alla fuga e durante la latitanza viene raggiunto da una telefonata piuttosto criptica di Rainaldo Graziani, che sulla vicenda non è mai stato indagato.
RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Io ho avuto una conversazione non con un uomo in fuga ma con un fraterno amico.
GIORGIO MOTTOLA Però due su tre del commando che uccide Fanella facevano parte della Cooperativa Arnia. Anzi, Ceniti e Giuliani erano fondatori e addirittura la cooperativa all’inizio aveva sede presso la residenza di Ceniti. RAINALDO GRAZIANI – PRESIDENTE COOPERATIVA ARNIA Ah, tu dici che la Cooperativa voleva…
GIORGIO MOTTOLA No, io chiedo.
GIORGIO MOTTOLA Come nasce questa collaborazione con la cooperativa Arnia?
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Lui, per esempio, assume ex detenuti per fargli fare l’affidamento in prova. Su questo ci siamo trovati d’accordo e abbiamo fatto un percorso insieme. GIORGIO MOTTOLA Anche se nel loro bilancio la finalità principale è assumere a tempo indeterminato Egidio Giuliani che è stato arrestato e condannato per l’omicidio Fanella.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO È probabile che ci sia anche questo, io non lo sapevo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma oltre ad aver raccolto l’adesione di gruppi dell’estrema destra, da diversi anni Nessuno Tocchi Caino sembra essersi focalizzata sui detenuti mafiosi, a quali è dedicato il loro principale progetto nelle carceri: “Spes contra spem”.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Ma se si iscrivono a Nessuno tocchi caino, che gli dobbiamo dire di no? Noi abbiamo avuto nell’anno scorso 2.800 iscritti. Ti garantisco che tra questi 2.800 iscritti abbiamo molta gente comune che capisce il valore per la democrazia di iscriversi a Nessuno tocchi caino GIORGIO MOTTOLA Però nel direttivo inserite nove decimi di soggetti che vengono dal contesto mafioso.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Tutti possono partecipare al nostro congresso.
GIORGIO MOTTOLA E come mai poi si ritrovano 11 su 12 tutti mafiosi?
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Perché sono votati.
GIORGIO MOTTOLA Non c’è il rischio di trasformarvi in una sorta di lobby dei detenuti mafiosi, di essere strumentalizzati?
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Noi strumentalizzati perché siamo coglioni? No, scusami. Noi sappiamo quello che facciamo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E allora forse è arrivato il momento di introdurre la figura di Antonello Nicosia, iscritto a Nessuno Tocchi Caino ed eletto membro del Consiglio nazionale dei radicali italiani nel 2017. Due anni dopo è stato arrestato per associazione mafiosa. Ed ecco quale giudizio esprimeva su Falcone e Borsellino, mentre era in macchina con l’allora segretario dei radicali Abruzzo, Alessio Di Carlo.
INTERCETTAZIONE 11/02/2019 ANTONELLO NICOSIA Welcome to Palermo! All'aeroporto bisogna cambiare il nome eh!
ANDREA DI CARLO – SEGRETARIO RADICALI ITALIANI ABRUZZO Beh, ma questo non è falcone e borsellino adesso? Perché vuoi cambiare il nome?
ANTONELLO NICOSIA Bisogna cambiarlo
ANDREA DI CARLO – SEGRETARIO RADICALI ITALIANI ABRUZZO Non va bene falcone e borsellino? Dici perché evocano la mafia…
ANTONELLO NICOSIA Ma perché dobbiamo spiegare chi sono, scusami, perché dobbiamo sempre mescolare la stessa merda poi non è che è detto che sono vittime… di che cosa? Di un incidente sul lavoro, no?
ANDREA DI CARLO – SEGRETARIO RADICALI ITALIANI ABRUZZO Be’ insomma ahahahah.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Antonello Nicosia, sedicente professore universitario e conduttore televisivo, è stato condannato a 15 anni per associazione mafiosa. Originario di Sciacca nell’agrigentino, era noto per il suo impegno a favore dei diritti dei detenuti e per le continue ispezioni in tutti i penitenziari dell’Isola, fatte spesso a nome dei radicali italiani e, in almeno in un’occasione, in compagnia di Rita Bernardini.
21/03/2015 - CONFERENZA STAMPA ANTONELLO NICOSIA In realtà ci faceva notare che buona parte degli utenti che sono ristretti in questa struttura potrebbero stare fuori.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo la ricostruzione del tribunale di Palermo, per anni Nicosia ha sfruttato lo strumento delle ispezioni in carcere per incontrare alcuni detenuti mafiosi, allo scopo di recapitare messaggi o avviare rapporti, soprattutto se vicini a Matteo Messina Denaro da cui il militante radicale sembra aspettarsi riconoscenza per i suoi servigi.
INTERCETTAZIONE ANTONELLO NICOSIA Giratela a Matteo così mi finanzia il progetto, manda un milione di euro, minchia ringrazia così. Ci vuole il contributo, il contributo della famiglia per quello che faccio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è probabilmente per ingraziarsi i favori del capomafia che Nicosia va in carcere a Trapani, a incontrare un ex consigliere comunale di Castelvetrano, Santo Sacco, condannato per aver recapitato pizzini di Matteo Messina Denaro e per aver favorito i suoi affari. Nicosia lo definisce il braccio destro del primo ministro Messina Denaro.
GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda su Antonello Nicosia.
SANTO SACCO – EX CONSIGLIERE COMUNALE DI CASTELVETRANO (TP) Ma guardi, una persona che, l’ho incontrata due volte ma alla presenza di tutte le autorità all’interno del carcere, dal comandante, al direttore, agli ispettori quindi, di che cosa stiamo parlando?
GIORGIO MOTTOLA Nicosia in un’intercettazione la definiva il braccio destro del primo ministro Messina Denaro.
SANTO SACCO – EX CONSIGLIERE COMUNALE DI CASTELVETRANO (TP) Ma infatti, una volta postino una volta… si mettano d’accordo loro. Io tutte queste qualifiche non ce le ho.
GIORGIO MOTTOLA La prima volta che l’ha incontrato è entrato come radicale?
SANTO SACCO – EX CONSIGLIERE COMUNALE DI CASTELVETRANO (TP) Con i radicali al Pagliarelli, con i radicali. GIORGIO MOTTOLA Le faccio un nome, Antonello Nicosia.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Eh.
GIORGIO MOTTOLA Che entra e esce dal carcere proprio perché fa parte dei radicali ed era anche iscritto a Nessuno tocchi caino.
RITA BERNARDINI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO Non mi piaceva come faceva le visite e, pur essendo stata sollecitata da lui tantissime volte, io non l’ho messo più per senso di responsabilità nelle nostre delegazioni. Perché? perché non mi piaceva come parlava coi detenuti, alcuni li conosceva. Si parlava di altro rispetto alle condizioni di detenzione.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2019, Nicosia fa il salto di qualità, non si accontenta più delle ispezioni con i radicali e si fa assumere come collaboratore dalla deputata di Liberi e Uguali, poi passata a Italia Viva, Giuseppina Occhionero, rinviata a giudizio per questi fatti e assolta venerdì scorso in primo grado. I vantaggi di questa scelta Nicosia li spiega a Michele Capano tesoriere dei Radicali italiani e avvocato di vari detenuti mafiosi, dialogando con il penalista Nicosia sembra organizzare una visita a uno dei suoi assistiti, Vincenzo Rallo, boss della cosca di Marsala.
INTERCETTAZIONE ANTONELLO NICOSIA Entri con noi
MICHELE CAPANO - TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Sì.
ANTONELLO NICOSIA poi quando arriviamo da Rallo Ci apre… ci apre la cella e chiudiamo la porta, non c’è problema, capito? Perché con il deputato non è come la visita radicale che siamo abituati a fare… a guardia vicino. Quando ti rompe i coglioni che sentono che ti devono raccontare delle cose delicate, ci dici: scusi si può allontanare un attimo? Quello se ne deve… se ne va.
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Non ho mai programmato visite insieme a Rallo di Nicosia, parlava delle visite che poteva fare lui e dei colloqui che poteva avere lui.
GIORGIO MOTTOLA In realtà Nicosia sembra proprio raccontarle come si può aggirare il sistema per poter parlare a tu per tu con un boss mafioso.
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Lui certamente in un modo improprio, in un modo stupido, parlava di una libertà di colloquio ma che riguardava lui, non che riguardava me perché io come avvocato ho una libertà di colloquio sempre.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma l’attivista radicale si interessa anche a un altro assistito eccellente di Michele Capano, il cognato di Matteo Messina Denaro, Filippo Guttadauro. Nicosia va a trovarlo al 41 bis insieme alla deputata Giuseppina Occhionero, a cui fa presentare una interrogazione in Parlamento sul carcere in cui era recluso Guttadauro.
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Quella interrogazione sicuramente ho contribuito a scriverla io, che era sul tema che era anche tecnico giuridico. Però io questo lo rivendico...
GIORGIO MOTTOLA Ma Filippo Guttadauro, siciliano, detenuto a Tolmezzo, in provincia di Udine, come arriva qui nella ridente Salerno a scegliere lei come avvocato?
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Io non ho avuto rapporto immediato con Filippo Guttadauro, ho avuto rapporto con Lorenza Guttadauro, sua figlia.
GIORGIO MOTTOLA L’avvocata attuale di Messina Denaro
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Che è quindi la nipote di Matteo Messina Denaro e l’ho avuto questo rapporto su indicazione del famigerato Antonino Nicosia.
GIORGIO MOTTOLA La raccomanda Nicosia a Guttadauro?
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Esatto, esatto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2019 Antonello Nicosia porta il tesoriere dei radicali, Michele Capano, a casa dell’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, che - come vi abbiamo già raccontato - ha avviato con Matteo Messina Denaro una corrispondenza epistolare per conto dell’allora capo del Sisde Mario Mori. Nel 2017 Vaccarino ha partecipato come ospite d’onore al congresso dei radicali.
CONGRESSO DEI RADICALI 30/10/2017 ANTONIO VACCARINO – EX SINDACO DI CASTELVETRANO (TP) L’unica raccomandazione: se il partito radicale si pone all’opinione pubblica ponendo alla base del suo programma, l’attuazione della giustizia, in questa attuazione si sentiranno, ci sentiremo, tutti rappresentati e custoditi come non lo siamo da vent’anni.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 20 maggio del 2019, prima di arrivare a casa dell’ex sindaco di Castelvetrano, all’epoca indagato per favoreggiamento della latitanza di Messina Denaro, Nicosia spiega a Capano che Vaccarino è disposto a finanziare un progetto politico insieme ai servizi segreti.
GIORGIO MOTTOLA Dalle intercettazioni emerge che parlate di un partito da strutturare
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Perfetto. Loro sicuramente mi incoraggiavano all’attività di radicali italiani, volevano fare qualche iscrizione per fare in modo che anche attraverso anche la mia persona il tema della giustizia potesse avere lì un ruolo diverso.
GIORGIO MOTTOLA Dicono però che poteva esserci anche il sostegno e il finanziamento dei servizi segreti.
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Questo passaggio dei servizi segreti è un aspetto che ha una realtà.
GIORGIO MOTTOLA Però Vaccarino dei rapporti con i servizi ce li aveva.
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Credo di sì, non ho mai parlato con Vaccarino dei suoi rapporti con i servizi segreti, né lui mi ha offerto aiuti da nessun punto di vista, politici o professionali.
GIORGIO MOTTOLA Ma come è andato a finire poi questo progetto con Vaccarino?
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Contesto che ci potesse essere il progetto. Potevano esserci delle rodomontate dette da Nicosia, ma io di questo con Vaccarino non ho mai parlato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questa vicenda, l’avvocato Capano non è mai stato indagato e nemmeno sentito a processo. Rimane tuttavia un mistero come abbia fatto Nicosia, imparentato con il boss di Agrigento Gerlandino Messina a farsi autorizzare per anni ad entrare e uscire dalle carceri di tutta Italia. Nicosia, infatti, è stato detenuto fino al 2009, in seguito a una condanna a dieci anni per narcotraffico.
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Lei sapeva che Nicosia era già stato in carcere per dieci anni per traffico di stupefacenti?
GIORGIO MOTTOLA No, non lo sapevo.
GIORGIO MOTTOLA Quindi l’ha scoperto dopo che è scoppiato tutto?
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Il mio maestro Marco Pannella non mi ha abituato a fare l’analisi del sangue alle persone con cui entro in rapporto.
GIORGIO MOTTOLA Utilizzava il nome dei radicali.
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Questo ci consente di dire che i radicali sono un partito che vuol bene ai mafiosi? Sono una storia politica che vuol bene ai mafiosi? Credo che a questo, fortunatamente, non ci può credere nessuno anche se si è tentato di dirlo anche quando la questione di Nicosia… GIORGIO MOTTOLA La domanda è più che altro: c’è il rischio di essere strumentalizzati però?
MICHELE CAPANO – TESORIERE RADICALI ITALIANI 2016-2018 Assolutamente che c’è. Assolutamente sì.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È proprio a questo servono le nostre inchieste, a tenere alta la guardia. Ora, Radicali e Nessuno Tocchi Caino hanno effettuato nel tempo meritorie battaglie per la difesa dei diritti umani. Nel 2007 Nessuno tocchi Caino è riuscita anche nell’impresa storica di far approvare una moratoria per la pena di morte all’Assemblea dell’Onu. Oggi continua la sua battaglia con costanti ispezioni nelle carceri. Si sono accodati però quelli di Casapound, si è iscritto anche Rainaldo Graziani, che è l’uomo che ha portato Dugin, l’ideologo di Putin, in Italia e ha rivitalizzato, ricostituito associazioni neofasciste. È anche il presidente della Cooperativa Arnia, con la quale nel 2020 si è iscritto a Nessuno Tocchi Caino e ha proposto l’assunzione di Egidio Giuliani, ex Nar, il killer del tesoriere di Mokbel, Fanella. E se andrà in porto, insomma, verrà scarcerato e assunto in quella cooperativa che lui stesso aveva contribuito a fondare. Cioè, se la cantano e se la suonano. Poi a Nessuno tocchi Caino si sono iscritti numerosi detenuti condannati per mafia. Nel direttivo nazionale su 12 membri detenuti 11 sono, hanno avuto problemi per mafia. Poi, lungo la strada hanno imbarcato anche Nicosia. Nicosia, membro del Consiglio nazionale dei radicali, insomma, uno con precedenti penali importantissimi ha potuto dal 2015 al 2019 entrare e uscire liberamente dal carcere. Portava pizzini e cercava di dissuadere chi voleva collaborare. Poi, nel 2019 ha fatto anche il salto di qualità: si è fatto assumere come portaborse dalla parlamentare Occhionero. Sono andati insieme a trovare in carcere il cognato di Matteo Messina Denaro, Guttadauro, e poi hanno presentato un’interrogazione parlamentare sul carcere duro. Aiutati anche dall’avvocato Capano, ex tesoriere dei radicali, che Nicosia deve avere molto considerazione se è vero che ha portato anche l’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino a conoscere Capano. E, secondo quello che racconta Nicosia – Vaccarino, lo ricordiamo, aveva detto di essere il link tra il Sisde e Matteo Messina Denaro – e secondo Nicosia avrebbe offerto a Capano la possibilità di creare un partito finanziato coi soldi dei servizi segreti. Ma per fare cosa? E, a proposito di cortocircuiti, ci sono centinaia di migliaia di detenuti che non hanno possibilità economiche, non hanno conoscenze politiche, non sono mafiosi e che sono alle prese tutti i giorni col problema del vitto e del sopravvitto. Ecco, insomma, è quell’ l’extra che deve essere pagato se uno vuole mangiare cibo di maggiore qualità. Più il vitto è scarso e più ci si rivolge al sopravvitto, che è costoso e anche di scarsa qualità ma è costoso. Entrambi fanno parte poi delle stesse aziende che sono lì da 70 anni, vincono indisturbate continuamente i bandi. Il cortocircuito è stato denunciato per la prima volta dall’ex garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, ma fino a oggi nessuno ha mai indagato. Anzi, invece di approfondire la vicenda, una volta finito il mandato hanno allontanato il problema. Non hanno più rinnovato Gabriella Stramaccioni.
L’intangibilità del diritto alla difesa è guardata con sospetto. Report e il fango sugli avvocati comunicatori al 41bis: l’analfabetismo costituzionale dell’Antimafia. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 9 Aprile 2023
La trasmissione di Rai 3 Report ha davvero superato sé stessa nell’ultima puntata, e sì che non era per niente facile. Non è certo la prima volta che quella trasmissione, idolatrata dai suoi fanatici sostenitori come esempio fulgido di “giornalismo di inchiesta”, adotti quella tecnica narrativa che gli anglosassoni definirebbero “shit in the fan”, e che qui sobriamente traduciamo in “fango nel ventilatore”. Ma il servizio dedicato agli “avvocati difensori dei detenuti al 41 bis” ha superato, davvero, ogni limite di (in)decenza.
Auspico, ed anzi sono certo, che i colleghi loro malgrado coinvolti in questa incredibile, inaudita, incivile messa all’indice, adottino senza esitazione tutte le iniziative che riterranno utili a tutela della propria reputazione personale e professionale, per le quali avranno l’Unione Camere Penali al loro fianco. In sostanza, la trasmissione ruotava intorno ad una premessa la cui ideazione può nascere solo nelle menti di persone da un lato ossessionate -ormai quasi patologicamente- dal tema dell’antimafia brandita come un manganello da una sorta di autoproclamatasi ronda dei “Guardiani della legalità”; dall’altro, prigioniere di un irredimibile analfabetismo costituzionale, che fa loro percepire con viscerale avversione alcuni fondamentali principi della nostra Costituzione, considerati alla stregua di un piede di porco adoperato cinicamente (dagli avvocati in particolare) per scardinare il becero ordine morale ed etico che costoro coltivano ed idolatrano.
L’idea grottesca è che se un avvocato difende più detenuti ristretti al 41 bis (un tema, quello del buttare la chiave, che eccita costoro smodatamente), questi può per ciò solo rendersi docile strumento di indebite comunicazioni illecite tra i detenuti, facendo leva (ecco il “piede di porco”) sulla inviolabilità del diritto di difesa, che postula il divieto di ascolto delle conversazioni tra avvocato e detenuto. Quindi, poiché costoro, come dicevo, detestano e guardano con sospetto e disprezzo quisquilie come la assoluta intangibilità del diritto di difesa, ma sanno di non poter richiedere apertis verbis l’ascolto di quelle conversazioni, ecco che puntano la questione per una via traversa. Sicché accendono il ventilatore e ci buttano dentro il fango del sospetto: se un avvocato difende un numero eccessivo di detenuti tutti contemporaneamente al 41 bis, non è forse un potenziale strumento di aggiramento dell’isolamento voluto da quella norma dell’ordinamento penitenziario? Per carità, fanno dire all’immancabile dott. Sebastiano Ardita mentre ronza (“inesausto”, direbbe Paolo Conte) il ventilatore, non diciamo mica che questo accada con certezza!
Anzi, sia ben chiaro -precisa Ardita, tuttavia più minaccioso che rassicurante- la deontologia professionale glielo impedisce, sicché, in linea di massima, siamo certi che il professionista si rifiuti. E però (senti le pale come ronzano, vedi il guano come schizza incontrollabile) l’avvocato può divenirne piuttosto una vittima (si intenerisce il dott. Ardita, che ora sembra il Lupo travestito da nonna di Cappuccetto rosso), dobbiamo difenderlo da questa esposizione, da questi rischi incombenti sulla sua correttezza professionale, che giammai mettiamo in discussione ma che la debolezza umana e la feroce astuzia dei mafiosi potrebbe infine travolgere. Facciamo qualcosa, interveniamo, regoliamo, limitiamo.
E così questi galantuomini, soi-disant giornalisti d’inchiesta, pubblicano un elenco (probabilmente non divulgabile, ma lo stiamo accertando) di avvocati con il maggior numero di assistiti al 41 bis, nomi e cognomi, così, tanto per gradire. Non tutti, per di più, ma tanto basta, così funziona il metodo del ventilatore, a chi tocca non si ingrugna, come si dice a Roma. E, non paghi, attirano con l’inganno una nostra collega, che ne difende molti perché nel carcere della sua città vi è forse il più alto numero di detenuti al 41 bis d’Italia, la quale, da persona per bene quale è, risponde immaginando una chiacchierata amichevole, ignara di essere ripresa, registrata ed esposta, senza il proprio consenso, al pubblico ludibrio della setta di fanatici (non di rado pericolosi) che amano frequentare questi angiporti televisivi.
Naturalmente, poiché il fanatismo si accompagna alla ignoranza, costoro ignorano che i detenuti al 41 bis sono raccolti solo in alcune carceri italiane, e dunque si concentrano solo su quei Fori; che l’assistenza difensiva nella fase della esecuzione è iper-specialistica, e quella relativa al 41 bis ancora di più, ed è dunque naturale che quei detenuti selezionino un ristrettissimo numero di avvocati dello stesso Foro territorialmente legato al luogo di detenzione. Insomma, nessun piano, nessuna strategia, nessun grande attentato alla Legalità: semplice specializzazione.
Sarebbe come volgarmente e del tutto gratuitamente insinuare che, essendo i magistrati antimafia sempre gli stessi per anni ed anni, essi sono più facilmente esposti alla corruzione da parte dei loro stessi indagati, sicché sarebbe meglio ruotarli in continuazione. Non perché noi sospettiamo che essi siano corruttibili, ma -come direbbe Ardita- per proteggerli da quel pericolo. Che ne dice, dott. Ardita? E Lei, dott. Ranucci? Guardi che bella idea per un’altra delle vostre fantastiche inchieste, attendiamo fiduciosi. Però spegnetelo ogni tanto, quel ventilatore, rischiate di bruciare il motore.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
La trasmissione nega l'articolo 27 della Costituzione. Le menzogne di Report su carcere, 41bis e reinserimento: Nessuno Tocchi Caino risponde a Ranucci. Umberto Baccolo su Il Riformista il 5 Aprile 2023
Lunedì sera la Rai ha trasmesso una puntata di Report su carcere, 41bis e reinserimento nella quale Nessuno tocchi Caino è stata tirata in mezzo, in particolare nelle figure dei nostri storici collaboratori ex detenuti Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, spingendo il livello di disinformazione e menzogna ad un livello tale da rendere necessaria una nostra risposta come associazione che da 30 anni si batte a livello internazionale in modo nonviolento contro la pena di morte e la morte per pena. Diverse affermazioni di Report e la tesi di fondo che emerge vanno nella direzione della completa negazione dell’articolo 27 della Costituzione.
La prima parte del servizio è dedicata alla difesa dell’istituto del 41bis e porta avanti una narrazione secondo la quale chi come noi e la Cedu sostiene che questo regime carcerario sia inumano e degradante, una forma di tortura che fa a pugni con la Costituzione, faccia il gioco della mafia, con il solito riferimento al papello di Riina del quale mai è stata dimostrata l’esistenza. Ma si spinge oltre: si scandalizza che i detenuti al 41bis abbiano la possibilità di studiare e laurearsi in carcere, lamentandosi dei voti alti da loro presi, facendo intendere che siano frutto di favoritismi di origine criminale. Chi conosce la realtà carceraria sa invece bene che i voti alti sono frutto del fatto che per un detenuto al 41bis l’unico modo di passare il tempo sia quello di studiare, non potendo svolgere nessun altro tipo di attività, come che essi non hanno favoritismi ma pregiudizi da affrontare. Lo studio poi è l’unico modo che hanno per cambiare, reinserirsi socialmente: andrebbe valorizzato non stigmatizzato. Report attacca poi l’intera categoria degli avvocati che difendono i mafiosi, facendoli passare per probabili collusi e lamentandosi che gli incontri tra loro e i clienti siano coperti dalla privacy.
Nella seconda parte del programma Ranucci inizia ad attaccare, non denunciando reati, ma in modo ideologico, le cooperative e le associazioni che nelle carceri si occupano di reinserimento dei detenuti rendendo viva la Costituzione con la loro azione. Invece Report fa sembrare vergognoso che i detenuti che grazie a queste realtà lavorano e fanno un percorso abbiano accesso agli strumenti previsti dalla legge come la liberazione anticipata. Quello che è un successo dello Stato di Diritto e il trionfo della Costituzione viene mostrato come qualcosa di losco, frutto di patti scellerati dietro le quinte. Considerano sconvolgente qualcosa di normale e bello, cioè che alcune di queste cooperative siano fondate in carcere da detenuti e da loro gestite, che abbiano un buon fatturato per il loro lavoro onesto e che riescano a far ottenere i benefici ad altri detenuti. Soprattutto si attacca una cooperativa dal lavoro meritevole solo perché diretta da Luigi Ciavardini, ex Nar, mostrando i suoi successi come qualcosa di losco.
Quando ai tempi di Mafia Capitale questa Cooperativa fu fatta passare al microscopio e tutto risultò in regola. Non manca l’attacco gratuito a Totò Cuffaro, citando vicende che la magistratura ha già archiviato. Si arriva a dire che le Cooperative di questo tipo sono in grado di far scarcerare chi vogliono, cosa falsa in quanto la decisione dipende dal Tribunale di Sorveglianza e solo quando questo ritiene che la persona possa essere reinserita grazie al suo percorso essa deve trovare una Cooperativa che le dia lavoro per poter avere accesso ai benefici. Se per il Tribunale non sei pronto, nessuna offerta di lavoro può tirarti fuori. In questo calderone si infila anche l’attacco a Nessuno tocchi Caino: non si dice nulla della nostra storia e dei nostri meriti, della moratoria universale della pena di morte ottenuta grazie al nostro lavoro, dell’impegno costante per la difesa dello Stato di Diritto e della Costituzione, della nostra collaborazione trasversale con il mondo istituzionale, politico, della magistratura in miriadi di progetti, della nonviolenza; si ricorda solo che il nostro Segretario è un ex detenuto per vecchissimi fatti di lotta armata rossa, senza dire che non ha reati di sangue, della dissociazione, riabilitazione, del percorso fatto.
Soprattutto sono presi di mira Mambro e Fioravanti, con un attacco violento alla loro privacy (mostrata anche casa loro – cosa che potrebbe essere violazione grave – e la loro figlia adolescente) e con bugie che possono essere solo in malafede vista la facilità di verificare le cose per un giornalista d’inchiesta. Si dice che Mambro e Fioravanti e Ciavardini devono versare un risarcimento di un miliardo di euro ai familiari delle vittime di Bologna. Falso. Il risarcimento riguarda solo Mambro e Fioravanti, è di due miliardi e mezzo e di questi solo 200 milioni sono da dividersi tra i familiari, il resto è per lo Stato Italiano per il danno d’immagine internazionale. Si dice che loro non hanno mai versato un centesimo anche se hanno da noi uno stipendio. Falsissimo. Ci vuole un secondo a verificare che Mambro e Fioravanti da anni hanno i conti bancari sotto sequestro e ogni mese gli è pignorato un quinto del loro già basso stipendio. Quindi, come la legge vuole, nei limiti delle loro possibilità stanno mensilmente pagando il loro debito. Ciavardini no perché non lo ha.
Si stigmatizza il fatto che la casa di proprietà sia stata intestata alla figlia che ai tempi aveva un anno, chiedendosi se quei soldi vengono da Gelli o da dove. Facile verificare che il nonno di Arianna, persona benestante, prima di morire come molti nonni comprò casa alla nipotina nata da poco e la regalò a lei per poterci vivere coi genitori nullatenenti appena usciti di carcere che altrimenti sarebbero finiti per strada. Poi ricomincia a presentare attività meritevoli come losche, raccontando che Mambro era stimata da garanti di sinistra e che si impegnava con il loro aiuto per far trovare a altri detenuti lavoro esterno e aiutarli ad avere accesso alle misure.
