Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2023

LA GIUSTIZIA

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE
 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli incapaci.

Parliamo di Bibbiano.

Scomparsi.

Nelle more del divorzio.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Mai dire legalità. Uno Stato liberticida: La moltiplicazione dei reati.

Giustizia ingiusta.

L’Istituto dell’Insabbiamento.

L’UPP: l’Ufficio per il Processo.

Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.

Le indagini investigative difensive.

I Criminologi.

I Verbali riassuntivi.

Le False Confessioni estorte.

Il Patteggiamento.

La Prescrizione.

I Passacarte.

Figli di “Trojan”.

Le Mie Prigioni.

Il 41 bis.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Diffamazione.

Riservatezza e fughe di notizie.

Il tribunale dei media.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Il Caso Eni-Nigeria spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Giulio Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Biondo spiegato bene.

Piccoli casi d’Ingiustizia.

Casi d’ingiustizia: Enzo Tortora.

Casi d’ingiustizia: Mario Oliverio.

Casi d’ingiustizia: Marco Carrai.

Casi d’ingiustizia: Paola Navone.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro.

Toghe Politiche.

Magistratopoli.

Palamaragate.

Gli Impuniti.


 

INDICE SESTA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Marta Russo.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso di Marco Bergamo, il mostro di Bolzano.

Il caso di Gianfranco Stevanin. 

Il caso di Annamaria Franzoni 

Il caso Bebawi. 

Il delitto di Garlasco

Il Caso di Pietro Maso.

Il mistero di Melania Rea.

Il mistero Caprotti.

Il caso della strage di Novi Ligure.

Il caso di Donato «Denis» Bergamini.

Il caso Serena Mollicone.

Il Caso Unabomber.

Il caso Pantani.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Simonetta Cesaroni.

Il caso della strage di Erba.

Il caso di Laura Ziliani.

Il caso Benno Neumair.

Il Caso di Denise Pipitone.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il caso della saponificatrice di Correggio.

Il caso di Augusto De Megni.

Il mistero di Isabella Noventa.

Il caso di Pier Paolo Minguzzi.

Il Caso di Daniel Radosavljevic.

Il mistero di Maria Cristina Janssen.

Il Caso di Sana Cheema.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il caso di Antonella Falcidia.

Il caso di Alessandra Matteuzzi.

Il caso di Andrea Mirabile.

Il caso di Giulia e Alessia Pisanu.

Il mistero di Gabriel Luiz Dias Da Silva.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Giulio Giaccio.

Il mistero di Maria Basso.

Il mistero di Polina Kochelenko.

Il mistero di Alice Neri.

Il mistero di Augusta e Carmela.

Il mistero di Elena e Luana.

Il mistero di Yana Malayko.

Il caso di Luigia Borrelli.

Il caso di Francesca Di Dio e Nino Calabrò.

Il caso di Christian Zoda e Sandra Quarta.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il mistero di Davide Piampiano.

Il mistero di Volpe 132.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Teodosio Losito.

Il mistero di Michelle Baldassarre.

Il mistero di Danilo Salvatore Lucente Pipitone.

Il Caso Gucci.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il caso di Elena Ceste.

Il caso di Libero De Rienzo.

La storia di Livio Giordano.

Il Caso di Alice Schembri.

Il caso di Rosa Alfieri.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Luca Delfino.

Il caso di Donato Bilancia.

Il caso di Michele Profeta.

Il caso di Roberto Succo.

Il caso di Pamela Mastropietro.

Il caso di Luca Attanasio.

Il giallo di Ciccio e Tore.

Il giallo di Natale Naser Bathijari.

Il giallo di Francesco Vitale.

Il mistero di Antonio Calò e Caterina Martucci.

Il caso di Luca Varani.

Il caso Panzeri.

Il mistero di Stefano Gonella.

Il caso di Tiziana Cantone.

Il mistero di Gilda Ammendola.

Il caso di Enrico Zenatti.

Il mistero di Simona Pozzi.

Il caso di Paolo Calissano.

Il caso di Michele Coscia.

Il caso di Ponticelli.

Il caso di Alfonso De Martino, infermiere satanico.

Il caso di Sonya Caleffi, la serial killer di Lecco.

Il caso di Rosa Bronzo, la serial killer di Vallo della Lucania.

Il mistero di Marcello Vinci.

Il mistero di Ivan Ciullo.

Il mistero di Francesco D'Alessio.

Il caso di Davide Cesare «Dax».

Il caso di Tranquillo Allevi, detto Tino.

Il caso Shalabayeva.

Il Caso di Giuseppe Pedrazzini.

Il Caso di Massimo Bochicchio.

Il giallo di Grazia Prisco.

Il caso di Diletta Miatello.

Il Caso Percoco.

Il giallo di Lorenzo Pucillo.

Il Giallo di Vincenzo Scupola.

Il caso di Vincenzo Mosa.

Il Caso di Alessandro Leon Asoli.

Il caso di Santa Scorese.

Il mistero di Greta Spreafico.

Il Caso di Stefano Dal Corso.

Il mistero di Rkia Hannaoui.

Il mistero di Stefania Rota.

Il Mistero di Andrea La Rosa.

Il Caso Valentina Tarallo.

Il caso di Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi.

Il caso di Terry Broome.

Il caso di Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro.

Il Mistero di Giada Calanchini.

Il Caso di Cinzia Santulli.

Il Mistero di Marzia Capezzuti.

Il Mistero di Davide Calvia.

Il Giallo di Lorenzo Pucillo. 

Il caso di Manuel De Palo.

Il caso di Michele Bonetto.  

Il mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero del Cinema Eros.

Il mistero di Sissy Trovato Mazza.

I delitti di Alleghe.

Il massacro del Circeo.

Il mistero del mostro di Bargagli.

Il mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso di Alberica Filo della Torre.

Il mistero di Giulia Tramontano.

Il mistero di Alvise Nicolis Di Robilant.

Il mistero di Maria Donata e Antonio. 

Il caso di Sibora Gagani.

Il mistero di Franca Demichela.

Il mistero di Stefano Masala.

Il mistero di Luca Orioli Marirosa Andreotta.

Il caso di Emanuele Scieri.

Il caso di Carol Maltesi.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero di Pierina Paganelli.

L’omicidio Donegani.

Il mistero di Mario Bozzoli.

Il mistero di Fabio Friggi.

Il giallo della morte di Patrizia Nettis.

La vicenda di Gianmarco “Gimmy” Pozzi.

La vicenda di Elisa Claps.

Il mistero delle Stragi.

Il Mistero di Ustica.

Il caso di Piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il mistero Mattei.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I nomi dimenticati.


 

LA GIUSTIZIA

PRIMA PARTE


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Stefano Cucchi.

Stefano Dal Corso.

Taissir Sakka.

Federico Aldrovandi.

Simone Di Gregorio.

La Polizia di Verona.

Oussama Ben Rebha.

Hasib Omerovic.

Stefano Cucchi.

Omicidio Cucchi, la Corte di Cassazione: reati prescritti per i carabinieri Mandolini e Tedesco.  Redazione Roma su Il Corriere della Sera martedì 31 ottobre 2023.

Il sostituto procuratore generale della Cassazione Antonietta Picardi aveva chiesto durante il processo di dichiarare invece l'inammissibilità dei ricorsi 

La Corte di Cassazione, con la sentenza pronunciata martedì sera, ha dichiarato prescritto il reato di falso contestato al maresciallo Roberto Mandolini e al carabiniere Francesco Tedesco nell'ambito del processo per la morte di Stefano Cucchi. 

I giudici della prima sezione penale hanno annullato senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione la sentenza di Appello bis che aveva condannato a tre anni e sei mesi Mandolini, all'epoca dei fatti comandante della stazione Appia, e a due anni e quattro mesi a Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha fatto riaprire le indagini sulla morte di Cucchi. 

Ilaria Cucchi: «Mandolini. Colpevole e salvato dalla prescrizione»

«Roberto Mandolini. Colpevole e salvato dalla prescrizione»: questo il commento apparso su Facebook, poco dopo la sentenza, e scritto da Ilaria Cucchi che non era in aula («Non ce la faccio più», aveva detto), postando una foto di Mandolini. All'appello bis Mandolini fu condannato con l'accusa di avere falsificato il verbale d'arresto di Cucchi. 

Il procuratore generale, Antonietta Picardi, sempre nella giornata di martedì, aveva chiesto di dichiarare non ammissibili i ricorsi.

Il processo d'appello

Per i due imputati la Cassazione aveva disposto un secondo processo d'appello il 4 aprile scorso, giorno in cui ha reso definitive le sentenze a 13 e 12 anni per militari dell'Arma, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale in quanto ritenuti gli autori materiali del pestaggio di Cucchi avvenuto il 15 ottobre del 2009 nella caserma dove era stato portato dopo il fermo effettuato durante un controllo in cui fu trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Il giovane venne picchiato, preso a calci e pugni. Mandolini e Tedesco erano accusati di avere falsamente attestato, nel verbale di arresto di Cucchi, la rinuncia da parte del giovane romano alla nomina del difensore di fiducia. Nelle motivazioni con cui gli «ermellini» avevano disposto un nuovo processo di appello si affermava che gli imputati avevano «soprattutto omesso di menzionare quanto realmente accaduto durante il tentativo fallito di effettuare i rilievi

fotosegnaletici» a Cucchi e in particolare avevano taciuto sulla «partecipazione del Di Bernardo e del D'Alessandro alle operazioni di arresto».

Colpevole e prescritto, l’Arma tolga la divisa a Roberto Mandolini. ILARIA CUCCHI su Il Domani il 31 ottobre 2023

Dopo la sentenza della Cassazione che sancisce la prescrizione per il depistaggio, la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, ripercorre su Domani il calvario giudiziario e la battaglia per la verità. E spiega come si è arrivati alla decisione di oggi

Roberto Mandolini, il comandante del manipolo di carabinieri che hanno arrestato Stefano Cucchi il 15 ottobre del 2009, oggi è stato riconosciuto responsabile dei reati commessi ma dichiarato prescritto. Due di quei carabinieri pestarono a morte mio fratello. Il terzo, Tedesco, intervenne e lo chiamò inutilmente.

Mandolini li protesse, depistando, cancellando, scrivendo e deponendo il falso. Il suo comportamento fece sì che venissero processati altri al posto di quegli assassini: gli agenti di Polizia penitenziaria che presero in custodia Stefano in Tribunale, dopo un’udienza di convalida dove nessuno, tranne la cancelliera, si accorse di quel corpo magro che denunciava i segni di una feroce violenza che gli era stata inflitta.

Mandolini testimoniò, sorridente, il falso che resistette per sette lunghissimi anni durante un processo che venne poi definito dal pm Musarò “kafkiano”. I colpevoli vi recitarono la parte dei testimoni mentre gli innocenti venivano accusati ingiustamente. Grazie a questi comportamenti il signor Mandolini si è guadagnato, passo dopo passo, la prescrizione salvifica. Fu aiutato, certo, dai suoi superiori e coperto anch’egli.

14 anni di processi. 16 gradi di giudizio e oltre 160 udienze.

Una maratona di dolore e umiliazioni per i miei genitori che vi si sono ammalati. Mia madre e morta. Mio padre si è gravemente ammalato divorato dai sensi di colpa per aver avuto fiducia nello Stato che aveva in custodia la vita del figlio. Per aver dilapidato tutto il nostro patrimonio famigliare presente e futuro nella disperata ricerca della verità per ridare dignità al corpo martoriato di suo figlio. E tutto questo senza aver mai smesso di insultare, offendere e dileggiare Stefano e tutti noi. Lo sta facendo anche in questi giorni.

«Chi trascende ad atti disonesti e ingiuriosi, mosso da una meschinità non meno riprovevole della malvagità e dalla sicurezza di farla franca», ha una definizione che leggo sul dizionario: Vigliacco.

Mandolini è tutto questo. Un vigliacco.

Mandolini scrive sui social che io non sarei degna di ricoprire il ruolo che ho oggi.

Detto da lui è per me una medaglia.

Ora mi aspetto che l’Arma gli tolga quella divisa che sporca.

ILARIA CUCCHI. Senatrice, attivista per i diritti umani, ha fatto una campagna per indagare sulla morte del fratello, Stefano Cucchi

Stefano dal Corso.

Marisa Dal Corso, la sorella del detenuto sardo morto in cella: «Abbiamo diritto alla verità». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2023.

Oristano, la parente: «Sono certa che non si suicidò». Il racconto: «Un testimone dice che fu aggredito e poi venne inscenata l’impiccagione. E ci sono molte stranezze»

«Sono convinta che mio fratello non si sia suicidato. Per varie ragioni: perché non è mai stato depresso, per la dinamica dei fatti e perché ci sono dei testimoni che raccontano un’altra verità e il loro racconto mi sembra molto credibile». Marisa Dal Corso come Ilaria Cucchi. Lei, con l’avvocata Armida Decina che l’assiste, e la battaglia per il fratello Stefano, trovato senza vita il 12 ottobre del 2022 nel carcere di Oristano. La magistratura archiviò il caso per suicidio: si sarebbe impiccato nella sua cella. Marisa non ha mai creduto a questa fine, ha fatto così la sua inchiesta e alla fine ha ottenuto la riapertura del caso da parte della procura di Oristano che al momento indaga contro ignoti.

Qual è quest’altra verità?

«Il giorno prima di morire Stefano ha avuto una brutta discussione con alcuni operatori del carcere. Voleva difendere un detenuto al quale venivano negate le cure. Gli operatori hanno chiuso la porta e qualcuno ha sentito le sue urla».

Questo il giorno prima però.

«Il giorno dopo hanno udito altri lamenti: aveva dei dolori e gli impedivano di parlare con lo psicologo. Voleva anche telefonare a me e a sua figlia ma gliel’hanno negato. Diceva “fatemi chiamare mia sorella e mia figlia”. Ma io non l’ho proprio sentito. E dopo l’hanno trovato morto».

Cosa intende per operatori, agenti di polizia penitenziaria?

«Non voglio dire cosa intendo per operatori ma naturalmente si tratta di chi ha in mano le chiavi delle celle».

Come arriva a questa ricostruzione e come può esserne sicura?

«Io ho una sola certezza, che mio fratello non si è suicidato. Ci arrivo attraverso due testimoni che non si conoscono fra di loro e che hanno sentito quelle urla. Secondo uno di questi Stefano sarebbe stato aggredito e poi avrebbero inscenato l’impiccagione. Mi ha detto di andare avanti, di chiedere l’autopsia. I racconti dei due coincidono. Ma al di là di queste testimonianze ci sono altre stranezze».

Cioè?

«Sei mesi dopo la morte ho ricevuto un libro, che era indirizzato a lui. All’indice erano sottolineati e cerchiati due capitoli, La morte e La confessione. Io l’ho interpretato come un segnale: qualcuno mi spingeva a cercare la verità, come se ci fossero delle persone che potevano parlare, confessare qualcosa. E infatti poi abbiamo trovato i testimoni».

Solo questo?

«No, c’è dell’altro. Il nostro medico legale ritiene che le lesioni sul collo siano compatibili con lo strangolamento. Il corpo sarebbe stato poi trovato con una gamba sul letto e una fuori, una posizione innaturale per un suicida. La grata delle finestra dove si sarebbe appeso con un cappio di stoffa ricavata dal lenzuolo era un po’ troppo bassa. E il taglierino usato per il lenzuolo non l’abbiamo mai potuto vedere. Mi sembra che ci siano abbastanza stranezze per tornare a indagare sul caso, non crede?».

Cosa chiedete agli inquirenti?

«Il primo passo è l’autopsia. Anche questa decisione presa a suo tempo di non cercare le cause della morte mi ha lasciato perplessa: come mai non è mai stata fatto questo esame?».

Da quant’era in carcere suo fratello?

«Ha fatto quindici anni di detenzione, seppure intervallati, entrava e usciva per periodi anche lunghi. Era dentro soprattutto per cose di droga... è diventato tossicodipendente in carcere, a Rebibbia».

Aveva dei sogni?

«Stefano si era preso diversi attestati, quello alberghiero, quello di giardiniere... Aveva dei progetti anche perché si stava avvicinando la libertà e non vedeva l’ora di aprirsi un ristorante, era entusiasta e guardava al futuro. Nelle ultime lettere diceva di non inviare più la posta al carcere di Oristano perché stava per tornare a Rebibbia, dove avrebbe scontato gli ultimi mesi. Pensi che due giorni prima della morte la psicologa aveva fatto una relazione nella quale l’aveva descritto reattivo, simpatico, scherzoso. Insomma, Stefano non voleva morire ma rinascere». 

In un audio le prove. Stefano Dal Corso, un “nuovo caso Cucchi” in Sardegna: riaperta l’indagine sul detenuto morto in carcere. Redazione su L'Unità il 20 Ottobre 2023

Si riapre l’indagine sulla morte di Stefano Dal Corso, il detenuto romano di 42 anni trovato senza vita il 12 ottobre 2022 nella sua cella del carcere Massama di Oristano, in Sardegna, impiccato ad una finestra.

Perché a un anno di distanza dalla tragedia ci sono audio e testimonianze che potrebbero aiutare finalmente a capire cosa è successo quel giorno nel penitenziario sardo, nella cella numero otto.
Una inchiesta sbrigativamente chiusa dai magistrati sardi, che avevano archiviato tutto come un suicidio senza neanche disporre l’autopsia sulla salma di Stefano.

Di diverso avviso la sorella del 24enne, Marisa Dal Corso, così come l’avvocato Armida Decina: loro, come racconta oggi Repubblica, pensano che quanto accaduto a Stefano in carcere sia un “nuovo caso Cucchi”.
Così gli stessi magistrati che avevano archiviato la prima indagine, ne hanno aperto una seconda: il fascicolo è contro ignoti e senza ipotesi di reato.

Eppure vi sarebbero più persone che hanno parlato di pestaggi, punti di sutura, lividi e strangolamenti. In particolare una telefonata ricevuta da Marisa Dal Corso da parte di una persona “ben informata” sui fatti accaduti all’interno del carcere: “Tu devi andare avanti. Devi fargli fare l’autopsia, assolutamente. Gliela devi far fare!”.

Stefano, a cui mancavano poche settimane prima della ritrovata libertà, col progetto di tornare a vivere assieme alla compagna e alla figlia, sarebbe stato aggredito e poi strangolato “con un lenzuolo”, rivela la fonte alla sorella. Dopo “è stata inscenata l’impiccagione”, spiega ancora la persona che ha parlato al telefono con Marisa, un testimone al quale va garantito l’anonimato per proteggerlo.
Non è l’unica “arma” in mano ai familiari. L’avvocato Decina parla di testimonianze contrastanti, acquisite in ritardo o mai raccolte, così come di guasti alle telecamere di sicurezza del reparto di infermeria del penitenziario. C’è poi il cappio del suicidio, ricavato dal lenzuolo di un letto che tuttavia era perfettamente rifatto, con un taglierino che l’avvocata Decina non ha mai potuto vedere, oltre al al problema principale della prima indagine, ovvero l’autopsia mai effettuata.

Sulla vicenda di Stefano Dal Corso il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Redazione - 20 Ottobre 2023

Stefano Dal Corso: l’ombra di un nuovo omicidio di polizia frettolosamente archiviato.  Roberto Demaio su L'Indipendente il 23 Ottobre 2023

L’ombra di un nuovo caso di omicidio in carcere da parte di uomini dello Stato si allunga sul caso di Stefano Dal Corso, detenuto romano morto nel carcere di Oristano il 12 ottobre 2022. L’accusa è pesantissima: alcuni agenti lo avrebbero massacrato di botte e poi avrebbero inscenato un suicidio appendendolo con un lenzuolo al collo nella sua cella. Il caso venne rapidamente archiviato come suicidio, ma a riportarlo alla luce è stata la sorella del detenuto deceduto che, in una conferenza stampa svoltasi venerdì alla Camera dei Deputati (supportata dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”), ha reso note le testimonianze di alcuni detenuti che parlano di notte e strangolamento ai danni di Dal Corso. Un caso inquietante anche per il fatto che dal carcere sarebbero scomparsi fascicoli e reperti medici, mentre tutte le telecamere a circuito chiuso che potevano riprendere la cella e l’ambulatorio medico dove è stato certificato il decesso risultarono contemporaneamente “guaste”.

«Voglio le prove. Mio fratello ha sofferto nella sua vita, ma non si è ucciso». Sono queste le parole di Marisa Dal Corso, sorella di Stefano Dal Corso. La donna, affiancata dal deputato Roberto Giacchetti e dall’esponente radicale Rita Bernardini, ha presentato una interrogazione parlamentare al ministro Nordio. È l’avvocato di famiglia Armida Decina a denunciare che le prove fornite sono insufficienti: fascicolo vuoto, foto incomplete, telecamere di sicurezza del reparto di infermeria guaste e richieste di autopsia che sono sempre state respinte dalla Procura. Il caso era stato archiviato come suicidio per impiccagione ma, dopo la continua lotta dei famigliari e le nuove dichiarazioni di altri detenuti e di un testimone anonimo che parla di strangolamento, è stata aperta una nuova inchiesta.

«Il fascicolo che mi hanno presentato era vuoto. Non c’erano i video delle telecamere e le foto mostravano il corpo di Stefano vestito. Impossibile appurare se ci fossero segni di percosse», afferma l’avvocato. Non solo: «Non è mai stata eseguita autopsia su quel corpo». Altre prove sono arrivate dal medico legale della famiglia, che ritiene che le lesioni al collo di Stefano siano più compatibili con lo strangolamento piuttosto che con una impiccagione. Il corpo è attualmente conservato in una cella frigorifera e, dopo che anche il garante dei detenuti in Sardegna ha scritto al procuratore di Oristano per chiedere l’autopsia, non rimane che aspettare ulteriori risultati.

A tutto questo si aggiunge la testimonianza del carcerato posizionato nella cella davanti a quella di Stefano, che parla esplicitamente di un pestaggio avvenuto la sera prima. Secondo il racconto, Stefano sarebbe intervenuto per difendere il detenuto che, diabetico, chiedeva dei medicinali che gli sarebbero stati negati. «Le urla di dolore di Stefano si sentivano per tutta la sezione dove era recluso», aggiunge la sorella, citando la testimonianza. C’è anche un file audio che raccoglie le testimonianze di altri carcerati: «Alcuni detenuti hanno assistito ad un passaggio che noi riteniamo fondamentale. Dopo la lite con altri detenuti, avvenuta l’11 ottobre, ci raccontano i testimoni in un file audio, le guardie entrarono in cella e dalla cella provenivano grida di dolore». Ma non ci sono solo le parole dei detenuti: Marisa è stata contattata anche da un’altra persona che sotto anonimato conferma la tesi del pestaggio: «Sicuramente ha preso qualche punto… Comunque alla fine l’ha strangolato e hanno fatto come se si fosse suicidato. Tu devi andare avanti. Devi fargli fare l’autopsia, assolutamente. Gliela devi far fare!». Infine c’è un libro, consegnato anonimamente alla casa della sorella da due finti fattorini Amazon. Si chiama “Fateci uscire da qui” e presentava due capitoli evidenziati: “La morte” e “la confessione”.

Marisa Dal Corso ha poi concluso, spiegando perché le testimonianze e l’interrogazione sono state trattate ora: «Le testimonianze che abbiamo avuto dai detenuti sono molto diverse dalle relazioni che sono state fatte sulla morte di Stefano finora. La mia personale idea è stata sempre la stessa: che mio fratello non è morto per mano sua. Oggi siamo venuti in Parlamento perché dopo un anno sono venuta a conoscenza di quello che realmente è accaduto in carcere, ho dovuto tacere per tutelare gli altri detenuti che esplicitamente hanno detto di avere paura. Ho sperato fino all’ultimo nell’autorizzazione all’autopsia senza dover ricorrere a queste testimonianze ma purtroppo le cose sono andate diversamente… ecco perché siamo qui». Da qui l’interrogazione di Giachetti, che ha dichiarato che «il caso non può essere liquidato in quattro e quattro otto» e che è necessario fare luce sulla questione. [di Roberto Demaio]

Taissir Sakka.

Estratto dell'articolo di Valentina Lanzilli per corriere.it venerdì 20 ottobre 2023.

Sei carabinieri del Nucleo Radiomobile di Modena sono indagati per la morte di Taissir Sakka, il 30enne tunisino trovato cadavere domenica mattina nel parcheggio del cinema Filmstudio 7B in via dell’Abate, vicino alla stazione dei treni.

[…] cinque militari dovranno rispondere di lesioni ai danni del fratello della vittima, Mohamed, che aveva sporto denuncia dopo i fatti, mentre il sesto indagato dovrà rispondere di morte come conseguenza di altro reato.

[...] è stato proprio il fratello della vittima ad indicare i militari in pattuglia quella notte come responsabili del decesso del 30enne, da qui l’apertura delle indagini come atto dovuto. […]

Il suo corpo era riverso a terra, tra due auto parcheggiate, con una profonda ferita alla testa. Poche ore dopo i fatti i Carabinieri in una breve nota avevano spiegato che «i sanitari del 118 si apprestavano a soccorrere un uomo senza fissa dimora constatandone il decesso. In corso accertamenti per ricostruire l’esatta dinamica di una possibile caduta accidentale. La persona la sera prima era stata controllata in stato di ubriachezza in un locale della provincia». Una versione che non aveva mai convinto parenti e amici della vittima.

taissir Sakka.

Tutto era iniziato sabato sera quando Taissir e Mohamed erano rimasti coinvolti in una violenta lite fuori dal circolo Arci di Ravarino, in provincia di Modena. Ad affrontarsi un gruppo di ragazzi residenti in zona e i due fratelli tunisini, come aveva raccontato il responsabile del circolo ArciLuciano Salvi.

Una lite che aveva richiesto l’intervento dei Carabinieri, che avevano controllato Taissir e lo avevano accompagnato in caserma, in stato di ebbrezza, dove il ragazzo era stato trattenuto per circa 40 minuti. Quello che è accaduto da quel momento alla mattina dopo è tutto da ricostruire. Fondamentale saranno le risposte che arriveranno dall’esame autoptico in corso in queste ore. […]

Morto nel posteggio, carabinieri nei guai. Il tunisino era finito in una rissa. Un militare indagato per il decesso, coinvolti altri cinque. Patricia Tagliaferri il 21 Ottobre 2023 su Il Giornale.

C'è un buco di diverse ore da sabato notte, quando Taissir Sakka, 30 anni, tunisino, è stato portato in caserma dopo una notte «brava» di violente liti e alcool, e domenica mattina quando è stato ritrovato morto nel parcheggio di un cinema vicino alla stazione di Modena. In un primo momento i carabinieri avevano diffuso una nota in cui si parlava di accertamenti finalizzati a ricostruire l'esatta dinamica di una possibile caduta accidentale, ma il fratello del giovane non ha mai creduto a questa tesi e ha presentato una denuncia ipotizzando un'aggressione, in seguito alla quale sei militari dell'Arma sono stati iscritti nel registro degli indagati. Ad uno il pm contesta i reati di minacce aggravate e di morte come conseguenza di altro reato. Gli altri cinque militari, invece, sono accusati di lesioni. Ieri il magistrato ha affidato l'incarico per eseguire l'autopsia sul corpo della vittima, che aveva un profondo taglio alla testa. L'esito dell'esame autoptico sarà determinante per stabilire l'esatta causa della morte, escludendo o meno una causa violenta. Nel frattempo l'iscrizione dei carabinieri nel registro degli indagati è un atto dovuto per consentire loro di difendersi.

Di certo si sa che sabato sera i militari era intervenuti al circolo Arci di Ravarino per sedare una lite scoppiata all'esterno del locale tra Taissir e suo fratello Mohamed e un altro gruppo di giovani. I carabinieri intervenuti hanno trovato i due in stato di ubriachezza, li hanno identificati e portati in caserma a Modena per denunciarli. Tassir era noto alle forze dell'ordine per diversi precedenti. È ancora un mistero come sia finto nel parcheggio di via dell'Abate. È stato trascinato da qualcuno? E come si è procurato quella ferita letale? Il fratello non crede all'ipotesi della caduta accidentale ed ha presentato una dettagliata denuncia in cui fornisce la sua versione. Ma gli investigatori stanno ancora cercando riscontri alle sue affermazioni, anche dalle telecamere di sorveglianza della zona. Nella speranza di trovare qualche immagine che chiarisca se davvero il tunisino è stato ucciso ed eventualmente da chi. Mohamed ha puntato il dito contro i carabinieri di pattuglia intervenuti sabato sera per placare gli animi. Ma dopo le 23, quando il giovane è stato portato in caserma, non è chiaro cosa sia accaduto. Sarà necessario attendere l'esito dell'autopsia per avere qualche risposta. I sindacati dell'Arma sono intervenuti a difesa dei militari tirati in ballo: «Atto dovuto e garantista quello adottato dalla Procura di Modena», dice in una nota l'Usmia Carabinieri. «Massima fiducia nella magistratura. L'avviso di garanzia permetterà ai militari di valutare la perizia medico legale e dimostrare la loro innocenza», gli fa eco il Nuovo sindacato carabinieri.

Federico Aldrovandi.

Ferrara, Federico Aldrovandi moriva 18 anni fa durante un controllo di polizia, il padre: «Che orrore, tu ucciso da uomini in divisa come me». Davide Soattin su Il Corriere della Sera lunedì 25 settembre 2023.

La dedica commovente sui social: «Chi ti uccise, ora reintegrato, per me non sarà mai e poi mai un poliziotto» 

Diciotto anni fa - il 25 settembre 2005 - moriva Federico Aldrovandi, 18enne ferrarese ucciso durante un controllo di polizia nei pressi di via Ippodromo, a Ferrara.

La colluttazione con gli agenti

 Il giovane, di rientro dopo una serata trascorsa a Bologna, si fece lasciare dagli amici in un parco vicino a casa dove, poco prima dell'alba, andò incontro al proprio tragico destino. È in quel frangente che una pattuglia con a bordo due poliziotti lo fermò per un controllo. Di lì a poco nacque una colluttazione, risolta con l'intervento di altri due colleghi in divisa, chiamati a rinforzo. Per il 18enne fu la fine. Poco dopo le 6 di mattina arrivò sul posto l'ambulanza, con i sanitari intervenuti che dichiararono di aver trovato il ragazzo «riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena»: tentarono il tutto per tutto per salvargli la vita, ma poco dopo non poterono fare altro che accertarne la morte per «arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale». 

Quattro poliziotti condannati

Sul luogo della tragedia vennero ritrovati due manganelli in dotazione alle forze dell'ordine spezzati. Inizialmente, secondo le prime versioni ufficiali, a uccidere Federico Aldrovandi fu un malore, ma le 54 tra lesioni ed ecchimosi rinvenute sul cadavere convinsero i genitori a spingersi più in là e a cercare la verità. Così, a marzo 2006, i nomi dei quattro agenti (Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani e Luca Polastri) intervenuti quella mattina in via Ippodromo vennero iscritti al registro degli indagati con l'accusa di omicidio colposo, mentre il loro rinvio a giudizio arrivò a gennaio 2007. Nel luglio 2009 poi, dopo un lungo e tormentato percorso giudiziario, grazie anche al lavoro dell'avvocato Fabio Anselmo, le condanne, confermate in Appello e dalla Cassazione: tre anni e mezzo di carcere a tutti e quattro per eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi, pena ridotta a 6 mesi per via dell'indulto. 

La dedica del padre

Al termine di quei sei mesi, i poliziotti - inizialmente sospesi dal servizio - vennero tutti reintegrati. «Caro Federico, ogni anno a quest'ora il mio respiro inevitabilmente si affievolisce e i ricordi tristi di un'alba inspiegabilmente assassina, continuano a tormentarmi. Sono trascorsi diciotto anni da quell'assurda domenica mattina, di quel 25 settembre 2005. In pratica, il tempo che tu hai vissuto su questa terra», scrive il padre, Lino Aldrovandi, in un lungo intervento notturno su Facebook in occasione del 18esimo anniversario dell'uccisione del figlio. «Sono stati anni molto difficili quelli a seguire, che hanno cambiato la vita a me, a Patrizia e a Stefano. Amaramente dico che forse non siamo più gli stessi. Quel 25 settembre alla nostra famiglia accadde l'irreparabile. E mai a nessuna famiglia dovrebbe accadere». 

«Chissà che orrore hai provato, figlio mio»

«Ai miei occhi di padre, ormai vecchio e stanco, condannato a sopravvivere con un dolore e una pena che non avrà mai fine, chi ti uccise (4 poliziotti), tra l'altro reintegrato dopo aver scontato la pena (quale pena?) nella stessa polizia, alla luce dei fatti ricostruiti processualmente, per me non sarà mai e poi mai un poliziotto», continua, lui che era un agente della municipale, con un padre carabiniere. «A volte mi domando, quale terrore e quale orrore possa aver provato Federico quella maledetta mattina, con lui a domandarsi, mentre la sua vita svaniva: `sto chiedendo aiuto papà a uomini in divisa simile alla tua e a quella del nonno, di cui parlavate un gran bene, ma non mi stanno ascoltando». «La tua Federico fu un'uccisione, senza se e senza ma. E tale rimarrà per sempre», conclude Lino Aldrovandi.

Simone Di Gregorio.

Il caso. Chi è Simone Di Gregorio, il 35enne che ha perso la vita dopo essere stato colpito dal taser: aperta un’inchiesta e disposta l’autopsia. È accaduto in provincia di Chieti. L'uomo era andato in escandescenza in strada. Il decesso in seguito ai soccorsi. I sanitari gli avrebbero fatto delle iniezioni per sedarlo. La Procura ha avviato le indagini e chiesto l'esame autoptico sulla salma. Redazione Web su L'Unità il 14 Agosto 2023

Aperto un fascicolo d’inchiesta per la morte di un ragazzo durante il trasporto in ospedale a San Giovanni Teatino, in provincia di Chieti. Si tratta di Simone Di Gregorio, 35 anni del posto. Il sostituto procuratore della Repubblica del tribunale di Chieti, Marika Ponziani, ha disposto l’autopsia per il ragazzo. L’esame è necessario per accertare le cause del decesso e verificare se il giovane ha assunto sostanze che potrebbe aver alterano il suo stato psico-fisico.

Chi è Simone Di Gregorio colpito dal taser e poi morto

Il fatto è accaduto ieri nel tardo pomeriggio. Il giovane si è spogliato lungo corso Vittorio Emanuele II, a San Giovanni Teatino, in pieno centro storico e, dopo essersi accanito contro un veicolo, si è diretto lungo il tracciato ferroviario, nudo e in stato di agitazione. Sui binari, il 35enne è stato raggiunto dai carabinieri della locale stazione che, per contenerlo, avrebbero usato una pistola elettrica.

I soccorsi e il decesso: aperto un fascicolo

Il giovane è stato immobilizzato e soccorso dal personale del 118, sopraggiunto con l’ambulanza. I sanitari gli avrebbero somministrato dei medicinali per tranquillizzarlo e stabilizzarlo, ma dopo un pò il 35enne ha perso i sensi ed è morto prima di raggiungere l’ospedale. A quanto si apprende dagli accertamenti sarebbe emerso che l’uomo “compiva atti di autolesionismo“. Redazione Web 14 Agosto 2023

Garante detenuti, inaccettabile che per 'calmare' si arrivi a morte. La morte di Simone Di Gregorio, colpito da taser mentre girava nudo per strada: il farmaco per calmarlo e il decesso in ambulanza. Redazione su Il Riformista il 14 Agosto 2023 

Dominica 13 agosto: un uomo gira nudo nei pressi dei binari ferroviari in corso Vittorio Emanuele II, a San Giovanni Teatino, piccolo comune in provincia di Chieti. Sembra in stato di alterazione psicofisica, attraversa correndo i binari e i presenti, preoccupati, sollecitano l’intervento dei carabinieri. I militari, una volta intervenuti, provano a bloccarlo, utilizzando il taser, la pistola a impulsi elettrici, ma non ottengono l’effetto sperato. L’uomo, che secondo quanto appreso soffriva di disturbi psichici ed era in cura in un centro di igiene mentale, sfugge alla loro presa e continua a correre, colpendo a testate (stando ad alcune testimonianze) alcune auto parcheggiate. Una volta bloccato, viene richiesto l’intervento del 118 che arriva con una ambulanza sul posto e gli somministra un medicinale per calmarlo. Dopodiché i sanitari lo fanno entrare in ambulanza e si dirigono verso l’ospedale di Chieti. Qui,

Simone Di Gregorio, 35enne originario di Pescara ma residente con la famiglia a San Giovanni Teatino, arriva privo di vita.

Questi i fatti al momento noti su un decesso che vedrà adesso le indagini della procura di Chieti far luce su quanto accaduto, su un intervento per calmare un uomo in stato di alterazione e finito nel peggiore dei modi.

Il sostituto procuratore della Repubblica di Chieti, Marika Ponziani ha aperto un fascicolo a carico di ignoti in cui si ipotizza il reato di omicidio colposo. L’uomo ha continuato a dare in escandescenze, secondo alcuni testimoni tirando colpi contro una vettura anche dopo l’intervento dei carabinieri, sollecitati dai presenti perché temevano che il 35enne, che continuava a girare nudo a ridosso dei binari, potesse compiere un gesto estremo o comunque rimanere coinvolto in un incidente.

Secondo una prima, parziale, ricostruzione, sarebbe emerso che “l’uomo compiva atti di autolesionismo. Il sindaco di San Giovanni Teatino, Giorgio Di Clemente, si è limitato a dire che “al momento queste sono solo supposizioni. C’è massimo riserbo e le indagini stanno andando avanti”. Sarà l’autopsia a chiarire le cause del decesso del 35enne avvenuto per arresto cardiaco del 35enne. Un arresto cardiaco dovuto all’utilizzo del taser, al medicinale somministrato dal 118 o ad altre cause: questo dovrà essere cristallizzato. Da accertare anche se al momento del fatto l’uomo avesse assunto medicinali o possa aver agito sotto l’effetto di altre sostanze oppure in preda ad una crisi.

Inevitabili quanto premature le polemiche sull’utilizzo del taser. “Il taser in genere se utilizzato correttamente non è pericoloso“, ha dichiarato Franco Romeo, professore di Cardiologia ed ex presidente della Società italiana di Cardiologia. “L’arresto cardiaco – aggiunge – può essere una risposta a una situazione di particolare fragilità e stress, ma dagli studi fatti, su un milione e mezzo di persone colpite con taser certificati, non si sono ravvisati rischi seri per la salute di nessuno, ne’ tanto meno, episodi di arresto cardiaco”. “L’intensità del raggio laser è importante ma di breve intensità proprio per non mettere a rischio la vita di chi lo subisce e non comportare problemi cardiaci – continua – Nel caso in cui la persona abbia impiantato un defibrillatore o un pacemaker, l’uso del taser può ‘starare’ il device, ma in ogni caso, non è qualcosa che provoca la morte”.

Sulla vicenda è intervenuto anche il segretario generale Fsp Polizia di Stato Valter Mazzetti che in una nota chiede che “la drammatica notizia del 35enne morto a Chieti non può e non deve essere usata per riaprire polemiche inutili e dannose per la sicurezza di tutti, a proposito di uno strumento importante per cui chi fa questo lavoro si è battuto per anni, e che finalmente abbiamo cominciato ad avere con un ritardo che ci vede in una situazione quasi ridicola rispetto ad altri corpi di Polizia nel panorama internazionale”.

Garante detenuti, inaccettabile che per ‘calmare’ si arrivi a morte

“Non è accettabile che l’operazione per ricondurre alla calma una persona in evidente stato di agitazione e, quindi, di difficoltà soggettiva, si concluda con la sua morte”. Lo afferma in una nota Mauro Palma, il Garante Nazionale dei detenuti intervenendo sulla vicenda dell’uomo che è morto ieri a San Giovanni Teatino, in provincia di Chieti, dopo essere stato fermato col taser dalle forze dell’ordine e sedato in ambulanza dal 118.”Sarà l’indagine – si legge ancora nella nota – a chiarire meglio circostanze e cause del decesso e per questo attendiamo con fiducia quanto la magistratura accerterà”. “La ormai sedimentata collaborazione del Garante nazionale con le diverse forze dell’ordine, centrata soprattutto sulla formazione, obbliga a una riflessione comune sullo sviluppo sempre più positivo della professionalità di chi opera in contesti spesso difficile e sul coordinamento delle azioni con gli attori dei servizi sanitari di urgenza”, conclude la nota.

La Polizia di Verona.

Estratto dell'articolo di ansa.it il 6 giugno 2023.

Questa mattina personale della Polizia di Stato di Verona ha eseguito una ordinanza di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari emessa dal gip del Tribunale di Verona a carico di un ispettore e quattro agenti per presunti atti di violenza avvenuti nel periodo ricompreso tra il luglio 2022 e il marzo 2023, nei confronti di persone sottoposte, a vario titolo, alla loro custodia. 

Calci, pugni ed umiliazioni contro stranieri o senzatetto, persone in stato di fermo costrette a subire la violenza degli agenti di polizia. Queste le azioni, secondo il gip, nei confronti di chi veniva fermato e portato negli uffici per l'identificazione. 

 In uno dei casi di violenza che hanno portato agli arresti di cinque agenti della questura di Verona, due poliziotti sono accusati non solo di aver picchiato una persona sottoposta a fermo di identificazione, ma anche di averla costretto a urinare nella stanza fermati.

Lo scrive il Gip di Verona nell'ordinanza nei confronti degli indagati sottolineando che gli stessi l'hanno poi l'hanno spinta in un angolo facendola cadere a terra e usandola "come uno straccio per pulire il pavimento". 

In un caso un agente sferrò uno schiaffo al volo di uno dei fermati, si legge nell'ordinanza, così "vigoroso da fargli perdere i sensi per alcuni minuti". "Stai zitto, altrimenti entro dentro e vedi cosa ti faccio", una delle frasi con cui gli agenti si rivolgevano ai fermati. 

In alcuni casi, poi, oltre alle botte e agli insulti razzisti e xenofobi, gli agenti infierivano utilizzando anche lo spray al peperoncino. "Ti spruzzo nel c...o", minacciava l'ispettore arrestato davanti ai colleghi.

"I soprusi, le vessazioni e le prevaricazioni poste in essere dagli indagati risultano aver coinvolto, in misura pressocché esclusiva - scrive il gip, Livia Magri -, soggetti di nazionalità straniera, senza fissa dimora, ovvero affetti da gravi dipendenze da alcol o stupefacenti, dunque soggetti particolarmente 'deboli'". 

"È innegabile che tutti gli indagati, con le condotte sopra descritte abbiano tradito la propria funzione, comprimendo i diritti e le libertà di soggetti sottoposti alla loro autorità offendendone la stessa dignità di persone, creando essi stessi disordine e compromettendo la pubblica sicurezza, commettendo reati piuttosto che prevenirli, in ciò evidentemente profittando della qualifica ricoperta, anche compiendo falsi ideologici in atti pubblici con preoccupante disinvoltura".

[…]

Ai cinque indagati, oltre al reato di tortura, sono stati contestati, a diverso titolo, anche quelli di lesioni, falso, omissioni di atti d'ufficio, peculato e abuso d'ufficio. 

I destinatari delle misure cautelari erano già stati trasferiti ad altri incarichi all'indomani della chiusura delle attività di indagine e quindi da alcuni mesi. Negli sviluppi dei successivi accertamenti giudiziari, il Questore della provincia di Verona, Roberto Massucci, ha disposto la rimozione dagli incarichi di altro personale che, pur non avendo preso parte a episodi di violenza, si presume possa non aver impedito o comunque non aver denunciato i presunti abusi commessi dai colleghi. 

L'inchiesta è partita grazie ad una intercettazione telefonica, compiuta nell'ambito di un'altra indagine, in cui un agente si vantava di aver "messo al suo posto" una persona fermata dandogli due schiaffi.

"Raccontava alla fidanzata, inframezzando il narrato con risate e commenti divertiti, il pestaggio ai danni di una delle vittime". È quanto emerge dall'ordinanza di arresto emessa dal Gip. Nel documento vengono riportate alcuni stralci dei suoi dialoghi con la fidanzata, quando le raccontava delle violenze nei confronti di alcune persone che aveva fermato: "m... che pigna che gli ho dato". E ancora: "ho detto vabbè, oggi le devi prendere anche da me!". 

In un'altra conversazione aggiungeva: "gli ho fatto una presa io, gli ho calciato fuori e poi l'abbiamo portato dentro insieme, no, e vabbè gli abbiano tirato due, tre schiaffi a testa, no, ma così, giusto per...".

In un altro dei sette casi documentati sino al marzo di quest'anno, uno straniero si sarebbe preso un manrovescio per aver compiuto un atto osceno mentre si trovava nella stanza degli interrogatori. E' quanto riferiscono fonti investigative sugli episodi che hanno portato stamane agli arresti di cinque poliziotti sottoposti ai domiciliari. 

"Si è trattato di una indagine svolta completamente dall'interno e durata diversi mesi per accertare in modo chiaro e trasparente comportamenti non legittimi": lo sottolinea all'ANSA il questore di Verona, Roberto Massucci, dopo i cinque arresti scattati oggi nei confronti di cinque poliziotti per le violenze avvenute il luglio 2022 e il marzo 2023 nei locali della Questura. […]

VERONA, CINQUE POLIZIOTTI ARRESTATI PER TORTURA E PESTAGGI IN QUESTURA. Estratto da tg24.sky.it il 6 giugno 2023.

Cinque poliziotti sono stati arrestati a Verona con l'accusa di tortura, lesioni aggravate, peculato, rifiuto e omissione di atti di ufficio e falso ideologico in atto pubblico. Un ispettore e quattro agenti sono finite ai domiciliari. 

[…] avrebbero in diverse occasioni pestato persone fermate per strada nel corso di controlli, per poi truccare i verbali in modo tale da allontanare responsabilità e sospetti. Non si tratta di un caso isolato: oltre ai cinque arrestati, ci sono una decina di poliziotti indagati. […]

[…] Il capo della polizia, Vittorio Pisani, ha commentato quanto accaduto: "Affrontiamo questo caso con dignità e compostezza". E ancora: "Ringrazio la procura della Repubblica di Verona per la fiducia accordata alla Polizia di Stato nel delegare alla locale Squadra Mobile le indagini riguardanti gli operatori appartenenti alla stessa questura. La levatura morale della nostra amministrazione ci consente di affrontare questo momento con la dignità e la compostezza di sempre".

(ANSA il 6 giugno 2023) - L'inchiesta della Procura sui casi di tortura e violenza avvenuti a partire dal luglio 2022 nella questura scaligera è partita grazie ad una intercettazione telefonica, compiuta nell'ambito di un'altra indagine, in cui un agente si vantava di aver "messo al suo posto" una persona fermata dandogli due schiaffi. 

In un altro dei sette casi documentati sino al marzo di quest'anno, uno straniero si sarebbe preso un manrovescio per aver compiuto un atto osceno mentre si trovava nella stanza degli interrogatori. E' quanto riferiscono fonti investigative sugli episodi che hanno portato stamane agli arresti di cinque poliziotti sottoposti ai domiciliari. Le stesse fonti sottolineano quanto la stessa Polizia si sia spesa per individuare al suo interno i responsabili dei fatti.

L'indagine, si rileva, "non è nata da pressioni dell'opinione pubblica o da filmati postati in rete. Un segnale positivo - viene sottolineato - sulla presenza di un sistema che anche dall'interno consente di intercettare (e non nascondere) episodi di derive illegali". Secondo quanto si è appreso, oltre ai poliziotti autori delle violenze, sono stati trasferiti e sottoposti ad indagine anche coloro i quali potevano sapere e non hanno fatto nulla per impedire o denunciare gli abusi. In un terzo episodio, secondo quanto trapelato, gli agenti avrebbero usato contro il fermato dello spray al peperoncino sul viso. La questura sottolinea che si tratta di sette casi isolati, che sono stati documentati attraverso intercettazioni audio e video all'interno degli stessi uffici di polizia

 Dentro la questura di Verona si tortura: arrestati 5 poliziotti. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 6 giugno 2023.

A Verona, il giudice per le indagini preliminari (gip) ha disposto cinque arresti domiciliari per altrettanti poliziotti, accusati a vario titolo di tortura, lesioni aggravate, peculato, rifiuto ed omissione di atti di ufficio e, infine, falso ideologico in atto pubblico. I poliziotti, un ispettore e quattro agenti, si sarebbero resi protagonisti di atti gravemente lesivi della dignità umana nei confronti di diverse persone sottoposte ad accertamenti nella questura di Verona tra luglio 2022 e marzo 2023. Le misure cautelari sono state disposte a seguito delle indagini delegate dalla Procura alla stessa Polizia di Stato di Verona, conclusesi a marzo. Negli ultimi tre mesi, i cinque poliziotti sono stati trasferiti dalla Squadra mobile “ad altri incarichi”. Stesso destino per un altra decina di agenti che, stando alle recenti indagini, non avrebbero impedito o comunque denunciato i presunti abusi commessi dai colleghi. Uno scenario che, se confermato a processo, aggiungerebbe un nuovo tassello agli episodi di tortura e di successiva omertà tra le forze dell’ordine.

Violenze in questura nascoste da verbali truccati e generale accondiscendenza. Questo l’oggetto delle indagini condotte per otto mesi dalla Squadra Mobile di Verona, che hanno portato il gip a disporre cinque misure cautelari (arresti domiciliari) in vista del processo. Nell’ordinanza si legge che due dei cinque poliziotti sono accusati di aver picchiato una persona sottoposta a fermo di identificazione, costretta poi a urinare nella stanza. A questo punto gli agenti l’avrebbero spinta in un angolo facendola cadere a terra e usandola “come uno straccio per pulire il pavimento”. L’ordinanza del gip di Verona segue di qualche settimana la pubblicazione del Rapporto 2022-2023 sulla situazione dei diritti umani nel mondo. Relativamente all’Italia, l’indagine di Amnesty International si apre con una certa preoccupazione nei confronti della tortura, uno dei temi affrontato da L’Indipendente nel Monthly Report di gennaio. Il divieto di trattamenti degradanti è stato recepito dal nostro Paese sia mediante la ratifica di accordi internazionali, come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), sia attraverso la legge n. 110 del 2017. Ciononostante, la pratica non è stata debellata. “A novembre, 105 agenti penitenziari e altri funzionari sono stati processati con l’accusa di molteplici reati, tra cui la tortura, per la repressione violenta di una protesta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nell’aprile 2020″, scrive Amnesty, citando anche il caso di Hasib Omerovic precipitato giù dalla finestra della sua casa in circostanze ancora non chiare, durante un’ispezione di polizia non autorizzata. [di Salvatore Toscano]

«È crollato a terra svenuto. Che pigna che gli ho dato»: le intercettazioni choc dei poliziotti arrestati a Verona. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 07 giugno 2023 

Tutto è partito dalla telefonata di uno degli agenti i fermati con la fidanzata. «L’ho portato dentro la cella — si vantava l’agente —, ho preso lo spray urticante e gliel’ho spruzzato tutto quanto sulla faccia» 

La confessione del primo pestaggio — che per i magistrati inquirenti rientra nel reato di «tortura» — i suoi colleghi della Squadra mobile l’hanno raccolta quasi in diretta dall’agente Alessandro Migliore, 25 anni ancora da compiere, intercettato la sera del 22 agosto scorso. Il poliziotto parla con la fidanzata Nicole, e le racconta quello che è successo con un italiano fermato la notte precedente. «Ha iniziato a rompere il cazzo... Vi spacco sbirri di merda di qua e di là — dice Migliore —. Allora ha dato una capocciata al vetro... Il collega apre la porta e “vieni un attimo fuori... adesso ti faccio vedere io quante capocciate alla porta fai”... Boom boom boom boom... E io ridevo come un pazzo». 

Poi quasi si vanta di essere entrato in azione: «Amò, lui stava dentro l’acquario (la stanza dei fermati con una parete a vetro, ndr), gli ho lasciato la porta aperta in modo tale che uscisse perché io so che c’è la telecamera dentro... Amò, mi guarda, mi ero messo il guanto, ho caricato una stecca, amò, bam, lui chiude gli occhi, di sasso per terra è andato a finire, è rimasto là... È svenuto... Minchia che pigna che gli ho dato...».

Nell’atto d’accusa si sostiene che poi Migliore ha «istigato» un altro poliziotto a tiragli un calcio alla schiena. Dei cinque episodi per i quali si ipotizza la tortura, questo è l’unico contro un italiano; gli altri sono cittadini stranieri, e secondo il giudice i poliziotti indagati contavano sul loro silenzio. Senza calcolare, però, che i loro telefoni erano finiti sotto controllo nell’ambito di un’altra indagine, su una perquisizione di cinque mesi prima fin troppo benevola (praticamente mancata, secondo gli inquirenti) nei confronti di un gruppo di albanesi sospettati di tentato omicidio e detenzione di armi. 

Parenti del gestore di una discoteca frequentata dal gruppo di poliziotti «ballerini», che una volta compreso di chi si trattasse si sono fermati. L’ha raccontato l’albanese in un’altra intercettazione: «Io ero sporco in casa, i poliziotti... Il giovane Alessandro... Io avevo due fucili, un silenziatore e due pistole! Sa cos’ha fatto il poliziotto? Ha detto: “La perquisizione è finita, negativo!”».

Da lì i controlli su Migliore, l’ascolto del primo pestaggio e la decisione dei colleghi guidati dal questore Roberto Massucci — d’accordo con la Procura — di non fermarsi a una denuncia nei confronti dell’agente, bensì di aumentare il numero di microspie e telecamere in questura, alla ricerca di riscontri su quello ed altri episodi, per costruire un’indagine che svelasse l’eventuale marciume in nome della trasparenza. Aprendo uno spaccato di altre «torture» documentate quasi in diretta. Come quella nei confronti di un rumeno fermato e accompagnato in questura il 14 ottobre, addebitata a Migliore e un altro poliziotto; è sempre «il giovane» a raccontare alla fidanzata l’indomani: «Ha iniziato a sbroccare... Vabbè, gli abbiamo tirato due tre schiaffi a testa ma così, giusto per... Allora si è buttato a terra, gli stavo per dare un calcio, però... L’ho messo in piedi... Ho fatto sinistro destro, pam pam... Il collega fa “no, grande Ale”... Si è spento, l’ho portato dentro la cella, ho preso lo spray e gliel’ho spruzzato tutto sulla faccia».

Per i magistrati, l’uso dello spray urticante anche su soggetti ridotti all’impotenza, e dunque contro le regole, è «indicativo della volontà d infliggere ulteriore, gratuita sofferenza a un soggetto già percosso con violenza»; così come gli insulti «con parole di discriminazione razziale» nei confronti degli stranieri sono il sintomo di un «pessimo comportamento, inutilmente aggressivo e violento». Riassunto nei capi d’accusa che descrivono, a proposito di un altro episodio, il particolare di un fermato «spinto nella direzione di una stanza dove aveva urinato (sebbene secondo la sua testimonianza avesse solo fatto finta, ndr) e premuto al suolo bagnato, di fatto impiegando la sua persona come uno straccio per pulire il pavimento».

In attesa di ascoltare le versioni difensive, nel catalogo delle accuse rientrano anche le percosse nei confronti di un «tunisino di merda, figlio di puttana» che il 21 ottobre era finito a terra per i calci ricevuti, e si è sentito orinare addosso da un poliziotto che diceva «so io come svegliarlo». L’uomo ha raccontato di essere stato picchiato e umiliato in un tunnel della questura, di cui — ancora una volta — hanno parlato gli agenti inquisiti e intercettati, un mese più tardi. La notte del 17 novembre un assistente capo che non figura tra i cinque arrestati, parlando con un collega non identificato avverte: «Volevo dirti, e questo vale per tutti... Evitate di alzare le mani nell’acquario... Perché non si sa per quale motivo sono andati a vedere le registrazioni... Magari questi iniziano a controllare e cagare il cazzo... Quindi se dovete dare qualche schiaffo, nei corridoi...». Un altro interviene: «Abbiamo sempre fatto nel tunnel».

In realtà la settimana precedente erano state registrate le immagini e gli audio di un’altra aggressione di un cittadino africano che stava dando in escandescenze, affrontato da due degli arrestati: l’assistente capo Roberto Da Rold che «lo spinge dentro facendogli sbattere la parte posteriore della testa sulla panca in cemento», e l’ispettore Filippo Failla Rifici che, dopo essere stato ripetutamente toccato dal fermato nonostante le intimazioni a non farlo, «gli dà uno schiaffo al volto per poi buttarlo a terra dove lo colpisce con degli schiaffi».

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e Simone Di Meo per “La Verità” il 12 maggio 2023. 

[…] Il nuovo capo della Polizia è Vittorio Pisani […] La carriera in polizia di Pisani inizia a 20 anni quando ottiene il premio «Luigi Calabresi» quale miglior allievo vicecommissario. A Napoli arriva nel 1991, a 24 anni. Giovanissimo funzionario, inizia a farsi le ossa nella sezione Omicidi della Squadra mobile. Il capoluogo campano è sconquassato dalla guerra di camorra tra l’Alleanza di Secondigliano e il clan Mazzarella.

È il tempo delle autobombe e degli attentati coi kalashnikov in pieno centro. Uno dopo l’altro, killer e padrini finiscono nella rete di questo taciturno e giovane segugio che arriva dalla Calabria. Prima di passare al Servizio centrale operativo a Roma, fa in tempo a stringere le manette ai polsi di Pietro Licciardi, Giuseppe Lo Russo e Gaetano Bocchetti: tutti e tre ai vertici della Cupola napoletana. 

Allo Sco arriva invece con l’obiettivo di catturare uno dei leader della Sacra Corona Unita, Raffaele Prudentino. Lo prenderà sei mesi dopo in Grecia. Nel 2004 torna a Napoli con i gradi di capo della Mobile. Dopo qualche mese, scoppia la faida di Scampia, un tribale conflitto tra i figli del boss Ciruzzo ’o milionario e un gruppo di «scissionisti»: quasi 70 morti ammazzati in un anno. E il lavoro della Mobile è fondamentale per ricostruire ruoli e responsabilità di quella mattanza.

Tanto che, nel giro di qualche tempo, Pisani può rivendicare di aver decapitato quasi da solo il cartello dei secondiglianesi. Finiscono in galera Raffaele Amato, Paolo Di Mauro, Domenico Pagano, Giuseppe Dell’Aquila, Vincenzo Licciardi ed Edoardo Contini. Nel 2010 riesce ad arrestare Antonio Iovine, primula rossa dei Casalesi. Nel 2011 una sgangherata inchiesta della Dda partenopea lo travolge col sospetto di aver favorito un informatore, Salvatore Lo Russo, soprannominato dai nemici Totore ’o capitone per il suo essere viscido e sgusciante. Pisani viene allontanato dalla città in forza di un divieto di dimora firmato dal gip su richiesta della Procura.

Ritorna in silenzio allo Sco mentre quasi tutti i cronisti di giudiziaria e di nera fanno i cecchini con le pallottole gentilmente offerte da Lo Russo. Potrebbe chiudersi nel cono d’ombra, il super poliziotto. Invece no. Da indagato, Pisani piomba a Casapesenna e stana da un bunker sotterraneo l’altro grande super ricercato della camorra casertana, l’imprendibile Michele Zagaria. 

Pisani viene rinviato a giudizio, e qualcuno – sui giornaloni – maliziosamente ricorda quando, in una intervista, l’ex capo della Mobile disse che non c’erano motivi per dare la scorta a Roberto Saviano, santino dell’antimafia militante di sinistra. Per Pisani, le minacce della camorra allo scrittore non esistevano. Il processo «Megaride» è però un disastro per la pubblica accusa e per i suoi tifosi.

Lo Russo mente platealmente, si contraddice. Pisani smonta le ricostruzioni dei pm. E viene assolto in primo grado e in appello. ’O capitone stavolta non riesce a scivolare via dalla rete: finisce sott’inchiesta e condannato per calunnia. Arriva il momento dei risarcimenti. Pisani sbarca al ministero dell’Interno e poi all’Aisi, il servizio segreto interno. Diventa dirigente generale della polizia di Stato e, nel febbraio 2023, ad appena 55 anni, ottiene la nomina a prefetto.

Al suo posto, come vicedirettore dell’Aisi, il capo Mario Parente e il direttore del Dis, Elisabetta Belloni, spingerebbero oggi per una soluzione interna con un possibile profilo già individuato. Pisani prende il posto dell’attuale capo Lamberto Giannini. Quest’ultimo, appena cinquantanovenne e grande esperto di terrorismo (lui e Franco Gabrielli hanno contribuito a smantellare le nuove Br) prenderà il posto di prefetto di Roma. Lo stesso ricoperto a suo tempo dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. La cerimonia di passaggio di consegne dovrebbe avvenire lunedì 22 maggio. […]

Estratto dell'articolo di Andrea Priante per corriere.it il 7 giugno 2023.

I «poliziotti ballerini», li  aveva soprannominati un collega, dopo che il gruppetto di agenti aveva finto di non vedere delle irregolarità nel corso di una perquisizione. La decisione di chiudere un occhio era stata presa solo perché, nel mirino dell’ispezione, era finito il fratello del buttafuori che li faceva entrare in un locale senza pagare e saltando la fila. 

L’agente si arrabbia con i colleghi, senza sapere di essere intercettato: «Cioè, dobbiamo fare attenzione guagliò! Soprattutto con il periodo storico che stiamo (...) Tutti e dieci che andate a ballare gratis (...) Salta la fila, parcheggia dentro... e dai! Le cose si sanno... Ma a ballare uno ci va. Solo che si prende il portafoglio e paga... Non è più la polizia degli anni Settanta!».

Un po’ sbruffoni, un po’ furbetti. Ma, soprattutto, violenti. Gli agenti della sezione Volanti di Verona finiti nei guai, sono tutti poliziotti di provata esperienza. Alcuni hanno vent’anni di carriera alle spalle. 

A leggere l’ordinanza con la quale il gip Livia Magri ha disposto gli arresti domiciliari per cinque di loro, il più spregiudicato sembra essere l’agente di polizia giudiziaria Alessandro Migliore che, coi suoi 25 anni non ancora compiuti, è anche il più giovane tra gli indagati. 

Originario di Torre del Greco (Napoli) risulta risiedere in uno degli appartamenti che il ministero mette a disposizione degli agenti. Tatuaggi ben in vista, orecchini, fisico scolpito, esperto di boxe e di una tecnica di combattimento insegnata alle forze di difesa israeliane, il krav maga. […]

Migliore viene descritto dal gip come  un giovane che «tortura con sadico godimento» anche perché «manifesta chiara soddisfazione nel rievocare le violenze commesse», che assume saltuariamente droghe e arriva a rubare le biciclette che trova incustodite lungo la strada. Anche lui fa parte del gruppetto dei «poliziotti ballerini»: ha concorso a depistare la perquisizione- osserva il gip - solo per ricambiare il «trattamento di favore nel parcheggio di una discoteca o all’interno del locale, e garantirsi analogo trattamento per il futuro». 

Eppure, è proprio Alessandro Migliore che, con una buona dose di boria, finisce per inguaiare se stesso e i colleghi, vantandosi delle loro «imprese» con la sua fidanzata. Il 22 agosto, con il telefono sotto controllo, la chiama raccontandole di aver fermato un giostraio e che questo ha sbattuto volontariamente la testa contro il vetro.

A quel punto, le spiega, è intervenuto un altro poliziotto «bello grosso», che «apre la porta. «Tu hai dato una capocciata al vetro - gli fa - e adesso ti faccio vedere io quante capocciate alla porta. Bom! bom! bom! E io ridevo come un pazzo». Ma il giostraio insiste, insulta gli agenti e a quel punto Migliore lascia aperta la stanza di sicurezza («l’acquario», lo chiamano) «in modo tale che uscisse, perché io so che là dentro c’è la telecamera... Appena è uscito (...) ho caricato una stecca, amò, bam! Lui chiude gli occhi e va di sasso per terra... È svenuto... Hai presente il ko?». A quel punto arriva un collega: «Boom! Gli ha dato un calcio nella schiena (...) L’ha tartassato di mazzate». La fidanzata sembra divertita: «Minchia, li menate proprio, eh». E lui: «Mamma mia».

[…]

Dalle carte dell’indagine emerge che alcuni poliziotti tenevano per sé piccole somme di denaro trovate nelle tasche delle persone fermate. Ma anche droga. Il solito Migliore spiega alla fidanzata di aver portato in questura un marocchino («Gli ho tirato una secca, un pugno») e perquisendolo «è saltato fuori un pezzettino di fumo», un grammo di hashish. «Indovina chi ce l’ha? Sììì!». La ragazza gli chiede: «Dai fammi provare» e per il gip è la conferma che l’agente si è tenuto la droga per uso personale. 

Sempre Migliore, stavolta racconta di «due barboni in un bar», uno dei quali viene caricato sulla vettura di servizio per essere condotto in questura. «Ha iniziato a sbroccare (...) Allora io gli ho fatto una presa, gli ho calciato fuori e poi l’abbiamo portato dentro insieme. No, vabbé, gli abbiamo tirato due-tre schiaffi a testa, ma così, giusto per...». 

[…]

Dopo aver fermato un altro senzatetto, vengono intercettate le conversazioni tra due degli agenti arrestati: il 35enne Filippo Failla Rifici e il 45enne bellunese Roberto Da Rold. «Maledetto marocchino di m...» sbotta Rifici, accusando il vagabondo di un gesto inconsulto. Un collega gli chiede: «Com’è che Roberto (Da Rold, ndr) non l’ha ammazzato?», e proprio Da Rold suggerisce: «Lo buttiamo là, nella casa abbandonata, prende una scarpata...». Failla Rifici lo incalza: «Mi raccomando Roby: quelle che non gli hai dato prima, dagliele dopo (...) Gli è andata pure bene che non gli ho fatto la doccia col secchio d’acqua». Infine, di nuovo Da Rold: «Io adesso ho imparato a dare le cinquine più piano». 