Cosa sacrosanta e normale che Nessuno tocchi Caino e le altre realtà che si occupano di carcere fanno da sempre. Però siccome sono detenuti di destra, Report, il cui vero scopo è attaccare il governo, la mostra come una cosa illecita. Noi lo troviamo inaccettabile e continueremo ad aiutare i detenuti a reinserirsi socialmente e diventare buoni cittadini, siano essi di destra o di sinistra o ex mafiosi, così come a batterci per il rispetto dei diritti umani fondamentali dei quali il 41bis e l’ergastolo ostativo sono la negazione. Non solo per Cospito: anche per mafiosi e fascisti. Umberto Baccolo
Nuova inchiesta nel mirino del programma. Il giornalismo di Report è solo fango, altro che inchieste…David Romoli su Il Rigormista il 4 Aprile 2023
C’era una volta (ma molto, molto tempo fa) il giornalismo d’inchiesta. Oggi è un caro ricordo, sostituito da un giornalismo che spia le inchieste della magistratura e le amplifica persino quando finiscono in nulla, oppure mette insieme fatti che si svolgono alla luce del sole e li collega secondo disegni fantasiosi, quasi sempre improbabili, a volte surreali. Ieri alcuni importanti quotidiani anticipavano con fragoroso rullar di tamburi una “inchiesta” di Report nella quale figurano nomi un tempo noti della politica e del terrorismo di estrema destra e in questi casi, si sa, basta la parola.
Come è possibile che la figlia di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti abbia acquistato una casa nel 2002, quando aveva un anno? L’idea che la abbia comprata e messa a suo nome il nonno non deve esser passata per la testa dei “giornalisti d’inchiesta”. Molto più probabile che avessero da parte i milioni di Gelli, dei quali va da sé non esiste alcun indizio neppure labilissimo. La stessa Francesca Mambro, da detenuta, aveva contatti con Angiolo Maroni quando il medesimo era garante dei detenuti del Lazio, incidentalmente con tessera dei Ds in tasca. In effetti si contano più o meno a centinaia i detenuti che avevano rapporti col garante dei detenuti. Nel mirino degli scavatori c’è un altro ex Nar, anche lui condannato per la strage di Bologna, Luigi Ciavardini. Hanno scoperto, ma non è che ci volesse molto, che aveva creato un’associazione di detenuti, Gruppo Idee, con un mensile distribuito in carcere, Dietro il cancello, diretto dal figlio di Bruno Vespa, Federico.
L’associazione, anche in base ai contatti con l’allora parlamentare della Lega e oggi sottosegretario all’Ambiente di FdI Claudio Barbaro, assumeva detenuti in modo da permettergli di accedere alla semilibertà e tra questi anche Gilberto Cavallini, ex Nar, all’epoca non ancora condannato per la strage di Bologna. Assunto nel 2009 da Barbaro, poté usufruire della semilibertà. Cosa ci sia di strano non è chiaro. Non si tratta di un caso né unico né raro. Non si contano le associazioni, le redazioni e le istituzioni che hanno assunto detenuti, soprattutto politici, per consentire loro la semilibertà. Iscritto a Gruppo Idee e redattore del mensile carcerario, era anche Totò Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia, all’epoca in galera come favoreggiatore della mafia. Qui l’inchiesta può vantare addirittura una scabrosa intercettazione nella quale la moglie di Cuffaro, parlando con Vespa, dice di dover far entrare in carcere alcuni fogli, anzi “parecchi fogli”: si vede che era un pizzino enciclopedico. Vespa si offre di portarli lui dentro un quaderno e cosa ci vuole di più per subodorare la trama oscura? L’indagine della Procura di Roma è finita con l’archiviazione. Il Gruppo Idee non è mai stato indagato. Federico Vespa neppure.
Ma a Report non la si fa: scava scava qualcosa verrà fuori e se non viene fuori è uguale. Il vero pezzo forte riguarda le cooperative di carcerati fondate dallo stesso Ciavardini, una con il vicegarante dei detenuti del Lazio Manuel Cartella, l’altra, il solito Gruppo Idee, con la moglie Germana, sorella di Marcello e Nanni De Angelis sbrigativamente descritti come ex di Terza Posizione. In realtà Marcello è anche un ex senatore, Nanni invece è morto in carcere, poche ore dopo l’arresto, in circostanze che di solito si definiscono misteriose. La versione ufficiale fu un inspiegabile suicidio. Secondo Report queste cooperative fatturano un sacco di soldi.
Se anche fosse, ci sarebbe poco da obiettare. Nel clima forsennato seguito alla scoperta di Mafia Capitale, che poi mafia non era ma poco importa, le cooperative di detenuti sono state passate tutte al contropelo e sulle due in questione non è mai emersa alcuna irregolarità né ha mai trovato nulla di men che limpido il governatore del Lazio, che non era né un fascista né un mafioso ma il segretario del Pd Zingaretti “È la stampa bellezza!” Ma no: è il solito ventilatore che sparge fango. E peggiora a vista d’occhio. David Romoli
Tv e manette. La premiata ditta Travaglio-Ranucci torna in scena, stavolta contro il 41bis. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Aprile 2023
La premiata ditta Travaglio-Ranucci torna in scena sempre con gli stessi arnesi del mestiere: manette e manganello. Stavolta il tema è il 41 bis. Cioè il carcere duro. Quella norma carceraria che da ormai quasi trent’anni deturpa il nostro sistema di giustizia violando in modo aperto e spavaldo la costituzione, la dichiarazione dei diritti dell’uomo e il codice Mandela.
In queste settimane la discussione è stata tra una schiacciante maggioranza che difende il 41 bis e spiega che è una misura indispensabile per combattere la criminalità (in realtà la pena di morte, magari subito dopo il primo grado di giudizio, sarebbe una soluzione più efficace) e una piccola minoranza che si ostina a sostenere la tesi originalissima secondo la quale le leggi dello Stato dovrebbero rispettare e non violare la Costituzione. In ogni caso il confronto fin qui è stato tra chi vuole mantenere il 41 bis e chi lo vorrebbe abolire.
Con il ritorno sulla Tv di Stato (terza rete) di Report, in sinergia con “Il Fatto Quotidiano” che ne anticipa gli argomenti, la discussione fa un salto: Ranucci & Travaglio sostengono che il 41 bis è troppo lasco e va incattivito, sennò non serve a niente. E a questo scopo usano un argomento robusto: pare che alcuni detenuti condannati per mafia stiano provando a laurearsi, e con la scusa degli esami riescano ad allargare le maglie del carcere duro e a parlare per qualche ora con professori, sulla cui buonafede non sempre si può giurare.
Naturalmente le opinioni sono tutte legittime (noi pensiamo che siano legittime anche le opinioni fasciste, lo abbiamo detto tante volte) ci sarebbe solo una avvertenza da fare: attenzione a non confondere queste posizioni ultrareazionarie con la sinistra. La sinistra con i Piombi di Venezia, almeno spero, non c’entra molto.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il 41bis è sempre più duro. Ma a Report non basta. Alla lettura della trasmissione si contrappone l’analisi scientifica del Garante dei detenuti. Che sottolinea come il regime differenziato sia lontano dal suo scopo originale. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 3 aprile 2023
Da una parte c’è il programma in prima serata Report che sul 41 bis utilizza il solito metodo dietrologico, dall’altra il Garante nazionale delle persone private della libertà che attraverso le visite in tutte le sezioni e una lettura scientifica dei fatti, ci riporta alla cruda e nuda realtà di un regime differenziato che è sempre più duro e lontano anni luce dal suo scopo originario. Ma il giornalismo attuale, soprattutto televisivo, è diventato puro intrattenimento. In generale, siamo passati dalla radicalità di un pensiero che andava alla ricerca della radice delle cose a una concezione indiziaria, una visione poliziesca che ha fatto del “sospetto” la chiave di lettura della realtà.
L’inchiesta di Report
Partiamo da Report. Si è accorto solo ora che i detenuti al 41 bis hanno la possibilità di poter studiare e conseguire una laurea. Un diritto ribadito recentemente sia dalla Cassazione che dalla Corte Europea di Strasburgo. Eppure, come rivela il Garante, scopriremo che non è sempre una passeggiata poter studiare in questo carcere differenziato. Ma come mai fa scandalo secondo la lettura del programma di Rai3? Tale possibilità garantita dalla Costituzione italiana in primis, sarebbe un espediente per “rompere” l’isolamento. Quest’ultimo è una condizione finalizzata esclusivamente per evitare contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza. Oppure dobbiamo immaginare che la scuola sia un covo di mafiosi dove si possono veicolare messaggi? Si fa una trasmissione che parla anche in maniera strumentale di “ombre nere” riferendosi ai neofascisti ex detenuti e non, ma il succo dell’argomentazione è profondamente reazionaria: ogni “diritto” garantito dai principi costituzionali, diventa un espediente.
Tutto diventa ancora più sfalsato se si aggiunge una lettura cospirazionista dei diritti acquisiti. Se le scelte politiche, le sentenze delle Corti, le battaglie progressiste e liberali, si vedono sistematicamente ridotti a eventi delittuosi e a trame occulte, tutto ciò porta inevitabilmente a uscire fuori dalla realtà e non garantire un approccio scientifico dei fatti. Si ritirano fuori ad esempio le intercettazioni tra Giuseppe Graviano e il suo ex compagno di socialità Umberto Adinolfi. Il solito discorso che il boss di Brancaccio avrebbe avuto la possibilità di fare sesso con sua moglie al 41 bis e quindi concepire un figlio. Anche suo fratello avrebbe avuto la stessa possibilità. In realtà, all’epoca dei fatti, quando appunto nacquero i figli, si vagliò la questione. Si appurò che i figli di entrambi i fratelli Graviano, nacquero nel ’97 con la tecnica dell’inseminazione artificiale al Saint- Georges di Nizza, un’esclusiva clinica specializzata in queste pratiche di maternità. Infatti è ancora meta di tanti connazionali che praticano la fecondazione assistita visto che in Italia la legge è molto restrittiva.
Avrebbero in realtà fatto passare la provetta di sperma all’esterno del carcere tramite complici. Molto più facile rispetto a far entrare le mogli in cella e concepire i figli al 41 bis davanti alle telecamere di videosorveglianza h 24. Anche perché, per fare tutto ciò, non solo dovevano essere complici gli agenti penitenziari, non solo gli addetti alla video sorveglianza e anche i reclusi al 41 bis astanti, ma anche la direttrice dell’Ucciardone. E all’epoca, a dirigere il carcere duro, c’era Armida Miserere. Soprannominata “il colonnello”, era una donna di ferro che in quegli anni aveva fama di aver trasformato la fortezza borbonica di Palermo in un efficiente supercarcere. La sua, una storia travagliata finita in tragedia.
Il Report del Garante nazionale
Ma ora ritorniamo alla realtà, così come dovrebbe essere compito del giornalismo: informare tramite fonti qualificate. Il Garante nazionale ha visitato nel corso del suo mandato, a più riprese, tutte le sezioni del 41 bis e ne ha esaminato l’applicazione alla luce del perimetro delineato dalla Corte costituzionale. Il presidente Mauro Palma, in conferenza stampa, ha illustrato il report appena reso pubblico e ne è uscito fuori un quadro disarmante. Schermature alle finestre delle stanze detentive che impediscono un sufficiente passaggio di luce e aria naturali, l’assenza di qualsiasi elemento di stimolo visivo, la miseria di molti cortili, la presenza ossessiva di grate a totale copertura degli stessi, l’angustia delle cosiddette sale di socialità. Il Garante parla di una vera e propria “pena corporale”.
Senza contare la permanenza di una serie di restrizioni, previste dalla Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 2017, tuttora vigente, che incidono significativamente sulla qualità della vita delle persone ristrette. Restrizioni che non appaiono allineate alla finalità del regime: il diametro massimo di pentole e pentolini, la disponibilità oraria, con consegna al mattino e ritiro alla sera, di oggetti per l’igiene personale, il numero di matite o colori ad acquarello detenibili nella sala pittura (non oltre 12), il numero di libri (4), le dimensioni e il numero delle fotografie che si possono tenere nella camera, il divieto di affissione alle pareti e alle altre superfici di fogli e fotografie, salvo «una singola fotografia di un familiare», l’esclusione dell’acquisto di alcuni quotidiani a diffusione nazionale.
A questo si aggiunge un altro dato significativo. Al momento della redazione del rapporto, le persone sottoposte al 41 bis risultano 740, tra cui 12 donne, distribuite in 60 reparti all’interno di 12 Istituti. Delle 740 persone sottoposte al 41-bis, 35 sono detenute nelle 11 “Aree riservate”, circuiti speciali con ancora maggiori restrizioni. Le Aree riservate non sono previste da alcuna norma di legge, ma giustificate in base a una specifica interpretazione dell’articolo 32 del Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario che prevede sezioni a cui sono assegnati «I detenuti e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele». Queste aree sarebbero un 41 bis ulteriormente inasprito.
Dal suo studio analitico il Garante ha espresso la necessità di una riflessione integrale sulla legge. Ritiene che il numero delle persone attualmente recluso al 41 bis sia suscettibile di una profonda revisione. «Tale obiettivo, che renderebbe anche equilibrio e verosimiglianza all’immagine complessiva del fenomeno della criminalità organizzata nel Paese, altrimenti rappresentata dalla presenza in carcere di oltre 700 soggetti apicali potenzialmente pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica, può essere perseguito senza pregiudicare le permanenti esigenze di particolare sicurezza attraverso una migliore configurazione delle sezioni del circuito dell’Alta sicurezza 1, che assicuri la separazione dagli altri circuiti detentivi».
Così come emerge che a distanza di vent’anni, diversi detenuti si ritrovano rinnovato il 41 bis. «Se il rischio del mantenimento dei collegamenti con la criminalità organizzata di provenienza viene ritenuto sussistente anche a distanza di oltre 20 anni dalla prima applicazione, quando non dall’inizio della detenzione, il dubbio sull’efficacia del sistema preventivo risulta legittimo», sottolinea il Garante, spiegando che il dubbio si estende conseguentemente all’effettiva finalità perseguita con la reiterazione del regime detentivo differenziato: «Se non è fondata sull’effettiva permanenza dei rischi di mantenimento dei collegamenti con l’associazione criminale, risulta diretta esclusivamente a imporre una forma afflittiva di detenzione».
Il Garante raccomanda nuovamente di non definire mai il regime detentivo speciale quale “carcere duro”, perché questo concetto implica in se la possibilità che alla privazione della libertà – che e di per se il contenuto della pena detentiva – possa essere aggiunto qualcos’altro a fini maggiormente punitivi o di deterrenza o di implicito incoraggiamento alla collaborazione. «Fini che porrebbero l’istituto certamente al di fuori del perimetro costituzionale», conclude il Garante.
L’ex Nar Francesca Mambro: «Sicuri che il 41bis ci dia un Paese migliore?». Francesca Mambro, ex terrorista italiana esponente del gruppo eversivo d'ispirazione neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar)
L’ex terrorista italiana esponente del gruppo eversivo d'ispirazione neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari dice la sua sull’anarchico recluso in regime di carcere duro. Il Dubbio il 2 aprile 2023
Il caso di Alfredo Cospito «non sarebbe arrivato all’attenzione dei media se ad ottobre non avesse iniziato uno sciopero della fame» contro l’applicazione del 41 bis che «a tutti gli effetti è un sistema per cui la stessa Corte europea dei diritti umani non ci vede di buon occhio. E non potrebbe essere diversamente, perché il concetto di punizione inferta fino a rasentare la tortura non appartiene alla nostra cultura, a quella del diritto internazionale e delle leggi che lo regolano». Così Francesca Mambro, ex terrorista italiana esponente del gruppo eversivo d'ispirazione neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar), in un intervento su 'Il Sussidiario'.
Ma la giustizia - sottolinea - «è uno dei servizi per il quale il cittadino paga le tasse, e come tutti i servizi va valutato anche in termini di efficacia. Un carcere che sia solo “duro” rende davvero la società un posto più sicuro in cui vivere?», chiede Mambro. «Punizioni esemplari su chi è già stato preso e messo in condizioni di non nuocere, ci aiutano davvero ad avere un Paese migliore? Quale efficacia può mai esserci nel tenere persone detenute per decenni senza che si apra una riflessione su quanto sarebbe efficace un sistema di risorse destinate alla prevenzione, all’educazione e alla riparazione per assicurare una reale visibile sicurezza?».
Scudo morale. I problemi del 41 bis e l’inscalfibile sacralità del verbo antimafia. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 22 Febbraio 2023
Non ci si può appellare alla tragica morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ogni volta che viene fatta un’obiezione su norme che rischiano di violare i diritti personali. Così si vizia il dibattito senza affrontare i problemi
Ormai da trent’anni, ma con violenza retorica che si aggrava quanto più ci si allontana da quel tempo, l’uccisione dei più celebri magistrati cosiddetti antimafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è adibita non solo a santificare e rendere incensurabile tutto il loro operato: ma a vilipendere e censurare qualsiasi obiezione rivolta a denunciare i danni arrecati dalla cultura che si pretende ispirata al loro insegnamento.
Senonché i barbari attentati che li hanno uccisi non rendono indiscutibile ogni virgola del loro lavoro, e soprattutto l’ingiusta e tragica fine che essi hanno fatto non giustifica la criminalizzazione ricattatoria inflitta a chiunque contesti la sacralità del verbo antimafia: molto spesso una patacca buona a legittimare una pratica di soprusi e violazioni dei diritti personali che nessun fine per quanto supremo potrebbe giustificare, e che certamente non diventa tollerabile giusto perché è organizzata nelle stanze del potere pubblico che appende sui muri il ritratto di quelle due vittime del tritolo mafioso.
Non rende buono né tanto meno indiscutibile il regime carcerario del 41 bis il fatto che esso potesse essere attribuito ai vagheggiamenti sicuritari di Giovanni Falcone nel trionfo dell’emergenza criminale che portò alla sua uccisione, e non rende blasfema qualsiasi critica al 41 bis il fatto che esso sia più o meno fedelmente intestato agli intendimenti di quel magistrato.
Adoperare i crateri di Capaci e i corpi dilaniati delle vittime per tenere in zona di sospetto ogni perplessità sull’appropriatezza di un apparato normativo di assai dubbia compatibilità con l’ordinamento liberale non solo rappresenta un mezzo profondamente sleale per viziare il dibattito su questi argomenti, ma ulteriormente costituisce l’espediente demagogico posto a protezione di roba tanto tangibile quanto poco nobile, i posti e le carriere e gli incarichi che l’aura antimafia sottrae a qualsiasi possibilità di sorveglianza e critica civile, e infine di controllo democratico.
Che Falcone e Borsellino siano tragicamente caduti per mano assassina in adempimento del loro ufficio è un fatto da ricordare e onorare senza che questo implichi l’inchino alla pretesa sacralità di un azione normativa e giudiziaria che ha contaminato velenosamente la temperie civile del Paese, o che di questa è conseguenza (è lo stesso), e ha trasformato la pretesa lotta alla criminalità organizzata in una specie di cartello apostolare che esige osservanza fideistica e non ammette insubordinazione.
Non sappiamo se Falcone e Borsellino avrebbero voluto tutto ciò che in loro nome si è fatto in questi tre decenni di antimafia: ma se pure si sapesse che l’avrebbero voluto, ciò non basterebbe a considerarlo giusto.
Radiografia di un sistema che non combatte più la mafia ma è diventata solo tortura. Redazione su L’Identità il 9 Febbraio 2023.
di UMBERTO BACCOLO
In concreto l’applicazione del 41bis si è trasformata in qualcosa di diverso. Feltri ha brillantemente definito “raffinata forma di tortura”. Il vero problema, però, è la sua incostituzionalità: non si può convincere le persone a confessare torturandole. Necessaria, quindi, una revisione di un istituto, visto che le sue applicazioni non hanno alcun senso dal punto di vista della tutela della comunità. Basta osservare qualche numero. A oggi sono 749 i detenuti al 41bis, dei quali solo 13 donne. Di essi, quasi 300 sono ergastolani, gli altri invece un giorno usciranno. La maggioranza sono condannati definitivi, ma ci stanno pure custodie cautelari. Quasi tutti appartengono a Cosa Nostra, Camorra e Ndrangheta, con qualche decina di membri di altre organizzazioni mafiose e solo 4 terroristi, incluso l’ormai famoso Cospito (gli altri sono irriducibili di vecchie formazioni che si trovano in carcere da lungo tempo). I 41bis stanno separati dagli altri detenuti in apposite sezioni che si trovano in 12 istituti di massima sicurezza. In 7 di questi esistono “aree riservate” per i capi supremi delle organizzazioni criminali, dove stavano Riina, Provenzano, Cutolo e dove vivrà Messina Denaro. La differenza tra aree normali e riservate è legata al tema sollevato da Donzelli per Cospito: gli incontri tra i detenuti al 41bis. Il problema di sicurezza, sul quale vale la pena riflettere, è questo: tenere una persona, anche la peggiore del mondo, in isolamento assoluto, senza poter parlare mai con nessuno, è una forma di tortura incostituzionale, inaccettabile e improponibile. Anche i 41bis con qualcuno devono parlare un’oretta al giorno. Ma con chi? Ovviamente non con detenuti comuni che avrebbero facilità a veicolare fuori dal carcere i loro messaggi, non avendo censura sulle lettere e controlli rigorosi nei colloqui coi parenti. Quindi con altri 41bis, il che ha senso: dal momento che dal 41bis è difficile uscire vivi (il regime dura 4 anni a livello teorico, con proroghe di 2 per volta, ma la realtà è che la maggioranza dei casi è prorogato in modo semi-automatico fino a fine pena, e per gli ergastolani ostativi per sempre). Per aumentare la sicurezza, se i 41bis normali possono vedere nella loro detenzione 3 altri 41bis con cui passano un’ora al giorno, sempre i soliti, scelti dalla direzione, i super boss nelle aree riservate possono vedere solo un’altra persona, scelta non tra i loro pari, ma tra i 41bis normali. Questa cosa ha mostrato la sua utilità: ricordiamoci che tutte le conversazioni dei momenti di socialità sono registrate e per questo motivo dalle intercettazioni delle chiacchiere di Riina col suo compagno d’aria abbiamo scoperto cose che altrimenti mai avremmo saputo, senza che il boss potesse Forse, più che con altri detenuti, bisognerebbe correre il rischio di far parlare queste persone di più con figli e mogli e con educatori, insegnanti e psicologi ben selezionati, in incontri non di gruppo registrati e controllatissimi dagli agenti, quindi sicuri, tendenti al far riflettere la persona sulla propria vita e farle cambiare direzione.nuocere a nessuno per il fatto che parlava con un compagno ben scelto dal DAP. Il tema però è delicato e risulta fondamentale, soprattutto fuori dalle aree, per quei 41bis non ergastolani che avranno prima o poi declassificazione e scarcerazione, una corretta selezione dei 3 compagni d’aria, e un attento ascolto delle registrazioni, per impedire che si creino connessioni tra membri di gruppi mafiosi e/o terroristici diversi tra loro, che alla declassificazione o scarcerazione senza un percorso di reinserimento di alcun tipo del primo dei quattro, incattivito dalle inutili torture subite in quel regime, si trasformino in alleanze criminali operative. La riforma dovrebbe eliminare i lati crudelmente afflittivi, puntare sul tentativo di avviare percorsi di cambiamento e rieducazione del detenuto (altro che vietare i libri, farli leggere a decine, quelli giusti, fare studiare) e porre massima attenzione al tema per cui è nato lo strumento, cioè con chi parlano i detenuti, cosa si dicono e che effetto ciò può avere per il mondo fuori dal carcere.
Cosa dice la Costituzione. Perché il 41 bis è incostituzionale: tutti i motivi. Salvatore Curreri su Il Riformista il 3 Febbraio 2023
Era prevedibile, ma non per questo inevitabile, che il dibattito sul c.d. carcere duro finisse vittima delle strumentalizzazioni politiche, radicalizzandosi tra favorevoli e contrari tout court, smarrendo così quel necessario equilibrio con cui invece si devono affrontare questioni così delicate che richiedono un costante quanto difficile bilanciamento tra interessi costituzionali di pari rango: la tutela dei diritti fondamentali del detenuto da un lato e, dall’altro, la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Non pare quindi inutile ritornare alla Costituzione che non è solo la fonte suprema cui il nostro ordinamento giuridico deve conformarsi ma traccia anche le coordinate entro cui il tema va affrontato e risolto. Sotto questo profilo, è ovvio che il detenuto, in quanto tale, vede i propri diritti limitati dalla condizione carceraria in cui è ristretto. Ma il detenuto è pur sempre una persona che vive in un luogo – il carcere – in cui comunque svolge e sviluppa la propria personalità (art. 2 Cost.). Per questo “la sanzione detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione della libertà della persona; ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (Corte cost. 349/1993).
Per questo motivo la Costituzione – scritta, è bene ricordare, da chi il carcere lo conosceva bene perché c’era stato – punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (art. 13.4). Inoltre “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27.3). Il che significa che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti” (articoli 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fonti entrambe oggi cui le leggi ordinarie devono conformarsi). Disposizione che solo dopo ben trent’anni e numerose condanne da parte della Corte di Strasburgo, specie dopo i pestaggi di Bolzaneto del 2001, ha trovato attuazione con l’introduzione del reato di tortura (l. 110/2017).
In tale contesto si pone il problema del regime di detenzione differenziato (c.d. carcere duro ex art. 41-bis l. 354/1975), introdotto nel 1986 in funzione di antiterrorismo, esteso nel 1992 ai condannati per mafia, dopo le stragi in Sicilia di Capaci e via D’Amelio e successivamente oggetto di plurime modifiche. Tale regime può essere disposto dal Ministro della giustizia, anche su proposta di quello dell’interno, sentita l’autorità giudiziaria, “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica” nei confronti di detenuti, anche in attesa di giudizio, che si ritiene abbiano o hanno commesso specifici e gravi delitti per impedire loro ogni contatto con le organizzazioni malavitose d’appartenenza.
Esso prevede per almeno quattro anni (prorogabili ogni due anni sine die) sensibili restrizioni (v. circolare d.a.p. n. 3676/6126 del 2.10.2017): rigoroso isolamento dagli altri detenuti (due ore di “socialità” con massimo altri quattro detenuti); sorveglianza più stretta; un solo colloquio al mese con familiari e conviventi – eccetto con i difensori a tutela del suo diritto di difesa in giudizio – soggetto a controllo e registrazione e svolto in appositi locali che impediscano il contatto fisico ed il passaggio di oggetti; controllo del tempo trascorso fuori dalla cella; divieto di ricevere e spedire libri e riviste dall’esterno; visto di censura sulla corrispondenza.
Più volte nel tempo la Corte costituzionale è stata chiamata a giudicare della costituzionalità di tale speciale regime carcerario perché ritenuto disumano e degradante. Essa però ha sempre respinto tali obiezioni in ragione della particolare pericolosità di tali detenuti e delle prevalenti legittime esigenze di prevenzione del crimine e di sicurezza pubblica. Lo stesso dicasi per la Corte europea dei diritti dell’uomo in casi specificamente riguardanti l’Italia proprio in ragione della specifica situazione criminale del nostro Paese (2.1.2010, Mole; 19.1.2010 Montani). Piuttosto i giudici sono intervenuti a garanzia di specifici diritti del detenuto, a partire da quello di poter sempre ricorrere al giudice contro simili misure (Corte EDU Grande Camera 17.9.2009 Enea c. Italia), così da permettergli di controllare l’effettiva sussistenza dei presupposti e le concrete modalità di applicazione di tale regime carcerario. Non a caso, il nostro paese è stato condannato nel 2018 dalla Corte europea per l’applicazione del 41-bis a Bernardo Provenzano nonostante fosse stato accertato il deterioramento delle sue capacità cognitive.
Così la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali, ritenendoli contrari al senso di umanità della pena, il divieto di cuocere cibi in cella – che anzi costituisce “una modalità umile e dignitosa per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno e con il ritmo dei giorni e delle stagioni, nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un’aspra solitudine” (C. cost. 186/2018) – nonché quello di scambiare oggetti purché non segnalino, anche per il valore, la supremazia del detenuto sugli altri (C. cost. 97/2020; Cass. 7939/2022). In quest’ottica costituzionalmente ispirata si è posta la I sezione penale della Cassazione secondo cui i detenuti soggetti al 41-bis: non possono vedersi ridurre le poche ore d’aria (17579/2019); possono salutarsi tra loro (35216/2020); ricevere quotidiani purché non riportino notizie d’interesse criminale (21803/2020; 21942-3/2020); sottoporsi a fisioterapia (52526/2018); effettuare videochiamate ai propri familiari (23819/2020); consegnare personalmente doni ai figli minori di dodici anni (46432/2021).
Non è quindi in discussione la costituzionalità in sé del c.d. carcere duro, né tantomeno la sua efficacia o utilità, quanto piuttosto le sue specifiche modalità attuative quando inutilmente vessatorie e dunque lesive della dignità del detenuto. Esso dunque va limitato a quei casi per cui risulta effettivamente motivato ed indispensabile e scremato da tutti quei divieti che, anche in considerazione delle condizioni del detenuto e del tempo trascorso, paiono frutto di una concezione vendicativa e non rieducativa della pena. Ricordandosi sempre che lo Stato, come tale, non può mai per ritorsione scendere al livello dei suoi nemici, dai quali può e deve difendersi, con una mano utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione ma con l’altra “legata dietro la schiena”, nel più rigoroso rispetto della legalità costituzionale, senza abusare del proprio potere. Salvatore Curreri
Il 41 bis. La demagogia da stato etico uccide lo stato di diritto. Roberto Rampi su Il Riformista il 3 Febbraio 2023
La discussione in corso, si fa per dire, sulla carcerazione “dura”, il cosiddetto 41 bis, l’ergastolo “ostativo”, le intercettazioni e la carcerazione preventiva, si sviluppa tutta sul filo dell’ipocrisia demagogica di una politica che ha rinunciato al ruolo di guida, di proposta, e di pedagogia di massa. Di reati associativi e associazione esterna poi nemmeno si fa più finta di discutere. Eppure, si tratta di un abominio se si ragiona in termini di democrazia liberale, dove la responsabilità non può che essere individuale, legata a fatti specifici e condotte costituenti reato del singolo, accertati oltre ogni ragionevole dubbio e con la prospettiva costituzionalmente sancita di una trasformazione della condotta che possa portare a una diversa valutazione delle proprie azioni e a un pieno reintegro nella società.
Quando la Politica era dominata dal Pensiero, dopo la tragedia della dittatura, pur nelle profonde differenze di progetto antropologico e di società, i costituenti svilupparono un sistema di valori che, sebbene linguisticamente sofferente di una certa tendenza allo stato etico, garantiva tutti gli spazi di tutela e di sviluppo della vita del cittadino, anche se la sua condotta infrange in modo grave la legislazione data. Perché di questo dovrebbe occuparsi lo stato (con la “s” necessariamente minuscola) nella sua versione contemporanea: definire forme di tutela della convivenza dei cittadini, tutela della vita, dell’agibilità politica ed economica, e intervenire in modo proporzionato in caso di violazione delle norme con il solo obiettivo, pratico, di impedire la reiterazione della violazione, tutelando il prossimo e se possibile risarcendo il danno.
Senza Giudizio, che appartiene al campo della morale, da cui lo stato dovrebbe tenersi ben lontano. E senza darsi il non raggiungibile obiettivo di fare Giustizia, che anch’essa, nel caso, appartiene a ben altre sfere, ma più praticamente garantire legittimità e legalità, che per propria natura devono essere sempre mutevoli e discutibili. Il non detto dietro a ogni discussione sul carcere e sui modelli detentivi, invece, è l’errata ma diffusa e prevalente convinzione che allo Stato (maiuscolo) spetti la punizione dei cattivi, per fare Giustizia e risarcire moralmente le vittime. È questa la convinzione della stragrande maggioranza dei cittadini che non si ha il coraggio di confutare. E se non si affronta questo nodo tutto il resto del necessario percorso riformatore è azzoppato in partenza. La funzione dello stato, la funzione e il limite della legge, la tutela dei cittadini da ogni pretesa morale di stato.
A questo si aggiunge la moderna consapevolezza della mutabilità delle persone, che non possono essere definite una volta per tutte in base a un comportamento che hanno sviluppato in un determinato momento della propria vita, e la possibilità di cambiare insita nella natura umana. Non di tratta di perdono, perché non si tratta di colpa. Parole che non dovrebbero appartenere alla discussione su legalità e illegalità. Il carcere non è la punizione, giusta o sbagliata. Perché lo stato non ha il compito di punire. Uno sforzo, tutto politico, per affermare questi principi anti-intuitivi è necessaria. Più facile quando le dittature mostrano la violenza e l’ingiustizia che lo Stato può compiere ergendosi a garante della morale, della Giustizia e della condotta, come si può vedere palesemente in Iran, ma anche in Cina e in diversi altri Paesi del mondo. Come chi usciva dalla dittatura lo aveva misurato sulla propria pelle anche in Italia e per questo ne aveva consapevolezza.
Se non si riparte da qui, tutta la discussione, ammesso che discussione si possa definire la superficiale e demagogica trattazione in corso di questi argomenti nel tristemente asfittico dibattito pubblico del nostro Paese, è priva di fondamento. Nel percorso, mai compiuto, di fondazione di una vera dimensione europea della Politica questo dovrà essere il primo fondamento. Lo dovrà portare avanti un movimento nuovo che deve ancora nascere: transnazionale, transpartitico, capace di partire dal concetto di stato come sviluppato nella modernità e ridefinirne le ragioni e i confini. Uno strumento degli uomini per gli uomini, limitato e rispettoso della vita di tutti e di ciascuno. Roberto Rampi
Le parole della premier e la realtà dei fatti. Meloni e le mezze verità su Cospito e la grazia del 1991 per lo sciopero della fame: il suo caso “fece scuola” e sparò 15 anni dopo…Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Febbraio 2023
Nel tentativo di legittimare ancora una volta la sua “linea dura” sul 41bis, sul terrorismo e la mafia, Giorgia Meloni intervenendo in televisione ha sottolineato che “nel 1991 lo Stato lo ha graziato ed è andato a sparare a della gente”, parlando ovviamente dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame da oltre 100 giorni contro il regime di carcere duro e al centro di una furente battaglia politica.
Eppure quelle di Meloni sono mezze verità di una storia che in pochi hanno raccontato da quanto la vicenda di Cospito è diventata un tema di scontro praticamene quotidiano.
Quando giovedì la premier è intervenuta con una intervista a ‘Dritto e rovescio’ su Rete4 ha infatti omesso particolari fondamentali su Cospito, secondo la leader di Fratelli d’Italia graziato dopo uno sciopero della fame, come in queste settimane, e poi “uscito ed andato a sparare a della gente”.
C’è innanzitutto una banale questione di date: Compito è in carcere e sta già scontando una pena per reati commessi rispettivamente 12 e 21 anni dopo la detenzione (e la grazia) del 1991. Parliamo del ferimento a colpi d’arma da fuoco di un dirigente dell’Ansaldo a Genova nel 2012 e dei due ordigni piazzati fuori una caserma dei carabinieri a Fossano, in Piemonte, nel 2006, che non provocarono feriti o morti.
C’è quindi la questione relativa allo sciopero della fame, al carcere e alla successiva grazia disposta dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Come ricorda ‘Pagella Politica’, l’anarchico attualmente recluso a Opera era stato condannato una prima volta a un anno di reclusione per il reato di “mancanza alla chiamata”, pena scontata solo in parte grazia all’amnistia. Ma Cospito, ancora obbligato a fare il servizio militare, viene nuovamente condannato il 16 aprile 1991 a quasi due anni di “reclusione militare per il reato di diserzione aggravata”. Dal 27 agosto 1991 l’anarchico inizia uno sciopero della fame e il 27 settembre 1991 suo padre presenta domanda di grazia a Cossiga.
Provvedimento del presidente della Repubblica che arriverà il 12 dicembre 1991. Cospito non sarà l’unico: Repubblica scrive che nel solo luglio 1985 l’allora presidente Cossiga firmerà la grazia per 48 detenuti che si erano rifiutati di fare il servizio militare.
Ma proprio il caso Cospito farà “scuola”. Una sentenza della Corte costituzionale del 1993 interviene infatti in quella che viene definita la “spirale delle condanne” che sarebbero piovute sull’anarchico e chi come lui rischiava di scontare condanne per diserzione fino ai 45 anni di età, ossia l’età del congedo. Sentenza che, come scrisse all’epoca Repubblica, permetteva a chi rifiutava di prestare il servizio militare e scontava una condanna non inferiore ad un anno di carcere il “diritto all’esonero dagli obblighi di leva”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Il carcere duro. Perché viene prorogato il 41 bis, la strana logica. Frank Cimini su Il Riformista il 3 Febbraio 2023
Massimo D’Antona fu ucciso nel 1999. Marco Biagi nel 2002. Da oltre vent’anni le Brigate Rosse non ammazzano e in pratica non ci sono più. Ma in tempi di 41bis dilagante intorno al caso di Alfredo Cospito bisogna chiedersi cosa ci fanno applicati al carcere duro, per esempio, Nadia Desdemona Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi: tre esponenti di quelle che furono chiamate le nuove Brigate Rosse.
Secondo il Tribunale di Sorveglianza di Roma “la proroga del 41bis non richiede contatti accertati ma la ragionevole e persistente possibilità di collegamenti. Questa continua a ravvedersi per l’immutata adesione all’ideologia sovversiva e le manifestazioni di interesse e riconoscimento che il detenuto continua a ricevere dalle organizzazioni esterne. La Cassazione ha affermato la necessità di valutare che le associazioni criminose mutino nel corso del tempo”. I giudici puntano inoltre sulle iniziative di solidarietà a favore dei brigatisti ristretti al 41bis da parte di rappresentanze di gruppi anarchici.
L’attenzione è rivolta per esempio a tre presìdi tenuti nel 2019 a L’Aquila ai quali avevano partecipato militanti marxisti-leninisti e anarchici con esposizione di striscioni in favore della libertà per Nadia Desdemona Lioce e per tutti i prigionieri politici. Secondo gli avvocati difensori, tra i quali Caterina Calia, da anni impegnata in processi politici e in particolare sui casi del 41bis, “si ritiene di dimostrare l’esistenza in vita dell’organizzazione Br-Pci smantellata nei primi mesi del 2003, ossia ben 19 anni fa, facendo riferimento ad altre organizzazioni non meglio specificate delle quali non si conosce finanche la sigla e l’epoca di operatività. Si riconosce che si tratta di organizzazioni del tutto diverse sul piano programmatico strutturale e operativo e tuttavia le si richiama al solo scopo di fornire una pseudo motivazione atta a giustificare la proroga del regime speciale nei confronti di un soggetto che non risulta avere avuto alcun contatto con le predette organizzazioni o con qua uno dei suoi aderenti”.
Ma i giudici riescono a sconfinare addirittura nella pura suggestione facendo riferimento al pericolo di contatti con le latitanti Simonetta Giorgieri e Carla Valenti. Si tratta di militanze in periodi storici diversi. La difesa dei ristrettì al 41bis si dice impossibilitata a contestare elementi generici e privi di correlazioni concrete con le persone. Giorgieri e Valenti furono condannate a pene intorno agli otto anni di reclusione 40 anni fa. Furono arrestate in Francia nei primi anni ‘90 ai fini di una estradizione che non fu mai concessa. Entrambe poi non risultano essere nella lista dei 12 latitanti per i quali l’Italia ha chiesto l’estradizione nel 2021. I reati in questione sono prescritti. “E allora perché definirle latitanti – fanno notare i difensori – Su quali basi si può sostenere che se Mezzasalma non fosse detenuto in regime di alta sicurezza dovrebbe stabilire legami con Giorgieri e Valenti?”. Belle domande. Ma l’approfondimento istruttorio chiesto sul punto specifico veniva disatteso dai giudici che confermavano la restrizione al 41bis. Insomma il passato che non passa. Mai.
Frank Cimini
Il rapporto del Garante mette in luce anomalie su cui occorre intervenire. Tutte le anomalie del 41bis, da strumento per la lotta alle mafie a carcere duro per oltre 700 detenuti. Franco Mirabelli su Il Riformista il 10 Aprile 2023
L’istituto del 41 bis è stato ed è uno strumento fondamentale per la lotta alle mafie. Impedire che i boss possano continuare a dirigere la propria organizzazione dal carcere, come avveniva in precedenza, continua ad essere una necessità se si vuole spezzare la catena di comando delle cosche. Il 41 bis è uno strumento che ha funzionato e funziona, che deve essere difeso e preservato ma, per farlo nel modo migliore, serve fare i conti con le osservazioni fatte recentemente dal Garante dei diritti dei detenuti.
Innanzitutto si tratta di riportare l’istituto alla dimensione che gli è propria. Il 41bis è nato per impedire la possibilità per i capimafia di comunicare con l’esterno, questa è la sua funzione. L’isolamento, le limitazioni rigide ai contatti con l’esterno ma anche all’interno del carcere hanno questa finalità. Troppo spesso, invece, sentiamo dalla politica, e persino dagli operatori penitenziari, definire il 41bis come “carcere duro”, quasi servisse a rendere più afflittiva la pena e non a impedire le comunicazioni con l’esterno. Se passasse l’idea di un regime semplicemente finalizzato a rendere la detenzione più gravosa, sia pure di fronte a reati molto gravi, è chiaro che si darebbe un argomento a chi attacca il 41bis ritenendolo un trattamento contrario alla finalità rieducativa della pena che la nostra stessa Costituzione stabilisce. Allo stesso modo Mauro Palma ha ragione quando sollecita una riflessione sul numero di detenuti al 41bis.
Il dato di oltre 700 persone recluse con quel regime è, certamente, un dato sproporzionato rispetto alla sua finalità e può, anch’esso, avvalorare l’idea di uno strumento che viene utilizzato per scopi diversi. Quindi per difendere il 41bis è necessario utilizzarlo per come è stato pensato: un regime straordinario che serve a impedire che i capi delle mafie e del terrorismo comunichino coi loro sodali all’esterno e per evitare che gli stessi controllino la vita del carcere. Ma se bisogna prendere atto che la reclusione di oltre 700 mafiosi costituisce una anomalia per risolverla occorre intervenire sulle cause che portano i magistrati a moltiplicare le richieste di detenzione in regime di 41bis.
E’ evidente che manca una soluzione alternativa per chi, comunque, dovrebbe avere più limitazioni durante la reclusione. Il tema è quello della necessità di migliorare il funzionamento delle sezioni di alta sicurezza e aumentarne la capienza. Si potrebbero così fornire le garanzie di controllo necessarie e consentire di limitare il ricorso al 41bis. Da tempo il nostro Paese è sotto osservazione degli organismi internazionali ed europei proprio per il ricorso a quel regime detentivo. Periodicamente emergono accuse che intravedono in esso violazioni dei diritti umani e dei detenuti a cui è possibile e giusto rispondere difendendo un istituto che, in una realtà in cui il radicamento delle mafie è ancora purtroppo alto, consente di impedire ai boss di proseguire la propria attività dalla reclusione. Ma questo è possibile se continuiamo a poter dimostrare che il 41bis garantisce il rispetto della persona e non costituisce un trattamento pensato per essere più afflittivo e se resta evidente la sua eccezionalità circoscritta alla funzione che l’ordinamento attribuisce a quel regime. Franco Mirabelli
Non sono dei boss ma continuano a mandarli al 41 bis. Oltre 700 detenuti al regime di carcere duro. «Si ha la sensazione che si ricorra a questo, perché l'Alta sicurezza non offre sufficienti garanzie». Ma la Consulta ha chiesto una valutazione rigorosa. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 febbraio 2023
Attualmente ci sono oltre settecento reclusi al 41 bis, dove la maggior parte di essi non sono capi mafia, ma pura manovalanza. Senza dimenticare il caso di Alfredo Cospito, un anarchico individualista che – come si evince dalle motivazioni della sentenza di assoluzione del processo Bialystok – non è capo di nessuna organizzazione. Sì, perché la federazione anarchica informale non è una associazione dove ci sarebbero dei sottoposti, ma un “metodo”. Ma come mai questo continuo ricorso al 41 bis che, ricordiamo, dovrebbe essere una misura del tutto eccezionale? Una spiegazione l’ha data già nel 2021 il segretario generale della Uil polizia penitenziaria Gennarino De Fazio in commissione antimafia: «Sempre più spesso si ha la sensazione che si ricorra all’applicazione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario proprio perché l’Alta Sicurezza non offre sufficienti garanzie».
Per i reclusi, non boss o capi terroristi, ma “manovalanza” appartenente ai gruppi criminali, esiste già il regime differenziato. Parliamo appunto dell’alta sicurezza (AS). Come si evince da rapporto tematico redatto dal garante nazionale delle persone private della libertà, tali sezioni del circuito AS sono state istituite con il «compito di gestire i detenuti e gli internati di spiccata pericolosità, prevedendo al proprio interno, tre differenti sotto- circuiti con medesime garanzie di sicurezza e opportunità trattamentali».
Esse sono definite con un Atto amministrativo e non con una norma di carattere primario. La decisione di prevedere tre sotto- circuiti nasce, nel 2009, dall’esigenza, specificata nella citata circolare, di rispondere alla eterogeneità dovuta alle differenti connotazioni di natura criminale alla base della presenza delle persone nell’allora circuito “Elevato indice di vigilanza”, da quel momento sostituito dal circuito dell’Alta sicurezza.
Cosa ha denunciato il segretario generale della Uil pol pen? In sostanza, si ricorre sempre più spesso al 41 bis, perché i circuiti AS «non offrono più adeguate garanzie soprattutto a riguardo dell’interruzione dei collegamenti con l’esterno, ma pure rispetto ai traffici interni alle carceri». Quindi cosa ha proposto per ridurre il ricorso al carcere duro (che sulla carta “duro” non dovrebbe però essere)? «E’ dunque necessario ripristinare adeguati
livelli di sicurezza degli altri circuiti attraverso il potenziamento degli organici della Polizia penitenziaria e la dotazione e l’efficientamento di strumentazioni ed equipaggiamenti, ma anche mediante una nuova organizzazione complessiva che richiede riforme strutturali e urgenti».
Appare quindi che la magistratura abbia questo tipo di percezione e per questo indica sempre più spesso al ministero della giustizia il 41 bis. Ma se così fosse, viene meno la ratio di tale istituito che non può essere dato con estrema facilità visto il suo carattere – almeno sulla carta – eccezionale. Non solo. Va contro alcune sentenze della Corte costituzionale. La Consulta, nella sua sentenza n. 376 del 1997, ha espressamente detto che i ricorsi al 41 bis devono essere «concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di ordine e sicurezza».
Poiché – afferma la Corte – «da un lato, il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell'imputazione, ma sull'effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa; dall'altro lato, le restrizioni apportate rispetto all'ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere – sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità – solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza».
La Corte quindi è giunta alla conclusione che «non vi è dunque una categoria di detenuti, individuati a priori in base al titolo di reato, sottoposti a un regime differenziato: ma solo singoli detenuti, condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata, che l'amministrazione ritenga, motivatamente e sotto il controllo dei Tribunali di sorveglianza, in grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni ed esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività, e che per questa ragione sottopone – sempre motivatamente e col controllo giurisdizionale – a quelle sole restrizioni che siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo, attraverso la soppressione o la riduzione delle opportunità che in tal senso discenderebbero dall'applicazione del normale regime penitenziario». L’abuso è chiaro. Il caso Cospito è il massimo esempio di tale stortura applicativa.
Irriducibili, killer e boss. I 778 dannati all'inferno. Dalla brigatista Lioce ai mafiosi della "Cupola". Ecco chi sono i detenuti sottoposti al carcere duro. Luca Fazzo il 3 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Stesso carcere, stesso reparto. Uno dei più temuti di tutti, tra i 778 italiani detenuti al 41bis, vive a poche decine di metri da Alfredo Cospito, l'anarchico che con il suo sciopero della fame ha riaperto il dibattito sul «carcere duro». Il padrino si chiama Antonino Madonia, è stato per decenni un sicario freddo e professionale, e in questa veste ha partecipato di persona a quasi tutti gli omicidi eccellenti decisi da Cosa Nostra: a partire dall'uccisione del prefetto Dalla Chiesa. Arrestato nel 1989, «Nino» Madonia è considerato la prova vivente della necessità del 41bis, perché si scoprì che appena gli era stato incautamente revocato il trattamento di massima sicurezza era tornato dalla cella a governare il clan e a dettare legge, affari, crimini.
Il carcere milanese dove sono rinchiusi sia Madonia che Cospito ospita oggi una delle massime concentrazione d'Italia di detenuti al 41 bis. Centouno, tra i quali (almeno fino a qualche tempo fa) Michele Zagaria, capo storico della Camorra: Zagaria a Opera era tra le poche decine di detenuti in tutta Italia per i quali neanche il 41bis è considerato sufficiente a recidere del tutto i legami con l'esterno. A questi (una cinquantina, secondo gli ultimi dati disponibili) vengono destinate le cosiddette «aree riservate», in condizioni di deprivazione quasi totale. Nel penitenziario sardo di Bancali, dove stava anche Cospito fino a martedì, l'«area riservata» è scavata addirittura sotto il livello del suolo.
Ma anche senza arrivare all'estremo delle «aree riservate», è l'intera rete dei reparti di 41bis a essere connotato da condizioni di vita talmente dure da sollevare una domanda: chi sono, quesi 778 detenuti che per essere resi inoffensivi necessitano di questo trattamento?
L'elenco completo ufficiale non viene reso noto dal Dap, la direzione delle carceri, nonostante l'assegnazione al 41bis sia basata su provvedimenti dell'autorità giudiziaria e del ministero. È possibile però risalire a una serie di nomi grazie alla suddivisione per categorie di reato contenute nella relazione per l'anno giudiziario 2023 della Cassazione.
Si scopre che nelle dodici carceri italiane dotate di un reparto di massima sicurezza sono rinchiusi attualmente 242 camorristi, 195 appartenenti alla 'ndrangheta, 232 a Cosa Nostra siciliana, e venti alla Sacra Corona Unita. Solo quattro detenuti al 41 bis sono accusati reati connessi al terrorismo. Curiosamente, nessuno di questi è legato al terrorismo islamico, fenomeno sicuramente più attuale della violenza di stampo brigatista. Tra i quattro ex Br oggi rinchiusi al 41bis il nome più noto è quello di Nadia Desdemona Lioce, la dirigente delle «Nuove Brigate Rosse - Nuclei comuisti combattenti» condannata all'ergastolo per gli omicidi dei giuslavoristi Marco Biagi e Massimo D'Antona, oltre che del poliziotto Emanuele Petri. Irriducibile come la Lioce, e anche lui detenuto al 41bis, è un altro delle «nuove Br», Marco Mezzasalma, ospite del reparto di massima sicurezza di Opera.
Poche unità, ultimi cascami della stagione trascorsa della lotta armata in Italia. La stragrande maggioranza dei detenuti al 41bis è costituita dagli esponenti delle organizzazioni criminali del Mezzogiorno, la cui pericolosità è stata d'altronde la causa principale di introduzione del trattamento differenziato nelle carceri. Al 41bis è l'intero gruppo dirigente della «Cupola» protagonista delle stagioni delle stragi di mafia: Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola, i fratelli Graviano, Stefano Ganci e l'ultimo arrivato, Matteo Messina Denaro. A vigilare nei reparti di 41 bis sono gli uomini del Gom, i reparti speciali della polizia penitenziaria: avvicendati ogni pochi mesi, per evitare che vengano identificati e messi nel mirino.
Il gruppo più numeroso dei detenuti in massima sicurezza è quello proveniente dalla camorra campana. Al 41bis morì due anni fa l'esponente più famoso dell'organizzazione, Raffaele Cutolo; oggi oltre a Michele Zagaria sono al 41bis i suoi luogotenenti Enrico Martinelli e Giuseppe Caterino, condannati per l'omicidio ne 2003 di due appartenenti alla famiglia De Falco. Al 41bis anche il capo dei «casalesi» Francesco Schiavone detto «Sandokan» e il suo vice Francesco Bidognetti detto Cicciotto e' mezzanotte.
Quasi altrettanto nutrito il plotone al 41 biss dei boss e gregari delle cosche calabresi. Sono le organizzazioni cui, nei provvedimenti giudiziari che applicano il carcere duro, i magistrati attribuiscono la maggiore capacità di tenere i rapporti con gli esponenti detenuti. Per questo sono stati tra gli altri destinati alla massima sicurezza i fratelli Pino e Luciano Scalise, del clan omonimo, e parte dei protagonisti delle guerre intestine che hanno caratterizzato il decennio scorso in Calabria. Al 41 bis anche Sebastiano Nirta e Giovanni Strangio, condannati in Italia per il più «internazionale» dei delitti di 'ndrangheta: la strage di Duisburg, 15 agosto 2007.
Le élite escano dalla difesa “a uomo”: sono più di 800 i detenuti al 41 bis. Un messaggio di "Potere al Popolo" per Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41 bis. La “personalizzazione” del carcere duro rischia di alimentare il fastidio giustizialista che attraversa larghi strati della società. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 10 gennaio 2023.
Sul caso Cospito si sta scrivendo tanto e la mobilitazione di intellettuali e dei ceti meglio strutturati della pubblica opinione è possente. Tuttavia, il crollo visibile dell’egemonia culturale esercitata per decenni dalla sinistra italiana, e dai circoli radical dell’intellighenzia a lei vicina, rischia di veder assestato un altro duro colpo da una sorta di latente irritazione che pervade strati non marginali della pubblica opinione nazionale a sentire discutere della sorte dell’anarchico.
Il regime di carcere duro, il cosiddetto 41- bis, riguarda circa 800 detenuti nelle carceri italiane, in massima parte si tratta di mafiosi e di appartenenti alla variegata costellazione delle associazioni malavitose meridionali. Sollevare il caso di Alfredo Cospito e sostenere - come ha fatto un paio di giorni or sono il vicesindaco di Bologna, Emily Clancy – che il lungo sciopero della fame dell’anarchico «interpella le nostre coscienze e solleva questioni di etica e di diritto fondamentali» rischia di andare a impattare contro il fastidio giustizialista che pervade profondamente ormai la società italiana. Affiora qua e là l’impressione che ci sia una sorta di difesa “a uomo” praticata ideologicamente a favore di uno e a discapito degli altri.
E’ evidente che l’anno appena concluso, con i suoi 84 suicidi nelle celle, imporrebbe di volgere lo sguardo alla complessiva condizione dell’intera popolazione carceraria italiana e, tra essa, dei detenuti che vivono la più dura delle condizioni, quella appunto del 41- bis. Un problema enorme sinora messo in disparte dalle ricorrenti emergenze criminali il cui affievolirsi, come al ritirarsi della piena di un fiume tumultuoso, comincia a restituire macerie e rovine. Tre le questioni sul campo.
La prima è che occorrerebbe che il legislatore e la Corte costituzionale ponessero fine a quella “truffa delle etichette” che da circa trenta anni consente, nell’ordinamento italiano, l’applicazione di misure durissime giustificandole sotto l’ombrello ad ampio raggio della cosiddetta prevenzione. Questo è l’unico paese al mondo in cui, in nome appunto della prevenzione, si mantengono sistemi carcerari eccezionalmente severi, si prevedono confische di patrimoni e imprese, si eliminano dal mercato dozzine di società con il sistema delle interdittive prefettizie, si autorizza un numero totalmente sconosciuto e imprecisato di intercettazioni (appunto) preventive da parte delle forze di polizia con la sola autorizzazione del pubblico ministero. Uno sterminato arsenale di proibizioni e di divieti che hanno una precisa valenza sanzionatoria, anzi in molti casi repressiva, e che una sorta di autoassolutorio rito collettivo esorcizza e giustifica in nome della “prevenzione”, guardandosi bene dal classificare e descrivere la sostanza delle conseguenze e la durezza degli effetti personali e patrimoniali che i cittadini (quasi sempre solo sospettati di reati) pagano al cospetto di questi apparati.
Da questo punto di vista l'ergastolo ostativo, il carcere a 41- bis, le confische di prevenzione, le misure interdittive prefettizie, le certificazioni, le white list imprenditoriali, la data retention pluriennale del traffico telefonico e telematico sono nient’altro che i pilastri di un edificio repressivo che nella sostanza opprime settori non esigui della società e segna il vero gradiente delle libertà economiche e dei diritti soggettivi nel nostro paese.
Il fatto che, con l’avallo della giurisdizione costituzionale, tutto questo appartenga allo sterminato e nebuloso mondo della cosiddetta prevenzione, che ogni congegno sia stato celato negli anfratti di una notte buia in cui tutto è poco chiaro grazie anche al fatto di essere descritto da norme ad ampio compasso rese da un legislatore distratto e accondiscendente - non vuol dire che non ci sia la necessità di pulire il lessico che si adopera quando, come nel caso di Cospito e non solo – si invocano ragioni di prevenzione per mantenerlo a carcere duro.