[…] Dalle carte, emerge anche come Alessandro Migliore si ritenesse ormai al di sopra della legge. «Una pessima personalità» lo definisce il gip, commentando le conversazioni nelle quali spiega alla fidanzata che sta rubando una bicicletta e proprio non si capacita di come il proprietario potesse averla lasciata incustodita. Lei  risponde che gliene regalerà una a Natale, ma il poliziotto replica che non ne ha bisogno, perché lui, le bici, «è solito rubarle».

Verona, torture e umiliazioni in questura. I pm: «Metodi condivisi e consolidati». Giovanni Bianconi, inviato a Verona su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023

Ora gli inquirenti puntano a svelare eventuali responsabilità ai livelli superiori. 

Che l’indagine sulle «torture» alla Questura di Verona non sia circoscritta ai cinque ordini d’arresto eseguiti martedì mattina, s’intuisce dal numero degli altri poliziotti indagati, già appartenenti al reparto Volanti e rimossi a fini precauzionali nei mesi scorsi.

Per ora sono diciassette, la maggioranza dei quali sotto inchiesta per omessa denuncia sebbene la Procura stia valutando anche ipotesi più gravi, come il concorso in tortura. Già contestata a un’agente donna, e dunque contando anche i cinque finiti ai domiciliari, sono almeno sei gli inquisiti per questo reato. Ma è un numero che potrebbe crescere, dando consistenza ancora maggiore a un’indagine che volutamente i pubblici ministeri e la Squadra mobile non hanno frettolosamente circoscritto ai primi episodi accertati.

Il «sistema»

L’obiettivo era e resta comprendere quale fosse il grado di compromissione e copertura nel presidio di sicurezza trasformatosi — in un suo segmento, da capire quanto grande — in un luogo di soprusi e illegalità; e smantellare definitivamente quello che la giudice Livia Magri ha definito «un vero e proprio modus operandi consolidato e condiviso da numerosi operanti all’interno dell’Ufficio Volanti della Questura».

Dunque l’indagine è destinata ad allargarsi per accertare altre eventuali responsabilità, anche a livelli superiori rispetto a quelli già colpiti e individuati. Pur nella consapevolezza, da parte degli stessi inquirenti, che i ricambi decisi nei mesi scorsi ai vertici della Questura e del Reparto finito sotto la lente d’ingrandimento, abbiano già costituto una efficace risposta a possibili sottovalutazioni. Come invece potrebbe essere accaduto in occasione di un precedente che, alla luce dello scandalo emerso ora, poteva rappresentare un campanello d’allarme che forse non è suonato abbastanza. Agli atti di questa inchiesta, infatti, sono stati acquisiti quelli di un altro procedimento aperto oltre un anno fa, a febbraio 2022, nei confronti di un assistente capo e un agente scelto dello stesso Nucleo Volanti per lesioni e tortura nei confronti di tre nordafricani fermati e poi denunciati a piede libero per resistenza. Due di loro (uno dei quali giudicato guaribile in tre giorni) presentarono denuncia ai carabinieri. Il procedimento risulta tuttora in corso, i due poliziotti sono stati sospesi senza ulteriori conseguenze. Stavolta, dopo l’intercettazione di agosto 2022 in cui l’agente Alessandro Migliore confessava il primo pestaggio alla fidanzata, s’è deciso di procedere in un altro modo. L’indagine è durata fino a dicembre, quando gli episodi documentati erano già sette e gli stessi inquisiti s’erano resi conto di essere finiti nel mirino.

Gli altri accusati

Il 17 novembre un assistente capo raccomandava di non «alzare le mani nell’acquario», cioè nella sala fermati, perché due colleghi della Mobile erano andati a guardare le registrazioni; e, poco dopo, i cinque arrestati furono trasferiti all’Ufficio passaporti. A quel punto si sono interrotte le intercettazioni, gli investigatori hanno tirato i fili dell’inchiesta e a marzo la Procura ha presentato le richieste di misure cautelari al gip, che le ha concesse il 26 maggio. Indicando ulteriori posizioni da approfondire e lasciando in sospeso la decisione sulle richieste di misure interdittive.

Per esempio nei confronti di una agente donna che la sera del 9 novembre era in servizio sulla Volante Milano insieme all’assistente capo Roberto Da Rold, il più anziano dei cinque arrestati. Insieme portarono in questura uno dei «torturati», per un’identificazione di cui non ci fu bisogno perché l’africano risultava già fotosegnalato. L’uomo, chiuso nell’acquario, diede in escandescenze, si denudò rivolgendo frasi offensive nei confronti dei poliziotti, e per tutta risposta subì le percosse e le spruzzate di spray urticante. Nelle immagini video-registrate, accusa il gip, si vede l’uomo che «chiede insistentemente di andare in bagno» e la poliziotta «gli risponde di urinare verso l’alto così che l’urina possa finirgli sulla testa»; poi l’uomo viene accompagnato in bagno e la donna «gli mostra lo spray minacciando di usarlo». Più tardi lei stessa dirà in un’intercettazione di averglielo spruzzato in faccia, ma nella relazione di servizio non ne fece cenno.

Abuso di autorità

Quella sera, di fronte al fermato che saltellava nell’acquario, i poliziotti «paragonavano il suo atteggiamento a quello di una scimmia», con frasi di scherno che nella ricostruzione del giudice ricordano quanto accaduto in un’altra occasione, quando un tunisino rimase «vittima di un trattamento inumano e degradante nel momento in cui uno degli operanti, mentre lui si trovava a terra nel “tunnel”, gli urinava addosso per “svegliarlo”». E il gip sottolinea che «quest’atto denigratorio e sminuente ha certamente incontrato l’approvazione e suscitato l’ilarità degli altri poliziotti presenti, tant’è che nessuno ha dato il minimo segnale di disappunto». Quella notte, di fronte al tunisino a terra «apparentemente privo di sensi» per i calci ricevuti da uno degli arrestati, c’era pure un assistente capo indagato, insieme ad altri tre poliziotti, per «abuso di autorità contro arrestati o detenuti». Anche queste posizioni saranno rivalutate dagli inquirenti, che hanno già un’idea di come «l’abuso dei poteri connessi alla funzione o al servizio» svolto dai poliziotti sotto accusa, «non soltanto abbia consentito agli indagati di cogliere più facilmente le opportunità di commissione di illeciti, ma abbia altresì costituto una sorta di “paravento” al riparo del quale schermare le proprie responsabilità».

Verona, una vittima già nel 2018: "Picchiato e circondato mentre i poliziotti ridevano: vedi abusi di potere qui?" Giuliano Foschini, Fabio Tonacci su La Repubblica l'8 Giugno 2023

Quando martedì ha letto dei cinque arresti tra i poliziotti della questura di Verona, il trentunenne curdo-turco Ugur Bilkay si è seduto, ha alzato gli occhi per incrociare quelli di sua moglie, ed è crollato in un pianto di gioia. Perché quel posto, quegli agenti, quel metodo violento e intimidatorio, Bilkay ha avuto la sventura di conoscerli già un pomeriggio di aprile di 5 anni fa.

Due dei poliziotti accusati a Verona erano già sotto inchiesta per tortura, ma vennero lasciati in servizio. Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su La Repubblica l'8 Giugno 2023

Su 104 uomini delle Volanti della Questura è coinvolto uno su 5: ecco la rete di complicità che coprì le violenze degli agenti

Assistente capo Michele Tubaldo. E agente scelto Davide Cracco. Finora i loro nomi sono stati citati poco e niente nelle cronache dello scandalo della questura di Verona. Ma la storia di questi due poliziotti racconta perché le torture e le sevizie nei confronti degli "ultimi" della città non siano solo il comportamento deviato di cinque mele marce, quanto piuttosto il sintomo di un metodo.

Estratto dell’articolo di Nicola Fierro per “la Repubblica” il 7 giugno 2023.

Nicolae Daju, 56 anni, romeno, è una delle persone trascinate come stracci sull’urina delle celle della Questura. Vive a Verona da 3 anni, era venuto in Italia per cercare lavoro, ma la strada l’ha risucchiato nel suo gorgo di solitudine ed emarginazione. Ora tira a campare, dorme sulle panchine del parco davanti al cimitero monumentale, e ogni giorno si cimenta nell’impresa di mettere insieme un pranzo e una cena. […] 

Cos’è successo il 14 ottobre dell’anno scorso?

«Mi trovavo al bar Primo Kilometro, in zona Fiera. Ero con un amico, stavamo bevendo una birra e un caffè. Improvvisamente è arrivata una macchina della polizia, sono scesi due agenti, sono venuti subito da noi. E ci hanno chiesto i documenti». 

E lei cos’ha fatto?

«Gli ho detto che non stavamo facendo niente di male ma, alla fine, gli ho dato la mia carta d’identità. Non è bastato, mi hanno detto di salire in macchina».

Quindi l’hanno caricata nella volante?

«Sì, ma prima di farmi entrare all’interno mi hanno spruzzato in faccia lo spray urticante». 

Si era opposto in qualche modo?

«Ma no, senza motivo. Non avevo fatto niente». 

E una volta in Questura?

«Uno dei due poliziotti (dalla descrizione si capisce che parla di Alessandro Migliore, ndr) mi ha afferrato i capelli e trascinato di peso, fino a rinchiudermi dentro una cella con una parete trasparente». 

Lei ha reagito in qualche modo?

«No, perché avevo paura. Come si può reagire in quelle condizioni?». 

È vero che lei è una delle persone trascinate nell’urina a terra?

«Sì, è vero».

Cos’è accaduto precisamente?

«Avevo bisogno di andare al bagno, con urgenza. Ho cercato di attirare l’attenzione di un poliziotto gesticolando attraverso la parete trasparente». 

Cosa chiedeva?

«Di andare al toilette». 

Cosa le hanno risposto?

«Mi hanno detto che non era possibile andare al bagno e che avrei dovuto farla a terra». 

Ha fatto così?

«Certo, mi sono messo in un angolo e ho fatto pipì. Purtroppo mi hanno punito per questo».

Cosa intende dire?

«Appena ho finito di urinare un poliziotto (l’assistente capo Loris Colpini, ndr) è entrato dentro come una furia. Mi ha spruzzato in faccia lo spray urticante ancora una volta e poi mi ha trascinato a terra sopra la pozza di urina». […]

Cinque poliziotti in arresto. Nella questura di Verona torturavano i fermati. Pestaggi furiosi, spray urticante, degradazioni immonde e insulti razzisti. I fatti sono tutti da accertare ma attenti anche a una preventiva assoluzione delle forze dell’ordine per proteggerne devianze e illegalità. Iuri Maria Prado su L'Unità il 7 Giugno 2023

Due opposti errori devono rigorosamente essere evitati nel commentare le notizie arrivate ieri da Verona: far finta che si tratti di episodi eccezionali, reclamando una giustizia inflessibile che mette tutto a posto o, al contrario, liquidare la cosa al rango di una brutta faccenda che però non deve stupire perché purtroppo si sa che certi abusi possono capitare.

I fatti – tutti da accertare, ovviamente – riguardano cinque poliziotti, arrestati ieri, che si sarebbero resi responsabili di inenarrabili e gratuite violenze ai danni di persone sottoposte alle loro “cure”: delicatezze come l’uso di spray urticante, i pestaggi furiosi, le degradazioni più immonde (si riferisce di un poveretto adoperato a mo’ di strofinaccio per asciugare un lago di urina), il tutto con un buon corredo di sane ingiurie e insulti razzisti (“tunisino di merda”, “figlio di puttana”, e via di questo passo) nei confronti delle vittime di quelle inammissibili sopraffazioni.

L’avvertenza non inutile è che bisognerebbe andarci cauti già se ci fosse il processo che ancora non c’è, perché anche i presunti responsabili di questi delitti sono degli innocenti fino a prova contraria: e figurarsi ora che siamo solo alle indagini. Ma il fatto che quelle violenze siano anche solo per ipotesi commesse da funzionari di pubblica sicurezza obbliga tutti a un supplemento di urgentissima attenzione, soprattutto in un clima generale che sgradevolmente tira in senso opposto e cioè a una specie di preventiva assoluzione che per tutelare “le forze dell’ordine” insorge a proteggerne le devianze e le illegalità.

E purtroppo non basta. Perché la notizia secondo cui quei presunti e tanti abusi riguarderebbero, pressoché sempre e con una sola eccezione, immigrati ed emarginati, ebbene aggrava ulteriormente una vicenda che, se trovasse conferma, sarebbe già abbastanza allarmante. E anche qui occorre non cadere in nessuno dei due errori di cui si diceva all’inizio: e cioè affettare indignazione fingendo di non sapere che proprio nei confronti di quei soggetti – immigrati, emarginati, disturbati di mente – più spesso si consumano simili violenze; oppure – peggio, e non si dica che non si assiste sistematicamente allo scatto di quest’altro meccanismo – fare spallucce perché d’accordo che sono brutte cose, d’accordo che non devono succedere, d’accordo che chi sbaglia deve pagare, ma è pur sempre una multiforme canaglia (il clandestino, il drogato, magari la transessuale) quella di cui stiamo parlando, e nella tutela dei diritti bisognerà pur ricordare che prima vengono gli italiani.

Il fatto che gli accertamenti siano partiti dall’interno – e cioè dalle stesse forze dell’ordine – dovrebbe tranquillizzare quelli abituati a denunciare le cospirazioni degli amici dei criminali che infangano l’immagine di chi, per uno stipendio da fame, rischia la vita per difendere la gente perbene. Ma c’è da temere che non basti, e che anche questa volta le retoriche sicuritarie saranno adibite alla solita funzione: celebrare la specchiatezza e la probità delle forze dell’ordine non perché ci si crede davvero o perché qualcuno davvero le contesta (chi mai, infatti?), ma perché vien buono a tagliare corto se ogni tanto capita di assistere a qualche eccesso. Anche se non è ogni tanto. E a maggior ragione se la pelle su cui si eccede ha quel colore diverso.

DI Iuri Maria Prado 7 Giugno 2023

Le testimonianze delle vittime. “Niente bagno, l’ho fatta lì e mi hanno usato come straccio”, l’orrore di una delle vittime dei poliziotti arrestati a Verona.  Redazione Web su L'Unità il 7 Giugno 2023

“Dovevo andare in bagno e alla fine mi hanno detto di farla lì, in un angolo. È quello che ho fatto, ma dopo una delle guardie mi ha buttato a terra e mi premeva la faccia sul pavimento bagnato, per farmelo pulire…”. E’ questo uno dei drammatici racconti di una delle vittime dei poliziotti arrestati per le torture che infliggevano a senzatetto alcolisti e immigrati. Nicolae è un senzatetto rumeno di 56 anni. Ha vissuto sulla sua pelle quell’orrore come le altre vittime, tutte persone più deboli su cui si sarebbero accaniti gli agenti, come ricostruiscono le carte del Gip con i capi d’accusa dei magistrati contro 5 poliziotti del Nucleo Volanti della Questura di Verona.

Gli agenti sono stati arrestati e posti ai domiciliari con l’accusa di tortura, lesioni, falso, omissioni di atti d’ufficio, peculato e abuso d’ufficio. Per i magistrati, l’uso dello spray urticante anche su soggetti ridotti all’impotenza, e dunque contro le regole, è “indicativo della volontà d’ infliggere ulteriore, gratuita sofferenza a un soggetto già percosso con violenza”, come riportato dal Corriere della Sera. E poi gli insulti “con parole di discriminazione razziale” nei confronti degli stranieri sono il sintomo di un “pessimo comportamento, inutilmente aggressivo e violento”.

E poi c’è il drammatico episodio che riguarda il 56enne, riportato ancora nell’ ordinanza del Gip. Un fermato “spinto nella direzione di una stanza dove aveva urinato e premuto al suolo bagnato, di fatto impiegando la sua persona come uno straccio per pulire il pavimento”. Un orrore che Nicolae ha vissuto il 14 ottobre 2022 e che l’uomo ha ricostruito intervistato dal Corriere. “Ero al bar con un mio amico – racconta – e all’improvviso ci vediamo venire incontro due agenti: uno grande e grosso, l’altro piccolino. Mi chiedono i documenti e subito mi ordinano di salire in auto con loro. Abbiamo percorso cinquanta metri, hanno fermato la macchina e mi hanno picchiato. Così, senza motivo…”.

Nicolae vive in strada, nei pressi della stazione ferroviaria di Verona. Tutta la sua vita è racchiusa in uno zaino da trekking che si porta sempre sulle spalle. Ha raccontato che quel giorno, una vota portato in Questura è stato aggredito ripetutamente dagli agenti. “Mi davano pugni, e poi con il manganello sulla schiena”. È accaduto anche un fatto singolare: “Uno di loro aveva uno spray in mano: me l’ha spruzzato sul viso e sono svenuto. Credo fosse un narcotico o qualcosa del genere”. Tempo dopo Nicolae ha raccontato tutto alla Procura. La sua testimonianza è finita nell’ordinanza con la quale il gip ha stabilito gli arresti, compresa l’umiliazione di essere trattato come uno straccio e le percosse subite.

Gli agenti quella sera avevano fatto scattare contro di lui una denuncia per ubriachezza molesta e una violazione amministrativa perché si era rifiutato di firmare il verbale (falso) che avevano stilato. “Mi picchiavano, mi spruzzavano dello spray urticante, mi insultavano. E ancora non so perché lo facessero, non lo capisco…”.

DI Redazione Web 7 Giugno 2023

Estratto dell’articolo di Niccolò Zancan per la Stampa l'8 giugno 2023.

Via Lavello, Verona.

Periferia Nord. «Ricordo tutto di quella sera. La sera dell'arresto. Ricordo che Mohamed aveva bevuto, era agitato e stavamo litigando. Ricordo che la bambina piangeva e i poliziotti sono entrati in casa, ci hanno rubato 2 mila euro. Tutti i risparmi che avevamo. E poi l'hanno preso di forza e l'hanno portato via». 

Due mila euro, il telefono, due gratta e vinci. Ecco il bottino. Il verbale di perquisizione è stato falsificato. 

Intanto Mohamed D., 30 anni, decoratore originario di Sfax, a Verona da 6 anni, è stato portato in questura per il solito trattamento. Che inizia con una frase pronunciata dall'agente Federico Tomaselli a bordo della volante: «Tunisino di merda, figlio di puttana, cosa fai qua?». Preso a calci nel tunnel della questura, svegliato con il getto d'urina di un poliziotto, buttato a faccia in giù nella sala arrestati. Agonizzate, in preda a convulsioni.

«Non riuscivo a respirare», dice adesso Mohamed D. «Gli agenti ridevano e mi puntavano la torcia negli occhi. Poi se ne sono andati. E quando io mi sono ripreso, quando sono andato a parlargli al vetro che separa la stanza degli arrestati, quando ho detto che volevo chiamare il mio avvocato, uno di loro mi ha detto. "Stai zitto, altrimenti entro dentro e vedi cosa ti faccio"». Metodo Verona? «Questo non posso dirlo», premette l'avvocato Simone Bergamini, che difende proprio Mohamed D. «Ma posso affermare che la notizia dell'arresto di quei poliziotti non ci ha colti di sorpresa.

Avevamo gli occhi ben puntati su questo genere di fenomeno.

Stavamo raccogliendo testimonianze. Altri miei clienti mi hanno riferito di essere stati pestati e maltrattati. Presto chiederò un incontro in procura per riferire i fatti». Certo: non era tutta la questura. E certo: sono stati gli stessi poliziotti della Squadra Mobile a portare alla luce le violenze dei colleghi delle Squadra Volanti. Ma sono in tutto 27 gli agenti finiti nelle indagini, non solo i cinque agli arresti domiciliari. Ventisette poliziotti e poliziotte che a Verona infierivano su persone che non erano nemmeno in grado di difendersi. Così la domanda, adesso, è questa: da quanto andava avanti? Quante sono le vittime che non hanno denunciato?

(...)

Estratto da lastampa.it l'8 giugno 2023.

Emergono le prime foto dalle telecamere di sorveglianza dei pestaggi compiuti da alcun agenti di polizia a Verona. Vi sono i pestaggi in questura di Mattia Tacchi e di Nicolae Daju, per cui il pm configura il reato di tortura, e di Adil Tantaoui, con l'accusa di lesioni. 

In alcune immagini, il poliziotto costringe a urinare un uomo, e poi lo costringe a «essere utilizzato come uno straccio per pavimenti sulla sua stessa urina». In altre l’agente Alessandro Migliore gli spruzza uno spray al peperoncino sul viso, in maniera che sembra gratuita.

Il che genera un comportamento quasi impazzito del detenuto, evidentemente per il bruciore agli occhi. Si tratta di immagini tratte dalle intercettazioni video effettuate per mesi dalla squadra mobile nell'acquario, la sala dove venivano condotte le persone fermate durante i controlli. 

Il procedimento giudiziario che ha fatto finire agli arresti domiciliari due giorni fa cinque poliziotti delle Volanti di Verona rappresenta la prosecuzione di un'altra indagine per tortura aperta nel febbraio del 2022 a carico di un assistente capo e un agente scelto dello stesso reparto, attualmente sospesi.

Tre nordafricani vennero picchiati nell'ormai famigerato “acquario”, la stanza con un vetro in plexiglass in cui venivano condotte le persone fermate durante i controlli per strada. Furono denunciati a piede libero per resistenza. 

Due delle tre vittime a loro volta denunciarono a Carabinieri le presunte lesioni e le torture subite. Dopo la conclusione delle intercettazioni […] la Procura ha presentato al Gip le richieste di misure cautelari, concesse il 26 maggio. Si indicavano ulteriori posizioni da approfondire. È il caso di una agente donna che la sera del 9 novembre scorso era in servizio con uno degli arrestati.

Insieme portarono in Questura un africano per l'identificazione. L'uomo chiuso nell'acquario, diede in escandescenze, si denudò rivolgendo frasi offensive ai poliziotti. Venne percosso e gli fu spruzzato in faccia dello spray urticante. Nelle immagini […] lo si vede chiedere all'agente donna di andare in bagno e lei che gli risponde «di urinare verso l'alto così che l'urina possa finirgli in testa». […]

Estratto dell'articolo di Niccolò Zancan per “la Stampa” l'11 giugno 2023.  

Signor Adil Tantaoui, cosa ricorda del giorno delle torture?

«Ricordo tutto. Erano le otto di mattina del 26 ottobre. Io e mia moglie Elena vivevamo allora in una casa abbandonata, vicino al Bar Bauli, in via Perlar a Verona. Mi ero svegliato presto, stavo camminando nel parco che c'è lì davanti. Un ragazzo italiano mi ha chiesto una sigaretta, ma io non l'avevo. Lui ha preso un bastone e mi ha colpito sulla testa». 

Chi ha chiamato la polizia?

«Sono stato io. Mi usciva il sangue, ero incredulo. Io quella persona non l'avevo mai vista prima in vita mia. Ho chiamato la polizia per chiedere aiuto. Non pensavo che sarebbe finita così». 

[…] Adil Tantaoui ha 37 anni, ha lavorato come cameraman e come magazziniere. Vive in Italia da sette anni, è sposato con una donna italiana. È incensurato. […]

Cosa è successo quando è arrivata la polizia?

«Hanno lasciato stare il ragazzo italiano, ma hanno portato via me. Non mi hanno chiesto neanche i documenti, non hanno voluto sapere niente. Un dottore del 118 mi aveva appena medicato la testa. Gli agenti mi hanno caricato in auto e subito uno dei due, quello pelato, ha iniziato a insultarmi: "Arabo di merda! Marocchino te ne devi andare di qua!». 

[…]

È stato picchiato nel tunnel del parcheggio?

«Mi hanno preso a calci nelle gambe. E poi mi hanno strappato dalla testa le medicazioni. Ma il peggio è stato dopo».

Cosa è successo?

«Stavo male. Mi hanno tolto tutti i vestiti e mi hanno buttato per terra nella stanza degli arrestati in mutande. Senza mangiare, senza niente. Tutto il giorno e tutta la notte. Sono svenuto».

Sempre in mutande?

«No. A un certo punto un altro poliziotto, uno che non avevo mai visto, mi ha portato i jeans e la maglietta». 

Cosa è successo il giorno dopo?

«Mi hanno caricato su un'altra auto della polizia, questo volta erano due agenti gentili, una donna e un vecchio. E con loro ho fatto il viaggio fino al Cpr di Torino». 

Il Centro per le espulsioni di Torino. Ma lei essendo sposato con una donna italiana non può essere espulso. Lo sapeva?

«Questo l'ho scoperto dopo, grazie ai miei avvocati. Sono stato per 35 giorni chiuso lì dentro. È proprio un carcere. Ti tolgono il telefono. La gente impazzisce. Il cibo è tremendo. È un casino. E poi ti danno delle pastiglie per calmarti e molti le prendono, ma io mi sono rifiutato».

Come ha fatto a non perdere la testa?

«Io l'avevo persa. Ero molto triste. Quando al giorno numero 35 la polizia è venuta a prendermi al cancello, io non sapevo il motivo. Ero preoccupato. Pensavo fosse per il mio permesso di soggiorno».  

Era per l'inchiesta sui pestaggi nella questura di Verona? 

«Sì. Ho spiegato tutto. Prima a Torino, poi una seconda volta a Verona». 

[…]

 Lo rifarebbe? Richiamerebbe la polizia?

 «Forse no. Non lo so. Non mi aspettavo un trattamento del genere». 

 Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” l'8 giugno 2023.

Che l’indagine sulle «torture» alla Questura di Verona non sia circoscritta ai cinque ordini d’arresto eseguiti martedì mattina, s’intuisce dal numero degli altri poliziotti indagati, già appartenenti al reparto Volanti e rimossi a fini precauzionali nei mesi scorsi.  Per ora sono diciassette, la maggioranza dei quali sotto inchiesta per omessa denuncia sebbene la Procura stia valutando anche ipotesi più gravi, come il concorso in tortura. Già contestata a un’agente donna, e dunque contando anche i cinque finiti ai domiciliari, sono almeno sei gli inquisiti per questo reato. Ma è un numero che potrebbe crescere […]. 

[…] Dunque l’indagine è destinata ad allargarsi per accertare altre eventuali responsabilità, anche a livelli superiori rispetto a quelli già colpiti e individuati. Pur nella consapevolezza […] che i ricambi decisi nei mesi scorsi ai vertici della Questura e del Reparto finito sotto la lente d’ingrandimento, seguiti a un’ispezione ordinata dal Dipartimento che aveva messo in luce molte carenze e disfunzioni a livello organizzativo e gestionale, abbiano comunque costituto una risposta a possibili sottovalutazioni.

[…] a marzo la Procura ha presentato le richieste di misure cautelari al gip, che le ha concesse il 26 maggio. Indicando ulteriori posizioni da approfondire e lasciando in sospeso la decisione sulle richieste di misure interdittive. 

Per esempio nei confronti di una agente donna che la sera del 9 novembre era in servizio sulla Volante Milano insieme all’assistente capo Roberto Da Rold, il più anziano dei cinque arrestati. 

Insieme portarono in questura uno dei «torturati», per un’identificazione di cui non ci fu bisogno perché l’africano risultava già fotosegnalato. L’uomo, chiuso nell’acquario, diede in escandescenze, si denudò rivolgendo frasi offensive nei confronti dei poliziotti, e per tutta risposta subì le percosse e le spruzzate di spray urticante.

Nelle immagini video-registrate, accusa il gip, si vede l’uomo che «chiede insistentemente di andare in bagno» e la poliziotta «gli risponde di urinare verso l’alto così che l’urina possa finirgli sulla testa»; poi l’uomo viene accompagnato in bagno e la donna «gli mostra lo spray minacciando di usarlo». Più tardi lei stessa dirà in un’intercettazione di averglielo spruzzato in faccia, ma nella relazione di servizio non ne fece cenno. 

[…] Quella sera, di fronte al fermato che saltellava nell’acquario, i poliziotti «paragonavano il suo atteggiamento a quello di una scimmia», con frasi di scherno che nella ricostruzione del giudice ricordano quanto accaduto in un’altra occasione, quando un tunisino rimase «vittima di un trattamento inumano e degradante nel momento in cui uno degli operanti, mentre lui si trovava a terra nel “tunnel”, gli urinava addosso per “svegliarlo”». 

E il gip sottolinea che «quest’atto denigratorio e sminuente ha certamente incontrato l’approvazione e suscitato l’ilarità degli altri poliziotti presenti, tant’è che nessuno ha dato il minimo segnale di disappunto». 

Quella notte, di fronte al tunisino a terra «apparentemente privo di sensi» per i calci ricevuti da uno degli arrestati, c’era pure un assistente capo indagato, insieme ad altri tre poliziotti, per «abuso di autorità contro arrestati o detenuti». Anche queste posizioni saranno rivalutate dagli inquirenti, per i quali «l’abuso dei poteri connessi alla funzione» ha costituto «una sorta di “paravento” al riparo del quale schermare le proprie responsabilità».

Estratto dell’articolo di Andrea Priante per il “Corriere della Sera” l'8 giugno 2023.  

Un giovane poliziotto che «tortura con sadico godimento» anche perché «manifesta chiara soddisfazione nel rievocare le violenze commesse». Che assume saltuariamente droghe leggere e arriva a rubare le bici che trova incustodite lungo la strada o uno zainetto che poi regala alla fidanzata. 

È il ritratto […] di Alessandro Migliore, uno dei cinque agenti della sezione Volanti della questura scaligera finiti ai domiciliari nell’ambito delle indagini per le torture inferte a stranieri e non, sbandati e senzatetto che venivano fermati di notte lungo le strade della città veneta. L’agente di polizia giudiziaria, coi suoi 25 anni non ancora compiuti, è anche il più giovane tra gli indagati. Originario di Torre del Greco (Napoli), abita in uno degli appartamenti della caserma. 

[...] 

È proprio Migliore che, con una buona dose di boria, finisce per inguaiare se stesso e i colleghi vantandosi con la fidanzata delle loro «imprese».

Sue le intercettazioni più compromettenti, come quando le racconta — dopo il fermo di un giostraio — di aver lasciato aperta la stanza di sicurezza della questura «in modo tale che uscisse, perché io so che là dentro c’è la telecamera... 

Appena è uscito (...) ho caricato una stecca, amò, bam! Lui chiude gli occhi e va di sasso per terra... È svenuto... Hai presente il ko?».  Poi, l’intervento di un collega: «Gli ha dato un calcio nella schiena (...) L’ha tartassato di mazzate». E la fidanzata? Sembra divertita: «Minchia, li menate proprio, eh». 

In un’altra conversazione le racconta di essersi intascato un grammo di hashish trovato nelle tasche di un uomo, mentre in precedenza la chiama per dirle che sta rubando una bici e proprio non si capacita di come il proprietario possa averla lasciata incustodita. Per il gip, Migliore mostra «una spiccata propensione criminosa e una spregiudicata modalità di azione, non contenibile in alcuna maniera se non tramite la sottoposizione a misura cautelare». Quanto basta per spedirlo ai domiciliari.

Le foto choc delle violenze nella Questura di Verona: gli indagati scherzavano su Cucchi e parlavano con i pizzini. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023. 

Gli agenti temevano le intercettazioni. Le minacce con lo spray e le battute su Cucchi

La sera del 9 novembre scorso, mentre le telecamere della Questura riprendevano le violenze sul fermato Amiri Tororo (che nel cosiddetto «acquario» dava in escandescenze e insultava i poliziotti), i microfoni registravano le frasi pronunciate dagli agenti ora accusati di tortura e altri reati.

«Maledetto marocchino di merda...».

«Com’è che Roberto (uno degli arrestati, ndr) non l’ha ammazzato?».

«Sì che l’ammazza (ride)». 

Interviene Roberto: «Lo buttiamo là alla casa abbandonata, prende una scarpata nei coglioni!».

«Mi raccomando Roby, quelle che non gli hai dato prima dagliele dopo».

«Gli è andata pure bene che non gli ho fatto la doccia col secchio d’acqua (ride)». 

E poco dopo ancora Roberto spiega: «Io adesso ho imparato a dare le cinquine più piano». 

Tra i presenti c’era un’agente donna — anche lei indagata per il reato di tortura, della quale i pubblici ministeri hanno chiesto l’intedizione dall’impiego — che rideva e insultava il fermato minacciandolo con lo spray urticante: «Giuro che ti spruzzo adesso», «Dai raga, vi prego, un’altra spruzzata!», «Tagliatelo se ti fa male il cazzo». 

Per i pm rappresentano la prova di una «palese adesione e non irrilevante contributo concorsuale alla commissione dell’azione delittuosa, oltreché l’accanimento mostrato nei confronti della persona offesa». 

Sono ulteriori dettagli dell’inchiesta che ha condotto cinque poliziotti del Reparto Volanti agli arresti domiciliari, e all’iscrizione di altri 17 nel registro degli indagati; per loro pendono le richieste di misure interdittive sulle quali dovrà pronunciarsi il giudice, probabilmente dopo gli interrogatori previsti per la prossima settimana. 

I nuovi particolari emergono dagli atti allegati all’inchiesta, insieme ai fotogrammi dei filmati degli impianti di sorveglianza interni alla Questura, ora a disposizione degli avvocati difensori. 

Un insieme di indizi da cui si deduce, secondo la Procura e il gip, che gli inquisiti «hanno inteso l’appartenenza alla Polizia di Stato come occasione per tenere condotte illecite», insieme alla «consuetudine nell’utilizzo ingiustificato di violenza fisica su soggetti sottoposti a controllo o fermo». 

Dall’estate 2022 e fino a dicembre, la Squadra mobile veronese ha indagato sui loro colleghi raccogliendo le prove delle violenze e degli altri reati contestati, primo fra tutti la falsificazione dei verbali. Ma nell’ultima fase degli accertamenti, i poliziotti sotto osservazione si sono accorti di avere gli occhi addosso.

Provando a prendere precauzioni, per rendere più difficile il lavoro degli investigatori. 

Hanno cominciato a cercare telecamere e microspie nelle stanze in cui s’incontravano, a volte salendo su seggiole e scrivanie per vedere se fossero nascosti nei lampadari; tutto documentato nelle informative della Mobile. Come l’incontro in Questura del 5 dicembre tra l’assistente capo Loris Colpini (uno degli arrestati) e il vice-ispettore Giuseppe Tortora, indagato: «Quest’ultimo, evidentemente temendo di essere intercettato, prende un foglietto e dopo aver manoscritto qualcosa lo mostra al Colpini, il quale commenta chiedendogli contezza circa il contenuto di quanto appena letto. A questo punto Tortora riprende il foglietto, lo strappa e lo getta nel cestino sito nel corridoio, quindi fa cenno al Colpini di seguirlo e i due escono dall’ufficio». Forse temendo ciò che sarebbe stato scoperto. 

Un mese prima alcuni agenti commentavano il cattivo stato di salute di un fermato facendo riferimenti scherzosi a Stefano Cucchi. 

L’8 novembre, altri tre sono stati registrati mentre «parlano del fatto che l’ex dirigente dell’Ufficio Volanti, nonostante i vari problemi che coinvolgono gli operatori del Nucleo, dei quali lei era a conoscenza, è stata trasferita al momento giusto senza alcuna ripercussione». In un’intercettazione del 27 novembre è citato un sovrintendente (ora indagato) che «nonostante il periodo in cui il loro Ufficio è attenzionato, ha picchiato un soggetto e ne ha denunciati altri due».

Quell'odio mal celato e gratuito verso le Forze dell'Ordine.  Andrea Soglio su Panorama su il 7 Giugno 2023

L'inchiesta sulle violenze di 5 agenti di Polizia a Verona ha ridato voce a chi, da sempre, non sopporta poliziotti, carabinieri e agenti di ogni tipo

«Fatti di una gravità enorme». Le parole del Ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, sottolineano la gravità di quanto emerso dall’inchiesta sulle azioni di 5 agenti di Polizia che sarebbero responsabili di violenze ingiustificate ed ingiustificabili contro alcuni extracomunitari e senzatetto (7 gli episodi contestati). Nell’inchiesta sono finiti altri 17 colleghi che avrebbero saputo delle aggressioni ma non avrebbero denunciato come dovuto. Quando è una persona in divisa a macchiarsi di episodi di violenza e di atti criminali è giusto pretendere la maggior severità e fermezza possibile. Chiunque indossi una divisa, chiunque rappresenti lo Stato e le sue regole ha molto più degli altri il dovere di rispettarle per primo, proprio in nome di quella divisa indossata che non si può sporcare e soprattutto non si deve «smacchiare» in qualche modo. Chi ha sbagliato paghi, e salato. Questo però non deve sfociare nell’esagerazione, anzi, nella generalizzazione. Da ieri, da quando le prime notizie dell’inchiesta di Verona hanno cominciato a circolare in rete è partito forte, più forte che mai, il tam tam di chi ha una concezione molto chiara sugli uomini e le donne di Polizia, carabinieri, Guardai di Finanza e quant’altro. Chi ha una divisa è a prescindere di tutto un violento, un fascista, un essere pericoloso, dal manganello facile, voglioso di picchiare, sparare e magari anche uccidere. Persone che odiano, cattive e da attaccare ogni qual volta emerge un caso che confermi questa loro folle teoria. C’è come una sorta di antipatia mal nascosta verso le forze dell’ordine ed i militari. Solo così si spiegano certi commenti sui social e persino certi titoli di giornale. Un quotidiano oggi apriva con queste parole: «A Verona i criminali sono i poliziotti». Capito? Capita l’uguaglianza? Poliziotto= Criminale. Un odio talmente presente e profondo da non far capire a queste persone che l’inchiesta è partita proprio da altri poliziotti, perbene, che non hanno provato a difendersi nascondendo la polvere sotto il tappeto, ma hanno portato il marcio alla luce del sole nel rispetto della loro divisa e della loro onestà. Sono decine di migliaia gli uomini delle Forze dell’ordine; saranno 400 quelli alla Questura di Verona. Definirli tutti criminali per le azioni di 5, ed il silenzio di 17, è misero.

Corsi brevi e zero psicologi: ecco le scuole per i poliziotti. NELLO TROCCHIA su Il Domani l'11 giugno 2023

Il corpo della polizia di stato è scosso da uno dei più gravi scandali degli ultimi anni, forse il più eclatante dalla notte di depistaggi e orrori della Diaz di Genova, quando gli agenti, anno 2001, entrarono e massacrarono di botte inermi manifestanti prima di fabbricare false prove.

Una notte di barbarie che ha avuto una coda lunga con i capi di allora promossi nonostante le evidenti responsabilità e quella lacerante ferita che ha segnato per sempre la nostra democrazia.

A distanza di oltre due decenni ora arriva il caso Verona, con protagonista Alessandro Migliore, il picchiatore. Chi li forma i poliziotti? Sono tutti civili quelli assunti? Chi si occupa della loro salute mentale? Qual è il modello gestionale dei commissariati?

Il corpo della polizia di stato è scosso da uno dei più gravi scandali degli ultimi anni. Forse è il più eclatante, dopo la notte degli orrori e i successivi depistaggi della scuola Diaz a Genova. Era il 2001 e gli agenti entrarono e massacrarono di botte i manifestanti inermi, per poi fabbricare prove false. Quella notte di barbarie ha avuto poi una lunga coda: i capi di allora sono stati promossi, nonostante le evidenti responsabilità, aprendo una ferita lacerante che ha segnato per sempre la nostra democrazia.

Gli scandali non hanno riguardato solo la polizia di stato, ma quasi tutte le forze dell’ordine. Solo per citare gli esempi più noti, c’è il caso di Stefano Cucchi, morto di botte e abbandono mentre era nelle mani dei carabinieri. Quello di Federico Aldrovandi, deceduto durante un controllo della polizia. E il pestaggio dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere da parte della polizia penitenziaria. Ora, il devastante caso di Verona. Il protagonista si chiama Alessandro Migliore, il picchiatore, un bandito in divisa che favoriva i criminali e annichiliva i poveri cristi con spray, schiaffi e angherie varie. Con lui c’erano quattro sodali, altri 17 a coprire e qualcun altro che non è stato ancora identificato. Era un sodalizio, un clan e un blocco di potere che si era insediato in quel presidio di legalità che dovrebbe essere una questura.

«Quanti ne ho arrestati di colleghi, anche di altre forze dell’ordine. Non ho mai coperto nessuno, non ho mai tollerato esagerazioni anche quando siamo stati sfidati. Ricordo la sera in cui un mafioso spaccò la faccia a uno dei nostri: contro di lui non abbiamo alzato nemmeno un dito, e lo stesso atteggiamento lo abbiamo avuto anche con gli altri. Questa storia ci indigna, questi non sono nostri colleghi. Sono gentaglia», dice chi ha passato trent’anni in polizia inseguendo malacarne e criminali.

Non c’è solo rabbia nella sua analisi, ma anche questioni aperte da approfondire. Domani ha parlato con poliziotti, funzionari ed esperti per capire dove può nascere la devianza, dove si può correggere un sistema che è fatto di elevate professionalità, di coraggio e impegno quotidiano. Risposte che non sono comunque sufficienti per capire Verona e quella degenerazione.

Abbiamo però cercato di rispondere a una serie di domande: chi forma i poliziotti? Esiste la diffusione di una cultura anti-violenza e del rispetto delle regole? Gli assunti sono tutti civili? Chi si occupa della loro salute mentale? Qual è il modello gestionale dei commissariati? È possibile riconoscere oggi chi non è adeguato a ricoprire un ruolo così sensibile?

LA RISERVA MILITARE

In polizia si entra per concorso pubblico, e i concorsi sono differenti: c’è quello per agente semplice, quello per ispettore e commissario. Il superamento delle prove rappresenta solo il primo step per il definitivo ingresso nella polizia di Stato. Successivamente, tutti sono obbligati a frequentare un corso, la vera e propria scuola di formazione che cambia, con programmi e durata, in base alla posizione che si andrà a ricoprire.

Nei concorsi e anche nelle scuole di polizia ci sono criticità che sono emerse in questi anni. Il concorso per agente prevede una prova d’esame scritta, una di efficienza fisica e i successivi accertamenti di idoneità psicofisica e attitudinale. Se ad esempio si legge con attenzione l’ultimo bando, emanato lo scorso novembre per 1.188 posti di allievo agente della polizia di stato, si scopre un dettaglio che è presente in ogni concorso: c’è un’aliquota riservata per gli ex militari di leva volontaria.

«Nessuno stigma, ma il problema c’è e riguarda la quota che per legge è riservata a chi proviene dall’esercito», dice un dirigente della polizia di Stato. In pratica, nel 2000 (governo D’Alema), con il completamento dell’iter della legge delega, si sospese la leva obbligatoria per passare a quella volontaria. Da allora è stata attribuita una percentuale importante delle assunzioni nelle forze dell’ordine a chi proviene dall’esperienza militare volontaria. E qual è il problema?

Ce lo spiega uno dei massimi esperti di sociologia della sicurezza, Maurizio Fiasco. Per quasi tre decenni è stato professore nelle scuole di formazione e aggiornamento della polizia. Tra i frequentatori del suo corso dirigenziale ha avuto anche il futuro capo della polizia Franco Gabrielli: «È vero, nell’anno 2001, era il migliore in assoluto di quel corso», ricorda Fiasco, che però – dall’avvento di Matteo Salvini al ministero dell’Interno – non ha più svolto docenze.

«Si è passati da una leva obbligatoria, che costruiva un contatto e un rapporto diretto tra l’esercito e la società, a una ferma volontaria che alimenta invece estraneità e settarismo. Con un ulteriore grave limite: la leva volontaria non consente un effettivo accesso alla carriera.

È un impiego a termine, che si offre a quanti incontrano maggiori difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro. Così, l’assunzione facilitata in tutte le organizzazioni delle forze di polizia, sia statali sia locali, si presenta come uno sbocco privilegiato. Un salto all’indietro rispetto alla riforma del 1981 che ha smilitarizzato l’ex corpo delle guardie di pubblica sicurezza», dice Fiasco.

Il problema è che sono due mondi molto diversi tra loro. «L’esperienza militare è maturata sui teatri di guerra, in lunghi giorni vissuti guardandosi dalla minaccia dall’esterno, su una coesione di gruppo separato che avverte un “noi soldati” contrapposto agli “altri”, tra i quali si annidano i nemici. Ne deriva peraltro una sofferenza, che ingenera una visione (anche se non mancano esempi di sostegno sociale alle popolazioni) da guarnigione in caserma: è distante anni luce dall’identità civile di servizio al cittadino, che è invece il cardine del servizio nella polizia di Stato», sottolinea Fiasco.

IL VOTO MIGLIORE

Ci sono persino concorsi riservati unicamente a militari in servizio e congedati, ed è uno di questi quello a cui ha partecipato Alessandro Migliore. Era un bando di concorso, pubblicato nel 2018 e che si è svolto nel 2019, alla ricerca di 654 allievi agenti della polizia di Stato.

All’epoca Migliore aveva 21 anni e rientrava nei requisiti previsti. A quel concorso potevano partecipare «i volontari in ferma prefissata di un anno e in servizio almeno da sei mesi continuativi». Migliore, finita l’esperienza militare, si è buttato in polizia e ha partecipato al concorso. Domani ha visionato il punteggio della prova scritta – 9,585 – che è stato il lasciapassare verso la divisa.

Ma la provenienza militare non basta in alcun modo per spiegare il caso Verona: altri indagati provenivano da concorsi riservati ai civili e non avevano trascorsi nell’esercito. Come Filippo Failla Rifici che, dopo aver vinto il concorso, ha sostenuto 18 mesi di corso di formazione nella scuola ispettori di Nettuno. Prima, ha dovuto affrontare sia una prova scritta sia una orale, superando entrambe brillantemente con questi voti: sette e 7,30.

Rifici, che ha anche due lauree alle spalle, e Migliore sono ora indagati per tortura. Per loro è stato disposta la misura degli arresti domiciliari, dopo che sono stati protagonisti di abusi di potere, tra schiaffi e urina, modello Arancia meccanica.

I CORSI RIDOTTI

Va ribadito che migliaia di ex militari svolgono con professionalità il loro mestiere, nonostante l’approccio cambi completamente da esercito a polizia. Proprio la formazione dovrebbe rivestire un ruolo decisivo, in ragione di questo circuito differente di origine. Ma negli ultimi anni è stata sempre più ridotta in termini di intensità e durata per la solita ragione che guida tutte le scelte: l’organico insufficiente al quale si aggiunge un’età media sempre più alta, intorno ai 47 anni.

«I concorsi dedicati, quelli con le aliquote, spalancano le porte a chi arriva da un’esperienza nell’esercito e, in considerazione dell’approccio differente, avremmo dovuto in questi anni aumentare la formazione. Invece, è stata ridotta considerevolmente. Lo si è fatto per dare maggiore impulso agli ingressi, visto il perenne problema di organico, ma non è la strada giusta», dice Fiasco.

Uno degli ultimi corsi di formazione per allievi, anche a causa della pandemia, ha avuto la durata di 8 mesi, quattro mesi in meno di quelli che abitualmente, negli anni passati, venivano svolti dai futuri poliziotti. Le scuole per agenti sono sette, sparse su tutto il territorio nazionale. «L’allievo agente dovrà, al più presto, avere coscienza che l’appartenente alla polizia di Stato deve mantenere un costante autocontrollo, una dirittura morale e uno spiccato senso del dovere, che non dovranno vacillare in nessuna situazione», recita un vademecum per l’allievo del ministero dell’Interno.

La prima parte del corso è teorica, la seconda pratica con l’agente che svolge un periodo di prova, prima della definitiva assegnazione. I futuri poliziotti studiano materie giuridiche, di polizia giudiziaria amministrativa; le regole tecniche ed esperienziali che caratterizzano il bagaglio dell’operatore; con approfondimenti legati al completamento della formazione.

Un alto dirigente ci mostra la sua scrivania coperta da manuali, appunti, libri utilizzati in decine di corsi svolti e incontri con i futuri agenti. Su un manoscritto si legge «qualità personali dell’investigatore» e più sotto: «Mai innamorarsi di una sola tesi». Rivendica l’importanza di quest’attività di formazione e il livello di attenzione a ogni aspetto, riconoscendo che la riduzione di tempo rappresenta un evidente passo indietro.

LA VITA IN REPARTO

Il viaggio di un poliziotto, dopo aver superato il concorso, aver frequentato la scuola e la fase di agente in prova, trova finalmente il suo capolinea nel commissariato dove viene trasferito. Il periodo di aggiornamento continua, ma anche quello di valutazione.

«È anomala l’assenza di responsabilità, almeno per il momento, di superiori nella vicenda Verona, visto che noi siamo sottoposti ogni anno a un giudizio», racconta un poliziotto a Domani.

Ogni dodici mesi, infatti, i superiori devono redigere un rapporto informativo per l’anno trascorso, nel quale devono fare una valutazione dettagliata dell’agente. Una sezione è riservata alla competenza professionale, un’altra alla capacità di risoluzione, la terza a quella organizzativa e, da ultimo, viene valutata la qualità dell’attività svolta. «Bastava spostarli prima, i dirigenti hanno una chiara colpa, non hanno vigilato», continua l’agente.

Ed è qui che nasce un ulteriore quesito: cosa succede quando un superiore scopre un agente esagitato? «Le soluzioni sono due e sono legate anche alla personalità del dirigente: denunciarlo, così da avviare un’indagine giudiziaria, oppure trasferire il poliziotto in un altro reparto. Quando ho agito spostando da una sezione all’altra l’agente non sono mancate rimostranze delle sigle sindacali, un altro interlocutore da gestire in queste vicende. In altre occasioni ho denunciato e seguito personalmente il caso, fino all’arresto e alla destituzione», dice un questore di lungo corso.

Sugli equilibri interni e sul peso delle sigle sindacali le opinioni sono diverse. Un poliziotto la pensa diversamente: «Ma quale peso, siamo diventati più militari rispetto agli anni Ottanta e Novanta. Oggi i dirigenti hanno tutte le possibilità di trasferire e spostare, il peso sindacale si è totalmente ridotto», dice l’agente.

Il reparto volanti, quello che vede coinvolti i poliziotti di Verona, se non è inserito pienamente nella macchina organizzativa rischia di diventare un mondo a parte di sceriffi di strada.

Oltre i quattro, conquistati dall’ex militare guida Migliore, ci sono altri 17 che rischiano l’interdizione. Sono tutti con poca esperienza e sono accusati di aver coperto violenze e abusi. «Bisogna ripensare i modelli organizzativi, la carriera deve essere incentivata quando rendi un servizio efficace ai cittadini, non solo quando catturi i ladri. Bisogna ripensare i criteri in base ai quali disporre gli avanzamenti di carriera. Chi struttura un commissariato efficiente, stabilisce legami di fiducia con il territorio, fa aumentare le denunce, attiva un moderno sistema di prevenzione, paradossalmente è penalizzato nella carriera. E dunque è questo il modello di valutazione da cambiare», conclude Fiasco.

LA PAURA DELLO PSICOLOGO

C’è un altro aspetto, trascurato e ignorato dal dibattito pubblico: chi aiuta il poliziotto? E cosa succede se chiede aiuto? Quando scopre un cadavere massacrato di coltellate chi lo assiste?

«Dovremmo essere sottoposti a visite psicologiche costanti e periodiche, bisogna uscire dalla logica dei Robocop ed entrare nella modernità», dice Roberto Massimo, segretario nazionale dell’Usip, Uil polizia.

«Oggi se un poliziotto chiede il supporto psicologico deve informare il superiore. Quando si entra in un percorso di terapia, nella maggior parte dei casi, ti vengono sottratti la pistola e il tesserino, in attesa dell’esito dei consulti. Noi chiediamo psicologi esterni, che non siano dell’amministrazione, e una vigilanza sanitaria frequente. Perché non ne possiamo più di lavorare in queste condizioni con suicidi in costante aumento».

Tutto questo non cancella Verona e nemmeno lo spiega. Ma aiuta ad avere qualche strumento in più per evitare che casi simili si ripetano in futuro.

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani. Ha realizzato lo scoop internazionale sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere prima con un'inchiesta giornalistica e poi pubblicando i video delle violenze, alla storia ha dedicato un libro Pestaggio di stato. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Poliziotti violenti, Amnesty: «Giorgia Meloni vuole azzerare il reato di tortura. Ci saranno mille Verona impunite». La denuncia del portavoce italiano Riccardo Noury: «C’è un clima in atto che fomenta un accanimento verso le persone più vulnerabili». Simone Alliva su L'Espresso il 7 Giugno 2023

«Sembra di essere tornati alla caserma di Bolzaneto, 22 anni fa» dice a L’Espresso Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia mentre commenta il caso dell'indagine sulle violenze compiute da alcuni poliziotti di Verona. Fotogrammi dell’orrore che a leggere le carte sulla vicenda di Verona ritornano: il sangue misto alla pipì. I racconti e le immagini di quei ragazzi messi nudi contro il muro in piedi, gambe divaricate, per ore. O delle ragazze umiliate e minacciate di stupro. Gli ordini: «Canta faccetta nera», «viva il Duce» e ancora gli urli della ragazza a cui fu strappato il piercing dal naso. Il reato di tortura all’epoca non c’era. Approvato solo nel 2017, oggi la destra al Governo vuole abolirlo. «C’è un clima», ripete Noury, «oggi chi è sempre stato contrario al reato di tortura è al governo».

Riccardo Noury: il caso della donna trans pestata dalla polizia locale di Milano, quello del carabinieri che prende a calci in testa un uomo arrestato e adesso Verona. Questi episodi cosa ci dicono?

«Che c’è accanimento nei confronti delle persone con vulnerabilità, in molti di questi casi c’è un’aggravante di odio razziale e questo rende il tutto ancora più inaccettabile. Si tratta in uno squilibrio di forze tra chi è indifeso e chi si ripara dietro una divisa, contando su un certo clima politico».

In che senso “un clima politico”?

«Non parlo soltanto di un certo atteggiamento nei confronti di persone vulnerabili, ma di un tentativo scivoloso di porre al centro del dibattito politico il tema del reato di tortura. Ne parla il ministro della Giustizia Carlo Nordio, ad esempio, ci sono proposte di legge di Fratelli d’Italia che dichiarano di voler “migliorare” la legge, in realtà la vogliono cancellare. Succede con l’aborto, succede con il reato di tortura. Questa è l’aria che si respira nei palazzi a Roma ed è qualcosa che scende nelle strade e nelle città».  

Come ricordava lei, in una lettera indirizzata a un sindacato autonomo di polizia prima del voto, Giorgia Meloni prometteva che una volta al Governo la destra avrebbe abolito il reato di tortura. Il disegno di Fdi vuole definire la tortura come un aggravante e non un reato riferibile in particolare modo ai pubblici ufficiali.

«Ci abbiamo messo 29 anni ad avere una legge che non è perfetta e rischiamo che in 29 giorni questa legge venga cancellata. La legge italiana prevede la tortura come reato comune, ma aggravato se commesso dal pubblico ufficiale, questo elemento già all’epoca era problematico. Ma, sa, all’epoca le associazioni per i diritti umani si sono detti: prendiamo questo testo anche se non è perfetto, ma non ci sono condizioni politiche. Adesso si vuole fare un passo indietro. Ufficialmente per adattare il testo italiano alla normativa internazionale mentre in realtà ha un intento neanche troppo mascherato di acuire». 

Quali sono i rischi?

«Se si modifica il testo bisogna chiedersi cosa ne è dei processi in corso, se cambia la fattispecie è evidente che c’è un problema. Questa narrazione sulle modifiche e sulle migliorie nasconde altro. Quelli che per quasi 30 anni, dall’1989 al 2017, erano contrari al reato di tortura ora sono al Governo e hanno la maggioranza». 

Ma non si potrebbe intervenire prima. Fare un lavoro di prevenzione?

«Il reato di tortura introdotto nel 2017 pecca anche di elementi sulla prevenzione. La tortura è uno dei più gravi crimini internazionali, non è tollerabile servirebbero delle condanne forti, unanime da chi è al potere in questo Paese. Il Presidente del Senato ha rilasciato ieri una dichiarazione cauta, va bene. Ma non basta una dichiarazione isolata. Non bisogna tentennare. Il che vuol dire che questo Governo deve porre fine anche ai tentativi di azzerare il reato di tortura. Altrimenti ci saranno mille Verona e non saranno punite». 

Oussama Ben Rebha.

Annegati dopo l’intervento della polizia: Padova chiede la verità. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 28 gennaio 2023.

Il 10 gennaio scorso Oussama Ben Rebha, tunisino di 23 anni, è morto annegato nelle acque del Brenta, a Padova, a seguito di un controllo effettuato dalla polizia. Le dinamiche di quanto accaduto non sono ancora chiare: da un lato, gli agenti sostengono che il ragazzo, una volta fermato, abbia aggredito uno di loro e abbia tentato la fuga. Dall’altro un’amica di Oussama, che questi avrebbe videochiamato durante l’aggressione, dichiara di aver visto i poliziotti picchiarlo e gettarlo nel fiume. Ciò che è certo è che non si tratta di un fatto isolato: in almeno altri due casi, infatti, due giovani stranieri hanno perso la vita annegando a seguito di un intervento della polizia. Nella giornata di oggi, a Padova, si è svolta una manifestazione alla quale hanno aderito numerose associazioni e realtà attive a livello nazionale in materia di tutela dei diritti e della cooperazione sociale, per chiedere che le istituzioni facciano giustizia sulla morte di Oussama come su quella di tanti altri stranieri.

È la notte tra il 25 e il 26 aprile 2021 quando Fares Shgater, tunisino di 25 anni, muore annegato nel Fosso Reale di Livorno: secondo la stampa locale, agenti e militari avrebbero cercato per alcune ore il suo corpo senza calarsi in acqua. Numerosi ragazzi tunisini, ritrovatisi il pomeriggio successivo sul luogo del ritrovamento del suo corpo, hanno raccontato alla stampa le violenze subite in varie occasioni dalle forze dell’ordine: qualcuno riporta persino di essere stato gettato in acqua dagli agenti di polizia. «Noi tunisini abbiamo sempre paura dei controlli, paura della polizia, paura di essere rimpatriati per un qualsiasi motivo, dopo tutto quello che abbiamo passato per arrivare qua» denunciava un amico di Fares. Qualche settimana dopo è toccato a Padova a Khadim Khole, 24 anni, nato in Italia ma originario del Senegal. I poliziotti che lo inseguivano – il ragazzo aveva rubato 100 euro da un supermercato – raccontano di averlo visto togliersi le scarpe e la maglietta e buttarsi nel Brenta, dove poco dopo è stato ritrovato il suo cadavere.

Ora, nello stesso punto in cui è annegato Khadim, la stessa sorte è toccata a Oussama. Nonostante le circostanze nelle quali il ragazzo ha perso la vita siano poco chiare, l’autopsia sul suo corpo è stata disposta a ben una settimana di distanza dal ritrovamento del suo cadavere. Due settimane dopo, la PM non aveva ancora richiesto di visionare le immagini delle videocamere.

Il Coordinamento Antirazzista Italiano, realtà nata a seguito dell’omicidio di Alika Ogochukwu (il venditore ambulante nigeriano disabile ucciso la scorsa estate dal fidanzato di una donna cui aveva rivolto la parola, in pieno giorno e nell’indifferenza dei presenti), ha perciò convocato per la giornata di oggi 28 gennaio, a Padova, la manifestazione nazionale Verità e giustizia per Oussama, per “rompere il muro di silenzio e sostenere la famiglia di Oussama Ben Rebha”. “Il caso di Oussama”, scrive il Coordinamento nel comunicato stampa, “cittadino tunisino sprovvisto di titolo di soggiorno, morto annegato nel Brenta in seguito ad un inseguimento da parte delle forze dell’ordine, ci racconta di un Paese dove l’ingiustizia, la marginalità sociale e il razzismo istituzionale producono morte“. Sono numerose le realtà che hanno aderito all’iniziativa: tra queste, Non una di meno, ADL COBAS, Potere al popolo, Spazio di mutuo soccorso Milano, Giovani Palestinesi, Rifondazione comunista e Mediterranea Saving Humans. “Si può annegare nel Mediterraneo a causa della barriera eretta dalla Fortezza Europa, ma anche nel cuore di questo ‘continente della democrazia’, in un fiume o in un fosso, come è accaduto a Fares Shgater, Khadim Khole, Oussama Ben Rebha” scrive Mediterranea sul proprio sito. L’intento delle associazioni è denunciare “la pratica di profilazione razziale”, definita “violenta e discriminatoria”, messa in atto dalle forze di polizia nei confronti delle persone che siano giunte in Italia a seguito delle migrazioni.[di Valeria Casolaro]

Il cadavere è stato trovato stamattina. Muore nel fiume Brenta scappando dalla polizia: “L’hanno picchiato”, ma la Questura di Padova nega. Carmine Di Niro su Il Riformista l’11 Gennaio 2023

C’è altro dietro la morte del ragazzo di 25 anni che nel pomeriggio di ieri, 10 gennaio, è annegato nel fiume Brenta a Padova? Secondo quanto raccontata da una sua amica, Assia, ad alcune televisioni locali, l’amico stava sì sfuggendo ad un controllo della polizia, ma perché gli agenti lo avrebbero picchiato.

La ragazza avrebbe ricevuto una videochiamata da parte dell’amico durante il controllo degli agenti, nel corso del quale a detta della giovane “si vede benissimo che lo stavano picchiando”. “Adesso vedremo come muoverci, perché non è giusto“, ha aggiunto l’amica del 25enne, il cui corpo è stato recuperato questa mattina dei vigili del fuoco che già ieri avevano iniziato a perlustrare il fiume con l’ausilio dei sommozzatori, mentre la polizia aveva fatto alzare un elicottero del Reparto Volo.

Una versione, quella della condotta violenta degli agenti, respinta dalla Questura euganea. “La Questura afferma – sottolinea una nota della polizia di Stato di Padova – che al momento le dichiarazioni non trovano alcun riscontro. Ad ogni buon conto ogni approfondimento investigativo sulla vicenda sarà valutato dall’autorità giudiziaria“. Una fonte della questura ha spiegato all’Ansa che “le dichiarazioni non corrispondono alla ricostruzione della donna e i fatti sono corroborati dalla testimonianza di terzi che non fanno parte della polizia“. Gli investigatori quindi attendono l’esito degli accertamenti che disporrà la Procura “per poi agire – precisa la fonte – con una denuncia contro chi ha fatto tali affermazioni“.

Secondo la ricostruzione ‘ufficiale’ della polizia, tutto sarebbe iniziato nel pomeriggio di ieri quando una volante del commissariato Stanga, in un servizio di prevenzione, aveva deciso di controllare quattro stranieri che stavano transitando lungo una strada che corre parallela all’argine del fiume Brenta. Alla vista degli agenti, due stranieri erano fuggiti, mentre gli altri due erano sati stati bloccati.

In questo frangente il 25enne poi morto annegato nel Brenta avrebbe reagito violentemente, aggredendo e ferendo un agente, riuscendo così a divincolarsi e a tuffarsi nel fiume, benché rincorso dagli investigatori, salvo poi morire per annegamento.

La vittima per ora non è stata identificata: sui suoi vestiti gli agenti non hanno trovato alcun documento e anche il telefono reperito sembra non aver offerto informazioni utili in questo senso. Si dovrà dunque procedere con l’esame delle impronte digitali, sempre che siano presenti nel database della polizia di Stato.

L’Ansa ricorda oggi che sempre a Padova, ormai due anni fa, c’era stata una vicenda simile. Un giovane di origini africane era morto il 4 giugno 2021 dopo essersi gettato nelle acque del fiume Brenta per sfuggire alla polizia. Il ragazzo era stato sorpreso a rubare in un supermercato nella zona di Altichiero, quartiere a nord della città euganea. Era stato notato dalla security interna al negozio infilare del cibo dentro a uno zaino ed era fuggito. La polizia, giunta sul posto, lo aveva inseguito, ma il giovane si era buttato nel fiume Brenta, all’altezza di Vigodarzere: il suo cadavere venne ritrovato in zona poco dopo.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Hasib Omerovic.

L'interrogatorio in Procura. “Calci e pugni, poi mi hanno buttato giù”, il racconto di Hasib Omerovic. Angela Stella su Il Riformista l’8 Febbraio 2023

Hasib Omerovic, giovane sordomuto di etnia rom precipitato lo scorso 25 luglio dalla finestra della sua camera nel suo appartamento a Primavalle, giovedì 2 febbraio è stato convocato dalla Procura di Roma, e ascoltato dal Procuratore della Repubblica di Roma, Michele Prestipino e dal Sostituto Procuratore Stefano Luciani. Con loro due interpreti della lingua dei segni. Questo è stato possibile perché martedì 31 gennaio il giovane è stato dimesso dal Policlinico “Agostino Gemelli” dopo più di sei mesi di degenza.

Dopo essere stato ricoverato in pericolo di vita presso il reparto di terapia intensiva del nosocomio, gradualmente e dopo numerosi interventi, ha visto migliorare le sue condizioni fisiche per essere alla fine trasferito presso il reparto di riabilitazione ad alta intensità. Lo rendono noto in un comunicato i suoi legali Susanna Zorzi e Arturo Salerni, il parlamentare di +Europa Riccardo Magi, l’Associazione 21 luglio.

I fatti

Attualmente Hasib, che non ha riportato danni cerebrali, è in buone condizioni fisiche, deambula autonomamente e si è ricongiunto con il proprio nucleo familiare presso l’alloggio di edilizia residenziale pubblica nella periferia est della Capitale. Nei prossimi mesi continuerà presso strutture specialistiche una terapia riabilitativa che interesserà le due braccia, gravemente compromesse dall’evento traumatico. In questi mesi, ad eccezioni dei giorni successivi al fatto, Hasib ha sempre mantenuto vivi i ricordi di quanto avvenuto la mattina del 25 luglio, quando gli agenti della Polizia di Stato hanno fatto irruzione nella propria abitazione senza un mandato di perquisizione.