Per carità, è ovvio, che chiunque sia scoperto a complottare o a dare ordini da una cella merita una più dura segregazione per tutto il tempo necessario, ma irrogare il regime duro solo perché si paventa il pericolo di questi collegamenti equivale a misconoscere la natura afflittiva, punitiva di quel regime carcerario e a costruire un regime sanzionatorio “occulto” per il quale laschi e quasi inesistenti sono i controlli della giurisdizione.
La seconda questione è un diretto corollario della prima. Poiché si manipolano nozioni evanescenti, si adoperano concetti a grana grossa, si legittimano supposizioni e sospetti le pratiche di prevenzione si autoalimentano e sfuggono inevitabilmente a qualunque controllo. Se si irrorano a piene mani le informative di polizia con iperboli e congetture, con valutazioni e massime d’esperienza è evidente che non c’è scrutinio giurisdizionale che tenga e, alla fine, la potenza condizionante che la categoria concettuale del pericolo esercita sul giudice travolge la verifica degli elementi concreti celati dietro la cappa minacciosa dell’allarme sociale.
Da questo punto di vista sembra sempre più difficile continuare a legittimare l’intero sistema di prevenzione in forza dell’esistenza di un controllo giurisdizionale di fatto invischiato nella ragnatela di gerghi e di nozioni che non gli dovrebbero appartenere e che, in effetti, non appartengono alla magistratura in alcuna democrazia costituzionale.
La terza questione prende in esame il pericolo, incautamente ignorato, che la conclamata inefficacia del regime a carcere duro nel provocare pentimenti e collaborazioni con la giustizia (le cifre sono risibili in proposito) e, quindi, il volto puramente vendicativo dell’ergastolo ostativo senza prova di redenzione e della detenzione speciale crei una generazione di “irriducibili”.
Una sorta di élite criminale capace di esercitare una grande fascinazione proprio negli strati sociali più marginali e più esposti ai rischi della violenza terroristica o dell’affiliazione mafiosa. Più la detenzione viene percepita come un accanimento, più i detenuti resistono e si asserragliano nella loro disperata solitudine carceraria, maggiore è il rischio che siano percepiti all’esterno come gli epigoni di un oltranzismo inflessibile, come gli esponenti di un mondo che non si piega e minaccia per ciò solo di perpetuarsi. E questo malgrado le grandi vittorie dello Stato e l'enorme sacrificio che esse sono costate.
Sono tredici le detenute italiane in regime di carcere duro. Chi sono le donne che scontano la pena al 41bis. Francesca Sabella su Il Riformista il 30 Gennaio 2023.
Vivono in celle di cemento di pochi metri quadrati. Passano giorno e notte in una stanza gelida, singola, con un letto, un tavolo e una sedia inchiodata al pavimento. Private della privacy perché sorvegliate a vista dalla Polizia penitenziaria h24. Private anche della parola e condannate al silenzio quasi totale. I contatti con le guardie carcerarie sono ridotti al minimo indispensabile e l’ora d’aria si fa in compagnia solo di un’altra detenuta. Sono le donne condannate al 41bis. Vivono così le tredici detenute considerate pericolosissime e quindi da tenere isolate, da rinchiudere in una tomba seppure ancora vive. Ma chi sono le donne italiane detenute al 41bis?
La prima a essere condannata al carcere duro fu Nella Serpa, conosciuta anche come “Nella la bionda”, è stata arrestata il 30 marzo del 2012 ed è stata per tempo il capo cosca della ‘ndrangheta di Paola. Sorella di Pietro Serpa, assassinato nel maggio del 2003 con una raffica di colpi di pistola nel parcheggio di un hotel sulla Statale 18. Nella Serpa sta scontando l’ergastolo nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila “Le Costarelle”, lo stesso nel quale dal 16 gennaio 2023 è detenuto il padrino di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Tra le donne che scontano la pena al 41bis l’anarchica Nadia Desdemona Lioce, esponente di spicco delle Nuove Brigate Rosse, accusata di essere tra i membri del commando che uccise i giuristi Massimo D’Antona nel 1999 e Marco Biagi nel 2002. Manette ai polsi nel 2003 e condannata all’ergastolo, ora sconta la pena all’Aquila in regime di carcere duro. Insieme con Nadia Desdemona Lioce furono spedite al carcere duro anche Laura Proietti e Diana Blefari, brigatiste coinvolte nei delitti Biagi e D’An-tona.
C’è anche una napoletana tra le donne che stanno scontando una pena ai limiti dell’umano. Maria Licciardi, chiamata “Lady Camorra” membro dell’associazione camorristica “Alleanza di Secondigliano”, è Chanel nella serie di Roberto Saviano “Gomorra”. “A piccerella” altro soprannome della donna boss del clan Licciardi fu arrestata dai carabinieri del Ros all’alba del 7 agosto 2021 nell’aeroporto di Ciampino mentre stava per imbarcarsi su un volo diretto a Malaga (Spagna) dove vive la figlia. Lady Camorra fu poi trasferita dal carcere di Lecce a quello di Rebibbia dove è sottoposta al regime detentivo del 41 bis.
Ma la prima donna della camorra a sedersi dietro le sbarre del 41bis è stata Teresa De Luca Bossa, “Donna Teresa” per i suoi fedelissimi. Pare che anche lei abbia ispirato il personaggio di Chanel in Gomorra. Moglie di Umberto De Luca Bossa e madre di Antonio prende le redini del sodalizio camorristico operante nella periferia est di Napoli quando il figlio finisce in manette. La stessa sorte toccherà anche a lei. Donna Teresa finisce in carcere nel giugno del 2000 insieme con altri 79 camorristi arrestati, accusati a vario titolo di aver partecipato all’omicidio di Luigi Amitrano, ucciso con un’autobomba due anni prima e nipote di un altro boss, Vincenzo Sarno. Tredici donne che oggi vivono in regime di 41bis. Una tortura. Senza dubbio. Tortura che vìola i diritti umani ma che ora molti difendono e raccontano come unica arma contro le organizzazioni criminali…
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Vi spiego io come si “vive” nell’inferno del 41bis. Il racconto di Carmelo Mumeci, ex ergastolano, oggi scrittore: “Appena arrivato all’Asinara subii un pesante pestaggio mentre ero in doccia, perché c’ero stato più dei 5 minuti concessi. Sentivo dolore dappertutto. Mi ero addormentato per terra come un cane. Pensai che mi avrebbero potuto mordere i topi e provai un brivido di paura. Poi, però, pensai c’era da avere più paura delle guardie….» Carmelo Musumeci su Il Dubbio il 27 febbraio 2023
A causa di una guerra fra bande rivali, per il predominio di attività illecite sul territorio versiliese, sono stato condannato all’ergastolo e nel 1992 sottoposto al carcere duro del 41 bis, deportato in Sardegna, nell’Isola dell’Asinara.
Ero arrivato all’isola con l’elicottero. Appena sceso, mi presero in consegna le guardie. Mi scaraventarono in una gabbia allestita provvisoriamente al centro del campo sportivo, davanti alla famigerata sezione “Fornelli”.
Tre elicotteri volavano di continuo, facendo la spola da Porto Torres all’Asinara, per portare i detenuti nell’isola. Gli elicotteri finirono di scaricare carne umana soltanto verso sera. La gabbia era ormai piena all’inverosimile.
Eravamo schiacciati come sardine. Ad un tratto le guardie si schierarono a destra e a sinistra, formando un corridoio che portava dritto dentro il carcere. Tra le mani brandivano scudi in plexiglass e manganelli. Mi guardai intorno.
Ero già esperto di carcere. Immaginai subito cosa sarebbe successo. Ai prigionieri accanto a me sussurrai: «Appena aprono il cancello, correte più veloci che potete e, qualsiasi cosa accada, non fermatevi fin quando non vi trovate chiusi in una cella!». La maggioranza di loro era formata da detenuti mafiosi alla loro prima esperienza carceraria.
Non erano delinquenti abituati fin da giovanissimi all’esperienza dei riformatori e delle carceri minorili come me. In seguito capii che i prigionieri mafiosi erano forti fuori, ma deboli dentro al carcere. In galera subiscono e non si ribellano quasi mai. Accanto a me, c’era un giovanotto grande e grosso, con l’aria sveglia. Ci osservammo e ci capimmo al volo. «Come ti chiami?». «Tiziano… so’ de Roma». Tiziano era alto e robusto, asciutto e tonico. Dava l’impressione di essere uno scaricatore di porto. Aveva i capelli corti, un testone da cinghiale e due occhi neri. Con un lieve cenno del capo, gli indicai i detenuti che avevamo intorno. «Questi non ci saranno d’aiuto... non sono delinquenti, ma borghesi mafiosi, buoni per farci la birra. Quando usciamo dalla gabbia, stiamo vicini per coprirci entrambi. Io mi chiamo Carmelo». Il ragazzone si gonfiò il petto. «Stai tranquillo, non è la prima volta che mi trovo coinvolto in un pestaggio».
A un tratto aprirono il cancello. Lanciai un’occhiata al percorso che dovevamo fare. E pensai che sarebbe stato molto difficile non prendere qualche manganellata in testa. I detenuti iniziarono a uscire. I loro sguardi erano terrorizzati, mentre le guardie erano gongolanti. I primi a uscire furono bersagliati di manganellate.
Io e Tiziano ci demmo un’occhiata d’intesa e scattammo insieme. Corremmo come forsennati. Scavalcammo anche i nostri compagni che erano già crollati a terra. Chi cadeva era perduto. Veniva preso a calci e a pugni. Alcuni detenuti rimasero paralizzati dalla paura e preferirono restare dentro la gabbia. Sapevo che questi avrebbero preso più botte di tutti gli altri, scatenando ancor di più l’ira delle guardie.
Io correvo piegato in due, con le braccia alzate per cercare di ripararmi dai colpi di manganello. Cercavo di proteggermi la testa, ma i colpi arrivavano proprio lì. Ad un tratto sentii una botta secca in testa, accompagnata da una tremenda fitta di dolore. Proprio mentre stavo per cadere, mi sentii afferrare per il collo della maglietta. Era Tiziano che mi trascinava con sé.
Arrivammo finalmente nel corridoio della sezione. Le celle erano già aperte. Man mano che le celle si riempivano, le guardie chiudevano il cancello e sbattevano il blindato. Al volo mi infilai nella prima che vidi vuota. Ero talmente arrabbiato e dolorante che tremavo. Mi guardai intorno. L’aria sapeva di chiuso e di muffa. Mi accorsi che più che in una cella mi trovavo in un pozzo nero. Una vera e propria tomba. Le celle dell’Assassino dei Sogni (come chiamo io il carcere) dell’Asinara erano allocate nella parte meno illuminata della prigione. Mancavano l’aria e la luce. Dalla finestra della cella si poteva vedere solo una fetta di cielo, nella parte più alta. C’era una doppia fila di sbarre. Per completare l’opera, anche una fitta rete metallica. Tentai di non perdermi d’animo. Avevo un dolore al capo che era insopportabile. Mi accorsi che ero ferito alla testa e avevo la maglietta imbrattata di sangue. Strinsi i denti. Cercai con gli occhi il lavandino. Era vicino al gabinetto. Aprii il rubinetto. L’acqua scendeva marrone. Mi avevano avvisato che non era potabile, ma non mi avevano detto che fosse così sporca. Lavai la ferita. Attraverso un pezzo di vetro murato sopra il lavandino, vidi che avevo una profonda ferita in testa e che sanguinavo anche da un sopracciglio. Pensai che avrei avuto bisogno di qualche punto in testa, ma decisi che non era il caso di chiamare nessuno. L’indomani alle otto in punto, una guardia passò per prendere i nomi di chi voleva andare al passeggio. Quando aprirono il blindato, vidi davanti a me quattro guardie con il manganello in mano. Il battito del mio cuore accelerò. Ad un tratto una guardia mi urlò: «Mafioso di merda, girati e metti le mani appoggiate al muro. Mi venne voglia di rispondergli a tono, ma sarebbe stato un suicidio. Mi avviai in fondo al corridoio».
Dopo pochi passi, mi fecero entrare in un cortile, una vera e propria gabbia di cemento armato, coperta da una rete metallica a maglie strette che assorbiva la luce del cielo. Davanti a me trovai una decina di detenuti dall’aspetto spaventato, che mi fissavano. M’informai se avevano intenzione di ribellarsi, ma mi accorsi subito che era una discussione con i sordi.
Pensai subito che sarebbe stata la loro fine. Non mi sbagliai. Nel giro di poche settimane, i detenuti si sottomisero a qualsiasi angheria. E per le guardie divennero come dei giocattoli. Li torturavano, li annientavano e li umiliavano, ma loro non reagivano. Alle guardie non erano mai capitati dei detenuti così docili e ne approfittavano senza alcuna remora. Molti di loro, piuttosto di reagire, decisero di diventare “pentiti”. Anche mafiosi di un certo “spessore” arrivavano nell’isola e, dopo pochi giorni di quel trattamento, andavano via come collaboratori di giustizia.
A distanza di qualche settimana dall’arrivo in quella dannata isola, mentre ero in doccia, subii un pesante pestaggio, perché c’ero stato più dei cinque minuti consentiti. E mi scaraventarono nella liscia. L’indomani mi svegliai con un mal di testa tremendo. Mi passai la mano tra i capelli e trovai ferite e grumi di sangue dappertutto. Sentii la fronte zuppa di sangue e sprofondai nell’angoscia e nella tristezza. Mi misi faticosamente in piedi. Sentivo il sapore del mio sangue in gola. Cercai a tastoni l’interruttore della luce. Si accese una fioca lampadina sul soffitto. Strizzai gli occhi per abituarli alla luce ed ebbi la forza di guardarmi intorno. Un grosso topo strofinava il muso nel sangue che avevo sputato. Provai a dargli un calcio, ma il topo fu più veloce di me e scappò da un buco della rete della finestra.
Sferrai diversi pugni sulle pareti, fin quando non mi sanguinarono anche le mani. Nessuno mi rispose. Ero solo, disperato e isolato. La stanza era vuota, c’era solo una branda inchiodata al pavimento. Non c’era materasso, né lenzuola o coperte, non c’era nulla. Avevo una sete terribile. Mi rassegnai a sopportare il dolore e mi addormentai. Alla sera aprii gli occhi, cercai d’istinto di alzarmi, ma vi rinunciai. Sentivo dolore dappertutto. Non avevo avuto neppure la forza di sdraiarmi sulla branda. Mi ero addormentato per terra come un cane. Pensai che mi avrebbero potuto mordere i topi e provai un brivido di paura. Poi, però, pensai che era sciocco avere paura dei topi. C’era da avere più paura delle guardie. Sentivo tutte le ossa rotte. Sudavo freddo. Cercai di mettere ordine in testa, ma non ne fui capace.
Non riuscivo a pensare. Avevo la gola secca. E avrei dato qualsiasi cosa per un bicchiere d’acqua. A un tratto sentii alcuni rumori provenire dal corridoio. Avvertii un senso di paura, riflettei se valesse la pena alzarsi. Alla fine decisi di no. Se le guardie mi volevano di nuovo picchiare, non avrei potuto opporre alcuna resistenza. Sentii girare le chiavi nella serratura del blindato. Entrarono quattro guardie e un medico con il camice bianco. Gli sbirri mi guardarono con occhi indifferenti. Il dottore mi fece sdraiare sulla branda. Vidi lo sguardo di un macellaio quando affetta la carne. Aveva i capelli bianchi, barba da capra e occhi da volpe. «Come ti senti?». Sospirai. Poi sorrisi di disperazione. Deglutii, ma non avevo più saliva. Avevo una maledetta sete. E la bocca sapeva di sabbia. «Bene! Non mi sono mai sentito così in forma». Il medico sogghignò. «Bravo!». Poi pensieroso aggiunse: «Sei intelligente… forse te la cavi». Si rivolse alle guardie: «Fategli firmare un verbale che ha fatto a botte con gli altri detenuti al passeggio». Poi mi batté la mano sulla spalla e continuò: «Dategli il materasso, lenzuola, coperte, la sua roba personale e una bottiglia d’acqua che ha le labbra riarse dalla sete». Vidi il medico schiacciare l’occhiolino alle guardie. «Dategli pure qualcosa da mangiare e portatemelo in infermeria che gli devo dare dei punti in testa».
Il medico uscì dalla cella. Subito dopo le guardie mi misero davanti alla faccia il verbale con una penna. I loro occhi erano gelidi. Capii che se non avessi firmato quel foglio, sarei morto. Lo lessi. C’era scritto che avevo aggredito dei detenuti al passeggio e che le guardie erano dovute intervenire per riportare l’ordine. Pensai: «Figli di puttana!».
Il mio cuore non voleva firmare ma la sete e i dolori del mio corpo mi spingevano a farlo. Provai a scrivere il mio nome, ma la penna non aveva intenzione di funzionare. Il mio cuore mi fece notare che neppure la penna voleva che firmassi. Intanto mi colarono un paio di gocce di sangue dal naso, che asciugai con la manica della maglietta. Mi diedero un’altra penna.
Rimasi un attimo indeciso. Il mio cuore continuò a opporre resistenza, mentre la mia mano firmava la dichiarazione. Le guardie sorrisero soddisfatte. Mi diedero subito una bottiglia d’acqua. Ne bevvi subito una buona metà, l’altra la lasciai per la sera. Mi portarono in infermeria e mi misero cinque punti da una parte della testa e sette dall’altra. Mi fecero una puntura contro il dolore e mi diedero un paio di aspirine. Quando tornai in cella, trovai la mia roba, una pagnotta di pane, delle mele e del formaggio. Una delle guardie, con i baffi folti, prima di chiudermi il blindato mi gridò: «Rimarrai in isolamento totale per sei mesi».
Avevo le lacrime agli occhi, ma le ricacciai indietro. In quel momento pensai che ero stato un vigliacco a firmare quella dichiarazione. E per punizione non mi sarei dato il permesso di piangere. Erano trascorsi un paio di mesi ed ero ancora nella cella di punizione, in isolamento totale. Non mi era consentito vedere, né parlare con nessuno. La mia cella sembrava una scatola di sardine. Un fazzoletto di cemento, con una branda piantata al pavimento. A malapena riuscivo a stare in piedi, e potevo fare solo qualche passo avanti e indietro. Probabilmente, vivendo il quel modo, un animale sarebbe morto. Una notte, era l’ultima dell’anno, era passata la mezzanotte e le guardie stavano festeggiando rumorosamente il Capodanno. Le guardie erano ubriache. Davano calci ai blindati e urlavano invettive contro i detenuti.
Intuii che presto sarebbero venuti a divertirsi anche da me. Sentii l’odore della paura. Arrivarono e aprirono la cella. Entrarono. Ridevano e barcollavano, sotto l’effetto dell’alcool. Imprecai contro di loro. Iniziarono a colpirmi, prima con i pugni e, una volta finito a terra, continuarono con i calci. Per ripararmi, mi trascinai sotto la branda. Per fortuna lì sotto le guardie facevano più fatica a colpirmi. E se ne andarono presto, a divertirsi con qualche altro detenuto.
Ricordare quei momenti mi provoca una profonda rabbia, è difficile ripensare a quei giorni senza provare di nuovo l’angoscia di allora, temevo che la capacità di reagire del mio fisico non fosse pari alla mia volontà.
"La pena è l’unico non indagato sulla fine di 80 esistenze", la riflessione sui suicidi in carcere dalla solitudine del 41 bis, a cura di Rossella Grasso su il Riformista il 22 Febbraio 2023
Nella solitudine della sua cella un detenuto al 41 bis da oltre due decenni ragiona, carta e penna alla mano, sul dramma dei suicidi in carcere che nel 2022 hanno raggiunto il drammatico numero di 84: persone che in carcere hanno preferito togliersi la vita. Una vera ecatombe che si è consumata nel silenzio delle istituzioni e che speriamo non succeda mai più. Riportiamo di seguito le sue parole nella lettera a Sbarre di Zucchero.
"Dei delitti e delle pene" (1764 C.B). a "I delitti delle pene" (2022)
Oggi dicembre 2022 il dato nefasto è che ottanta (80) Prigionieri nel perimetro di un avamposto Costituzionale si sarebbero giustiziati o sarebbero caduti nella lotta condotta contro i Prigionieri dai giustizialisti della pena(e). La pena(e) in flagranza di delitti obbliga alla seria riflessione critica sulla sua funzione storica e dei suoi effetti nel tempo dei giustizialismi politico/penali. Sono decenni ormai che impera nella comunicazione un preciso richiamo, un mantra, fobico ossessivo sulla certezza della pena, peraltro paura abilmente orchestrata, ma come dimostrato dai dati totalmente infondata. Al contrario invece cinquecentottantatre (583) suicidati in un decennio, e il lecito sospetto se classificarli "Suicidare o suicidi" (spinto al suicidio o uccide se stesso), sono la certezza che dovrebbe interrogare sull’incertezza della funzione Costituzionale della pena.
Quindi Suicidare o suicidio, la pena (e) è l’unico sospettato non indagato sulla fine di ottanta esistenze non vissute, morte nell’anno 2022 dentro un perimetro Costituzionale dello Stato Italiano! Perché? Azzardiamo noi la risposta? Noi che non abbiamo mezzi di indagine a disposizione? Proviamoci. Opera trasversalmente nello spazio politico una maggioritaria componente giustizialista egemone nella comunicazione dell’Agorà dell’informazione. Questa egemonia ben mimetizzata dalla necessità del pubblico dibattito, dà luogo alla formazione di narrazioni viziate geneticamente. La lettura giustizialista della pena(e) racconta con parole emozionali di ottanta vite fragili, del loro inevitabile epilogo, del male interiore che li attraversa, del Montaliano "mal di vivere", dell’esagerata percezione dello stigma… causa ed effetto dell’autodecisione di cessare biologicamente di esistere (suicidio).
A quell’emozionale monologo narrativo omologante, manca il necessario scetticismo metodologico per iniziare una razionale ed esaustiva riflessione critica. Proviamo noi, imprigionati da decenni (30) a ricercare e trattare con severità i (il) perché sulla vita e la scelta di non viverla, operata consapevolmente da esistenze imprigionate nel corpo di cemento della prigione. Esistenze in attesa o all’esito del giudizio che decidono di riappropriarsi di se stessi e trasformare il proprio corpo nel campo dell’ultima battaglia contro la pena.
Adesso, prima dell’epilogo, domandiamoci cosa ha subito quel corpo espropriato dalla pena(e), quale delitto(i) ha commesso la pena su quel corpo imprigionato nel cemento. Iniziamo con una spiegazione in anticipo agli interrogativi sopra posti**. "La pena… è una specifica condizione condizionante che trasforma ‘l’anima’ (del prigioniero) in prigione emotiva di desideri, passioni, sentimenti… agisce nel tempo dell’essere mutilando l’esserci del sentire, del desiderare, delle passioni". a cura di Rossella Grasso
Tre assorbenti, una molletta e docce a tempo: le vessazioni senza senso del 41 bis. Dovrebbe impedire i contatti tra boss detenuti e l’esterno. Ma regolamenti carcerari, le emergenze cicliche e i provvedimenti dei giudici di sorveglianza lo hanno trasformato in un girone infernale. Con abusi, violenze e situazioni kafkiane. Enrico Bellavia su L’Espresso il 13 Febbraio 2023.
Il portone della cella, sbarrato dalle 22 alle 7 in estate e dalle 20 in inverno. L’interruttore della luce, fuori, in corridoio. Libri centellinati e dalla biblioteca interna, mai più di uno, quattro se si studia. Ci sarebbe il dvd, a proprie spese, ma solo per leggere cd e mai la notte. L’abbonamento ai giornali, senza edizioni locali: potrebbero veicolare messaggi. E anche la tv ha un menu bloccato. La radiolina, solo in modalità Am. A passeggio nel cubicolo per due ore al giorno e una di attività fisica o socialità. Ovvero lo svago, al massimo con altri quattro detenuti: un mazzo di carte, qualche gioco da tavolo nell’area comune. Il computer, quando c’è, sta lì. Doccia due volte a settimana, tranne che per i superboss che l’hanno in cella. Il getto, equanime, dura però dai tre ai sette minuti. Una visita dei parenti al mese, dietro al vetro, e per un’ora. Neppure quella, se si opta per una telefonata di dieci minuti. Controllata come i colloqui. Il pacco con viveri e biancheria, al massimo dieci chili.
Più che duro doveva essere blindato. Impermeabile dall’esterno, a compartimenti stagni all’interno. Questa era l’intenzione di chi immaginava un carcere che, nel recinto della Costituzione, fosse in grado di interrompere il circuito di informazioni tra affiliati a mafia e terrorismo. Niente notizie, niente ordini, niente pizzini, nessun contatto fisico tra detenuti e familiari. Poche interazioni e mai tra componenti di uno stesso clan o di clan alleati. Controlli rigorosi, ascolti, telecamere e gli occhi degli agenti a scrutare ogni mossa e a memorizzarla.
Il 41 bis, la norma dell’ordinamento penitenziario massicciamente applicata dopo l’orrore degli eccidi del 1992-1993, salvo alcuni episodi, ha realizzato quell’obiettivo. Lo ha mancato quando l’ordine di uccidere passato dalle maglie dei rigori ha colpito gli stessi agenti della polizia penitenziaria.
Ha contribuito a stroncare la dittatura corleonese, ha poi spezzato la catena di proselitismo delle rinnovate Br. Ha scongiurato altro sangue. E alimentato un patrimonio di informazioni su quel che covava sotto la cenere. Perché il carcere è da sempre lo specchio di ciò che avviene nell’universo delle cosche. Voci di dentro, che la reclusione amplifica, segnali che, se colti, anticipano i tempi.
Ma il 41 bis si è trascinato dietro anche una quantità di danni. In larga parte evitabili. Perché non la norma ma la sua applicazione, la prassi e la discrezionalità, fatta di circolari ministeriali, regolamenti carcerari, provvedimenti dei magistrati di sorveglianza, hanno generato disparità, abusi, interventi estemporanei, fino a farne un surplus di pena, al limite della tortura. In un impasto di pressioni psicologiche e situazioni kafkiane.
L’albo dei ricorsi ne è pieno. Friggere melanzane due ore prima del pranzo è violazione da punire. Da fuori, sì alle patate al forno ma niente pollo. Per le dodici donne su un totale di 738 ristretti al 41 bis (nel ’93 erano poco di più di 500) c’è il limite al numero di assorbenti: tre. La nipotina alla quale è stato concesso di abbracciare il nonno per dieci minuti oltre il vetro ha però scartato una merendina. Il rumore ha coperto la registrazione e la circostanza è finita in una nota. La lista dei generi acquistabili a Opera è una, a L’Aquila cambia. Anche il numero di mollette da bucato è ballerino. Una o dieci da un carcere all’altro. E la risposta al ricorso contro l’applicazione del 41 bis (4 anni, poi estesi di biennio in biennio) arriva anche dopo che è stata confermata la proroga. E si ricomincia.
Il sistema che si arrabatta tra organici carenti, strutture fatiscenti e sovraffollate, lungaggini burocratiche e giudiziarie, non trova certo lì il proprio riscatto.
In nome di successi innegabili, poi, ci sono le violenze, tollerate, talvolta negate fino all’insabbiamento, relegate a una sorta di metaverso abitato solo da garantisti e pochi legali.
Come Rosalba Di Gregorio, che da avvocato di fede radicale non ha taciuto. Non lo ha fatto quando il falso pentito della strage Borsellino, Vincenzo Scarantino, incubato proprio nell’inferno di Pianosa degli anni ’90 diventò l’accusatore eterodiretto che ha lasciato in cella per 25 anni sette ergastolani innocenti. Era il tempo delle irruzioni notturne delle temibili squadrette, dei soprusi, delle perquisizioni corporali a familiari e detenuti anche molto invasive. Del «pèntiti o marcisci qui dentro» e giù calci e vessazioni. Di Calogero Ganci, rampollo dei Corleonesi raccontarono che non sopportasse quella galera. Da pentito confermò: «A Pianosa i detenuti erano massacrati di botte. Il cibo arrivava con gli stessi carrelli della spazzatura».