Ma cosa ha riferito nel corso dell’interrogatorio durato 3 ore? “Ha ricostruito nel dettaglio – si legge sempre nel comunicato stampa – quanto avvenuto il 25 luglio presso la propria abitazione, confermando quanto riportato nell’esposto promosso dai propri genitori all’indomani della vicenda. Ha affermato: di essere stato aggredito e picchiato dagli agenti con calci, pugni e oggetti contundenti; ha riconosciuto un agente come protagonista della brutale aggressione; ha dichiarato di essere stato legato ai polsi da un cavo elettrico e, in alcuni momenti di essere stato incappucciato. Infine ha confermato di essere stato afferrato per poi essere scaraventato dalla finestra dell’appartamento di via Gerolamo Aleandro”. Abbiamo chiesto all’avvocato Salerni se a spingerlo fuori dalla finestra sia stato Andrea Pellegrini ma ci ha risposto che non può dire nulla oltre quello che è scritto nel comunicato.

Andrea Pellegrini il 22 dicembre è stato raggiunto da una ordinanza di misura cautelare agli arresti domiciliari con l’accusa di tortura e falso ideologico commesso da Pubblico Ufficiale in atti pubblici. Lui nel suo interrogatorio di garanzia ha negato tutte le accuse e ha riferito che quando Hasib sarebbe caduto dalla finestra il poliziotto più vicino, pur stando in un’altra stanza, era Fabrizio Ferrari, l’agente che ha collaborato con gli inquirenti, sostenendo che l’ordine di servizio era falso e accusando il collega dei maltrattamenti verso il giovane rom.

Le due versioni

Ma la versione di Ferrari, riportata nell’ordinanza del gip, nella sua parte finale, non combacia con quella di Hasib. Secondo Ferrari, Pellegrini avrebbe costretto Hasib a sedere su una sedia, avrebbe strappato un filo della corrente del ventilatore “per legare i polsi di Omerovic brandendo” ancora una volta “all’indirizzo dell’uomo il coltello da cucina, minacciandolo, urlando al suo indirizzo la seguente frase ‘se lo rifai, te lo ficco nel c…” e “lo colpiva nuovamente con uno schiaffo e continuava ad urlare nei suoi confronti, dicendogli ripetutamente ‘non lo fare più’”. Mentre accadeva questo Hasib “è rimasto immobile a guardarlo terrorizzato”.

Pellegrini e l’altro collega presente nella stanza sarebbero usciti. E con gli altri due avrebbero parlato con la sorella di Hasib. Ad un certo punto avrebbero sentito il rumore di una tapparella che si alzava, uno dei quattro agenti si sarebbe diretto verso la stanza e avrebbe visto Hasib scavalcare il davanzale e perdere l’equilibrio. Invece Hasib in merito a questo punto sostiene altro: ossia di essere stato gettato dalla finestra da un agente. Per questo le indagini della Procura di Roma continuano: ha acquisito lo scorso dicembre materiale elettronico e informatico degli agenti coinvolti.

Il prossimo interrogatorio interesserà la sorella di Hasib, Sonita Omerovic per la quale è stato disposto l’incidente probatorio. Il comunicato si conclude dicendo che “la famiglia Omerovic, fiduciosa nel lavoro svolto dal Procura di Roma, attende con serenità il compimento delle indagini, nella ferma convinzione che la verità che sta emergendo dal lavoro investigativo, potrà finalmente consentire di individuare le dovute responsabilità”.

Angela Stella

Estratto dell'articolo di Edoardo Rizzo per “la Stampa” il 23 Dicembre 2022.

[…] La mattina del 25 luglio Andrea Pellegrini e un altro collega, entrambi in borghese - ha riferito il testimone - si erano presentati al loro comando chiedendo informazioni su dove rintracciare l'abitazione di Hasib Omerovic, oggetto secondo i due agenti di diverse segnalazioni nel quartiere per molestie sulle donne. Segnalazioni di cui la polizia locale non sapeva nulla. 

Lo stesso testimone avrebbe inoltre «riferito di aver ricevuto nel pomeriggio di quello stesso giorno una telefonata da Pellegrini che stranamente lo ragguagliava del fatto che l'accertamento era finito male, facendo riferimento in particolare al fatto che "la persona si era buttata di sotto una volta che loro erano giù nel cortile"», un passaggio singolare che denota secondo i magistrati «l'intento di fornire una giustificazione non richiesta».

Tanto più che di questa telefonata nei tabulati non c'è traccia. Analisi accurate e lavoro certosino fanno emergere tutto il malessere e il disagio determinato dalla vicenda: «Ho provato vergogna per non essere intervenuto», ha confessato il poliziotto che ha collaborato alle indagini dopo aver inizialmente sottoscritto la relazione di servizio non rispondente al vero perché «Pellegrini è pur sempre un suo superiore». 

Disagio emerge anche dai messaggi in chat tra una ispettrice del commissariato Primavalle e un ispettore della Mobile: «Indagate bene: le cose non stanno come hanno scritto gli operanti», segnala lei. «In caso di dubbi scrivi e parati il culo che poi l'onda di merda semmai arriva sommerge tutti...», le suggerisce lui su WhatsApp.  […]

Estratto dell’articolo Andra Ossino per “la Repubblica” il 23 Dicembre 2022.

[…] Cinquant' anni, due figli piccoli e una compagna. La sua immagine social racconta la passione per la fotografia, per i viaggi e l'interesse per la musica, per Vasco e Ligabue. Su Facebook in passato ha pubblicato un'immagine del congresso di Forza Nuova del 2014, con le bandiere dei gruppi ultranazionalisti polacchi in bella vista. […] Il suo collega, che per un paio di mesi ha tenuto la bocca cucita, poi ha vuotato il sacco: «È aduso a comportamenti aggressivi nell'espletamento delle attività di servizio», dice ricordando di quando «si era persino vantato di aver malmenato un pedofilo in occasione di un arresto». 

Anche il compagno di macchina è intimidito «conoscendolo come un soggetto del quale non sono prevedibili i comportamenti e le reazioni». Le carte raccontano di un passato tra le fila della squadra mobile di Roma e di un primo procedimento disciplinare «per aver divulgato notizie riservate relative a un'indagine».

Un fattaccio per cui si è ritrovato a lavorare in periferia, in un commissariato di frontiera, a Primavalle. Nel 1998 è anche stato arrestato in Florida dopo aver improvvisato un furto in un supermercato. È così l'assistente capo Pellegrini, «un soggetto che non controlla i propri impulsi e che non si ferma davanti a situazione problematiche». Uno che si «vanta di svolgere lavori da investigatore privato installando gps e seguendo persone». «È pericoloso», crede il giudice che ha disposto gli arresti domiciliari. Può fare ancora del male […]

Poliziotto arrestato per il volo del rom dalla finestra. L'accusa: tortura. Storia di Redazione romana su Avvenire il 22 dicembre 2022.

Lo ha legato ad una sedia. Lo ha preso a schiaffi, insultato, minacciato con un coltello. Terrorizzandolo al punto che saltare dalla finestra è sembrato ad Hasib Omerovic l'unica scelta per trovare la via di fuga. È quanto messo in atto dall'agente di polizia Andrea Pellegrini, finito ai domiciliari per la pesantissima accusa di tortura per quanto compiuto il 25 luglio scorso in un appartamento del quartiere Primavalle di Roma. Per lui l'accusa anche di avere scritto il falso, in concorso con altri, nella nota di servizio sull'attività svolta. Nei confronti di quattro agenti, finiti nel registro degli indagati e oggi perquisiti, anche l'accusa di depistaggio. Una indagine svolta dagli uomini della Squadra Mobile della Polizia di Stato con tempestività.

La perquisizione del luglio scorso era stata attuata dopo che su alcuni profili Fb erano comparsi post in cui si accusava Omerovic di avere molestato alcune ragazze del quartiere. Una ispezione, compiuta da almeno quattro agenti, che si è però trasformata in tutt'altro, con una aggressione sia fisica che psicologica che ha portato il 36 enne, affetto da sordomutismo, a lanciarsi disperato dalla finestra. Per quel drammatico volo Hasib, dopo cinque mesi, è tutt'ora ricoverato al policlinico Gemelli: polifratturato, ha già subito diversi interventi chirurgici.

L'indagine della Procura di Roma, coordinata dall'aggiunto Michele Prestipino, ha ricostruito quanto avvenuto quel pomeriggio di luglio in uno dei quartieri popolari dell'area ovest della Capitale. L'agente, a cui è contestato anche il reato di falso in concorso con altri due colleghi per quanto scritto nella nota di servizio dopo i fatti, è entrato «all'interno dell'abitazione, immediatamente e senza alcun apparente motivo» ha colpito Omerovic «con due schiaffi nella zona compresa tra il collo e il viso, contestualmente rivolgendo al suo indirizzo, con fare decisamente alterato, la seguente frase: «Non ti azzardare mai più a fare quelle cose, a scattare foto a quella ragazzina» e dopo avere impugnato «un coltello da cucina e lo brandiva all'indirizzo» dell'uomo.

Pellegrini ha poi sfondato la porta della stanza da letto di Omerovic, sebbene quest'ultimo «si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi». Una volta dentro la stanza ha costretto il giovane a

sedere su una sedia e dopo avere strappato il filo elettrico dal ventilatore «lo utilizzava per legare i polsi di Omerovic brandendo» ancora una volta «all'indirizzo dell'uomo il coltello da cucina, minacciandolo, urlando al suo indirizzo la seguente frase "se lo rifai, te lo ficco nel c."» e «lo colpiva nuovamente con uno schiaffo e continuava ad urlare nei suoi confronti, dicendogli ripetutamente "non lo fare più"».

Per il gip «gli accadimenti sono indubbiamente di entità grave, commessi in spregio della funzione pubblica svolta, nonché violando fondamentali regole di rispetto della dignità umana. I ripetuti atti di violenza e minaccia appaiono del tutto gratuiti. Pellegrini - aggiunge il gip - non ha avuto alcuna remora di fronte ad un ragazzo sordomuto e una ragazza con disabilità cognitiva (Sonita, la sorella di Hasib ndr) compiendo ripetuti atti violenti, sia sulle persone che sulle cose e gravemente minatori, così da denotare pervicacia e incapacità di autocontrollo».

Nell'ordinanza il giudice scrive, inoltre, che «seppur l'intervento presso l'abitazione di via Gerolamo Aleandro possa ritenersi (inizialmente) legittimo, in quanto finalizzato, in un'ottica preventiva da parte degli agenti di polizia, all'attività di identificazione di Omerovic, sebbene solo per via di alcune notizie apparse su Facebook che lo davano come "molestatore" di ragazze del quartiere, questa attività è stata svolta con modalità del tutto anomale, e, quantomeno da un certo momento in poi, strumentalizzata con conseguente violazione dei doveri e abuso e travalicamento della funzione in particolare da parte dell'assistente capo Pellegrini».

Il giudice lo definisce come un intervento «punitivo» perché «l'attività di identificazione è divenuta semplicemente un pretesto e che integrano, almeno nella valutazione di questa sede, il delitto di tortura». Violenze e minacce «compiute in danno di una persona inerme attraverso un'irruenza minatoria ben visibile ad Hasib, evidentemente anche mimica, in occasione di un'identificazione che, sotto il profilo delle modalità esecutive, appare anomala e ha assunto essa stessa, nella dinamica, caratteri "autoritari" e, al contempo, mortificanti per la persona, come desumibile dalla esposizione dei documenti in bella mostra e in perfetto ordine sul tavolo del salone dell'abitazione dell'individuo da identificare».

Hasib Omerovic: gli schiaffi, le mani legate e le minacce con il coltello. «Che te frega se muore?». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 22 dicembre 2022.

Il racconto dell’agente pentito: «Ho provato a farlo smettere»

«Che te frega se more?». Così si sentì rispondere l’agente Fabrizio Ferrari dall’assistente capo Andrea Pellegrini, accusato di tortura nei confronti di Hasib Omerovic, volato dalla finestra del suo appartamento di Primavalle e finito in coma all’ospedale. Tornati in ufficio, Pellegrini notò l’agente «piuttosto agitato per quanto era accaduto», e gli chiese «se avesse paura di qualcosa»; Ferrari gli confidò di temere per la vita del disabile ricoverato dopo il loro intervento e l’assistente capo si lasciò andare a quella frase. Che riecheggia sinistramente il «magari morisse» pronunciato da uno dei carabinieri coinvolti nel caso di Stefano Cucchi dopo il suo arresto e i primi malori. 

Le prime bugie

Altri particolari, invece, ricordano una vicenda ancora più lontana nel tempo come la fine dell’anarchico Pinelli, precipitato da una finestra della Questura di Milano all’indomani della strage di piazza Fontana, nel dicembre 1969. All’epoca dissero che s’era gettato di sotto dopo aver saputo di essere accusato della bomba; stavolta è un funzionario della polizia locale a riferire la versione di Pellegrini, recatosi a casa di Omerovic sospettato di molestie sessuali: «È successo che ci ha aperto la porta la sorella, abbiamo visto che presentava dei segni sul volto e abbiamo pensato che anche lei fosse vittima delle violenze del fratello. Una volta che eravamo giù nel cortile la persona si è buttata dalla finestra». Una ricostruzione falsa con la quale, secondo la Procura, l’assistente capo ha fin da subito cercato di nascondere le proprie responsabilità. Tuttavia è proprio il racconto dell’agente Ferrari a costituire — insieme ai riscontri — l’architrave dell’accusa di tortura, rafforzato dai riscontri che hanno spinto il giudice a ordinare l’arresto di Pellegrini.

A seguito delle segnalazioni via facebook sulle sue presunte molestie, l’agente e l’assistente capo — componenti della pattuglia «Primavalle 12» — giunsero a casa di Omerovic insieme all’equipaggio della «Primavalle 6». Dopo aver suonato alla porta sentirono «urla e un frastuono provenire dall’interno», finché Hasib aprì. Loro entrarono subito e Ferrari vide «Pellegrini scagliarsi improvvisamente contro Omerovic, colpendolo con due schiaffi tra il collo e il volto che lasciavano attonito Hasib, e con fare alterato gli diceva frasi del tipo “non ti azzardare più a fare quelle cose, a scattare foto a quella ragazzina”».

Ferrari e uno degli altri due poliziotti allontanarono Hasib «cercando di tranquillizzarlo» e chiedendogli i documenti, ma poco dopo Pellegrini tornò con un coltello da cucina trovato su un tavolo della sala e gli urlò contro: «Che ci fai con questo?». La caduta nel vuoto

Il sordomuto Omerovic provò a rispondere a gesti, mentre l’assistente capo continuava ad aggirarsi per l’appartamento, e davanti a una porta sbarrata la sfondò con un calcio gridando: «Ce l’ho le chiavi!». Entrati dentro, Pellegrini fece mettere a sedere Hasib, dopodiché strappò «il filo della corrente di un ventilatore, staccandolo dalla presa ».

A quel punto Ferrari «avendone intuito le intenzioni», si avvicinò all’assistente capo «mettendogli una mano sul braccio e rappresentandogli che non vi fosse bisogno di proseguire oltre nella sua condotta». Pellegrini lo rassicurò: «Tranquillo, non faccio niente». Ma subito dopo vide che «si era avvicinato a Omerovic, gli aveva legato le mani col filo della corrente e aveva brandito il medesimo coltello che prima si trovava sul tavolo gridando: “Se lo rifai te lo ficco nel cu..”».

Di fronte a questa scena l’agente se ne andò dalla collega rimasta nell’altra stanza, ma uscendo «udiva il rumore di un altro schiaffo e sentiva Pellegrini gridare ripetutamente “Non lo fare mai più”». Poi l’assistente capo tornò insieme all’altro poliziotto della «Primavalle 6», e mentre tutti e quattro si trovavano con la sorella di Omerovic, sentirono «il rumore di una tapparella che velocemente si alzava». Ferrari corse verso quella stanza e vide Hasib «intento a scavalcare il davanzale della finestra». Gli gridò «Fermo, che cazzo fai!», ma lo vide «precipitare nel vuoto poiché, con ogni probabilità aveva perso l’equilbrio... Ho avuto l’impressione che Omerovic non volesse buttarsi di sotto, ma volesse scappare». La firma per paura

Una fuga finita prima nel cortile dello stabile e poi all’ospedale. In commissariato, dove Pellegrini cercava di tranquillizzare l’angosciato Ferrari invitandolo a infischiarsene della sorte di Omerovic, i quattro poliziotti sottoscrissero una relazione di servizio di tutt’altro tenore che ora gli è valsa l’accusa di falso. Ferrari ha raccontato che a scriverla fu l’assistente capo, e lui la firmò consapevole «che non riportasse affatto il fedele svolgimento dei fatti, ma temendo, in caso contrario, possibili reazioni dello stesso Pellegrini nei suoi confronti».

Tra i riscontri al racconto dell’agente «pentito», il principale è la relazione della polizia scientifica sulla foto scattata da Pellegrini a Omerovic seduto nella stanza, dalla quale sono emersi i segni sui polsi a conferma che furono legati col filo elettrico. Foto che l’assistente capo pensava servissero a scagionare i poliziotti quando, a settembre, la storia di Hasib precipitato dalla finestra fu denunciata pubblicamente. Come risulta dal messaggio wathsapp che inviò a Ferrari il 14 settembre: «Tra poco vado in ufficio a fare una relazione al Dirigente e alla Squadra Mobile dove allego tutte le foto live, dove si evince che ogni cattiveria detta è un falso creato per qualche scopo politico».

Altri quattro agenti indagati. Caso Omerovic, poliziotto arrestato con l’accusa di tortura: “Schiaffi, minacce con un coltello e falso”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 22 Dicembre 2022

Si chiama Andrea Pellegrini l’agente di Polizia raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare di arresti domiciliari per la vicenda di Hasib Omerovic, il ragazzo precipitato dalla finestra del suo appartamento a Roma, lo scorso luglio, durante una perquisizione delle forze dell’ordine. L’accusa è di tortura e falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici. Secondo l’ordinanza l’agente Pellegrini avrebbe causato al ragazzo “un verificabile trauma psichico, in virtù del quale precipitava nel vuoto dopo aver scavalcato il davanzale della finestra della stanza da letto nel tentativo di darsi alla fuga per sottrarsi alle condotte violente e minacciose in atto nei suoi confronti“, con “abuso dei poteri e in violazione della funzione, nel corso dell’attività volta all’identificazione” e con “il compimento di plurime e gravi condotte di violenza e minaccia”. Altri quattro avvisi di garanzia sono stati notificati nei confronti di altri quattro poliziotti indagati con le accuse, a vario titolo, di falso ideologico commesso da Pubblico Ufficiale in atti pubblici e depistaggio.

La vicenda si era consumata lo scorso luglio, in un blitz della polizia nell’abitazione dell’uomo, 36enne disabile, sordo muto dalla nascita, a Primavalle. Al civico 24 di via Girolamo Aleandro. I poliziotti sarebbero intervenuti presso l’abitazione per “procedere – si legge negli atti – alla sua identificazione”. Di quell’operazione era rimasta una foto sconvolgente: Omerovic steso sull’asfalto, ricoperto di tracce di sangue, inerme. La cartella clinica avrebbe riportato fratture alla testa, alle costole e allo sterno, lussazione dell’omero e traumi a milza, fegato, rene, ferite al torace. Ancora oggi Omerovic per quella caduta, per quella vicenda, è ricoverato in ospedale.

Agghiacciante la ricostruzione – certo non una sentenza, chiariamo, ancora tutta da confermare – che emerge dall’ordinanza del giudice per le indagini preliminari Enzo Damizia. Secondo quanto riportato anche nei primissimi giorni successivi all’esplosione del caso, l’operazione sarebbe scattata per delle voci che sui gruppi Facebook del quartiere accusavano Omerovic di aver molestato delle ragazze in strada. Per alcuni il 36enne sarebbe arrivato a scattare delle foto ad alcune giovani. Gli agenti sarebbero arrivati preso l’appartamento per una perquisizione che sarebbe stata legittima ma non nelle modalità, perché secondo il Gip svolta “con modalità del tutto anomale, e, quantomeno da un certo momento in poi, strumentalizzata con conseguente violazione dei doveri e abuso e travalicamento della funzione in particolare da parte dell’assistente capo Pellegrini”.

La Stampa scrive che la porta della camera di Omerovic sarebbe stata sfondata, nonostante il ragazzo avesse consegnato le chiavi. “Pellegrini non ha avuto alcuna remora di fronte ad un ragazzo sordomuto e una ragazza con disabilità cognitiva (la sorella di Omerovic, ndr) compiendo ripetuti atti violenti, sia sulla persone che sulle cose e gravemente minatori, così da denotare pervicacia e incapacità di autocontrollo“. Le accuse parlano di “due schiaffi nella zona compresa tra collo e viso” e delle mani legate col filo del ventilatore. Dopo aver brandito un coltello che si trovava sul tavolo la minaccia urlata: “Se lo rifai te lo ficco nel cu**!”.

Per Il Corriere della Sera una volta tornato in ufficio al collega Fabrizio Ferrari, presente alla perquisizione e che avrebbe provato a frenarlo secondo quanto emerso, avrebbe chiesto: “Che ti frega se muore?”. Sempre Pellegrini avrebbe scritto una relazione che sarebbe però stata firmata dagli altri poliziotti, cui ora vengono contestate le accuse di falso e depistaggio. “Tra poco vado in ufficio a fare una relazione al Dirigente e alla Squadra Mobile dove allego tutte le foto live, dove si evince che ogni cattiveria detta è un falso creato per qualche scopo politico“, avrebbe scritto in un messaggio Pellegrini a Ferrari. La misura è stata notificata dalla Squadra Mobile. Secondo La Stampa il poliziotto agli arresti avrebbe diversi precedenti e sarebbe stato destinatario in passato di sanzioni e richiami scritti. Nei confronti degli agenti sono in corso attività di perquisizione.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Indagati a Roma altri due poliziotti del commissariato di Primavalle. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Gennaio 2023.

L’appartamento in cui Hasib sarebbe stato torturato è stato posto di nuovo sotto sequestro. I poliziotti sono accusati di depistaggio per aver "modificato lo stato dei luoghi" della casa.

L’elenco dei poliziotti indagati nell’inchiesta della Procura di Roma su quanto accaduto nella tarda mattinata del 25 luglio scorso ad Hasib Omerovic, il 36enne sordomuto precipitato dalla finestra dell’appartamento in cui viveva con la sua famiglia e che ora è stato nuovamente posto sotto sequestro, si allarga con una nuova iscrizione nel registro degli indagati . Oltre ai quattro agenti della Polizia di Stato in servizio nel commissariato di Primavalle, che in quel momento si trovavano all’interno dell’abitazione per un controllo immotivato, sono stati indagati dal pm Stefano Luciani altri due poliziotti dello stesso distretto: la vice dirigente Laura Buia (in seguito rimossa) ed Alessandro Calogero. 

Entrambi gli appartenenti della Polizia di Stato sono chiamati a rispondere dalle accuse di depistaggio, perché come riportato nel capo d’imputazione “in concorso con altri appartenenti alla Polizia di Stato, al fine di sviare le indagini in merito alle cause per le quali Omerovic precipitava nel vuoto dalla finestra della sua stanza da letto, modificavano artificiosamente lo stato dei luoghi dell’appartamento sito in via Gerolamo Aleandro, prima del sopralluogo” eseguito dagli investigatori della Polizia Scientifica. Inoltre l’ex vice dirigente del commissariato Laura Buia ed il collega Alessandro Calogero vengono accusati di “aver affermato il falso in sede di sommarie informazioni testimoniali rese al pubblico ministero, in merito alla continuativa presenza presso lo stabile di via Gerolamo Aleandro di personale del XIV distretto di Primavalle in attesa dell’intervento della polizia scientifica, nonché in relazione alle condizioni dell’appartamento dove abitavano gli Omerovic“.

Il pm Stefano Luciani della Procura di Roma ha disposto per questi motivi un nuovo sequestro dell’abitazione al piano rialzato del civico 24/M si legge nel decreto “al fine di rilevare eventuali tracce biologiche (in particolare ematiche) e impronte papillari lasciate all’interno dell’immobile” dagli indagati.

Redazione CdG 1947

Da ansa.it il 23 dicembre 2022.

"È una vicenda grave, il primo sentimento è di rammarico per quello che è successo e la vicinanza alla famiglia: speriamo si possa riprendere. Ci sono anche serenità e orgoglio per aver fatto quello che bisognava fare, per esserci messi a disposizione della procura in indagini affidate alla squadra mobile che ha ricostruito il quadro che ha portato al provvedimento". 

Lo ha detto il capo della Polizia Lamberto Giannini sul caso di Hasib Omerovic, nel corso dello scambio di auguri con la stampa. Poi, ha aggiunto Giannini, "c'è cautela: ogni ricostruzione investigativa deve essere sottoposta al vaglio di un giudice e aspettiamo con serenità le decisioni. Avevo detto fin dall'inizio - ha ricordato - che ci sarebbe stato il massimo impegno e trasparenza.

Parliamo di un ufficio importante, quello di Primavalle, continueremo con la massima serenità a collaborare con la magistratura". "Parliamo - ha proseguito il capo della Polizia - di un episodio, poi ci sono tutti gli episodi di ben diverso tenore che riguardano le forze dell'ordine e sono tutti i giorni sotto occhi dei cittadini. Bisogna affrontare i problemi con serenità e trasparenza e c'è sempre la presunzione di non colpevolezza. Spero che la cittadinanza dia per scontata la nostra trasparenza: faremo di tutto perché questo atteggiamento sia percepito sempre ". 

Una relazione di servizio da redigere per "pararsi il c.. dall'onda di m...che quando arriva sommerge tutti". È quanto afferma in un messaggio chat, citato nell'ordinanza cautelare, un ispettore, in servizio presso la Squadra Mobile ad una collega ispettrice del commissariato Primavalle, in relazione alla vicenda di Hasib Omerovic, il 36enne precipitato il 25 luglio scorso dalla sua abitazione nel corso di una perquisizione delle forze dell'ordine a Roma. 

Nel documento del gip si afferma che i due ispettori poco prima del messaggio inviato via WhatsApp avevano avuto un colloquio telefonico durante il quale l'agente ha raccomandato il collega "'di svolgere in modo accurato le indagini poiché le cose non stanno come hanno scritto gli operanti' sottolineando anche l'insussistenza di valide ragioni che potessero giustificare, nel caso di specie, un accesso all'interno di una privata abitazione nei termini descritti". 

Oltre all'arresto per tortura dell'agente Andrea Pellegrini, altri quattro poliziotti sono finiti nel registro degli indagati per le accuse di falso e depistaggio in relazione all'annotazione di servizio scritta dopo i fatti di via Gerolamo Aleandro nel quartiere Primavalle.

 Intanto l'agente che ha collaborato ha detto: "Ho provato un senso di vergogna" per non essere intervenuto e fermare quanto stava accadendo. E' la giustificazione che l'agente che ha collaborato alle indagini sulla vicenda di Hasib Omerovic, ha fornito agli inquirenti sul fatto di non avere informato immediatamente i suoi superiori su quanto avvenuto nell'appartamento di Primavalle.

Nell'ordinanza il gip della Capitale scrive che il poliziotto, testimone oculare, "ha riferito di essersi limitato a confidare alcune cose (la porta sfondata a un collega e gli schiaffi a un altro) e di essersi in qualche modo determinato a sottoscrivere la relazione di servizio, il cui contenuto non era corrispondente a quanto avvenuto, perché Pellegrini è pur sempre un suo superiore, di cui in qualche modo subiva il 'peso' e gli atteggiamenti, e che soltanto quando la pressione delle notizie di stampa sulla vicenda si era fatta insostenibile aveva finalmente sentito l'esigenza di recarsi dal dirigente per 'riferire le cose come erano andate perché in queste situazioni è inutile cercare di nasconderle'".

All'arresto dell'agente Andrea Pellegrini, da ieri ai domiciliari, si è arrivati grazie al lavoro svolto in modo tempestivo dagli uomini della Squadra Mobile della Questura, coordinati dal procuratore aggiunto Michele Prestipino. Nei prossimi giorni l'indagato verrà ascoltato dal gip nell'ambito dell'interrogatorio di garanzia.

"Hasib sta meglio, ha iniziato a respirare da solo, mangia autonomamente e fa qualche passo. Non ha una coscienza piena e non gli è stato fatto riferimento all'accaduto. I familiari non fanno nessun accenno quando vanno a trovarlo". A riferirlo è Carlo Stasolla, dell'associazione 21 luglio, parlando di Omerovic, l'uomo precipitato da un palazzo a Roma per cui è stato arrestato per tortura un poliziotto. "E' nel reparto riabilitazione ad alta intensità del Gemelli - ha detto ancora - Siamo comunque ben lontani dalla possibilità di una sua testimonianza".

Hasib Omerovic, nelle foto del poliziotto le violenze prima della caduta dal balcone. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 22 Dicembre 2022

Lo stesso assistente capo arrestato per la «tortura» inflitta al giovane disabile lo aveva ripreso col cellulare

Le immagini dei polsi di Hasib Omerovic, nella seconda immagine si vedono dei segni

Due fotografie scattate dallo stesso assistente capo Andrea Pellegrini, arrestato per la presunta “tortura” inflitta al disabile Hasib Omerovic, costituiscono per la Procura di Roma uno «straordinario riscontro» al racconto dell’agente Fabrizio Ferrari sul quale si basa l’accusa degli inquirenti. 

Si tratta di due immagini di Omerovic riprese rispettivamente alle 12,16 e alle 12,21 del 25 luglio scorso - giorno dell’intervento delle due pattuglie del commissariato di Primavalle conclusosi con il volo dalla finestra di Hasib, finito in coma all’ospedale - che secondo l’interpretazione del pubblico ministero (condivisa dal giudice delle indagini preliminari) confermano che a Omerovic furono stati legati i polsi con il filo elettrico di un ventilatore strappato dalla presa della corrente.

Nella prima foto, quella delle 12,16, si vede Hasib subito dopo l’arrivo dei poliziotti, mentre mostra loro i documenti d’identità; sul suo polso sinistro non compaiono segni particolari. Nella seconda invece, scattata cinque minuti più tardi, Hasib è seduto in un’altra stanza, e sul polso sinistro si vedono i segni di un’apparente escoriazione, sia pur lieve. Ai tecnici della Polizia scientifica il pm Stefano Luciani ha chiesto di accertare se quell’immagine fosse compatibile con lesioni o legature fatte con un filo della corrente. 

La risposta è contenuta nella relazione in cui si si legge che esaminando la foto scattata alle 12,21 si nota «sulla superficie superiore dell’avambraccio sinistro - III inferiore… un’area discromica-iperemica ove si osservano delle sfumate impronte che potrebbero verosimilmente essere ricondotte a dei ‘solchi’ a decorso trasversale». In termini meno tecnici si tratterebbe di irritazioni cutanee dovute a «compressioni» che, per quanto desumibile dalla foto, «permettono di ipotizzare una possibile compatibilità con un mezzo contundente a scarsa capacità escoriativa che può essere individuato in un laccio o un filo o una corda». 

Quanto basta per confermare, in questa fase dell’indagine, il racconto dell’agente Ferrari sul comportamento del suo superiore Pellegrini. Secondo il giudice che ha ordinato gli arresti domiciliari per l’assistente capo, si tratta di un’ulteriore conferma «circa il fatto che l’azione costrittiva ad opera del Pellegrini fosse stata effettuata in un momento successivo a quello dell’identificazione, e precisamente allorquando il Pellegrini, dopo aver sfondato la porta, aveva costretto l’Omerovic a sedersi sulla sedia all’interno della sua stanza da letto e gli aveva legato i polsi». È uno dei particolari decisivi a far scattare l’ipotesi del reato di tortura.

Hasib Omerovic, Andrea Pellegrini e i suoi guai nella polizia: l'attrazione per l'estrema destra, l'arresto negli Usa, il richiamo scritto.  Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 22 Dicembre 2022

L'assistente capo ora ai domiciliari, in forza fino a settembre al commissariato Primavalle, ha ricevuto numerosi provvedimenti disciplinari per il suo comportamento. Il trasferimento dalla Squadra mobile per fuga di notizie

Un richiamo scritto, una sorta di rimprovero ufficiale rimasto nella sua scheda personale. Un trasferimento dalla Squadra mobile, la sezione investigativa della polizia, per aver divulgato notizie riservate in merito a un'indagine. E non sembra ai giornalisti. E ancora: numerosi provvedimenti disciplinari, collegati ai suoi comportamenti in servizio. Sono solo alcune delle annotazioni che gli investigatori della Mobile hanno messo insieme per descrivere la personalità dell'assistente capo della polizia Andrea Pellegrini, romano, 50 anni, ora ai domiciliari accusato di tortura nei confronti di Hasib Omerovic, il rom sordomuto di 36 volato da una finestra del suo appartamento a Primavalle il 25 luglio scorso durante un controllo degli agenti. 

Ma ad accompagnare i momenti più recenti della carriera di Pellegrini, descritto dai colleghi come un «duro», dagli atteggiamenti «maneschi», c'è anche una vicinanza ai movimenti di estrema destra, sembra a Forza Nuova in particolare, così come un arresto per furto in un supermercato in Florida, il primo settembre 1998, per il quale il 50enne è stato arrestato dalla polizia americana ed è uscito dal carcere solo in seguito al pagamento di una cauzione. Non è chiaro come sia andata a finire la sua vicenda giudiziaria negli Stati Uniti, che comunque non gli ha impedito almeno fino a qualche mese fa di proseguire la sua carriera nella polizia italiana. 

Non una novità per chi indaga sull'aggressione a Omerovic, visto che proprio il gip Ezio Damizia nella sua ordinanza ha citato alcuni episodi della vita non proprio tranquilla in divisa di Pellegrini, finita agli atti dell'inchiesta sulla base dei resoconti proprio della Squadra mobile. In particolare il giudice spiega che nei confronti del rom disabile, il sottufficiale 50enne che ora rischia una condanna fino a dieci anni di carcere e anche il licenziamento, «non ha avuto alcuna remora di fronte a un ragazzo sordomuto e a una ragazza con disabilità cognitiva compiendo ripetuti atti violenti, sia sulla persona sia sulle cose, e gravemente minatori, così da denotare pervicacia e incapacità di autocontrollo».

Inoltre secondo il suo collega indagato (Ferrari) il 50enne è «aduso a comportamenti aggressivi nell'espletamento delle attività di servizio e in alcuni episodi si è perfino vantato con un collega di aver "malmenato un pedofilo in occasione di un arresto"». Ferrari ha anche detto di essersi sentito «intimorito» dal collega perché lo conosce «come un soggetto del quale non sono prevedibili i comportamenti e le reazioni». Sempre lui ha detto che il collega «si è ventato di svolgere lavori da investigatore privato al di fuori delle attività d'ufficio, installando gps e seguendo le persone» e ha descritto anche «vari episodi di intemperanze» di Pellegrini.

Edoardo Izzo Grazia Longo per “la Stampa” il 22 dicembre 2022.

Senza «alcun apparente motivo» il poliziotto Andrea Pellegrini è entrato a casa di Hasib Omerovic, il trentaseienne sordomuto volato giù dal terzo piano della sua abitazione, il 25 luglio scorso, nel corso di una perquisizione, gli ha mollato «due schiaffi nella zona compresa tra il collo e il viso», lo ha «obbligato a sedersi su una sedia e gli ha legato i polsi con il filo del ventilatore». 

E poi «gli ha brandito contro il coltello da cucina, minacciandolo, urlando al suo indirizzo la seguente frase "se lo rifai, te lo ficco nel c"» e «lo colpiva nuovamente con uno schiaffo e continuava ad urlare nei suoi confronti, dicendogli ripetutamente "non lo fare più"». Un sacco di botte insomma, anzi di più «torture».

Che hanno provocato nel sordomuto «un verificabile trauma psichico, in virtù del quale precipitava nel vuoto dopo aver scavalcato il davanzale della finestra della stanza da letto nel tentativo di darsi alla fuga per sottrarsi alle condotte violente e minacciose in atto nei suoi confronti». 

Il film dell'orrore è raccontato nelle 61 pagine dell'ordinanza con cui il gip Ezio Damizia, su richiesta del pm Stefano Luciani e dell'aggiunto Michele Prestipino, ha disposto gli arresti domiciliari per il poliziotto Andrea Pellegrini accusato di tortura e di falso. Quest' ultimo reato è stato contestato anche ad altri quattro agenti indagati per avere attestato il falso nell'annotazione di servizio redatta dopo l'attività eseguita. 

Il caso era stato denunciato dal deputato radicale Riccardo Magi, le indagini sono state svolte, in tempi rapidi, dai poliziotti della Squadra mobile di Roma. Hasib Omerovic è vivo per miracolo. E ora Andrea Pellegrini è indiziato di aver agito «con abuso dei poteri e in violazione della funzione, nel corso dell'attività volta all'identificazione» di Omerovic e con «il compimento di plurime e gravi condotte di violenza e minaccia». All'origine della perquisizione la notizia, pubblicata il giorno prima su Facebook, che accusava Hasib di aver molestato una ragazzina scattandole alcune foto per strada.

Il poliziotto arrestato lo ha redarguito con la seguente frase: "Non ti azzardare mai più a fare quelle cose, a scattare foto a quella ragazzina" poi ha sfondato la porta della stanza da letto di Omerovic, sebbene quest' ultimo si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi». Il gip ribadisce l'illegalità della perquisizione: «Seppur l'intervento presso l'abitazione di via Gerolamo Aleandro possa ritenersi (inizialmente) legittimo, in quanto finalizzato, in un'ottica preventiva da parte degli agenti di polizia, all'attività di identificazione di Hasib Omerovic, sebbene solo per via di alcune notizie apparse su Facebook peraltro soltanto il pomeriggio precedente, che lo davano come "molestatore" di ragazze del quartiere, questa attività è stata svolta con modalità del tutto anomale, e, quantomeno da un certo momento in poi, strumentalizzata con conseguente violazione dei doveri e abuso e travalicamento della funzione in particolare da parte dell'assistente capo Pellegrini».

E ancora: «Gli accadimenti sono indubbiamente di entità grave, commessi in spregio della funzione pubblica svolta. Pellegrini non ha avuto alcuna remora di fronte ad un ragazzo sordomuto e una ragazza con disabilità cognitiva (la sorella di Omerovic, ndr) compiendo ripetuti atti violenti, sia sulla persona che sulle cose e gravemente minatori, così da denotare pervicacia e incapacità di autocontrollo». Pellegrini, peraltro, secondo quanto emerge dall'ordinanza, in passato aveva avuto sanzioni in diversi procedimenti disciplinari, «uno dei quali, terminato con richiamo scritto» ed era stato trasferito dalla Squadra Mobile.

«In uno dei procedimenti disciplinari aveva subito una sanzione pecuniaria dopo essere stato arrestato in Florida per furto in un supermercato e rilasciato dopo il pagamento di una cauzione». Dalle dichiarazioni di un collega inoltre, «risulta che Pellegrini è aduso a comportamenti aggressivi nell'espletamento delle attività di servizio e che, in alcuni episodi, si era persino vantato con il collega di aver "malmenato un pedofilo in occasione di un arresto"». 

Il collega ha inoltre evidenziato «l'atteggiamento tenuto da Pellegrini nei suoi confronti, volto a influenzarlo nel caso avesse avuto intenzione di riferire qualcosa circa l'accaduto, dicendogli che sarebbe stato meglio non riferire in merito allo sfondamento della porta». L'aver, infine, scattato fotografie di Omerovic «che si trovava a torso nudo nella propria abitazione sia durante l'identificazione sia soprattutto allorché è costretto a rimanere seduto assume senz' altro un effetto degradante, perché lesivo della dignità della persona».

In tale quadro, secondo il gip si innestano le «condotte violente e minatorie poste in essere da Pellegrini in danno di Omerovic, che hanno verosimilmente assunto i tratti di un intervento "punitivo" perché quella stessa attività di identificazione è divenuta semplicemente un pretesto e che integrano, almeno nella valutazione di questa sede, il delitto di tortura». La Questura di Roma in una nota precisa che «il procedimento penale versa nella fase delle indagini preliminari e per gli indagati vige il principio della presunzione di innocenza».

Caso Omerovic, poliziotto arrestato per torture al disabile “caduto” dalla finestra. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 22 dicembre 2022.

Hasib Omerovic non avrebbe tentato il suicidio, ma si sarebbe gettato dalla finestra della sua stanza, a 9 metri da terra, per sfuggire alle violenze degli agenti che avevano fatto irruzione in casa sua. Per quei fatti Andrea Pellegrini, agente di polizia del commissariato di Primavalle (Roma), è stato accusato di tortura, oltre che di falso in concorso con altri due agenti per aver rilasciato dichiarazioni false nell’annotazione di servizio a seguito dei fatti. Il gip di Roma ha disposto nei suoi confronti un’ordinanza di misura cautelare di arresti domiciliari.

La vicenda risale a quest’estate: il 25 luglio Hasib Omerovic, 36enne sordomuto, “cadeva” dalla finestra della propria camera durante un sopralluogo delle forze dell’ordine. I fatti hanno avuto luogo nel quartiere di Primavalle, periferia nord-ovest di Roma. Sul momento gli agenti avevano parlato di un sopralluogo tranquillo: erano intervenuti a seguito delle lamentele di alcuni residenti riguardanti presunte molestie ai danni di una ragazzina del quartiere, al quale Omerovic avrebbe scattato delle foto (accuse mai confermate). Poi, mentre erano sul punto di lasciare la casa, avrebbero sentito la tapparella della finestra alzarsi, la stessa dalla quale Omerovic si sarebbe gettato. La sorella dell’uomo, presente in casa al momento dei fatti, aveva tuttavia sin da subito riportato una versione alquanto diversa, parlando di un violento pestaggio eseguito dagli agenti ai danni del fratello prima che questi fosse lanciato dalla finestra.

A distanza di cinque mesi dai fatti, il quadro descritto nell’ordinanza del gip di Roma sembra confermare quanto affermato dalla donna. Fondamentale per le indagini è stato il racconto di Fabrizio Ferrari, altro agente presente sulla scena. Pellegrini, insieme agli altri agenti, avrebbe infatti fatto irruzione nell’abitazione di Omerovic intimandogli di non azzardarsi mai più «a scattare foto a quella ragazzina» e tirandogli «due schiaffi nella zona compresa tra il collo e il viso», impugnando poi «un coltello da cucina» e brandendolo contro l’uomo. In seguito avrebbe sfondato la porta della stanza di Omerovic, nonostante questi «si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi», lo avrebbe costretto a sedersi legandogli i polsi con il filo elettrico del ventilatore e, continuando a minacciarlo con il coltello, avrebbe aggiunto «Se lo rifai, te lo ficco nel c…», continuando nel mentre a schiaffeggiarlo. Una volta rientrato in caserma, Pellegrini si sarebbe avrebbe rivolto ad un collega la domanda «Che te frega se muore?».

Quanto avvenuto, riporta il gip, avrebbe causato a Omerovic «un verificabile trauma psichico, in virtù del quale precipitava nel vuoto dopo aver scavalcato il davanzale della finestra della stanza da letto nel tentativo di darsi alla fuga per sottrarsi alle condotte violente e minacciose in atto nei suoi confronti», oltre a costituire «plurime e gravi condotte di violenza e minaccia». I fatti sono «indubbiamente di entità grave, commessi in spregio della funzione pubblica svolta, nonché violando fondamentali regole di rispetto della dignità umana», oltre che «del tutto gratuiti». Alle misure cautelari nei confronti di Pellegrini si aggiungono poi altri quattro avvisi di garanzia, notificati ad altrettanti poliziotti indagati, accusati a vario titolo di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici e depistaggio. A seguito di quanto avvenuto, infatti, i poliziotti hanno redatto una reazione di servizio che raccontava ben altra storia.

Mentre la vicenda assume contorni più netti e sempre più inquietanti, appare come certo il dato dell’approccio garantista messo in atto a favore degli agenti i quali, nonostante le pesanti accuse e le indagini a loro carico, in questi mesi non sono mai stati sospesi dal servizio né hanno subito alcun procedimento disciplinare per via del “segreto investigativo” che copre le indagini preliminari. [di Valeria Casolaro]

Abusi in divisa. Ecco come la “gang” dei poliziotti a Roma ha torturato Hasib e depistato le indagini. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Dicembre 2022

Su disposizione della Procura della Repubblica di Roma, la Squadra Mobile della Questura di Roma ha dato esecuzione a un’ordinanza di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari emessa dal G.I.P. Ezio Damizia nei confronti di un appartenente alla Polizia di Stato, l’ispettore capo Andrea Pellegrini in servizio al Distretto di P.S. Primavalle, ritenuto gravemente indiziato di tortura ai danni del giovane di origini serbe Hasib Omerovic, precipitato lo scorso 25 luglio, durante un controllo di polizia, dalla finestra dell’appartamento in cui abitava con la famiglia nel citato quartiere della Capitale. Il poliziotto è anche accusato di falso ideologico commesso da Pubblico Ufficiale in atti pubblici.

Per capire come si è arrivati alle conclusioni investigative che hanno portato all’arresto dell’agente Pellegrini occorre fissare l’attenzione su alcuni particolari, perché nel corso delle indagini sono emerse numerose menzogne e falsificazioni da parte dei tre agenti ( Fabrizio Ferrari, Alessandro Sincuranza, e Mariarosa) intervenuti quel giorno, e forse anche da altri, per proteggere un loro superiore, cioè l’ispettore capo Andrea Pellegrini, un poliziotto che in passato era già stato allontanato dalla Squadra Mobile d ella Questura di Roma e trasferito per aver divulgato notizie segrete, il quale peraltro in passato era stato arrestato in Florida mentre rubava in un supermercato. Due dei poliziotti indagati hanno già avuto un faccia a faccia con gli investigatori. Fabrizio Ferrari ha spontaneamente chiesto e ottenuto di essere ascoltato per chiarire l’accaduto, per riassumere quei venti minuti trascorsi al civico 24 di via Girolamo Aleandro. Mariarosa invece, una poliziotta con appena tre mesi di servizio, ha scelto di rimanere in silenzio, e di avvalersi della facoltà di non rispondere.

In un prima relazione i quattro agenti del commissariato di Primavalle lo scorso 25 luglio avevano riferito di essere intervenuti per l’identificazione di un cittadino bosniaco, Hasib Omerovic, il quale dopo il controllo di polizia si sarebbe lanciato dalla finestra dell’abitazione cadendo nel cortile interno del palazzo della periferia romana. Ma le indagini della Squadra Mobile di Roma coordinata dalla Procura hanno effettuato una ricostruzione dei fatti accaduti tra le case popolari di Primavalle, che smentisce e stravolge la versione degli agenti, accertando che un poliziotto (cioè il Pellegrini) ha legato, picchiato e minacciato con un coltello un ragazzo sordo, mentre altri tre suoi colleghi tentavano maldestramente di occultare le sue torture, considerato che le cose si sono complicate enormemente allorquando la loro vittima si è gettata dalla finestra della sua stanza: “percepita come unica via” di salvezza, scrive il giudice per le indagini preliminari.

Èstato difficile per gli investigatori della Squadra Mobile separare la verità dalla menzogna, perché in questa indagine hanno dovuto affrontare dei colleghi che si smentiscono a vicenda, poliziotti convocati in procura per un confronto, ispettori della Polizia che suggeriscono ai colleghi della Squadra Mobile di “far svolgere bene bene le indagini perché le cose non stanno come hanno scritto gli operanti”, salvo davanti al pm ritrattare il tutto, ed altri poliziotti che consigliavano di stilare una relazione di servizio “per pararsi il culo dall’ondata di me..a che quando arriva sommerge tutti“.

Le cinque menzogne dei poliziotti

La prima menzogna è venuta alla luce immediatamente: la comunicazione con la quale gli agenti raccontavano i fatti accaduti a partire dalle 12.29 del 25 luglio era falsa. Infatti in via Girolamo Aleandro non si è trattato di un controllo di routine, una normale identificazione, bensì secondo secondo i pm, il poliziotto Andrea Pellegrini ha effettuato una spedizione “punitiva” con metodi violenti un ragazzo su cui giravano voci di quartiere in merito al fatto che molestasse ragazze. Ma la “spedizione” è sfuggita di mano.

I poliziotti indagati per nascondere la verità di quanto era accaduto hanno quindi raccontato una seconda menzogna, redatta in una relazione di servizio in cui si sosteneva che Hasib si era agitato quando i poliziotti hanno chiesto alla sorella disabile come si fosse procurata i lividi sulle braccia e lei, spaventata secondo gli agenti indagati, “negava che gli fossero stati provocati da qualche familiare“. Tutto falso. In realtà Hasib era letteralmente terrorizzato perché l’ agente Pellegrini, brandiva coltelli, lo minacciava, e strappava cavi elettrici per legarlo. E successivamente lo ha torturato. Ed al povero ragazzo la finestra è sembrata l’unica via di salvezza dalle torture.

La terzo menzogna ruota intorno a una porta chiusa a chiave. Non corrisponde a verità che Hasib si era rifiutato di aprirla, infatti stava prendendo la chiave allorquando il poliziotto Pellegrini con un calcio l’ ha sfondata.

Quarta menzogna degli indagati. gli orari non coincidono: i poliziotti indagati sostengono di essere intervenuti alle ore 12,29 allorquando la prima chiamata di emergenza al 118 con richiesta di ambulanza è stata effettuata alle ore 12,26.

Quinta menzogna: il poliziotto Pellegrini non ha fotografato Hasib durante il controllo, come ha sostenuto, per dimostrare la regolarità dell’operazione eseguita. “L’aver scattato fotografie di Omerovic  che si trova a torso nudo nella propria abitazione sia durante l’identificazione sia soprattutto allorché è costretto a rimanere seduto assume senz’altro un effetto degradante, perché lesivo della dignità della persona. Traspare – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – l’intento di Pellegrini di infliggere sofferenze gratuite a Omerovic“.

I poliziotti indagati sono accusati di: “Omettendo di indicare“, “attestavano falsamente”,  falsa rappresentazione della realtà circa lo svolgimento delle operazioni compiute dagli appartenenti alla polizia di stato”.

Le motivazioni scritte dai magistrati nei loro atti hanno una valenza ben chiara. Parlano di fatti “commessi in spregio della funzione pubblica svolta, nonché violando fondamentali regole di rispetto della dignità umana”. Fatti per i quali da 5 mesi un uomo di 36 anni, è stato operato ben 10 volte prima di uscire dal coma in cui versava, ed ora giace ricoverato in ospedale, su un letto da cui probabilmente non potrà più alzarsi. Oltre ai quattro poliziotti coinvolti nell’inchiesta, anche altri loro colleghi erano a conoscenza di quanto accaduto quella mattina del 25 luglio: un quinto agente è indagato per depistaggio. La circostanza emerge dall’ordinanza del gip a carico dell’assistente capo Andrea Pellegrini, che ricostruisce nel dettaglio anche le fasi successive all’irruzione dell’appartamento di via Gerolamo Aleandro. 

Va riconosciuto che nei giorni successivi all’emersione del caso il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva disposto la rimozione immediata del dirigente e della vice dirigente del commissariato Primavalle, Andrea Sarnari (che si trovava in ferie nei giorni in cui è avvenuto l’episodio) e Laura Buia. Entrambi non risultano fra gli indagati.

Ma un altro episodio getta un’ulteriore ombra sul clima nel commissariato Primavalle. L’ispettore della Squadra mobile, sezione Criminalità organizzata, Daniele Centamori, ha riferito infatti che il 5 settembre nel corso delle indagini avviate dalla stessa polizia ebbe una conversazione telefonica con l’ispettrice superiore Roberta Passalia (non indagata) la quale poco prima lo aveva contattato via whatsapp e gli aveva chiesto di poterlo incontrare. Nella conversazione che ne nacque la Passalia chiese al Centamori se fosse a conoscenza di un intervento condotto circa un mese prima dagli agenti di Primavalle in cui un soggetto volò dalla finestra, raccomandandosi poi di far svolgere “bene bene le indagini perché le cose non stanno come hanno scritto gli operanti“, indicandogli i nomi dell’ispettore capo Pellegrini e dell’agente Federico Ferrari.

Secondo Centamori, Passalia gli sottolineò anche l’insussistenza di valide ragioni che avessero potuto giustificare l’irruzione in quella abitazione. Passalia ha successivamente smentito questa versione, spiegando di aver solo formulato un invito a far bene le indagini come si fa da prassi, ma nel confronto tra i due disposto nel corso delle indagini l’ispettrice non è apparsa convincente. Tanto che in un messaggio di risposta, Centamori le consigliava di redigere un ordine di servizio dettagliato per evitare di essere coinvolta nelle inevitabili conseguenze del caso.

Quanto al dirigente del commissariato Andrea Sarnari, il 12 settembre trasmise una nota alla Squadra mobile in cui evidenziava che si erano presentatati spontaneamente da lui gli agenti Ferrari e Alessandro Sicuranza, i quali gli riferivano che appena entrati nell’abitazione di Omerovic, l’ispettore Pellegrini, lo aveva colpito con due schiaffi e che aveva sfondato la porta di una camera da letto. Senza riferire al resto dei comportamenti finiti nelle contestazioni all’assistente capo, i due sostenevano di aver provato a “sensibilizzare” il collega “a tenere un comportamento più consono al suo ruolo”, specificando di non aver riferito immediatamente questi fatti “per non danneggiare il superiore“. 

Ad incastrare il poliziotto Ferrari sono state proprie le foto da lui scattate col cellulare nei vari momenti dell’irruzione dalle quale si evincono i segni sui polsi di Omerovic riconducibili secondo una perizia medica alla stretta col filo della lampada. Quelle foto Ferrari le aveva inviate anche alla vicedirigente Buia, sostenendo di averle scattate per attestare “la regolarità delle operazioni compiute“. Quegli stessi scatti sarebbero stati mostrati ad altri colleghi. E d’altra parte la fama dell’ispettore Pellegrini, “aduso a comportamenti aggressivi nelle sue attività di servizio”, era tale che lo stesso assistente capo se ne vantava dicendo in passato di “aver malmenato un pedofilo in occasione di un arresto” e di “svolgere lavori da investigatore privato al di fuori dell’ufficio, installando Gps e seguendo le persone“. Tutti racconti dai quali proprio il compagno di pattuglia Ferrari inizialmente si è sentito intimorito, salvo poi decidere di collaborare alle indagini.

Va riconosciuto che per ricostruire quanto avvenuto nell’appartamento di via Gerolamo Aleandro, a Primavalle, è stato fondamentale il racconto fornito agli uomini della Squadra Mobile da Fabrizio Ferrari, che pentitosi ha collaborato alle indagini : “Ho provato un senso di vergogna” per non essere intervenuto e fermare quanto stava accadendo, ha raccontato ai colleghi che lo hanno ascoltato per ore. Nell’ordinanza il gip scrive che il poliziotto ha riferito di essersi limitato a confidare alcune cose (la porta sfondata a un collega e gli schiaffi a un altro) e di essersi in qualche modo determinato a sottoscrivere la relazione di servizio, il cui contenuto non era corrispondente a quanto avvenuto, perché Pellegrini, che verrà sentito dal gip martedì prossimo, era pur sempre un suo superiore, di cui in qualche modo “subiva il peso e gli atteggiamenti”.

Contestualmente alla misura cautelare sono stati notificati quattro avvisi di garanzia ai quattro poliziotti indagati, a vario titolo, di falso ideologico commesso da Pubblico Ufficiale in atti pubblici e depistaggio, e nei cui confronti sono state effettuate attività di perquisizione.

Le indagini sono state condotte tempestivamente dalla Squadra Mobile di Roma della Polizia di Stato sotto le costanti direttive del procuratore aggiunto Michele Prestipino e del pm Stefano Luciani della Procura della Repubblica di Roma. Redazione CdG 1947

La Procura di Roma contesta falso e tentato omicidio. “Hasib Omerovic picchiato e buttato per i piedi dalla finestra”: le accuse ai poliziotti indagati. Antonio Lamorte su Il Riformista l’11 Novembre 2022.

Hasib Omerovic sarebbe stato picchiato, minacciato dai poliziotti intervenuti in casa sua a Roma, preso per i piedi e buttato dalla finestra della camera da letto della sua abitazione. Questo è quanto si legge nella ricostruzione del pm della Procura della Capitale. Quattro gli agenti indagati cui sono contestati il tentato omicidio e il falso. La vicenda era esplosa lo scorso luglio: un blitz della polizia nell’abitazione dell’uomo, disabile, a Primavalle.

I fatti risalgono al25 luglio. Primavalle, periferia di Roma, civico 24 di via Girolamo Aleandro. I poliziotti sarebbero intervenuti presso l’abitazione per “procedere – si legge negli atti – alla sua identificazione”. Di quell’operazione era rimasta una foto sconvolgente: di Omerovic steso sull’asfalto, con tracce di sangue, inerme. La cartella clinica avrebbe riportato fratture alla testa, alle costole e allo sterno, lussazione dell’omero e traumi a milza, fegato, rene, ferite al torace. Cos’era successo in quella casa?

Grottesca la pista che farebbe risalire i motivi dell’operazione a voci che circolavano su Facebook: su gruppi del quartiere si sarebbe parlato di Omerovic come di un uomo che molestava le ragazze in strada – Repubblica scrive forse anche una nipote di uno degli indagati. Si legge altro, come visto, nella relazione di servizio. Repubblica chiarisce nella sua ricostruzione, con anticipazioni dalla Procura, che le accuse sono ovviamente da provare e il movente da trovare.

Il falso contestato dall’accusa si riferisce alla relazione di servizio nella quale si legge che il giovane si sarebbe improvvisamente lanciato “nel vuoto dalla finestra della camera da letto, omettendo anche di indicare che lo stesso era stato percosso, minacciato e che era stata sfondata la porta di una stanza interna dell’appartamento”. L’unica testimone dell’operazione è Sonita, sorella 32enne dell’uomo, affetta da ritardo mentale. Aveva raccontato di aver visto tre agenti picchiare Hasib Omerovic con un manico di scopa nella sua camera da letto.

L’avvocato della famiglia Arturo Salerni aveva inoltre spiegato che i vestiti riconsegnati alla famiglia non erano quelli che l’uomo indossava al momento della caduta dall’appartamento. “L’ospedale – aveva detto il legale – ha consegnato un pantaloncino marrone e un paio di scarpe blu mentre Hasib indossava un pantalone nero arrotolato sulle ginocchia e scarpe diverse da quelle restituite”. La madre del 36enne in conferenza stampa diceva che “anche ora che abbiamo cambiato casa continuiamo ad avere paura, anche per i nostri figli. Vogliamo verità e giustizia per Hasib, deve venire fuori”. Secondo la linea difensiva l’uomo si sarebbe gettato improvvisamente dalla finestra dopo aver alzato la tapparella. La famiglia dell’uomo sostiene che quella serranda era rotta da tempo e che non era possibile aprirla se non forzandola.

I quattro agenti indagati sono tutti in servizio al commissariato di Primavalle. Due di loro hanno già avuto un faccia a faccia con gli investigatori, uno lo ha espressamente richiesto. Quello che al momento sembra accertato è che gli agenti non avevano un mandato di perquisizione quando hanno bussato alla porta del 36enne. Ritrovati anche un termosifone divelto e una porta con la serratura spaccata. Hasib Omerovic al momento si trova ancora in ospedale al Gemelli: è uscito dal coma ma è ancora in gravi condizioni.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 13 settembre 2022.

Per la perquisizione di Hasib Omerovich, il rom precipitato dalla finestra di una abitazione a Primavalle a fine luglio, gli agenti non avevano ricevuto alcun mandato di perquisizione della Procura. 

Gli uomini della polizia intervenuti dopo una chiamata al suo domicilio erano privi del provvedimento firmato dai magistrati che avrebbe dovuto aprire le porte della casa dove il giovane viveva con una sorella, anche lei disabile. 

Omerovich, ancora ricoverato in condizioni gravi in ospedale, non risulta infatti indagato per vicende penali. Nel frattempo, i magistrati Michele Prestipino e Stefano Luciani, che procedono per concorso in tentato omicidio, hanno ascoltato già i vicini di casa dell’uomo sordomuto per appurare i dettagli. 

La Procura si sta muovendo con rapidità, e a breve saranno ascoltati i quattro agenti intervenuti. Nel frattempo il rappresentante dei Radicali Riccardo Magi ha presentato una interrogazione al ministero dell’Interno per conoscere la procedura applicata dai poliziotti in questo caso.

Giallo di Primavalle, otto punti da chiarire. «Hasib piange se ricorda quel pomeriggio con gli agenti». Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.

L'inchiesta sui motivi del controllo della polizia al rom disabile e sulle ferite sulla schiena. Il ruolo dei vertici del commissariato Primavalle e cosa c’è scritto nelle relazioni di servizio acquisite dalla Mobile? Presto sarà sentita la sorella testimone dell’incidente

Otto punti oscuri per capire cosa sia successo ad Hasib Omerovic, ancora ricoverato nel reparto di Traumatologia del Policlinico Gemelli, dopo aver passato più di un mese in Rianimazione. «Adesso piange non appena i parenti cercano di fargli ricordare quel tragico pomeriggio nella casa di Primavalle», racconta l’avvocata Susanna Zorzi, che assiste la famiglia del 36enne caduto dalla finestra del suo appartamento durante un controllo della polizia. Presto potrebbe essere sentita Sonita, la sorella di Hasib, testimone diretta della caduta del fratello. Potrebbe essere interrogata in audizione protetta con l’assistenza di psicologi. «Ha 30 anni ma è come se ne avesse cinque: non sa mentire, racconta quello che ha visto», dice Zorzi.

L’ispezione

I dubbi su quanto accaduto in via Gerolamo Aleandri cominciano dal motivo stesso, ancora non chiarito, del controllo a domicilio effettuato da quattro poliziotti nel pomeriggio del 25 luglio scorso. Un’iniziativa autonoma, si ritiene, perché i superiori degli agenti non sarebbero stati avvertiti e nemmeno la Questura.

Il post su Facebook

Fra le ipotesi, non confermate da San Vitale, c’è quella di un’operazione preventiva in quanto Omerovic era stato citato in un messaggio sul social di quartiere nel quale veniva indicato come molestatore di ragazze. Un’accusa che non trova riscontri, come anche appare singolare che sia bastato questo per effettuare un controllo di polizia in casa senza convocare in commissariato il diretto interessato.

I soccorsi

Dopo la caduta, accanto ad Hasib compaiono altri agenti, questa volta in divisa, insieme con il 118. Non è chiaro tuttavia a cosa abbiano portato le loro indagini iniziate anch’esse il 25 luglio: sapevano che erano coinvolti dei colleghi in quanto accaduto?

I ritardi

E questo porta direttamente a un altro dubbio: perché bisogna attendere il 12 settembre per sapere quello che è successo in via Aleandri? La famiglia ha presentato un esposto in Procura il 10 agosto; l’8 settembre Riccardo Magi, leader di +Europa, un’interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Perché però i testimoni sono stati sentiti solo negli ultimi due giorni?

Le botte

Fra i reperti sequestrati in casa Omerovic un bastone spezzato e un lenzuolo insanguinato. Il 36enne aveva anche ferite alla schiena indipendenti dalla caduta. Secondo la sorella Sonita, anche lei disabile e testimone dell’accaduto, sarebbe stato picchiato dai poliziotti. Ma per alcuni vicini veniva malmenato anche in casa.

Le ferite

Nonostante la gravità delle ferite riportate dal 36enne (in codice rosso al Gemelli e poi in coma per oltre un mese) ai parenti di Hasib viene spiegato che «si è rotto soltanto un braccio». Ma la realtà in ospedale è molto diversa.

La relazione degli agenti

Proprio ieri gli investigatori della Squadra mobile hanno acquisito la relazione di servizio dei quattro agenti. Un documento importante per capire se nel rapporto sia stato scritto tutto quello che è successo in via Aleandri oppure se sia stato omesso qualcosa.

Il ruolo dei funzionari

Ma i superiori dei quattro poliziotti sapevano? Hanno autorizzato il controllo in casa Omerovic o ne hanno preso atto solo dopo che la vicenda si era conclusa drammaticamente? Per questo anche i vertici del commissariato Primavalle potrebbero essere sentiti in Procura nei prossimi giorni.

Hasib Omerovic, caccia al testimone che ha scattato la foto al corpo precipitato. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.  

Per il disabile caduto al suolo durante una perquisizione il pm aspetta di sentire la persona che per prima ha visto il 36enne. Quattro poliziotti sono indagati 

Caccia della procura al testimone che ha fotografato Hasib Omerovic, steso in strada e avvolto in una pozza di sangue nei minuti successivi alla caduta dal primo piano della sua casa popolare di via Girolamo Aleandro, Primavalle. La versione del testimone potrebbe essere fondamentale per capire se la mattina del 25 luglio del 2022 Omerovic – 36 anni, sordo muto, di etnia rom - si è buttato in un tentativo di suicidio, come sostengono i quattro poliziotti indagati per tentato omicidio e falso. Oppure se il ragazzo è stato spinto giù dal balcone dagli agenti, come invece afferma la sorella 30enne di Hasib, anche lei affetta da un ritardo cognitivo, in casa al momento del dramma. 

Soprattutto il procuratore aggiunto Michele Prestipino e il pm Stefano Luciani sperano che il testimone, un vicino di casa, abbia altre foto utili a ricostruire i momenti drammatici della caduta. L’immagine, divenuta emblematica delle condizioni di Omerovic dopo il volo, non è ancora stata acquisita dalla procura. La foto è stata girata alla stampa dai familiari del ragazzo, che, a loro volta, l’hanno ricevuta dal vicino. Gli inquirenti non procederanno ad alcuna consulenza sulla natura delle lesioni riscontrate sul giovane. Motivo: sarebbe impossibile a distanza di quasi due mesi dalla caduta distinguere le ferite dovute all’impatto al suolo con altri tipi di lesioni. Come quelle per esempio causate da un pestaggio. Va ricordato che i medici nella stesura della cartella clinica non hanno rilevato la presenza di ferite o lividi dovuti a percosse. Considerazione, in ogni modo, non risolutiva sul perché della caduta viste le condizioni di Omerovic dopo l’impatto. 

Il controllo dei poliziotti, come è scritto nel verbale redatto dopo l’intervento, è stato svolto per via delle voci di quartiere secondo cui l’uomo avrebbe molestato delle donne. Proprio per questo la procura verificherà se amiche o parenti degli agenti siano tra coloro che Omerovic avrebbe molestato. Sempre se le molestie siano avvenute, perché potrebbe essersi trattato di fraintendimenti nati dalle complicate condizioni di Hasib. Infine l’ultima ombra su cui la procura intende fare luce è la ragione della presentazione della denuncia a quattordici giorni di distanza dalla tragedia. Un buco temporale enorme. I familiari di Hasib hanno affermato di essere stati in commissariato più volte per avere risposte su quanto accaduto a Omerovic. E non avendone ricevuto alcuna spiegazione, hanno deciso di procedere a una denuncia, sentendosi con le spalle al muro.

Estratto dall’articolo di Michela Allegri e Alessia Marani per “Il Messaggero” il 13 settembre 2022.

È caduto dalla finestra della sua camera, un volo di 9 metri da una casa popolare nel quartiere di Primavalle, a Roma. Quattro agenti di polizia in borghese avevano appena suonato alla porta chiedendogli i documenti. Quel giorno, il 25 luglio, Hasib Omerovic, 36 anni, sordomuto di etnia rom, era da solo con la sorella, pure lei disabile. Le sue condizioni sono gravissime - è in stato di coma vigile al policlinico Gemelli - e la denuncia fatta dai familiari è agghiacciante: la madre Fatima, il padre e la sorella sedicenne, sostengono che Hasib sia stato picchiato dai poliziotti (tra i quali c'era una donna) e poi sia stato buttato di sotto. 

È tutto scritto in un esposto presentato in procura, dove il pm Stefano Luciani ha aperto un fascicolo per concorso in tentato omicidio delegando le indagini alla Squadra mobile. Nel documento viene ipotizzato anche un motivo per quel controllo a sorpresa, fatto a casa Omerovic e su cui ora la Procura indaga per capire se l'accesso sia stato concordato con dei superiori e registrato.

Nei giorni precedenti, infatti, era comparso su Facebook un post in cui una donna sosteneva che Hasib avesse fatto delle avances a delle ragazzine: «Fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze, bisogna prendere provvedimenti». Il post era stato rimosso, ma gli Omerovic, assistiti dall'avvocato Arturo Salerni e dell'associazione 21 Luglio, hanno fatto in tempo a fotografarlo e a depositarlo agli inquirenti. 

Poco tempo dopo, una delle sorelle di Hasib sarebbe stata contattata dal proprietario di un bar di zona: «Hasib ha importunato alcune delle ragazze, qualcuno lo vuole mandare all'ospedale», le avrebbe detto. Il giorno successivo, il controllo dei poliziotti.

Sul caso, il deputato di +Europa Riccardo Magi ha presentato un'interrogazione parlamentare, raccontando la storia durante una conferenza stampa alla Camera. In casa sono state trovate tracce di sangue: gli inquirenti, il 12 agosto, hanno sequestrato una coperta macchiata e il manico di una scopa, spezzato a metà. 

È stata una vicina ad avvisare i genitori di Hasib. «Al telefono mi ha passato un poliziotto, che mi ha detto che mio figlio era caduto e si era rotto un braccio - ha raccontato Fatima - Non posso dimenticare quel 25 luglio: quando siamo arrivati al pronto soccorso ci hanno detto di aspettare 48 ore per sapere se Hasib sarebbe sopravvissuto». 

La sorella del giovane, Sonita, sotto choc, ha raccontato alla famiglia che gli agenti avevano prima picchiato il fratello con un bastone, per poi afferrarlo per i piedi e buttarlo giù. I poliziotti avrebbero suonato alla porta mentre i genitori e un'altra sorella erano dal meccanico. Nella sala c'è un termosifone divelto dal muro, al quale, secondo il racconto dell'unica testimone, Hasib si sarebbe aggrappato. […]

In questi giorni gli investigatori hanno sentito alcuni testimoni, compresa una vicina che ha chiamato i soccorsi. Gli aspetti da sciogliere sono diversi. Uno su tutti: non è chiaro a che titolo gli agenti abbiano agito e se l'intervento sia stato registrato. In una relazione alla Procura hanno ripercorso quei minuti. 

Al vaglio anche le dichiarazioni dei vicini, che hanno detto di avere sentito quasi ogni sera i lamenti di Hasib provenire da quella casa, e di avere visto più volte i familiari malmenarlo. La finestra della camera del giovane, inoltre, aveva i vetri rotti: erano stati distrutti una ventina di giorni prima, durante una lite.

Di quanto accaduto l'unica testimone è la sorella di Hasib, che avrebbe, però, un ritardo cognitivo elevato. Un'altra ipotesi è che il ragazzo, non capendo cosa volessero gli agenti in borghese, davanti a dei modi bruschi, possa essere stato colto da una crisi di panico fino a sporgersi dalla finestra che, pur essendo l'appartamento al piano rialzato, su quel lato ha un affaccio molto alto. […]

Estratto dall'articolo di Camilla Mozzetti per “Il Messaggero” il 16 settembre 2022.

«Abbiamo seguito tutte le procedure previste per un intervento di identificazione, siamo entrati in casa, c'era un uomo e una donna, ma non c'è stato tempo di fare nulla». La voce calma, lo sguardo fermo. In t-shirt e jeans - scarpe da ginnastica d'ordinanza - risponde così Andrea, proprio di fronte al commissariato Primavalle.

Lui è uno degli agenti che il 25 luglio scorso ha preso parte al controllo in via Gerolamo Aleandro a seguito del quale Hasib Omerovic, il rom di origini bosniache 36enne e sordomuto dalla nascita, è caduto dalla finestra (ora che si è risvegliato dal coma la sua testimonianza potrebbe risultare decisiva). «Si è buttato» dice subito l'agente, finito indagato con (al momento) altri tre colleghi. 

Senza enfasi, senza che il tono della sua voce cambi minimamente: è un poliziotto, anche navigato. Di quelli che conoscono il lavoro di strada a prescindere poi dall'insegnamento che la strada può avergli lasciato. E aggiunge, con uno sguardo che non divaga, di avere in mano le prove necessarie per dimostrarlo.

«Foto e video dell'intervento, sì», tutti confluiti in un dossier ad hoc che racconta cosa è accaduto in quell'appartamento popolare e che «quando verranno richiesti - aggiunge l'agente - saranno forniti e messi agli atti». In quelle immagini sono descritti i 45 minuti, secondo più secondo meno, di un caso su cui la Procura di Roma ha aperto un'inchiesta per tentato omicidio e falso in atto pubblico dopo che i genitori di Hasib hanno presentato un esposto con un'accusa chiara: «Nostro figlio non è caduto, è stato spinto di sotto». […] 

Ma lui, l'agente che accetta di parlare, rimanda indietro l'accusa: «Siamo entrati, in casa c'erano un uomo e una donna, abbiamo chiesto i documenti, la procedura era regolare e prima di intervenire abbiamo fatto un passaggio con la polizia locale per capire se queste persone fossero state già identificate ma non è risultato nulla».

Nessuno era andato a cercare gli Omerovic fino al 25 luglio. E allora perché proprio quel controllo in una rovente mattinata d'estate? «Per quel post su Facebook e per alcune segnalazioni arrivate in commissariato», spiega l'agente a cui tuttavia non sono seguite denunce formali. E non è questo un aspetto di poco conto perché a chi ha autorizzato il controllo, ovvero la vice-dirigente del commissariato Primavalle (ascoltata come persona non informata sui fatti insieme ad altri agenti non indagati), è stato contestato l'ordine illegittimo. Non si comanda una verifica per il solo sentito dire. 

Tuttavia, l'agente insieme ad un collega arrivano in via Gerolamo Aleandro, scendono le scalette che conducono al portone. Si fanno aprire e salgono una mezza rampa di scale. Come poi si leggerà nel rapporto di servizio, bussano alla porta. Difficile credere che un sordomuto come Hasib abbia sentito e dunque abbia aperto. Ma loro, stando anche al racconto che faranno ai superiori, entrano e come spesso accade - per precauzione - vengono abbassate le tapparelle della camera dove si trovano. 

Non si può mai sapere che piega possa prendere un controllo, seppur apparentemente banale, ma ad ora non si può ancora decretare che quell'atto non sia in realtà servito ad altro. «Non c'è stato il tempo di identificarli», conclude l'agente dicendo che non può proseguire oltre e che comunque saranno quei filmati e quelle foto a parlare. […]

Estratto dall’articolo di Valeria Di Corrado e Alessia Marani per “Il Messaggero” il 18 settembre 2022.

Uno degli agenti che è entrato a casa della famiglia Omerovic, nel quartiere romano di Primavalle, era conosciuto dai suoi colleghi per i modi poco ortodossi utilizzati nelle perquisizioni. Il sospetto degli inquirenti è che sia stato proprio lui a forzare la mano la mattina del 25 luglio, quando, insieme agli altri tre poliziotti della pattuglia (due uomini e una donna), si è recato nell'appartamento di via Gerolamo Aleandro, ufficialmente per identificare il 36enne sordomuto che alcuni residenti avevano accusato via social di molestare le ragazze e i minori della zona. 

 La situazione all'interno dell'abitazione, però, sarebbe degenerata e Hasib Omerovic è precipitato dalla finestra dalla sua camera da letto nel cortile condominiale, facendo un volo di 9 metri dal quale è sopravvissuto per miracolo, ma riportando danni probabilmente permanenti.

La posizione processuale più delicata, nell'inchiesta della Procura di Roma per tentato omicidio e falso, è proprio quella del poliziotto chiacchierato tra i colleghi per i suoi modi bruschi. Una quindicina di anni fa era in forze alla Squadra Mobile capitolina. Poi venne trasferito al commissariato di Primavalle, una sorta di diminutio per la carriera. 

Non è mai stato oggetto di procedimenti disciplinari, ma ci sarebbe un episodio che avrebbe infastidito il questore dell'epoca. Durante una conferenza stampa venne fotografato con vistosi tatuaggi sul corpo, che avrebbero potuto renderlo identificabile nel corso di indagini sotto copertura. Un corpo muscoloso il suo, ancora adesso scolpito dalle ore di allenamento in palestra.

All'epoca il poliziotto partecipò a una maxi operazione della Sezione reati contro i minori, Fiori nel fango, che smantellò una rete di pedofili che, dietro regalie, adescava bimbi rom nei campi nomadi della Capitale. Si trattava di facoltosi professionisti a cui i bambini venivano procacciati. Gli investigatori della Squadra Mobile, ora delegati dalla Procura a fare luce sulla vicenda di Hasib, stanno cercando di risalire anche ad eventuali pregressi rapporti tra gli Omerovic e gli agenti indagati tali da creare un pregiudizio verso la famiglia rom. 

I genitori del 36enne, arrivati in Italia negli anni 90 dopo la guerra in Bosnia, erano stati prima nel campo rom di Tor di Valle, quindi in quello di Tor de' Cenci, poi a La Barbuta, a Ciampino. Tre anni fa, finalmente, l'assegnazione dell'alloggio popolare di Primavalle. […]

Sulla vicenda di Hasib ci sono ancora molti punti oscuri da chiarire. Nell'esposto depositato in Procura da Fatima, la madre di Hasib, sono allegate le fotografie della porta della camera del ragazzo. La serratura è scardinata. Gli Omerovic sostengono di averla ritrovata a terra, segno che qualcuno ha sfondato la porta. Forse Hasib, spaventato dai modi irruenti, si era chiuso dentro per sfuggire al controllo. Un'altra immagine riguarda un perno di sostegno del termosifone parzialmente divelto dal muro: Hasib potrebbe averlo danneggiato salendoci sopra per raggiungere la finestra. Oppure è la conseguenza di una colluttazione come sostengono i familiari. valore probatorio.

Estratto dall'articolo di Edoardo Izzo e Grazia Longo per “La Stampa” il 16 settembre 2022.

La sorella disabile di Hasib Omerovic, il sordomuto Rom di 36 anni caduto dalla finestra di casa il 25 luglio scorso a Primavalle, periferia di Roma, durante un controllo della polizia, accusa i poliziotti di averlo spinto giù? Loro si difendono sostenendo di non essere stati neppure nell'abitazione al momento del volo. «Eravamo già sulla porta per uscire», hanno rivelato ad alcuni colleghi. 

Tant'è che nella loro relazione di servizio hanno definito il drammatico episodio come un «tentato suicidio» e non come una fuga del giovane per paura del loro intervento, né tantomeno come l'epilogo di un loro gesto violento. «Siamo andati a casa sua perché su Facebook era stato accusato di molestie sessuali. Ma non stava scappando da noi, non lo abbiamo picchiato. E neppure lo abbiamo buttato giù. Ha cercato di uccidersi». […] 

È stata disposta una perizia sulla caduta di Hasib dalla finestra: sarà riprodotto il volo del disabile per accertare, in base ai punti di impatto con il suolo e alle ferite riportate, se è stato gettato giù o se si è lanciato volontariamente. 

Altre verifiche verranno poi effettuate sugli abiti indossati da Hasib la mattina del 25 luglio, sulla scopa spezzata ritrovata nella sua camera da letto e sul lenzuolo sporco di sangue. L'obiettivo è quello di accertare la presenza di impronte digitali e di Dna dei quattro poliziotti accusati di averlo picchiato a sangue prima di buttarlo giù dalla finestra.

I magistrati punteranno inoltre, in sede di interrogatorio, ad appurare perché i quattro poliziotti hanno scattato fotografie ad Hasib con i loro telefonini. Immagini che sono state poi esibite ai colleghi. Cosa volevano dimostrare con quegli scatti? Servivano forse a dimostrare che Hasib non aveva lesioni? E perché, inoltre, gli agenti non hanno abbandonato l'appartamento non appena si sono accorti che i due fratelli disabili erano soli in casa? […]

Caso Primavalle, rimossi dirigente e vice dirigente del commissariato dopo il ferimento di Hasib. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022.

La decisione è stata presa dal Dipartimento della pubblica sicurezza dopo gli sviluppi della vicenda legata alla caduta del rom disabile dalla finestra di casa il 25 luglio scorso. I quattro poliziotti coinvolti potrebbero essere sentiti entro breve

Cadono le prime teste per la vicenda del ferimento di Hasib Omerovic, il rom disabile di 36 anni volato dalla finestra della sua abitazione a Primavalle lo scorso 25 luglio durante un controllo della polizia. Il Dipartimento di pubblica sicurezza ha disposto la rimozione immediata del dirigente e della vice dirigente del commissariato di quartiere, Andrea Sarnari (in ferie nei giorni in cui è avvenuto l’episodio) e Laura Buia. Entrambi non risultano fra gli indagati.

Fra le motivazione che avrebbero portato i vertici della polizia a prendere provvedimenti così duri anche la necessità di riorganizzare l’ufficio, uno di quelli storici della Capitale, e anche riportare un clima di serenità fra gli agenti, molto provati dalle notizie degli ultimi giorni che li hanno tirati in ballo per la storia di Omerovic. Il nuovo dirigente del commissariato, già convocato dalla Questura nella Capitale, è Roberto Ricciardi, proveniente da Viterbo.

I quattro agenti coinvolti nel controllo durante il quale il 36enne è caduto dalla finestra in circostanze ancora da chiarire, con la Procura che ha aperto un’inchiesta per tentato omicidio e falso in concorso, appartengono proprio alla squadra di polizia giudiziaria del commissariato. Si tratta di tre giovani e di una loro collega graduata, che potrebbero essere sentiti entro breve dai pm e dalla Squadra mobile per chiarire cosa sia successo quel pomeriggio di quasi due mesi fa, in un’operazione seguita a un post apparso sul gruppo «Primavalle» su Facebook da parte di una donna che aveva asserito di essere stata molestata con la figlia da Hasib in mezzo alla strada, e che aveva sollecitato provvedimenti immediati contro di lui.

Dopo le dure accuse soprattutto di Sonita Omerovic, la sorella 30enne di Hasib, affetta da gravi problemi psichici e presente quel giorno nell’appartamento al primo piano di Gerolamo Aleandro quando gli agenti si sono presentati - secondo la sua versione dei fatti il fratello è stato picchiato e poi buttato di sotto -, hanno replicato alcuni poliziotti coinvolti spiegando di non trovarsi più in casa quando il 36enne ha deciso di lanciarsi dalla finestra da solo e anzi di averlo poi soccorso anche con un’ambulanza dell’Ares 118.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 21 settembre 2022.

Per la Procura più di qualcosa non quadra nella versione fornita dai quattro poliziotti indagati per la caduta di Hasib Omerovic dalla finestra della sua camera da letto a Primavalle lo scorso 25 luglio. «Abbiamo suonato alla porta dell'appartamento - hanno raccontato gli agenti nella loro relazione di servizio in possesso dei pm di piazzale Clodio -, ci è stato aperto, ma lui come ci ha visto è fuggito nella sua stanza, ha alzato la serranda e si è lanciato di sotto».

È questa, in ordine cronologico, la prima ricostruzione di quanto sarebbe accaduto nello stabile di via Gerolamo Aleandro, ma nei giorni scorsi sulla stampa sono emerse altre due ricostruzioni fatte dagli stessi indagati, tutte da verificare: in una Hasib si sarebbe buttato dopo essere stato identificato, in un'altra dopo che gli agenti erano usciti dall'appartamento. Ancora da stabilire comunque se il gesto del 36enne sia stato fatto per tentare il suicidio da circa otto metri di altezza o per sfuggire ai poliziotti perché spaventato.

In tutti i casi la drammatica conclusione di un'operazione che per gli investigatori era stata organizzata per identificare il 36enne disabile in relazione a presunte molestie a ragazze di Primavalle. Sonita, la sorella della vittima, affetta da gravi disturbi psichici, ha invece raccontato di botte, calci, pugni, foto scattate dagli agenti al fratello, «poi afferrato per i piedi e buttato di sotto». Insomma, una storia completamente diversa. 

Proprio «voci di quartiere», avrebbero spiegato i poliziotti, sarebbero stati alla base degli accertamenti a casa Omerovic.

Come quella - non è chiaro se sia nella relazione degli agenti - contenuta nel post su Facebook scritto da Paola Camacci, madre di una delle giovani che avrebbero subìto le attenzioni di Hasib, con foto e invito a «prendere provvedimenti» contro di lui. La donna sarebbe stata già sentita come il barista Paolo Soldani, l'unico - secondo quanto riferito dai genitori della vittima - a mettere in guardia la famiglia su quello che stava per accadere.

La versione dei poliziotti è tuttora al vaglio della Procura, con l'aggiunto Michele Prestipino e il pm Stefano Luciani, che fin dai primi giorni dopo il 10 agosto, data della presentazione dell'esposto da parte degli Omerovic, hanno avviato accertamenti per ricostruire l'accaduto, passando da un fascicolo modello 45 senza ipotesi di reato a quello per tentato omicidio e falso nei confronti dei poliziotti.

 I pm rimangono in attesa dei risultati delle analisi mediche sulle ferite sul corpo di Hasib, per capire se siano state provocate solo dalla caduta o anche da percosse, e degli esami svolti dalla Scientifica nell'appartamento al primo piano allora occupato con diritto dalla sua famiglia, che ora però vive in macchina alla Garbatella, parcheggiata davanti al Dipartimento al Patrimonio del Comune dove ha chiesto un altro alloggio.

Alessandro D'Amato per open.online il 14 settembre 2022.  

C’è una relazione di servizio sull’attività della polizia quel 25 luglio a Primavalle nella vicenda di Hasib Omerovic. I pm l’hanno acquisita agli atti nell’indagine ancora senza indagati sulla caduta del disabile dalla finestra durante una perquisizione. Che si è svolta senza mandato. E a breve potrebbero partire le prime iscrizioni nel registro degli indagati. Anche come atto dovuto. 

Intanto circola un’ipotesi sul perché i poliziotti hanno bussato alla porta del 36 enne disabile di etnia Rom in via Gerolamo Aleandro. Dove viveva in un alloggio assegnato dal Comune di Roma insieme alla sorella Sonita e alla madre. Tutto sarebbe partito da un post sul gruppo Facebook del quartiere. In cui lo si accusava di aver importunato alcune ragazze nel parco. Una diceria senza alcuna denuncia specifica. Si parla anche di segnalazioni ai vigili per aver ammassato materiali ferrosi in una cantina. Ma la Polizia Locale smentisce. 

La perquisizione senza mandato

Di certo c’è che quanto avvenuto nell’appartamento con vista su via Pietro Bembo non è legato ad una attività delegata dall’autorità giudiziaria. I pubblici ministeri Michele Prestipino e Stefano Luciani e il procuratore Francesco Lo Voi dovranno adesso chiarire se si sia trattato di una iniziativa coordinata da un funzionario. 

O di una decisione presa dai quattro agenti in borghese che quel giorno sono entrati nell’appartamento, a loro dire, per chiedere i documenti del 36enne, sordomuto dalla nascita, che ora si trova in coma al policlinico Gemelli con varie fratture dopo essere precipitato per circa 9 metri. Le condizioni del ferito sono intanto in leggero miglioramento. Non è più in pericolo di vita ma resta un quadro clinico complesso alla luce dei tre interventi chirurgici a cui è stato sottoposto.

Fatima Omerovic, la madre di Hasib, ha raccontato che lei, l’altra sorella Erika e il marito erano fuori casa per portare l’auto dal meccanico. Sonita ha invece detto alla madre che il figlio «è stato picchiato, preso a calci, pugni, a bastonate. Poi i poliziotti l’hanno preso per i piedi e lanciato dalla finestra. Mi ha fatto vedere il manico della scopa spezzato e con cui ha visto che l’hanno percosso. 

La porta della camera da letto era sfondata, il termosifone divelto dal muro». Il 26 luglio la famiglia si è presentata al commissariato di Primavalle per avere spiegazioni. Qui, secondo la denuncia riportata oggi dal Fatto Quotidiano, un agente (“Andrea”) li avrebbe informati delle accuse nei confronti del figlio riguardo le presunte molestie. E ha raccontato che una volta entrati in casa gli agenti gli hanno chiesto i documenti.

La tapparella

Sempre nella denuncia si sostiene che l’agente avrebbe detto ai parenti che Hasib è rimasto tranquillo durante l’attività in casa. Tanto è vero che alcuni di loro gli hanno scattato fotografie con il telefono cellulare. Mentre loro erano a parlare con la sorella, hanno sentito tirare su la tapparella della camera da letto. 

Da lì Hasib si sarebbe gettato nel vuoto. L’agente ha assicurato che la polizia scientifica aveva già effettuato i rilievi del caso. Una circostanza smentita dalla famiglia. Sequestrati intanto alcuni oggetti trovati nell’appartamento: lenzuola macchiate di sangue, il bastone spezzato di una scopa. I familiari hanno anche messo a disposizioni degli inquirenti foto in cui è visibile un termosifone parzialmente staccato dal muro e tracce di sangue intorno alla porta della stanza in cui Omerovic si sarebbe rifugiato per paura.

Il post su Facebook

Il Fatto racconta anche in un articolo a firma di Vincenzo Bisbiglia le accuse nei confronti di Hasib. Per i vicini era “il sordomuto con il carrello” e viene descritto come fondamentalmente innocuo. Ma nel quartiere su di lui si diceva anche altro. «Da mesi si diceva che importuna le bambine nel parco, ma non ci ho mai creduto – ha detto al quotidiano Alessia, 35 anni, che vive nella scala affianco –. A me non ha mai dato fastidio, parlavamo a gesti, era simpatico». 

Nel gruppo Facebook di quartiere un post lo accusava apertamente: «Salve a tutti fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze. Bisogna prendere provvedimenti». Una testimonianza anonima sostiene che Omerovic avrebbe «dato fastidio alla ragazzina sbagliata».

«8-10 agenti, alcuni in borghese»

Mentre altri puntano il dito sull’attività di recupero di materiali ferrosi dai rifiuti. «Ammassava la roba in cantina, nel palazzo sono iniziati a girare scarafaggi e topi. Lo abbiamo rimproverato, ma lui continuava. Ci sono anche le segnalazioni ai vigili». Anche qui, nessun riscontro. Complessivamente nella zona dello stabile, secondo quanto riferito da alcuni testimoni ai legali, sarebbero stati presenti tra gli otto e i dieci agenti, alcuni in borghese. 

Le forze dell’ordine hanno allertato i soccorsi dopo avere assistito l’uomo a terra. Gli uomini della Squadra Mobile, a cui sono state delegate le indagini, hanno già ascoltato i vicini di casa degli Omerovic. Tra i testimoni anche una vicina che avrebbe visto il ragazzo precipitare. «A un certo punto ho visto Hasib cadere dalla finestra. A terra si lamentava, i poliziotti erano già lì e lo hanno soccorso», ha spiegato una testimone. Il reato ipotizzato nel fascicolo è tentato omicidio.

Finestre e morti accidentali. Questa volta a Roma. Franco Corleone su L'Espresso il 13 Settembre 2022. 

Il 25 luglio, classica giornata di cadute, un giovane (ormai si dice così) di 36 anni, sordomuto e di famiglia Roma, precipita dalla finestra di casa sua ed è tuttora in coma all’Ospedale Gemelli.

Come si usa dire di fronte alle tragedie del Bel Paese, occorre fare luce.

La storia è semplice. Nei giorni precedenti sulla pagina di facebook di Primavalle il malcapitato viene additato come molestatore delle ragazze del quartiere e come bersaglio di una lezione.

Il commissariato di zona, allertato e sensibile alle sollecitazioni securitarie, si reca nella abitazione della famiglia rom che da tre anni abita in una casa popolare regolarmente assegnata per un controllo, in assenza di mandato di perquisizione e di denuncia per reati o atti verificati.

Nell’abitazione oltre Hasib vi è solo la sorella portatrice di un grave deficit e i quattro poliziotti (tre uomini e una donna) chiedono i documenti che vengono prontamente esibiti.

Non si sa che succede dopo. Certamente timore e paura spingono l’uomo a rifugiarsi nella sua stanza e a chiudersi a chiave. I poliziotti allora buttano giù la porta e di fronte alla resistenza di Hasib che  si aggrappa al calorifero, usano maniere forti fino a divellere il calorifero stesso.

Alla conclusione di questa inutile ed eccessiva prova di forza il ragazzo precipita dall’altezza di nove metri, con diverse fratture e ferite.

Un incredibile silenzio ha coperto questa allucinante storia che ricorda le vicende di Aldrovandi a Ferrara e di Cucchi a Roma.

L’omertà è stata rotta dal deputato Riccardo Magi e finalmente bisognerà rispondere alla richiesta disperata di verità della madre.

Una congiura di tanti elementi: l’emarginazione, l’integrazione difficile dei diversi, lo stigma, la debolezza dell’handicap, la richiesta di giustizia sommaria e l’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine.

Lo stato di diritto e la democrazia sono state colpite. La ministra La Morgese il Capo della Polizia devono rispondere immediatamente al parlamento e alla società civile turbata e preoccupata.

Quel silenzio che puzza di omertà nel caso di Hasib Omerovic, volato dalla finestra. Franco Corleone su L'Espresso il 27 Settembre 2022.

Ci sono alcuni aspetti sconvolgenti nella vicenda dell’uomo precipitato durante una perquisizione della polizia nella sua casa. Perché le bocche cucite di troppi fanno tornare in mente il caso Aldrovandi

Il volo dalla finestra della sua abitazione di Hasib Omerovic il 25 luglio in pieno giorno a Primavalle, quartiere storico di Roma, presenta degli aspetti sconvolgenti che obbligano a considerazioni di vario segno, culturale, sociale, politico e istituzionale.

Colpisce il silenzio assoluto che è stato riservato a una tragedia, perché di questo si tratta, visto che il giovane, così viene definito anche se compirà il mese prossimo 37 anni, è stato a lungo in coma e ancora oggi giace in un letto del Policlinico Gemelli in gravi condizioni.

Infatti non si è trattata di una caduta accidentale ma avvenuta in stretta relazione con la presenza in casa di almeno quattro poliziotti per una perquisizione senza mandato e la risibile richiesta di documenti. Pare che la telefonata al 118 per chiamare una ambulanza sia stata effettuata da uno dei poliziotti ma ancora non si conosce il contenuto, neppure che cosa è stato detto agli infermieri e neanche come è stato registrato il ricovero.

Pare che tutto il quartiere fosse mobilitato per dare una lezione a un presunto molestatore di ragazze ed è davvero incomprensibile che nessuna reazione - su Facebook o su altri mezzi di comunicazione o nelle chiacchiere al bar il cui proprietario è stato intervistato da un importante quotidiano e sentito il 25 agosto nel commissariato coinvolto - si sia manifestata.

In Sicilia si definirebbe omertà. Sembra che la soddisfazione popolare per la solerzia della polizia si esprima con le bocche cucite. D’altronde la congiura è fondata su tanti elementi: l’emarginazione, l’integrazione difficile dei diversi e dei rom in particolare, lo stigma, il disprezzo per l’handicap. Hasib, rom e sordomuto, aveva assunto le sembianze del nemico perfetto.

Il pm Stefano Luciani è orientato a procedere per tentato omicidio ma anche per falso. Questa accusa, sostanzialmente di depistaggio, richiama alla memoria la vicenda Cucchi e quella di Federico Aldrovandi di cui il 25 settembre c’è stato l’anniversario della morte in seguito a un pestaggio immotivato, se non per l’odio verso un giovane (in questo caso davvero, aveva diciotto anni) etichettato come drogato. Anche in quella occasione la gestione della questura di Ferrara fu tutt’altro che limpida, ma ricca di ombre.

Più emergono squarci di luce più lo scenario si fa torbido. Domande inquietanti: perché Hasib non è stato chiamato in commissariato in condizioni efficaci per trasmettere un monito relativo alle sollecitazioni di alcune donne? È vero che uno dei poliziotti, animato da rabbia perché Hasib avrebbe molestato una sua nipote, si sarebbe distinto per farsi giustizia, una giustizia sommaria?

Giustamente il magistrato della procura di Roma si appresta a nominare un perito per cercare di scoprire le modalità della caduta: spinta da parte dei poliziotti, tentativo di fuga per paura o caduta per effetto di una dura colluttazione.

Purtroppo è passato molto tempo e alcuni elementi sono inquinati. C’è da augurarsi solo che non venga riesumata la formula del malore attivo, usata per spiegare la defenestrazione di Pino Pinelli, anarchico, dai locali della questura di Milano.

L’omertà è stata rotta per merito del deputato Riccardo Magi con una interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, finora senza risposta. Un silenzio inquietante perché il Parlamento esiste e va rispettato. La società civile non può tollerare una collusione o una protezione dei violenti.

L’INDAGINE PER TENTATO OMICIDIO: I PM SENTIRANNO I POLIZIOTTI. La polizia e l’amico del boss, tutti i misteri sul caso Hasib. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 13 settembre 2022

Nel caso Hasib restano ancora molti punti oscuri. Per esempio, perché il 25 luglio scorso gli agenti di polizia sono entrati a casa del disabile sordomuto senza un mandato di perquisizione?

Dopo molto silenzi, durati un giorno intero, la procura ha fatto chiarezza su un dato ormai assodato: ha ammesso che non c’era alcun ordine dei pm per entrare a casa di Hasib. 

Come anticipato da Domani, già alcuni testimoni sono stati sentiti da chi indaga. In particolare la vicina di casa, che si trovava sul balcone e ha sentito il tonfo provocato della caduta di Hasib dalla finestra. Un’altra figura chiave di questa storia potrebbe essere il titolare di un bar di Primavalle, citato in un’indagine sulla ‘ndrangheta. 

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

L’INCHIESTA – IL PROBLEMA DELLA PROFILAZIONE IN ITALIA. Gli abusi delle forze dell’ordine su trans e afrodiscendenti. LUIGI MASTRODONATO su Il Domani il 13 settembre 2022

«Se non collabori ti frego e ti mando in Brasile. Puoi anche scappare perché qui non ti faccio più mettere piede». Sono le parole rivolte da un carabiniere a una persona trans brasiliana ricattata sessualmente, ed emerse dalle intercettazioni dell’inchiesta Odysseus.

Gli abusi di potere nei confronti delle persone straniere, tanto più se transessuali, sono un problema anche in Italia, dove vige un sistema collaudato di controlli, fermi frequenti, atteggiamenti aggressivi che troppo spesso sfociano nella violenza. Eppure la profilazione razziale e sessuale è ancora troppo poco indagata e assente dal dibattito pubblico.

Questo articolo è stato prodotto nell'ambito del progetto INGRiD – Intersecting Grounds of discrimination in Italy finanziato dalla Commissione europea. 

LUIGI MASTRODONATO. Giornalista freelance, classe 1990. Scrive di diritti umani, migrazioni, sociale: tematiche che lo hanno ispirato durante gli studi universitari in Scienze politiche, prima a Milano, poi a Bruxelles, con qualche mese di mezzo a Beirut.

Un altro caso Cucchi: Hasib in coma dopo la visita degli agenti di polizia. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 12 settembre 2022

Sul caso di Hasib, il disabile precipitato dalla finestra dopo un controllo della polizia, si sa solo che la procura indaga per tentato omicidio. Il dato è scritto nell’atto del 12 agosto con cui il pm Stefano Luciani ordina il sequestro del bastone della scopa e del lenzuolo macchiato di sangue.

Oggetti necessari per capire la dinamica dei fatti e menzionati nella denuncia presentata dalla famiglia di Hasib il 10 agosto, quindici giorni dopo la caduta dell’uomo dal secondo piano della sua abitazione durante la “visita” degli agenti del commissariato. In procura e in questura nessuno vuole parlare, confermare o aggiungere altro.

Cosa è accaduto, dunque, ad Hasib il 25 luglio 2022? Si è buttato dalla finestra, è caduto, è stato spinto? Nessuna certezza, ancora molti punti oscuri. Di certo gli inquirenti, risulta a Domani, hanno già sentito un testimone chiave, una vicina di casa dell’uomo.

Luca Monaco e Fabio Tonacci per la Repubblica il 12 settembre 2022

Fine luglio, un quartiere di Primavalle, le case popolari. Un uomo di etnia rom, sordo, vola dalla finestra della sua abitazione al primo piano durante un controllo della polizia. Sono nove metri di caduta. L'uomo, che si chiama Hasib Omerovich e ha 36 anni, dopo l'impatto va in coma. 

Viene portato in ospedale. Ed è ancora in stato di coma vigile. Nell'abitazione ci sono tracce di sangue e la sorella, che ha assistito a tutto, è sotto shock. Che storia è questa che la madre del ragazzo, il suo avvocato, il rappresentante dell'associazione 21 Luglio che tutela le minoranze rom e il deputato di +Europa Riccardo Magi raccontano nel dettaglio in una conferenza stampa alla Camera? 

La famiglia Omerovich vive da tre anni in un alloggio popolare regolarmente assegnato. Hasib è un uomo problematico. E' disabile e nel quartiere girano strane voci su di lui. Giusto prima della visita della polizia a casa sua avvenuta il 25 luglio, sulla pagina facebook del quartiere è apparso un post con la sua foto e il seguente commento a corredo: "Fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze, bisogna prendere provvedimenti".

Al post segue un tentativo di avvicinamento. La sorella di Hasib, S., anche lei disabile, viene chiamata dal proprietario di un bar della zona, il quale l'avverte che "Hasib ha importunato alcune delle ragazze del quartiere" e che "qualcuno lo vuole mandare all'ospedale". Il barista le chiede di vedersi l'indomani al bar insieme con il fratello, ma l'incontro non ci sarà. 

Esattamente ventiquattro ore dopo, riferisce la famiglia di Hasib, quattro poliziotti in borghese, probabilmente del Commissariato Aurelio o del Primavalle, si presentano presso la casa mentre i genitori non ci sono, perché sono andati dal meccanico, insieme con la sorella più piccola. 

Nell'appartamento ci sono Hasib e S., la sorella disabile. "Hanno suonato, ho aperto la porta...una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa. La donna ha chiuso la serrranda della finestra del salone, hanno chiesto i documenti a mio fratello, hanno fatto le foto, lo hanno picchiato col bastone. Hasib è caduto e a hanno iniziato a dargli i calci. E' scappato in camera e si è chiuso", ricorda la ragazza. 

Fin qui la ricostruzione è chiara. Poi diventa ingarbugliata. La ragazza dice che Hasib corre in camera sua e chiude a chiave la porta. La porta viene abbattuta dagli agenti in borghese. Dopodiché, il 36 enne cade dalla finestra.

"Loro gli hanno dato calci e pugni, lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù", è la versione della sorella. Nella stanza ci sono macchie di sangue sulla coperta del letto, un manico di scopa spezzato che S. sostiene essere stato usato dagli agenti per pestare Hasib e il termosifone sotto la finestra divelto dagli appoggi che lo tengono muro. "Perché mio fratello si era avvinghiato lì, i poliziotti lo tiravano", racconta. Dopo la caduta, Hasib è stato soccorso dagli agenti in borghese a cui si sono aggiunti poliziotti in divisa appena arrivati sul posto. 

Il resoconto di quanto avvenuto è contenuto in un esposto alla procura di Roma che ha aperto un'inchiesta contro ignoti per tentato omicidio in concorso. Il pm è Stefano Luciani, che ha disposto il sequestro del manico di scopa e delle lenzuola macchiate di sangue. Le indagini sono affidate alla Squadra Mobile di Roma. Il deputato Riccardo Magi ha presentato un'interrogazione parlamentare rivolta alla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. "Ci sono degli aspetti da chiarire", dice Magi. "Perché è stato fatto l'intervento a casa Omerovich? C'è un ordine di servizio? La ministra intende prendere provvedimenti disciplinari?" 

Disabile in coma, la mamma di Hasib: "I poliziotti l'hanno massacrato di botte, preso per i piedi e buttato giù dalla finestra come spazzatura". Luca Monaco e Fabio Tonacci su La Repubblica il 12 settembre 2022

La famiglia Omerovich, la madre Fatima con il marito Mehmed Alija, un commerciante di 56 anni, e la figlia 16enne Erika  

Il 37enne che il 25 luglio scorso è volato giù dalla finestra della sua camera da letto dopo un controllo di polizia nell'appartamento popolare che si trova nell'estrema periferia Nord della città, e che il Comune di Roma aveva assegnato regolarmente agli Omerovich nel 2019 con il programma di superamento dei campi rom

"Adesso abbiamo paura anche ad andare all'ospedale a trovare nostro figlio, Hasib amava la vita, non si sarebbe mai buttato da solo dalla finestra. Vogliamo sapere cosa è successo". Scorre la galleria delle immagini sul cellulare e si commuove Fatima Omerovic, davanti all'immagine del figlio che balla sorridente in casa. Perché "Hasib amava la musica, il cinema, anche se non poteva sentire. Era incensurato, non ha mai fatto del male a nessuno".

Parla nella redazione della cronaca di Roma di Repubblica la madre di Hasib, il 37enne che il 25 luglio scorso è volato giù dalla finestra della sua camera da letto dopo un controllo di polizia nell'appartamento popolare a Primavalle, estrema periferia Nord della città, e che il Comune di Roma aveva assegnato regolarmente agli Omerovich nel 2019 con il programma di superamento dei campi rom.

Accanto a Fatima ci sono il marito Mehmed Alija, un commerciante di 56 anni, la figlia 16enne Erika, l'avvocato Arturo Salerni, il deputato di +Europa Riccardo Magi e Carlo Stasolla, il rappresentante dell'associazione 21 Luglio che tutela le minoranze rom. 

Partiamo dall'inizio, dove eravate il 25 luglio scorso.

Fatima: "Io, mio marito e mia figlia Erika siamo usciti di casa alle 10,30 per andare a portare la macchina dal meccanico. In casa c'erano solo Hasib che badava alla sorella Sonita che ha 32 anni, ma è affetta da un ritardo mentale. Alle 13,15 ci ha chiamati la vicina di casa e ci ha detto di correre perché Hasib aveva avuto un problema. Poi ci ha passato gli agenti, loro ci hanno detto che Hasib era caduto ed era stato portato in ospedale con un braccio rotto. Così siamo corsi al palazzo".

Cosa avete visto?

Erika: "Appena siamo arrivati abbiamo incontrato due poliziotti in borghese all'ingresso del palazzo, quando siamo arrivati alla porta di casa abbiamo visto una poliziotta che stava uscendo dall'appartamento per ultima, aveva ancora i guanti in lattice. Ci hanno detto che erano entrati in casa per controllare i documenti di Hasib, che la porta della sua camera era già aperta e che lui si era buttato. Ma Hasib non ha mai tentato gesti del genere in vita sua". 

Quando avete capito che quella versione non quadrava?

Fatima: "Appena sono entrata in casa mia figlia Sonita mi è corsa incontro e mi ha abbracciata. Mi ha portata in camera da letto e mi ha detto che mio figlio era stato picchiato, preso a calci, pugni, a bastonate e che poi i poliziotti l'avevano preso per i piedi e lanciato dalla finestra. Mi ha fatto vedere il manico della scopa spezzato e con cui ha visto che l'hanno percosso. La porta della camera da letto era sfondata, il termosifone divelto dal muro".

Come si sono svolti i fatti, secondo la vostra versione?

Erika: "Mia sorella mi ha ricostruito tutto, mimando ogni cosa. Mi ha detto che avevano suonato dei poliziotti, che mio fratello aveva aperto la porta di casa e che loro sono entrati, erano quattro, in borghese. Tre uomini hanno chiesto i documenti ad Hasib e l'hanno portato in camera da letto, mentre mia sorella è rimasta in salone con la poliziotta donna, che ha abbassato la tapparella, l'ha fatta sedere sul divano e le ha detto di stare buona li".

Poi cosa è successo?

Erika: "Sonita ricorda che a un certo punto si sono sentiti degli strilli, la poliziotta si è alzata dal salone per andare a vedere cosa stesse succedendo e mia sorella l'ha seguita. Ha visto quei tre che pestavano Hasib. Lui era in terra e loro lo prendevano a calci, pugni, a bastonate con manico di scopa. Poi ha visto che l'hanno preso per i piedi e l'hanno buttato giù dalla finestra". 

Come sta adesso suo figlio?

Fatima: "Lo hanno portato al Gemelli, gli hanno fatto giù due interventi di chirurgia maxillo facciale. È vivo per miracolo. Ha avuto una emorragia interna ed è politraumatizzato".

Si dice che nel quartiere ce l'avessero con lui perché molestava le ragazze e che qualcuno avesse pubblicato perfino un post su Facebook scrivendo che bisognava dargli una lezione.

Erika: "Noi di questa cosa non sapevamo nulla, nessuno nel palazzo ci aveva mai riferito una cosa del genere. Solo il 27 o il 28 ci hanno girato il post che una residente aveva pubblicato sul gruppo di quartiere 'Primavalle', ha scritto che mio fratello meritava una lezione. Il giorno prima, il titolare del bar sotto casa mi aveva fermata e mi aveva chiesto se il 25, alle 21 avessi potuto portare mio fratello al bar e fare da traduttrice, perché giravano delle brutte voci su di lui. Mi ha detto che dava fastidio alle donne e che bisognava chiarire la faccenda prima che le cose si fossero complicate. Mi ha detto: "Mi dispiace se poi lo mandano all'ospedale"".

L'ha rivisto quest'uomo?

Erika: "Si il 25 quando sono andata a dirgli quello che era successo mi ha risposto: "Putroppo abbiamo fatto tardi, hanno fatto il lavoro sporco".

Il giorno stesso siete andati in ospedale?

Fatima: "Quando siamo andati al Gemelli il medico ci ha ricevuti e ci ha detto che la situazione era molto grave, che mio figlio era in coma e che bisognava aspettare 48 ore per capire se sarebbe sopravvissuto".

Avete ripreso i suoi effetti personali.

Erika: "Si. Ci hanno consegnato un sacchetto con dei vestiti, che però non sono i suoi. Lui quel giorno indossava dei pantaloni i lunghi di una tuta arrotolati fino alle ginocchia e delle scarpe nere. Loro ci hanno dato dei pantaloncini corti marroni e delle scarpe nere ma con la striscia bianca. Sono abiti diversi, sporchi anche quelli".

Siete andati a chiedere spiegazioni alla polizia?

MehmedAlija: "Siamo andati al commissariato di Primavalle, non ci hanno mai ricevuto negli uffici. Abbiamo parlato con due agenti nel cortile, che ci hanno detto solo che avevano fatto loro l'intervento in casa per identificare mio figlio, perché c'erano state delle segnalazioni e volevano fare delle verifiche. Ho chiesto loro se avessero un mandato di perquisizione o delle denunce, mi hanno risposto espressamente di no. Senza spiegare null'altro". 

Quando vi siete accorti delle tracce di sangue in camera?

Fatima: "Il 27 è venuta a casa mia sorella, abbiamo messo a posto la stanza di mio figlio. Abbiamo preso le lenzuola per fare il bucato e ci siamo accorte che erano intrise di sangue".

Perché avete deciso di denunciare pubblicamente l'accaduto a quasi un mese di distanza?

Fatima: "Perché dopo quello che è successo abbiamo paura di vivere a Primavalle. Chiediamo al Comune di assegnarci una casa in un altro quartiere, per noi lì e diventato troppo pericoloso. Tanto che ci siamo già trasferiti a casa di alcuni parenti. Adesso vogliamo sapere la verità, vogliamo giustia per nostro figlio". 

Estratto dall'articolo di Giuseppe Scarpa e Andrea Ossino per “la Repubblica” il 14 settembre 2022.  

"Alle 12,29, al momento dell'accesso all'abitazione Hasib è scappato dalla finestra lanciandosi dal primo piano". Ecco la primissima verità della polizia. La versione, esplicitata in una prima relazione prodotta dagli agenti del commissariato Primavalle e ora confluita nel fascicolo di indagine per tentato omicidio in concorso aperto dalla procura di Roma, respinge al mittente ogni responsabilità. 

Secondo il documento riservato, Hasib, il 36enne di origini rom che il 25 luglio scorso è volato giù dalla finestra della camera da letto mentre era in corso una identificazione, eseguita di iniziativa, senza un mandato da parte dei pm, "si è lanciato dalla finestra cadendo nel cortile interno del palazzo, dove poi è stato soccorso dal 118 che lo ha trasferito al policlinico Gemelli". Non solo.

La versione ora all'esame della procura prosegue: "Era molesto sebbene sordomuto e al commissariato sono arrivate segnalazioni che lo riguardano, in quanto disturba le donne". 

Al momento i magistrati indagano nei confronti di ignoti per tentato omicidio in concorso. Ma presto potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati i nomi degli agenti che hanno eseguito l'intervento in via Gerolamo Aleandro, alla periferia Nord di Roma.

Secondo la famiglia, in casa, al momento dell'ingresso della polizia, c'erano solo Hasib e la sorella Sonita, una 32enne con un ritardo mentale. Sonita ha raccontato di aver visto gli agenti picchiare il fratello e poi tirarlo giù dalla finestra. Stando agli elementi ritrovati in casa, diversi interrogativi non hanno ancora una risposta. 

La 32enne assicura di aver visto tre agenti picchiare Hasib con un manico di scopa nella sua camera da letto: il padre Mehmedalija, la madre Fatima e la sorella 16enne Erika, che in quel momento erano dal meccanico, tornati a casa hanno trovato le lenzuola sporche di sangue e un manico di scopa spezzato. Entrambi gli oggetti sono stati sequestrati dal pm. 

Il braccio rotto

Alle 13,15 la 16enne riceve una telefonata dalla vicina di casa, Francesca. "Tornate a casa, c'è un problema con Hasib", riferisce. A quel punto uno degli agenti presenti le prende il telefono, si qualifica come poliziotto, e dice: "Hasib è ferito, sta bene, si trova in ospedale". La famiglia Omerovic si precipita a casa, alle 13,30 è davanti al portone. Trovano quattro agenti in borghese che spiegano: "Hasib sta bene, ha solo un braccio rotto. E' stato portato con l'ambulanza al Gemelli". In realtà Hasib è già in coma. […]

Chi apre agli agenti

Quando Mehmedalija va a chiedere spiegazioni al commissariato un agente gli dice informalmente: "Abbiamo suonato, la porta è stata aperta da Hasib, lui era molto tranquillo e si è fatto scattare delle foto mentre ci consegnava i documenti". Però Hasib è sordo, non poteva sentire il campanello. È stata invece Sonita ad aprire la porta. […] 

Secondo la famiglia, però, la serranda della camera di Hasib era rotta da tempo, non si apriva se non forzandola. Quando rientrano a casa dopo la caduta, la trovano spalancata. La porta della camera da letto è scardinata, come un termosifone divelto dalla parete.

"Hasib aveva molestato la nipotina di un poliziotto: poi la spedizione punitiva", la pista shock della procura. Luca Monaco, Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 17 Settembre 2022. 

L'inchiesta sul disabile caduto dalla finestra: l'ingresso da sceriffi dei quattro agenti a casa del rom sarebbe collegato a un fatto privato. Rimossi i vertici del commissariato

Un ingresso muscolare a casa di Hasib Omerovic lo scorso 25 luglio. Un intervento energico. Forse per intimorire, che poi degenera nel peggiore dei modi. Il 36enne si terrorizza e si butta giù dalla finestra. Il motivo di un ingresso da "sceriffi", a casa del rom, sarebbe collegato a un fatto privato. La nipotina di uno dei quattro poliziotti entrati nell'appartamento in via Gerolamo Aleandro sarebbe stata importunata nel quartiere di Primavalle, periferia nord di Roma, da una persona.

Estratto dall’articolo di Luca Monaco, Giuseppe Scarpa per roma.repubblica.it il 17 settembre 2022.

Un ingresso muscolare a casa di Hasib Omerovic lo scorso 25 luglio. Un intervento energico. Forse per intimorire, che poi degenera nel peggiore dei modi. Il 36enne si terrorizza e si butta giù dalla finestra. Il motivo di un ingresso da "sceriffi", a casa del rom, sarebbe collegato a un fatto privato. La nipotina di uno dei quattro poliziotti entrati nell'appartamento in via Gerolamo Aleandro sarebbe stata importunata nel quartiere di Primavalle, periferia nord di Roma, da una persona. 

Forse proprio da Omerovic? È la domanda che quel giorno ronza nella testa dei quattro agenti. Questa è una pista su cui lavora la procura di Roma e che spiegherebbe anche un atteggiamento particolarmente severo dei poliziotti di fronte al 36enne.

Anche perché sul conto di Omerovic, a Primavalle, iniziano a girare parecchie voci, per nulla positive. Si dice che sia un "molestatore di ragazzine". Niente di provato. Ma il chiacchiericcio circola sempre con maggiore insistenza e induce i poliziotti a voler verificarne l'autenticità prima che qualcuno possa passare alle maniere forti e aggredire il 36enne sulla base di meri pettegolezzi di quartiere. 

L'identificazione, in questo senso, diventa un mezzo per muovere una prima indagine embrionale. Una prima verifica. L'atteggiamento degli agenti però, di fronte all'uomo, è particolarmente intransigente perché uno di loro forse sarebbe coinvolto in prima persona. Il motivo? La sua nipotina è stata disturbata da Omerovic. Il pm Stefano Luciani, che indaga per tentato omicidio e falso, lavora a questa ipotesi. Una pista su cui sono impegnati gli agenti della squadra mobile.

Dalla loro gli agenti hanno delle immagini già recapitate ai magistrati e che proverebbero come il 36enne abbia invece fatto tutto da solo. La prima foto scattata ad Hasib da un investigatore di lungo corso, forse il più esperto dei quattro, mostra il ragazzo seduto, in perfetta salute, con lo sguardo comunicativo e senza alcun segno in volto. […] 

La prima istantanea giocherebbe un ruolo determinante se messa a sistema con la seconda immagine, scattata solo due minuti più tardi e che mostra il 36enne sdraiato in terra dopo la caduta, sul retro del palazzo.

Tra il primo e il secondo scatto, stando agli orari registrati sul cellulare, intercorrerebbero solo due minuti, non di più: è il tempo che si impiega a uscire dall'appartamento e poi a fare il giro dello stabile, percorrendo una seconda rampa di scale, fino al ballatoio sul quale Hasib ha rischiato di morire. […]

Estratto dall'articolo di Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” il 19 settembre 2022.

La fotografia del corpo di Hasib Omerovic disteso sull'asfalto, dopo essere precipitato dalla finestra della sua camera da letto, non è l'unica istantanea scattata quel giorno. Ci sono alcune fotografie che raccontano ciò che è accaduto in quella casa al primo piano di via al civico 24 di via Girolamo Aleandro, tra il lotti popolari di Primavalle: sono immagini che mal si coniugano con la tesi dei poliziotti, secondo cui Hasib si sarebbe improvvisamente lanciato dalla finestra. 

Piuttosto sembrano confermare il racconto di Sonita, la sorella della vittima, una ragazza che potrebbe non essere ritenuta attendibile per la sua disabilità. A supporto della versione di Sonita ci sono le immagini finite sulla scrivania del pm Stefano Luciani che indaga per falso e tentato omicidio. 

Il sospetto è che si sia trattato di un intervento muscolare, di una spedizione organizzata dagli agenti per intimorire il trentaseienne, nella convinzione che potesse aver infastidito una parente, forse la nipote, di uno dei quattro poliziotti coinvolti. […]

La sequenza di fotografie sono a supporto del racconto della sorella di Hasib. La ragazza dice di aver aperto la porta, «una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa, la donna ha chiuso la serranda della finestra del salone, hanno chiesto i documenti di Hasib» . Ed effettivamente, dicono i parenti del ragazzo mostrando la prima foto, «sul tavolo del salone abbiamo ritrovato in bell'ordine una serie di documenti e altri effetti personali di Hasib».

«Hanno fatto le foto, lo hanno picchiato con il bastone», continua il racconto che Sonita ripete da quel giorno come un mantra. La seconda immagine mostra infatti «il bastone di una scopa spezzato all'interno della camera da letto». «Hasib è caduto e hanno iniziato a dargli i calci, è scappato in camera e si è chiuso in camera loro hanno rotto la porta, gli hanno dato pugni e calci», prosegue la ragazza rendendo altre tre foto sospette. 

La prima ritrae «la serratura della porta d'ingresso della camera di Hasib: è completamente divelta ed è stata rinvenuta smontata, a terra, dietro a un secchio della camera". I segni sullo stipite mostrano con ogni evidenza che la porta è stata sfondata, mentre la seconda e la terza foto, quelle che ritraggono i resti di un ventilatore adagiati per terra e «la tubatura esterna del termosifone della camera da letto di Hasib sradicata dal muro», sembrano elementi caratteristici di una colluttazione. […]

E poi ci sono tutti gli altri elementi, le altre foto, le macchie che sporcano di sangue il ponte di Brooklyn e lo skateboard stampati sulla felpa grigia indossata da Hasib, le macchie ematiche sulle lenzuola verdi e le immagini che certificano l'unica verità: Hasib disteso sull'asfalto, dopo un volo di 9 metri. «Lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù», dice Sonita. Una dichiarazione che ha portato la procura a ipotizzare il reato di tentato omicidio.

Estratto dall'articolo di Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 19 settembre 2022.

Il sospetto che almeno un agente che doveva essere di riposo, appartenente a uffici diversi dalla polizia giudiziaria del commissariato Primavalle, delegati a compiere indagini rispetto ai colleghi incaricati del pattugliamento del territorio, si trovasse invece nel pomeriggio del 25 luglio scorso nell’appartamento di via Gerolamo Aleandro, solo a poche centinaia di metri dal distretto, da dove Hasib Omerovic è volato dalla finestra della camera da letto.

Una nuova ipotesi si affaccia sul caso del ferimento del 36enne rom, sordomuto dalla nascita, tuttora in prognosi riservata al Policlinico Gemelli: non è più in pericolo di vita e potrebbe essere interrogato da chi indaga quando i medici daranno l’ok sulla base delle sue condizioni di salute.  

Lo stesso sarà fatto, in audizione protetta, con la sorella di 31 anni, affetta da gravi problemi psichici, unica testimone diretta dell’irruzione in casa da parte di 4 poliziotti in borghese, come raccontato nell’esposto presentato in procura il 10 agosto scorso dai genitori. […]

Grazia Longo per “La Stampa” il 14 settembre 2022.  

C'è una testimone del volo dalla finestra di Hasib Omerovic. Si tratta della vicina di casa del quarto piano, C. G., brasiliana che parla benissimo l'italiano e che lavora come mediatrice culturale.

Che cosa ha visto esattamente la mattina del 25 luglio scorso?

«Stavo annaffiando le piante sul balcone e quindi guardavo verso il basso: all'improvviso ho visto Hasib cadere giù. Non riuscivo a credere ai miei occhi eppure l'ho visto proprio mentre precipitava dalla finestra». 

È riuscita a capire se lo avevano spinto o se si era buttato lui di sua iniziativa?

«No, sinceramente non ho potuto rendermi conto di questo. Dall'alto, dal punto in cui mi trovavo io, non sono riuscita a distinguere se la caduta fosse spontanea o indotta da qualcun altro».

Ma lo ha visto cadere di spalle o con il viso rivolto verso di lei?

«Sinceramente questo non lo ricordo. Ero troppo scioccata, ancora adesso al ricordo mi tremano le gambe». 

E dopo, ha notato qualcuno vicino al corpo del giovane?

«Sì, dopo un po' sono arrivati i poliziotti nel cortile». 

Che cosa facevano?

«Cercavano di aiutarlo. Hasib aveva provato a spostarsi, si è trascinato fin quasi alla ringhiera ma poi non ce l'ha fatta più a muoversi e i poliziotti gli stavano prestando i primi soccorsi in attesa dell'ambulanza». 

Lei era sola in casa?

«No, c'era anche mio figlio. Ma stava dormendo quindi lui non ha visto niente».

Prima di assistere al volo dalla finestra, ha sentito provenire urla o lamenti dall'appartamento di Hasib? Ha udito richieste di aiuto?

«No, non ho sentito nulla anche perché lui abita al piano terreno-piano rialzato e io al quarto. Hasib è sordo ma comunica, oltre che con i gesti, con dei suoni gutturali. La sorella disabile che era in casa con lui, Sonita, parla, ma ripeto io non ho sentito alcun trambusto quella mattina. Solo la scena a cui ho assistito con i miei occhi». 

Ha comunicato questi particolari alla polizia?

«Sì, sono stata interrogata e ho detto tutto quello che ho visto e che so. Spero proprio che si chiarisca quello che è accaduto con quei quattro poliziotti. Certo, però è un peccato che i due fratelli disabili fossero soli in casa. Io mi domando: ma com'è possibile che, in assenza dei loro genitori, non ci fosse con loro un educatore, un assistente sociale? La loro madre, Fatima, mi aveva detto che erano seguiti da un assistente sociale ma io non ho mai visto nessuno. E credo non sia giusto perché persone con questi handicap non possono essere abbandonate in un quartiere popolare com'è Primavalle. Perché altrimenti va a finire che al degrado si aggiunge degrado».

Un post su Facebook segnalava che Hasib molestava donne e ragazzine del quartiere. Era a conoscenza di episodi del genere?

«Sapevo che girava questa voce, ma io personalmente non ho mai visto Hasib dare fastidio a qualcuno. Girava sempre con un passeggino vecchio per recuperare oggetti dai cassonetti della spazzatura, salutava a modo suo quando lo incrociavo per strada, ma non so dire se le voci sulle presunte molestie corrispondano alla realtà». 

La famiglia di Hasib si era integrata nel palazzo?

«Non credo ci fossero pregiudizi nei loro confronti, ma non so fino a che punto fossero inseriti nel tessuto sociale locale. Stavano molto per conto loro e spesso litigavano forte tra di loro, tanto che qualcuno chiamava la polizia per sedare le liti. Siamo di fronte a una vicenda molto triste. Non solo perché c'è un giovane disabile in coma in ospedale e perché non si sa se sia stato lanciato giù di proposito o se si sia buttato lui per scappare, ma perché il tutto è avvenuto in un quartiere difficile. In un'area della città con mille problemi di cui però non interessa niente a nessuno. Oggi qui è pieno di giornalisti, ma di solito siamo abbandonati a noi stessi».

Il blitz scattato per un'accusa web di molestie. La "squadretta speciale" al pm: "Sua la reazione violenta. Il tentativo di salvarlo". Stefano Vladovich il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

La finestra chiusa nonostante l'afa. I vetri infranti a terra, lo scotch sull'infisso al mezzanino di una palazzina popolare. E poi loro, i quattro agenti di polizia, tre uomini e una donna, della «speciale» di Primavalle, intervenuti dopo una segnalazione su un omone che si aggira tra i cassonetti a spaventare le donne. E adesso accusati di tentato omicidio.

Cosa è accaduto il 25 luglio nell'appartamento assegnato agli Omerovic in via Gerolamo Aleandro 24 lo vogliono capire gli stessi poliziotti del commissariato locale e della questura di Roma. Niente mandato, nessuna denuncia scritta, eppure gli elementi raccolti suggeriscono il blitz in casa di Hasib, 36 anni, sordomuto dalla nascita, con una sorella più piccola disabile, con importanti ritardi mentali. I quattro si sarebbero giustificati spiegando che in alcuni casi si può intervenire anche senza un mandato della Procura. Quali? Il sospetto di armi e droga. Di certo l'uomo, incensurato, che versa in condizioni gravissime all'ospedale Agostino Gemelli da 50 giorni, non aveva fatto mai male a nessuno, tanto meno era uno spacciatore. Lo raccontano gli abitanti del quartiere che lo vedevano tutti i giorni rovistare nella spazzatura. Ma tutto questo gli agenti non lo sanno. Le segnalazioni arrivate, anche attraverso i social, parlano di un personaggio inquietante.

A far scattare l'allarme un episodio accaduto il giorno prima. È domenica pomeriggio, una donna, Paola Camacci, cammina con la figlia quando vede Hasib che fotografa la ragazza. «Gli ho detto: Guarda che ti ho fotografato pure io - racconta -, ma lui ci ha seguito fino all'androne del nostro palazzo, siamo morte di paura». È così che nasce il post, ora rimosso, con l'immagine di Hasib che urla accanto a un passeggino colmo di rifiuti. Bisogna prendere provvedimenti» concludeva la chat. «Ma io non ho sporto nessuna denuncia» chiarisce la donna. Ai poliziotti, però, basta. La «squadretta» della polizia, agenti abituati ad agire in borghese per combattere lo spaccio di droga in una zona ad alto rischio, interviene il giorno dopo.

«Come tutti i sordomuti Hasib emette suoni gutturali quando cerca di farsi capire - spiega un uomo -, a qualcuno faceva paura, specialmente la sera. Ma era innocuo». Gli agenti decidono di fare la perquisizione. Non è chiaro se di questo ne fosse a conoscenza il dirigente del commissariato, fatto sta che i quattro bussano alla porta degli Omerovic, una famiglia di etnia rom trasferita da un campo sosta in un'abitazione assegnata dal comune di Roma. La madre di Hasib, Fatima Sejdovic, non c'è. Il padre nemmeno. Disoccupati, i quattro vivono con le pensioni di invalidità dei figli e, a detta dei vicini, non hanno faticato a inserirsi nel tessuto sociale di Primavalle. Una famiglia, comunque, ai margini. I dirimpettai delle palazzine di via Pietro Bembo raccontano che Hasib veniva spesso picchiato dai genitori.

I quattro entrano, cosa succede esattamente è riportato nell'informativa che la polizia ha già inviato ai pm Michele Prestipino e Stefano Luciani che hanno aperto un fascicolo per tentato omicidio. Porte e finestre chiuse, nessuno sente quello che dicono i quattro al 36enne. A un certo punto nell'appartamento scoppia il finimondo. Il manico di una scopa spezzato, la porta della camera sfondata, un termosifone divelto e poi tracce di sangue: è la scena fotografata dai legali degli Omerovic. La sorella che mima il gesto del fratello che si aggrappa al calorifero. È Hasib ad afferrare la scopa e a scagliarla contro i poliziotti o viceversa? Secondo i quattro la situazione sfugge di mano per la reazione dell'uomo. Ma tutti gli indagati sostengono con fermezza che non l'hanno gettato loro dalla finestra. «Abbiamo cercato di salvarlo» mettono a verbale.

Giù dal balcone, Hasib in coma. "Quei 4 agenti senza mandato". Inchiesta sulla perquisizione a casa di Omerovic. La teste: "Ho visto i poliziotti in cortile". La Cucchi: "Chiarezza". Tiziana Paolocci il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

«Hasib era a terra, la schiena coperta di sangue. Si batteva le mani sulle gambe, come per far capire che era stato preso per i piedi...». Gli abitanti di via Gerolamo Aleandri, nel quartiere di Primavalle, a Roma, hanno impressa negli occhi la scena che si sono trovati davanti il pomeriggio del 25 luglio, quando Hasib Omerovic, 36 anni, sordomuto di etnia rom, senza parlare aveva detto abbastanza.

L'uomo era finito nel reparto di rianimazione del Gemelli piombando giù per otto metri dal primo piano, dopo un controllo effettuato nella casa popolare assegnata a genitori e sorelle (una disabile come lui) da parte di quattro poliziotti. Quattro agenti, che non avevano ricevuto però alcun mandato di perquisizione da parte della Procura. Lo svelano le indagini che i pm di piazzale Clodio stanno conducendo insieme alla squadra mobile. Il fascicolo, per ora contro ignoti, è aperto per tentato omicidio, mentre il capo della polizia Lamberto Giannini ha fatto sapere che «segue in prima persona» le indagini.