Da allora molto è cambiato, l’Asinara e Pianosa chiuse, alcuni correttivi introdotti ma sul rispetto rigoroso dello spirito del 41 bis bisognerebbe stare attenti a non deragliare. Tanto più adesso, di fronte al digiuno di Alfredo Cospito. Con trent’anni da scontare, fino a qualche mese fa poteva pubblicare sulle riviste anarchiche. Con il cambio di imputazione si è ritrovato al 41 bis. Quando forse sarebbe bastato lasciarlo nell’alta sicurezza censurandogli la posta.
Sostanzialmente indifferente ai tormenti penitenziari che non hanno grande appeal, neppure quando il numero dei suicidi dietro le sbarre raggiunge il numero di 84 in un anno, la giustizia da talk show replica il cliché. Richiama in servizio buonisti e manettari che oscillano tra Parlamento e salotti tv. E dà il via alla bolgia. Perfino l’ovvio, e cioè che i mafiosi guardano con favore alla battaglia di Cospito, anziché rafforzare la convinzione di attenersi al dettato della norma ed evitare derive indiscriminate, diventa terreno di speculazione politica d’accatto. Perché per difendere la bontà di uno strumento ritenuto essenziale bisognerebbe preservarlo dalle storture. E la vicenda dell’anarchico, con il suo boomerang mediatico, sembra andare nella direzione opposta, quella afflittiva, quasi una pena accessoria. Esemplare. Che la natura del 41 bis non ha. O non avrebbe mai dovuto avere.
Vi racconto l’orrore di chi è stato nutrito con tubi e manette. La trappola si annida nel momento in cui l’anarchico in sciopero della fame potrebbe perdere la capacità di rifiutare, ora per ora, di mangiare. Che è la stessa trappola di quando si rifiuta un trattamento sanitario. È giusto moralmente e dovremmo obbligare chi non vuole? Chiara Lalli su Il Dubbio il 2 febbraio 2023.
Due energumeni fanno sedere Michael Desiato su una sedia, gli legano le caviglie, i polsi, gli avambracci, le spalle e – dopo avergli chiesto per l’ultima volta se vuole mangiare o almeno bere qualcosa – la testa in modo da tenerla ben ferma e impedirgli di girarsi. Poi gli infilano un sondino nel naso per nutrirlo e idratarlo. Desiato è in prigione e ha smesso di mangiare. Desiato è un personaggio di una serie tv, Your Honour, che ha deciso di lasciarsi morire per motivi che è inutile raccontare e quella è una scena dell’orrore. Sì, certo, serve a non farlo morire. Ma basta a giustificare una operazione invadente e dolorosa e per cui serve un consenso? Sebbene fatta per il suo bene (o meglio, per farlo sopravvivere), non è immorale e inammissibile e ingiustificabile?
Ci ho ovviamente ripensato dopo aver letto che Alfredo Cospito avrebbe scritto di non voler essere nutrito artificialmente. Cioè non vuole essere legato a una sedia e avere qualcuno che gli ficca un tubo nel naso o in gola, oppure non vuole essere legato a un lettino, sedato e sottoposto a un intervento chirurgico per mettergli una Peg, che è una specie di tubicino per farti arrivare la nutrizione direttamente nello stomaco. Che questo possa accadere non dopo una sedazione ma in caso di perdita di conoscenza di Cospito non cambia la domanda morale e quella normativa: sarebbe giusto e dovremmo obbligarlo? Perché la trappola si annida nel momento in cui Cospito potrebbe perdere la capacità di rifiutare, ora per ora, di mangiare. Che è la stessa trappola di quando si rifiuta un trattamento sanitario – mettiamo un massaggio cardiaco – e poi quando il tuo cuore si ferma un medico ben intenzionato ti massaggia e un altro arriva col defibrillatore. È giusto moralmente e dovremmo obbligare chi non vuole?
Valentina Stella
È una domanda che vale per tutti se siamo d’accordo che i detenuti mantengano alcuni diritti. Non quelli di stare in giro e di uscire, ma alcuni diritti fondamentali e che riguardano soltanto la loro vita e la loro salute. Cospito, ormai lo sanno tutti, rifiuta di mangiare da moltissimi giorni per delle ragioni che non sono rilevanti per rispondere a quelle domande. Possiamo non essere d’accordo né con le sue giustificazioni, né con la sua decisione, possiamo perfino ignorare le ragioni per le quali ha deciso di non mangiare più e per cui è detenuto. Perché le domande importanti sono altre: è capace di capire le conseguenze delle sue decisioni, cioè è in grado di intendere e di volere, e la sua decisione è davvero la sua? Se rispondiamo di sì, sarà difficile non rispettare la sua volontà. E sarebbe ripugnante aggirarla quando non sarà più cosciente.
Sarebbe anche normativamente rischioso? Perché se è vero che la legge sulle disposizioni anticipate ci permette di allungare la nostra volontà al tempo in cui non saremo in grado di esprimerla, è anche vero che nella legge c’è scritto che «il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita».
Chiara Lalli
Sul fatto che la nutrizione (forzata) migliorerebbe la condizione di Cospito – non facendolo morire – non ci sono molti dubbi. Proprio come una trasfusione di sangue. Ma, di nuovo, la domanda non è questa e chissà se può diventare una giustificazione. Se rispetto la tua volontà muori, se non la rispetto vivi. Quindi?
Non è il primo caso di sciopero della fame in un carcere e già avrete pensato a Bobby Sands, che l’ultimo giorno del suo diario scrive “hanno provato a darmi del cibo, me l’hanno messo davanti e io ho continuato a comportarmi come se nessuno fosse lì”. E ci sarebbero tante leggi e tanti altri casi di cui parlare. Ma ne voglio nominare solo due. Il primo è il caso Yakovlyev v. Ukraine (la sentenza della Corte di Strasburgo è dello scorso 8 dicembre) e in particolare come Andriy Gennadiyovych Yakovlyev descrive la “procedura”: è stato ammanettato con le mani dietro alla schiena e tenuto fermo da molti agenti di custodia; uno di loro gli ha infilato a forza un tubo in gola facendogli male e facendolo soffocare; la procedura è durata dai 30 ai 90 minuti.
Il secondo è l’articolo 8 della dichiarazione di Tokyo, cioè le linee guida per i medici riguardo alla tortura e altri trattamenti degradanti di persone imprigionate o detenute: quando un detenuto rifiuta di mangiare ed è capace di capire le conseguenze di quel rifiuto, non deve essere nutrito a forza.
Pensiamo davvero di svicolare da questo obbligo nel momento in cui quella persona non è più in grado di esprimere un rifiuto attuale (ma lo ha detto e lo ha scritto)? Dovremmo almeno ammettere che non lo stiamo facendo per lui.
Il dramma dell'ergastolo ostativo. Dopo 33 anni tocca la mano della moglie e muore, tragedia e ferocia del 41 bis. Carmelo Gallico su Il Riformista il 2 Febbraio 2023.
Percorro il corridoio del reparto di pneumologia dell’ospedale San Paolo di Milano confuso tra i visitatori dei pazienti. Stanza numero 8. La porta è aperta. Scorgo il volto scarnito di mio fratello abbandonato sul cuscino. Sotto la mascherina dell’ossigeno si avverte il suo affannoso respirare. Sono trascorsi più di trent’anni dall’ultima volta che l’ho visto, ma i suoi tratti mi sono subito familiari come se da allora il tempo si fosse fermato. Per lui, da quel momento di 33 anni fa, si era già fermata la vita. Lo guardo e provo la sensazione di un violentissimo pugno allo stomaco e il mio respiro si ferma e si affanna insieme al suo. Vorrei varcare quella porta. Andargli incontro.
Abbracciarlo, prendergli la mano, dirgli: sono qua, mi vedi? Mi senti? Mi riconosci? Ma non posso. Il mio nome non è nella lista dei soggetti autorizzati dal magistrato a entrare per dargli un ultimo saluto. E poi non potrebbe vedermi, né riconoscermi, né rispondermi. Lo hanno restituito così alla famiglia: agonizzante, in stato di incoscienza, a un respiro dalla fine. Ma questa è la prassi normale adottata per i detenuti al 41 bis. La morte di mio fratello ha un nome: fibrosi polmonare; e ha un invincibile alleato: il 41 bis. Era da anni che quella fastidiosa tosse lo tormentava: colpa delle sigarette fumate in passato, dicevano i medici; un po’ di sciroppo al bisogno può bastare. Ma niente, di passare non ne voleva sapere e anzi con il tempo diventava sempre più insistente, con il fiato che si faceva più corto. Inutile tentare di rubare una boccata d’aria da qualche spiffero filtrato dalla finestra.
Al 41 bis le finestre sono coperte da paratie, gli spifferi si fanno pugnalate e l’aria si impasta di polverosa ruggine e cemento. Ventitré ore da trascorrere in cella e l’ora d’aria in un cubo dalle alte pareti ricoperte da una fitta rete. Anche il passeggio cominciava a diventargli pesante. Prima era un frenetico andare su e giù; ultimamente le soste per riposare si erano fatte più lunghe del tempo dei passi e l’ora d’aria si trasformava in un’ora d’affanno. Quando decidono di sottoporlo a una TAC la situazione è già irrimediabilmente compromessa: fibrosi polmonare, malattia incurabile, progressiva a rapida evoluzione. Meno di un anno di vita – in condizioni salubri normali e di assistenza medica adeguata – e l’unica speranza nel trapianto cuore-polmoni. Ventitré ore di cella, un ora nel cubo di cemento; solo lui e quelle mura, l’unico sostegno ai suoi passi sempre più infermi.
Occorre il supporto di una bomboletta d’ossigeno e ridurre i movimenti per risparmiare fiato. È la primavera dell’anno terminato da poco. Gli avvocati si premurano di presentare istanza al magistrato di sorveglianza: le condizioni di salute sono gravi; sussistono tutti i presupposti per il differimento della pena, anche nella forma degli arresti domiciliari, per consentirgli almeno di morire dignitosamente assistito dai propri cari in un ambiente adatto alle sue condizioni. È in carcere dal febbraio del 1990 senza interruzione; condanna all’ergastolo ostativo, 41 bis. Il magistrato di sorveglianza rigetta l’istanza dei difensori e trasmette gli atti al Tribunale. Intanto le sue condizioni si aggravano di giorno in giorno: respira sempre più a fatica, il supporto dell’ossigeno diventa costante; in carcere non si può che disporre delle bombolette della durata massima di due ore.
Notte e giorno non c’è tempo per il sonno né tempo per il riposo, ogni due ore serve nuovo ossigeno che lo tenga in vita e forse quella flebile speranza che un magistrato decida per tempo e gli consenta di accedere a una adeguata assistenza. Si disidrata, stenta a nutrirsi, diventa malfermo sulle gambe. Ma ha una data scritta sul calendario: 11 novembre 2022, l’udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza che dovrà decidere sulla sua scarcerazione è stata finalmente fissata. La gravità delle sue condizioni induce gli avvocati a riproporre istanze d’urgenza al magistrato di sorveglianza e solleciti di anticipo dell’udienza che diventano una corsa contro il tempo. Niente da fare. Ogni richiesta, ogni sollecito, cade nel vuoto. E l’11 novembre arriva, l’udienza si tiene, il tribunale si riserva la decisione. Ma poi anziché decidere, sposta il limite del tempo: un’altra udienza al 25 novembre per l’asserita necessità di acquisire ulteriori notizie e integrazioni.
Un’altra corsa contro il tempo. Le informazioni richieste arrivano prima dell’udienza, confermano la gravità delle condizioni, l’imminente pericolo di vita, l’incompatibilità delle sue condizioni con la detenzione, la possibilità di accoglienza in una struttura in cui poter essere assistito dai suoi familiari. Eppure il Tribunale riesce ancora a inventarsi un ulteriore rinvio. Questa volta il 27 gennaio. Nessuna motivazione sulle ragioni dello slittamento dell’udienza. Ma mio fratello l’avrebbe ancora avuto tutto questo tempo per vivere? E come avrebbe affrontato e superato le difficoltà della malattia nella solitudine e nell’abbandono in quella cella del 41 bis? Il sospetto, legittimo, è che la pavidità della magistratura di sorveglianza, non priva di buona dose di calcolato cinismo, abbia delegato al tempo la “soluzione” della vicenda. La casistica dei decessi dei detenuti al 41 bis del carcere di Opera, in casi analoghi e in ossequio alla medesima strategia dilatoria delle decisioni sulle istanze di scarcerazione (almeno sei nell’ultimo anno), ne dà conferma.
La legge in certi casi viene aggirata, elusa, non applicata per l’adesione a quel conformismo della “morale” secondo il quale certi detenuti, in specie i detenuti al 41 bis e i condannati all’ergastolo ostativo, non meritano neanche la pietas umana in punto di morte. Allora meglio non decidere. Dalla fissata udienza del 25 novembre in poi, i difensori di mio fratello, le cui condizioni di salute precipitavano, inoltravano istanze di sollecito di anticipazione della data di udienza, tra l’altro rinviata senza nessun motivo plausibile e nonostante l’urgenza del caso, che la magistratura di sorveglianza di Milano ha sistematicamente ignorato. Si sa, meglio non farsi succedere niente sotto le feste di Natale Il 24 gennaio scorso, l’ultima grave crisi respiratoria costringe il suo ricovero nel reparto protetto penitenziario all’interno dell’Ospedale San Paolo di Milano.
Sia chiaro: a chi immagina un ambiente simile a quello ospedaliero va subito detto che tutti i detenuti portati in quel reparto preferiscono la propria cella alla stanza ospedaliera: una tomba scavata nel cemento. Niente finestre, niente arredi e televisione, né voce umana. Il senso claustrofobico di solitudine e abbandono in quell’asettico buco senza uscite è più temibile della morte. Nonostante il ricovero nella struttura ospedaliera, la situazione precipita al punto da far decidere ai medici di attuare la terapia palliativa con sedazione del morente. È il 26 gennaio, manca un giorno alla udienza fissata in Tribunale. Una bravura ai magistrati di sorveglianza di Milano bisogna tuttavia riconoscerla: nel fissare l’udienza di rinvio hanno indovinato quasi al secondo le prospettive di vita rimaste a mio fratello. Ormai si poteva decidere, rispettare la forma, e lavare la coscienza: un provvedimento del magistrato di sorveglianza in via d’urgenza dispone il differimento della pena nella forma degli arresti ospedalieri, senza dimenticare, ovviamente, di richiamarne lo spessore criminale, i pericoli e la pericolosità emerse dalle informative delle varie dda dna e bla bla bla, con prescrizioni, come non allontanarsi dal reparto, non intrattenersi con pregiudicati che se non fosse una situazione tragica farebbero pure sorridere.
Solo il 27 gennaio il provvedimento viene eseguito, e mio fratello portato in un reparto ordinario dello stesso ospedale San Paolo. La corsa dei familiari per giungere in tempo per un ultimo saluto è fatta di aerei, taxi, telefonate alla ricerca di informazioni e notizie. La mattina del 28 solo la moglie riesce a rubare alla morte un attimo ancora della sua vita, un lampo di coscienza, una mano che tornava a stringersi dopo oltre 30 anni della separazione imposta dal vetro divisorio che impedisce qualsiasi contatto fisico ai detenuti del 41 bis. I figli, gli altri familiari “autorizzati”, si sono dovuti accontentare di vederlo agonizzante e ormai incosciente, o come me, attraverso uno sguardo rubato a quella porta socchiusa sul corridoio.
Tra la notte del 29 e le prime ore del 30 gennaio, la morte gli ha restituito la libertà e la dignità che il cinismo umano della gente perbene gli ha negato fino al suo ultimo agonizzante respiro. La sera del 30 hanno restituito ai familiari i suoi pochi effetti personali. Mentre ci avviavamo per il rientro, un corteo di auto della polizia penitenziaria ed elle altre forze dell’ordine scortavano Alfredo Cospito nel carcere di Opera. La cella lasciata da mio fratello ha trovato il suo nuovo ospite. Fortunatamente Alfredo non ha alcuna patologia irreversibile. La sua vita è una vita che può essere salvata, è una vita che deve essere salvata e non consente elusioni e pavidità, temporeggiamenti e richiami a valori di leggi che in verità non coincidono con i valori di civiltà che il nostro paese deve ancora tenere come unico e irrinunciabile principio da rispettare e salvaguardare. Il taxi arriva: lasciamo mio fratello con il dolore della perdita di un congiunto e l’amarezza di una verità conservata nei nostri cuori: la sua pena, la sua condanna, da uomo innocente per un reato che non ha commesso.
Carmelo Gallico
«A noi ergastolani ostativi lo Stato non lascia alternative: morire in carcere, farsi uccidere o fare ammazzare qualche familiare». Parla Salvatore Pezzino, detenuto da circa 40 anni, che aveva chiesto l'accesso alla liberazione condizionale: la Cassazione aveva sollevato il dubbio di legittimità costituzionale ma la Consulta ha rimandato la decisione alla Suprema Corte. Valentina Stella su Il Dubbio il 19 dicembre, 2022
Se è vero che la Corte Costituzionale è il giudice delle leggi, allo stesso tempo è altresì vero che le decisioni che assume ricadono sui cittadini. È il caso di Salvatore Pezzino, detenuto che, seppur ergastolano ostativo, aveva chiesto l’accesso alla liberazione condizionale e la Corte di Cassazione (relatore il consigliere Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Anm) aveva poi sollevato dubbio di legittimità costituzionale. Come sia andata a finire ve l’abbiamo raccontato spesso.
L’ultima tappa, solo in ordine di tempo, è la decisione della Consulta di rinviare tutto in Cassazione, pur avendo scritto che l'ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione. Oggi però vogliamo dare voce al signor Pezzino in carcere da circa 40 anni, da quando aveva 22 anni.
L’uomo è finito in prigione per diverse condanne: tentato omicidio, rapina aggravata, omicidio con l’aggravante dell’associazione mafiosa. Insomma, per qualcuno è il male assoluto. Eppure è cambiato, si è ravveduto e oggi, anche se a fatica, guarda al futuro. Adesso è rinchiuso a Tempio Pausania: abbiamo potuto raccogliere i suoi pensieri grazie all’intermediazione epistolare del suo avvocato Giovanna Araniti, che da anni si batte in tutte le sedi per ridare una speranza di libertà al suo assistito.
Lei è in carcere dal 2 dicembre 1984. Quasi quarant’anni. Cosa significa stare tutto questo tempo in una cella?
Spiegare come si sopravvive decenni in uno spazio vitale spesso al di sotto dei due metri quadrati non è facile. Forse è il non voler morire a nessun costo, andare avanti contro ogni logica, oppure la vita è così bella da essere vissuta in qualsiasi modo. Non c’è nulla di umano in una cella, che è una gabbia a tutti gli effetti. Gli animalisti contestano gli zoo perché è disumano tenere gli animali in gabbia che fanno avanti e indietro in modo ossessionante. Lo stesso fanno i carcerati nelle celle ma nessuno obietta. Negli anni gli addetti ai lavori sono stati bravi a modificare i termini sicché le “carceri-zoo” vengono chiamati Istituti e le “celle-gabbie” stanze di pernottamento. Durante gli anni trascorsi ad affrontare i processi ho avuto un crollo totale, rabbia, odio, disperazione. Ho pensato alla morte per molto tempo, ci parlavo, ci ragionavo, e credo di esserci arrivato a un passo, ma non sono capace di fuggire, voglio arrivare fino in fondo. Così mentre ero in isolamento a Sulmona per circa un anno senza parlare e vedere nessuno, imbottito di psicofarmaci e sedativi, ho deciso di vivere, anche se ogni forma di orgoglio e dignità veniva sbriciolata.
Lei è stato ospite di diversi istituti di pena. È d’accordo nel dire che spesso le condizioni di vita sono disumane e degradanti?
La risposta è molto facile: tutte le carceri sono disumane e degradanti. Le riforme vengono tenute nei cassetti, le leggi ci sono ma non vengono applicate. Qualche esempio: impianti di riscaldamento inefficienti, ventilatori inesistenti quasi dappertutto; le carceri d’estate sono forni e d’inverno freezer.
Qual è stato il carcere peggiore dove è stato rinchiuso?
C’è l’imbarazzo della scelta. I trasferimenti sono stati quasi tutti punitivi e casualmente finivo sempre in super carceri punitivi. Negli anni 80 non conoscevamo le riforme né avevamo consapevolezza della “umanizzazione della pena”, sicché carceri come l’Ucciardone con le bocche di lupo in pietra (nel sistema carcerario le bocche di lupo sono delle strutture collocate all’esterno di piccole aperture presenti nel muro in modo da permettere solo il passaggio dell’aria. Erano in uso nelle prigioni medievali, ndr) alle finestre e 20 ore chiusi in cella a fumare e giocare a carte era la normalità. Oppure nella famigerata “diramazione Fornelli” dell’Asinara dove c’era soltanto un bagno alla turca, l’acqua non era potabile, si andava a colloquio con i familiari con gli indumenti dell’amministrazione per distinguere sempre i detenuti dai civili (io per cinta avevo un pezzettino di spago e una scarpa senza tacco).
Ma tutti lavoravamo con una paga di circa 700-800 mila lire al mese e si aveva la sensazione di libertà perché non c’era muro di cinta ed eravamo in campagna e poi in estate ci facevano fare un bagno settimanale al mare scortati dalle guardie. Cominciando a capire le riforme e facendo pressioni sugli operatori trattamentali affinché le carceri divenissero luoghi di “attività” e non di “apatia” ovviamente con l’aiuto dei volontari e delle Associazioni la nostra mentalità cominciò a cambiare, ma non quella di tutti gli operatori. Purtroppo in alcune carceri continuano i pestaggi in isolamento e ‘celle lisce’: non si capisce più chi sono le guardie e chi i criminali.
Un carcere di questo tipo è in grado di rieducare?
Rieducare in queste condizioni non è pensabile. Devo ammettere per onestà che ho conosciuto educatori, assistenti sociali, agenti di polizia penitenziaria, magistrati di sorveglianza onesti, professionali ed umani. Ma sono pochi. Il detenuto ha bisogno di avere fiducia e di essere preso in considerazione. Occorrono riferimenti culturali che non siano criminogeni contro i detenuti stessi: ci vogliono figure esterne con cui poter dialogare, confrontarsi, percepire i veri valori sociali ed umani e farli propri. Non si può rieducare un detenuto se per 30 anni lo si tiene alla catena costringendolo a odiare tutto e tutti. Da carnefice diventa vittima e lo Stato ha perso la sua funzione.
Chi è l’uomo che è entrato in carcere e chi Salvatore Pezzino oggi?
Ero un ragazzo tanto educato quanto spavaldo, arrogante, pronto sempre allo scontro con chiunque mi mettesse in discussione, con un livello culturale pietoso. Negli anni ho sempre cercato di migliorarmi e colmare questa carenza frequentando persone al di fuori dei contesti carcerari e studiare per quanto mi è stato possibile. La sofferenza mi ha fatto cambiare un po’ per volta, la vita mi ha imposto delle scelte da cui non si torna indietro. La pena peggiore è rendersi conto delle proprie azioni e doverci convivere tutta la vita. Non so più chi sono, il carcere ti spoglia di tutte la personalità e dignità (in questi 38 anni la demolizione psico-fisica ha fatto un lavoro devastante), sono certamente un uomo stanco, deluso da tutto e tutti e sono solo alla ricerca di un luogo sereno.
Come è avvenuto il suo percorso di rieducazione?
In carcere ho frequentato corsi, scuola, teatro con insegnanti e volontari. Mi hanno dato sempre la spinta per migliorarmi e dare un buon esempio di me. Loro mi hanno davvero motivato in modo incredibile a revisionare la mia persona per assumere comportamenti consoni ad una società civile.
Cosa farebbe se un giorno riuscisse ad essere un uomo libero?
Pensare di tornare ad essere un uomo libero mi crea molte contraddizioni al momento. Da molti anni avevo un pensiero fisso: tornare nella mia vallata dove un tempo c’era una fiorente azienda agricola e allevamento di bestiame. A causa del mio arresto e in seguito alla morte dei miei genitori e con la revoca della semilibertà nel 2000 tutto venne abbandonato e ridotto a canneti e rovi. Il mio programma di vita era di reimpiantare tutto e far ritornare la valle fiorente come un tempo. Ho avuto anche modo e tempo di diplomarmi in agraria (un altro traguardo raggiunto) e questo era diventato il mio chiodo fisso. Adesso ho molti dubbi, comincia a venirmi meno la voglia di libertà, come se la cosa mi lasciasse indifferente. Non si può reggere a oltranza uno stillicidio mentale, non si può accettare di essere uno strumento “politico-ideologico” per accontentare il partito di turno o il giudice di turno. Sono molto stanco, cerco di non mollare facendo appello a tutto il mio orgoglio, ma non trovo appiglio.
Cosa risponde a chi si è detto contrario alla decisione della Corte Costituzionale, a chi vorrebbe che alcune persone rimanessero in carcere fino alla morte?
“Buttare via la chiave”, “pena certa”, “ergastolo fino alla morte”: sono le frasi che tutti i familiari delle vittime hanno il diritto di dire. Non si può controbattere al dolore di un familiare, abbiamo l’obbligo di ascoltare in silenzio tutto il loro sfogo. Il dramma è che ciò viene sostenuto anche da politici e giudici: hanno giurato sulla bandiera e sulla Costituzione. I giudici dovrebbero essere terzi dinanzi alla persona che giudicano e gli uomini e le donne delle Istituzioni non sono i familiari delle vittime, sanno che le leggi sono imperfette (come l’uomo), che non c’è equità tra il reato e la pena irrogata, sanno che le strutture carcerarie sono un abominio (così come i crimini), che le pene senza sconti producono una percentuale altissima di recidivi, che la figura del magistrato di sorveglianza è stata istituita anche per rivedere, nel tempo, il percorso di un condannato nell’opera di rieducazione per modificare la sua pena se meritevole. Io non sto chiedendo pietà né qualcosa per cui non sia meritevole, mi guardo allo specchio e ritengo di chiedere un mio diritto, così come i giudici hanno l’obbligo di assumersi le responsabilità delle loro decisioni e non fare ‘scarica barile’ o seguire correnti per loro ambizioni di carriera.
Un ergastolano una volta mi ha confessato: meglio la pena di morte al fine pena mai. Che ne pensa?
I sentimenti che si provano nel chiuso di una cella per anni sono davvero inimmaginabili, non è facile tradurre a parole. Molti pensano alla pena di morte come risoluzione (per questo in carcere vi è un così alto numero di suicidi) ma a condizione che arrivi subito, non dopo 25 o 30 anni. Diventare un relitto umano dopo decenni di prigionia, un disadattato, perdere la ragione nella speranza di una libertà che non arriverà, ammalarsi per finire i giorni in una branda come un vegetale senza le cure adeguate, è certamente il peggio che può succedere ad un ergastolano. Per questo ci auguriamo un infarto fulminante. È pur vero che nel tempo qualcosa può succedere: a qualcuno è stata riconosciuta l’innocenza, ad altri la pena è stata commutata in 30 anni, altri ancora sono riusciti ad accedere ai permessi premio, quindi sono dell’idea che, seppur tra sconforto e sofferenza, il “gioco vada portato avanti fino alla fine” perché finché c’è vita c’è speranza, finché la lucidità regge.
Vuole fare un appello al giudice di Cassazione che dovrà riesaminare il suo caso tra qualche mese?
Vorrei rammentargli che da quando è stata varata la Legge Gozzini (ritenuta l’unica legge umana in Italia) con tutte le altre forme di misure alternative alla detenzione, decine di migliaia di detenuti si sono rifatti una vita, voltando le spalle al loro passato. La percentuale di recidiva è stata messa in conto e ben valutata: quella percentuale non si è mai lontanamente avvicinata alla soglia di guardia. Ciò che fa sempre scalpore in Italia sono i singoli casi - talvolta certamente crimini orrendi – che sono strumentalizzati da una certa parte politica e da una certa informazione per condizionare l’opinione pubblica per portare avanti una lotta di bandiera per accaparrarsi voti elettorali. Ma che io ricordi questo al giudice di Cassazione è irrilevante: ben conoscono i sistemi politici e le “ragioni di Stato” per cui l’emergenza criminalità viene sempre “ravvivata periodicamente”, come ha fatto adesso Giorgia Meloni.