Sarà da chiarire se si sia trattato di una perquisizione coordinata da un funzionario o di una decisione presa dai poliziotti, che saranno ascoltati presto. Ma la vicenda riporta alla mente le agghiaccianti immagini di Stefano Cucchi. Hasib, invece, si è salvato, dopo essere rimasto ricoverato nella rianimazione del Policlinico Gemelli fino al 27 agosto scorso. I familiari del disabile, assistiti dall'avvocata Susanna Zorzi, vogliono chiarezza. «Non mi fermerò fino a quando non saprò la verità» dichiara la mamma, Fatima Sejdovic - ora abbiamo paura, ci sentiamo seguiti e minacciati».

A trovare il 36enne, a una ventina di metri da dove era caduto, era stato il 118. Ma la sorella Sonita, presente al momento della perquisizione, aveva subito puntato il dito contro i quattro agenti in borghese. «Hanno chiesto i documenti di mio fratello, hanno fatto le foto, lo hanno picchiato con un bastone - ha raccontato Sonita -. Hasib è caduto e hanno iniziato a dargli calci. È scappato in camera: loro hanno rotto la porta, gli hanno dato calci e pugni, poi lo hanno preso per i piedi e lo hanno buttato giù».

Ora si attendono i rilievi sul manico di scopa spezzato e su un lenzuolo macchiato di sangue già sequestrati. I familiari hanno anche messo a disposizioni della Procura foto in cui è visibile un termosifone parzialmente staccato dal muro e sangue intorno alla porta della stanza in cui Hasib si sarebbe rifugiato.

Secondo il legale della famiglia Omerovic a portare la polizia nell'abitazione di via Aleandri sarebbe stato un post, poi sparito, sulla pagina Fb di quartiere, in cui si accusava Hasib di molestie. Nel post una sua foto e l'avvertimento a fare attenzione «a questa specie di essere che importuna le ragazze». E una minaccia: «Bisogna prendere provvedimenti». Per questo i poliziotti di Primavalle si sarebbero presentati per identificare il soggetto e forse prevenire violenze di genere. «È un ragazzo buono dicono in via Aleandri spesso qualcuno qui gli regala cose da mangiare. Temiamo che venisse maltrattato, costretto a raccogliere oggetti nei cassonetti. Di notte lo abbiamo sentito lamentarsi». «Quel giorno l'ho visto attaccato a quella ringhiera - spiega Loredana, una testimone - c'era anche una donna che gli agenti chiamavano dottoressa. A lui dicevano non ti muovere, ma lui si voleva alzare. Si è alzato, è arrivato fino a qui (indica pochi metri più avanti) poi si è accasciato. Penso al dolore che poteva provare, era tutto rotto, aveva gli occhi di fuori». Hasib è ancora grave in ospedale. Nella zona dello stabile sarebbero stati presenti 8-10 agenti, alcuni in borghese. Presto potrebbero arrivare i primi indagati.

«Mi auguro che venga fatta chiarezza a 360 gradi senza fare sconti a nessuno», ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, candidata al Senato con l'alleanza Sinistra Italiana-Verdi. L'eurodeputato di S&D, Massimiliano Smeriglio ha annunciato che presenterà un'interrogazione al Parlamento europeo e Loredana De Petris, di Leu al Senato.

Hasib giù dal balcone: tutti i punti da chiarire e l'ipotesi depistaggio. Fascicolo per ora contro ignoti: gli indagati salgono a 8, i pm pronti a sentire gli agenti. Stefano Vladovich il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.

Quaranta giorni di silenzio, poi l'inchiesta. Nel blitz in casa Omerovic, a Primavalle, i punti che non tornano ai magistrati sono molti. A cominciare dal post su Fb che avrebbe mosso la «squadretta» della polizia giudiziaria. La donna che il 24 luglio l'ha messo in rete nel gruppo di quartiere viene ascoltata 9 giorni fa dalla squadra mobile romana, ben 42 giorni dopo il fatto.

Eppure la sua testimonianza è fondamentale per chiarire il motivo che spinge la polizia a interrogare un possibile molestatore, senza mandato della Procura e senza denuncia scritta e orale. Dunque senza i requisiti necessari, la flagranza di reato o il sospetto di armi e droga, per intervenire. La relazione di servizio è stata fatta in un secondo momento? E perché arriva alla «mobile» solo dopo che scoppia il caso? Oltre ai quattro agenti in borghese, chi c'era nell'appartamento al piano rialzato di via Gerolamo Aleandro 24? I poliziotti si presentano da un disabile, sordomuto, senza alcun sostegno. Il dirigente del commissariato sapeva quello che faceva la «speciale»? Gli indagati per tentato omicidio, intanto, salgono a otto e non si esclude che si possa procedere anche per falso e depistaggio. Sul posto, dopo il volo di otto metri e mezzo di Hasib, i residenti vedono altri poliziotti, tutti in divisa. La versione che riportano ai genitori, Mehmedalija Omerovic e sua moglie Fatima Sejdic, quando rientrano con la figlia Erika, parla di un accertamento in quanto il figlio avrebbe molestato delle donne nel quartiere. «Improvvisamente sentiamo aprire le tapparelle della camera da letto e vediamo Hasib gettarsi dalla finestra» spiega loro un poliziotto di Primavalle, tale Andrea. Forse questo è l'unico punto certo. Il 36enne si sarebbe gettato nel cortile interno, che non è però allo stesso livello del piano stradale, per fuggire. Il perché lo mima a gesti la sorella Sonita, una donna di 30 anni che ha però gravi disturbi psichiatrici: le botte. Hasib potrebbe aver reagito male all'irruzione degli agenti, anche se la polizia racconta al padre che il figlio era calmo e con tranquillità avrebbe consegnato loro i documenti. Ma il sangue a terra e sul letto, il termosifone divelto nel tentativo di sottrarsi alle guardie, la porta sfondata dicono il contrario. Cioè che la mattina del 25 luglio in quell'appartamento la situazione deve essere sfuggita di mano ai poliziotti. Ma ancora non si può escludere del tutto che a spingere l'uomo di sotto siano stati gli agenti.

Il manico della scopa spezzato in due: l'ha scagliato Hasib per difendersi o è stato usato per picchiarlo? Oppure, terza ipotesi, a romperlo è stato il padre del disabile, visto che i dirimpettai di via Pietro Bembo raccontano che il giovane veniva picchiato dagli stessi genitori? L'intervento fin troppo tempestivo alle case popolari.

Gli agenti conoscevano già il soggetto, probabilmente era stato già attenzionato tanto che basta un post sui social di quartiere per farli arrivare all'indirizzo giusto. «Non ho fatto nessuna denuncia in polizia» ribadisce Paola Camacci. La donna, spaventata da Hasib, scrive in rete di «fare attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze». Dalla foto di Hasib alla comparsa degli agenti in casa è un attimo. Sull'esposto i genitori insistono: «Hasib non avrebbe potuto aprire perché non sente. E anche se la sorella gli avesse fatto capire che suonava qualcuno alla porta, gli abbiamo sempre raccomandato di non aprire a nessuno».

Disabile vola giù dalla finestra durante una perquisizione: «Pestato dagli agenti». Il tragico episodio è stato denunciato alla Camera da Riccardo Magi: gli agenti avrebbero fatto irruzione in borghese, senza un mandato. Il 37enne di origini rom ora è in coma, i pm indagano per tentato omicidio. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 settembre 2022.

Un uomo sordomuto in coma, un volo dal balcone, dei poliziotti sulla scena, e tanti punti da chiarire. È questa la sintesi della drammatica vicenda del giovane di etnia rom Hasib Omerovic, disabile di 37 anni, precipitato il 25 luglio dalla finestra di un appartamento di uno stabile di edilizia popolare a Primavalle nel corso di un presunto controllo delle forze dell’ordine. La storia è stata resa nota oggi durante una conferenza stampa convocata dall’onorevole Riccardo Magi, Presidente di +Europa, alla Camera dei deputati. Con lui erano presenti Fatima Sejdovic, la madre della vittima, Carlo Stasolla, portavoce di Associazione 21 luglio, e gli avvocati della famiglia Susanna Zorzi e Arturo Salerni.

«Questa è una vicenda tragica – ha esordito il parlamentare radicale -, resa ancora più sconvolgente dalla mancanza di chiarezza e verità in cui è avvolta. La famiglia ha deciso di renderla nota affinché l’attenzione pubblica aiuti a sapere la verità». Magi ha presentato una interrogazione a risposta scritta rivolta al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, non potendosi utilizzare lo strumento dell’interpellanza urgente essendo sciolte le Camere. Nell’atto di sindacato ispettivo è riassunto l’esposto presentato dalla famiglia alla Procura della Repubblica di Roma, grazie alla testimonianza della sorella di Hasib, presente quel giorno in casa: «Il 25 luglio mattina H., sordomuto, si trovava nella sua abitazione a Roma con sua sorella S., disabile, mentre i genitori e la sorella E. erano fuori casa, quando presso l’abitazione si recano quattro agenti della Polizia in borghese; il giorno precedente, la sorella E. era stata avvicinata dal proprietario di un bar della zona che le aveva riferito che stava girando su Facebook un post “perché H. ha importunato alcune ragazze del quartiere e lo vogliono mandare all’ospedale”, chiedendo di vedersi anche con H. il giorno dopo per parlarne; il post sarebbe stato rimosso, ma i familiari sono in possesso di uno screenshot allegato agli atti; il testo, accompagnato dalla foto del ragazzo, recitava: “FATE ATTENZIONE a questa specie di essere, perché importuna tutte le ragazze bisogna prendere provvedimenti”».

Il giorno della tragedia alle 13.12, prosegue l’interrogazione, «la sorella E. riceveva una telefonata della vicina che li invitava a tornare immediatamente a casa e che passava il cellulare a un agente, il quale li avvisava che H. era ferito e si trovava all’ospedale; rientrati a casa, alcuni agenti in borghese li rassicuravano circa le condizioni del figlio, che “aveva solo un braccio rotto”; in realtà H. era ricoverato al Gemelli in rianimazione con prognosi riservata; tuttora è polifratturato, ha subito un intervento chirurgico al volto e si trova in uno stato di coma vigile, tanto che non è gli è possibile comunicare». Sempre secondo quanto riportato nell’esposto, «nei giorni successivi un agente del commissariato di Primavalle avrebbe riferito informalmente ai familiari che H. avrebbe “infastidito molestandole alcune ragazze del quartiere”, per cui gli agenti si sarebbero recati nella sua abitazione per chiedere l’esibizione dei documenti; secondo il racconto dell’agente, H. sarebbe rimasto tranquillo, tanto che gli stessi gli avevano scattato delle foto, ma mentre stavano andando via, avrebbero sentito alzare la tapparella della finestra della camera da dove H. si sarebbe buttato».

La sorella S., unica testimone oculare della vicenda, pur essendo affetta da disabilità, ha raccontato «in modo chiaro sia ai genitori che all’amministratore di sostegno: “ho sentito suonare e ho aperto la porta… una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa.La donna ha chiuso la serranda della finestra del salone… hanno chiesto i documenti di H. Hanno fatto le foto… lo hanno picchiato con il bastone, H. è caduto e hanno iniziato a dargli i calci… è scappato in camera e si è chiuso… loro hanno rotto la porta… loro gli hanno dato pugni e calci… lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù”». Nell’esposto i familiari riferiscono, allegando le foto, che «la serratura della porta di ingresso della camera di H. è completamente divelta, la tubatura esterna del termosifone sradicata dal muro, il rinvenimento del bastone di una scopa spezzato e di sangue sul lenzuolo».

Durante la conferenza stampa a domanda di un giornalista, l’avvocato Salerni ha escluso, in base alle testimonianze raccolte, che il volo dalla finestra sia stato preceduto da una spedizione punitiva del quartiere contro Hasib. E allora, se c’erano solo i poliziotti, perché sono entrati a casa di Hasib? Avevano un mandato? Hasib è stato prima picchiato e poi lanciato dalla finestra dagli agenti? Forse hanno pensato che essendo l’appartamento a piano terra, anche la finestra non avesse un vuoto di 9 metri sotto? C’è un verbale della perquisizione? Sono stati effettuati dei rilievi da parte della polizia giudiziaria? Queste sono alcune delle domande a cui dovrà rispondere il pubblico ministero Stefano Luciani, che ha disposto il sequestro del manico di scopa e delle lenzuola macchiate di sangue. Le indagini sono affidate alla Squadra Mobile di Roma. Si indaga per tentato omicidio in concorso.

Per tutto questo l’onorevole Magi chiede alla ministra «se sia a conoscenza della vicenda riportata in premessa e se, al di là dei profili di competenza dell’autorità giudiziaria, non ritenga di avviare con la massima urgenza un’indagine interna per fare luce sugli obiettivi e le modalità dell’intervento della polizia di Stato e su eventuali violazioni anche disciplinari poste in essere, se vi sia un rapporto di servizio sull’intervento e quale sia il contenuto dello stesso».Stasolla ha annunciato di aver lanciato con l’Associazione 21 luglio due appelli: «Uno al Comune di Roma per una nuova abitazione per la famiglia di Hasib. Era stata loro regolarmente assegnata ma se ne sono dovuti andare per il clima che c’è intorno. E un altro al Capo della Polizia Lamberto Giannini affinché si adoperi a far luce sulla vicenda». La madre di Hasib ha concluso: «Voglio sapere la verità e voglio giustizia per mio figlio. Ha 37 anni e non ha precedenti. So che non ha fatto male a nessuno».

Caso Hasib Omerovic, la procura: “Agenti in casa senza mandato”. Nuovi dettagli sul tragico episodio a Primavalle denunciato alla Camera. Gli agenti coinvolti saranno sentiti nell'ambito dell'indagine per tentato omicidio. Cucchi: «Attendiamo risposte». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 settembre 2022.

Nessun mandato di perquisizione da parte della Procura di Roma. È quanto emerge, secondo l’Ansa, dai primi accertamenti svolti nell’ambito dell’indagine sul caso di Hasib Omerovic, il sordomuto di etnia rom precipitato dalla finestra del suo appartamento a Roma lo scorso 25 luglio mentre in casa sua si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia di Stato.

Sarebbe stato il post apparso sulla pagina Facebook di quartiere in cui si accusava direttamente l’uomo di molestare le donne a spingere la Polizia ad effettuare un controllo nell’abitazione di Hasib. Un controllo «preventivo», come avviene spesso in casi analoghi. Proprio il giorno prima della vicenda sul social network era comparso un post – poi cancellato – con la foto di Omerovic e l’avvertimento di fare attenzione «a questa specie di essere che importuna le ragazze». Seguito da una minaccia: «bisogna prendere provvedimenti». Un post, secondo quanto si apprende, che non è sfuggito ai poliziotti del commissariato Primavalle che infatti il giorno dopo si sono presentati in quattro, tre uomini e una donna, a casa di Omerovic e hanno bussato alla porta. Un controllo per identificare il soggetto ma soprattutto un’iniziativa, viene sottolineato all’Ansa, per prevenire eventuali violenze visto che spesso, in passato, proprio il mancato intervento in anticipo è sfociato in violenze e femminicidi. La necessità di agire tempestivamente, anche in assenza di denuncia, sarebbe dunque la motivazione che ha portato i poliziotti a casa dell’uomo. Ora chi indaga sull’accaduto dovrà chiarire se sia trattata di una perquisizione di iniziativa coordinata da un funzionario o di una decisione presa dagli agenti che verranno sentiti nei prossimi giorni dagli inquirenti. Questo significa che sono stati quindi identificati: un primo passo avanti rispetto all’opacità che avvolge tale caso, balzato alla cronaca nazionale grazie all’iniziativa del parlamentare radicale Riccardo Magi, Presidente di +Europa, e al presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla.

Gli uomini della Squadra mobile della capitale, a cui la Procura di Roma ha delegato le indagini, hanno ascoltato intanto i vicini di casa della famiglia Omerovic. L’intenzione è quella di muoversi velocemente sia per rispondere alla domanda di verità della famiglia del 37enne, che resta in ospedale in coma vigile senza possibilità di fornire la sua versione, ma anche a tutela dei poliziotti, per i quali vale come per tutti la presunzione di innocenza, ça va sans dire. Per ora i magistrati Stefano Luciani, che ricordiamo essere stato il pm  del processo sul cosiddetto depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio, e Michele Prestipino procedono per tentato omicidio in concorso contro ignoti. Bisogna capire se Hasib è stato lanciato dagli agenti o se si è buttato per sfuggire ad un pestaggio. La famiglia Omerovic esclude categoricamente un tentativo di suicidio. Tutto dipenderà da quanto saranno ritenute credibili le dichiarazioni della sorella di Hasib che era in casa con lui al momento dei fatti: anch’ella disabile (psicofisica), è l’unica testimone oculare dei tragici fatti di quel giorno. Poi saranno importanti anche le voci dei vicini. Nel quartiere popolare di Primavalle le persone, i testimoni, chi sa qualcosa hanno paura di parlare ma come ci ha detto l’avvocato Arturo Salerni, che assiste la famiglia Omerovic insieme alla collega Susanna Zorzi, «alcune collaborazioni ci sono state. Domani chiederemo anche noi di essere ascoltati dalla Procura. Ma ci preme soprattutto che il Ministro dell’Interno Lamorgese dia subito una risposta all’interrogazione fatta dall’onorevole Riccardo Magi».

Sulla vicenda è arrivato anche il breve commento di Ilaria Cucchi dal suo profilo twitter: «Chiediamo che sia fatta piena luce sui gravissimi fatti avvenuti il 25 luglio nella casa di Hasib Omerici-Sejdovic alla presenza delle forze dell’ordine. Io terrò gli occhi bene aperti su tutte le violazioni dei diritti umani». Non poteva mancare quello di Luigi Manconi, Presidente dell’associazione A buon diritto: «La prima condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi è arrivata dopo 10 anni, quella per la morte di Giuseppe Uva e di molti altri non c’è mai stata. Quanto tempo ci vorrà per la verità su Hasib Omerovic? E com’è possibile che oggi, in Italia, nella città di Roma, ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?». Noi aggiungiamo: come mai si muore o si rischia di morire nelle mani dello Stato? Ricordiamo alcuni nomi, grazie proprio alle storie raccolte da A buon diritto: «Andrea Soldi, 45 anni, nell’agosto 2015 viene sottoposto contro la sua volontà a un violento Tso a seguito del quale perde la vita. Stefano Cucchi muore il 22 ottobre 2009 dopo aver attraversato undici luoghi delle istituzioni e non essere stato tutelato in nessuno di questi. Federico Aldrovandi, 18 anni, muore all’alba del 25 settembre 2005 a Ferrara sotto i colpi infertigli da quattro agenti di polizia. Nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 Giuseppe Uva muore a Varese dopo una notte passata nella caserma dei carabinieri».

E' sordomuto dalla nascita, la madre: "Famiglia devastata, costretti ad andare via". La storia di Hasib, la gogna sui social e il volo dalla finestra dopo il pestaggio della “polizia”: è in coma, “lo hanno buttato giù”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 12 Settembre 2022 

Chiedono giustizia per Hasib Omerovic, il 36enne sordomuto dalla nascita in coma vigile da 50 giorni all’ospedale Gemelli di Roma dopo essere precipitato dalla finestra di casa, da una altezza di circa otto metri in seguito a un violento pestaggio avvenuto il 25 luglio scorso ad opera di quattro persone qualificatesi come agenti di polizia, ma su quest’ultimo aspetto va fatta chiarezza. La vicenda di Hasib è stata denunciata oggi, lunedì 12 settembre, in una conferenza stampa alla Camera dei Deputati organizzata dal deputato Riccardo Magi (+Europa) e da Carlo Stasolla, portavoce dell’associazione 21 luglio, e alla quale hanno partecipato la madre di Hasib, Fatima Sejdovic e gli avvocati della famiglia, Arturo Salerni e Susanna Zorzi.

La famiglia del 36enne, di origine rom, composta dai genitori e da quattro figli, di cui due minori e due disabili adulti, da circa tre anni è fuoriuscita dall’insediamento di provenienza per fare ingresso in un’abitazione dell’edilizia residenziale pubblica in zona Primavalle, a Roma. E’ qui che il 25 luglio scorso è avvenuta la brutale aggressione in casa, prima del volo dalla finestra di Hasib, ricoverato coma in ospedale.

Il 5 agosto scorso la madre e il padre di Hasib hanno depositato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma (che ha aperto un fascicolo contro ignoti per tentato omicidio in concorso) nel quale vengono riportati i fatti che sarebbero accaduti nei giorni precedenti. Tutto sarebbe nato da un post pubblicato su Facebook in un gruppo di quartiere (e successivamente cancellato) nel quale viene messo in cattiva luce il 36enne. “Fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze, bisogna prendere provvedimenti” c’è scritto nel commento alla foto dello stesso Hasib.

Dopo la pubblicazione del post (poi rimossa) viene contattata la sorella di Hasib, anche lei disabile. A cercarla è il proprietario di un bar della zona che avverte la donna sulle voci che stanno girando nel quartiere sul fratello e sull’intenzione di alcune persone di volerlo “mandare in ospedale.

Il 25 luglio, pochi giorni dopo quel post, Hasib e la sorella, da soli in casa, ricevono la visita di quattro persone che, senza mandato, si qualificano come agenti della polizia. Entrano in casa e dopo aver controllato i documenti del 36enne, inizia – stando alla testimonianza della sorella – la brutale aggressione. Hasib viene picchiato con un bastone e poi preso a calci e pugni. Prova a rifugiarsi nella sua camera ma le quattro persone – una donna e tre uomini – sfondano la porta e continuano a picchiarlo. L’esposto riporta inoltre che, quando i presunti agenti escono dall’abitazione, il corpo di Hasib giace insanguinato sull’asfalto, dopo essere precipitato dalla finestra della sua camera da un’altezza di circa 8 metri, andando a impattare sul manto del cemento sottostante. Secondo la testimonianza della sorella, Hasib sarebbe stato presi “per i piedi e buttato giù” dagli agenti.

All’interno dell’abitazione sarebbero stati successivamente rinvenuti il manico di una scopa spaccato in due e numerose macchie di sangue su vestiti e lenzuola. La porta della camera di Hasib sarebbe risultata sfondata. Portato in ospedale a causa dei numerosi traumi, il 36enne è da 50 giorni in gravissime condizioni. Dopo i primi giorni in cui era in pericolo di vita, adesso è in coma vigile.

“Voglio conoscere la verità di quanto accaduto in quei drammatici minuti dentro la mia abitazione», ha dichiarato Fatima Sejdovic, madre di Hasib che quel giorno era fuori casa con il marito e i due figli piccoli per sbrigare alcune commissioni. “Mio figlio ora è in coma, la vita della mia famiglia irrimediabilmente devastata. Ci siamo dovuti allontanare dalla nostra casa – racconta la donna – perché abbiamo paura e attendiamo dal Comune di Roma una nuova collocazione. Come madre non cesserò di fare di tutto per conoscere la verità su quanto accaduto a mio figlio e agire di conseguenza”.

Il deputato Riccardo Magi ha presentato un’interrogazione al Ministero dell’Interno guidato da Luciana Lamorgese: “Di fronte a questa tragedia e alla dinamica ancora non chiarita che la rende ancora più sconvolgente la famiglia di Hasib chiede e merita risposte chiare e in tempi brevi. La madre ha deciso di mostrare l’immagine scioccante del proprio figlio che giace sull’asfalto dopo essere precipitato, nella speranza che l’attenzione pubblica possa aiutarla ad ottenere verità. Le istituzioni democratiche tutte hanno il dovere e insieme il bisogno della stessa verità”.

“Non è chiaro il motivo per cui la polizia sia entrata nell’abitazione e abbia richiesto” ad Hasib “i documenti né perché gli siano state fatte delle fotografie. I familiari non sono a conoscenza di eventuali verbali a suo carico né di alcuna attività di indagine specifica svolta dalla PG (rilievi, fotografie), né al loro arrivo sul posto né successivamente” aggiunge Magi che chiede alla ministra Lamorgese se sia “a conoscenza della vicenda e se, al di là dei profili di competenza dell’ autorità giudiziaria, non ritenga di avviare con la massima urgenza un’indagine interna per fare luce sugli obiettivi e le modalità dell’intervento della polizia di stato e su eventuali violazioni anche disciplinari poste in essere, se vi sia un rapporto di servizio sull’intervento e quale sia il contenuto dello stesso”-

Carlo Stasolla, portavoce di Associazione 21 luglio, organizzazione che segue e supporta la famiglia anche sotto il profilo legale ha dichiarato: “Su questa vicenda, dai profili ancora poco chiari, importante sarà che il lavoro della Magistratura faccia il suo corso senza interferenze e pressioni e che le istituzioni democratiche garantiscano alla madre di Hasib il raggiungimento della verità alla quale ha diritto. Su questo, come Associazione 21 luglio, presteremo la massima attenzione”.

La stessa associazione 21 luglio sul proprio sito ha lanciato un appello con raccolta firme indirizzate al Capo della Polizia Lamberto Giannini, per chiedere, per quanto è nelle sue competenze, di aiutare per fare luce su quanto accaduto la mattina del 25 luglio nell’appartamento di Primavalle dove viveva Hasib. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Il caso del 36enne sordomuto. Hasib, il blitz in casa senza mandato e il volo dalla finestra. La vicina: “I poliziotti erano già lì”. Redazione su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

Non c’era nessun mandato di perquisizione nei confronti di Hasib Omerovic, il 36enne sordomuto, di etnia rom, aggredito in casa da alcuni poliziotti e poi precipitato dalla finestra per circa otto metri. E’ quanto emerge dai primi accertamenti della procura di Roma svolti nell’ambito dell’indagine sul tentato omicidio dell’uomo che si trova da 50 giorni in coma all’ospedale Gemelli di Roma. Adesso occorrerà chiarire se si sia trattato di una perquisizione di iniziativa, coordinata da un funzionario, o di una decisione autonoma presa dagli agenti entrati in azione nell’abitazione di via Gerolamo Aleandro in zona Primavalle. Erano almeno quattro i poliziotti che lo scorso 25 luglio hanno visita ad Hasib e presto verranno sentiti dagli inquirenti.

Ad oggi, dopo l’esposto in procura presentato a inizio agosto dai legali della famiglia, gli avvocati della famiglia di origine bosniaca, Arturo Salerni e Susanna Zorzi, sono due i testimoni oculari del blitz a sorpresa degli agenti. Oltre alla sorella Sonita, che ha dei problemi di sviluppo mentale e che ha materialmente aperto la porta di casa ai poliziotti nella tarda mattinata del 25 luglio scorso, c’è anche la vicina di casa, la prima a telefonare alla sorella maggiore di Hasib, quel giorno fuori casa con i genitori. Al telefono spiega che Hasib è caduto dalla finestra. Un incidente, un incidente. Poi gli passa al telefono un poliziotto che dice di stare tranquilli, si è solo rotto un braccio ed ora è al pronto soccorso.

La stessa vicina, che chiede l’anonimato, ha raccontato a Corriere e Repubblica: “Stavo innaffiando le piante sul balcone, a un certo punto ho visto Hasib cadere dalla finestra. A terra si lamentava, i poliziotti erano già lì e lo hanno soccorso“. La donna lavora come mediatrice culturale e vive insieme al figlio: “Ho ancora i brividi, ho raccontato tutto alla polizia – spiega dall’uscio del suo appartamento – dopo la caduta ho visto Hasib in terra e i poliziotti che cercavano di aiutarlo. Prima non ho sentito urla, richieste di aiuto o rumori provenire dall’abitazione degli Omerovic”. Poi ha aggiunto: “La mamma di Hasib mi aveva raccontato che lui e la sorella anche lei disabile sono seguiti da un assistente sociale, ma io qua non l’ho mai visto. Persone così dovrebbero essere aiutate veramente, non abbandonate in una casa popolare a Primavalle”.

Intanto la famiglia Omerovic, così come anticipato ieri da Fatima Sejdovic, madre di Hasib, ha chiesto di essere spostata dalla zona di Primavalle, periferia nord-ovest di Roma, perché “ha paura”. “Alla luce di quanto emerso per ragioni di sicurezza – afferma il penalista Salerni – la famiglia ha chiesto di essere allontanata da quella zona”.

"Ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?" Hasib Omerovic, i quattro punti oscuri e le rassicurazioni dei poliziotti dopo la caduta dalla finestra. Angela Stella su Il Riformista il 14 Settembre 2022 

Comincia a squarciarsi il velo di opacità che avvolge la vicenda di Hasib Omerovic, il sordomuto di etnia rom precipitato dalla finestra del suo appartamento di Primavalle a Roma lo scorso 25 luglio mentre in casa sua si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia di Stato. Proprio ieri, ossia il giorno dopo la conferenza stampa convocata alla Camera dei Deputati dall’onorevole Riccardo Magi, Presidente di +Europa, per sollevare pubblicamente il caso, sono emersi i primi dettagli sulla dinamica dei fatti. A quanto appreso dall’Ansa non ci sarebbe stato alcun mandato di perquisizione in mano agli agenti che quel giorno hanno bussato alla porta dell’appartamento della famiglia Omerovic.

Inoltre sarebbe stato il post apparso sulla pagina Facebook di quartiere in cui si accusava direttamente l’uomo di 37 anni di molestare le donne a spingere la Polizia ad effettuare un controllo nell’abitazione di Hasib. Un controllo «preventivo», come avviene spesso in casi analoghi. Proprio il giorno prima della vicenda su Facebook era comparso un post – poi cancellato – con la foto di Omerovic e l’avvertimento di fare attenzione «a questa specie di essere che importuna le ragazze». Seguito da una minaccia: «bisogna prendere provvedimenti». Un post, secondo quanto appreso sempre dall’Ansa, che non è sfuggito ai poliziotti del commissariato Primavalle che infatti il giorno dopo si sono presentati in quattro, tre uomini e una donna, a casa di Omerovic e hanno bussato alla porta. Un controllo per identificare il soggetto ma soprattutto un’iniziativa per prevenire eventuali violenze visto che spesso, in passato, proprio il mancato intervento in anticipo è sfociato in violenze e femminicidi. La necessità di agire tempestivamente, anche in assenza di denuncia, sarebbe dunque la motivazione che ha portato i poliziotti a casa dell’uomo.

E però come è volato dalla finestra il povero Hasib che resta ancora in coma vigile, senza dunque poter fornire la sua versione dei fatti? È caduto nel vuoto per sfuggire ad un pestaggio o lo hanno preso per i piedi gli agenti e lo hanno buttato giù, come riferito da sua sorella? Domande a cui dovranno rispondere per adesso i pm assegnati al caso, Stefano Luciani e Michele Prestipino. Gli inquirenti hanno già sentito dei vicini di casa e si apprestano a raccogliere le dichiarazioni dei quattro agenti che erano in quella casa quella mattina. Sono stati dunque identificati ma si continua per il momento a procedere per tentato omicidio in concorso contro ignoti. Non si esclude a breve una loro iscrizione nel registro degli indagati, anche solo come atto dovuto. Sarebbe stata acquisita dagli investigatori anche la relazione di servizio sull’attività di quel giorno. Restano tuttavia diversi punti oscuri su questa terribile storia.

Il primo che non torna è il seguente: secondo la famiglia Omerovic un agente di nome Andrea del Commissariato Primavalle avrebbe detto loro informalmente che Hasib avrebbe loro aperto la porta dell’appartamento. Ma come avrebbe fatto a sentire il campanello se è sordo? Proprio a causa della sua condizione, la famiglia gli ha insegnato a non aprire a nessuno per qualsiasi ragione neppure se un parente gli avesse fatto capire che c’era qualcuno alla porta di ingresso, soprattutto in assenza dei genitori e della sorella Erika, proprio come accaduto quel 25 luglio.

Secondo: perché fare delle foto (fatte vedere alla famiglia dallo stesso agente Andrea) ad Hasib mentre consegnava i documenti agli agenti?

Terzo: perché improvvisamente il ragazzo si sarebbe dovuto lanciare in un vuoto di circa 9 metri? Quarto: perché una volta che la famiglia è arrivata sul posto, gli agenti avrebbero tentato di rassicurarli riferendogli che il figlio «aveva solo un braccio rotto»? Comunque «sembra che si stiano attivando rapidamente delle verifiche sia da parte della polizia che da parte della magistratura» commenta al Riformista l’onorevole Riccardo Magi che aggiunge: «quello che fa accapponare la pelle è pensare che se non ci fosse stata la conferenza stampa alla Camera non ci sarebbe stata tale rapidità nell’accertamento dei fatti. L’attenzione pubblica in casi come questi serve sempre, quindi». In conclusione Magi chiede alla Lamorgese di rispondere quanto prima al suo atto di sindacato ispettivo: «vorrei fare un sollecito al Ministro dell’Interno affinché quanto prima dia seguito alla mia interrogazione e un appello trasversale a tutti i partiti perché sottoscrivano quella interrogazione per chiedere una verità non solo in sede giudiziaria ma anche dal punto di vista del Governo attraverso una indagine interna.

Con la famiglia di Hasib, le istituzioni democratiche tutte hanno il dovere e insieme il bisogno della stessa verità». Intanto sono già migliaia le firme raccolte dall’Associazione 21 luglio per chiedere «Verità per Hasib» come ci racconta il portavoce Carlo Stasolla: «parrebbe che quanto detto nell’esposto stia trovando una conferma. Chiaramente attendiamo ulteriori riscontri. Ad oggi sembra esserci la certezza che la polizia fosse sul posto e che non ci fosse un mandato. Sembra quindi che l’operazione trasparenza annunciata dal capo della Polizia Lamberto Giannini stia dando i suoi frutti. A tal proposito il nostro appello ha raccolto già migliaia di firme e siamo cautamente soddisfatti che questa coltre di opacità si stia piano piano diradando». Sulla vicenda è arrivato anche il breve commento di Ilaria Cucchi dal suo profilo twitter: «Chiediamo che sia fatta piena luce sui gravissimi fatti avvenuti il 25 luglio nella casa di Hasib Omerici-Sejdovic alla presenza delle forze dell’ordine. Io terrò gli occhi bene aperti su tutte le violazioni dei diritti umani». Non poteva mancare quello di Luigi Manconi, Presidente dell’associazione A buon diritto: «La prima condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi è arrivata dopo 10 anni, quella per la morte di Giuseppe Uva e di molti altri non c’è mai stata. Quanto tempo ci vorrà per la verità su Hasib Omerovic? E com’è possibile che oggi, in Italia, nella città di Roma, ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?». Angela Stella 

(ANSA il 29 settembre 2022) Hasib Omerovic, il ragazzo caduto dalla finestra del suo appartamento mentre erano in corso controlli di polizia, è uscito dal coma ma è ancora in gravi condizioni. Lo ha annunciato il portavoce dell'Associazione 21 Luglio durante una conferenza stampa in corso alla Camera. "È fortemente sedato e mostra deboli e intermittenti segni di interazione - ha detto -. Secondo i medici non è possibile stabilire quanto e quali interventi dovrà subire. I tempi saranno estremamente lunghi".

 L'immobile dal quale è caduto Hasib Omerovic è stato sequestrato dalla procura. Lo ha annunciato l'avvocato della famiglia, Arturo Salerni, durante una conferenza stampa in cui vengono illustrate alcune novità sul caso del ragazzo tuttora in coma dopo la caduta dalla finestra mentre c'era un controllo di polizia in casa.

 "I vestiti che l'ospedale ha consegnato alla famiglia di Hasib Omerovic sono diversi da quelli che il ragazzo indossava al momento dalla caduta dalla finestra del suo appartamento". La annuncia l'avvocato della famiglia, Arturo Salerni, durante una conferenza stampa alla Camera. I legali hanno mostrato le foto degli indumenti restituiti dal Gemelli alla famiglia, evidenziando la differenza con quelli indossati da Omerovic nella foto in cui è sanguinante a terra. "L'ospedale - ha detto il legale - ha consegnato un pantaloncino marrone e un paio di scarpe blu mentre Hasib indossava un pantalone nero arrotolato sulle ginocchia e scarpe diverse da quelle restituite".

Hasib, è stato tentato omicidio: il mistero dei vestiti spariti della foto. Angela Stella su Il Riformista il 30 Settembre 2022 

“Il fatto che dopo 25 giorni Lamorgese non abbia risposto alla interrogazione che ho presentato è una grave mancanza di rispetto istituzionale nei confronti del Parlamento e dei cittadini. Ne presenterò un’altra al nuovo Ministro dell’Interno”: così l’onorevole di +Europa Riccardo Magi, appena rieletto alla Camera, ha aperto ieri una nuova conferenza stampa convocata a Montecitorio per aggiornare sulle ultime novità del caso di Hasib, il 37enne di origini rom precipitato in circostanze ancora da chiarire il 25 luglio scorso dalla sua abitazione a Roma nel corso di una perquisizione delle forze dell’ordine.

“L’oggetto dell’atto di sindacato ispettivo – ha proseguito il parlamentare – riguarda aspetti amministrativi della vicenda: sono state fatte indagini interne? Sono scattati procedimenti disciplinari? Sappiamo che al commissariato di Primavalle c’è stato un avvicendamento: perché l’opinione pubblica deve saperlo da fonti ufficiose e non dagli organi preposti? Faccio un ulteriore appello alla Lamorgese affinché risponda all’interrogazione. Non si tratterebbe affatto di una interferenza col delicato lavoro che sta svolgendo la magistratura ”. L’incontro con la stampa, il secondo dopo quello del 12 settembre, è servito anche a far emergere altri punti oscuri della vicenda: che fine hanno fatto i vestiti di Hasib?

L’ospedale Gemelli due giorni dopo l’accaduto ha restituito in una busta bianca degli indumenti e scarpe diversi da quelli indossati dall’uomo il giorno della caduta, ha spiegato l’avvocato della famiglia Arturo Salerni. Hasib indossava un pantalone nero arrotolato alle ginocchia, mentre alla madre è tornato indietro un pantalone corto marrone. I vestiti restituiti non sono comunque di Hasib: c’è stato uno scambio involontario da parte del personale sanitario? Certo – è strano – hanno fatto notare i convocatori: pure se fossero di un’altra persona, anch’ella indossava solo pantaloni e scarpe? Il secondo punto da dirimere riguarda la ormai tragicamente famosa foto di Hasib dopo la ‘caduta’: chi l’ha scattata mentre il ragazzo era in terra, e che giro ha fatto quella immagine prima di arrivare alla famiglia? L’avvocato ha spiegato che è arrivata alla famiglia da una vicina che però non l’ha scattata. Bisognerà ricostruire la catena di condivisione.

“Il fascicolo non è più contro ignoti. Ci sono degli indagati per tentato omicidio, non so quanti”, ha raccontato Salerni che ha aggiunto: “sono stati sentiti nei giorni scorsi il padre, la madre, la sorella. Hanno parlato per diverse ore e approfondito diversi aspetti. Da parte nostra c’è apprezzamento per come sta lavorando la Procura”. Gli avvocati hanno costruito una mappa della casa e dei danni registrati in casa: i segni dei calci sulla porta della stanza di Hasib, il termosifone divelto, il manico di scopa rotto, le lenzuola sporche di sangue. L’immobile poi è stato sequestrato dalla procura. Sempre a quest’ultima sono stati fatti presenti i punti oscuri sollevati in conferenza stampa. Agli investigatori è stato consegnato anche un video girato il 26 luglio dai familiari al commissariato di Primavalle, dove si vedono degli agenti che informalmente avevano detto alla famiglia di essere intervenuti e che Hasib si sarebbe lanciato da solo.

Intanto Hasib non sta ancora bene: è uscito dal coma ma si trova ancora in uno stato di minima coscienza, rimane sedato per contrastare i dolori e il forte stato di agitazione. È ancora tracheotomizzato per la respirazione e i medici non si sbilanciano sul futuro: non si sa se dovrà subire ulteriori interventi né di che tipo sarà il recupero. Insomma appare improbabile o almeno lontana la sua testimonianza sui fatti. Infine il portavoce dell’Associazione 21 Luglio, Carlo Stasolla, ha denunciato la “freddezza” del Comune di Roma nei confronti della vicenda: “l’amministrazione capitolina non ha manifestato nessuna vicinanza alla famiglia né privatamente né pubblicamente. Persino per avere un nuovo alloggio per la famiglia di Hasib abbiamo dovuto fare un presidio a piazza del Campidoglio per fare pressing”. “Abbiamo paura ma vogliamo verità e giustizia per Hasib”, ha ripetuto la madre di Hasib, Fatima. Angela Stella

L'agente: "Tranquilli si è solo rotto un braccio" ma è in fin di vita. Hasib come Pinelli? La polizia ha gettato dalla finestra un ragazzo rom sordomuto? Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

È un nuovo caso Pinelli? Un nuovo caso Cucchi? – per citare i precedenti più celebri. Forse sì. La storia che hanno raccontato ieri in una conferenza stampa a Montecitorio i genitori di Hasib Omerovic è una storia da brividi e nella quale le responsabilità della polizia sembrano comunque evidenti e gravissime. C’è stata una incursione in casa di un libero cittadino, ci sono state quasi certamente molte botte e poi – forse – c’è stata addirittura la sua defenestrazione. Pazzesco.

La vittima si chiama Hasib Omerovic, ha 36 anni, nessun precedente, è sordomuto dalla nascita. La sua è una famiglia rom, e non si può certo escludere che il secolare e radicatissimo pregiudizio verso i rom possa aver avuto un ruolo in questa vicenda orrenda. Hasib ora è in coma in un lettino dell’Ospedale Gemelli, a Monte Mario. Braccia rotte, ferite ovunque, grave trauma cranico, fratture varie, ed è in questo stato da 50 giorni.

La mamma di Hasib, Fatima Sejdovic, ieri ha raccontato la storia di suo figlio insieme a Riccardo Magi, deputato radicale, a due avvocati (Susanna Zorzi e Arturo Salerni) e a Carlo Stasolla (esponente di una associazione che si occupa soprattutto della difesa del popolo rom). Il racconto, a occhio, è assolutamente incredibile. Però gli avvocati e Stasolla hanno verificato molti particolari, e tutti i particolari convergono e accreditano il racconto della madre di Hasib. Non risulta nessuna contraddizione e ci sono molti riscontri. E su questa base gli avvocati il 10 agosto hanno presentato un esposto in procura e la procura ha aperto un fascicolo per tentato omicidio in concorso.

Di questa inchiesta però non si è saputo nulla. In genere la procura di Roma non è impenetrabile per i giornalisti. Se c’è un traffico di influenze, dopo un paio d’ore lo sai. Se buttano un rom dalla finestra è diverso. Scatta il riserbo. Non risulta che sia stata aperta nessuna indagine interna dalla Questura di Roma né dai vertici della polizia. Magi ha presentato una interrogazione alla ministra.

Ecco che cosa è successo. Il giorno è il 25 luglio. I genitori di Hasib sono usciti di casa insieme alla sorella maggiore intorno alle 10 e mezzo del mattino. Hasib è stato lasciato a fare compagnia alla sorella più piccola, Sonita, che ha dei problemi di sviluppo mentale e i genitori preferiscono non lasciarla sola a casa. Hasib non sente e non parla dalla nascita, ma è un ragazzo intelligente, è capace di badare alla sorella. Hasib non sa che da qualche tempo, nel quartiere di Primavalle, dove abita – nella periferia nord ovest di Roma, vicino a Monte Mario – girano delle brutte voci su di lui. 

In una pagina Facebook sulla quale scrivono i cittadini di Primavalle è apparso un post molto allarmante: “Hashib ha importunato alcune ragazze e vogliono mandarlo all’ospedale”. E poi un post ancora più terribile: “Fate attenzione a questa specie di essere, perché importuna le ragazze, bisogna prendere provvedimenti”. E vicino ai post una foto di Hasib accanto a un cassonetto.

Questo è l’antefatto. Il 25 luglio cinque o sei poliziotti, probabilmente verso mezzogiorno e mezzo, si presentano a casa di Hasib, suonano il campanello, lui non apre perché, ovviamente, non sente. Suonano ancora e alla fine la sorella si decide ad aprire la porta. Più tardi racconterà ai genitori che cosa è successo e che cosa ha visto. I poliziotti entrano in casa, senza mandato, spediti a compiere questa azione non si sa da chi, chiedono i documenti ad Hasib ma non dicono perché.

Hanno qualche problema a farsi capire, naturalmente, e forse si innervosiscono. Comunque Hasib gli dà i documenti che infatti i genitori, quando rincasano, troveranno sul tavolo disposti in bell’ordine. A questo punto non si sa cosa succede ma Sonita racconta che i poliziotti, che erano vestiti in borghese, chiudono la serranda del salotto, scattano alcune foto, fotografano Hasib seduto sul divano, e poi iniziano a picchiare. Hasib cade a terra, loro lo colpiscono a calci, lui, che è un ragazzo grosso e forte, si rialza, fugge in camera da letto e chiude a chiave la porta.

“Loro lo inseguono, buttano giù la porta gli danno ancora pugni e calci e poi lo gettano dalla finestra”. Il racconto della sorella appare credibile, perché in casa ci sono macchie di sangue, perché la scopa con la quale Sonita dice che hanno picchiato il fratello è spezzata in due, perché il termosifone è sradicato, e Sonita dice che il fratello si era attaccato al termosifone, forse per impedire di essere gettato giù. Hasib si è rotto in molti punti le braccia. Vuol dire che ragionevolmente è caduto a testa in giù. È improbabile che sia saltato dalla finestra a testa in giù.

A questo punto è l’una e dieci. Una vicina di casa telefona alla sorella grande di Hasib, che è in giro in città coi genitori, e l’avverte che Hasib è caduto dalla finestra. Un incidente, un incidente. Poi gli passa al telefono un poliziotto che dice di stare tranquilli, si è solo rotto un braccio ed ora è al pronto soccorso. I genitori tornano a casa. I poliziotti non ci sono più. I genitori ricostruiscono sulla base del racconto di Sonita, che è li, basita, attonita, scioccata. Vanno all’ospedale e scoprono che Hasib è in fin di vita.

Poi nei giorni successivi vanno al commissariato Primavalle, nessuno li riceve, ma alcuni poliziotti ammettono qualcosa. Sì – dicono -, siamo andati lì, c’è stata una colluttazione poi lui si è gettato dalla finestra del terzo piano. Nove metri di volo. Si è gettato non si sa perché, un po’ come mezzo secolo fa Pino Pinelli si gettò dalla finestra della questura di Milano.

Passano dieci giorni. Poi la famiglia di Hasib si rivolge a una avvocata amica, e lei presenta l’esposto. L’esposto arriva sul tavolo del Pm Stefano Luciani, noto per la sua scrupolosità. Luciani apre un fascicolo. Proprio ieri, dopo la conferenza stampa, si è saputo che Luciani è stato inviato a nuovo incarico, all’antimafia. Però sembra che lui abbia chiesto di poter continuare a seguire il caso Hasib. Speriamo.

Ora tralasciamo per un attimo la gravità di questa vicenda e il dolore di Hasib e della sua famiglia. Solo una domanda marginale. Come è possibile che su una vicenda del genere non si sia saputo niente? Come è possibile che a 50 giorni dall’episodio la polizia non abbia almeno fornito una sua versione dei fatti? Come è possibile che i giornali non siano stati informati? In questo paese può succedere che la polizia fa irruzione in casa di un sordomuto, lo picchia, forse addirittura – volontariamente o più probabilmente per errore – lo getta dalla finestra, o comunque non impedisce che questo ragazzo si getti dalla finestra in presenza di almeno quattro poliziotti in una stanzetta, come è possibile che nessuno sappia niente. La ministra sapeva? Era stata informata? Ora sa, se legge i giornali: intende riferire alla stampa nelle prossime ore? Provare a spiegare? Sarebbe il minimo del minimo del minimo del suo dovere.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

I quattro agenti autori dell'iniziativa, una sorta di perquisizione non autorizzata. Più altri quattro, superiori dal punto di vista gerarchico. 

Sale a otto il numero dei poliziotti nel mirino dei magistrati per le ferite inferte a Hasib Omerovic, il 36enne rom con disabilità del quartiere romano di Primavalle, caduto dalla finestra della sua abitazione il 25 luglio scorso.

I quattro agenti (tre uomini e una donna) che hanno effettuato la perquisizione saranno sentiti a breve come indagati, poi saranno convocati gli altri. Le ipotesi di reato, formulate dai magistrati Michele Prestipino e Stefano Luciani sono concorso in tentato omicidio e falso. 

E se per i quattro protagonisti del sopralluogo in casa scatterebbe l'accusa di tentato omicidio - il bastone e le lenzuola sequestrati testimoniano un'azione violenta nei confronti di Hasib -, per gli altri quattro si aggiungerebbe un falso ideologico. Ad una prima verifica da parte della magistratura avrebbero mentito nella loro relazione sui fatti, coprendo, per così dire, l'iniziativa dei colleghi. 

Alla luce di questi pochi elementi il caso di Omerovic, come portato alla luce dal presidente di +Europa Riccardo Magi, si configurerebbe almeno altrettanto serio quanto il caso Cucchi. E, fatalità, con ingredienti assai simili (in quel caso vi fu un illecito, coperto con altri illeciti, i depistaggi). Quel che è certo è che gli agenti del commissariato di Primavalle dovranno fornire la propria versione nei prossimi giorni.

Ma gli accertamenti investigativi prendono in considerazione anche altri aspetti. A cominciare dai partecipanti al gruppo Facebook «Primavalle», dove una residente e iscritta, Paola Camacci, aveva postato la foto di Omerovic definendolo «una specie di essere perché importuna tutte le ragazze», aggiungendo «bisogna prendere provvedimenti». A chi si rivolgeva? 

Non al commissariato Primavalle, dove non ha mai sporto denuncia, dopo aver raccontato di aver difeso la figlia dalle presunte molestie da parte di Hasib, che a sua volta avrebbe scattato foto alla ragazza e avrebbe poi seguito le due donne fino a casa; mentre il barista Paolo Soldani, che aveva avvertito la famiglia Omerovic di quel post, due giorni dopo il ferimento del 36enne si è lasciato andare a un enigmatico «mi dispiace, abbiamo fatto tardi». Cosa avrebbe potuto fare? Quel messaggio è sparito il 27 agosto scorso, proprio quando sono scattate le indagini.

«Hasib ha tentato di suicidarsi»: la versione dei poliziotti sul disabile caduto dalla finestra. Rinaldo Frignani e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022

Primavalle, la versione dei quattro agenti di Polizia. Test del Dna sui vestiti della vittima e dei poliziotti

Il pomeriggio del 25 luglio scorso la misteriosa caduta di Hasib Omerovic dalla finestra della sua camera da letto, al primo piano rialzato del palazzo di via Gerolamo Aleandro, fu catalogata con un’ipotesi di tentativo di suicidio. E come tale sarebbe stata trattata nei giorni successivi. Una versione dei fatti che i quattro agenti intervenuti nell’abitazione del 36enne disabile potrebbero ora ribadire fra qualche giorno nell’interrogatorio in Procura o negli uffici della Squadra mobile.

Una ricostruzione che stride decisamente con l’ipotesi di reato dei pm, quella di concorso in tentato omicidio e falso (quest’ultimo contestato solo ai loro superiori, per ora), che si basa sull’esposto presentato dalla famiglia Omerovic il 10 agosto scorso: contiene il racconto drammatico di quei momenti fatto dalla sorella di Hasib, Sonita, 30 anni, affetta da un grave ritardo psichico, e come ha spiegato l’avvocata dei genitori, Susanna Zorzi, proprio «per questo incapace di mentire, di inventare storie diverse da quelle che vede».

Di sicuro, come risulta dalla relazione dell’Ares 118, quel pomeriggio un’ambulanza è intervenuta in via Aleandro su richiesta della sala operativa del 113 in contatto con le pattuglie giunte sul posto per soccorrere Omerovic, assistito, secondo quanto riferito da alcuni testimoni, anche da personale in borghese vicino alla ringhiera del cortile dove era caduto.

Sulla dinamica il riserbo è massimo — per le indagini coordinate dalla Procura ma anche per l’intervento in prima persona del capo della polizia Lamberto Giannini —, però dalla versione del tentativo di suicidio con gli agenti già usciti dalla casa si può desumere che Omerovic si sarebbe lanciato al termine del controllo. Un altro punto poco chiaro, visto che per Sonita invece il fratello, picchiato dai poliziotti, si sarebbe barricato in camera e gli operatori avrebbero così rotto la serratura della porta: nell’esposto ci sono tre foto al riguardo. L’operazione per identificare il 36enne viene definita «di routine», in questo caso dopo il post di denuncia con foto di Hasib sul gruppo Facebook di quartiere «Primavalle» da parte di una residente, Paola Camacci, che interrogata a fine agosto avrebbe riferito di essere stata molestata con la figlia da Omerovic, che le avrebbe a sua volta fotografate e seguite fino a casa.

I pm ora vogliono scoprire: cosa ha spinto Hasib a lanciarsi da otto metri? Era impaurito? Oppure si è trattato davvero di un tentativo disperato di sfuggire a un’aggressione? E a chi si riferiva il barista Paolo Soldani, che aveva messo in guardia dopo il post la sorella minore di Hasib e dopo il ferimento, ha commentato con lei: «Abbiamo fatto tardi»?

Gli agenti saranno chiamati a rispondere proprio sulle modalità del controllo a due disabili lasciati da soli in casa, senza richiedere la presenza di familiari, personale medico o dei servizi sociali. L’esame del Dna sui vestiti di Hasib e su quelli dei poliziotti, come anche sul manico di scopa trovato spezzato, potrebbe chiarire di più della dinamica e delle responsabilità mentre non si esclude che nei prossimi giorni la Scientifica esegua prove tecniche con un manichino speciale per ricostruire la caduta di Omerovic. Il pm Stefano Luciani, titolare dell’inchiesta, ha affidato a un perito l’incarico di sciogliere tutti i dubbi sulla caduta del 36enne con una serie di quesiti, il primo dei quali chiede di fare chiarezza sulla dinamica e su eventuali spinte ricevute dall’uomo. Ferite e tumefazioni sul corpo possono documentare le circostanze relative alla caduta. Precipitato autonomamente? L’esperto incaricato dal magistrato dovrà sciogliere ogni quesito.

C’è poi l’argomento-fotografie. Le istantanee scattate in casa dai poliziotti ad Hasib, secondo il racconto di Sonita. A che titolo sono state fatte? Avrebbero dovuto, nelle intenzioni degli agenti del commissariato di Primavalle, documentare ferite pregresse? Non è chiaro, ma è certo che Luciani vuole sciogliere anche questo nodo. Per capire se si sia trattato di un altro abuso o meno da parte della pattuglia che non aveva nemmeno un mandato di perquisizione.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

Paolo Soldani, 53 anni, «Er Barone», occhiali scuri e un gladio enorme tatuato sul braccio sinistro, viene omaggiato come un sindaco dagli avventori. Lui è il titolare del bar più grande di Primavalle (per questo si chiama «Er Barone»), dove l'estate scorsa - ricorda - per le suppletive alla Camera passava a fare campagna elettorale «anche l'ex magistrato Luca Palamara». Paolo «Er Barone» ha molte cose da dire sul caso di Hasib Omerovic. Erika, la sorella più piccola del rom precipitato dalla finestra il 25 luglio scorso durante un controllo della polizia, aveva preso un appuntamento proprio con lui per quella sera stessa, alle 21. 

È vero?

«Sì, dovevo andare a casa loro, in via Gerolamo Aleandro. Io conosco bene Erika, viene spesso al bar, è una ragazza brava, pulita, molto legata al fratello. Sarei dovuto andare giusto quella sera, proprio per parlare con Hasib e dirgli di farla finita una volta per tutte, di smetterla con i suoi atteggiamenti molesti verso le donne del quartiere. Lo so, Hasib è sordo ma Erika mi avrebbe aiutato col linguaggio dei segni». 

La tensione stava salendo.

«Perché gli episodi ormai si ripetevano: qualche sera prima, finito il karaoke qui da noi in piazza Capecelatro, tre ragazze erano rientrate impauritissime nel bar dicendo che Hasib le aveva importunate per strada. Lui aveva delle foto pornografiche sul cellulare e le mostrava alle donne che incontrava, qualche volta si toccava pure. Insomma era diventato un problema. E poi il giorno prima, il 24 luglio, c'era stato quel post...». 

Quello pubblicato sulla pagina Facebook del gruppo di Primavalle.

«Sì, il post di quella signora che chiedeva di prendere provvedimenti contro Hasib che aveva fotografato sua figlia col telefonino. Non si poteva più continuare così». 

Ma è vero che lei quel giorno avrebbe detto a Erika: «Mi dispiace se poi tuo fratello lo mandano in ospedale...». Era una minaccia? Qualcuno al bar progettava forse una spedizione?

«Ma andiamo! Io però conosco Primavalle. E allora prima che a un branco di quindicenni potesse venire l'idea di accoltellare Hasib per strada, rovinando così la vita a lui e a loro, il 24 luglio, la sera stessa del post, quando ho visto Erika al bar le ho detto: meglio se domani vengo a parlarci io. Così chiudiamo questa storia per sempre».

Eppure in via Aleandro i vicini difendono Hasib.

«Lasciamo stare. Perfino la sua famiglia si arrabbiava per i suoi comportamenti». 

Poi però il 25 mattina in quella casa ecco che ci va la polizia.

«Beh, quel post era girato, figuratevi se non l'avevano notato in commissariato». 

A proposito: è vero che lei quel giorno avrebbe detto sempre a Erika: «Purtroppo siamo arrivati tardi, hanno fatto il lavoro sporco».

«Ma chi? I poliziotti? Io non ho mai avuto un grande rapporto con le guardie , ma sono certo che gli agenti non l'hanno buttato di sotto, secondo me Hasib si è lanciato dalla finestra per sfuggirgli. Loro erano andati lì senza mandato, probabilmente per dirgli le stesse cose che avrei detto io. Un po' come facevano un tempo i poliziotti di quartiere. Ma lui si è buttato perché aveva la coscienza sporca. Come si dice: " Male non fare, paura non avere". Hasib è sordo, ma aveva capito benissimo perché i poliziotti erano lì».

Nel caso Hasib c’è un altro teste. È un funzionario dei vigili urbani. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA Il Domani il 15 settembre 2022

Nell’indagine su Hasib, precipitato dalla finestra della sua stanza il 25 luglio scorso durante la visita senza mandato e di iniziativa della polizia, ancora poche sono le certezze.

Dopo aver chiarito l’identità e il passato del barista che aveva messo in guardia la sorella di Hasib sulle voci infastidite del quartiere, Domani è in grado di raccontare in che modo gli agenti si sono messi sulle tracce del ragazzo disabile. Questione rilevante tanto da spingere chi indaga a sentire le persone coinvolte nello scambio di informazioni con gli agenti.

I poliziotti prima di recarsi nell’appartamento sono andati dai vigili urbani della zona, il comando è poco distante dalla casa di Hasib, un complesso di palazzine popolari a Primavalle, quartiere della periferia ovest di Roma. Sono andati dalla municipale a chiedere informazioni sul suo conto e anche per capire dove abitasse. Il funzionario è stato sentito da chi indaga. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Il disabile caduto per 9 metri fuori dal coma ma ancora in gravi condizioni. Caso Hasib Omerovic, la versione del poliziotto della perquisizione: “Si è buttato da solo dalla finestra, c’è un video”. Antonio Lamorte su Il Riformista il  16 Settembre 2022 

Hasib Omerovic è sveglio, fuori dal coma, ma non riesce a parlare, comunica con gli occhi ed è alimentato con la flebo. Il disabile caduto dalla finestra di casa sua a Primavalle, Roma, durante una perquisizione di agenti della polizia, intervenuti senza mandato, è ricoverato al Policlinico Gemelli. È precipitato per nove metri. Quattro i poliziotti indagati al momento. L’accusa formulata dai pm è quella di concorso in tentato omicidio e falso, con quest’ultimo contestato solo ai superiori, mentre in un primo momento l’episodio venne catalogato con un’ipotesi di tentativo di suicidio.

E ci sarebbero foto e video che hanno ripreso l’intervento degli agenti e il cittadino bosniaco di etnia rom che si sarebbe buttato dalla finestra secondo quanto raccontato da uno degli indagati, che si chiama Andrea. “Abbiamo seguito tutte le procedure previste per un intervento di identificazione. Siamo entrati in casa, c’erano un uomo e una donna. Ma non c’è stato tempo di fare nulla”, ha detto secondo quanto riporta un articolo de Il Messaggero. “Prima di intervenire abbiamo fatto un passaggio con la polizia locale per capire se queste persone fossero state identificate. Ma non è risultato nulla”.

L’agente ha ribadito le segnalazioni – nessuna denuncia e infatti a chi ha autorizzato il controllo, la vice-dirigente del commissariato Primavalle, sarebbe stato contestato l’ordine illegittimo – che accusavano Omerovic di aver molestato donne e ragazze della zona. Oltre al post su Facebook, di una donna che interrogata a fine agosto ha riferito di essere stata molestata con la figlia per strada, anche altre presunte segnalazioni. Gli agenti però non avevano un mandato di perquisizione della Procura, questo è certo. Omerovic, 36 anni e sordo dalla nascita, non risulta indagato per vicende penali. La sorella, la 30enne Sonita, affetta da grave ritardo psichico, aveva raccontato alla madre che gli agenti avrebbero chiesto i documenti all’uomo, lo avrebbero fotografato, picchiato con calci, pugni e un bastone, lo avrebbero seguito in camera e lo avrebbero spinto dalla finestra. “Nostro figlio non è caduto, è stato spinto di sotto”, sostiene la famiglia.

Tutto questo è successo lo scorso 25 luglio. La vicenda è emersa solo pochi giorni fa. A inizio agosto la famiglia del 36enne ha presentato esposto sul caso. Secondo gli avvocati dei genitori dell’uomo, la giovane sorella sarebbe “incapace di mentire, di inventare storie diverse da quelle che vede” proprio per via del suo disagio psichico. L’agente che ha parlato ha però detto che Omerovic al momento della caduta non era stato ancora identificato. E a dimostrarlo sarebbe anche la testimonianza della signora Loredana, che abita nel palazzo di fronte a quello della tragedia e che ha assistito alla scena. “Mentre lui era a terra i poliziotti dal cortile chiedevano a una collega che era nell’appartamento di chiedere alla sorella come si chiamava”, ha detto la donna.

L’agente ha riferito che foto e video dell’intervento sono già confluiti in un dossier. I dubbi da chiarire sul caso, sul quale il riserbo resta massimo, restano però ancora tanti. Non si capisce per esempio come abbiano fatto Omerovic o la sorella ad aprire la porta, soli in casa, a sentire il campanello se entrambi sono sordi. Non si capisce perché sarebbero state abbassate le tapparelle della stanza in cui si trovavano. Ci sarebbero, nell’esposto presentato dalla famiglia, anche tre foto della serratura della porta della camera dove il 36enne si sarebbe barricato, rotta. Altre foto, secondo il racconto di Sonita, sarebbero state scattate dai poliziotti ad Hasib in casa.

Quel pomeriggio un’ambulanza è intervenuta in via Aleandro su richiesta della sala operativa del 113. Sul posto secondo alcuni testimoni anche degli agenti in borghese. I quattro poliziotti saranno chiamati a rispondere sulle modalità del controllo. Sui vestiti di Hasib e su quelli dei poliziotti sarà condotto l’esame del Dna. Il pm Stefano Luciani ha affidato a un perito l’incarico di sciogliere tutti i dubbi sulla vicenda con una serie di quesiti sulla dinamica dell’episodio, su ferite e tumefazioni sul corpo dell’uomo. Le lenzuola macchiate di sangue e il bastone spezzato di una scopa sarebbero stati sequestrati solo dopo il 12 agosto. Il 36enne non è più in pericolo di vita, è stato indotto al coma, sottoposto a diversi interventi chirurgici, ma le sue condizioni restano gravi. “Tra un paio di mesi dovrà passare in cura a un centro di riabilitazione. Abbiamo fatto domanda oggi. In una casa con le finestre alte non ci vuole andare più. Ha il terrore, la stessa paura che abbiamo noi”, ha detto il padre Mehmedalija a Repubblica.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

(Tentata nda) Morte di Hasib, agenti indagati per tortura ma il Viminale non li sospende. Angela Stella su Il Riformista il 19 Novembre 2022

La Procura di Roma indaga anche per tortura sul caso di Hasib Omerovic, giovane sordomuto di etnia rom precipitato lo scorso 25 luglio dalla finestra della sua camera nel suo appartamento a Primavalle, mentre in casa si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia. È quanto emerso ieri dalla risposta fornita dal sottosegretario all’Interno Nicola Molteni all’interpellanza urgente presentata dall’onorevole e presidente di +Europa Riccardo Magi, dopo che non aveva ricevuto riscontro alle due precedenti interrogazioni a risposta scritta.

Sulla base delle notizie acquisite dal Ministero della Giustizia” è stato avviato “un procedimento penale per i reati di false informazioni al pubblico ministero, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici e tortura”, ha detto Molteni. Non ha citato il reato di tentato omicidio. Come mai? Comunque le cose stanno così: i pubblici ministeri Michele Prestipino e Stefano Luciani, sulla base della denuncia fatta dalla famiglia Omerovic, hanno inizialmente aperto un fascicolo per tentato omicidio; poi a seguito di successivi accertamenti effettuati nel prosieguo delle indagini, sono state formulate le ulteriori ipotesi di reato elencate nella risposta di Molteni tra cui quella grave di tortura. Dunque la posizione dei quattro poliziotti si aggrava ma, lo ribadiamo, la presunzione di innocenza vale anche per loro, a maggior ragione se le indagini non si sono ancora nemmeno concluse.

Ricordiamo che nell’atto di sindacato ispettivo Magi chiedeva al Ministero dell’Interno: se “sia stata disposta un’indagine interna e a quali risultati abbia condotto; se, in relazione alla gravità delle ipotesi di reato e agli atti illegittimi emersi dagli accertamenti, siano stati assunti dei provvedimenti cautelari nei confronti degli indagati e dei loro superiori”. A tal proposito Molteni ha detto: “Lo scorso settembre l’amministrazione ha adottato misure di carattere organizzativo e, in particolare, l’avvicendamento del dirigente del distretto, sostituito con un primo dirigente di PS, ritenuto particolarmente qualificato, e del funzionario addetto. Tali provvedimenti sono stati assunti rispettivamente con atto del capo della Polizia e del questore di Roma”.

Inoltre, in merito ai quattro agenti coinvolti uno è stato “assegnato ad un altro ufficio di pubblica sicurezza della capitale, mentre gli altri tre sono stati adibiti a servizi di vigilanza interna nell’ambito del quattordicesimo distretto”. Infine, poiché il procedimento è ancora coperto dal segreto investigativo, “non sono stati avviati procedimenti disciplinari nei confronti del personale interessato in attesa degli sviluppi del procedimento penale”. Magi nella sua replica ha sottolineato: “Da una parte ci sono le responsabilità penali, che sono individuali, e dall’altra c’è da tutelare quello che è un bene in qualche modo anche superiore, garantito dalla Costituzione, che è il bene della fiducia che i cittadini devono avere nei confronti delle istituzioni e – mi viene da dire – in modo particolare di quelle istituzioni che hanno il monopolio dell’uso della forza, quindi di tutti i corpi di polizia come in questo caso”. “I provvedimenti cautelari, quindi le eventuali sospensioni, vengono adottati, anche nell’attesa di una sentenza che riconosca una condanna in via definitiva e servono esattamente a tutelare l’amministrazione e l’istituzione”, ha concluso il deputato. Angela Stella

Hasib Omerovic, il poliziotto accusato di tortura: «Non gli ho legato i polsi». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2022

Andrea Pellegrini nell'interrogatorio davanti al gip nega di aver minacciato e torturato il 36enne rom caduto dalla finestra nel corso di un'irruzione di agenti in casa sua il 25 luglio 

«Non ho impugnato il coltello, tantomeno per minacciare Hasib Omerovic. E non gli ho legato i polsi con il filo elettrico. Avevo le manette, avrei usato quelle se avessi voluto.  Ferrari? dice cose non vere». In un’ora e mezzo di interrogatorio davanti al gip, l’assistente capo del commissariato Primavalle, Andrea Pellegrini, respinge le accuse che lo hanno portato ai domiciliari una settimana fa con l’accusa di aver torturato il 36enne rom sordomuto nel corso di una irruzione nel suo appartamento il 25 luglio scorso. Quanto alla caduta dalla finestra, «è avvenuta mentre con i colleghi eravamo già sulla porta di casa per uscire e non abbiamo fatto in tempo a fermarlo. Ferrari era quello più vicino a lui, seppur in un'altra stanza. Non so perché lo abbia fatto». Pellegrini sceglie la linea del «la mia parola contro la sua» in contrapposizione al compagno di pattuglia Fabrizio Ferrari che ne ha denunciato i presunti abusi. Contro di lui c’è anche un perizia medica che da alcune immagini fa risalire i segni sui polsi del 36enne al fatto che sia stato legato col cavo di un ventilatore. Ma di questa circostanza non ci sono prove fotografiche.

Pellegrini risponde poi anche di falso con i tre colleghi che lo affiancavano in quella che doveva essere la semplice identificazione di un soggetto sospettato di aver importunato alcune ragazzine del quartiere: «Nella relazione di servizio ho scritto la verità e gli altri colleghi la hanno firmata», ha sostenuto Pellegrini, assistito dagli avvocati Eugenio Pini e Remo Pannain. Un quinto poliziotto, l’ispettrice Roberta Passalia, risponde di false comunicazioni al pm per aver detto di non sapere nulla dell’accaduto dopo aver invece suggerito a un collega della squadra mobile di «fare bene le indagini, perché la verità non è quella raccontata dagli operanti». Nella sua difesa Pellegrini può contare anche sulla versione fornita dagli altri agenti ascoltati ieri, Maria Rosa Natale e Alessandro Sicuranza. Assistito dall’avvocato Marco Casalini, quest’ultimo ha sottolineato che «l’intervento a Primavalle si è svolto in piena legalità» e che nel corso della perquisizione «sono state rispettate tutte le regole e sono state commesse torture». «Sono umanamente dispiaciuto per quanto accaduto ad Omerovic — ha aggiunto — ma si è lanciato di sotto per sua iniziativa». Per Sicuranza e Natale la procura ha chiesto l’interdizione dal servizio e il gip si è riservato di decidere nei prossimi giorni.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omertà…Omertà! La Nenia degli scribacchini.

Il reato ha una responsabilità personale.

Chiunque è innocente fino a prova contraria.

Non si può colpevolizzare qualcuno per una prova che non esiste o che manca per incapacità degli investigatori.

Le persone lavorano, studiano o riposano: non sono comari dedite a spettegolare o a fare domande in giro.

Il giornalista che criminalizza il singolo, o, addirittura, una comunità o una categoria, non fa informazione, ma fa diffamazione.

Se questi scribacchini sono spinti da odio territoriale o ideologico, la loro diffamazione è a sfondo razzista, specie se poi nascondono discriminatamente le malefatte dei loro compagni e compaesani.

Antonio Giangrande: Se questi son giornalisti… “Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa”. Goffredo Buccini 13 settembre 2017 Corriere della Sera.

Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.

Specchia. Noemi Durini e Lucio Marzo. Un film già visto, come Sarah Scazzi.

Lucio Marzo, fidanzato di Noemi, ha confessato ed ha fatto trovare il corpo.

Per il delitto di Sarah Scazzi, Michele Misseri, reo confesso, anch’egli ha fatto trovare il corpo, ma non è stato condannato per l’omicidio.

Chi sarà condannato per il delitto di Noemi Durini?

A Specchia, come ad Avetrana, si aspettavano i giornalisti con le palle, ma son arrivati solo…i coglioni.

Antonio Giangrande: Popolo di Avetrana, se avete un po’ di dignità ed orgoglio, indignatevi e condividete questo post su quanto ha scritto contro gli avetranesi Nazareno Dinoi, amico dei magistrati e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi, e non me ne spiego l'astio, e gli amministratori locali e la loro opposizione non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.”

Il giornalista, come lui si definisce, dovrebbe sapere che i conti si fanno alla fine. Per ora omette di contare i due imputati assolti dall'accusa di favoreggiamento...o questo per omertà o censura non si può dire?

Antonio Giangrande:

Processo Scazzi a Taranto…aspettando la Cassazione.

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Ne parliamo con il dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ben conosce quel foro avendo esercitato la professione forense e dalla cui esperienza ne sono usciti dei libri.

«Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati».

Antonio Giangrande: è stato presentato il ricorso contro lo Stato italiano presso la Corte Europea dei Diritti Umani.

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione.

Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità e buon andamento (efficienza).

Antonio Giangrande: Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?

E quello del dubbio scriminate, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS.

Antonio Giangrande è sui Social Network

Antonio Giangrande: Sarah Scazzi. Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Un Giorno in Pretura e lo scandalo delle motivazioni.

Una giustizia senza vergogna. Comunque la si pensi sulle responsabilità è giustappunto scandaloso permettere tutto ciò.

La puntualizzazione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande di Avetrana, ha seguito il caso sin dall’inizio e sulla vicenda ha scritto ben tre libri e pubblicato decine di video.

Roberta Petrelluzzi è la ideatrice, regista e conduttrice di “Un Giorno in Pretura”. Le telecamere del programma di Rai Tre sono state le uniche ammesse nell’Aula Alessandrini del Tribunale di Taranto per riprendere in diretta tutte le fasi del dibattimento sul processo del delitto di Sarah Scazzi. “Un Giorno in Pretura” aveva l’onere di distribuire le immagini agli altri media.

Roberta Petrelluzzi, nella sua peculiarità di testimone privilegiata, ha avuto modo di seguire con imparzialità il dibattimento di primo grado, non essendo parte nel processo.

Quindi le sue parole hanno una certa importanza se pronunciate da chi, con il suo lavoro, di dibattimenti penali ne ha visionati a migliaia.

Il 25 giugno 2016, al momento dei saluti per l’ultima puntata del ciclo di stagione della trasmissione televisiva “Un giorno in pretura”, Roberta Petrelluzzi, conduttrice del programma, ha speso delle splendide parole per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi.

«Voglio richiamare la vostra attenzione su una vicenda che mi ha molto coinvolta e che mi sta molto a cuore: la storia di Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Le due donne sono state condannate in primo grado nell’aprile del 2013, e oggi sono in attesa della sentenza della Cassazione. Ci sono voluti più di 11 mesi dopo il primo grado per scrivere le motivazioni della sentenza, cosa che è avvenuta anche per il processo d’appello. Più di 11 mesi. È stata questa la ragione che una giovane ragazza e sua madre, che si dichiarano disperatamente innocenti, sono da cinque anni in carcere. E ancora non si può dire la parola “fine” per una vicenda giudiziaria relativa a un delitto fra i più mediatici dell’ultimo decennio, dando al termine “mediatico” tutta la valenza negativa che alcune volte merita.»

Omicidio di Sarah Scazzi, «turismo macabro finito, ma non dimentichiamo. La ferita rimane aperta». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 26 Agosto 2023

Tredici anni fa l’omicidio della 15enne che sconvolse l’Italia.  Il sindaco di Avetrana, Antonio Iazzi: così siamo andati avanti

«La nostra comunità non ha dimenticato assolutamente quanto avvenuto tredici anni fa perché fu un fatto destabilizzante che suscitò clamore e scalpore e proiettò Avetrana alla ribalta nazionale. Però la nostra città va avanti e cerca di superare l’immagine legata al caso Scazzi, e devo dire che ci sta riuscendo».

 Il sindaco di Avetrana, Antonio Iazzi, eletto nel 2021, non ha vissuto da amministratore pubblico quei giorni del 2010, quel 26 agosto che vide la scomparsa e poi il ritrovamento del cadavere  di Sarah Scazzi.

Fu il fatto di cronaca più clamoroso per la cittadina che, suo malgrado, fu per un lungo periodo al centro dell’attenzione nazionale e internazionale. Accorse in via Deledda, dove avvenne l’omicidio della quindicenne, la stampa di tutto il mondo facendone una meta ossessiva per migliaia di curiosi che si affollavano di fronte alla casa di zio Michele Misseri. Il fenomeno poi scemò. «Il cosiddetto turismo macabro alla casa dell’orrore – dice ancora il sindaco – per fortuna non lo registriamo più. È durato quel che è durato come capita in questi casi, ma da anni è finito. D’altra parte la villetta è chiusa e disabitata, c’è ancora la rete di copertura del giardino, ma non c’è più quella forma di turismo dell’orrore. Non vediamo più nessuno che chiede dov’è via Deledda per soddisfare quel tipo di curiosità morbosa».

Dall’agosto del 2010 in poi Avetrana, a una quarantina di chilometri da Taranto, sembrò ferita. Quando veniva nominata per un qualsivoglia motivo, la si accomunava immediatamente e unicamente al caso Scazzi, sembrava un’eredità pesante da portare, ma l’effetto con il tempo s’è diluito.

«Il paese non ha dimenticato»

«Il paese – puntualizza Antonio Iazzi - non ha dimenticato ma i suoi abitanti e noi come amministrazione cerchiamo di ribaltare lo stereotipo. Può capitare che ancora qualcuno accomuni il paese a quella tragedia ma noi stiamo riuscendo a risollevare l’immagine della città. Il Comune realizza iniziative dando seguito a quanto fatto già dalle precedenti amministrazioni per far vedere la parte buona di Avetrana, per scrollarle di dosso la patina di un decennio fa. Il flusso turistico per la storia e le spiagge avetranesi non manca e ciò dimostra che il lavoro fatto sta funzionando. In sostanza l’effetto negativo è ormai superato anche se nella nostra comunità è rimasta la ferita».

S’è ridotta quasi a zero anche la curiosità per i protagonisti della vicenda che, ammettono gli abitanti, quasi non si vedono in giro. 

La storia

La vicenda prese avvio il 26 agosto 2010, alle ore 17,20. Quel pomeriggio la mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, si presentò negli uffici della stazione dei carabinieri. Denunciò la scomparsa di sua figlia Sarah Scazzi la quale alle 14.30 era uscita da casa per andare da sua cugina Sabrina Misseri in via Deledda, 22, con la quale doveva andare al mare. Era vestita con pantaloncini e maglietta e aveva uno zaino. L’avevano cercata ma non avevano più sue notizie. Questa storia, che ha visto la condanna all’ergastolo per omicidio della cugina Sabrina e della zia Cosima Serrano, e dello zio Michele Misseri per occultamento di cadavere a otto anni, divenne centrale nei programmi televisivi, giornalistici e radiofonici italiani e non solo. È stata il soggetto di una serie tv firmata dal regista Pippo Mezzapesa e del libro “Sarah, la ragazza di Avetrana”, scritto da Flavia Piccinni, giornalista e scrittrice tarantina, e Carmine Gazzanni.

Quarantuno giorni dopo, il 6 ottobre, lo zio Michele indicò dov’era il corpo di Sarah: in un pozzo di contrada Mosca dove lui stesso, proprio il giorno della presunta scomparsa, lo aveva nascosto.

Omicidio Sarah Scazzi, i dubbi su Sabrina Misseri: "Succube di mio padre". È lento il destino di Sabrina Misseri, condannata all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi, ma il cui ricorso dei legali è stato ritenuto ammissibile dalla Corte di Strasburgo: la sua storia. Angela Leucci il 25 Agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Sabrina Misseri e il delitto di Avetrana

 Una nuova prospettiva

 Il ruolo dei media

Il delitto di Avetrana resta uno dei casi giudiziari più importanti e discussi degli ultimi decenni. Da un lato per la giovanissima età della vittima, Sarah Scazzi, di appena 15 anni, che fu uccisa il 26 agosto 2010. Dall’altro per chi furono le persone condannate all’ergastolo per aver commesso l'omicidio: Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della ragazzina. Il caso fu lungamente trattato da tv e stampa, cosa che contribuì alla polarizzazione dell’opinione pubblica.

“Ad Avetrana è successo qualcosa che difficilmente poi si è ripetuto: una sorta di tifoseria da stadio, secondo le persone per cui si parteggiava. La scena che rimane emblematica è l’arresto di Cosima, con le persone che inveivano, le sputavano contro, le buttavano addosso qualsiasi cosa. Una delle più brutte pagine del giornalismo e del telegiornalismo italiano”. Così si esprimeva a IlGiornale.it il giornalista Carmine Gazzanni, uno dei due autori del volume “Sarah - La ragazza di Avetrana”, da cui è stata tratta una docuserie nel 2021.

Molto è stato detto - e sarà detto - sui protagonisti di questa vicenda, dato che Sabrina Misseri, condannata in tre gradi di giudizio, ha presentato, attraverso i suoi legali, un ricorso alla Corte di Strasburgo, ritenuto ammissibile. La giovane, ormai donna, è detenuta nella casa circondariale di Taranto con la madre, ma rappresenta una costante nell’impegno degli avvocati che l’hanno seguita. A maggio 2023 il legale della Misseri, Franco Coppi, ha rilasciato al Corriere della Sera un’intervista in cui ha dichiarato: “Prima ci scrivevamo una lettera a settimana, adesso all’improvviso tace. So che è in crisi e questo mi amareggia e mi preoccupa. Sono convintissimo dell’innocenza sua e di sua madre. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e abbiamo superato il primo controllo di ammissibilità. Ma i tempi sono lunghi. Lascerò il caso in eredità al mio studio”.

Sabrina Misseri e il delitto di Avetrana 

Nel 2010 Sabrina Misseri aveva 22 anni. Era un’estetista e trascorreva le sue giornate ad Avetrana, nella villetta in cui viveva con la madre Cosima Serrano e il padre Michele Misseri. A poca distanza da quella villetta vivevano Concetta Serrano, sorella di Cosima, con la figlia Sarah Scazzi. Tra le tante circostanze narrate dopo la scomparsa della 15enne, c’è il fatto che la giovane Scazzi trascorresse una cospicua parte delle sue giornate con la cugina, in particolare nel periodo estivo, tanto più che il padre e il fratello vivevano a Milano e le mancavano molto.

Intervistata nel 2018 da Franca Leosini a Storie Maledette, Sabrina Misseri, che si è sempre professata innocente, ha definito Sarah Scazzi “la sorella che non ho mai avuto”. Quell’intervista riscosse all’epoca un grande interesse da parte del pubblico, sia per la condanna subita da Misseri, sia per il modo con cui la donna parlasse al presente di molte cose, compresa sua cugina Sarah. “Con la testa non riesco a distinguere il passato dal presente”, chiosò ancora l’intervistata.

Sabrina Misseri è un personaggio chiave nel delitto di Avetrana. Quel 26 agosto 2010 era infatti in attesa della cugina e di un’amica per andare al mare. Tuttavia all’arrivo dell’amica, Mariangela Spagnoletti, Sarah Scazzi non si vedeva ancora, mentre la Misseri apparve molto agitata: a processo venne affermato che, nonostante i pochi minuti di ritardo della cugina, Sabrina aveva già avanzato l'ipotesi di un rapimento. Solo il 29 settembre successivo, un mese dopo la scomparsa, il padre di Sabrina, Michele Misseri, consegnò agli inquirenti il cellulare della 15enne semibruciato, che disse aver trovato in campagna. Il 6 ottobre l’uomo, dopo un lungo interrogatorio, crollò e confessò il delitto, conducendo le forze dell’ordine nel luogo dell’occultamento del corpo, una campagna con un pozzo in contrada Mosca ad Avetrana. 

Michele Misseri, tuttavia, ritrattò più volte quella versione, finendo per puntare il dito e poi ritrarlo perfino nei confronti della moglie e della figlia. Queste furono quindi condannate al termine di un iter giudiziario indiziario, principalmente sulla base di alcune testimonianze - in primis quella della cliente Anna Pisanò, pronta in più occasioni a segnalare situazioni che per la sua estetista risultarono poi in qualche modo compromettenti - di un presunto movente e della localizzazione delle celle telefoniche.

Per quanto riguarda il movente, la vita privata di Sabrina Misseri venne scandagliata a processo: si parlò della sua infatuazione per un compaesano, un amico della sua cerchia, tale Ivano Russo, per il quale Leosini disse nella stessa intervista che Sabrina fosse “sentimentalmente genuflessa”: pare che Sabrina Misseri fosse al centro di alcune chiacchiere, ma al tempo stesso gli inquirenti, forti di alcune testimonianze in tal senso, le hanno attribuito una certa gelosia nei confronti della cugina, sebbene la donna abbia sempre negato che questi potessero essere moventi plausibili.

"Vi racconto il caso Scazzi. E sentite cosa dice il fioraio..."

Su Sabrina Misseri pesarono anche altre circostanze, tra cui il fatto che lei avesse telefonato al padre durante l’interrogatorio. “Con il tempo ho capito che ero succube di mio padre”, avrebbe confessato a Leosini nel 2018. Nella stessa intervista Sabrina spiegò di non riuscire a perdonare il padre, che dal carcere continua ad autoaccusarsi dell’omicidio, per quello che è stato fatto alla cugina Sarah. Per questo motivo, al tempo, non riusciva a rispondere alle missive che Michele Misseri le inviava. “Sopravvivo grazie alla mia coscienza, perché so di non aver fatto niente”, è stato uno dei commenti della Misseri.

La condanna in corte d’assise per concorso in omicidio giunse nel 2013: a Sabrina Misseri e Cosima Serrano fu comminato l’ergastolo, poi confermato in appello nel 2015 e quindi in Cassazione nel 2017. A Michele Misseri fu riconosciuto il concorso in occultamento di cadavere. Come riportato dalle motivazioni di Cassazione, Sarah Scazzi era stata uccisa con “un’asfissia acuta, primitiva, meccanica e violenta” per cui il collo era stato stretto in una cintura: uno “strangolamento sinergico” messo in atto dalle “uniche due persone presenti in casa”, ossia madre e figlia. Per gli ermellini, Sabrina Misseri aveva agito tra l’altro con "fredda pianificazione di una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell’impunità”. In altre parole alla donna furono addebitati presunti depistaggi mediatici.

Una nuova prospettiva

Finora, nella casa circondariale in cui divide la cella con la madre, Sabrina Misseri si è occupata di varie mansioni, come per esempio la distribuzione dei pasti e alcuni lavori di sartoria. In particolare ha realizzato, con le altre detenute, sia bambole con fini solidali, sia mascherine durante la pandemia del Covid-19.

Nella primavera del 2022 la Corte di Strasburgo ha ritenuto ammissibile il ricorso per Sabrina Misseri e Cosima Serrano per “violazione dei diritti della difesa”. I legali delle due donne hanno sottolineato possibili o presunti errori di metodo.

“Non discuto - ha commentato a suo tempo il legale di Sabrina Misseri Nicola Marseglia - della buona fede, non mi sognerei nella maniera più assoluta di pensare a qualcosa di diverso che non siano errori metodologici. Quei testimoni che sono stati sentiti nella fase delle indagini preliminari in maniera abbastanza serrata, articolata e rigorosa alla fine contraddicono la ricostruzione ipotizzata, e allora inizia questo richiamo, questo recupero, questa rivisitazione delle prime e delle seconde dichiarazioni nella ricerca di un percorso finalmente lineare al prezzo di mettere sotto i piedi tutta una serie di dati”.

Il ruolo dei media

I media ebbero un ruolo nell’individuazione di Sabrina Misseri come colpevole del delitto e quindi condannata all’ergastolo? La presenza capillare nei contenitori tv della giovane donna all’epoca della scomparsa della cugina divise l’opinione pubblica a metà: a questo si accostò un racconto mediatico poco lusinghiero, quasi lombrosiano, ribaltato in parte nell’intervista di Leosini che fu quindi unica nel suo genere.

Come detto, nel 2020, ovvero nel decimo anniversario dell’omicidio, il giornalista Carmine Gazzanni scrisse con la collega Flavia Piccinni “Sarah - La ragazza di Avetrana”, un libro-inchiesta in cui il lavoro giornalistico ha il fine di analizzare non solo i fatti di quel 2010 ma anche l’iter processuale che ne seguì, e di farlo con estrema lucidità, senza “inquinamenti” pregiudiziali di tipo mediatico.

Sarah Scazzi diventa serie tv: "Ecco perché il true crime piace ai media"

Dal libro è stata successivamente tratta una docu-serie che vuole spingere a chiedersi se non ci fossero sulla figura e sul ruolo di Sabrina Misseri dei pregiudizi che influenzarono i processi: in altre parole, è possibile che la narrazione attraverso stampa e soprattutto tv non abbia contribuito a creare nell’opinione pubblica una sorta di “mostro”, la cui condanna potrebbe non essere supportata da prove così granitiche? È un dilemma sicuramente degno di nota, soprattutto in relazione alla testimonianza di un fioraio, che affermò dapprima di aver visto Cosima Serrano inseguire e costringere a entrare in auto Sarah Scazzi il pomeriggio della scomparsa, per poi aggiungere che il suo sarebbe stato solo un sogno. La docu-serie però non darà risposte agli interrogativi che solleva: lascia che lo spettatore, messo a parte di tutti i fatti di quei giorni, si faccia una propria idea indipendente ma sempre con alle spalle la certezza di una sentenza passata in giudicato.

Gazzanni e Piccinni hanno collaborato per la realizzazione della serie “Avetrana - Qui non è Hollywood”, della quale tuttavia non è stata annunciata ancora la data di uscita: al momento, la serie dovrebbe essere in post-produzione. Il regista dell’opera è Pippo Mezzapesa, coautore della sceneggiatura con Antonella Gaeta e Davide Serino. Sabrina Misseri sarà impersonata dall’attrice Giulia Perulli, mentre Sarah Scazzi sarà Federica Pala.

Da Sara Scazzi a Elisa Claps: quando la cronaca nera (di Puglia e Basilicata) diventa fiction. Davide Grittani su Il Corriere della Sera il 26 aprile 2023

Diverse le pellicole ispirate ai fatti di cronaca pugliesi e lucane girate negli ultimi tempi. Tra le altre il delitto di "Avetrana - Qui non è Hollywood" e "Ti mangio il Cuore", entrambe firmate da Pippo Mezzapesa 

Dall'alto, le riprese ispirate al delitto di Avetrana, a quello di Elisa Claps, sotto Elodie in "Ti mangio il cuore" e "Colpo di Ferragosto"

Toh, la cronaca. Chi non muore si rivede. Rieccola, in una forma così smagliante come non succedeva dagli anni Ottanta. Quando non dettava solo la scaletta dei tiggì, ma come un pendolo scandiva la vita del Paese. Dopo aver subito le umiliazioni di fiction, fantasy, gialli (che avrebbero dovuto riabilitare un genere, mentre l’effetto ottenuto è stato abituarci alla mediocrità) e docufilm, la cronaca sembra essersi ripresa giornali e palinsesti, «il mostro che nulla concede» – come la chiamava Ennio Flaiano – ma che riempie le nostre vite col racconto di ciò che ci vergogniamo di ammettere di essere diventati. E come spesso succede basta il termometro del rione per misurare la febbre della piazza, ovvero potrebbe bastare l’osservazione delle sole produzioni Made in Puglia per commentare il cambio di storytelling del Paese.

Le produzioni «made in Puglia»

Solo negli ultimi due anni si registrano una dozzina tra produzioni, progetti in attesa di approvazione e trattamenti al vaglio di finanziatori. Dal successo del film «Ti mangio il cuore» di Pippo Mezzapesa (basato sulla storia dell’impossibile relazione sentimentale tra esponenti di clan rivali nella faida di Monte Sant’Angelo, che deve il titolo alle cronache di nera redatte per trent’anni da Gianni Rinaldi sulla Gazzetta del Mezzogiorno) alla serie «Avetrana – Qui non è Hollywood», firmata dallo stesso regista (incentrata sul delitto di Sarah Scazzi, il cui principale merito autoriale è stato riproporre la profonda ignoranza in cui è covata quella tragedia), da «Sei donne – Il mistero di Leila» diretta da Vincenzo Marra (mistery di Ivan Cotroneo e Monica Rametta, prodotto da Ibc Movie con Rai Fiction, realizzato con risorse del Prr Puglia Fesr-Fse 2014/20) a «Per Elisa» di Marco Pontecorvo (tre episodi prodotti da Fast Film e Cosmopolitan, prossimamente su Rai Uno, ispirati al delitto di Elisa Claps e alla pavidità culturale di una comunità che ha preferito favorire per decenni l’impunità del pluriomicida Danilo Restivo). Questo solo per rievocare il recente passato, perché per l’immediato futuro sarebbero al vaglio progetti che riguardano alcuni tra gli episodi più controversi avvenuti in Puglia dal 1990 a oggi.

I progetti per il delitto di Nadia Roccia

Potrebbe diventare fiction (il progetto è al vaglio di una importante produzione internazionale) anche il delitto avvenuto a Castelluccio dei Sauri il 14 marzo 1998, quando la studentessa Nadia Roccia fu attirata in trappola e uccisa dalle compagne di classe Anna Maria Botticelli e Mariena Sica: un caso che sconvolse l’Italia perché tutte le protagoniste erano donne, legate dal macabro rondò di esistenze – la cronaca dell’epoca mitizzò l’eventuale coinvolgimento di pratiche sataniche – in cui solitudine, noia paesana e follia bastano (e avanzano) per giustificare anche l’abisso. Così come potrebbe diventare fiction anche il barbaro assassinio di Antonio Perrucci Ciannamea, un ragazzo di Cerignola rapito il 7 novembre 1999 e ritrovato incaprettato 13 giorni dopo in un pozzo nelle campagne alla periferia della città ofantina: l’intenzione era quella di estorcere del denaro alla famiglia, ma poi la situazione è sfuggita di mano ad Angelo Caputo, al figlio Leonardo e al loro complice Damiano Russo (della condanna dei quali, in appello, si occupò l’ex magistrato e oggi presidente della Regione, Michele Emiliano). Sembrerebbe più avanzato lo stato dei lavori per la realizzazione di una serie tratta dalla testimonianza di tre vedove famiglie del rione Tamburi di Taranto, le prime a denunciare la connessione tra il cancro che ne aveva ucciso i mariti (2003, tutti operai all’ex Ilva) e l’esposizione alle polveri respirate nello stabilimento. Dalle prime indiscrezione trapelate la firma sarebbe quella di un regista italiano molto impegnato nel sociale, per una co-produzione Lucky Red e Rai Fiction: cinque puntate molto intense e sofferte, in cui la necessità di sfamare una famiglia sarebbe stata posta sullo stesso piatto (della bilancia, fatale ma vero) della vita, sul filo di un equilibrio così precario eppure così incontrovertibile, soprattutto per Taranto. 

Non si tratta di una serie, ma di un possibile lungometraggio, il trattamento in stesura molto avanzata – per una regia a quattro mani – che avrebbe l’obiettivo di raccontare il cosiddetto «Colpo di ferragosto»: quello che si consumò nel caveau dell’allora Banca di Roma a Foggia (14 Agosto 1997), quando furono ripulite 300 cassette di sicurezza per un bottino di 40 miliardi di vecchie lire (quasi 20 milioni di euro di oggi), uno dei più consistenti mai messi a segno nella storia d’Italia, con una lunga serie di basisti e «menti raffinatissime» nessuna delle quali realmente individuata. Perché interessa così tanto un colpo in banca? Perché il 7 luglio 2016 (quasi vent’anni dopo), facendo dei lavori in strada, fu scoperto il tunnel lungo 30 metri che dalla superficie stradale portava alle viscere della banca: sulla scia de Lo spietato (girato a Foggia, perlopiù nel quartiere fieristico), l’idea sarebbe quella di un’unica ambientazione in cui allestire una sorta de La casa di carta in salsa pugliese.

Insomma, la cronaca è tornata a prendersi i palinsesti delle nostre vite. Quando succede, solitamente, è sempre per lo stesso motivo. Perché quello che accade là fuori, dentro le nostre giornate, è diventato talmente noioso che il passato finisce per interessare molto più del presente.

Antonio Giangrande. Tutta la verità su un processo:

che vede Michele Misseri condannato ad 8 anni per occultamento di cadavere, mentre da sempre si dichiara colpevole dell'omicidio di Sarah Scazzi;

che vede Cosima Serrano e Sabrina Misseri condannati all'ergastolo per un omicidio del quale si dichiarano innocenti;

dove la corda dello strangolamento si trasforma in cintura;

dove le pettegole (parole di Coppi) vengono credute;

dove i testimoni si intimidiscono (alla Spagnoletti: Sarah e Sabrina litigavano? Dì di sì);

dove i testimoni anticipano l'orario di uscita di Sarah: dalle ore 14.30 alle ore 14 circa, assecondando l'ipotesi accusatoria;

dove si fanno passare per fatti veri i sogni dei testimoni;

dove si induce Michele Misseri ad accusare la figlia Sabrina per l'ottenimento dello sconto di pena per entrambi.

Parla Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, Claudio Scazzi, Valentina Misseri, Ivano Russo.

Marialucia Monticelli, inviata del programma “Chi l’ha visto?”, Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”.

Walter Biscotti, Franco Coppi, Nicola Marseglia, Roberta Bruzzone.

Brani tratti dalla trasmissione “Tutta la Verità” trasmessa sull’emittente Nove il 26 aprile 2018

LA TRISTE STORIA DI SARAH SCAZZI. Il delitto di Avetrana

Gaia Vetrano l'1 Luglio 2023 su nxwss.com 

Saturdie Ep. 28 – La triste storia di Sarah Scazzi

Quanto spesso sentiamo parlare di femminicidi. Di delitti irrisolti o di morti violente, come quella di Sarah Scazzi.

Pochi casi lasciano così tanto il segno. Nella storia del nostro paese c’è quello di Yara, di cui vi abbiamo parlato la settimana scorsa. Ma i più recenti, come quello di Michelle. Eppure, non tutti conoscono la storia dietro il delitto di Avetrana. Un dramma familiare reso pubblico a causa di un finale tutt’altro che felice.

Non una storia normale, ma di gelosia e amori rubati.

Una storia esplosa grazie alla rilevanza mediatica che gli venne data dai social, come Facebook, e da un programma televisivo quale Chi l’ha visto?.

Immaginate un attimo di trovarvi seduti tra le sedie del pubblico del programma televisivo. Fuori non fa più molto caldo: è ottobre, ormai l’estate si è conclusa. Una stagione passata a discutere riguardo la scomparsa di una giovane pugliese, sparita il 26 agosto scorso.

Proiettato sul grande schermo c’è il volto di una madre. Fuori c’è il mondo, e i campi di Taranto. Ma anche la libertà e, forse, una figlia ancora viva.

La gente guarda la televisione e, oltre i muri, e le finestre, il male e le atrocità sono compresse in qualche luogo, dove una giovane è rinchiusa. Qui ci vuole giustizia.

Fortunatamente per voi è stato riservato un posto di tribuna a “Chi l’ha visto?”, programma che negli ultimi anni ha spopolato, grazie anche a casi del genere. È un po’ macabro – forse – stare lì a scrutare le sofferenze di una povera madre, ma si sa, all’essere umano hanno sempre intrigato queste vicende.

Forse perché stralciano quel velo di normalità che rende le nostre vite così banali. Forse perché, egoisticamente parlando, ci ritroviamo tutti a tirare un respiro di sollievo, e a ringraziare qualche Dio perché non fa capitare queste disgrazie proprio a noi. Oppure, perché provare solidarietà ci fa sentire più simili agli altri. Più umani.

Molti lo definiranno uno spettacolo osceno. L’ennesima dimostrazione di come il giornalismo italiano riesca a trarre da una tragedia materiale adatto a una prima pagina. Come se i familiari delle vittime non fossero persone, ma spugne da spremere per estrarre da loro fino all’ultima dichiarazione strappalacrime.

In realtà è solo il primo atto di un dramma che bloccherà l’Italia per settimane.

Sul grande schermo c’è Concetta Serrano, riconoscibile dai suoi capelli rossi. Fuori da Avetrana probabilmente non è mai uscita. E se l’ha fatto non è sicuramente per presentarsi a un programma televisivo che tratta la scomparsa di sua figlia.

Poi c’è la conduttrice, Federica Sciarelli. Una donna che sa come fare spettacolo. Sa come creare una sarabanda mediatica sopra cui si erge un solo nome.

Bastano poche parole per fare aumentare gli ascolti. Poche semplici parole.

È il 6 ottobre del 2010 quando Federica Sciarelli comunica in diretta televisiva del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi.

Da quel momento Concetta Serrano è solo una madre che ha appena scoperto che il caso della scomparsa di sua figlia si è appena trasformato in un caso di omicidio. 

L’hanno presa

La cornice nel quale ha inizio la nostra storia è quella di un paese da dove, forse, chiunque vorrebbe scappare. Certo, non è necessario vivere in una metropoli per parlare e stare bene. In mezzo a settemila abitanti c’è un’alta probabilità di trovare qualcuno.

Non è un borgo tentacolare, una vecchia crocevia romana, con animo di fiera battagliera. Una piccola perla delle Murge pugliesi, dove si respira aria di mare. Molti degli abitanti seguono ormai la storia di Sarah da mesi.

È il 26 agosto quando Concetta Serrano denuncia la scomparsa di sua figlia.

La piccola Scazzi ha 15 anni. È iscritta al secondo anno del liceo alberghiero e avrebbe percorso, prima di sparire, un piccolo tratto di strada. Quello che separa casa sua, in via Corso Verdi, e quella della cugina Sabrina Misseri, in via Grazia Deledda.

Quest’ultima è la cugina dal lato materno, estetista ventiduenne. Rende attraenti tutte le dame di Avetrana. Questa vive con Cosima Serrano e Michele Misseri. La coppia, prima di tornare ad Avetrana, viveva in Germania. Cosima lavorava prima in un’azienda di gelati, poi di cioccolata. L’altro, invece, è stato muratore per un cimitero. Ora vivono in Italia con le due figlie, Sabrina e Valentina, che vive a Roma.

Cosima e Michele lavorano la terra, e si spaccano la schiena nel farlo.

Da quando si perdono le tracce di Sarah, la prima a parlare è proprio Sabrina. Dichiara di averla aspettata per andare assieme al mare insieme a un’amica, Mariangela Spagnoletti. Sono proprio le due che danno l’allarme perché, quando provano a chiamare la Scazzi, cade sempre la linea.

A detta della Spagnoletti, la Misseri avrebbe ripetuto, mentre aspettava invano l’arrivo della cugina, “L’hanno presa”. Ma chi? 

L’Italia di Sarah Scazzi

La pista del sequestro e del rapimento a sfondo sessuale sono le più battute. Avetrana è sotto shock, mentre in paese arriva un esercito di giornalisti, inviati, cameraman, truccatrici, fonici, direttori e chi più ne ha più ne metta. Da ogni parte d’Italia arrivano per raccontare il caso di fine estate.

La storia di un’adolescente biondina scomparsa nel nulla è perfetta. Sarah è scomparsa ma tutti conoscono il suo volto, perché le sue immagini vengono diffuse in tutte le reti televisive. Immortalata sul piccolo schermo.

Ma prima di quel 26 agosto, cosa si nascondeva dietro quel sorriso? Sarah era una giovane in grado di voler bene. Di avvolgere chi le sta vicino in una morsa di calore. Mamma Concetta è una donna austera, quasi impassibile. In grado di amare, ma incapace di dimostrarlo, se non con il rigore. È una donna di fede, una testimone di Geova.

Il padre e il fratello vivono e lavorano in Lombardia, e tornano solo per le vacanze. Così, ricerca l’amore paterno in suo zio, Michele, e tratta sua cugina Sabrina come se fosse sua sorella. Per i Misseri, Sarah è come una terza figlia.

La giovane passa tutti i giorni a casa degli zi. Con loro è più leggera, e nei confronti della istintiva Sabrina prova grande stima. Quest’ultima è reduce da una relazione di cinque anni, da cui porta ancora le cicatrici. Ma ora nel suo cuore c’è solo Ivano Russo.

Questo è un bel fusto, il carisma di chi ci sa fare con il passato da militare. Un cuoco che non ha intenzione alcuna di fidanzarsi. Non con Sabrina, che per lui ha perso la testa. Chissà cosa l’attrae, sarà forse l’erotismo provinciale?

La Misseri presenta Sarah ai suoi amici, introducendola in un giro di ventenni. Tutti più grandi della piccola Scazzi. Girano tra pub, nei locali. Chiacchiere, frustrazioni, voglia di estate.

La faccenda si fa complessa quando, tra Sabrina e Ivano, si mette in mezzo Sarah. Tra i due ci sono sguardi, occhiatine. La Scazzi si avvicina al ventisettenne chef. Tra i due non può che esservi amicizia, o almeno questo si ripete la Misseri.

Basta poco per ridurre in frantumi il rapporto tra due donne, e fidatevi se ne so qualcosa. Se di mezzo c’è la passione, o un carattere focoso come quello di Sabrina, le cose non sono affatto facili. Tutta Avetrana sa che ha un debole per Ivano, che lei scherzosamente paragona a un Dio.

Il paese è in fido: tutti spettegolano. Ma per la Misseri è l’unico luogo al mondo per far sbocciare il loro rapporto.

Il numero di SMS che i due si scambiano supera i quattromila. Lui è schivo, lei la definiremo una sottona.

Eppure, la pazienza premia. È agosto quando finalmente i due si appartano in auto. L’approccio sessuale c’è, ma qualcosa non funziona. Manca la chimica, Ivano non vuole completare il rapporto. Per Sabrina è una tragedia. Un rifiuto che provoca in lei un vortice di sconforto.

La piccola Misseri racconta a Sarah, in cerca di conforto, di quella tragica notte. Di come si senta adesso inadeguata, sbagliata. Si chiede perché le cose per lei non vadano per il verso giusto. Quando mai sarà fortunata in amore. Allora Sarah ne parla con il fratello Claudio, che guarda caso è proprio amico di Ivano. La questione della macchina diventa di dominio pubblico.

Tutta Avetrana viene nutrita da questa storia, anche a causa delle chiacchiere nate da Sarah. La Scazzi non è più la dolce cuginetta, ma pian piano le due cominciano a detestarsi. Sabrina di lei racconta in giro che si venda per due coccole a Ivano. L’altra scrive della Misseri nel suo diario, dandole della “stronza”.

Basta così poco per separare due donne.

Più di un dramma familiare

Ma ritorniamo alla famosa puntata di Chi l’ha visto.

La notizia della morte di Sarah sconvolge Avetrana.

Concetta viene definita la Sfinge, perché il suo sguardo non tradisce emozioni.

Michele Misseri, il 26 settembre, racconta di aver trovato il telefono di Sarah per i campi di Avetrana. Ogni barlume di dichiarazione viene intercettato dalle telecamere. Sabrina è sempre disposta a mostrarsi in camera. L’opinione pubblica comincia a dubitare della famiglia Misseri.

La stessa Concetta Serrano chiederà di indagare in casa degli zi. Strano che Michele abbia ritrovato il telefono, e strano che Sabrina sia così disponibile a rilasciare interviste.

Così gli inquirenti cospargono di cimici casa Misseri e l’auto di Michele. Riescono così a captare un monologo dello zio. Questo si trova in auto e, mentre ascolta la notizia del ritrovamento del corpo della Scazzi, comincia a parlare da solo. In poche parole, confesserà di essere stato lui ad averla uccisa.

Seguono nove ore di interrogatori prima che Michele confessi di aver commesso il delitto nel suo garage, prima di abbandonare il corpo in un pozzo in Contrada Mosca. Sarah sarebbe morta a causa di asfissia meccanica da costrizione, in gergo tecnico. In parole povere, Misseri l’avrebbe strozzata con una corda.

L’autopsia individua proprio un solco sulla parte posteriore del collo. Questa, tuttavia, è una delle poche certezze.

Misseri corona la prima confessione affermando di aver abusato del cadavere, ma il RIS non trova tracce di violenze sul corpo.

Dopo il primo interrogatorio, Michele fornirà sempre nuove versioni, zoppicanti e contraddittorie. In pochi giorni dà vita a dieci nuovi racconti. Ma il 15 ottobre tira finalmente in ballo Sabrina, che lo avrebbe aiutato nel delitto, tenendo ferma Sarah.

La piccola di casa Misseri viene subito arrestata per concorso in omicidio, mentre si moltiplicano le bugie raccontate dal padre per allungare le indagini. Alla fine, Michele accuserà sua figlia di aver ucciso la Scazzi. Lo avrebbe fatto per gelosia, perché la cuginetta era troppo vicina al bello Ivano. Lui avrebbe solamente occultato il cadavere.

Dopo questa decisiva confessione, lo zio ritratterà le sue posizioni, negando il coinvolgimento di Sabrina. Eppure, chiunque stenta a credere che quest’ultima non sia coinvolta.

Sulle dinamiche dell’omicidio, sugli spostamenti di Sarah da casa sua verso casa dei Misseri, si è detto tanto. Ma il nostro racconto non è ancora finito.

L’ultimo grande nome

C’è un’altra figura coinvolta. È il 26 maggio 2011, Sabrina è già stata arrestata. Con poca classe, i media commentano la sua figura e la sua storia. Eppure, basta poco perché si dimentichino di lei.

In manette e in prima pagina c’è proprio lei, Cosima Serrano. La mamma di Sabrina, moglie di Michele e zia di Sarah. Una donna ferma e che si spezza la schiena. Che le sue sofferenze le trasforma in certezze.

A incastrarla le analisi sulle celle telefoniche. Il cellulare di Cosima avrebbe effettuato una telefonata dal garage proprio il 26 agosto. Ci sarebbe anche una testimonianza in un fioraio che aveva visto Sarah strattonata dalla zia e trascinata di forza in macchina, dove ad aspettarla c’era proprio Sabrina.

Dichiarazione che venne poi ritrattata.

Il processo si apre nel 2012. Sul banco degli imputati e dei testimoni si schiera un catalogo umano ampio e vastissimo.

Sarah Sca sarebbe stata inseguita per strada e poi strangolata in casa. Sabrina avrebbe fatto finta di inviare dei messaggi alla cugina in cui la incitava a sbrigarsi, mentre il corpo veniva trasportato in garage. A Michele il compito di ripulire la scena.

La Cassazione conferma l’ergastolo a Sabrina e a Cosima, Michele sarà condannato per inquinamento delle prove e occultamento del cadavere. Anche Ivano sarà condannato, avrebbe mentito ai giudici sostenendo di non aver visto Sarah il giorno del delitto. In realtà, il giovane avrebbe visto entrambe le cugine, causando una lite furiosa tra le due.

Ivano avrebbe continuato poi a mentire durante gli interrogatori. Perché non dire la verità? Cosa avrebbe avuto da perdere?

Una vicenda quasi allucinante, dove la comunità gioca un ruolo fondamentale.

Tutt’oggi, Michele continua ad addossarsi la colpa. Forse per scagionare la moglie e la figlia, oppure per attirare l’attenzione su di sé.

Settemila anime che hanno visto, hanno spettegolato, hanno testimoniato, ma anche mentito. Dopo la condanna, ad Avetrana torna la pace. Ma nulla sarà come prima. Chissà se, arrivata la notte, qualcuno ancora ci pensa, alla storia di Sarah.

Scritto da Gaia Vetrano

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Franco Coppi, la denuncia: "Strane cose nei palazzi di giustizia". Libero Quotidiano il 06 maggio 2023

"Nei palazzi di giustizia succedono cose stravaganti...": l'avvocato Franco Coppi si è raccontato in una lunga e intima intervista al Corriere della Sera. E parlando dell'ultima baruffa avuta con un magistrato, ha detto: "Un collega mi ha chiesto di affiancarlo in Cassazione per un processo che sembrava straperso. Quando ha cominciato a parlare, il presidente della sezione si è subito mostrato insofferente. Lo ha redarguito, gli ha detto che aveva già depositato 100 pagine. 'Non vorrà ripetere tutto daccapo', è sbuffato dichiarandosi seccato. Così il collega si è avvilito e in pratica ha rinunciato a parlare". Poi è toccato a lui: "Quando ho preso la parola mi ha detto: avvocato, io oggi ho 34 processi, la prego di fare in fretta. Gli ho risposto: beato lei che ne ha 34, io ne ho solo uno e non intendo rinunciare a una sola parola. Secondo me ha pensato: questo mi fa un esposto e alla fine sa cosa ha fatto? Ha annullato la sentenza con rinvio". 

Qualcosa da dire, però, ce l'ha avuta anche sugli avvocati: "Non ci facciamo mancare nulla neanche noi. Le ho già raccontato del collega che fece un’arringa accorata contro la richiesta di ergastolo per il suo assistito?", ha chiesto alla giornalista del Corsera. Il riferimento è al legale che disse "il poveretto deve già sopportare di vivere senza i suoi genitori". "Ricordo ancora bene la faccia del presidente quando lo interruppe (ride). Gli disse: avvocato, ma i genitori li ha ammazzati lui! E quello: vabbè, sempre orfano è. Inarrivabile", ha raccontato ancora Coppi. 

Tra i problemi più urgenti della giustizia italiana c'è, secondo lui, "la lunghezza abnorme dei processi; 7-9 anni di media è un tempo mostruoso". Ma non è tutto: "Poi ho la sensazione di una certa trasandatezza nel sistema Giustizia, come se ci fossimo tutti quanti un po’ abbassati di livello". Parlando del caso Avetrana e di Sabrina Misseri, l'avvocato 84enne ha confessato: "Prima ci scrivevamo una lettera a settimana, adesso all’improvviso tace. So che è in crisi e questo mi amareggia e mi preoccupa. Sono convintissimo dell’innocenza sua e di sua madre. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e abbiamo superato il primo controllo di ammissibilità. Ma i tempi sono lunghi. Lascerò il caso in eredità al mio studio...".

Un pensiero infine per l'avvocato Ghedini: "Povero Ghedini, era una persona perbene ed era diventato un amico; lui voleva molto bene a Berlusconi. Il suo cane mi riempie le giornate. Gli parlo, so che mi capisce. A Villa Borghese siamo diventati molto popolari". 

L’avvocato Franco Coppi: «Sabrina Misseri mi scriveva una lettera a settimana. Mi fermano al parco per chiedermi consigli legali». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2023.  

L’avvocato Franco Coppi: «Il cane che mi regalò Ghedini mi riempie le giornate. Tornando indietro forse farei il pittore» 

È sabato pomeriggio e l’avvocato Franco Coppi stavolta non riceve a «casa sua», cioè in Cassazione. L’appuntamento è nel suo studio.

Nell’ascensore qualcuno ha scritto «Viva Lazio», se n’è accorto? «Figurarsi se un romanista come me non se ne accorge. Penso di far cambiare tutto, non basta cancellare la scritta per lavare l’offesa». Ride.

Ci ricorda la sua età?

«Ottantaquattro anni, nato a ottobre, Scorpione».

Ma lei è tipo da oroscopo?

«Eccerto! Solo che trovo inutile preoccuparsi prima di come andrà una giornata, e allora lo leggo il giorno dopo per sapere se ci ha azzeccato».

L’ultima baruffa con un magistrato?

«Una cosa recente. Un collega mi ha chiesto di affiancarlo in Cassazione per un processo che sembrava stra-perso. Quando ha cominciato a parlare, il presidente della sezione si è subito mostrato insofferente. Lo ha redarguito, gli ha detto che aveva già depositato 100 pagine. “Non vorrà ripetere tutto daccapo”, e sbuffato dichiarandosi seccato. Così il collega si è avvilito e in pratica ha rinunciato a parlare».

Ma poi è toccato a lei...

«Quando ho preso la parola mi ha detto: avvocato, io oggi ho 34 processi, la prego di fare in fretta. Gli ho risposto: beato lei che ne ha 34, io ne ho solo uno e non intendo rinunciare a una sola parola. Secondo me ha pensato: questo mi fa un esposto e alla fine sa cosa ha fatto? Ha annullato la sentenza con rinvio. Nei palazzi di giustizia succedono cose stravaganti...».

A quale aneddoto sta pensando?

«A una scenetta vissuta in Cassazione. Era un processo per reati sessuali. La presidente fa un appello alle parti; vi prego di usare toni soft, chiede, e di non impiegare parole che facciano riferimento a parti corporali. Mi sono chiesto: e cosa racconto se non posso parlare del corpo? Così quando è toccato a me ho detto: presidente, io mi adeguo, parlerò di problemi di dietro. C’è stato un momento di gelo, ho pensato: adesso mi accusa di oltraggio, e invece stava cercando di capire che cosa volessi dire, e quando l’ha capito ha esultato: bravo avvocato, bravo!».

Anche sugli avvocati ci sarebbe molto da dire...

«Vero. Non ci facciamo mancare nulla neanche noi. Le ho già raccontato del collega che fece un’arringa accorata contro la richiesta di ergastolo per il suo assistito?».

Quello che disse «il poveretto deve già sopportare di vivere senza i suoi genitori»?

«Proprio lui. Ricordo ancora bene la faccia del presidente quando lo interruppe (ride). Gli disse: avvocato, ma i genitori li ha ammazzati lui! E quello: vabbé, sempre orfano è. Inarrivabile...».

Ora un argomento serio. Qual è il problema più grave della giustizia, secondo lei?

«Fosse soltanto uno... Certamente la cosa che più salta agli occhi è la lunghezza abnorme dei processi; 7-9 anni di media è un tempo mostruoso. So che diventando vecchi si diventa laudator temporis acti ma quand’ero giovane andavo in udienza e sapevo che il processo avrebbe avuto una durata accettabile. Oggi capita che il pubblico ministero discuta a gennaio e la difesa a dicembre. Fissano udienze dopo un anno... E poi ho la sensazione di una certa trasandatezza, nel sistema Giustizia, come se ci fossimo tutti quanti un po’ abbassati di livello. E sa un’altra cosa?».

Cosa?

«È inutile parlare di separazione delle carriere. L’unica separazione utile è fra persone capaci e intelligenti e chi non lo è. Io penso che un modo per velocizzare tutto potrebbe essere una cosa che farà storcere il naso a molti colleghi, lo so già».

Che sarebbe?

«Restituire al giudice del dibattimento la conoscenza degli atti. Oggi esiste quest’idea sacra che il giudice debba arrivare vergine al dibattimento. Ma se uno è perbene e onesto intellettualmente può leggere gli atti e farsi un’idea prima del processo e poi, in aula, può anche cambiarla sentendo le parti».

Il caso Avetrana è sempre il suo cruccio? Ha ancora contatti con Sabrina Misseri?

«Prima ci scrivevamo una lettera a settimana, adesso all’improvviso tace. So che è in crisi e questo mi amareggia e mi preoccupa. Sono convintissimo dell’innocenza sua e di sua madre. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e abbiamo superato il primo controllo di ammissibilità. Ma i tempi sono lunghi. Lascerò il caso in eredità al mio studio...».

Non le crede nessuno se dice che vuole ritirarsi.

«Non è quello. Io mi emoziono ancora come il primo giorno all’idea che uno bussi al mio studio per chiedermi aiuto. Ma le ho già detto quanti anni ho... Faccia un po’ lei».

Sta parlando della morte?

«Beh, l’età non aiuta a tenere lontano il pensiero. Vero è che Andreotti sosteneva che i processi allungano la vita...».

In che senso?

«Diceva che i magistrati contavano sul fatto che lui morisse prima della sentenza, così avrebbero pronunciato estinto il reato per morte del reo. E allora lui se n’era fatto una questione di puntiglio: non muoio finché non finisce il processo, e così è stato».

E il cane che le regalò l’avvocato Ghedini?

«Povero Ghedini, era una persona perbene ed era diventato un amico; lui voleva molto bene a Berlusconi. Il suo cane mi riempie le giornate. Gli parlo, so che mi capisce. A Villa Borghese siamo diventati molto popolari».

Vi fermano per autografi?

«Non proprio. Ma ci conoscono, ci fermano. L’altro giorno un tizio mi ha detto: avvoca’, ho menato mi’ moglie, 20 giorni de prognosi salvo complicazioni. È grave? E io: beh, ha una certa gravità. Risposta: se me serve posso passà? Non l’ho più visto... La moglie l’avrà perdonato».

Se tornasse indietro rifarebbe l’avvocato?

«Io ho fatto l’avvocato per sbaglio. Ho scelto il penale perché mi sembrava meno avvocatura, non c’era da impicciarsi di società, cambiali e cose del genere. Ho cominciato 60 anni fa e all’epoca il cuore del processo era la Corte d’Assise, cioè l’uomo, con le sue passioni e i suoi sentimenti».

Ma non ha risposto: rifarebbe l’avvocato?

«Forse farei il pittore, che è la mia vecchia passione. Anche se devo dire che se veramente avessi avuto dentro il fuoco dell’arte me ne sarei fregato dell’avvocatura. Mentre studiavo Giurisprudenza andavo all’accademia e vivevo in mezzo ad aspiranti pittori come me, e le assicuro che una cena fra pittori mancati è esaltante».

Vi sentivate intellettuali?

«Più che altro ci divertivamo. In una serata tu potevi distruggere nientemeno che Michelangelo: “appena passabile come scultore eh... ma come pittore non me ne parlare”. Salvavi Raffaello, magari. Ma Picasso: “chi è Picasso? Chi lo conosce?” Forse non era la mia strada... Non so più chi ha detto che passiamo tutta la vita a diventare quello che siamo, io sono un avvocato. E va bene così».

Antonio Giangrande.  

Al Presidente del Consiglio Comunale di Avetrana

Per il sindaco di Avetrana e la Giunta Comunale

Per i consiglieri comunali

Avetrana lì 3 giugno 2015

Oggetto: Art. 47/49 Statuto di Avetrana. Richiesta di convocazione di un Consiglio Comunale monotematico attinente il Caso Sarah Scazzi per la ricerca di strumenti di tutela dell’immagine e della reputazione del paese e dei suoi cittadini di fronte alla gogna mediatica a cui è perennemente sottoposto.

Il sottoscritto Dr Antonio Giangrande, scrittore, nato ad Avetrana il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni, 51, presidente nazionale della Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, direttore di Tele Web Italia e vice presidente della Associazione Pro Specchiarica, sodalizio di promozione del territorio, con sede legale in via Piave 127 ad Avetrana, tel 0999708396 cell. 3289163996,

premesso che

sin dal 26 agosto 2010, dal momento della scomparsa di Sarah Scazzi in Avetrana, i cittadini del paese sono oggetto di una gogna mediatica senza soluzione di continuità che non trova pari in nessun altro caso di cronaca nazionale ed internazionale. Da allora ho scritto 3 libri sul delitto, rendicontando giorno per giorno eventi avvenuti e commenti elargiti in tutta Italia. Per gli effetti ho verificato che di Avetrana si è fatta carne da macello. Se da una parte, per quanto riguarda i protagonisti della vicenda, il diritto di cronaca è tutelato dalla Costituzione italiana, quantunque per esso non vi è giustificazione quando per loro questo si travalica. E’ criminale, però, quando si coinvolgono in questa matassa tutti gli altri cittadini di Avetrana che nulla centrano con la vicenda. Eppure dal 26 agosto 2010 tutti gli avetranesi sono stati dipinti come retrogradi, omertosi e mafiosi. Chi riesce ad andare oltre i confini della “Cinfarosa” si accorge che Avetrana è conosciuta in tutto il mondo e certo non in toni lusinghieri. Tanto da far mortificare i suoi cittadini e far pagare loro fio per colpe non commesse. Non basta il mio prodigarmi a favore di Avetrana attraverso la pubblicazione dei miei libri o di video o di note stampa sui miei o altrui blog per ristabilire la verità. Io sono sempre un semplice cittadino che non fa testo e questo è un limite, oltretutto, chi mi segue, per come mi conosce, non pensa che io sia di Avetrana e ciò rende meno efficace la posizione da me assunta. D’altra parte, però, a difesa dei diritti di Avetrana si è notato una certa mancanza di iniziativa adeguata da parte dell’Amministrazione Comunale, tanto meno la minoranza ha adottato misure opportune di pungolo o di critica. Il tutto per mancanza di coraggio o di impreparazione comunicazionale. E per questo nei libri non ho mancato di rilevare l’ignavia atavica degli amministratori. Poco si è fatto e quel poco è risultato al di più dannoso. Se da una parte può essere considerato opportuno, con oneri per la comunità, costituirsi parte civile nei confronti di chi si addita prematuramente come responsabile e comunque non ha nulla da risarcire, intollerabile è che Pasquale Corleto, avvocato per il Comune di Avetrana, che dovrebbe tutelare l’immagine degli avetranesi, dica in pubblica udienza inopinatamente: «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». Io non sono come Michele Misseri. Io non mi accuso di essere un assassino!

Comunque, l’inadeguato contrasto da parte del Comune di Avetrana ha portato all’apice dell’ignominia.

In occasione della notifica dei 12 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari fatti notificare a quanti, secondo l’accusa, erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e hanno taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise, i media si sono sbragati.

Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.

A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:

Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;

Claudio Scazzi, fratello di Sarah;

Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.

Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati; vada per gli indagati; ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «Io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenere egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «..però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Tutto ciò detto di fronte a milioni di spettatori creduloni.

Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.

Per questi motivi

SI CHIEDE ALLA SV VOSTRA

Non essendoci fin qui, colpevolmente, nessun provvedimento adottato per motu proprio, ossia d’ufficio, nonostante le segnalazioni verbali al presente ufficio di presidenza, al sindaco, al vice sindaco ed ad esponenti della minoranza, di convocare ai sensi dello Statuto del Comune di Avetrana, come previsto dagli artt. 24 comma 3, 29, 37, attraverso la presente richiesta di pubblico interesse inoltrata in virtù del dettato dello Statuto del Comune di Avetrana, ex art. 47, in qualità di presidente di una associazione ed ex art. 49 da semplice cittadino, un consiglio comunale monotematico per le motivazioni in oggetto, opportunamente pubblicizzato e partecipato. In tale sede si ricerchino e si adottino, finalmente all’unanimità ed in unione, adeguati e netti strumenti di tutela dell’onorabilità di Avetrana e dei suoi cittadini, come per esempio una denuncia per diffamazione a mezzo stampa e relativa azione civile contro i giornalisti ed al direttore del programma televisivo citati. Altresì aggiungersi una campagna stampa istituzionale, affinchè, a tale delibera adottata, sia data ampia rilevanza nazionale in modo tale che la querela non sia fine a se stessa ma attivi un clamore mediatico. In questo modo, dal dì di approvazione in poi, sia di monito a tutti e, finalmente, tutti si possano lavare la bocca prima di pronunciare qualsivoglia considerazione malevola sul nostro paese.

Comunque qualcosa va fatto, in quanto la misura è abbondantemente colma e con vostra responsabilità.

Mi è stato consigliato di soprassedere alla mia proposta, ovvia e normale in altri luoghi, ma forse considerata estemporanea ad Avetrana. Io non dispero, considerando, nonostante tutto, Avetrana un paese normale.

Con ossequi.

Dr Antonio Giangrande

NATURALMENTE: LETTERA MORTA

Giunta Municipale sotto la presidenza del Sindaco Avv. Mario DE MARCO e nelle persone dei Signori seguenti:

1) DE MARCO Mario Presidente

2) SCARCIGLIA Alessandro Assessore

3) MINO’ Antonio Assessore

4) TARANTINO Enzo Assessore

5) PETARRA Daniele Assessore

Consiglio Comunale

DE MARCO Mario

TARANTINO Enzo

PETARRA Daniele

BALDARI Antonio

MAGGIORE Vito

GIANGRANDE Pietro

DERINALDIS Cosimo

MANNA Cosima

SARACINO Francesco

CONTE Luigi

LANZO Antonio

MICELLI Emanuele

PETRACCA Rosaria

Antonio Giangrande: Quarto Grado. Nuzzi, Longo ed Abbate, Avetrana vi dice: vergogna!

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati, ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenerlo egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «..però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo!

Antonio Giangrande: Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Processo ai Misseri. Quando la Giustizia non convince, ma la televisione sì.

Una farsa dove i media sono la pubblica accusa ed i loro spettatori sono i giudici popolari. La difesa è un optional assente.

Intervista al dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, autore avetranese che sulla vicenda ha scritto tre libri: sulla scomparsa, il ritrovamento, gli arresti ed il processo di primo grado; sull’appello; sui giudizi penali ai testimoni non conformi alla linea accusatoria.

Dr. Antonio Giangrande lei su quali basi può essere ritenuto un relatore attendibile della vicenda?

«Sono di Avetrana ed ho esercitato la professione forense nel foro di Taranto, finchè me lo hanno permesso, non essendo conforme, quindi conosco i luoghi e le persone al di là dell’aspetto processuale specifico. Nella mia peculiare situazione ho raccolto in testi ed in video tutto il materiale attinente la vicenda».

E quale idea si è fatto?

«Nonostante abbia consultato tutti gli atti processuali ed extraprocessuali difensivi ed accusatori, le sentenze, finanche quella definitiva, mi lasciano il dubbio, oltre che l’amaro in bocca».

L’amaro in bocca?

«Sì. Perché gli studenti che vogliono presentare una tesi scolastica o universitaria sulla vicenda di Sarah Scazzi, spesso mi chiedono il materiale video della requisitoria dell’accusa, non essendo interessati minimamente alle arringhe della difesa. Dico loro che tutto il materiale accusatorio e difensivo da me raccolto può essere consultato anche in testi e gratuitamente. Questi, pur non conoscendo la posizione della difesa delle parti in causa, mi rispondono: “Grazie, ma la vicenda mi è già ben chiara.” Capite? È chiara una vicenda sol perché si è seguita mediaticamente tramite i portavoce dei PM, o perché si è visionata la requisitoria accusatoria. Questo è per la vicenda di Sarah Scazzi, come lo è per tutti i grandi processi mediatici».

Lei che conosce tutto il materiale probatoria, cosa, invece, ha da aggiungere per completezza di informazione?

«Gli elementi giudiziari principali su cui basare un giudizio di logica sono:

Arma del delitto. Non vi è certezza. La difesa dice corda. L’accusa dice cintura.

Orario del delitto. Vi è contraddizione. L’orario incerto e non provato dell’accusa è prima delle 14.00 di quel giovedì 26 agosto 2010, basato su testimoni che si son contraddetti (il vicino, la coppietta, i genitori di Sarah e la badante) ed il consulente contestato; l’orario certo della difesa è circa le 14.30, provato da un testimone attendibile.

Movente del delitto. Non vi è certezza. Passionale da parte di Sabrina, per l’accusa, però senza riscontro o conferme degli amici ascoltati. Sessuale da parte di Michele, per la difesa, con il riscontro dei precedenti di Misseri con la cognata.

Gli elementi spuri. Il fantomatico furgone visto da Massari ed il fantastico sogno del fioraio Buccolieri. Il furgone non prova né l’omicidio, né il rapimento. Il Sogno non prova l’omicidio, ma solo il coinvolgimento di Cosima Serrano nell’eventuale rapimento di Sarah. Sogno che non è stato mai indicato come realtà. Solo la Pisanò ed i pubblici ministeri hanno ritenuto che quel sogno fosse realtà, nonostante vi sia stata immediata ritrattazione o puntualizzazione del Buccolieri, il cui procedimento penale per false dichiarazioni al Pubblico Ministero, sicuramente morirà di prescrizione, non arrivando a definire una verità assoluta sull’eventuale abbaglio accusatorio o sulla falsità della ritrattazione. Per aver sostenuto che era sogno molti parenti ed amici del Buccolieri sono finiti sotto la scure giudiziaria. Per questo non si capisce l’incaponimento di questi a sostenere una versione che l’accusa ritiene falsa, se effettivamente falsa non sia.