Vuole aggiungere qualcosa che ritiene importante dire?
Spessissimo in televisione si vedono testimonianze di persone con il volto celato per paura di denunce, ritorsioni o perdita del lavoro. Ai detenuti per reati di mafia, che magari stanno facendo un percorso in solitaria per chiudere un capitolo negativo della loro vita senza ulteriori conseguenze, viene chiesto di mostrare la faccia per fare nomi e cognomi di ipotetici complici o ritenuti tali (e coloro che sono innocenti?) con la conseguenza che questo causerebbe gravi ritorsioni per sé stesso e i propri familiari. Sicché la questione diventa: morire in carcere oppure farsi uccidere o fare uccidere qualche familiare? Usare questi sistemi di vendetta o ritorsione politica, giuridica e sociale è un sistema abietto e criminale, al pari del criminale stesso.
Lettere dal carcere a Sbarre di Zucchero. Ecco come vive un ergastolano al 41bis: “Questa non è giustizia”. Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Gennaio 2023
D. è stato condannato a 3 ergastoli e sottoposto al regime di carcere duro del 41 bis. Di lui ci racconta la sua amica C. che, nell’inviare un suo scritto a Sbarre di Zucchero, ci racconta di lui e di come il 41 bis e lo abbia reso un “diversamente vivo”. E di lui C. ci dice: “Per lui la scrittura -che passa dalla censura- vorrei fosse una salda scala nel dimostrare che è un uomo nuovo. Io voglio fare in modo che D. veda la luce e non per un’ora soltanto. Ha sofferto abbastanza. E sarebbe ora gli venisse concesso di dimostrare, oltre le etichette, chi è il D. di oggi. È una vicenda particolare la sua. Gli altri ergastolani spesso mi hanno detto che c’è stato un accanimento nei suoi confronti… il problema è che viene accusato di essere tutt’ora un boss di cosa nostra ma, sinceramente, anche ammettendo questa possibilità, come può uno comandare dal 41 bis? Voglio dire che sia lui che i suoi fratelli sono sottoposti a misure durissime da anni… e io percepisco interiorizzazione e il peso di una esistenza in solitudine e dove, per dirla con D. stesso, ‘l’intento non può divenire azione’. Si definisce infatti ‘diversamente vivo‘! Mi ha dato il permesso di diffondere i suoi scritti come credo… Sono io che sto attenta. Non voglio venga strumentalizzato. Difendo la persona perché troppe volte è stato usato in questo senso. Quello che stiamo facendo al momento è un lavoro autobiografico in cui i nostri vissuti si confrontano, ed è incentrato sui 12 punti di un classico programma di auto-mutuo aiuto. È strano come i nostri percorsi siano simili nonostante io lavori nel sociale da sempre e lui sia etichettato tutt’oggi come un boss pericoloso! Giungiamo sempre ad identiche conclusioni ed entrambi, nonostante i lutti, le difficoltà ecc. abbiamo ancora sete di vita e di dare senso alla vita. Una storia di inchiostri che si mescolano ma che un giorno voglio arrivi ad esprimersi nella realtà”.
Qui di seguito le parole di D. sul 41 bis e l’ergastolo ostativo
L’Ergastolo? Domanda impegnativa. Ergasterion: dal Greco “fabbrica di schiavi”. Ergastulum: dal latino “edificio di lavoratori schiavi”. Nella sostanza il potere espropriava quei corpi dal Diritto naturale a vivere la propria esistenza. Ergastolani, cioè uomini, che il potere li tenne in vita segregandoli, non per farli vivere (ma) per obbligarli a non morire; perché la morte libera quei corpi dal rapporto proprietario. Vite, (quelle degli) di ergastolani, che non saranno più vissute. Ebbene, sì sostiene che la Verità è unica, ma è molteplice la sua formulazione in virtù della sua interpretazione sempre storica (quindi) relativa (P). La verità sull’ergastolo è unica e risulta assoluta, com’è l’ergastolo nella sua formulazione giuridica, un imperativo razionale che come la verità, sarà un ‘per sempre’. Con la differenza che la verità libera per sempre, perché la Giustizia è Verità. Mentre l’ergastolo è una condanna che espropria la libertà per sempre. Non fa valere l’esistente. Nega alla vita la libertà. Con l’ergastolo la Verità è Giustizia che svela e rivela che Giustizia e Verità l’ergastolo le ha giustiziate. Ergastolo: una parola che ha senso e significato, connotazione e denotazione. Cioè una pena fino alla morte. Una pena incurante della sofferenza che provoca.
Morte dolorosa espropriata quotidianamente al corpo vivo del condannato. Dyusthonatos! Ecco la Verità che con Giustizia rivela che l’ergastolo è “Distanasia di Stato”: una tecnica che infligge sofferenza, l’opposto della Legalità Costituzionale della pena,.. La vendetta che il potere di punire esercita sulla proprietà di corpi in sub possesso e che senza esserne padrone non ha la legalità Costituzionale né il diritto di appropriazione (di espropriare? Di appropriarsi?) Ebbene, considerato il parossismo della tecnica necrofila esercitata dal potere di punire, sui corpi condannati, l’eutanasia legittima(mente) applicata all’ergastolo metterebbe fine alla distanosia di stato (e) rigenererebbe la Legalità Costituzionale della pena. Risveglierebbe 1200 corpi dal coma irreversibile nel quale vegetano ridando a quei corpi l’esistenza per vivere la vita, e la dignità di uomini, il riconoscimento dei Diritti Umani, dei Diritti Civili e Politici, la riconciliazione in quanto Soggetti di Diritto con il patto sociale e il legittimo ritorno alla comunità di appartenenza. Questa è Giustizia, Verità che libera, lo Stato di Diritto liberale e democratico. L’Ergasterion Dysthonatos non sono la soluzione, anzi risultano un problema. Il Thanatos (morte) dialettica della soluzione.
Ebbene! È solubile un problema che non può ridursi all’esperienza possibile? L’Ergasterion Disthonatos thonatos, lo Sato di Diritto deve (perché può) seppellirli, inumarli, nei loculi del trapassato remoto della Storia. Di fatto, alla vittima dell’ergastolano si aggiunge l’ergastolano vittima dello stesso ergastolo. Cioè al problema del dolore si risponde con la sofferenza come soluzione e thanatos, con Thanatos (morte) contro morte e questo è l’oblio della Giustizia. Questo è il remoto, ancestrale, sentimento di vendetta che annichilisce il presente sentimento di Giustizia -justitia- che il sistema logico razionale nel suo sviluppo storico e dialettico, si pregia definendo questo progresso Civiltà del Diritto. Vittime dell’ergastolano e vittime dell’ergastolo sono tesi e antitesi umane che il Diritto può superare nella circolare sintesi della Giustizia. Questo chiedono le vittime (Giustizia!); Quello chiedono gli ergastolofobici (Vendetta), Ergasterion, jDstanasia, potere di punire, proprietà dei corpi…. Il sintomo è una verità che si fa strada (Lacan). Ergasterion e’ un sintomo il cui significante il significato ha rimosso per troppi decenni dalla coscienza collettiva della civiltà del Diritto. Civiltà del Diritto che ritornando nel perimetro di questa rimozione riesuma i significanti al loro significato, riporta il sintomo (l’ergasterion) nel luogo della Verità e lo risolve con Giustizia con un nuovo imperativo razionale che riconcilia liberando l’uomo, la vittima e l’umanità, proseguendo nel cammino dei Diritti. Consegue il fermo rifiuto della Distanasia come tecnica nel trattamento afflittivo per la riformulazione manipolatoria del recupero reificante (Redificante) del soggetto oggettivato: lo Stato di Diritto!
Ebbene è inopinabile che c’è un’alterità ontologica irriducibile tra Vittima dell’Ergastolano e Vittima dell’Ergastolo. E’ però altresì inconfutabile che l’Ergastolano può essere definito “Vittima di sé stesso” rispetto al delitto, permanendo incolpevole difronte alla responsabilità subita della tecnica Distonasiaca e quindi conservando lo “Status di Vittima” rispetto all’Ergastolo. Il delitto è conseguenza della propria condotta, non è conseguenza tautologica della Distanasia che segue (vizio logico). L’ergastolo è amorale. La Distanasia come tecnica del potere di punire è immorale, l’eutanasia semantica dell’Ergastolo dal Vocabolario Giudiziario è auspicabile. La sua abolizione sarà un balzo dell’umanesimo verso una sempre più civile Società dei Diritti e del Diritto. “Solo un pensiero radicale può affrontare un concetto assoluto” e superarlo. L’uomo è uno spazio dinamico, un campo indefinito sempre in trasformazione. L’uomo è una variabile permanente. È dialettico: Ricorda quel che è stato mentre è radicalmente diverso da quel che era. È il presente che è negazione del passato conservato, mentre è già nel futuro. L’uomo acquisisce sempre elementi di identità che lo rigenerano… È sempre uomo nuovo. L’uomo conosce il Vero. Sente, intuisce il Bello. Vuole il Bene (valore assoluto). L’uomo è l’ente che ha la facoltà di scegliere ciò che vuole essere. L’uomo non può essere compreso nel perimetro dell’assoluto di un atto, quando la sua esistenza è vissuta nel susseguirsi di istanti in divenire in un tempo in movimento che lo rigenera continuamente. L’uomo non è l’errore. L’errore è l’Ergastolo (Dstanato Thonatos)”.
Clare chiude la sua premessa dicendo che: “Il nostro intento è di fare delle cose per dare senso al tutto e renderlo utile. Per esempio D. è l’esatto contrario della mascolinità fragile e tossica e credo abbia tanto da dire ai ragazzi, a quelli che vogliono identificarsi con i gangster e fare i bulli. Io sostengo la sua scelta di non diventare un collaboratore di giustizia. Ha già passato 30 anni dentro il carcere e si rifiuta di uscirne mettendo altri al suo posto ma, nonostante ciò, non odia gli amici che lo hanno però messo lì collaborando”. Rossella Grasso
Così volevano lasciar morire Alfredo Cospito. L’intero centrodestra si sbracciò per spiegare che Cospito meritava eccome il 41 bis e che cedere al ricatto dello sciopero della fame sarebbe stato una cosa da codardi. Dissero che se Cospito voleva morire di fame poteva farlo tranquillamente e che la responsabilità era tutta sua. Piero Sansonetti su L'Unità il 20 Ottobre 2023
La Procura nazionale antimafia ha chiesto che all’anarchico Alfredo Cospito sia tolto il 41 bis. Cioè il carcere duro. Era ora. Non c’era nessunissima ragione per tenere Alfredo Cospito in un regime di carcere duro che oltre ad essere una palese violazione della Costituzione, del diritto internazionale e della dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, è anche una misura del tutto inutile e puramente vendicativa. Pura tortura.
Cospito è un militante anarchico che ha commesso alcuni delitti per i quali ha scontato interamente la pena che gli è stata inflitta da un tribunale, e che ora è dietro le sbarre per scontare una pena ingiusta, infinita, più di 20 anni, per avere realizzato tanti anni fa un attentato che non provocò morti, né feriti, né danni. E perdipiù questa sua pena evidentemente sproporzionata la sta scontando al carcere duro.
Quando alcuni mesi fa Cospito iniziò un lunghissimo sciopero della fame per chiedere di uscire dal 41 bis gli furono tutti contro. O comunque quasi nessuno si schierò a sua difesa. Col giornale che allora dirigevo, “Il Riformista”, fummo tra i pochissimi che prendemmo decisamente le sue difese. Fummo molto rimproverati per questo.
Suscitammo una ampia indignazione quando pubblicammo una lunga intervista a uno dei più vecchi anarchici in circolazione, Lello Valitutti, che in quei giorni si batteva col coraggio di sempre per appoggiare la battaglia del suo amico. Valitutti è un signore più o meno di 75 anni, che vive e si muove in sedia a rotelle e che ha un passato infinito di lotte. Fu arrestato per la prima volta nel 1969, dopo la strage di Piazza Fontana, in quella operazione-provocazione della questura di Milano che voleva addossare agli anarchici la responsabilità di una strage organizzata e realizzata dai servizi segreti e dai fascisti. Lello era lì davanti alla porta della polizia politica nella quale interrogavano con mezzi molto bruschi l’anarchico Pino Pinelli, che alla fine dell’interrogatorio fu gettato dalla finestra e morì.
L’intero centrodestra si sbracciò per spiegare che Cospito meritava eccome il 41 bis e che cedere al ricatto dello sciopero della fame sarebbe stato una cosa da codardi. Dissero che se Cospito voleva morire di fame poteva farlo tranquillamente e che la responsabilità era tutta sua. Il centrosinistra, che era all’opposizione, fu meno drastico, addirittura alcuni suoi esponenti si spinsero ad andare a trovare l’anarchico in carcere. Ma non esagerarono nella battaglia. E nessuno di loro giunse fino a sostenere una ovvietà che ancora fa scandalo: il 41 bis è una norma feroce e illegale.
La battaglia contro Cospito ingaggiata dal centrodestra (forse col dissenso di Forza Italia: ma un dissenso solo parziale e comunque silenziato…) fu il passaggio ufficiale del centrodestra dalle vecchie posizioni garantiste alla scelta di campo fianco a fianco coi 5 Stelle di Conte e Scarpinato. Da quel momento la corsa al giustizialismo ha preso la discesa a rotta di collo. Da quando è al governo, la destra ha creato o avviato la creazione di cinque o sei reati nuovi. Ha aumentato pene per ogni tipo di trasgressione. Ha praticamente abolito l’istituzione del garante dei detenuti (spalleggiata da Conte). Ieri Salvini ha annunciato che sta preparando una legge per l’arresto immediato e il carcere per gli ambientalisti di nuova generazione. Roba da provare un po’ di nostalgia per i tempi di Alfredo Rocco…Piero Sansonetti 20 Ottobre 2023
Estratto dell’articolo di tg24.sky.it lunedì 23 ottobre 2023.
Il Tribunale della Sorveglianza di Roma ha respinto l'istanza di revoca anticipata del 41 bis presentata dalla difesa di Alfredo Cospito, che dall'ottobre del 2022 fino all'aprile scorso ha portato avanti un lungo sciopero della fame contro il 'carcere duro'. La Dna e gli organi centrali di polizia avevano dato parere positivo.
Nel respingere la richiesta di revoca, il Tribunale scrive che Cospito continua ad avere una "estrema pericolosita'" che sarebbe confermata, secondo i giudici, anche dallo stesso parere della Dna, che pure era favorevole al venir meno del carcere duro. I magistrati evidenziano che Cospito ha "infuocato gli animi delle formazioni anarchiche" con la "clamorosa" iniziativa dello sciopero della fame.
Il 57enne leader degli anarchici del Fai-Fri è in carcere in seguito alla condanna per aver sparato alle gambe, a Genova nel 2012, all'allora amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi e per aver collocato due ordigni esplosivi fuori dalla caserma della Scuola per carabinieri di Fossano (Cuneo), nel 2006. Solo il fatto che le bombe artigianali erano state mal congegnate evitò conseguenze e vittime.
Lo scorso 26 giugno, si è concluso anche l'ultimo processo nel quale Cospito era imputato, si tratta di un procedimento nato dall'inchiesta 'Scripta manent', e la Corte di assise d'appello di Torino ha ricalcolato in 23 anni di carcere la pena per strage, in relazione al fallito attentato di Fossano, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha lasciato al giudice del dibattimento la discrezionalità di valutare il riconoscimento delle attenuanti del "fatto lieve", anche nel caso di pena edittale fissata con l'ergastolo.
Il carcere a vita per Cospito - che è recluso a Sassari - era stato richiesto dalla Procura generale. Il leader anarchico ha seguito l'udienza in videocollegamento, ed ha respinto le accuse negando ogni coinvolgimento e parlando di "forzature" e "accanimento" nei suoi confronti. […]
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La lezione dello Stato a Cospito. Andrea Soglio su Panorama il 07 Aprile 2023
L'anarchico ha allargato la sua dieta con latte e formaggio. Un no compatto del governo e delle istituzioni che lancia un segnale di forza al Paese
Sono diversi i compiti di uno Stato. C’è quello di gestire il paese, in poche parole di governare. Cosa non semplice. Ma c’è dell’altro e forse l’altro certe volte è ben più importante della gestione del Pnrr, dei migranti, della manovra economica. Uno Stato a volte deve educare e per far questo bisogna partire da alcuni punti fermi, dai quali non ci si può e non ci si deve spostare. Sono i paletti, anzi, le fondamenta di una nazione senza le quali tutto il castello cadrebbe a terra in mille pezzi. La notizia è che Alfredo Cospito ha fatto due aggiunte alla sua alimentazione nel pieno dello sciopero della fame cominciato lo scorso ottobre; dopo gli integratori da oggi il leader del mondo anarchico che rifiutava il cibo per protesta contro il regime di carcere duro a cui è sottoposto da anni, ha deciso di introdurre latte e parmigiano. In pratica ha deciso di cominciare a mangiare, a ridurre il suo digiuno, la sua battaglia davanti ad uno Stato, dal Presidente del Consiglio, al Governo, ai giudici della Cassazione, che gli hanno semplicemente detto «No», nel pieno rispetto dei diritti che Cospito, in quanto cittadino, ha e sempre avrà. Certo, curioso sapere che aumenterà i suoi pasti proprio nel giorno in cui, essendo oggi venerdì Santo, i cattolici per penitenza digiunano. Scherzi del destino. Quello che resta è il piccolo passo indietro di Cospito, che forse non avrà altri, ma che tanto dice più che della sua battaglia personale (cui i grandi boss della mafia avrebbero poi fatto loro in un batter d’occhio) della forza «educativa» dello Stato.
No malgrado il digiuno, No malgrado le proteste di piazza e le manifestazioni dove non sono mancate i gesti di violenza contro la Polizia, contro le banche, contro le macchine di lusso, contro le cose pubbliche… No. Punto. Un paese, un governo certo va giudicato per come affronta l’inflazione, per come aiuta i poveri, per la riduzione del cuneo fiscale e di tante altre cose. Ma soprattutto la gente vuole che le istituzioni ci siano, esistano ed abbiano la forza di tenere la barra dritta davanti alle piccole grandi tempeste di tutti i giorni. Si chiama credibilità, serietà, forza e quello che ne consegue è stima, fiducia e rispetto. Non basta per dire che vada tutto bene; di certo è il miglior punto di partenza possibile ©Riproduzione Riservata Silvio Berlusconi trionfa alle urne, così inizia la Seconda Repubblica
In pratica doveva morire senza tante storie. Cospito “pagliaccio”, che pena i tribunali mediatici che contano le calorie dell’anarchico. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 10 Aprile 2023
La bufala dello sciopero della fame di Alfredo Cospito che si squaderna nei dettagli sulle scorpacciate di parmigiano reggiano che invece si sta facendo quell’improbabile paladino dei diritti dei detenuti al 41 bis: uh, che ridere! Lo vedete? Dice che da mesi sta mettendo a rischio la propria vita per denunciare l’inumanità di quel regime carcerario e poi, appena le cose si mettono brutte, ecco che si fa passare integratori, yogurt e formaggio. Un pagliaccio. E così l’attenzione non si concentra sull’ingiustizia del sistema incivilmente afflittivo messo in faccia a tutti dall’iniziativa di Cospito, ma sulle vigliacche intermittenze alimentari cui il digiunatore ricorre perché manco ha il coraggio di morire in fretta.
Sfugge a questi giudici delle imperfezioni non violente di Alfredo Cospito anche la sola ipotesi che rinunciare al cibo costituisca la rinuncia a una parte della propria esistenza fisica, e che riprendere ad assumerne il poco sufficiente a sopravvivere possa rappresentare la manifestazione di una speranza che le cose possano cambiare, o la soccombenza della volontà in un momento di disperazione: figurarsi, per quelle giurie editoriali si tratta solo dell’esperimento del mentitore che predica nobilmente e razzola da magliaro.
La sleale violenza con cui si fa la conta derisoria della calorie assunte dal detenuto è il degno corollario della noncuranza con cui è trattato l’argomento che la sua iniziativa, come mai nessun’altra prima da parte di chicchessia, ha avuto il merito di sbattere in faccia alle piazze della forca e ai sacerdoti dell’inquisizione antimafia: vale a dire la strepitosa incompatibilità costituzionale di questo sistema di segregazione e la vergognosa abusività del dispositivo posto ad attuarlo, con l’aguzzino di Stato che protegge la sicurezza nazionale vietando al detenuto di tenere in cella la fotografia dei genitori o proibendogli di ascoltare la musica neomelodica, indizio di perdurante e temibile affezione del soggetto al milieu della mala cantato sulle note di quelle pericolose canzuncelle.
In pratica doveva morire senza tante storie, con tanti bei disordini in giro e tanti editoriali impettiti a spiegare che lo Stato non subisce certi ricatti e che “il 41 bis non si tocca”, come identicamente si insegna a destra e a manca. Oppure ricominciare a mangiare qualcosa e prendersi la dovuta dose di sberleffi. Un bel Paese. Iuri Maria Prado
I giudici non perdonano a Cospito quel digiuno contro il 41bis. Lo sciopero della fame dell’anarchico è stata una legittima protesta. Ma dall’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza traspare una visione del carcere duro come misura che non si fonderebbe su dati ed elementi riscontrabili, ma sulla mera supposizione che dei fatti ulteriori possano accadere. Il Dubbio il 25 ottobre 2023
Questa volta sembrava fatta, che Alfredo Cospito dovesse essere tolto dal regime di 41 bis e reimmesso in un regime di detenzione normale, sia pure ad alta sorveglianza: ripristinati cioè i suoi diritti più elementari per ciò che concerne l’isolamento, la socialità, la lettura e l’informazione, fino alla limitazione delle modalità di alimentazione, sia pur mantenendo il controllo (censura) molto stretto sulla corrispondenza e sui colloqui consentiti.
Invece, niente. Resta al 41 bis, nonostante che la Dda locale e nazionale avessero dato parere favorevole per il ripristino del regime normale per il detenuto. Chi più titolate di loro per giudicare della pericolosità di un soggetto? Damiano Aliprandi ha già dato conto sul Dubbio in maniera esaustiva dell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che nega l’alleggerimento. Ma vale la pena tornarci sopra perché essa è molto grave nei presupposti e in alcuni passaggi.
L’ordinanza sembra riconoscere che i contatti fra Cospito e la FAI (Federazione Anarchica Informale, agglomerato anarco-insurrezionalista non strutturato) non sono esistiti negli ultimi tempi, anzi, sono completamente cessati. Ma Cospito ha rivendicato in una sua presa di posizione che nemmeno il 41 bis avrebbe potuto costringerlo al silenzio. Affermazione che ci sembra oltreché perfettamente legittima, anche ovvia. Il 41 bis non è volto a cambiare la testa al detenuto, né a farlo parlare diversamente. E’ – sia pure collocandosi ai limiti della legittimità – volto ad interrompere i rapporti fra il detenuto e l’organizzazione di appartenenza, così che non possa continuare a organizzare azioni criminose, contribuirvi o istigarle.
Ma si deve basare su prove ed evidenze che ciò sia avvenuto e, in questo caso, possa continuare ad avvenire. Non basta che il detenuto abbia rivendicato la propria libertà di pensiero e di parola: purché la sua parola non abbia contribuito non ad “ispirare”, concetto vago e inafferrrabile, ma ad organizzare altre azioni criminali. E di ciò, non è richiamata alcuna prova nell’ordinanza. Anzi essa non può non notare che il Tribunale di Sorveglianza di Perugia ha rimesso in libertà sia Cospito che altri 4 sodali revocando la loro custodia cautelare per altri fatti; né ha potuto ignorare che la Corte d’Assise di Roma in primo grado lo ha mandato assolto nel processo Bialystock, che lo vedeva imputato di associazione con finalità di terrorismo, proprio per avere istigato altri ad agire delittuosamente.
Per la seconda vicenda si è limitata a osservare che è solo una assoluzione di primo grado, e quindi può essere ribaltata: con buona pace del principio di non colpevolezza (rafforzato in questo caso da una pronuncia di primo grado). Insomma, dall’ordinanza traspare una visione del 41 bis non come modalità asprissima di detenzione, ma come misura illegittima di prevenzione che non si fonderebbe su dati ed elementi riscontrabili, ma sulla mera supposizione che dei fatti ulteriori possano accadere.
Peggio ancora vanno le cose se analizziamo la parte dell’ordinanza che vorrebbe ancorare la perdurante pericolosità di Cospito ad alcuni attentati (peraltro essi stessi, per fortuna, di scarsa pericolosità) avvenuti nei mesi in cui egli era in sciopero della fame e terminati subito dopo. Significa che egli ha ordinato, organizzato o quanto meno ispirato tali fatti? Se vi fosse la prova di un collegamento fra l’interno e l’esterno della detenzione, se ne potrebbe anche discutere; ma qui i fatti parlano da soli: la galassia del FAI pensa ed agisce da sola poiché in quel periodo Cospito non era in grado di contattare nessuno, meno anche del solito, visto le sue condizioni vicine alla morte. Semmai ciò proverebbe giustappunto l’autonomia con cui la FAI pensa, valuta e agisce. Indipendentemente da Cospito.
Forse è proprio qui che si annida il pensiero più forte (se così si può dire) dei giudici romani che hanno preso la decisione. Essi sembrano non perdonare a Cospito di avere utilizzato lo sciopero della fame, per affermare il diritto ad essere sottratto alla violenza del 41 bis, col rischio della propria vita e non avendo più altri mezzi per farlo valere. Oggi Cospito potrebbe pensare di riprendere quella forma di legittima protesta e così, seguendo la logica della ordinanza, altri potrebbero in piena autonomia riprendere ad utilizzare forme di miniattentati, però col rischio che, anche non volendolo, essi attingano non solo alle cose, ma anche alle persone e si contino le vittime. Evidentemente gli estensori dell’ordinanza non si lasciano influenzare dalla tragica cronaca di queste settimane: fatte (fortunatamente) le debite differenze, non persegue giustizia chi ingiustificatamente tiene in ostaggio qualcuno, il rischio di reazioni spropositate è pericolosamente vicino.
41 bis: l'esercito feroce dei suoi fan. Vince l’asse tra Travaglio e Donzelli: a proteggerlo Nordio e il Pd. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Febbraio 2023
I sondaggi dicono che il 53 per cento della popolazione americana è favorevole alla pena di morte. Nel Parlamento italiano la percentuale favorevole al carcere duro, al 41 bis, oscilla tra il 99,44 e il 99,70 per cento. Contro il 41 bis, nel dibattito parlamentare, è intervenuto solo il deputato radicale Riccardo Magi che si suppone parlasse anche a nome del suo collega Benedetto Della Vedova. Due su 600. Forse c’è da aggiungere il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, che – conoscendolo – possiamo immaginare che sia in dissenso con il suo gruppo, ma aspettiamo che lo dichiari, e Andrea Orlando, del Pd, unica voce critica a sinistra.
Sono cifre che fanno venire i brividi. Il 41 bis molto spesso è un trattamento persino peggiore alla pena di morte. Ha in sé una quantità più alta di evidente sadismo. Come ha raccontato ieri, in un articolo struggente che abbiamo pubblicato sul Riformista, Carmelo Gallico, fratello di un condannato morto la settimana scorsa di fibroma polmonare senza aver potuto mai nemmeno toccare la mano di sua moglie per 30 anni. E senza poter leggere i libri che voleva, e senza giornali, e senza Tv, e senza quadri o fotografie alle pareti della sua cella minuscola e singola, e senza potersi cucinare i pasti, e con l’ora d’aria in un corridoio senza tetto, e potendo parlare al telefono con i parenti una volta alla settimana per dieci minuti, e senza nessun contatto con l’umanità, a parte i secondini.
Sono 738 in Italia le persone sottoposte a questa tortura. Sebbene esista una legge che proibisce la tortura, e la punisce. E sebbene esista una Costituzione (come spiega bene il professor Salvatore Curreri), scritta da persone che il carcere lo hanno conosciuto, la quale proibisce il 41 bis, così come proibisce l’ergastolo. Il Parlamento italiano, guidato culturalmente dalla nuova intellighenzia (realizzata sull’asse tra il deputato di FdI Giovanni Donzelli e Marco Travaglio), si è collocato su una posizione molto più reazionaria di quella della maggioranza degli americani, visto che gli americani – che noi sempre indichiamo come giustizialisti – sono per quasi la metà contrari alla pena di morte e all’uso della crudeltà come strumento per regolare la convivenza civile.