Le confessioni di rei ritenuti innocenti. Cosima ha sempre sostenuto la sua estraneità all’omicidio ed al fantomatico rapimento onirico. Anche per mancanza di tempo, ribadita da un testimone, perchè rientrata alle 13.30 circa dal lavoro in campagna. Sabrina ha sempre negato il suo coinvolgimento al delitto, confermate dagli sms alle Spagnoletti, e la sua gelosia per Ivano, confermando il suo affetto per Sarah. Michele ha confessato il delitto, con riscontro di fatti, facendo trovare prima il cellulare, poi il corpo e palesando la sua colpa nella prima telefonata genuina intercettata tra lui e la figlia Sabrina durante il suo arresto nella caserma di Taranto, in seguito del quale ha fatto ritrovare il corpo. Ha deviato sulla sua versione solo quando non era presente coscientemente a causa dei farmaci somministrati ed indotto dal carabiniere presente all’audizione, ovvero quando è stato indotto dal suo avvocato difensore, Daniele Galoppa, consigliato a Michele dal pubblico ministero Pietro Argentino, componente dell’accusa, ed indotto dalla consulente Roberta Bruzzone. Così come dichiarato dallo stesso Misseri. Bruzzone che nel processo ha rivestito le vesti di consulente di Michele Misseri, testimone dell’accusa e persona offesa (logicamente astiosa) nei confronti di Michele.

Testimoni fondamentali dell’accusa. L’unica super testimone: Anna Pisanò, sedicente amica di Sabrina Misseri. La sua testimonianza collide con tutte le altre versioni degli amici e parenti di Sabrina che sono stati ascoltati nel processo. Sarah la mattina dell’omicidio era felice? Per la Pisanò no, per gli altri sì. Sabrina era gelosa di Sarah per Ivano Russo? Per la Pisanò sì, per gli altri, no. Dopo la scomparsa vi sono elementi colpevolizzanti per Sabrina? Per la Pisanò, sì, per gli altri, no. Chi ha parlato per prima del sogno? La Pisanò che sospettava una relazione sentimentale tra sua figlia Vanessa e il fioraio, suo datore di lavoro. La Pisanò ha detto di tutto su tutto, anche contraddicendosi, come per la questione del sogno. La Pisanò, testimone e detective allo stesso modo ed allo stesso tempo. La Pisanò, con cui Sabrina non si confidava perché non la riteneva amica, in quanto considerata “pettegola”, si arrogava il merito di sapere tutto su Sabrina stessa. Franco Coppi, l’avv. di Sabrina, ebbe a dire nell’arringa di primo grado: “Sabrina ammette di essere colpevole. Sabrina con la casa invasa dai giornalisti ammette la sua responsabilità …con chi? Con la più pettegola delle donne di Avetrana, Con la Pisanò!”»

In sintesi ha raccontato i processi. Cosa ne deduce?

«Se già io che ho studiato, cercato, approfondito tutti gli elementi del processo. Ho conosciuto tutti i fatti exatraprocessuali che ne hanno minato la credibilità. Se già io conosco tutto ciò e ho dei dubbi sull’esito processuale, come fanno gli sbarbatelli che poco conoscono l’argomento a dire: “ho le idee chiare”?»

Si farà un docufiction sulla vicenda da parte di Mediaset…

«Già. Ma non sono io il consulente della regia o degli autori. Sicuramente si saranno avvalsi di qualcuno più autorevole ed attendibile di me… senza stereotipi, pregiudizi e superficialità. Sicuramente la redazione di Quarto Grado fornirà il suo apporto. Sicuramente si farà riferimento al fatto, come spesso dichiarato impunemente in quella trasmissione, che Avetrana è un paese omertoso…sol perché non sono stati tutti pettegoli…».

Antonio Giangrande: Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “ cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

Antonio Giangrande: La sorte di Cosimo Cosma, presunto innocente

Parla di lui Antonio Giangrande, autore del libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana, il resoconto di un avetranese” e del sequel “La condanna e l’Appello”.

Avetrana, contrada Centonze. 7 aprile 2014. E’ morto Cosimo Cosma, 46 anni. Per i suoi parenti ed amici: il gigante buono. Un tumore repentino e violento in pochi mesi ha chiuso la sua breve vita e ha chiuso la bocca ai cattivi d’animo sempre in cerca del mostro da dileggiare. Nel necrologio i giornali fanno a gara a rinvangare quella condanna comminata dai giudici di Taranto. Condanna resa a tutti coloro che erano stati rinviati a giudizio, anzi di più, perché altri processi sono stati aperti a margine, specialmente per chi ha testimoniato contro la tesi accusatoria del tutti dentro. Se ne va da presunto innocente, come lui stesso si è sempre professato, e questo a noi basta. Dopo 11 mesi sono arrivate le motivazione della condanna e ciò ha impedito di presentare l’appello a quella condanna che a lui sembrava ingiusta, tramite il suo difensore, l’avv. Raffaele Missere. Se innocente, a lui tutto il nostro rispetto; se colpevole, a lui tutto il nostro perdono. Saranno altri giudici, forse più illuminati di quelli terreni, a doverlo ora giudicare. Funerali ad Avetrana, tumulazione ad Erchie. Forse, a torto o a ragione, per disprezzo dei suoi compaesani. Tutti i suoi familiari ed amici lo hanno accompagnato nel viaggio dove cala per sempre il sipario su uno dei nove imputati condannati dalla Corte di Assise di Taranto al processo di primo grado per l’omicidio della quindicenne di Avetrana Sarah Scazzi, strangolata e gettata in un pozzo nelle campagne del paese il 26 agosto 2010. Mimino, come lo chiamavano gli amici, che si era sempre proclamato innocente, venne arrestato insieme a Carmine Misseri il 23 febbraio 2011, ma il successivo 10 marzo il provvedimento restrittivo fu annullato dal Tribunale del Riesame. «Sono stato in carcere 16 giorni da innocente – furono le prime parole di Cosma, riferite dal suo legale Raffaele Missere, una volta tornato in libertà – ora sono felice, ma spero che finisca tutto al più presto. Mi devono spiegare perchè è accaduto tutto questo. Non avrei mai fatto quello che mi contestano, occultare il cadavere di una bambina. E' stata una esperienza terribile. Sono stato diversi giorni in isolamento senza televisioni, senza giornali. Spero che sia fatta giustizia». Cosma, con la sentenza emessa dalla Corte il 20 aprile 2013, era stato condannato a sei anni di reclusione perchè ritenuto colpevole di soppressione di cadavere. Reato che, secondo la tesi dell’accusa fatta propria dalla Corte, Cosma avrebbe commesso insieme a Carmine Misseri, fratello di Michele, allo stesso Michele, alla moglie e alla figlia di quest’ultimo, Cosima Serrano e Sabrina Misseri. Per la Procura della Repubblica di Taranto, Cosma aiutò lo zio Michele Misseri ad occultare il corpo di Sarah in un pozzo-cisterna in contrada Mosca, nelle campagne di Avetrana. Sul suo coinvolgimento nell’inchiesta giocarono un ruolo una serie di intercettazioni telefoniche e ambientali che per gli inquirenti – tesi accolta poi dalla Corte di Assise di Taranto - avrebbero dimostrato la partecipazione di Cosma alla fase successiva al delitto. Cosimo Cosma si è sempre detto “innocente”. Non avrebbe mai aiutato suo zio ad occultare il corpo della piccola Sarah: «Andava a scuola con mio figlio, aveva la sua stessa età. Come avrei potuto fare una cosa del genere? Non sapevo neanche dov’era quel pozzo… la contrada Mosca sì, ci passo due volte all’anno… Mi hanno indagato per una telefonata, perché mio zio, quel giorno, mi cercò sul cellulare di mia moglie dopo aver trovato spento il mio». Ma a dimostrazione che Mimino osteggiasse i molestatori di bambine, nel novembre 2013 Cosma era incappato in un’altra disavventura giudiziaria: condannato ad un anno e quattro mesi perchè avrebbe partecipato, insieme a due parenti, ad una spedizione punitiva nei confronti di un uomo accusato di aver molestato la nipote di 16 anni. Ora che le motivazioni della sentenza Scazzi sono state depositate dopo 11 mesi, attendeva con il suo legale di ricorrere in appello per cercare di dimostrare di non aver aiutato lo zio a nascondere il corpo di Sarah. Troppo tardi, al cospetto del destino, troppo tardi per ristabilire dignità ed onore.

Avetrana, zio Michele scrive un'altra lettera: «Sono io il vero colpevole. Ho ucciso Sarah, liberate Sabrina e Cosima». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 24 marzo 2023.

In una lettera inviata a Telenorba Michele Misseri sostiene di aver ucciso la nipote nel 2012

«Sono io il vero colpevole». Michele Misseri scrive una lettera a Telenorba e ancora una volta proclama la propria colpevolezza. E’ stato lui – sostiene ancora a distanza di oltre dodici anni - a uccidere nell’agosto del 2010 sua nipote Sarah Scazzi ad Avetrana. Sua figlia Sabrina e sua moglie Cosima Serrano sono estranee al delitto, sono innocenti. La verità processuale, confermata anche in Cassazione, ha detto tutt’altro. Lui è stato dichiarato colpevole di occultamento del cadavere di sua nipote gettandolo in un pozzo dove poi fu ritrovato, mentre autrici del delitto sono state dichiarate mamma e figlia. Ma lo zio di Avetrana - che nei giorni scorsi ha ottenuto uno sconto di pena -  insiste. 

Zio Michele: «Quando esco devo lottare per Sabrina e Cosima»

«Questa non è la sua prima lettera – commenta l’avvocato difensore Luca La Tanza – scrive spesso a molti, anche a me, anche a Sabrina e Cosima detenute a Taranto». Di questa detenzione dei famigliari Misseri è molto addolorato. «Io quando esco da qui – ha scritto nella lettera - non mi fermo perché devo lottare per mia figlia Sabrina e mia moglie Cosima, perché sono innocenti e tuttora io ho paura che mia figlia Sabrina la faccia finita per colpa mia». Torna al giorno del delitto e afferma che «Sabrina e Cosima non le hanno torto neanche un capello al povero angelo biondo. Non ha avuto giustizia vera e con gli innocenti non si fa giustizia». 

Il rapporto inesistente con moglie e figlia

Del suo rapporto con moglie e figlia, che ormai appare inesistente, si rende conto e non si dà pace. «Ho perso il conto di quante lettere ho scritto a Sabrina e Cosima senza una risposta e sto male – dice - io so cosa significa stare in carcere da innocente. Per me non è stato pesante perché sono colpevole». Ha anche ottenuto, per il buon comportamento e per le condiziono disagiate della cella in cui è recluso nel carcere di Lecce e riconosciute dal giudice di sorveglianza, altri 41 giorni di sconto di pena in aggiunta ai 45 giorni ogni sei mesi che sta maturando. La sua libertà dovrebbe scattare nella primavera del 2024.

Estratto dell'articolo di tgcom24.mediaset.it il 22 marzo 2023.

Michele Misseri, il 68enne contadino di Avetrana condannato in via definitiva a 8 anni di reclusione per la soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi, ha ottenuto uno sconto della pena di 41 giorni in virtù del decreto "svuota carceri". [...]

 Per l'omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010, stanno scontando l'ergastolo sua figlia Sabrina Misseri e sua moglie Cosima Serrano [...].

Il ricorso in base al decreto svuota carceri, presentato dal suo legale è stato accolto il 22 febbraio scorso dal magistrato di sorveglianza di Lecce. Due le motivazioni alla base del provvedimento: Michele Misseri, spiega la Gazzetta, vive in una cella in cui a disposizione di ciascun detenuto non ci sono neppure 3 metri quadrati e nella stessa non ci sono né la doccia né acqua calda.

La decisione si basa dunque sulle precarie condizioni di vivibilità nella struttura penitenziaria del capoluogo salentino [...] L'uomo concluderà di scontare la sua pena nella primavera del 2024.

Caso Scazzi: «Troppo degrado in cella», sconto di pena per Misseri. Accolto il reclamo del difensore: zio Michele uscirà dal carcere 41 giorni prima. Il contadino di Avetrana continua ad accusarsi dell’omicidio della nipote nonostante la condanna definitiva inflitta a moglie e figlia. MONICA ARCADIO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 marzo 2023.

Michele Misseri – detenuto dal febbraio del 2017 dopo la sentenza della Corte di Cassazione che lo condannava in via definitiva per la soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi – ha ottenuto uno sconto della pena di 41 giorni in virtù del decreto svuota carceri.

Un reclamo presentato da Michele Misseri, che proprio oggi compie 69 anni, attraverso il suo legale di fiducia Luca La Tanza. Il contadino di Avetrana che, a distanza di ormai quasi tredici anni dal delitto continua a ribadire di essere l’unico colpevole della morte di Sarah e l’assoluta estraneità della figlia Sabrina e della moglie Cosima, si trova nella casa circondariale di Lecce dove sta scontando un cumulo pene relativo alla soppressione del corpo della nipote, all’epoca 15enne, e alla diffamazione nei confronti del suo ex legale Daniele Galoppa e della ex consulente Roberta Bruzzone.

Il reclamo ai sensi della normativa svuota carceri, per colui che da tutti è conosciuto ormai come zio Michele, è stato accolto il 22 febbraio scorso dal magistrato di sorveglianza di Lecce Stefano Sernia. Quindici pagine di documento per snocciolare le motivazioni che portano a tale decisione basate sulle precarie condizioni di vivibilità nella struttura penitenziaria del capoluogo salentino, nel periodo che va dal 9 marzo 2017 fino alla fine del 2022.

Due le ragioni. Michele Misseri vive in una cella in cui a disposizione di ciascun detenuto non ci sono neppure 3 metri quadrati (quindi in una condizione non assolutamente adeguata perché secondo un articolo della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo lo spazio necessario per il rispetto dei diritti del detenuto non dovrebbe essere inferiore ai 4 metri quadrati) e nella stessa non ci sono né la doccia né acqua calda.

Un reclamo – quello avanzato dall’avvocato La Tanza – che arriva dopo l’istanza di misura alternativa al carcere chiesta e rigettata per il suo assistito, circa un anno fa. Misseri avrebbe potuto uscire dalla struttura penitenziaria e continuare a scontare la sua pena a casa con la possibilità di lavorare. Sembra che un imprenditore agricolo, all’epoca, fosse disposto a impiegarlo nella sua azienda. Il Tribunale di Sorveglianza rigettò per via dell’atteggiamento del contadino di Avetrana, fermo sulle sue posizioni nel continuare ad auto accusarsi dell’omicidio della nipote nonostante ormai condannate in via definitiva sia la figlia che la moglie e poi anche perché ritenuta inadeguata la sua abitazione, l’ormai nota villa degli orrori di via Deledda, in stato di degrado e abbandono.

Sono trascorsi quasi tredici anni dalla morte di Sarah.

Sabrina e Cosima sono in carcere a Taranto. Scontano l’ergastolo e da quando sono state arrestate non sono mai uscite, neppure per un permesso premio. Sono detenute modello. Continuano a dichiararsi innocenti, secondo alcune indiscrezioni. Ma secondo la prima sezione penale della Cassazione Sabrina Misseri, condannata il 21 febbraio 2017 definitivamente al carcere a vita, con la madre Cosima Serrano, non meritava sconti di pena. Nelle motivazioni del verdetto finale, la Corte Suprema sottolinea le «modalità commissive del delitto» e la «fredda pianificazione d’una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell’impunità». Sabrina «strumentalizzando i media» deviò le investigazioni come «astuto e freddo motore propulsivo» verso «piste fasulle». A fronte di questi comportamenti, Sabrina non ha «meritevolezza» per la concessione delle attenuanti generiche richieste dai suoi difensori. Lo sconto di pena è stato negato dalla Cassazione anche per Cosima Serrano dato che, essendo una adulta matura, invece di intervenire a placare «l’aspro contrasto sorto» tra Sabina e Sarah, «si era resa direttamente protagonista del sequestro della giovane nipote partecipando, poi, materialmente alla fase commissiva del delitto».

Michele Misseri tra un anno uscirà, verosimilmente la prossima primavera. Pure lui un detenuto modello. Lavora, fa volontariato, ha frequentato corsi di pittura e di falegnameria. È sempre disponibile con tutti. Tutti lo chiamano zio Michele.

Oggi è il suo compleanno. Compie 69 anni. E lui continua a dire: «Sono stato io. Ho ucciso io Sarah».

41 giorni in meno e 472 euro come 'ristoro'. Michele Misseri rinchiuso “in una cella troppo piccola e senza acqua calda”, sconto di pena per lo zio di Sarah Scazzi. Redazione su Il Riformista il 22 Marzo 2023

Il neo 69enne contadino di Avetrana condannato in via definitiva a 8 anni di reclusione per la soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi, la 15enne uccisa e gettata in una cisterna interrata nelle campagne della cittadina jonica il 26 agosto del 2010, ha ottenuto uno sconto della pena di 41 giorni e un risarcimento di 472 euro a titolo di “ristoro monetario” in virtù del decreto ‘svuota carceri’.

Misseri è detenuto nel carcere di Lecce dal 2017 a seguito della sentenza della Corte di Cassazione che lo ha condannato in via definitiva sta scontando la pena non solo per il reato principale ma anche per la diffamazione nei confronti dell’ex consulente Roberta Bruzzone e del suo ex avvocato Daniele Galoppa.

Da quando è divenuta definitiva la sentenza di condanna, Misseri ha ottenuto costantemente riduzioni di pena per ‘buona condotta’, arrivando già a uno sconto di quasi 500 giorni. Provvedimenti che sono giunti in accoglimento delle istanze presentate dal suo legale, l’avvocato Luca Latanza.

Il reclamo del suo difensore arriva dopo l’istanza di misura alternativa al carcere chiesta e rigettata per il suo assistito, circa un anno fa. Misseri sarebbe potuto uscire dalla struttura penitenziaria e continuare a scontare la sua pena a casa con la possibilità di lavorare. Sembra anche – come riporta il Corriere del Mezzogiorno – che un imprenditore agricolo, all’epoca, fosse disposto a impiegarlo nella sua azienda. Il Tribunale di Sorveglianza rigettò per via dell’atteggiamento del contadino di Avetrana, fermo sulle sue posizioni nel continuare ad auto accusarsi come unico responsabile dell’omicidio della nipote nonostante ormai condannate in via definitiva sia la figlia che la moglie e poi anche perché ritenuta inadeguata la sua abitazione, l’ormai nota villa degli orrori di via Deledda, in stato di degrado e abbandono.

Misseri oggi è costretto in una cella che non mette a disposizione di chi vi è rinchiuso il minimo di 4 metri quadrati indicati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A Lecce ci sono scarsi tre metri, quindi condizioni precarie e non adeguate al rispetto dei diritti dei detenuti. Inoltre in questa cella non ci sono né acqua calda né doccia.

L’istanza di Michele Misseri è stata accolta dal giudice di sorveglianza del tribunale di Lecce, Stefano Sernia, lo scorso 22 febbraio. Misseri nel frattempo continua ad affermare di essere l’unico colpevole della morte di Sarah Scazzi e che sono del tutto estranee la moglie Cosima e la figlia Sabrina condannate all’ergastolo. Per l’omicidio di Sarah Scazzi infatti stanno scontando l’ergastolo sua figlia Sabrina Misseri e sua moglie Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della 15enne uccisa.

Le due donne si trovano in carcere a Taranto e da quando sono state arrestate non sono mai uscite, neppure per un permesso premio. Sono detenute modello e continuano a dichiararsi innocenti. Secondo la prima sezione penale della Cassazione Sabrina Misseri però, condannata il 21 febbraio 2017 definitivamente al carcere a vita, con la madre Cosima Serrano, non meritava sconti di pena.

Nelle motivazioni del verdetto finale, la Corte Suprema sottolinea le “modalità commissive del delitto” e la “fredda pianificazione d’una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell’impunità”. Sabrina “strumentalizzando i media” deviò le investigazioni come “astuto e freddo motore propulsivo” verso “piste fasulle”. A fronte di questi comportamenti, Sabrina non ha “meritevolezza” per la concessione delle attenuanti generiche richieste dai suoi difensori. Lo sconto di pena è stato negato dalla Cassazione anche per Cosima Serrano dato che, essendo una adulta matura, invece di intervenire a placare “l’aspro contrasto sorto” tra Sabina e Sarah, “si era resa direttamente protagonista del sequestro della giovane nipote partecipando, poi, materialmente alla fase commissiva del delitto”.

Michele Misseri tra un anno uscirà, verosimilmente la prossima primavera. Anche lui detenuto modello. Lavora, fa volontariato, ha frequentato corsi di pittura e di falegnameria. È sempre disponibile con tutti. Tutti lo chiamano zio Michele. Oggi è il suo compleanno. Compie 69 anni. E lui continua a dire: “Sono stato io. Ho ucciso io Sarah”.

Avetrana, le cose non dette. Carmen Gueye il 5 marzo 2023 su secolo-trentino.com

Avetrana, un paese lanciato verso l’estremità d’Italia, una provincia baciata dal dolce Ionio, circondata da piane a perdita d’occhio, assolate, coltivate, punteggiate da pozzi non censiti, che solo i proprietari conoscono.

Sarah Scazzi non nacque, però, in questa terra, ma in Lombardia, durante una trasferta della madre in visita al papà Giacomo, colà emigrato; la bambina tornò al sud verso i sette anni. Un colibrì, minuta, diafana, la quindicenne sparì il 26 agosto 2010, con il popolo ancora distratto dall’ultima coda delle vacanze. Forse, come tante coetanee, il paese le stava stretto: dicono sognasse di fare la barista in qualche città o all’estero, nel frattempo frequentava l’istituto alberghiero.

Che succede, dal 26 agosto al momento in cui il corpo della ragazzina verrà ritrovato? Lo abbiamo ascoltato mille volte e in varie salse. Analizzeremo i protagonisti della storia, gli aspetti del crimine e della storia processuale che più ci hanno colpito. Le fonti sono mediatiche, poiché è la narrazione che ci interessa.

Concetta Serrano Spagnolo. La mamma di Sarah ha due cognomi perché adottata dagli zii e poco aveva frequentato i veri genitori. Ragazza di famiglia, un giorno incontra Giacomo Scazzi e lo sposa. Ma Giacomo partirà per lavoro dopo la nascita del primogenito Claudio e Concetta, divenuta Testimone di Geova, resterà in compagnia della sua nuova religione e degli altri fedeli: ciò che, secondo molti, la renderà forte e poco incline a piegarsi al dolore dopo il dramma, convinta della prossima riunificazione con le anime dei defunti. L’abbiamo conosciuta sempre bella, dalla fiammeggiante chioma, sobria, ma incisiva nell’eloquio. Inviterà da subito a indagare sul nucleo familiare, se stessa compresa; apprenderà la sorte della figlia in modo fumoso e scoordinato, durante una diretta di “Chi l’ha visto?”

Quando ancora si pensa a una fuga e non alla tragedia, in attesa di sviluppi, Concetta ci mostra la stanza della fanciulla, emula di Avril Lavigne, di cui tiene i poster in camera; spuntano dei video della sua ultima gita a Roma con la cugina/sorella Sabrina, di una festicciola dove l’adolescente sorride e punta il dito verso la telecamera, o di lei che guarda come si fa una messa in piega, magari pensando, in alternativa, a una carriera da hair stylist. La madre spiega il tipo di educazione che impartisce: niente computer, per esempio. Tuttavia ci viene svelato che Sarah va a chattare in casa di amiche e, per qualche giorno, si puntano i fari su un fornaio di diversi anni più grande, che si giustifica affannosamente: appena saputa la vera età dell’interlocutrice, aveva cessato i rapporti, peraltro rimasti rigorosamente virtuali.

Concetta è contraria anche alle feste, a suo dire ormai solo espedienti per attività inappropriate, ma nulla può per frenare Sarah, sola come si ritrova nel fronteggiarne i primi ansiti di ribellione; mamma la definisce tremenda, permalosa, un po’ eccentrica, ritratto che emerge anche dai resoconti sulla condotta scolastica. Forse a quindici anni è normale essere irrequieti ma, se davvero la donna intendeva imporre a Sarah una condotta a briglie più tirate, perché la faceva praticamente vivere in casa degli zii e in compagnia delle cugine? Laggiù, l’atmosfera pareva essere più adattata ai “tempi moderni” e Concetta non poteva ignorare che la compagnia di ultraventenni comportava delle conseguenze, rischiando di farle perdere il controllo sulla ragazzina. Tuttavia Concetta ha sempre riferito di sentirsi tranquilla, perché aveva fiducia in Sabrina Misseri, unica “mentore” di Sarah, dopo il recente matrimonio della sorella Valentina.

Giacomo Scazzi. Il papà di Sarah fa una curiosa impressione, con le sue palesi difficoltà espressive, mentre la moglie ha evidentemente compiuto un percorso evolutivo; intervistato con difficoltà, in qualche modo afferma che, anche se abita in Lombardia, ciò non significa che sia separato da Concetta. Lo si vedrà poco, a parte in qualche udienza. I media hanno fatto trapelare che Giacomo avesse la fama di correre dietro alle gonne, in modo anche un po’ invasivo. Cosima, madre di Sabrina, nelle sue dichiarazioni spontanee alla Corte, affermerà che la loro famiglia non si è mai permessa di parlare male di Giacomo alla figlioletta, lasciando intendere che il resto del paese, invece, sussurrava cattiverie al riguardo. Sul punto, mamma Concetta avrebbe sostanzialmente risposto a Sarah in lacrime, toccata da questi pettegolezzi, che le doveva interessare solo il comportamento di Giacomo come padre e di non ascoltare il chiacchiericcio.

Claudio Scazzi. Il giovane, precocemente calvo e dall’aspetto “urban”, residente a San Vittore Olona, dove ha seguito il padre, è solito scendere al paese per una ventina di giorni ad agosto ed è già ripartito quando Sarah scompare. Simile alla madre nella parlata sciolta e di acute osservazioni, dopo la disgrazia allestirà una piccola mostra incentrata sull’amore della sorellina per gli animali, affermando, alla fine, che di lei non parlerà più.

Michele Misseri. Emigra con  la moglie in Germania circa nel 1979, dopo le nozze: una vita di sacrifici, una attitudine al lavoro mai messa in dubbio, forse un po’ succube della consorte, fama di puritano, anche un po’ timido. Dopo le note vicende viene dipinto come una sorta di Pacciani del sud, un primordiale contadino frustrato e incline ai raptus: pregiudizio di classe che si infila sempre nelle cronache criminali provinciali e rurali. L’unica immagine serena di lui che abbiamo visionato lo ritrae, elegante come tutti, al matrimonio della primogenita Valentina, mentre, fiero, la accompagna all’altare. Nello stesso video compare fugacemente Sarah, di rosso vestita. Serpeggia, da alcuni anni, un’ atroce diceria secondo cui il padre di Michele fosse violento, anche sessualmente, in famiglia: avallata da Michele stesso, ma da prendere con le molle.

Cosima Serrano in Misseri. Da ragazza molto somigliante a Sarah, precocemente invecchiata per la fatica e – detto a Franca Leosini – perché “ non voglio essere schiava della tinta” ( una frecciata a Concetta?), ci spiega che la loro famiglia è sempre stata normalissima; che tra lei e Michele erano corse incomprensioni negli ultimi tempi, come succede in molti nuclei familiari; di essere stata una madre di larghe vedute, e per nulla legata a costumi ancestrali visto che, d’altronde, la realtà odierna obbliga ad adeguarsi e – sempre da Leosini –  fa l’esempio del gran numero di ragazze madri ad Avetrana: piccola rivalsa di una donna fatta oggetto di insulti, sputi, e invocazioni al linciaggio da parte di una folla di compaesani, al momento dell’arresto. I leoni da tastiera avevano lasciato per un momento la postazione, per dar vita ad una scena rivoltante, che fa il paio con il turismo dell’orrore scatenatosi in particolare attorno a questo delitto. Cosima ribadisce lo smisurato affetto per la nipotina scomparsa, da sempre considerata una terza figlia e praticamente da lei cresciuta.

Sabrina Misseri. Ventiduenne al tempo, estetista con cabina in casa, viene descritta come “cocca di papà”. Pensiamo se non lo fosse stata, cosa di peggio avrebbe potuto accaderle. Sembra non fosse soddisfatta del suo sovrappeso e di un accenno di ipertricosi. Propensa a confidarsi con tutti, pagherà cara la sua sete di comunicazione. La giovane appare molto legata alla “comitiva” di amici, protettiva verso Sarah, probabilmente talora anche un po’ aggravata dalla responsabilità di averla sempre appresso; unica in famiglia, non aveva la patente, particolare che più avanti assumerà un suo rilievo. Provocata dalla Leosini, risponde che non intende aderire alla religione dia zia Concetta, la quale l’ha invitata a convertirsi per espiazione, e si rammarica che la mamma di Sarah possa ancora considerare colpevoli lei stessa e Cosima; anche se, come si vedrà, forse nel tempo le circostanze hanno portato Concetta ad altre considerazioni.

Ivano Russo. Il bello del paese, si è detto spesso: un brunetto dallo sguardo intenso e, osservando le famose foto con le cugine, dalla gradita villosità. Ventisette anni all’epoca dei fatti e, si immagina, alquanto conteso da nutrita compagnia femminile, in effetti viene attratto nell’orbita di Sabrina: agganciato Ivano, iniziano i problemi.

In questa storia la fanno da padrone gli sms, predecessori dei whatsapp, ovvero i messaggini, che i giovani di oggi ( e non solo loro) si scambiano a raffica: ricostruirli, nel fatto di specie e considerando alcune cancellazioni a opera degli interessati, intorbidirà la ricostruzione, già di per sé problematica, degli eventi.

Tuttavia l’episodio che più interessa è il famoso “rapporto mancato” del 21 giugno 2010 tra Ivano e Sabrina, su cui Franca Leosini infierirà con apprezzamenti sarcastici.

In effetti non è ancora chiaro se il coniugio carnale, appena iniziato, fosse stato interrotto perché, all’ultimo secondo, Sabrina aveva ammesso di non assumere anticoncezionali e lui non aveva dietro un preservativo; o per il timore del ragazzo che la partner potesse illudersi di avviare, con l’atto sessuale completo, una storia seria. Sabrina ha sempre disperatamente ribadito di non aver mai pronunciato la parola “amore”, e sfidato chiunque a trovarla in una delle migliaia di messaggi da lei scritti a Ivano stesso o ad altri, Né, in effetti, i testimoni anche più maliziosi hanno mai potuto affermarlo. La Misseri ha sempre parlato di attrazione fisica.

C’è però un altro aspetto che investe prepotentemente Ivano, anche solo di riflesso: Sarah era innamorata di lui? E lui, che sponda le offriva? Che la adolescente avesse preso la sua prima vera cotta per Ivano è normale: in qualità di chaperon, stava spesso in sua compagnia, ne ascoltava gli sfoghi; lui era belloccio e di esperienza, vista l’età, ma che abbia potuto anche solo farle balenare alla ragazzina un feed back, tendiamo a escluderlo, qualunque cosa lei avesse scritto nel suo famoso diario: che, ricordiamolo, da giovani rappresenta l’amico immaginario, il libro dei sogni, il “muro del pianto” (e delle malignità inespresse) delle menti acerbe e degli ormoni in rivolta.

Dopo i protagonisti, si passa ai comprimari che, talora, finiscono per assumere un rilievo smisurato a seconda della “sceneggiatura”.

Maria Ecaterina Pantir. Badante rumena dello zio/padre di Concetta ( l’uomo, che viveva con la figlia/nipote, morirà nel settembre successivo alla scomparsa di Sarah). La governante, proprio in agosto, aveva ricevuto la visita del fratello e pare che costui avesse anche dato una mano in lavoretti di riparazione e manutenzione. Subito nel mirino, il Pantir viene scagionato perché già ripartito prima della sparizione di Sarah, ma le Misseri vi avevano alluso, dunque Maria Ecaterina andrà ad aggiungersi alle parti civili contro di loro. E fosse solo questo. Dirà qualcosa di determinante per l’accusa, come vedremo: vendetta?

Mariangela Spagnoletti. Amica intima di Sabrina, molto coinvolta nel suo giro di “vasche” serali, e giri per pub e birrerie, è sulla scena, unica estranea al nucleo familiare, nell’arco di tempo fatale.

Anna Pisanò. Altrimenti detta “supertestimone”. Nelle cronache criminali, se ne trova spesso uno, che riferisce molte impressioni non avvalorate: sembra questo il caso. Testimone di Geova come Concetta, non si rivela altrettanto riservata, come da dettami del culto.

Giovanni Buccolieri, il fioraio che avrebbe sognato la scena del ratto di Sarah da parte di Cosima, per strada; sua dipendente era la figlia della Pisanò, Vanessa Cerra.

Alessio Pisello, amico di Sabrina, molto attivo nelle ricerche subito dopo la scomparsa di Sarah.

Valentina Misseri. Sorella maggiore di Sabrina, fresca sposa al momento della disgrazia, in quei giorni si trovava a Roma, dove abita. Ha sempre sostenuto che, per sfortuna si fosse trovata ad Avetrana, sarebbe finita “ nel tritacarne” a sua volta. Ha spiegato accuratamente che la logistica di casa Misseri escludeva una dinamica come quella descritta in sentenza.

I fatti

Sarebbe quantomeno consolante poter riferire di un crimine in termini di certezze, almeno in percentuale accettabile. Sarà che le vite sono complicate e il loro racconto le riflette, quando non le deforma; che la pistola fumante è rara; che i testimoni a volte si esaltano per il momento di celebrità: vuoi per questo, che per altro, la sentenza non ha offerto evidenze schiaccianti.

Interpelliamo per primo Claudio Scazzi, il quale ci fa sagacemente notare l’assurdità del ritrovamento del telefonino di Sarah ( privo di SIM e in parte bruciato) nei pressi del pozzo dove l’hanno gettata: perché non disfarsi di un oggetto incriminante? Dove era stato fino a quel momento? Dal 26 agosto fatidico alla “confessione” di zio Michele, che fece rinvenire il cadavere il 6 ottobre, nessuno si è preoccupato di perlustrare le proprietà dei Misseri, a iniziare dal villino di abitazione con annesso il fatidico garage o le campagne dove erano soliti lavorare; né di setacciare un territorio che, pur vasto, presenta il vantaggio di snodarsi in pianura, senza fratte o pendii, né tantomeno di valutare la tristemente nota presenza dei pozzi non censiti. Ce n’erano molti, si è detto. Vero: ma qui si parla dei terreni di una sola famiglia e non dovevano essere sterminati: alberi da frutto, pomodori, fagiolini, queste le principali colture cui si dedicavano Michele e Cosima, e lì si doveva andare insieme a loro, battendoli metro a metro. Concetta stessa aveva già direzionato le indagini verso l’ambito familiare, dunque…

Claudio Scazzi però è attenzionato dai media abbastanza da far sorgere delle domande, alcune forse un po’ oziose, altre ancora senza risposta. Qualcuno osserva che, saputo della scomparsa della sorella, il giovane non si è subito precipitato ad Avetrana per aiutare nelle ricerche: ma è ipotizzabile che, appena rientrato al lavoro, contasse su ( e sperasse in) una soluzione meno tragica, magari un rientro dopo una scappatella, pronto a dare una mano in ogni caso.

Più interessanti, invece, appaiono le riflessioni sul suo ruolo nella cerchia in cui erano coinvolti i giovani parenti, sorella compresa.

Sceso per le ferie di rito, anziché godersi il riposo e il divertimento, egli si infila subito nel chiacchericcio più hard (Sabrina dirà di lui “ Claudio non si fa mai i fatti suoi”). Se il teorema accusatorio si basa sulla feroce gelosia di Sabrina verso Sarah a causa di Ivano, è pur vero che esso è stato puntellato dall’idea che la piccola Scazzi avesse parlato in giro sul “due di picche” che Sabrina si era presa dal suo diletto in procinto di far l’amore: ma non sarebbe andata proprio così.

In realtà la giovinetta ne avrebbe accennato in casa; Claudio aveva saputo, filando a “sfottere” Russo sull’incidente erotico. Quindi non era Sarah la “colpevole” di aver diffuso il “pastiche”: giovanissima, non “si teneva” niente e si era confidata con il fratellone che per poco ancora avrebbe avuto vicino. La stessa Sabrina, poi, avrebbe avuto di che riflettere sulla propensione a raccontarsi senza freni. In ogni caso, notiamo che l’accusa ha un piano A e un piano B, due moventi intercambiabili o integrabili. Carmen Gueye

Sentiamo Concetta: molto presto si dichiara convinta della colpevolezza di Cosima e Sabrina; e seguendo, a suo dire, le confidenze di un’altra sorella, avrebbe affermato : “Mia sorella Emma mi parlò di una corda che aveva visto in bocca a un cane e le era sembrato strano, era come se il cane le volesse indicare qualcosa e mi disse di parlarne con i giornalisti. Dopo l’arresto di Sabrina, Emma non si è più fatta vedere“. Bari.repubblica.it.   

Dunque Emma Serrano prima appare solidale con Concetta, poi parrebbe prendere le distanze e schierarsi con Cosima. Ma che significa una corda in bocca a un cane che “ le indica” qualcosa? Qui si inizia a scivolare nell’immaginazione, quando l’accusa parlava  di omicidio a mezzo corda. Torniamo a Concetta che, in uno speciale dedicato al caso su TV 9, siamo ormai nel 2018, all’ascolto dell’interrogatorio di Mariangela Spagnoletti, trova che il PM sia pressante e la ragazza “pilotata”.

Ivano Russo che ne dice? Sfiorato dai sospetti, ha l’alibi della madre, anche se i due  fanno un po’ di confusione sugli orari; qualche sms, vivisezionato dagli inquirenti, potrebbe adombrare delle discrepanze, ma, a parte l’imbarazzante deposizione in aula sulla famigerata “ notte del rifiuto”, il ragazzo non viene più disturbato sul punto. Purtroppo il suo nuovo sodalizio sentimentale, da cui è nato un figlio, si rompe con strascichi astiosi e la sua ex, Virginia Coppola, avrebbe dichiarato che di quel 26 agosto Ivano non ha raccontato tutto, che era uscito nelle ore incriminate. La donna viene catalogata come una ex vendicativa e il capitolo Ivano potrebbe chiudersi un’altra volta. L’accusa per falsa testimonianza è caduta in prescrizione.

Cosa dunque sarebbe accaduto, quel giorno? Scremate le divagazioni di zio Michele, quando ormai la Procura è concentrata su moglie e figlia, apprendiamo che la versione definitiva disegna una certa scena, ovvero:

Sarah esce di casa alle quattordici, anche se Concetta inizialmente aveva parlato delle 14.30;

arriva dai Misseri, dove Michele se ne sta da qualche parte, ma non è chiaro dove ( la teoria del trattore che lo ha fatto infuriare è svanita e con essa anche la sua esatta posizione in quel frangente);

si scatena una lite furiosa tra le due padrone di casa e la povera Sarah ( motivo, la gelosia o la spiata su Sabrina e Ivano?);

la ragazzina, quaranta chili scarsi di leggerezza e gioventù, scappa lesta, ma le due Misseri prendono l’auto;

Cosima (peso oltre i cento chili, in piedi dalle tre e mezzo di notte dopo una giornata passata nei campi)  guida a tutto gas, la raggiunge, esce dall’auto, la rincorre, la afferra senza che alcuno senta nulla;

con le cattive, dopo un tragitto in cui come al solito nessuno vede niente, la riportano a casa, dove, in qualche maniera, con una cintura, la povera quindicenne viene strangolata a quattro mani;

a quel punto vengono chiamati i rinforzi, ovvero zio Michele, suo fratello Carmine e suo nipote Cosimo Cosma: i tre, senza fare una piega, anch’essi visti da nessuno, arrivano come fulmini. Non si sa bene come siano stati convocati: su eventuali risultanze di tabulati in merito ci hanno lasciato a bocca asciutta, come non sappiamo di dichiarazioni dei loro familiari;

si infila il corpo nel bagagliaio della Panda di Michele e via, tutti, a disfarsi del cadavere nel famoso pozzo di contrada Mosca. Poi, si suppone, ognuno sarebbe tornato tranquillo a casa propria, perché…

perché la Spagnoletti, arrivata per la gita al mare, circa tra le quattordici e trenta e le quattordici e quarantacinque, non ha visto nessuno, non cita terzi, non si accorge di alcuna agitazione.

Come si è arrivati a questo finale

Sulle prime, le dichiarazioni di Michele venivano prese sul serio, perfino l’assurda idea di uno stupro post mortem sul corpo di Sarah: non che non siano esistiti tristi figuri capaci di atti simili, ma si doveva quantomeno attendere l’autopsia. Cosima, ancora libera mentre va a trovare il marito in carcere, glielo ricorda, durante una intercettazione ambientale. Oggi si afferma che la decomposizione non avrebbe permesso tale accertamento, ma la versione iniziale lo affermava. In ogni casa l’obiezione finale è un’altra: Michele non poteva sapere che il cadavere sarebbe stato ritrovato dopo un mese e mezzo; per quel che poteva immaginare a bocce ferme, la scoperta avrebbe potuto verificarsi dopo un giorno o una settimana, e lui essere smentito, pertanto ritrattò la miserabile bugia architettata in chissà quali conciliaboli e con chi. Oppure aveva certezze su un ritrovamento tardivo?

Dopo aver verificato l’inattendibilità dello zio più famoso d’Italia, gli si offre, tuttavia, ancora abbastanza credito da seguire la sua lenta svolta verso le congiunte: ora diventa un incidente casalingo. Ossia, Sabrina e Sarah, mostrando un’ intelligenza vicina al minimo sindacale, avrebbero giocato a cavalluccio: con la Scazzi sopra, si sarebbe pensato. No, Sarah faceva il cavallo e Sabrina, di tripla consistenza, il cavaliere, che con una improvvisata briglia (la cintura, che ora fa capolino) per sbaglio l’avrebbe strozzata. Casomai fosse mai stato vero, Sarah avrebbe sì rischiato grosso, ma per il peso della cugina sul suo esile corpicino.

Altra giravolta di Michele: non giocavano, ma hanno litigato. Come lo sa? Si è visto arrivare in garage Cosima e Sabrina, cadavere in braccio, transitate per un passaggio interno, sempre chiuso ermeticamente fino a quella data, e in pochi secondi insieme avrebbero dato il via alla congiura per l’occultamento. DNA di Sarah? Nemmeno un po’.

Perplessità

La rincorsa di Cosima è attestata dal famoso sogno/visione/percezione del fioraio Giovanni Buccolieri, sul modello di quanto avviene nella cultura degli indios, che considerano i sogni realtà. L’uomo non avrebbe avuto di meglio da fare che dirlo alla sua dipendente Vanessa Cerra, che ovviamente sarebbe andata subito a “sbrodolare” la succosa confidenza alla madre Anna Pisanò.

Buccolieri però, a breve, ritratta tutto; in questo caso non viene creduto, e si becca una condanna a due anni e otto mesi per false dichiarazioni al pubblico ministero, ma non tornerà indietro: non era vero niente, solo una sua ipotesi, nel mare di supposizioni paesane che si incrociavano in quei giorni.

Anna Pisanò, a sua volta, non è stata certo lineare. Prima ha parlato di certi operai che stavano ristrutturando un edificio scolastico e fischiavano alle donne (anche a lei, precisa), quasi alludendo alla possibilità che tra loro si dovesse indagare; poi sterza di brutto, parlando della tristezza di Sarah la sera del 25 agosto, e di un suo malumore anche il 26, giorno in cui, vedi caso, la Pisanò si sottopose a trattamenti estetici da Sabrina (e Sarah era sempre lì), notando il suo pallore e le lacrime trattenute, perché bistrattata da Sabrina.

In realtà l’umore altalenante dei giovanissimi è la regola; e a meno che la Pisanò la sera non fosse stata al pub, parlerebbe de relato: il 26 nessuno, oltre lei, notò Sarah corrucciata.

Le amiche di Sabrina picchiano duro sulla sua infatuazione per Ivano ma, quanto a Sarah, ne riferiscono in modo non significativo: ogni giorno, specie tra giovani donne e ragazzine, si incrociano liti e rappacificazioni. L’indomani mattina Sarah era nuovamente dalla cugina, andò a comprare un prodotto in profumeria per lei, ed era vestita di nero; dopo il veloce pranzo a base di cotoletta, entusiasta alla prospettiva di andare al mare, provocando anche un po’ di disappunto in Concetta, mise il costume da bagno e si cambiò, indossando la famosa maglietta rosa come testimoniato anche da Concetta…

ma no. Un manutentore, che l’avrebbe notata per strada, parla di lei vestita di nero nel primo pomeriggio, e le parole di Concetta passano in secondo piano. Né conteranno di più riguardo all’orario: Concetta ha sostenuto che sua figlia era uscita alle quattordici e trenta, ma sul punto verrà ritenuta più affidabile la badante Maria Pantìr, che insiste con l’uscita alle quattordici. Né varrà più che tanto la testimonianza dei due fidanzati di passaggio, che hanno notato Sarah camminare sul marciapiede e propendono anch’essi per le quattordici e trenta.

E perché mai, nel correre dietro a Sarah, si sarebbe impegnata la stanca e pesante Cosima, unica a saper guidare, lasciando in auto l’imperturbabile Sabrina? Sarebbe stato del tutto logico che la più giovane si mettesse alla rincorsa e la patentata Cosima aspettasse in auto col motore acceso, pronta a ripartire.

Nel giro di circa venti minuti dunque Sabrina avrebbe:

ucciso Sarah insieme alla madre

chiamato il padre in garage

mentre Michele allarma mezza parentela per occultare il cadavere, mandato messaggi al telefonino della cugina e con lo stesso dispositivo, ora in suo possesso, risposto con uno squillo per far credere che la poveretta fosse ancora viva

scambiato altri messaggi con una cliente che nel frattempo l’aveva contattata

corso in strada dove l’attendeva la Spagnoletti

finto preoccupazione e dirottato tutti verso casa Scazzi, mentre Michele, incorporeo, si dileguava con la salma in auto insieme ai complici.

Sembrerebbe una macchinazione davvero fortunata, per un delitto d’impeto, che si suppone lasci l’assassino un minimo sconvolto nell’immediatezza: pochissimi minuti per decidere sul da farsi,  e un perfetto coordinamento di cinque persone, tra delitto, chiamata alla complicità, occultamento e pantomima con la Spagnoletti e la cliente.

Alcuni strascichi

“ …intercettato, Ivano dialoga con un amico, Alessio Pisello, e pronuncia una frase inquietante: «Qualcuno di noi ha parlato». Parlato di che cosa? Nella villetta al mare c’è forse un segreto da nascondere? Anche il 29 novembre, sempre intercettati, Ivano e i suoi amici discutono animatamente di quanto dovranno dire agli inquirenti, di che cosa vada corretto e di che cosa andrebbe nascosto” Panorama.it 27 novembre 2018 –  

Esisteva, in effetti,  questa villetta, di proprietà del nonno di Sarah, e pare che su certe feste che vi si svolgevano nessuno abbia raccontato la verità: Sarah c’era o no? Circolava droga? La ragazzina aveva visto qualcosa?

Per ora, è tutto: ergastolo per Cosima e Sabrina, otto anni per Michele, che ha ripreso a dichiararsi colpevole ed è stato anche condannato per la diffamazione nei confronti del suo primo avvocato Daniele Galoppa e la consulente Roberta Bruzzone. La criminologa in particolare, a suo dire, lo avrebbe convinto ad accusare la figlia, in quanto rassicurato sul fatto che avrebbe preso solo un paio d’anni di carcere….

Se solo Sabrina non fosse stata sentita da tutti, nei convulsi momenti in cui Sarah non arrivava, mentre proclamava sicura “ l’hanno presa, l’hanno presa”, forse non avrebbe attirato su di sé quell’attenzione. I suoi detrattori, vedendola così spesso in televisione, l’ hanno bollata impietosamente, additando il presenzialismo quale ovvia pertinenza caratteriale di un’assassina narcisista; se solo Cosima non avesse spintonato il marito dietro la porta del garage, per indurlo a non dire pericolose scemenze dinanzi ai giornalisti, gesto interpretato come volontà di insabbiare la verità…se, se solo Sarah fosse ancora qui.

Maria Lucia Monticelli, la giornalista che seguiva la vicenda per “Chi l’ha visto” ci regala a sua volta una visione: prima del ritrovamento del corpo aveva sognato la ragazzina che la avvolgeva in un abbraccio “dolente”: così  aveva intuito che lei non c’era più.

Se fosse stato tutto un brutto sogno. Carmen Gueye

Antonio Giangrande: I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare.

Quando la verità su cosa ci circonda ci è suggerita dalla fiction straniera.

Centinaia di migliaia di errori giudiziari, in minima parte riconosciuti. E grazie ad Alberto Matano alcuni dei quali portati alla conoscenza del grande pubblico, con il suo programma “Sono Innocente” su Rai tre.

L’inchiesta del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul delitto di Sarah Scazzi ha scritto un libro, così come ha scritto su tutti i principali delitti andati agli onori delle cronache, specialmente a Taranto. Saggi inseriti in un contesto di malagiustizia dove ci sono inseriti esempi di confessioni estorte e di cui si può parlare senza subire ritorsioni. Uno tra tutti: Giuseppe Gullotta. Questi libri fanno parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” che si compone di decine di opere: saggi periodici di aggiornamento temporale; saggi tematici e saggi territoriali. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri. ecc.

Quasi nessuno sa, ed i media colpevolisti hanno interesse a non farlo sapere, che vi è una vera e propria strategia per chiudere in fretta i casi illuminati dalle telecamere delle tv. Strategia, oggetto di studio americana, ignorata da molti avvocati nostrani e non accessibile alla totalità degli studiosi della materia.

Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso.

Come estorcere una confessione. HOW TO FORCE A CONFESSION:

Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto. MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza.

La promessa di una via d’uscita. THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia.

Offrire una ricompensa. OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo di coinvolgimento o con la concessione a questa di uno sconto di pena.

Suggerire le parole per la confessione. FORCING LANGUAGE

Studio tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00.

Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...

NON CREDO CHE SARAH FU UCCISA DALLA CUGINA E DALLA ZIA". Alessandro Cucciolla il 24 gennaio 2023 su L’Opinione.it

Il 26 agosto 2010 Sarah Scazzi viene uccisa ad Avetrana, in provincia di Taranto, aveva solo quindici anni. Ad essere condannate all’ergastolo per l’omicidio, la cugina Sabrina e la zia Cosima. Lo zio Michele, che inizialmente si era accusato dell’omicidio, è stato condannato per “occultamento di cadavere”. Il Generale di Brigata, Luciano Garofano, è stato perito di parte della famiglia di Sarah Scazzi ed oggi, a distanza di tredici anni dall’omicidio, nutre ancora dubbi sulle responsabilità. Lo abbiamo intervistato.

Generale Luciano Garofano grazie di aver accettato il nostro invito a rilasciare questa intervista. Ritorniamo a parlare dell’uccisione della quindicenne Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Lei è stato il consulente tecnico della mamma di Sarah. Come sarebbe stata uccisa?

Guardi, la Cassazione ha confermato i due ergastoli a Cosima ed alla figlia Sabrina (zia e cugina della vittima, n.d.r.) ma personalmente nutro ancora dubbi sulla loro colpevolezza.

Questo suo dubbio è avallato dagli esami che ha potuto effettuare ed in particolare sulle modalità dell’omicidio.

Non concordo con la tesi accusatoria per la quale Sarah sarebbe stata uccisa con una cinta stretta attorno al collo. La morte è sopraggiunta per asfissia meccanica e potrebbe essere stata causata anche da uno strangolamento eseguito con le mani. Non mi risultano evidenze scientifiche certe che, sul piano medico legale, confermino la tesi dell’uso della cinta.

Sul luogo del delitto che elementi era riuscito ad ottenere?

Sono arrivato alla conclusione che Sara sia stata uccisa nel garage dell’abitazione dei Misseri.

L’elemento relativo alla cella di copertura dell’operatore telefonico che ha confermato la presenza dello stesso in quella abitazione non è stato un elemento decisivo?

È mio personale parere che talvolta si esageri nell’interpretare i dati desumibili dalle celle telefoniche che servono le aree di interesse investigativo: in altre parole non è tecnicamente possibile stabilire con certezza se il cellulare di Sarah fosse nel garage, nel giardino od in un altro luogo della casa.

Chi, secondo gli elementi da Lei riscontrati, l’autore o gli autori del delitto?

Rispetto la sentenza, ma non concordo sui due ergastoli comminati a Cosima e Sabrina. Ritengo quindi non loro le responsabili. Voglio ricordare, invece, la prima versione confessoria di Michele Misseri che aveva ammesso di essere stato lui ad uccidere la nipote, in una “reazione d’impeto” per il rifiuto della nipote ad alcune avance a sfondo sessuale.

Penso quindi che in questo scenario la figlia Sabrina e la moglie Cosima siano state coinvolte marginalmente e forse solo successivamente abbiano avuto cognizione della morte stessa di Sarah.

Infine ritiene ci siano elementi che potrebbero essere utili per un eventuale richiesta di revisione del processo?

Non credo a questa possibilità. A mio avviso la vicenda è connotata da indizi troppo labili per permettere di proporre una revisione.

Claudio Santamaria contro Roberta Bruzzone: «Ha detto che abbiamo inventato l’aborto, una bestialità». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.

Con un lungo post su Instagram, il noto attore, sposato con la giornalista Francesca Berra, ha raccontato dell’esistenza di un audio, in cui la criminologa e volto televisivo avrebbe espresso dei dubbi sulla perdita del bambino da parte della coppia

È incavolato nero Claudio Santamaria e il bersaglio della sua rabbia è la criminologa Roberta Bruzzone, volto noto di molti programmi televisivi, secondo la quale l’attore e la moglie, la giornalista Francesca Barra, avrebbero inventato la perdita del loro bambino nel 2019 (la coppia ha poi avuto una bambina di nome Atena). «Mi duole commentare simili bassezze, ma sono così incazzato che sento di doverlo fare», scrive non a caso Santamaria in un lungo post su Instagram, dove spiega quanto accaduto.

«Offende me e mia moglie»

«È stato condiviso un audio con alcune conversazioni private della criminologa Roberta Bruzzone che offende me e mia moglie @francescabarra1 (l’audio era più lungo di quello che ascoltate e riguardava anche me), sostenendo che abbiamo mentito sulla perdita del bambino: “ pare che la notizia l’abbia inventata”», prosegue lo sfogo social dell’attore, a corredo della foto della Bruzzone con il virgolettato in questione. «A me non interessa entrare nelle beghe legali fra lei e la società Emme Team che ha pubblicato anche questo audio insieme con altri nei confronti di altre persone…. e non mi interessa soffermarmi sui metodi discutibili con cui sta avvenendo tutto questo e nemmeno che un simile pensiero sia stato reso pubblico. Quello che mi sconvolge e mi fa rabbia è che una professionista che ha a che fare con i lutti, che dovrebbe essere sensibile nei confronti della morte e del dolore della perdita delle famiglie, possa averlo anche solo pensato», spiega ancora Santamaria che, comprensibilmente, è un vero fiume in piena.

«Rasenta la bestialità»

«Possiamo non stimare una persona, un collega, un vicino di casa, possiamo provare sentimenti avversi e antipatie, ma questo pensiero va oltre: rasenta la bestialità e il pettegolezzo più pericoloso e spero che le persone che coinvolgeranno la signora Bruzzone in contesti dove questo comportamento potrebbe essere incoerente con le storie che raccontate, ne terranno conto», sottolinea infatti l’attore, prima di rivelare la sofferenza vissuta dalla moglie e da tutta la famiglia per quell’aborto. «Mi sento di scrivere queste cose per me, per l’immenso e costante dolore che prova anche mia moglie per quella perdita che non avrei mai voluto farle rivivere pubblicamente e per il rispetto del dolore che abbiamo provato noi e i nostri figli e per chi vive questi drammi dovendo pure fare i conti con le schifezze partorite da una persona che ogni giorno viene invitata nei salotti televisivi e nelle vostre case giudicando fatti e persone», conclude Santamaria, che ha poi aggiunto altre Ig Story sull’argomento. Per ora la Bruzzone non ha replicato alle accuse dell’attore.

La criminologa Roberta Sacchi: “Io, presa di mira perchè non colpevolista sul delitto di Avetrana”. Cronaca Vera il 15 Gennaio 2023 su Fronte del Blog

A Cronaca Vera parla la criminologa Roberta Sacchi, che per i suoi dubbi sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano nel delitto di Sarah Scazzi, venne violentemente attaccata sui social

L’autore del libro “Il delitto di Avetrana- Perché Sabrina Misseri e Cosima Serrano sono innocenti”, ovvero il giallista Rino Casazza, l’ha intervistata per il nostro settimanale

Roberta Sacchi, i suoi dubbi sul delitto di Avetrana sono oggi rilanciati dal libro di Rino Casazza. Clicca sulla copertina e vai all’inchiesta

Affermata psicologa forense e criminologa, Roberta Sacchi è divenuta un volto televisivo per la sua partecipazione a trasmissioni di true crime. Nel 2014 ha vissuto una spiacevole esperienza a causa dei reiterati, scomposti attacchi – addirittura con minacce di violenza fisica- sui propri profili social, mail e sul telefono a causa degli interventi sul piccolo schermo sul giallo di Avetrana.

L’esperta era stata presa di mira per aver espresso forti dubbi sulla responsabilità nell’omicidio di Sarah Scazzi di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, poi condannate in via definitiva. Secondo il suo parere il delitto era da attribuirsi unicamente all’altro famigliare coinvolto in quel caso giudiziario, Michele Misseri.

L’incresciosa disavventura ha avuto un’appendice con un procedimento disciplinare a carico della Sacchi in relazione alla supposta incauta ipotesi da lei avanzata, con argomenti seri fondati sulle sue conoscenze professionali, che alla base del comportamento criminale di Michele Misseri potesse esserci un disturbo neurologico. L’azione disciplinare si è poi conclusa in modo a lei favorevole. Ma da allora, cautelativamente, ha evitato di pronunciarsi sulla vicenda della morte della giovane Scazzi in tv e sui social.

Le teorie della Sacchi tornano di attualità ora che, per iniziativa dei legali delle due donne, in carcere con la pena dell’ergastolo, è in discussione un ricorso presso la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che potrebbe portare a una revisione del processo, rimettendo in discussione la verità giudiziaria. Roberta Sacchi ha accettato di tornare a parlare con noi dell’argomento.

Ci vuoi raccontare che cosa ti è successo e qual è la tua posizione sul delitto di Avetrana?

Otto anni fa eravamo nel pieno dell’iter processuale per l’omicidio di Sarah Scazzi. Nei dibattiti televisivi io ero una dei pochi, se non l’unica, a rompere il compatto schieramento colpevolista nei confronti di Sabrina e Cosima, essendo convinta, come sono tutt’ora, che la povera Sarah sia stata uccisa dallo zio Michele – reo confesso ma non creduto dagli inquirenti e poi dai giudici – per reazione inconsulta al rifiuto di un approccio sessuale da parte della ragazzina.

Intendendomi particolarmente di psicologia del ricordo, sostenevo che uno dei principali elementi a favore della falsità della confessione dell’uomo, ovvero che fosse incapace di ricostruire in modo completo e preciso l’azione omicida, in realtà era circostanza nient’affatto insolita in autori di delitti similari. In un clima in cui l’opinione pubblica aveva il pollice verso nei confronti delle due imputate, questo ha scatenato contro di me l’avversione del popolo dei social con una valanga di commenti negativi preconcetti e contumelie. Eppure mi ero limitata a riferire il risultato di studi specifici su casi reali.

Cioè?

Quando una persona commette un omicidio d’impulso è, evidentemente, in stato di forte stress emotivo. Questo implica che non rammenti per filo e per segno gli atti compiuti, ma li ricordi a sprazzi. Questo è quello che è accaduto a Michele Misseri, anche a prescindere dalla questione se egli sia o meno affetto da una malattia psichiatrica, su cui non è stato mai compiuto un accertamento medico-specialistico. Tutto il caso di Avetrana, comunque, chiama in causa la problematica, ben conosciuta in psicologia, dell’alterazione involontaria dei ricordi.

Che cosa intendi?

La soluzione giudiziaria sul delitto di Sarah Scazzi si basa tutta su testimonianze, in particolare su quella, controversa, di un fioraio di Avetrana che avrebbe visto le condannate costringere la vittima a salire sulla loro auto per poi evidentemente ucciderla, se il fatto è reale. Però questo testimone ha sempre sostenuto – continua a farlo anche adesso – di aver visto l’episodio in sogno. Ciò gli è valsa un incriminazione per falso, sorte toccata a molte altre persone che hanno fornito deposizioni su circostanze decisive non collimanti con l’impianto accusatorio.

D’ altro canto alcune altre persone, risentite a distanza di tempo, hanno ritenuto di rettificare quanto inizialmente riferito rendendolo compatibile con la tesi dell’accusa. In realtà, come dimostrano gli studi sperimentali, la memoria umana non fotografa in modo obiettivo gli avvenimenti, ma li filtra attraverso la sensibilità e l’esperienza individuale. Ad esempio è acclarato che le donne abbiano una percezione dei colori molto più sofisticata, per cui ricordano meglio questo dettaglio.

Comunque, in generale, bisogna sempre tener conto che qualora si riscontrino inesattezze o discordanze nelle versioni dei testimoni, non significa che dietro ci sia malizia o dolo, ma ciò può avvenire in buona fede per la soggettività dei ricordi, in misura maggiore quanto più passa del tempo dal fatto ricordato.


 

Sarah Scazzi diventa serie tv: "Ecco perché il true crime piace ai media". Una nuova serie tv su Disney+ racconterà la storia di Sarah Scazzi. Carmine Gazzanni a IlGiornale.it: "L’opinione pubblica rischia di inquinare il raggiungimento della verità". Angela Leucci il 23 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La storia di Sarah Scazzi torna in tv. E lo fa per una serie tv intitolata “Qui non è Hollywood” che approderà su Disney+. A firmarne la regia è il regista pugliese Pippo Mezzapesa, che ne ha curato la sceneggiatura con Antonella Gaeta e Davide Serino, in collaborazione con Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni. Questi ultimi, a 10 anni dal delitto, realizzarono un libro-inchiesta, “Sarah - La ragazza di Avetrana”, dal quale lo scorso anno è andata in onda una docu-serie targata Sky.

Il caso Scazzi è una di quelle storie di cronaca nera che stanno presentando più di un’opera dedicata, mentre cresce l’attenzione internazionale per film, libri, podcast e serie tv a tema true crime. Talvolta queste opere subiscono pregiudizi preventivi, ma sono in realtà molto utili per non dimenticare e per aprire nuovi squarci su casi che rappresentano una ferita collettiva.

L’omicidio della giovane Sarah è uno di questi: quello che seguì alla sua morte fu un processo mediatico che portò alla condanna per omicidio della zia della vittima Cosima Serrano e della cugina Sabrina Misseri. Lo zio Michele Misseri fu condannato per occultamento di cadavere. Mentre la condanna di Michele sta per scadere, la giovane Sabrina condannata all’ergastolo, si è rivolta alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha dichiarato ammissibile il ricorso e potrebbe pronunciarsi a suo favore e quindi aprire alla revisione del processo.

Così continuare a parlare del caso significa anche riempire quei vuoti lasciati aperti, provare a porsi nuovi interrogativi. Per esempio: la condanna di Sabrina è stata influenzata dall’opinione pubblica? Certo è che il caso Scazzi è stato trattato mediaticamente in un modo inedito fino a quel momento strorico. “Si è creato così un mix esplosivo tra racconto, inchiesta e prospettiva mediatica - racconta a IlGiornale.it Carmine Gazzanni - I personaggi, che in realtà erano persone, erano tagliati con l’accetta: Cosima veniva ritratta come la mente dell’assassinio, la ‘grassottella’ Sabrina era contrapposta all’angelica Sarah, mentre Michele Misseri veniva trattato come una sorta di seconda vittima”.

Gazzanni: un libro, una docu-serie e ora una serie. A proposito, il vostro è il solo libro sul caso Scazzi?

Non lo è. Ma è unico a suo modo, per via dello sguardo a 10 anni di distanza dal caso e quindi la possibilità di raccontare con lucidità e distacco la pressione mediatica di quel 2010. Analizzare dopo tanto tempo ci ha permesso di guardare tutto dall’esterno, sia per quanto riguarda gli aspetti dell’inchiesta sia per la dimensione mediatica e quanto questa abbia avuto influenze”.

In che senso?

In tv il caso Scazzi è stato il primo di una serie di storie di cronaca nera mediatiche: molto spesso chi parlava non aveva consapevolezza della documentazione relativa all’inchiesta e al processo. Si è creato così un mix esplosivo tra racconto, inchiesta e prospettiva mediatica. I personaggi, che in realtà erano persone, erano tagliati con l’accetta: Cosima veniva ritratta come la mente dell’assassinio, la ‘grassottella’ Sabrina era contrapposta all’angelica Sarah, mentre Michele Misseri veniva trattato come una sorta di seconda vittima. Eppure è lui che occulta il cadavere, ed è sempre lui che continua a professarsi colpevole”.

Perché è importante continuare a raccontare la storia di Sarah?

I casi di cronaca nera ti consentono di confrontarti con i sentimenti più abietti dell’essere umano. Ma a volte l’opinione pubblica rischia di inquinare il raggiungimento della verità, perché il racconto mediatico si concentra su dettagli banali o che non c’entrano nulla con la verità stessa”.

Cioè?

Prendiamo il caso di Benno Neumair. Di lui si disse che, dato che faceva palestra, avrebbe assunto anabolizzanti e questi avrebbero potuto incidere sull’assassinio dei suoi genitori Peter e Laura Perselli. È un copione che spesso si ripropone con i casi che assumono una dimensione totalizzante, in cui c’è l’esigenza di crearsi la notizia anche quando la notizia non c’è. L’importanza di continuare a raccontare il caso Scazzi è nel passaggio dal particolare all’universale: bisogna cioè riflettere sul racconto mediatico e sulla sua funzione, che dovrebbe essere quella di informare. E invece spesso si rischia di deformare il racconto, compromettendo potenzialmente l’inchiesta”.

"Vi racconto il caso Scazzi. E sentite cosa dice il fioraio..."