Alle spalle di questo fronte saldo Fatto-FdI, che si ispira a varie forme di totalitarismo palingenetico, c’è un’ampia schiera di don Abbondio. Senza i quali Travaglio e Donzelli non trionferebbero. I Donabbondi sono guidati dal ministro Nordio e dal Pd. I quali si rendono conto forse della vergogna del 41 bis, ma non hanno il coraggio di dire no. Tremano. L’unico del Pd al quale ho sentito dire un no, forse flebile ma netto, è stato – come dicevo – l’ex ministro Andrea Orlando. Spesso l’ho criticato, in passato. Oggi rendo onore al suo isolatissimo coraggio.
P.S. 1 Il Fatto Quotidiano ieri ha pubblicato in prima pagina una foto di Cospito che proiettava sul muro anziché la sua ombra, l’ombra di tre mafiosi con la coppola. E un titolo nel quale si accusava il Pd di aver parlato coi mafiosi su indicazione di Cospito. Ripreso con entusiasmo sul sito di Andrea Delmastro (sottosegretario alla giustizia di Fdi). C’è da avere nostalgia di quando i fascisti li guidava Almirante…
P.S. 2 Spetta al Gom (il reparto di azione della polizia carceraria) decidere chi debba incontrare all’ora d’aria o in corridoio un detenuto al 41 bis. Non è il detenuto che sceglie. Quindi sono i Gom ad avere organizzato l’incontro tra Cospito e alcuni detenuti accusati di essere mafiosi. La delega a controllare i Gom, al ministero, appartiene al sottosegretario Delmastro. Volete che commenti? Ma per carità: commentate voi.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
In mancanza di Di Battista, abbiamo trovato il sostituto perfetto. Donzelli, il comunicatore meloniano che ignora la storia: Almirante aiutò un terrorista, Berlinguer non fece sconti. Nicola Biondo su Il Riformista il 3 Febbraio 2023
Foto Roberto Monaldo / LaPresse 15-09-2022 Roma (Italia) Politica Camera dei Deputati – Dl Aiuti bis Nella foto Giorgia Meloni e Giovanni Donzelli durante il voto degli emendamenti 15-09-2022 Roma (Italy) Chamber of Deputies – Law Decree on urgent measures relating to energy, water emergency, social and industrial policies In the pic Giorgia Meloni, Giovanni Donzelli
Ci sono due semplici verità nella storiaccia che ha coinvolto il Pd e il parlamentare meloniano Giovanni Donzelli. Per il Pd è questa: come in mille altre questioni anche sul 41bis non ha un’idea chiara. Capita quando si è sempre in cerca di un’identità senza costruire una visione. Chissà se questa ormai decennale inadeguatezza finirà nei libri di storia. Quegli stessi libri di storia che con ogni evidenza Donzelli non ha mai letto e siccome crediamo nella funzione pedagogica del giornalismo proviamo a ricordarla all’incendiario parlamentare.
“State con i terroristi“, questa è la provocazione che ha rivolto al Pd nell’aula di Montecitorio il parlamentare a cui Giorgia Meloni ha affidato la comunicazione del partito. Insomma, una roba da social, da no-vax della Storia più che da esponente delle Istituzioni. Al Pd, dove tutti si sentono campioni di analisi, strategie e comunicazione, si vede che i libri di storia non li aprono, esattamente come Donzelli. Perché in caso contrario saprebbero tutti, da Donzelli appunto al vertice del Pd, che il primo e unico caso di un leader politico che ha fatto una scelta di campo a favore di un terrorista, in almeno un caso, è quello di Giorgio Almirante.
Il fatto è noto: a metà degli anni ’70 l’allora segretario del MSI fece recapitare al latitante Carlo Ciccuttini svariati milioni di lire. L’uomo, dirigente friulano del partito, era pesantemente coinvolto nella strage di Peteano, tre carabinieri uccisi da un’autobomba, e in decine di altre attività terroristiche. L’obiettivo di quella dazione di denaro era quello di consentire al latitante, condannato molti anni dopo per quei fatti, un’operazione alle corde vocali per rendere inutile alle indagini la comparazione con la telefonata di rivendicazione per Peteano, fatta proprio da Cicuttini.
Almirante venne indagato per favoreggiamento e alla fine si salvò dal processo optando per l’amnistia. Una soluzione legale ma davvero poco onorevole. Nel processo venne condannato l’altro imputato che con il segretario del MSI aveva destinato la somma di 35.000 dollari al terrorista, come risultava dai documenti che provarono il passaggio del denaro tramite banche estere.
La cultura garantista del Riformista ha un giudizio assai preciso sulla mole di errori politici che il PCI prima e i suoi eredi dopo hanno commesso nella torsione dello stato di diritto e nel rendere permanenti leggi emergenziali. Ma su una cosa è impossibile dubitare: Enrico Berlinguer non promise a nessun terrorista di sottrarsi alla giustizia. Almirante sì. E figurarsi se uno come l’ex-ministro Orlando, colui che nonostante il parere favorevole delle Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, negò al moribondo Provenzano di uscire dal 41bis, possa essere oggi tacciato della ridicola accusa di Donzelli. La sua carriera, ne siamo certi, non subirà contraccolpi. In mancanza di Di Battista nell’aula di Montecitorio abbiamo trovato il sostituto perfetto.
Nicola Biondo
Fine carcere duro mai. Come parlare del 41 bis per non parlare di Cospito da primitivi. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 3 Febbraio 2023.
La vera funzione della misura restrittiva è indurre alla collaborazione il detenuto fiaccato dalle sue condizioni in cella. Una società civile deve chiedersi se abbia ancora senso applicare questa norma ai boss mafiosi a trent'anni dalle stragi di Capaci e via d’Amelio
Due personaggi totalmente diversi tra loro come Michele Serra e Lirio Abbate hanno commentato su Repubblica il dramma di Alfredo Cospito che rischia di morire per un principio. Serra ha ringraziato Giovanni Donzelli di Fratelli d’Italia per il suo sgangherato intervento alla Camera (che bene illustra la miseria umana di certa destra, quella che Indro Montanelli inorridito rigettava) per aver chiaramente mostrato nonostante tutto la differenza tra la sinistra e i reazionari.
I reazionari amano brandire la corda mentre la sinistra non può che stare dalla parte degli impiccati, dei reietti, di quelli che Frantz Fanon chiamava «i dannati della terra».
Il secondo indirizzo è quello espresso, sul medesimo giornale di Serra, da uno dei cantori militanti dell’antimafia in servizio permanente effettivo: l’ex direttore de L’Espresso Lirio Abbate, il quale in suo articolo riduce Cospito a un consapevole pupazzo dei mafiosi per l’abolizione del cosiddetto “carcere duro”.
Del resto, anche in questa occasione, il Partito democratico non riesce a uscire dalla paralisi e dall’imbarazzo ben espressi dal volto imbronciato di Andrea Orlando davanti alla domanda di Brunella Bolloli: «Ma voi perché non avete il coraggio di chiedere l’abolizione del 41 bis?», a cui l’ex ministro della Giustizia del governo Renzi ha ricordato con malcelato orgoglio di averlo inflitto e non revocato a un morente Bernardo Provenzano, con conseguente condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. Bolloli coglie il punto.
Non è mancato neanche l’illuminato pensiero di Piercamillo Davigo ex magistrato oggi uno dei tanti imputati del paese che voleva rivoltare come un calzino, secondo cui il modello da seguire è quello della signora Thatcher che rimase indifferente davanti allo sciopero della fame dei prigionieri irlandesi dell’IRA, poi lasciati spegnersi. La non trascurabile differenza che Davigo ovviamente non coglie è che all’epoca era in atto una guerra sanguinosa e aperta.
La verità è che il nostro è l’ameno paese di molti Donzelli, gente che pensa di risolvere problemi complessi emettendo suoni gutturali, battendosi il petto e usando forca, galera e prossimamente il manganello. E poi molte, moltissime, intercettazioni contro tutti, come dimostra questa storia e come questo giornale ha sottolineato.
Due sono i problemi che bisognerebbe analizzare ragionando da persone civili e non da primitivi.
Il primo: serve ancora il 41 bis? Introdotto nel 1986 e allargato ai reati di mafia, trenta anni fa, con tutta la cupola corleonese a piede libero e l’Italia devastata da bombe e agguati, continua a permanere anche oggi che l’ultimo boss di quell’epoca tragica è stato arrestato e portato a morire in carcere (al 41 bis si intende).
La semplice domanda fa inorridire le prefiche dell’antimafia dalle varie sedi istituzionali giustamente conquistate dopo anni di allarmi e inchieste andate a male: dalla strage Borsellino, alla “trattativa“, a Mafia Capitale.
Non si tratta di garantire villeggiature di lusso: se non basta l’attuale miserevole condizione dei detenuti italiani, esistono già carceri e regimi di massima sicurezza riservate agli autori di crimini di mafia e terrorismo.
Il punto è semplice: si deve cominciare a discutere lucidamente sul fatto che un regime di deroga a elementari diritti costituzionali e sin dall’inizio indicato come provvisorio debba perpetuarsi all’infinito. Ricordo che per i sottoposti al regime del 41 bis sono sospese le condizioni di vita basilari come i contatti con i familiari, la lettura di libri e riviste, la socializzazione e i programmi di recupero. Solo un intervento della Consulta ha tolto il divieto di incontro libero cogli avvocati.
La domanda è: trenta anni dopo la strage di Capaci è ancora necessario? È possibile avere statistiche che dimostrino una qualche correlazione tra l’adozione del regime speciale del 41 bis e una diminuzione dei reati di criminalità organizzata e terrorismo?
Il non detto ipocritamente è che in realtà la vera funzione di un sistema così duro e segregante è indurre alla collaborazione il detenuto fiaccato dalle sue condizioni.
Giovanni Falcone e Carlo Alberto Dalla Chiesa non ne ebbero bisogno, all’epoca, per far parlare Tommaso Buscetta e Patrizio Peci. Per questo motivo sarebbe utile avere una statistica aggiornata anche su questo, per verificare quante collaborazioni ci sono state per il 41 bis e se non sia invece stato più incisivo il regime di ordinaria limitazione alle misure alternative al carcere.
Di recente l’intervento della Corte Costituzionale ha rimosso il tabù che vietava a mafiosi e terroristi di poter godere di misure di recupero sociale (semilibertà, detenzione domiciliare etc), sia pure introducendo una serie di requisiti così stringenti da rendere il traguardo estremamente difficile. Ha un senso alla luce di tale decisione protrarre un regime eccezionale di detenzione tenuto conto anche del rischio di venire sanzionati ancora dalla Corte europea dopo il caso Provenzano?
Infine, il secondo corno della questione: dallo sguaiato intervento di Donzelli si è avuta conferma della estrema pericolosità dell’uso delle misure preventive in mano alla estrema destra. Con incredibile leggerezza lo stretto collaboratore della presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha letto il contenuto di intercettazioni riservate predisposte all’interno del carcere per controllare i detenuti.
Questo giornale aveva già lanciato l’allarme sulla nebulosa di questo tipo di captazioni su cui il governo Meloni ha deciso di operare un più stretto controllo con il parere favorevole dell’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio che vorrebbe limitare le intercettazioni da usare nei processi, ma vorrebbe allargare quelle “di sicurezza” destinate a uso riservato del Governo.
Ecco: la vicenda Del Mastro-Donzelli, i due compari che si scambiano materiale riservato ci fa capire cosa possono nascondere certi proclami antimafia: il restringersi pericoloso degli spazi di libertà di tutti. Ancora una volta il diritto dei reietti è una questione che investe tutta la società democratica.
Caso Alfredo Cospito, Ilaria Cucchi: «Si parla di vita o di morte di un detenuto. Nordio non può far finta di nulla». «Il 41 bis è una palese forzatura, ma una certa parte politica ceda alla tentazione di facili slogan. Quanto ai cosiddetti anarchici violenti, a loro non interessa nulla delle sue condizioni, vogliono solo farne un martire». Parla la senatrice in prima linea per i diritti dei reclusi. Simone Alliva su L’Espresso il 31 gennaio 2023.
«Facili slogan mentre qui si parla della morte di una persona che dovrebbe essere tutelata». È granitica, Ilaria Cucchi, senatrice eletta nelle liste di Alleanza Verdi e Sinistra quando commenta a L'Espresso la vicenda di Alfredo Cospito, l'anarchico trasferito al carcere di Opera a Milano per l'aggravarsi delle sue condizioni dopo più di cento giorni di sciopero della fame. Si è da poche ore conclusa la conferenza stampa del vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani con i ministri della Giustizia, Carlo Nordio, e dell'Interno Matteo Piantedosi. Una conferenza che ha chiuso le porte alla possibilità di rivedere il regime del carcere duro per l'anarchico.
«Ora il 41 bis è indispensabile, è necessario mantenerlo», ha concluso Nordio. Non per la senatrice dell'alleanza Verdi-Sinistra italiana e sorella del geometra romano ucciso mentre si trovava in carcere: «Il 41 bis è incostituzionale».
Senatrice Cucchi, lei ha scritto sul suo profilo Facebook che costringere Cospito al regime 41 bis “è stata una palese forzatura ed un errore colossale”.
«Certo, Cospito non ha ucciso nessuno. Il 41 bis è assolutamente anticostituzionale e come tale è stato di recente censurato dalla stessa Corte Costituzionale e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. È stato giustamente così concepito, negli anni 90, in occasione delle stragi di mafia per impedire ai boss della criminalità organizzata di continuare ad avere collegamenti con i sodalizi mafiosi. Si è indubbiamente trattato dell’introduzione di un regime di emergenza a causa dell’incapacità dello Stato di realizzare un sistema carcerario che potesse, da un lato, essere in linea con i fondamentali criteri di rieducazione cui deve essere uniformata l’espiazione delle pene senza che con essa, dall’altro, si aprissero le porte alla prosecuzione dell’attività criminale dei boss dall’interno delle strutture di detenzione. Cosa c'entra con tutto ciò Cospito? Niente, ma in questo Paese l’emergenza diventa la regola e c’è sempre chi cade in tentazione e cerca di estendere l’applicazione dimenticandosi i sacri principi della nostra Carta Costituzionale. Questo è accaduto con una palese forzatura e commettendo, appunto, un errore colossale».
Negli ultimi mesi il Governo ha adottato la linea dell’indifferenza verso le condizioni di salute di Cospito. Nordio è rimasto in silenzio a lungo. Pensa che sia stato questo ad alimentare un’escalation di attentati e minacce?
«Non mi stupisce che una certa parte politica ceda alla tentazione di facili slogan dimenticando che qui si parla di vita o di morte di una persona in detenzione che dovrebbe essere tutelata al di sopra di ogni questione. Nulla è più importante. Mi stupisce che un Ministro come Nordio, magistrato, faccia finta di ignorare tutto questo».
Il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, in conferenza stampa sul caso Cospito ha più volte detto che "lo Stato non può piegarsi a minacce e ricatti".
«La sublimazione di questa terribile e miope speculazione politica sta nel motto “ questo governo non può piegarsi ai ricatti”? Così si fa finta di non dover adottare provvedimenti di sana civiltà giuridica e si consente la morte di un detenuto per paura che, diversamente, si possa dare l’impressione di cedere a fantomatici ricatti. Il collegamento agli attentati criminali della recente cronaca è tanto semplicistico quanto ipocrita. Si fa finta di non vedere che nulla hanno a che fare con Cospito e le sue drammatiche condizioni di salute. Questi cosiddetti anarchici violenti non vogliono altro che la morte di Alfredo Cospito per farne un martire. A loro nulla interessa delle sue condizioni. È fin troppo evidente. Sono per lui come lo sono stati i Black Block per i no global per i G8».
Alla fine l'ex militante della Federazione anarchica informale (Fai) è stato trasferito da Sassari al carcere di Opera a Milano dove c’è una struttura sanitaria che, a detta del ministro Tajani, è "forse la più efficiente in Italia". Non basta?
«No. Non basta certo il trasferimento in Lombardia. Deve essergli revocato il 41 bis».
Piantedosi oggi ha dichiarato: "Se mafiosi o aderenti a organizzazioni terroristiche, che lo subiscono, se ne lamentano e fanno una battaglia così forte contro il 41 bis, vuol dire che funziona". Che ne pensa?
«Piantedosi ha ragione, se lo Stato fosse corso ai ripari all’emergenza mafiosa degli anni 90. Non certo in un ottica di acquiescenza alla violazione sistematica dei diritti fondamentali dell’Uomo da estendere il più possibile per esonerare il Paese dall’onere di dover raggiungere quello che non sappiamo oramai più cosa sia: lo Stato di diritto».
Il caso Cospito e il 41 bis. Perché visitare le carcere è un dovere dei parlamentari. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Febbraio 2023.
Daremmo volentieri un dieci con lode ai parlamentari della delegazione del Pd che il 12 gennaio scorso sono andati a visitare il carcere di Sassari e il suo reparto dove son rinchiusi i detenuti nel regime speciale previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Naturalmente la loro visita vale di più se i tre deputati Debora Serracchiani, Andrea Orlando e Silvio Lai, oltre al senatore Walter Verini non si sono limitati a incontrare Alfredo Cospito, l’anarchico che sta ingaggiando un pericoloso braccio di ferro con lo Stato con un digiuno protratto ormai da oltre cento giorni per protestare contro la tortura del 41-bis.
Non è eccessivo parlare di “tortura”, perché l’isolamento previsto dalla detenzione “impermeabile” porta a un degrado fisico e psichico che a lungo andare può essere mortale. Fondamentale quindi che anche i rappresentanti del Parlamento, oltre al ministro della giustizia Carlo Nordio, siano impegnati a monitorare le condizioni di salute di un prigioniero che sta sfidando la morte nel nome di un principio. Sarebbe importante che lo facessero anche i parlamentari della maggioranza, magari anche lo stesso Giovanni Donzelli che ha lanciato ai colleghi del Pd una sfida un po’ sprecata e controproducente nel chiedere loro da che parte stanno, visto che sono andati in carcere a trovare un sovversivo, colpevole anche di aver chiacchierato nell’ora d’aria con alcuni mafiosi, del resto gli unici che abbia possibilità di incontrare nel regime di 41 bis.
Ma va anche detto che forse i parlamentari del Pd hanno un po’ sprecato il proprio tempo e la loro visita al carcere, dal momento che si sgolano e si sbracciano, ogni ora e ogni minuto a dichiarare quanto siano entusiasti di questa forma di detenzione speciale cui è sottoposto tra gli altri Alfredo Cospito. Se volevano solo misurare la pressione all’anarchico, potevano lasciarlo fare al medico preposto. Ma ben altro avrebbero potuto fare e denunciare. Per esempio verificare concretamente, guardando e toccando con le proprie mani e i propri occhi che cosa vuol dire essere privati di tutto, e non solo della libertà. Se sono così entusiasti del regime del 41-bis, hanno veramente sprecato un viaggio. Del resto uno di loro, Andrea Orlando, è quello che da ministro ha lasciato in carcerazione speciale un vegetale, cioè il corpo di Bernardo Provenzano, ex feroce capomafia ma non più persona, nel 2016.
Lo ha lasciato lì, nel reparto adibito al 41-bis dell’ospedale S. Paolo di Milano, nonostante che, con il parere favorevole di tre procure, il primario Rodolfo Casati avesse suggerito di trasferirlo, nello stesso ospedale, in un reparto per lungodegenti. Invece il corpo è rimasto due anni in quel buco, ridotto allo stato vegetale e sorvegliato da 28 agenti. E il ministro aveva sfidato il senso del ridicolo sostenendo che il detenuto era “…destinatario di varie missive dal contenuto ermetico, cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa”.
Ogni deputato e ogni senatore, di qualunque posizione politica, dovrebbe sapere che più che un diritto è un dovere, quello dei parlamentari di andare a visitare le carceri. Perché mettere il naso dentro le istituzioni totali, siano le prigioni piuttosto che gli istituti psichiatrici, per verificare lo stato di salute degli ospiti, vuol dire spesso aiutare a migliorarne le condizioni. Ed è un dovere dei rappresentanti dei cittadini soprattutto denunciare in ogni sede ogni situazione che violi l’articolo 27 della Costituzione, che impone la dignità della persona, anche quando privata della libertà, e la salvaguardia della sua salute mentale e fisica.
Il caso più clamoroso della storia italiana degli ultimi trent’anni è stato quello della riapertura delle carceri di Pianosa e Asinara, dove nel 1993, in seguito alle stragi mafiose culminate negli assassinii di Falcone e Borsellino, furono sbattuti alla rinfusa, dopo esser stati prelevati nella notte in pigiama o anche senza, detenuti da tutti gli istituti del sud, in gran parte in attesa di giudizio. Una vera deportazione, quella notte. E torture di ogni genere furono verificate da quei pochissimi deputati che ebbero la forza di sfidare il conformismo vigliacco “antimafia” che pervadeva la società politica dopo i fatti tragici accaduti l’anno prima. Furono utilissime, quelle visite e quelle denunce, che portarono anche a diverse condanne nei confronti dell’Italia da parte della Cedu.
Dalle finte esecuzioni all’alba fino agli sputi, e la minestra piena di vermi e pezzi di vetro, e l’acqua arrugginita e non potabile, e la doccia irraggiungibile e la mancanza di biancheria e indumenti di ricambio: questo era il quadro di base della situazione in quell’estate a Pianosa e Asinara. Per non parlare delle ferite e tumefazioni sul corpo dei detenuti dovute alle botte della “squadretta” addetta alle punizioni. Altroché, se furono utili quelle visite! Sarà bene ricordarsene sempre.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
«Il carcere duro è una dolce tortura: mira a stroncare la resistenza umana». L'avvocato penalista Gaetano Pecorella. L’avvocato penalista al Dubbio: «Così si annientano le persone. È un atto di disumanità che la nostra Costituzione non prevede». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 2 febbraio 2023.
Sul caso Cospito stiamo assistendo ad una disputa virulenta, con uno scambio di accuse reciproche tra i partiti. L’avvocato Gaetano Pecorella, penalista con oltre cinquant’anni di esperienza al servizio del diritto di difesa, commenta sconsolato quanto sta accadendo negli ultimi giorni. «Purtroppo – dice al Dubbio - il nostro Parlamento non perde l’occasione per fare delle brutte figure davanti al paese. Se i parlamentari litigano, si minacciano e si diffamano, possiamo immaginare cosa pensano i cittadini rispetto al luogo in cui si dovrebbe discutere con la più alta cultura e il più alto rispetto per la controparte. Poi ci lamentiamo delle violenze che si verificano, quando la prima sede in cui si verificano violenze verbali è proprio il Parlamento».
Giorno dopo giorno assistiamo ad uno scambio di accuse tra gli esponenti delle forze politiche, perdendo di vista le questioni prettamente tecniche legate al 41 bis. Insomma, uno scontro ideologico che non fa bene all’Italia. «Quello del 41bis – commenta Gaetano Pecorella - è un tema particolarmente delicato sul piano dei contenuti e delle interpretazioni e pone degli interrogativi sulla natura della disposizione normativa. Assistiamo ad uno scontro ideologico perché il politico che parla non pensa alla soluzione giusta dal punto di vista del rispetto dei diritti della persona e delle tecniche normative. Pensa alla soluzione che potrà fargli acquisire più o meno consenso nel paese. Un paese che è stato costruito in questi ultimi anni sui principi della repressione, sul principio, come si usa dire, del “buttar via la chiave”, sui principi della mancanza di considerazione dei soggetti più deboli. È chiaro che chi fa politica calcolerà quali sono gli effetti sul suo elettorato. Si è completamente stravolta quella che dovrebbe essere la funzione intellettuale del Parlamento con la presentazione di soluzioni giuste».
Sul trasferimento di Alfredo Cospito nel carcere di Opera, per garantirgli delle cure, l’avvocato Pecorella rileva alcune contraddizioni. «Intanto – afferma -, credo che si debba prendere atto che l’apparato giudiziario si è attivato in funzione della tutela della salute, dopo che ci sono stati
degli atti, giustamente condannati, di violenza. È però paradossale che invece di attivarsi sulla base di quelle che erano le reali esigenze di salute di Cospito abbiamo dovuto aspettare degli attentati per renderci conto che la situazione non era la migliore per garantire la salute del detenuto. È stato detto: “Noi non siamo stati condizionati da nulla”. Non è così. Fino a ieri non è stato fatto nulla per la salute del detenuto e subito dopo alcuni fatti ci si è attivati. I casi sono due. O era giusto quello che veniva fatto prima e allora non si dovevano modificare le condizioni di detenzione oppure, se sono cambiate, ci si è accorti, sulla base di alcuni atti di violenza, che non era una condizione sufficiente per garantire la salute del detenuto. Salute che, in ogni caso, viene prima di ogni altra cosa».
Quanto sta accadendo ha sollevato un dibattito acceso sulla natura e sulle finalità del 41 bis non proprio protese al recupero del detenuto. Su questo Pecorella è chiaro. «La questione centrale del 41 bis – aggiunge - ruota attorno ad un tema ben preciso: capire come oggi è concepito e a che cosa serve. Se il 41bis è una norma effettivamente diretta a tutelare la sicurezza pubblica o se, così come è concepito, è una forma di “dolce tortura” con una serie di limitazioni che non hanno nulla a che vedere con i rapporti esterni. Il 41 bis realizza un sistema di isolamento che aveva e ha come obiettivo non tanto quello di impedire la comunicazione all’esterno del carcere o all’interno, ma quello di stroncare la resistenza umana di chi si trova detenuto. I detenuti con 41 bis stanno in una cella singola, con un solo letto, una seggiola fissata al pavimento, vengono sorvegliati 24 ore su 24. Mi pare abbastanza evidente che tutto ciò abbia ben poco a che vedere con il problema di impedire le comunicazioni. Io penso che così come è concepito il 41bis abbia più la funzione di stroncare la resistenza fisica e psicologica, piuttosto che impedire i rapporti tra interno ed esterno del carcere».
Su questo punto il penalista è chiaro: «Credo che vada fatta una riforma. Non stiamo parlando di una abolizione, ma dell’esigenza di toccare quei punti contrari al rispetto dei diritti umani e alla funzione della pena nel nostro ordinamento, come prevede la Costituzione. Mi chiedo come possa tendere alla rieducazione la pena di una persona che sta chiusa in una cella senza rapporti con i familiari, che non ha rapporti culturali, che non ha nessun modo di comprendere i propri errori».
Conciliare l’esigenza della sicurezza pubblica e il dettato costituzionale è molto impegnativo. «Il trattamento duro – conclude l’avvocato Pecorella - distacca dai familiari, dalla società, dai rapporti con gli altri detenuti. Tenere una persona isolata per tutta la sua esistenza significa annientarla. È un atto di disumanità che la nostra Costituzione non prevede. Nessuno ha il coraggio di toccare la Costituzione, però, poi, si fanno delle leggi che fanno a pugni con la Carta Costituzionale».
Il presidente dei penalisti italiani Gian Domenico Caiazza: «Il 41bis è sadico e violento, la politica adesso rifletta...». Gian Domenico Caiazza, presidente dei penalisti italiani.
L'avvocato al Dubbio: «È deprimente che la politica non abbia la forza per cogliere questa occasione per una riflessione seria sull'istituto». Valentina Stella su Il Dubbio il 3 febbraio 2023.
«La Giunta UCPI esprime apprezzamento, solidarietà e sostegno per la dura azione non violenta con la quale un detenuto in regime di 41 bis, il signor Alfredo Cospito, ha inteso denunziare con forza, a rischio della propria vita, l’incivile barbarie di quel regime detentivo»: inizia così il documento dei penalisti italiani. Ne parliamo con il loro presidente Gian Domenico Caiazza.
«Apriremmo una diga a tutta una serie di pressioni da parte di detenuti che si trovano nello stesso stato» di detenzione se «lo stato di salute» di Cospito finisse per essere un condizionamento nell'allentamento del 41bis, ha detto il ministro Carlo Nordio due giorni fa nella sua informativa alla Camera sul caso dell’anarchico. Cosa ne pensa di questa affermazione?
In astratto questa risposta ha un senso. Non si tratta di riconsiderare una posizione perché il detenuto sta facendo lo sciopero della fame. Semmai occorre valutare se permangono le condizioni e le esigenze che hanno giustificato il 41 bis. Se c’è una persona che mette in atto una protesta nonviolenta non significa che bisogna accogliere necessariamente la sua richiesta ma che la si possa valutare certamente. Sarebbe singolare se per il fatto che Cospito fa lo sciopero della fame non si valutasse nuovamente il suo regime detentivo.
Lei parlava di protesta “nonviolenta”. Ma forse è diversa dai digiuni nonviolenti di Marco Pannella: mai assenza totale di cibo, una forma di dialogo con le istituzioni, in quanto tale lontana anni luce da ogni ipotesi di “prendere o lasciare”.
C’è sicuramente una differenza che Pannella rivendicava sempre: la nonviolenza è per la vita e non per la morte. Allora si discuteva se gli scioperi di Pannella fossero come quelli di Bobby Sands: è ovvio fossero diversi. Tuttavia quello di Cospito è innegabilmente nonviolento perché mette in discussione la propria salute, la propria vita. Fino a poco tempo fa prendeva gli integratori.
Ha deciso di rinunciarvi.
Questo non lo condivido. Mi sembra un modello non accettabile.
Come Giunta Ucpi avete espresso apprezzamento e solidarietà per l’iniziativa di Cospito.
.Perché ha dichiarato di farne una questione di carattere generale per tutti quelli rinchiusi al 41bis. È deprimente che la politica non abbia la forza per cogliere questa occasione per una riflessione seria sull’istituto. Lo Stato ha certamente il diritto ed il dovere di differenziare i regimi detentivi in ragione della gravità dei reati commessi dal detenuto, e della ritenuta, accertata sua pericolosità. Ma questo elementare principio di sicurezza non ha nulla a che fare con le regole odiose, violente, non di rado irragionevolmente sadiche che connotano il regime del 41 bis, strumento chiarissimamente finalizzato alla collaborazione. In questo senso è concettualmente pari alla tortura e questo potrebbe essere il momento per discutere di una forma di umanizzazione dello stesso. Impedire all’essere umano detenuto, quale che siano le colpe di cui si è macchiato, di non poter per decenni o per tutta la vita mai più abbracciare un figlio o un familiare che cosa ha a che fare con la sicurezza?
Però su questo l’onorevole Rita Dalla Chiesa in una recente intervista ha detto: «I boss incontrano i figli raramente? Io mio padre soltanto al cimitero…».
Ho letto l’intervista. Chi formula queste frasi, ossia un familiare con un dolore irreparabile verso cui nutro il massimo rispetto, dovrebbe rendersi conto che queste affermazioni sono una rivendicazione della legge del taglione. Se il parametro dell’afflittività della pena dovesse essere l’equivalenza del dolore che ha provato la vittima o i suoi familiari allora ci troveremmo nella condizione di occhio per occhio, dente per dente. Queste frasi che raccolgono facili consensi in realtà sono irresponsabili perché non ci si rende conto che si alimenta nell’opinione pubblica la cultura della vendetta. Questa non può essere la regola che ispira la vita di uno Stato di Diritto.
Voi scrivete: Cospito, 41 bis e la doppia morale delle anime belle. Intendete dire che non si sono fatte campagne simili quando ad esempio si trattava di Provenzano? Ci sono 41bis di seria A e 41bis di serie B?
Assolutamente sì. Questo conferma quello che dicevo: c’è una connotazione ideologica nell’affrontare questo tema. O si affronta quantomeno il tema della umanizzazione di questo regime per tutti o non lo si affronta per nessuno.
Dagospia. Da “Termometro politico” il 4 febbraio 2023.
Quasi un italiano su due è contrario alla revoca del 41bis per il leader anarchico Alfredo Cospito. Revocarlo significherebbe per il 29,4% un cedimento verso gli anarchici e un pericoloso precedente per altri casi simili. Il 31,3% ritiene invece che ad esprimersi sulla vicenda dovrebbero essere solo i giudici. Il 12,4% è a favore della revoca ma solo nel caso di Cospito. Infine solo il 3,7% vorrebbe un'eliminazione totale del 41bis. È quanto emerge dal sondaggio settimanale realizzato da Termometro Politico tra il 31 gennaio e il 2 febbraio 2023.
Caso Cospito a parte, la maggioranza degli intervistati giudica favorevolmente il 41bis: per il 47,6% è uno strumento molto utile nella lotta alla criminalità organizzata, e crede che debba rimanere in vigore nella forma attuale mentre il 25,4% vorrebbe che questa forma di detenzione venisse allargata per combattere efficacemente la criminalità. Un ulteriore 20,1% è a favore ma solo se limitato a casi molto gravi di capi mafia o terroristi, responsabili di stragi. Una sparuta minoranza ne vorrebbe l'abolizione considerandolo una forma di tortura che rinnega il ruolo riabilitativo del carcere. […]
Sull'intervento del presidente ucraino al Festival di Sanremo sono più i no che i sì. Il 42% boccia questa iniziativa perché considera Zelensky "una persona controversa che non trasmetterebbe un messaggio positivo, ma di guerra e violenza". Un ulteriore 31,1%, pur sostenendo l'Ucraina contro l'invasione russa, dice no perché, a suo dire, la partecipazione al Festival "banalizzerebbe la lotta del popolo ucraino, sarebbe fuori luogo". Favorevole al suo intervento è invece il 22% degli intervistati. […]
Sebastiano Ardita: «Il 41 bis tutela la collettività. Cancellarlo sarebbe un segno di debolezza per lo Stato».
di Simone Alliva su L’Espresso il 2 febbraio 2023.
Il magistrato difende la formula del carcere duro tornata alla ribalta nel caso dell’anarchico Alfredo Cospito. «La contrapposizione nel campo degli strumenti giudiziari sta raggiungendo un livello preoccupante»
«Rinunciare al 41 bis otto la pressione di gruppi, di esponenti o di singoli, rappresenterebbe un segno di debolezza dello Stato». Non usa mezzi termini Sebastiano Ardita, magistrato antimafia, già direttore del Dap per 9 anni, mentre commentando a L'Espresso il caso Alfredo Cospito, l'anarchico trasferito al carcere di Opera a Milano per l'aggravarsi delle sue condizioni dopo più di cento giorni di sciopero della fame.
Un tema che resta aperto dopo il parere consegnato dalla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo al ministro della Giustizia Carlo Nordio: Alfredo Cospito può restare al 41 bis oppure tornare al regime di alta sicurezza, con tutte le dovute cautele, pur ribadendo che fu fondata la decisione del 5 maggio del 2022 di applicargli il carcere duro. Il consigliere del Csm, per anni coordinatore di delicate indagini antimafia fra Catania e Messina e profondo conoscitore di Cosa Nostra, vede nella discussione che apre al dibattito sull'utilità del 41 bis: «Un livello di contrapposizione nel campo degli strumenti giudiziari sta raggiungendo un livello molto elevato e preoccupante»
Consigliere Ardita, il dibattito scatenato dal caso di un detenuto in gravi condizioni di salute per via dello sciopero della fame sta mettendo in discussione (pubblicamente) il 41 bis. Che idea si è fatto del caso Cospito, considerando anche che il detenuto a regime non appartiene a una organizzazione piramidale e gerarchica?
«È una situazione complessa quella che si è venuta a creare. Si è inizialmente scelto di applicare per la prima volta ad un appartenente all’area anarchica insurrezionalista una misura estrema come quella del 41 bis dell’ordinamento penitenziario, molto efficace contro le organizzazioni criminali. Si tratta di una decisione ritenuta legittima anche dalla autorità giudiziaria chiamata a giudicarne i presupposti. È pur sempre una scelta politica e simbolica, e quindi - anche se c’è il rischio di un allargamento del fronte di chi guarda criticamente il 41bis - non è facile pronosticare che il governo faccia un passo indietro».
Le condizioni di salute possono intervenire per far saltare il meccanismo di prevenzione e sicurezza come il 41 bis?
«Le condizioni di salute possono e devono essere affrontate a prescindere dal regime, ma qualsiasi cura prevede la collaborazione della persona a cui viene dedicata».
Ormai siamo consapevoli di alcune intercettazioni provenienti dal carcere in cui Cospito parlava contro il 41-bis con un mafioso. Questo legame dovrebbe preoccuparci?
«Certo che preoccupa perché da la misura di come Cosa nostra non si faccia alcuno scrupolo nel cercare strade comuni per evitare il 41 bis».
Non le pare che l’attacco al 41-bis da parte di alcuni boss mafiosi in carcere possa oggi trovare sponde nel dibattito pubblico?
«Di fatto ne ha sempre avute ma adesso ne sta trovando di nuove».
La Giunta dell'Ucpi (Unione Camere Penali) ha espresso "apprezzamento, solidarietà e sostegno per la dura azione non violenta con la quale un detenuto in regime di 41 bis, il signor Alfredo Cospito, ha inteso denunziare con forza, a rischio della propria vita, l'incivile barbarie di quel regime detentivo". Che ne pensa?
«Mi viene da pensare che la contrapposizione nel campo degli strumenti giudiziari sta raggiungendo un livello molto elevato e preoccupante. Ma penso anche che in una democrazia, oltre al rispetto per le opinioni di tutti, deve esistere il primato della legge come espressione della volontà popolare. Specialmente quando la sua applicazione serve a garantire la vita, la libertà e l'incolumità fisica di persone innocenti. E penso che rinunciare a strumenti di tutela collettiva, come è il regime 41 bis contro la mafia, sotto la pressione di gruppi, di esponenti o di singoli, rappresenterebbe un segno di debolezza dello Stato».
Trasferito a Opera, ha perso più di 40 chili. Chi è Alfredo Cospito, il primo anarchico al 41-bis: in sciopero della fame dal 19 ottobre 2022. Vito Califano su Il Riformista il 30 Gennaio 2023
Sempre più gravi le condizioni di salute di Alfredo Cospito, il militante anarchico insurrezionalista sottoposto al regime detentivo 41bis che dal 19 ottobre scorso sta conducendo uno sciopero della fame contro la sua condanna, la sua pena al cosiddetto “carcere duro” e la possibilità dell’applicazione al suo caso dell’ergastolo ostativo. Ha perso oltre 40 chili e qualche giorno fa è caduto riportando la frattura del naso e perdendo molto sangue. Oggi, per ragioni mediche, è stato trasferito al carcere di Opera, in provincia di Milano, perché meglio attrezzata rispetto a quella di Sassari.
Cospito è nato a Pescara ma viveva a Torino con la compagna Anna Beniamino, anche lei detenuta. Entrambi si riconoscevano nella Fai-Fri, Federazione Anarchica Informale – Fronte Rivoluzionario Internazionale, composta da cellule diverse sparse in diversi Paesi che agiscono in via del tutto autonoma e che invoca la lotta armata contro lo Stato. L’organizzazione non è strutturata in maniera gerarchica.
Cospito è stato condannato nel 2013 a dieci anni e otto mesi di carcere. Aveva ferito a Genova, con colpi di pistola alle gambe, il dirigente dell’Ansaldo Roberto Adinolfi. Era già in carcere quando venne accusato di aver posizionato, nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006, due pacchi bomba davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo. Le esplosioni non causarono morti o feriti ed esplosero a mezz’ora di distanza l’una dall’altra. Erano state realizzate con una pentola a pressione e un tubo di metallo con dentro 800 grammi di polvere pirica.
Cospito e Beniamino vennero condannati – così com’era successo in primo grado – a 20 e 16 anni di carcere secondo l’articolo 422 del codice penale, “strage comune”. Secondo i giudici fu solo per caso che quelle esplosioni non causarono morti o feriti, anche perché quello spazio di tempo tra la prima e la seconda bomba “sarebbe stato più che sufficiente ad assicurare la presenza sul posto di personale incaricato dei primi rilievi”. Cospito fu così inserito nel circuito penitenziario ad alta sicurezza. E da lì scriveva per pubblicazioni di area anarchica.
Dopo sei anni, nel 2022, è stato sottoposto al regime di 41-bis, il cosiddetto “carcere duro”, diventando il primo anarchico ristretto a questa condizione. Un trasferimento giustificato dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia per i “numerosi messaggi che, durante lo stato di detenzione, ha inviato a destinatari all’esterno del sistema carcerario; si tratta di documenti destinati ai propri compagni anarchici, invitati esplicitamente a continuare la lotta contro il dominio, particolarmente con mezzi violenti ritenuti più efficaci”.
Perciò Cospito fu trasferito dal carcere di Terni a quello di Sassari, dove ha vissuto isolato, con colloqui solo con familiari divisi da un vetro, il visto di controllo della posta in entrata e in uscita, la privazione di giornali e libri. Lo scorso maggio inoltre la Corte di Cassazione ha modificato il reato, su richiesta dell’accusa, da “strage comune” a “strage politica”, articolo 285 del codice penale, punito con l’ergastolo anche se non ha causato vittime. Particolare che rende possibile l’applicazione dell’ergastolo ostativo: se non il condannato non collabora con la Giustizia, non può accedere ai benefici della pena.
È anche contro questa misura che Cospito ha avviato il suo sciopero della fame. Contro l’applicazione del 41-bis la difesa di Cospito ha presentato un ricorso alla Corte di Cassazione, che aveva fissato una prima udienza al 20 aprile salvo poi anticiparla al 7 marzo. “Un’attesa così lunga non è compatibile con le condizioni fisiche di Alfredo”, secondo la medica Angelica Milia. Lo scorso 19 dicembre il tribunale di sorveglianza di Roma aveva rigettato il reclamo dell’avvocato di Cospito, Flavio Rossi Albertini, contro l’applicazione del 41-bis, e la misura era stata confermata per i prossimi quattro anni. Respinta per il rischio, secondo il tribunale, che dalla leadership di Cospito potessero partire ordini verso la sua organizzazione anarchica. Insomma la relazione che si descrive tra Cospito e la Fai è paragonabile a quella tra boss e affiliati alla criminalità.
“È un ossimoro, una contraddizione, pensare che una struttura orizzontale, come è stata ritenuta dagli stessi giudici di Torino, possa avere un capo”, ha argomentato il legale. La vicenda di Cospito ha acceso riflettori e l’attenzione pubblica sul regime del 41-bis, sulla galassia anarchica – manifestazioni e atti di protesta si sono susseguiti negli ultimi mesi – , sulla proporzionalità e i benefici della pena. A fine novembre, in Tribunale a Torino, lo stesso Cospito aveva dichiarato: “Sono stato raffigurato come un sanguinario ed è stato detto che sono un professionista degli esplosivi. Di me si può dire tutto, ma non che sono un ipocrita. Ho fatto una sola azione violenta: ho sparato a Genova e ho colpito alle gambe perché non volevo usare esplosivo. Quell’azione che ho fatto, l’ho rivendicata con onore come fanno gli anarchici. È assurda l’accusa di strage politica per due attentati dimostrativi in piena notte, in luoghi deserti, che non dovevano e non potevano ferire o uccidere nessuno. In futuro cercherò di mettere in discussione questa idea che io sono un sanguinario”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e te
«Alfredo Cospito è un sovversivo, non un boss. Il 41 bis per lui è una persecuzione». Diletta Bellotti su L’Espresso il 30 Gennaio 2023.
Applicato per scopi diversi da quello di tagliare i ponti con la struttura mafiosa di appartenenza, il regime carcerario restrittivo diventa “illegittimo”. Una strategia contro chi pratica il conflitto sociale
Allo scoccare del novantesimo giorno di sciopero della fame un detenuto nel carcere di Sassari, l’anarchico Alfredo Cospito, aveva perso 38 chili. A maggio 2022, al suo decimo anno di carcere, Cospito è stato rinchiuso in una cella di un metro e 52 centimetri di larghezza per due metri e 52 centimetri di lunghezza, cioè uno spazio occupato quasi tutto dal letto.
Cospito, sepolto, come altri 749 detenuti in Italia (2021), in un sarcofago di cemento armato, è sotto regime di 41 bis. Nel 2022, il reato di Cospito è passato da strage comune a strage politica, reato non applicato neanche per Capaci o Piazza Fontana. Il 41 bis, nella sua fondazione giuridica, ha una ratio non punitiva, ma di prevenzione: è infatti per esempio applicato indistintamente a persone condannate o in attesa di giudizio.
Lo scopo dell’isolamento, o quasi isolamento, è quella di impedire che il detenuto possa comunicare con altri soggetti, sia all’interno che all’esterno del carcere, per proseguire le attività criminose. Da misura emergenziale, nel 2002, questo regime detentivo è diventato cardine del sistema a tempo indeterminato ed è stato applicato, da lì in poi, anche ai reati di terrorismo. Il 41 bis nella sua formulazione giuridica non si identifica necessariamente con il “carcere duro”; lo scopo della norma è quello di recidere i rapporti con l’organizzazione criminale di riferimento.
Il 41 bis dunque, quando applicato fuori dal suo scopo fondante, ovvero quello di tagliare i ponti con la struttura mafiosa, è un carcere che si potrebbe definire “illegittimo”, perché persegue concretamente e produce conseguenze diverse dalla norma, dalla sua finalità, dalla sua ratio. Ha un intento afflittivo e persecutorio, nega l’identità, depriva i sensi, non lascia spazio alla rieducazione a cui il carcere dovrebbe mirare.
Così vi è l’assenza della natura rieducativa e umana dell’istituzione carceraria, e, ancor più che agli anarchici, il carcere duro deve far paura a chi crede e protegge uno Stato di diritto. Il carcere duro e il 41 bis sono l’epitome di un’istituzione che condanna, in ogni caso, alla marginalità sociale e all’illegalità, di fatto la istituzionalizza. È una struttura intrinsecamente criminogena e patogena, ovvero reitera, anzi rafforza, le distorsioni di una società che di fatto non sa emancipare l’individuo dalle proprie condizioni materiali. Il carcere deve redimere, deve socializzare, deve assurdamente correggere devianze che sono le devianze di Stato: la precarietà, la marginalizzazione.
Chiaramente l’ambiente sovversivo, quello che spazia dalle azioni dimostrative e simboliche, alla non-violenza, all’azione diretta e quant’altro, teme il carcere duro, perché la sua applicazione richiede necessariamente, da parte di chi esercita il diritto, l’identificazione di una categoria politica criminosa, non di un fatto. È la torsione del diritto, l’apice d’offensiva dello Stato: sugli anarchici si sperimenta la tortura e la repressione, parte di una strategia che viene allargata poi a chiunque pratichi il conflitto sociale, anche in forme lievi. Non è un caso infatti, che anche strumenti come la sorveglianza speciale, derivino dal codice Rocco. Ma cosa c’entrano i boss mafiosi con chi pratica il conflitto sociale?
L'operazione furbetta del giornale sul caso. Il Fatto non nomina Cospito, il fastidio del giornale di Travaglio per l’anarchico. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Gennaio 2023
Non c’è bisogno di evocarlo esplicitamente, il nome di Alfredo Cospito aleggia ovunque si parli di carcere e in particolare di quello impermeabile previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Così l’operazione furbetta del Fatto quotidiano è facilmente smascherabile, mentre presenta tre casi di condannati per mafia che “nei mesi scorsi” si sono visti respingere la richiesta di revoca del regime del carcere più duro e più “asociale”.
Che senso ha raccontare oggi qualcosa che è successo tempo fa, se non per sollecitare chi di dovere al massimo dell’intransigenza nell’applicazione di una norma che avrebbe dovuto essere provvisoria già dal 1992 e che si concretizza come vera tortura? Se l’argomento è oggi d’attualità è perché c’è un cittadino rinchiuso in una prigione di Sassari dove si sta lasciando morire di inedia, mentre non pare esserci cuore di giudice o di ministro pronto ad aprirsi al coraggio di una decisione che abbia almeno il sapore di umanità. E non importa se l’anarchico Alfredo Cospito sia un buono e pacifico cittadino o un Caino pronto a suggerire anche dal carcere ai suoi amici che “la lotta continua” contro lo Stato borghese, e deve anche continuare. E’ vero che l’articolo 41-bis costruisce intorno al detenuto cui è applicata una bolla di impermeabilità proprio per impedirgli di comunicare con l’esterno. Ma quando una persona arriva a mettere in gioco il proprio corpo e la propria vita, la scelta è solo tra due ipotesi, o il cinismo con cui furono lasciati morire Bobby Sands e i suoi compagni irlandesi, o la salvezza di quel corpo e di quella vita.
Non ci sono passeggiate di politici al carcere, per quanto volenterose, che possano trovare una via d’uscita per Alfredo Cospito. Né è sufficiente il dolore sincero del ministro Nordio, perché è vero che l’istruttoria, voluta appositamente come lunga e delegata a diversi soggetti, appartiene per competenza alla magistratura, ma in questi casi nessuna toga strillerebbe per l’invasione di campo se fosse il governo ad assumere una decisione politica. Che non verrà presa, temiamo, se non all’ultimo, magari con una frettolosa corsa in ospedale e il trattamento sanitario obbligatorio. Ma si potrebbe fare altrimenti, come è già capitato in altri casi. C’è la possibilità di una sospensione nell’applicazione della pena per motivi di salute, per esempio, proprio come è stato fatto dal governo Conte quando c’era l’epidemia di covid in corso. E non si guardò in faccia nessuno, in quei momenti, per vedere se a rischiare il contagio e la morte fossero gli Abele o i Caino. E quando, dopo il siluramento del capo del Dap Basentini, colui che aveva mostrato lungimiranza e senso di umanità, un secondo decreto mise fine a quel barlume di libertà, nessuno si sottrasse al rientro tra le mura del carcere.
Certo, quel decreto non piaceva alla subcultura travagliesca. Come non piace oggi il fatto che un detenuto anarchico protesti con la forma più estrema di manifestazione contro un regime da lager stile Guantanamo. E allora, oplà, ecco pronti i casi di tre condannati per le stragi mafiose, quasi a dire: visto? Neppure nei loro confronti, per quanto dissociati e forse ormai lontani dal proprio passato, si deve avere pietà. In effetti fa impressione leggere dall’articolo del Fatto le parole dei giudici di sorveglianza del tribunale di Roma. Prendiamo Filippo Graviano, che, scrivono i magistrati, “ha riferito di essersi più volte dissociato da cosa nostra, ha detto di sentirsi ‘rieducato’, di essersi laureato con lode e ha sottolineato dei recenti processi che hanno coinvolto la sua famiglia e che si sono conclusi con sentenze di assoluzione”. Ma il “ma” pesa come un’intera montagna.
Non c‘è storia, nella mente di certi magistrati c’è una sola via d’uscita dal regime speciale, e si chiama collaborazione, “pentitismo”, con ammissione dei propri reati e delazione su quelli altrui, veri o inventati. E si infischiano perfino dei provvedimenti della Corte Costituzionale, certe toghe, quelle che piacciono all’Anm e a Marco Travaglio. Come si fa, infatti, a scrivere che il detenuto “non ha mai fornito un apporto di elementi conoscitivi riguardo la propria posizione specifica all’interno del sodalizio ovvero che potessero disvelare o aggravare la posizione degli altri sodali…”? Se è qualcosa di simile che ci si aspetta anche da Alfredo Cospito per restituirgli almeno una forma di detenzione che abbia parvenza di normalità, questo vuol dire non sapere nulla e nulla aver capito della storia dell’anarchia, anche nelle sue forme più recenti e meno pacifiche. E vuol dire anche non capire nulla dell’orgoglio di una persona che sta sacrificando se stessa e anche dando una lezione a un mondo di carcerieri senz’anima e senza dignità.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura
Insistere sul 41 bis a Cospito può far "saltare" il carcere duro. Già la Cedu ha punito l'Italia persino per gli abusi del regime speciale nei confronti del boss Provenzano. Altri ammonimenti degli organismi europei lasciano intravedere conseguenze clamorose per la legittimità dell'istituto qualora il nostro Paese perseverasse nell'utilizzarlo in modo spropositato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 gennaio 2023.
Sono passati oramai quasi tre mesi da quando l’anarchico Alfredo Cospito, sottoposto al 41 bis, ha intrapreso lo sciopero della fame. Si teme concretamente per la sua vita, anche perché ha raggiunto un numero di giorni abnorme di digiuno, con un conseguente notevole abbassamento degli indici di potassio, indispensabile per il battito cardiaco. Una questione serissima. E a ciò si aggiunge il fatto che tale regime nasce per uno scopo ben preciso, non giustificabile – secondo un numero importante di giuristi – nel caso specifico.
Una grana non da poco per il nuovo governo, anche alla luce del fatto che il 41 bis, a causa del suo utilizzo spropositato, è stato al centro di varie sentenze che passano dalla Corte costituzionale fino ad arrivare alla Corte Europea di Strasburgo con il caso dell’ex boss Bernardo Provenzano. Ancora altre condanne, e il 41 bis potrebbe finire pesantemente compromesso nella sua legittimità a causa del suo stesso smodato utilizzo.
Come ha sottolineato anche Antigone — tramite il presidente Patrizio Gonnella e la coordinatrice nazionale Susanna Marietti — la Corte Costituzionale, nella nota sentenza numero 376 del 1997, ha ben spiegato come anche nel caso del 41 bis, pensato per contrastare la criminalità organizzata, sia necessario sempre tenere in adeguata considerazione l’articolo 27 della Costituzione, con i suoi riferimenti alla dignità umana e alla rieducazione del condannato.
Non solo. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, tramite un rapporto rivolto alle autorità italiane relativo a una visita effettuata nel 2019, raccomandò alle stesse di effettuare sempre «una valutazione del rischio individuale che fornisca ragioni oggettive per la continuazione della misura». Il Comitato sollecita che vi sia sempre una valutazione estremamente rigorosa del caso individuale evitando standardizzazioni nel trattamento solo sulla base del titolo di reato. E proprio intorno a una accurata valutazione del rischio si sofferma anche la Raccomandazione del 2014 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa rivolta ai Paesi membri sul trattamento inflitto ai detenuti ritenuti pericolosi.
Ricordiamo che la Corte europea dei diritti umani, nel 2018, ha condannato l'Italia per la decisione di continuare ad applicare il regime duro carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 fino alla morte del boss mafioso, nonostante fosse in stato vegetativo.
Attenzione: la Cedu non condanna l'Italia per le condizioni di detenzione previste dal 41bis in sé, ma per la riconferma di un regime duro lì dove non ci siano più i presupposti.
Le sentenze nostrane, invece, se pensiamo alla Consulta o alla Cassazione, hanno da tempo cominciato a stigmatizzare – e quindi abolire – tutte quelle misure ulteriormente afflittive che esulino dalla ratio del regime stesso: dai colloqui con gli avvocati passando per le ore d’aria fino alla possibilità di cuocere del cibo come gli altri detenuti.
A questo va aggiunto l’importante lavoro svolto dalla Commissione straordinaria per i diritti umani di Palazzo Madama, presieduta dall’allora senatore Pd Luigi Manconi, che nell’aprile del 2018 ha pubblicato una relazione frutto di un'approfondita indagine fatta sul campo per verificare l'applicazione del 41 bis. Da quello studio è emersa la legittimità di tutte quelle misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno, ma non di quelle che rendono insensatamente più intollerabile la pena.
Il caso dell’anarchico Cospito è serio. Le sue condizioni di salute sono ogni giorno più serie e il rischio che possa morire diventa sempre più alto. Così come, va ribadito, non si comprende come mai sia stato raggiunto da una misura nata per evitare che un boss o un terrorista invii messaggi occulti alla propria organizzazione. Quelli di Cospito, seppur farneticanti, sono pensieri inviati alla luce del sole. E non a una organizzazione criminale, ma a soggetti gravitanti nella cosiddetta galassia anarchica. Per questo, come auspica l’appello sottoscritto da numerosi giuristi e intellettuali, si spera che le autorità competenti assumano una decisione in linea con il rispetto della dignità umana.
In caso contrario, la sua morte rischierebbe, secondo una logica paradossale, di dare ragione agli anarchici che vorrebbero l’abolizione dello Stato proprio perché lo considerano, per sua natura stessa, autoritario e spietato. E nel contempo il 41 bis stesso rischia di decadere proprio a causa del suo sciagurato utilizzo.