Quando si realizza un prodotto true crime, anche in termini di fiction, per la televisione o per il cinema si riesce sempre a restituire centralità alla vittima?

La centralità della vittima è un po’ quello che sempre manca nella cronaca nera. Il carnefice finisce per assumere un’attenzione maggiore. Prendiamo la serie Netflix su Dahmer: ti porta a chiedere come un essere umano apparentemente comune possa aver commesso tali atrocità. Per quanto riguarda la storia di Sarah, nel libro io e Flavia abbiamo cercato di ridare dignità alla vittima, ritraendola in tutte le sue sfaccettature: Sarah era un’adolescente con tutti i chiaroscuri che l’adolescenza porta con sé. Il fatto che sia stata ritratta bidimensionalmente ha portato ad annullare il suo ricordo, la sua presenza, la sua storia”.

Cosa rende un caso di cronaca “mediatico”?

Io e Flavia ci siamo posti tantissimo questa domanda e l’abbiamo posta a giornalisti e sociologi. Ci sono purtroppo tante altre ragazzine come Sarah che vengono assassinate, ma perché si è parlato per mesi di questo caso? La risposta degli esperti è stata: era il 26 agosto 2010 e non c’era nulla da raccontare, non c’era attività politica per riempire le pagine dei giornali e gli spazi televisivi, ma avevi un thriller salentino a costo zero, un racconto corale che costituiva un unicum. Per capire meglio, va fatto un confronto con Yara Gambirasio: Sarah e Yara erano due ragazzine, entrambe uccise nel 2010 a pochi mesi di distanza. Certo, il caso di Yara è unico per il modo in cui è stato rintracciato il colpevole, ma se si domandasse dove è avvenuto l’omicidio in pochi saprebbero rispondere, mentre il nome di Sarah è legato a quello di Avetrana”.

Quando avete girato “La ragazza di Avetrana” avete coinvolto moltissimo la famiglia di Sarah. Cosa ha dato questo in più alla docu-serie?

Dovevamo realizzare un documentario in cui fosse presente il racconto di Sarah e quindi era fondamentale la presenza e il coinvolgimento della famiglia, a partire dalla mamma Concetta e dal fratello Claudio. La docuserie ha avuto ottimi feedback in termini di critica e di ascolti, ma la sfida che ci siamo proposti era denunciare quanto possa incidere il racconto mediatico attraverso lo strumento televisivo stesso”.

Quentin Tarantino fu criticato per il ritratto di Sharon Tate in “C’era una volta a Hollywood”, ritratto che in realtà era fortemente femminista e aderente alla realtà. Voi avete ricevuto critiche aprioristiche?

Essere criticati a tutti i costi dipende da vari motivi. I casi di cronaca nera, quando si banalizzano o si semplificano troppo portano una divisione manichea tra bene e male: se parteggi per chi costituzionalmente è riconosciuto come il male rischi di attirarti addosso critiche, che però lasciano il tempo che trovano se il tuo lavoro giornalistico è corretto. Credo sia un problema giornalistico: il giornalista non deve accettare acriticamente delle verità solo perché sono state stabilite da un magistrato, ma ha il dovere di capire come sono andate le cose. Non si deve passare al setaccio solo la politica ma anche la magistratura”.

Secondo lei, come mai alcune storie vengono narrate diverse volte dalla tv, dal cinema e dai libri?

Per il loro cambio di prospettiva e al tempo stesso la consapevolezza che una storia possa essere foriera di insegnamenti che passano dal particolare all’universale trascendendo la storia in sé. Per esempio Nove trasmise, anni prima del nostro, un buon documentario con una grande attenzione sui buchi del caso Scazzi. Credo che raccontare o denunciare qualcosa che abbia una prospettiva più ampia rappresenti l’aspetto originale che porta a parlare in più modi della stessa storia, portando lo spettatore a porsi qualche domanda in più”.

Michele Misseri, nuova lettera su Sarah Scazzi. “Sono io il vero colpevole”. Giovanna Tedde su Il Sussidiario il 19.12.2022. - 

Michele Misseri torna ad autoaccusarsi dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi, attraverso una nuova lettera in cui sottolinea la sua (ennesima) versione: “Sabrina e Cosima innocenti, io…”

Michele Misseri torna a parlare del caso Sarah Scazzi e delle sue presunte responsabilità nel delitto di Avetrana. L’uomo scrive una nuova lettera per sostenere, ancora una volta, l’innocenza di moglie e figlia condannate all’ergastolo in via definitiva per l’omicidio della nipote 15enne. Parole che ha rivolto, spiega il settimanale Giallo, in una missiva rivolta a Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli, autori del documentario Tutta la verità e inserita nel libro Il delitto di Avetrana, di Rino Casazza.

Zio Michele” Misseri, come è passato alle cronache, inizialmente aveva confessato di aver ucciso Sarah Scazzi e di aver gettato il corpo in un pozzo in contrada Mosca, per poi ritrattare e indicare la figlia Sabrina Misseri quale asssassina. La giovane, insieme alla madre Cosima Serrano, è stata riconosciuta responsabile della morte della minorenne ma ora, anni dopo la condanna e con alle spalle diverse altre lettere di autoaccusa, Michele Misseri ribadisce di essere “il vero colpevole” mai creduto dalla giustizia. A pesare in modo importante sul racconto di Michele Misseri, ritenuto non attendibile all’esito delle indagini, furono i continui dietrofront nella sua narrazione dei fatti di Avetrana. L’uomo oggi dice di aver riferito “tante bugie” e di temere per l’incolumità della figlia dietro le sbarre.

Michele Missseri, le sue dichiarazioni in nuova lettera sul delitto di Avetrana

La nuova lettera di Michele Misseri sul delitto di Avetrana non aggiunge molto a quanto già riferito dall’uomo dopo il rimbalzo di ritrattazioni sulle responsabilità nella morte di Sarah Scazzi. Dapprima dichiaratosi autore dell’omicidio, aveva poi accusato la figlia Sabrina Misseri di aver agito contro la cuginetta 15enne di fatto “incaricandolo” della sola fase di occultamento del cadavere della piccola (per cui è stato condannato a 8 anni di reclusione). Anche la moglie di Michele Misseri, Cosima Serrano, è in cella e sconta l’ergastolo in via definitiva, ma lui insiste e torna a scrivere di essere l’unico e vero colpevole del delitto.

Michele Misseri chi è/ Zio di Sarah Scazzi, le versioni e la condanna (Delitto di Avetrana)

Mi fa rabbia – scrive Michele Misseri in un passaggio della sua lettera riportato dal settimanale Giallo – che io faccio trovare tutto e mi credono innocente. I giudici hanno paura di dire che hanno sbagliato e hanno messo due innocenti in carcere”. Secondo la sua ennesima versione dei fatti, Michele Misseri si dipinge come “colpevole mai creduto” dalla giustizia italiana, un vero e proprio unicum nelle cronache recenti. La nipote Sarah Scazzi fu uccisa nell’agosto 2010 ad Avetrana (Taranto) secondo i giudici proprio da Sabrina e Cosima, rispettivamente cugina e zia della vittima, che si sarebbero poi servite dell’aiuto di Michele Misseri per disfarsi del corpo. Da tempo, le due donne di casa Misseri avrebbero smesso di parlare con lui e questo, secondo il racconto dell’uomo, anche davanti alle sue continue richieste di perdono per averle “trascinate” in questa storia.

Le versioni di Michele Misseri sull’omicidio di Sarah Scazzi

Michele Misseri sta per tornare libero dopo la condanna a 8 anni di reclusione per l’occultamento del corpo di Sarah Scazzi. Nel frattempo, riporta Giallo, torna a dirsi responsabile del delitto di Avetrana e dichiara di non ricordare il momento della confessione in cui avrebbe indicato la figlia Sabrina come esecutrice materiale dell’omicidio. “Ho paura che Sabrina la faccia finita per colpa mia”, ha scritto nella sua ennesima lettera dal carcere sostenendo di aver commesso il delitto in un contesto di forte tensione “per il maledetto trattore che non partiva“. Un resoconto a cui inquirenti e giudici non hanno dato credito dopo le molteplici versioni fornite da Michele Misseri sui fatti. Per la giustizia sarebbe responsabile della soppressione del cadavere di Sarah Scazzi. Il 6 ottobre 2010 la prima versione di Michele Misseri lo vede parlare proprio di quel trattore che lo avrebbe mandato su tutte le furie per un presunto malfunzionamento. Sarah Scazzi, arrivata a casa sua il 26 agosto per andare al mare con Sabrina, si reca in garage dove lui, alle prese con la sistemazione del mezzo agricolo, tenta un approccio sessuale. Rifiutato, aggredisce la nipote alle spalle e la strangola con una corda, poi porta il cadavere in campagna, lo spoglia e consuma un atto sessuale post mortem prima di gettarlo nel pozzo di contrada Mosca dove sarà ritrovato su sua indicazione.

Il 15 ottobre 2010 la nuova versione di Michele Misseri in cui, per la prima volta, accusa la figlia Sabrina: la nipote arriva a casa loro e Sabrina Misseri la porta con la forza in garage. L’obiettivo è dare una lezione alla 15enne perché non riveli le presunte attenzioni sessuali che riceve dallo zio Michele. Sabrina Misseri tiene ferma Sarah Scazzi e Michele Misseri la strangola. Lui, da solo, si disfa del corpo. Poche settimane più tardi e, nel novembre 2010, arriva un nuovo cambio di rotta: Michele Misseri dà una nuova ricostruzione del delitto di Avetrana sostenendo che Sabrina e Sarah stanno per andare al mare, ma litigano forse per la gelosia della figlia di Misseri nei confronti di un amico comune, Ivano Russo. La ragazza trascina la cuginetta in garage e la lite degenera: Sabrina Misseri strangola Sarah Scazzi con una cintura e poi sveglia suo padre, che dorme al piano superiore, affidandogli di fatto la fase atta ad occultare il cadavere. A fine novembre 2010, Michele Misseri cambia ancora registro: ritratta il presunto abuso sul cadavere e conferma le accuse a carico della figlia Sabrina, dichiarandosi responsabile della sola fase di occultamento. Dal febbraio 2011, e per tutto il processo, Michele Misseri si descriverà come solo colpevole dopo essere tornato ad autoaccusarsi dell’omicidio della nipote.

Franco Coppi. “Dopo condanne Sabrina Misseri e Cosima Serrano volevo mollare tutto…”- Silvana Palazzo su Il Sussidiario il 29.11.2022 

L’avvocato Franco Coppi rivela di aver pensato di mollare tutto dopo le condanne di Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. Su riforma Cartabia e magistratura…

 Il pm Maria Sabina Calabretta parla con l'avvocato Franco Coppi (Foto: 2021, LaPresse)

Si è sentito smarrito, al punto tale da pensare di mollare tutto, la carriera di una vita. Franco Coppi, dopo la sentenza del processo di Avetrana per l’omicidio di Sarah Scazzi, celebrato nei confronti di Sabrina Misseri e della madre Cosima Serrano, ha sentito “assai forte la tentazione di abbandonare tutto ciò che fino a quel momento aveva costituito, con l’Università, la ragione della mia vita“. L’avvocato lo mette nero su bianco nel libro “Il delitto di Avetrana” in uscita. Il legale, che ha difeso anche Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, parla a Il Giornale di “uno sconforto, uno smarrimento e quasi la paura dell’inutilità e della vanità dell’opera della difesa, mai prima provati tanto intensi e così forti da spingermi all’abbandono“, dovuto ad una “successione ininterrotta di errori, pregiudizi, falsità e di incomprensibili sentenze di condanna“.

L’avvocato continua a credere che Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano non abbiano ucciso Sarah Scazzi. “Sono così convinto dell’innocenza di queste due malcapitate che questo processo mi colpisce così dolorosamente per le pressioni mediatiche che hanno portato a una sentenza ingiusta, che non coglie la verità. È vero, la voglia di mandare tutto a quel Paese è stata molto forte“. Eppure, una revisione del processo non è all’orizzonte. “Per chiederla è necessario che ci siano nuovi fatti. Se qui non si fa avanti nessuno ad ammettere di aver detto il falso non è possibile. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea, ma è un discorso diverso dalla revisione“.

I DUBBI DI COPPI SU RIFORMA CARTABIA E MAGISTRATURA

Ma l’avvocato Franco Coppi nell’intervista a Il Giornale ha parlato anche della riforma Cartabia, su cui ha “molte perplessità“. Alla luce della sua esperienza, non crede che tale riforma “possa contare su contributi significativi alle storture della giustizia, anche perché sono così tante e tali che non si può pensare di risolverli con questo tipo di provvedimento“. Ciò che servirebbe, invece, per Coppi è una riforma dell’udienza preliminare, un istituto “fallito” che va sostituito, non ritoccato. Positivo il giudizio sull’attuale Guardasigilli Carlo Nordio: “È un magistrato di grandissima esperienza, so che affronterà il tema della giustizia con cognizione di causa. Posso solo augurargli buon lavoro“. Intanto si avvicina la nomina dei 10 membri laici del Csm da parte del Parlamento. “C’è da sperare che vengano scelte persone che siano in grado di assolvere al loro compito. Credo poco ai pronunciamenti astratti, voglio vederli all’opera“, afferma il legale. Infine, Franco Coppi non si sbilancia sul futuro della magistratura dopo i vari scandali: “Se penso a tutta una serie di magistrati che ho conosciuto sono ottimista, se penso a un’altra serie di magistrati sono pessimista“.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Anticipazione da Telelombardia giovedì 14 settembre 2023.

“Finalmente mi viene concessa la possibilità di fare la ricognizione dei reperti. Un raggio di sole è riuscito a penetrare nell'oscurità di questo grande buio. Affermare ora, se ho ancora piena fiducia nella giustizia dopo tutti questi lunghi ingiusti anni trascorsi in carcere sottratto dall'amore quotidiano dei miei poveri familiari, preferisco rispondere con estrema sincerità quando vedrò il compiere dell'evolversi di tutto. Non mi faccio abbattere dall’ingiustizia, tengo viva la speranza di credere che la giustizia ancora esiste. 

Quello che più oggi spero, che quei campioni di DNA, non siano così davvero mal custoditi come si è sentito nel dire, ma che possano essere ancora utili attraverso indagini difensive con appositi macchinari più sofisticati rispetto al passato, dato che la scienza si è molto evoluta.

Nel mio caso trovo che sia tutto altamente vergognoso ed irrispettoso che a distanza di 9 anni dal mio disumano arresto ad oggi ancora rimango allo scuro sull'esistenza di questi reperti, sul loro stato di conservazione e di come attualmente si presentano. 

Non mi faccio abbattere dell'ingiustizia che sono costretto nel subirmi quotidianamente, ma tengo vivo dentro di me la speranza di credere che la giustizia ancora esiste. La mia speranza dopo la decisione della Cassazione è quella di vedere affrettare i tempi alle indagini, sperando che non diventino biblici come da sempre lo sono, auspicando che non sia il solito rimpallo di decisioni. Penso e credo che sia doveroso garantire anche alla difesa un riscontro oggettivo sulla verità dei fatti senza lasciare nulla di intentato e di incompleto. È un sacrosanto diritto della difesa che spetta a qualunque essere umano per consentire di potersi difendere.

Per cosa io possa pensare sul caso di Erba le rispondo con estrema sincerità. Due persone che per come attraverso i media si rappresentano, a mio giudizio mai e poi mai mi fanno pensare che sono gli autori di quella atroce mattanza. Un altro caso simile al mio sul riguardo della custodia dei reperti!!! 

Purtroppo quando si finisce in questo vortice aggressivo giudiziario spetta a te con tutte le tue forze attraverso le giuste cause poterti difendere. 

L'augurio che anche a loro posso dare è quello di riuscire nel disfare il nodo della matassa, che ancora oggi a distanza di anni li tengono ingiustamente imprigionati!!!

Ci tengo a ringraziare la mia amara famiglia, che mai mi ha lasciato solo un momento, manifestandomi presenza e vicinanza quotidiana alimentando il mio cuore della loro forza. A tutti voi familiari dico di non perdere MAI le speranze e di credere sempre in me perché tutto può veramente cambiare. Vi voglio bene”.

Estratto dell’articolo di Giuliana Ubbiali per corriere.it domenica 13 agosto 2023.

Dopo quasi quattro anni, tre no del presidente della Corte d’Assise e quattro di due Assise, cinque rinvii della Cassazione, si torna all’inizio. Al «visto si autorizza» con cui, il 27 novembre 2019 e una precisazione il 2 dicembre, il presidente dell’Assise Giovanni Petillo consentì agli avvocati di Massimo Bossetti di visionare i reperti e i campioni di Dna del processo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Il 18 ottobre 2018, il muratore di Mapello è stato condannato in via definitiva all’ergastolo, ma sul materiale la disputa non è chiusa.

La nuova sentenza della Cassazione

In dieci pagine (depositate di recente) la Cassazione spiega perché, il 19 maggio, ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui l’Assise della presidente Donatella Nava respinse per la seconda volta la richiesta difensiva. Accogliendo in parte l’impugnazione degli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, ha riabilitato il provvedimento di Petillo. Non venne impugnato — è il ragionamento — quindi è «valido, vigente e intangibile». Va detto, però, che non fu notificato al pm Letizia Ruggeri.

Il presidente e la confisca

 Rimase sulla carta perché gli avvocati, il 30 aprile e il 10 giugno 2020, chiesero al presidente come e quando avrebbero potuto visionare il materiale, ma lui rispose che non era più competente perché nel frattempo, il 15 gennaio, aveva confiscato tutto su richiesta del pm  Ruggeri. Da lì si innescò la catena di ricorsi dei difensori. Per la Cassazione, però, il passaggio dal sequestro alla confisca non incide sulle richieste difensive. Da qui, il ritorno all’autorizzazione originaria. 

«Può solo vederli, ma non toccarli»

Quale è l’effetto sull’obiettivo di Bossetti di chiedere la revisione del processo? Per farlo, serve una novità rispetto alla verità cristallizzata con la sentenza definitiva. Ne manca di strada, ma dopo diversi no arriva un sì per quanto ben delimitato. L’Assise indicherà agli avvocati come accedere al materiale […]

«No nuove analisi, non c'è un quarto grado di giudizio»

La difesa impugnò le risposte del presidente sull’intervenuta incompetenza e la Cassazione rinviò la palla a Bergamo. L’Assise della presidente Nava respinse le richieste degli avvocati motivando che «la riproposizione di questioni già affrontate e risolte durante la fase della cognizione finisce per piegare lo strumento dell’incidente di esecuzione ad una funzione, non consentita, di quarto grado di giudizio con l’intento di censurare, una volta ancora, le valutazioni di merito e di legittimità già operate nel corso del processo e consacrate in un pronunciamento definitivo». 

«Alla difesa non basta»

I giudici supremi scrivono, però, che «la decisione impugnata è erronea, laddove si addentra in una valutazione di merito sulla possibilità di assentire nuove indagini scientifiche, prematura ed estranea al definitivo ambito di cognizione odierna; valutazione che deve intendersi conseguentemente caducata». Aggiungono come sia «chiaro che l’autorizzazione già in vigore, per il suo carattere circoscritto, non soddisfi le esigenze ultime dell’investigazione difensiva».

«Nuove analisi? Non ora»

Via libera anche alle analisi? No, per quanto il loro futuro «rimane impregiudicato». La Cassazione suggerisce, quasi: «Eventuali attività ulteriori (...) potranno essere, se del caso, assentite all’esito della ricognizione e sulla base del verbale che la documenterà, ove la difesa, dando impulso ad un procedimento esecutivo distinto da quello odierno, avanzi specifica e corrispondente richiesta». In quel caso, l’Assise verrà «chiamata a deliberare dopo aver valutato, alla luce della consistenza dei reperti, la concreta possibilità di nuovi accertamenti tecnici, e dopo aver valutato la loro non manifesta inutilità, secondo canoni di concretezza, specificità e astratta vantaggiosità». 

La verifica dei 54 campioni

Un altro capitolo ha ricevuto due no dell’Assise (presidente Patrizia Ingrascì). Riguarda la verifica dello stato di conservazione dei reperti, con 54 provette di Dna che dall’Istituto San Raffaele vennero trasferite all’ufficio corpi di reato. È anche oggetto di una denuncia di Bossetti per frode processuale, con il gip di Venezia che, archiviando le posizioni di Petillo e di una funzionaria, ha rimesso gli atti alla Procura per valutare l’operato del pm Ruggeri. E, su input della Procura di Bergamo, a Venezia dovrebbe esserci un fascicolo per calunnia.

Omicidio Yara: "Chi crede ancora che Bossetti sia innocente ha le idee confuse". Angela Leucci il 21 Luglio 2023 su Il Giornale.

Roberta Bruzzone e Laura Marinaro hanno scritto un libro molto esaustivo sulla vicenda criminale e giudiziaria relativa all'omicidio di Yara Gambirasio

La ricostruzione di un giallo ma senza mai perdere di vista la vittima. “Yara - Autopsia di un’indagine” di Roberta Bruzzone e Laura Marinaro è un libro che, come si evince dal titolo, parla dell’omicidio di Yara Gambirasio. Per tutte le pagine, la giovanissima vittima resta al centro di queste pagine che sono a lei dedicate. È stato scritto molto sulla vicenda, ma esiste in questo volume un innegabile punto di forza: raccontare le testimonianze così come sono avvenute in tribunale, tentare di spiegare il fenomeno per cui molte persone sono convinte oggi dell’innocenza di Massimo Giuseppe Bossetti - condannato in tre gradi di giudizio all’ergastolo - chiarire cosa abbia motivato la condanna allo stesso Bossetti.

Yara Gambirario scomparve nel pomeriggio del 26 novembre 2010 da Brembate di Sopra, dopo una breve visita nella palestra in cui era solita allenarsi. Nonostante le capillari ricerche, il suo corpo fu trovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola. Bossetti divenne indagato, imputato e condannato per via del suo Dna, rintracciato a seguito di una complessa ricerca genetica che seguì l’isolamento del profilo di Ignoto 1 su alcuni vestiti della ragazzina.

“Continuiamo a raccontare questa storia - spiega la criminologa Bruzzone a IlGiornale.it - perché ancora ci sono persone convinte che la vicenda giudiziaria abbia prodotto un errore, cosa che assolutamente non ha fatto. E ancora stiamo qui a discutere di reperti da riesaminare, ma in realtà la difesa non è mai riuscita a mettere in discussione le perizie sul Dna e ha avuto tutte le opportunità per farlo, perché 45 udienze di processo di primo grado, in larga parte dedicate al Dna, hanno ampiamente dimostrato che forse la difesa non aveva strumenti per mettere in discussione quella traccia. Abbiamo voluto raccontare questa storia attraverso le carte, attraverso i processi e attraverso anche le parole dette dai protagonisti di questa vicenda, per dare a chiunque ne abbia volontà l’opportunità di affidarsi a una fonte decisamente affidabile”.

Dottoressa Bruzzone, perché molte persone credono all’innocenza di Bossetti?

“Perché non hanno idea di quello di cui parlano, semplicemente, e si sono fatti convincere da una narrazione assolutamente priva di fondamento. Gli innocentisti sono soggetti che non posseggono strumenti culturali per affacciarsi a questo tipo di argomentazioni, che non conoscono nello specifico quello che il caso ha prodotto sia in termini di consulenze tecniche che di udienze processuali. Di conseguenza è facile convincerli di una narrazione completamente priva di fondamenti. Per credere all'innocenza di Bossetti bisogna avere poche idee molto confuse sul caso”.

Sotto il profilo criminologico, nel libro si spiega che Bossetti potrebbe rientrare tra i child molester situazionali, nella sottocategoria child molester regressivi. Di cosa si tratta?

“Si tratta di soggetti che non hanno un interesse sessuale esclusivo nei confronti dei minori, ma che conservano anche quella parte di fantasie che può emergere quando il soggetto affronta momenti di particolare criticità della sua vita normale, soprattutto quando affronta periodi di gravi problematiche a carico delle relazioni più significative. Perché io mi sono orientata in questa direzione? Perché Bossetti, proprio nella settimana in cui è maturato l’omicidio di Yara Gambirasio, aveva un problema, una criticità enorme con la moglie. Non si parlavano praticamente, c’era un problema molto serio. Circostanza confermata anche dalla moglie di Bossetti: proprio in quella settimana avevano interrotto qualunque tipo di comunicazione. Questo è certificato anche dai tabulati telefonici. Quella settimana Bossetti era particolarmente, diciamo, in difficoltà anche dal punto di vista emotivo. E a quel punto questa parte delle sue fantasie parafiliche è emersa prepotentemente”.

Avete dedicato molto spazio dettagliato a Yara Gambirasio e alla sua famiglia.

“Abbiamo voluto fortemente rimettere Yara al centro della narrazione. Sia lei, che la sua famiglia. Perché in questi anni Yara si è un po’ persa di vista, è stata fagocitata da Bossetti fondamentalmente, dai racconti su di lui, dall’attenzione su di lui. È per questo che il libro è dedicato a lei”.

Perché è stato fondamentale nelle indagini il Dna misto di vittima e aggressore e su quali indumenti è stato trovato?

“Il Dna è stato isolato in particolare sulle mutandine di Yara e sui leggings, è un profilo completo, con tutti gli indicatori, sia quelli sessuali che autosomici, e ha consentito l’individuazione di un profilo perfettamente comparabile in tutte le sue componenti. E questo non accade quasi mai dal punto di vista investigativo, perché c’era una sovrabbondanza di traccia riconducibile all’aggressore, ossia Massimo Giuseppe Bossetti. Questo ha consentito una profilazione genetica assolutamente affidabile e che infatti la difesa non è mai riuscita, neppure in maniera minimale, a scalfire”.

"Quel film non racconta di Yara, ecco gli errori che hanno condannato Bossetti"

La copertura mediatica, talvolta non esaustiva, di indagini e processi incide sulla polarizzazione dell’opinione pubblica?

“Sicuramente sì, perché alcune storie vengono raccontate in maniera parziale, giocoforza, perché chiaramente i tempi televisivi non sono gli stessi né dell’inchiesta né del processo, perciò è evidente che alcune informazioni, alcuni passaggi importanti spesso vengono in qualche modo diluiti nel racconto mediatico. E questo può far sì che qualcuno generi delle suggestioni in grado di manipolare l’opinione pubblica. Ma solitamente chi conosce i fatti, chi ha studiato approfonditamente le carte dell’inchiesta e le carte processuali, a queste suggestioni sfugge senza difficoltà”.

Una parte del libro si concentra su Marita Comi, moglie di Bossetti. Perché è importante questa figura ai fini dell’indagine e del processo?

“La figura di Marita Comi è sicuramente importante, noi l’abbiamo tratteggiata in base alle informazioni disponibili agli atti, perché ci hanno colpito alcune sue informazioni e anche alcuni suoi dubbi sul marito. Ricordo un’intercettazione in carcere, dopo l’arresto di Bossetti, in cui Marita pone domande degne di un pm incalzante. Ci è sembrata quindi una figura centrale, anche perché effettivamente la vita emotiva, psicologica, affettiva di Bossetti ruotava intorno a questa donna, che ci è parsa la figura più forte all’interno di quel nucleo famigliare. Quindi la crisi con Marita, purtroppo, ha creato, a nostro modo di vedere, i presupposti per il delitto Gambirasio”.

Caso Yara: Cassazione, la Corte d'Assise di Bergamo dovrà consentire alla difesa di Bossetti la ricognizione dei reperti. Redazione Bergamo online su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2023  

La suprema corte ha annullato l'ordinanza dei magistrati bergamaschi che avevano respinto la richiesta degli avvocati dall'uomo condannato per l'omicidio della ragazzina di Brembate Sopra

È stato accolto dalla Cassazione la richiesta della difesa di Massimo Bossetti, condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, di accedere ai reperti confiscati ai fini dello svolgimento di indagini difensive in vista dell'eventuale revisione del processo. La Cassazione l'ha accolta 

con rinvio per nuovo esame davanti alla Corte di Assise di Bergamo,  in tema di indagini difensive funzionali all'eventuale promovimento del giudizio di revisione. La Prima Sezione ha così annullato con rinvio l'ordinanza del 21 novembre 2022 della Corte d'assise di Bergamo, che, in sede di esecuzione, aveva detto di no alla richiesta degli avvocati di Bossetti.

Adesso, in seguito alla decisione emessa in Camera di Consiglio al termine di una discussione a porte chiuse, la Corte di Bergamo dovrà consentire alla difesa la ricognizione dei reperti, nei limiti già autorizzati in precedenti provvedimenti, stabilendo contestualmente le opportune cautele idonee a garantirne l'integrità. All'esito della ricognizione, se la difesa avanzerà nuova specifica richiesta, la Corte d'assise - spiegano fonti della Cassazione - dovrà valutare la concreta possibilità di nuovi accertamenti tecnici e la loro non manifesta inutilità.

IL TRAGICO DESTINO DI YARA GAMBIRASIO.

Fabio Virzì 24 giugno 2023 su nxwss.com 

Il 26 novembre 2010 non fu un giorno come gli altri. Tredici anni sono passati da quel tragico e piovoso venerdì in cui, nel piccolo comune di Brembate di Sopra, si consumò uno dei delitti più efferati della storia del nostro Paese. Perché sì, il caso di Yara Gambirasio ha tristemente legato gli italiani in una morsa di apprensione nei confronti della giovane tredicenne che mai, dall’allenamento, tornò a casa.

È difficile spiegare a chi non ha vissuto una tale tragedia in prima persona il sentimento di speranza che è stato in grado di unire milioni di connazionali dietro il piccolo schermo e che, presto, ha dovuto lasciare spazio ad un’atroce realtà. 

Di Yara, ad oggi, non se ne parla più come un tempo. L’attenzione si concentra sporadicamente intorno a possibili nuove piste che, dal nulla, hanno l’ambizione di svelare una verità spesso ritenuta manchevole. Quasi come fossero spinte da un moto di giustizia nei confronti di chi, come i genitori, una giustizia non l’ha avuta. 

Ma facciamo un passo indietro.

Gli antefatti

Yara Gambirasio è una sorridente ragazza di tredici anni, iscritta al terzo anno della scuola media “Maria Regina” di Bergamo. Residente a Brembate di Sopra, meno di ottomila anime, è lì che coltiva la sua passione nei confronti della ginnastica ritmica.

Destinata a diventare una promettente atleta, Yara si reca quasi ogni giorno presso la palestra del paese. E lo farà anche nel pomeriggio di quel maledetto 26 novembre. 

Qui rimarrà per poco più di un’ora, dalle 17:30 alle 18:40 circa, prima di entrare nella triste spirale del terrore che la porterà alla morte. Le sue tracce si perderanno infatti pochi minuti dopo l’uscita dal centro, senza che le guaste telecamere di sorveglianza riescano a catturarne un fotogramma. 

Il suo telefono, riveleranno gli inquirenti, registrerà differenti posizioni fino alle 18:55. Prima da Ponte San Pietro a Mapello – pochi chilometri distante – sino all’ultima ubicazione in via Ruggeri.

Un clamoroso tonfo

La stampa italiana mormora. Il caso di Yara è già diventato di natura nazionale e, anche ai telegiornali, non si parla d’altro. Più di 500 testimoni vengono ascoltati nei giorni successivi al rapimento, ma nessuno sarà in grado di fornire informazioni utili al caso. Bisognerà aspettare il 5 dicembre, più di una settimana, per imboccare quella che sembrava essere la strada giusta.

Invece, l’arresto di Mohamed Fikri si rivelerà un clamoroso buco nell’acqua. 

L’uomo è – al tempo dei fatti – un operaio ventiduenne, occupato presso il cantiere edile di Mapello. Proprio il luogo presso cui i cani molecolari hanno concentrato le battute degli ultimi giorni. 

Interrogato per via preliminare sul posto di lavoro, si sarebbe poi imbarcato il giorno dopo per raggiungere i familiari nel nativo Marocco.

E sarà proprio la nave il palcoscenico di un teatro del ridicolo. La Guardia Costiera arresta Fikri con l’accusa di aver rapito la piccola Yara.

Le prove a suo carico? Delle presunte intercettazioni telefoniche in arabo che, come scopriremo, sono state mal tradotte. “Allah mi perdoni, non l’ho uccisa io” è la prima delle due frasi ritenute valide dal gip Ezia Maccora per la sua incarcerazione. La stessa sarebbe poi stata seguita da un’altra invocazione sacra, “che Dio mi perdoni”.

Convalideranno il ferreo alibi di Fikri soltanto dopo diversi giorni in cella, la perdita del posto di lavoro e la gogna mediatica nata dai mass media, con l’ammissione – inoltre – di svariati errori di traduzione nelle frasi riportate.

L’imputato, nel tentativo di raggiungere telefonicamente la madre, avrebbe infatti pronunciato tutt’altro. “Allah, ti prego, fa che mi risponda” è infatti l’esortazione realmente proferita, seguita da un “che Dio mi protegga” con riguardo verso il viaggio che avrebbe dovuto affrontare.

Fikri, agli atti decretato innocente solo nel tardo 2013, verrà risarcito con soli novemila euro per i danni d’immagine riportati.

Yara: dal ritrovamento a “Ignoto 1”

Nel frattempo, esattamente tre mesi dopo e con l’ormai quasi certezza che non ci fosse alcuna speranza di rivederla in vita, gli inquirenti ritrovano il corpo di Yara. Un aeromodellista quarantottenne farà la tragica scoperta in un campo nei pressi di Chignolo d’Isola, a 10 chilometri dal luogo della scomparsa.

Gli esiti delle analisi riveleranno la presenza di un trauma cranico e di profonde ferite da arma da taglio. Il decesso sarebbe avvenuto a distanza di tempo, forse molto, a causa del freddo e delle lesioni. 

Il ventottesimo giorno di maggio sarà scelto per il funerale, celebrato dal vescovo di Bergamo e durante il quale una lettera del Presidente della Repubblica avrà modo di essere letta. Poi, per anni, il buio.

Una svolta decisiva nelle indagini si avrà tre anni dopo, il 16 giugno 2014, con l’arresto del muratore di Mapello Massimo Giuseppe Bossetti. Il suo DNA nucleare risulterà infatti quasi perfettamente sovrapponibile con quello di “Ignoto 1”, il sospettato di cui avevano individuato le cui tracce sugli indumenti di Yara. Sui suoi indumenti intimi, addirittura.

L’iter che ha portato all’identificazione del presunto omicida è stato lungo e tortuoso, come rivelato dagli inquirenti coinvolti. L’iniziale corrispondenza dell’aplotipo Y – ovvero la combinazione di più varianti alleliche lungo un cromosoma – aveva infatti portato le forze dell’ordine nella direzione di un abituale frequentatore dei locali notturni del posto, estraneo a Bossetti. 

Questi risultò sì all’oscuro dei fatti, ma fondamentale per una primaria risoluzione del caso.

Si riuscì infatti ad identificare in Giuseppe Guerinoni, autista deceduto una decina di anni prima, il padre naturale di Ignoto 1. Diverse confidenze di paese rivelarono la passione dell’uomo per le scappatelle extraconiugali, di cui una, in particolare, con Ester Arzuffi. 

La donna, tramite apposite analisi riguardanti l’allele 26, si rivelerà essere il profilo meglio compatibile con la madre dell’omicida.

Le accuse

Il patrimonio genetico di cui sopra verrà poi confrontato con quello di Bossetti, costretto all’etilometro nel corso di un normale controllo stradale, dando prova della effettiva sovrapponibilità. 

Tale pista, definita schiacciante dagli inquirenti, sarà valevole per decretare la colpevolezza del muratore. Inoltre, un presunto filmato ritraente il suo furgone nei pressi della palestra di Brembate lo inchioderebbe ulteriormente. 

Le riprese si riveleranno però un falso, create a regola d’arte dai RIS e dalla procura di Bergamo per esigenze di pubblicazione stampa. Al contempo, i legali di Bossetti contesteranno la mancanza di corrispondenza del DNA mitocondriale nelle tracce esaminate.

Quel poco che ne è stato rinvenuto nei pressi del corpo, infatti, non sarebbe risultato appartenente a Bossetti, suggerendo l’identità di un possibile altro individuo. Tale controversia verrà poi liquidata dai genetisti dell’accusa, che agli atti asseriranno fosse dovuta ad una probabile eteroplasmia della ragazza.

L’alibi promosso dai legali di Massimo Bossetti e dalla moglie, ovvero che egli si trovasse a casa la sera del delitto, non verrà ritenuto valido. Lo stesso si potrà dire per la motivazione sostenuta in merito al ritrovamento del DNA, dovuto – secondo il presunto colpevole – a dei frequenti episodi di epistassi in grado di macchiare con tracce ematiche gli attrezzi da lavoro.

A nulla serviranno le continue riluttanze dell’uomo nel confessare. O la continua insistenza dei suoi assistenti riguardo una non provata innocenza. La Procura sancirà la chiusura del caso il 26 febbraio 2015, indicando Massimo Giuseppe Bossetti come unico colpevole e condannandolo, un anno dopo, all’ergastolo tramite la Corte d’Assise.

“Ignoto 2”

Quel che però lascia attonita la nazione intera è lo strenuo pressing dei legali dell’uomo, in grado di convocare fino a 711 testimoni nel tentativo di provarne l’estraneità ai fatti. 

Qui inizierà a prender forma l’ipotesi dell’esistenza di un “Ignoto 2”, vero proprietario del patrimonio genetico mitocondriale, e di una ipotetica contaminazione delle analisi di laboratorio. Verrà contestata, inoltre, l’irripetibilità dei test del DNA.

Il processo d’Appello richiesto dalla difesa tutta comincerà nel 2017, precisamente il 30 giugno. In sede di tribunale verrà presentata la teoria dello spostamento del corpo, coadiuvata da una foto satellitare nella quale il corpo di Yara non risultava visibile, con successivo posizionamento delle tracce con l’obiettivo di incastrare Bossetti.

Prima i giudici di Brescia e, nel 2018, il terzo grado di Cassazione, negheranno tale possibilità, confermando la condanna all’ergastolo per il crimine commesso ed inserendolo in un contesto di avances a sfondo sessuale mosse nei confronti dell’adolescente.

La riapertura: la morte di Yara è forse una vendetta mafiosa?

Quanto teorizzato nel corso di quegli anni da Roberto Saviano, scrittore e giornalista, nei confronti di un possibile coinvolgimento della criminalità organizzata nella sparizione di Yara, non verrà mai preso in considerazione. Forse a causa di una ricostruzione troppo articolata.

Egli infatti ipotizzò che il gesto fosse una ritorsione della malavita nei confronti di Fulvio Gambirasio, padre della giovane nonché teste chiave di un processo nei confronti della famiglia dei Locatelli, coinvolta nel narcotraffico.

Questa, negli alti ranghi dell’impresa edile Lopav – dove peraltro Fulvio era impiegato -, era intestataria di appalti proprio nella zona di Mapello, dove si concentrarono le ricerche.

Il “caso Yara”, diventato presto “caso Bossetti” per via del vasto interesse mediatico che l’uomo riuscì a canalizzare nei suoi confronti, venne riaperto nel novembre 2019.

A motore di ciò vi fu una lettera indirizzata a Vittorio Feltri, direttore del quotidiano Libero, al quale Bossetti chiese sostegno. Dichiaratosi per l’ennesima volta innocente, l’accadimento desterà l’interesse del noto avvocato Carlo Taormina, che da cittadino privato farà istanza di riesame del patrimonio genetico.

La Corte d’Assise darà presto l’ok, consentendo ai difensori di entrare in possesso del materiale rimanente.

La prassi legale prima dell’effettiva possibilità di accedere al DNA si protrarrà fino al 2021, anno in cui, nel mese di giugno, le richieste verranno rigettate. I campioni biologici sarebbero infatti completamente esauriti, impedendo così ogni nuovo esame. 

Ai giorni nostri

Di questo fatto, citato presto in giudizio, risponderà la pm Letizia Ruggeri, indagata per frode processuale e depistaggio. La donna avrebbe richiesto, noncurante del danno che tale gesto potesse causare, lo spostamento delle 54 provette contenenti i pool genetici di vittima e accusato. L’errato modus operandi del trasferimento, durato circa due settimane ad una temperatura costante di -80°C, sarebbe stato decisivo nella degradazione dei campioni.

Arriviamo dunque ai giorni nostri, nel mese di maggio 2023. Qui, il giorno diciannove, la Prima Sezione della Cassazione ha accolto il ricorso presentato dagli avvocati difensori, autorizzando il rinvio per un nuovo esame degli elementi chiave del processo.

Ad oggi, però, tutto tace.

Conclusione

Diverse sono le ombre che questo caso, seppur a distanza di tredici anni, ancora cela. Altrettante, invece, le ambiguità che ancora caratterizzano la figura di Massimo Bossetti.

L’uomo fu infatti accusato, nell’ormai lontano 2014, di aver consultato siti web riguardanti la pornografia infantile, e alcune delle sue ricerche sembravano aver confermato ciò. E questo fu creduto fino al 2016, quando il suo consulente informatico di riferimento dimostrò l’inattendibilità delle accuse, confermando sì la visione di filmati dal carattere pornografico, ma nel pieno rispetto della legge e di quanto un normale motore di ricerca possa offrire.

Come non pensare, inoltre, alle tracce di polvere di calce trovate all’interno dei polmoni di Yara, in grado di suggerire una stretta vicinanza avuta nell’ultimo periodo trascorso in vita con chi, nel quotidiano, si occupava proprio di calce e mattoni.

Tutto parrebbe indirizzare a quel muratore, di ormai 53 anni, che da quasi due lustri si trova in carcere. Troppe sono le prove a suo carico.

Ma allora perché, ad oramai dieci anni di distanza, Massimo Giuseppe Bossetti non ha mai confessato?

Scritto da Fabio Virzì

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Lo stesso principio, si presume, valga per l'autore del contenuto.

LETTERA DI MASSIMO BOSSETTI A “ICEBERG – TELELOMBARDIA”. Da “Telelombardia” il 26 gennaio 2023.

Buongiorno dott. OLIVA,

 chi è quel pazzo che chiede insistentemente di poter ripetere l’esame del DNA se fosse coinvolto in un omicidio dove le proprie responsabilità gli si schiaccerebbero addosso come pietre tombali???

 E’ dal giorno del mio arresto, vergognoso e disumano, che chiesi con insistenza durante ore e ore di stressanti interrogatori di poter ripetere questo esame di un dato risultato essere monco e non certo sulla mia appartenenza.

Lo chiesi ripetutamente durante tutte le fasi processuali implorando, supplicando, chiedendolo in ginocchio fino alla sentenza, ma MAI e poi MAI, che venissi preso una sola volta in considerazione e concesso nel farlo, rispondendomi solo che il materiale in questione era stato tutto consumato nel corso delle varie consulenze e ritenuto pacificamente INESISTENTE!!

Ora URLO, perché dovermi negare un’evidenza quando TUTTI ne erano ben consapevoli sull’esistenza di questo DNA, dove pure gli stessi consulenti dell’accusa affermano che esiste in “Grande quantità e in Abbondanza” per essere ripetuto, essendo stato mantenuto protetto e garantito al San Raffaele?

Mi chiedo, perché doverlo asportare da dove era ben custodito in appositi congelatori, la quale garantivano l’efficacia e l’integrità del materiale ad una temperatura costante di meno 80 gradi, per poi essere trasferito all’ufficio Corpo di reato adagiandolo sopra uno scaffale in scatole di cartone ad una temperatura ambiente, pur nella consapevolezza che tale ufficio ne fosse sprovvisto di strutture idonee alla corretta conservazione, affinché, potesse restare idoneo e garantito per un’eventuale accertamento sull’esame se proprio non si avesse avuto nulla da temere???

A maggior ragione, decidendo di interrompere la catena del freddo, al fronte di un provvedimento emesso da un Giudice, che ne vieta sia la restituzione, sia  la distruzione di tutto il materiale in sequestro! NESSUNO avrebbe dovuto provocare la distruzione dei campioni in sequestro se non c’è un provvedimento emesso da un giudice che lo attesti!! Tutto questo assurdo atteggiamento, lo trovo inappropriato, inopportuno e imperdonabile!!

(ANSA il 29 Dicembre 2022) - Per uno dei legali di Massimo Bossetti, condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa da Brembate sopra il 26 novembre del 2010 e trovata uccisa in un campo a poco distanza tre mesi dopo, la decisione del gip di Venezia - che ha disposto la trasmissione degli atti perché indaghi sulla pm dei processo bergamasco Letizia Ruggeri, "i reperti sotto sequestro non possono essere distrutti senza provvedimento di autorizzazione di un giudice e qualcuno lo fa commette un reato". 

 "Da garantista come sono non posso che esserlo anche ora - afferma l'avvocato Claudio Salvagni -. Aspettiamo le decisioni del Pm di Venezia. Resta un dato oggettivo: i reperti sotto sequestro non possono essere distrutti senza provvedimento di autorizzazione di un giudice e qualcuno lo fa commette un reato". "Il gip - prosegue l'avvocato - ci ha detto col proprio provvedimento che purtroppo i 54 campioni di Dna utilizzati proprio per arrivare alla identificazione di Ignoto 1 e poi indispensabili per la condanna di Massimo Bossetti sono stati distrutti. Ora occorre individuare le responsabilità"

(ANSA il 29 Dicembre 2022) La trasmissione degli atti alla Procura perché proceda all'iscrizione nel Registro degli indagati del pm del caso Yara ,Letizia Ruggeri, che non era mai stata indagata, per il gip è l'unico "provvedimento adottabile" al termine dell'udienza di opposizione all'archiviazione per il presidente del Corte d'Assiste di Bergamo e di una cancelliera. 

Questo a fronte di una "denunzia querela e in un atto di opposizione" presentato dai legali di Bossetti Claudio Salvagni e Paolo Camporini "in buon parte indirizzati nei riguardi proprio" del pm che condusse le indagini e sostenne l'accusa nel processo a Bergamo che portò la condanna all'ergastolo di Bossetti. 

La trasmissione degli atti al pm di Venezia per procedere all'iscrizione serve per "permettere al pm una compiuta valutazione anche della sua posizione in relazione a tutte le doglianze dell'opponente" che richiedono "un necessario approfondimento", sia al fine di permettere alla stessa un'adeguata difesa". Sono invece archiviate le posizioni del presidente della Core d'Assise Giovanni Petillo e della cancelleria della Corte d'assise di Bergamo.

(ANSA il 29 Dicembre 2022) Il Procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani resta "francamente sorpreso che dopo tre gradi di giudizio, dopo sette rigetti dei giudici di Bergamo sia all'analisi che alla verifica dello stato di conservazione dei reparti e dei campioni residui di dna" vi sia stata l'iscrizione nel Registro degli indagati del pm del caso Yara Letizia Ruggeri, disposta del gip di Venezia. 

Sorpreso, spiega il magistrato, che ha appreso la notizia da organi di stampa, che "si imputi ora al pm il depistaggio riguardo la conservazione delle provette dei residui organici", dopo che "nei tre gradi di giudizio era stata respinta la richiesta difensiva di una perizia sul Dna, dopo la definitività della sentenza sopravvenuta nell'ottobre 2018 che ha accertato la colpevolezza dell'autore dell'omicidio di Yara, e dopo che era passato più di un anno da tale definitività".

I 54 residui organici, erano "rimasti regolarmente crio-conservati in una cella frigorifera dell'istituto San Raffaele fino a novembre 2019, quindi oltre un anno dopo il passaggio in giudicato della sentenza della condanna, e solo successivamente confiscati come prevede il Codice di procedura", ricorda il capo della Procura orobica. 

"Il provvedimento di Venezia arriva dopo che per altre due volte la Corte d'Assise di Bergamo aveva negato ai difensori l'accesso a tali provette e dopo che la procura di Venezia aveva chiesto l'archiviazione della posizione del presidente della Corte d'Assise di Bergamo e di una cancelliera a seguito della denuncia per depistaggio, e dopo che la Corte d'Assise di Bergamo aveva disposto la trasmissione degli atti a Venezia per la valutazione delle accuse di illegalità che la difesa di Bossetti aveva avanzato nei confronti della Procura di Bergamo - conclude Chiappani -. Mi pare di capire che vi sia stata una specifica richiesta al gip di trasmissione atti alla Procura di Venezia da parte della difesa di Bossetti contro il pm Letizia Ruggeri.

E quindi il provvedimento del gip possa inserirsi nel quadro di questa nuova denuncia. Sono fiducioso che in sede di indagini emergerà la correttezza dei comportamenti tenuti dalla collega".

Yara Gambirasio, perché la pm è sotto indagine. II caso del Dna compromesso. Il Tempo il 29 dicembre 2022

Il gip di Venezia Alberto Scaramuzza ha iscritto nel registro degli indagati la pm di Bergamo Letizia Ruggeri, che ha condotto le indagini e l’accusa sul caso di Yara Gambirasio, con l’accusa di depistaggio. Nell’ordinanza, il gip specifica che Ruggeri non è mai stata iscritta nel registro degli indagati prima, ma che ora si richiede la sua iscrizione «al fine di permette al pm una compiuta valutazione» e un «necessario approfondimento» sulle sue azioni. L’accusa riguarda i campioni di Dna utilizzati nel processo per la morte della ragazzina per cui è stato condannato all’ergastolo Massimo Bossetti. Si tratta dei 54 campioni di Dna da cui è stato estratto il dna di Ignoto 1. Archiviate invece le posizioni di Giovanni Petillo, presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, e di Epis Laura responsabile dell’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo.

 «Il pm Letizia Ruggeri non poteva distruggere i reperti, questo è un fatto oggettivo, e se lo ha fatto ha commesso una cosa gravissima. Il gip di Venezia ha deciso che deve essere iscritta per depistaggio e io resto in attesa di quello che deciderà la procura veneta», afferma all’Adnkronos Claudio Salvagni difensore di Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio della 13enne di Brembate dopo che il gip Alberto Scaramuzza ha ordinato la trasmissione degli atti al pm veneziano perché proceda all’iscrizione del magistrato che ha rappresentato la pubblica accusa nel processo di primo grado sull’omicidio di Yara Gambirasio. La questione su cui si è pronunciato il tribunale di Venezia (competente sui magistrati di Bergamo) riguarda le 54 provette contenenti la traccia biologica mista di vittima e carnefice, spostati dal frigorifero dell’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo. Per Salvagni, quel cambio di destinazione, interrompendo la catena del freddo (i campioni erano conservati a 80 gradi sottozero) potrebbe aver deteriorato il Dna rendendo vano qualsiasi eventuale tentativo di nuove analisi.

Omicidio di Yara Gambirasio, indagata la pm: reperti del Dna di Bossetti e l’ipotesi del depistaggio. Giuliana Ubbiali su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Venezia, la decisione del gip: Letizia Ruggeri indagata. La Procura di Bergamo: «Siamo fiduciosi che emergerà la correttezza dei comportamenti»

Il sigillo alla condanna di Massimo Bossetti è stato messo ormai quattro anni fa, nell’ottobre del 2018, con il verdetto della Cassazione. Ergastolo definitivo, per l’omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate Sopra, commesso il 26 novembre 2010. Il carpentiere di Mapello è in carcere (da tempo a Bollate) da 3.119 giorni e dovrà rimanerci. A meno che non trovi un valido motivo per chiedere la revisione del processo. Ed è nell’ambito della ricerca di un pertugio da parte dei suoi difensori, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che ora verrà indagata la pm Letizia Ruggeri.

Sul caso della conservazione di 54 campioni di Dna, residui dell’indagine, dopo le sentenze di condanna, il gip di Venezia Alberto Scaramuzza ha trasmesso gli atti alla procura per iscriverla nel registro degli indagati, per frode processuale e depistaggio.

È il seguito dell’archiviazione, con le stesse ipotesi, per il presidente della Corte d’Assise di Bergamo Giovanni Petillo e della funzionaria dell’ufficio corpi di reato Laura Epis. Bossetti li denunciò, mettendo in dubbio la corretta conservazione del Dna nel passaggio dall’Istituto San Raffaele di Milano al tribunale di Bergamo. È da escludere che siano state mantenute le stesse condizioni termiche sotto zero. Opponendosi all’archiviazione dei due indagati, gli avvocati di Bossetti hanno chiamato in causa la pm Ruggeri: fu sua l’iniziativa di trasferire i campioni, a dicembre 2019, con la confisca avvenuta a gennaio.

Il gip ha deciso: «Posto che, a fronte di una denunzia-querela e di un atto di opposizione di parte offesa, in buona parte indirizzati nei riguardi proprio di comportamenti del pm Ruggeri Letizia, si impone la necessità di un’estensione soggettiva dell’iscrizione nei suoi confronti». Questo, si legge sempre nel provvedimento, «al fine di permettere al pm una compiuta valutazione anche della sua posizione in relazione a tutte le doglianze dell’opponente, che, per come sopra elencate e precisate richiedono un necessario approfondimento, sia al fine di permettere alla stessa un’adeguata difesa».

Ragionando per ipotesi, un’eventuale sentenza sul Dna residuo mal conservato, inciderebbe sulla richiesta di revisione del processo? Tre Corti d’Assise hanno riconosciuto la validità delle analisi genetiche e respinto la richiesta difensiva di perizia, sette giudici di Bergamo, nei rimpalli con la Cassazione, hanno negato l’analisi e la verifica dei reperti e dei campioni confiscati. E per ottenere la revisione servono nuove prove. «La decisione del gip è importante perché significa riconoscere che i campioni di Dna sono buoni e non si possono distruggere», commenta Salvagni. Ha comunicato l’esito via mail a Bossetti, che ha avuto il permesso extra di telefonargli.

«Resto francamente sorpreso», reagisce il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani richiamando la sentenza definitiva e i rigetti, e ricordando che i campioni residui erano «rimasti regolarmente crio conservati in una cella frigorifera dell’Istituto San Raffaele fino a novembre 2019, quindi oltre un anno dopo il passaggio in giudicato della condanna, e solo successivamente confiscati come prevede il codice di procedura».

C’è un’altra partita aperta «dopo che la Corte d’Assise di Bergamo aveva disposto la trasmissione degli atti a Venezia per la valutazione delle accuse di illegalità che la difesa di Bossetti aveva avanzato nei confronti della Procura di Bergamo — ricorda quindi Chiappani —. Sono fiducioso che in sede di indagini emergerà la correttezza dei comportamenti tenuti dalla collega».

Massimo Bossetti e il delitto di Yara, il procuratore: «Tre sentenze chiare. Nulla da nascondere». Storia di Giuliana Ubbiali su Il Corriere della Sera il 30 dicembre 2022.

Jeans, felpa e zainetto, il pm Letizia Ruggeri ieri mattina era al lavoro con un certo via vai di colleghi dal suo ufficio. Saluta con cortesia, ma non rilascia commenti sulla decisione del gip di Venezia di trasmettere gli atti alla Procura perché la indaghi, per frode processuale e depistaggio. Sollecitato dalle doglianze degli avvocati di Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, quattro anni fa, il gip ha disposto che vengano valutate eventuali responsabilità sullo stato di conservazione di 54 provette di Dna trasferite dall’Istituto San Raffaele di Milano all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo.

Ruggeri non si esprime, parla per lei il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani. Non sulla decisione di Venezia, più in generale sulla vicenda Bossetti e Dna. «Non riesco a capire che incidenza possano avere le 54 provette di materiale biologico residuo ma già ampiamente analizzato e consumato, a fronte di tre sentenze che hanno confermato la colpevolezza di Bossetti. E, in particolare, con le analisi del Ris di Parma avvalorate dai consulenti, utilizzando anche kit diversi, che hanno comprovato la presenza fino a 28 marcatori del Dna di Ignoto 1 sugli indumenti intimi di Yara. Ventotto quando, nel 2012, ne bastavano 21». Ignoto 1 venne ribattezzato Bossetti dopo tre anni e mezzo di indagini. «La comparazione dei due Dna non è stata messa in discussione», aggiunge il procuratore.

L’excursus del procuratore è per arrivare al punto: «Faccio queste precisazioni per dire che non vi era alcun interesse della Procura a nascondere le provette, già ampiamente analizzate oggetto di plurime udienze in Corte d’assise». Su quei 54 campioni si incrociano due fascicoli opposti. Uno, appunto, è quello che vedrà indagato il pm Ruggeri dopo l’archiviazione del presidente della Corte d’assise Giovanni Petillo, che firmò la confisca, e della funzionaria dell’ufficio Corpi di reato dove sono depositati reperti e campioni. Opponendosi all’archiviazione, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno indicato (presunte) responsabilità della Ruggeri sull’interruzione della catena del freddo nella custodia del Dna residuo. «Queste provette sono state crio conservate nei laboratori del San Raffaele dal 28 febbraio 2013 al 21 novembre 2019 — ripercorre Chiappani —, quando sono state trasferite in applicazione del quarto comma dell’articolo 262 del codice di procedura penale». Che recita: dopo la sentenza non più soggetta a impugnazione le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia diritto, salvo che sia disposta la confisca. Ruggeri chiede al tribunale di depositare reperti e Dna già a marzo 2019, poi la confisca il 2 dicembre, quando i carabinieri consegnano i campioni ritirati pochi giorni prima; il giudice la dispone il 15 gennaio 2020. «Mi chiedo quale norma imponga il mantenimento dei reperti di indagine all’infinito, dopo il passaggio in giudicato di una sentenza», dice Chiappani.

C’è un altro fascicolo — si presume — a Venezia, stavolta su richiesta del procuratore. Ci fu tensione in quell’udienza a porte chiuse, in Corte d’assise. Si discuteva della richiesta (respinta) degli avvocati di Bossetti di accedere al materiale confiscato. «Ho chiesto la trasmissione degli atti a Venezia a tutela della reputazione e della correttezza della Procura, perché si valutino le accuse indicate nella memoria della difesa di aver sottratto i 54 campioni. Erano al San Raffaele, come già emerso in udienza nel 2015. Gli atti sono stati trasmessi». C’è un dato «positivo», almeno: «Ho visto la vicinanza alla dottoressa da parte dei colleghi. Ma questa cosa capita in un momento di disagio per la grande assenza di personale, abbiamo 8 cancellieri per 16 pm, e dobbiamo preparare tutte le incombenze della riforma Cartabia»

Caso Yara, la pm Letizia Ruggeri indagata a Venezia: "Depistaggio sul Dna di Bossetti". Il caso dei 54 reperti di Dna 'rovinati'- a cura della redazione Milano su La Repubblica il 29 Dicembre 2022.

La vicenda riguarda la conservazione di reperti dell'inchiesta che ha portato all'ergastolo del muratore di Mapello. Il procuratore di Bergamo: "Sorpreso, ma emergerà la correttezza della collega"

Il gip di Venezia Alberto Scaramuzza ha disposto l'iscrizione nel registro degli indagati per frode processuale o depistaggio per la pm del caso Yara Gambirasio, Letizia Ruggeri.

La vicenda riguarda la conservazione di reperti dell'inchiesta che ha portato alla condanna all'ergastolo di Massimo Bossetti. La nuova inchiesta arriva 12 anni dopo la morte della tredicenne di Brembate di Sopra e a quattro dalla condanna definitiva all’ergastolo di Bossetti.

La questione su cui si è pronunciato il tribunale di Venezia (competente sui magistrati di Bergamo) riguarda 54 provette contenenti traccia biologica mista di vittima e carnefice, spostati dal frigorifero dell'ospedale San Raffaele di Milano all'ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo. Un trasferimento che è durato 12 giorni e che - secondo i difensori di Bossetti - interrompendo la catena del freddo (i campioni erano conservati a 80 gradi sottozero) potrebbe aver deteriorato il Dna rendendo vano qualsiasi eventuale tentativo di nuove analisi. 

"Il pm Letizia Ruggeri non poteva distruggere i reperti, questo è un fatto oggettivo, e se lo ha fatto ha commesso una cosa gravissima", commenta Claudio Salvagni, difensore di Bossetti insieme a Paolo Camporini. 

Caso Yara, la procura di Venezia e la nuova inchiesta

La decisione dell'iscrizione nel registro degli indagati di Letizia Ruggeri nasce da un procedimento a Venezia (competente sui magistrati di Bergamo) in cui la pm non era direttamente coinvolta. Indagati erano il presidente della corte d'Assise Giovanni Petillo e di una cancelleria della corte d'Assise di Bergamo, Laura Epis, le cui posizioni ora sono archiviate. La posizione di Petillo ed Epis è stata archiviata perché secondo il tribunale di Venezia né le verifiche né i testimoni hanno fatto emergere la prova che, da parte degli indagati, ci sia mai stata la volontà di distruggere o danneggiare quei campioni di Dna.

Ma nell'udienza di opposizione all'archiviazione dei due indagati i legali di Bossetti hanno presentato un atto di 70 pagine che sostanzialmente rivendica il fatto che quelle provette non potevano essere spostate e per farlo mette in fila una serie di date, a partire dal 27 novembre 2019 quando la difesa ottiene l'accesso ai campioni di Dna, ma non sa che il pm Ruggeri ha già chiesto di spostare le provette: il 21 novembre i campioni vengono tolti dal frigo e consegnati ai carabinieri di Bergamo. Raggiungeranno il tribunale il 2 dicembre 2019.

La trasmissione degli atti alla Procura perché proceda all'iscrizione nel registro degli indagati della pm Ruggeri, che non era mai stata indagata, per il gip è l'unico "provvedimento adottabile" a fronte di una "denunzia-querela e in un atto di opposizione in buon parte indirizzati nei riguardi proprio" della pm che condusse le indagini e sostenne l'accusa nel processo a Bergamo che portò la condanna all'ergastolo di Bossetti.

La trasmissione degli atti al pm di Venezia per procedere all'iscrizione serve per "permettere al pm una compiuta valutazione anche della sua posizione in relazione a tutte le doglianze dell'opponente" che richiedono "un necessario approfondimento, sia al fine di permettere alla stessa un'adeguata difesa".

Caso Yara, il procuratore di Bergamo: "Sorpreso, dopo tre gradi di giudizio"

Il procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani resta "francamente sorpreso che dopo tre gradi di giudizio, dopo sette rigetti dei giudici di Bergamo sia all'analisi che alla verifica dello stato di conservazione dei reperti e dei campioni residui di dna" vi sia stata l'iscrizione nel registro degli indagati di Letizia Ruggeri.

Sorpreso, spiega il magistrato, che ha appreso la notizia da organi di stampa, che "si imputi ora al pm il depistaggio riguardo la conservazione delle provette dei residui organici", dopo che "nei tre gradi di giudizio era stata respinta la richiesta difensiva di una perizia sul Dna, dopo la definitività della sentenza sopravvenuta nell'ottobre 2018 che ha accertato la colpevolezza dell'autore dell'omicidio di Yara, e dopo che era passato più di un anno da tale definitività".

I 54 residui organici, erano "rimasti regolarmente crio-conservati in una cella frigorifera dell'istituto San Raffaele fino a novembre 2019, quindi oltre un anno dopo il passaggio in giudicato della sentenza della condanna, e solo successivamente confiscati come prevede il Codice di procedura", ricorda il capo della procura di Bergamo.

"Il provvedimento di Venezia arriva dopo che per altre due volte la corte d'Assise di Bergamo aveva negato ai difensori l'accesso a tali provette e dopo che la procura di Venezia aveva chiesto l'archiviazione della posizione del presidente della corte d'Assise di Bergamo e di una cancelliera a seguito della denuncia per depistaggio, e dopo che la corte d'Assise di Bergamo aveva disposto la trasmissione degli atti a Venezia per la valutazione delle accuse di illegalità che la difesa di Bossetti aveva avanzato nei confronti della Procura di Bergamo - conclude Chiappani -. Mi pare di capire che vi sia stata una specifica richiesta al gip di trasmissione atti alla Procura di Venezia da parte della difesa di Bossetti contro il pm Letizia Ruggeri. E quindi il provvedimento del gip possa inserirsi nel quadro di questa nuova denuncia. Sono fiducioso che in sede di indagini emergerà la correttezza dei comportamenti tenuti dalla collega".

La difesa di Bossetti: "La procura di Bergamo si arrampica sugli specchi"

"Il procuratore di Bergamo - attacca Salvagni - si arrampica sugli specchi: cita sentenze e il trascorrere degli anni che nulla hanno a che vedere con la destinazione dei reperti che possono essere distrutti solo se lo dispone la sentenza o il giudice dell'esecuzione, non certamente il pubblico ministero. Il procuratore cita la confisca dei reperti, ma si dimentica che è del 15 gennaio del 2020 mentre le provette sono state spostate il 2 dicembre del 2019, con ciò determinandone la distruzione, in epoca precedente la confisca". Ora quel trasferimento da Milano a Bergamo potrebbe costare caro al pm Ruggeri.

"Massimo Bossetti è in carcere senza aver mai esaminato la prova che lo tiene dietro le sbarre, nonostante la corte d'Assise di Bergamo ci avesse autorizzato a visionare i reperti. Questi sono i fatti", conclude Salvagni.

Estratto dell’articolo di Andrea Siravo per “la Stampa” il 30 dicembre 2022. 

Solo all'apparenza, un colpo di scena l'iscrizione nel registro degli indagati del pm del caso Yara Gambirasio ordinata dal gip di Venezia con le accuse di frode processuale e depistaggio. È lo stesso giudice a parlare di «unico provvedimento» da lui «adottabile» a fronte di una «denunzia-querela e in un atto di opposizione» presentato dagli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, legali di Massimo Bossetti.

Per loro la pm Letizia Ruggeri non avrebbe garantito una corretta conservazione dei 54 campioni di Dna rinvenuti sulla tredicenne di Brembate spostati nel novembre 2019 dal frigorifero dell'ospedale San Raffaele di Milano all'ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo. 

Un cambio di destinazione, che interrompendo la catena del freddo (i campioni erano conservati a 80 gradi sottozero), potrebbe - secondo la loro tesi - aver deteriorato il materiale genetico rendendo vano qualsiasi eventuale tentativo di nuove analisi. Tutto avvenuto oltre un anno dopo il passaggio in giudicato della sentenza che ha condannato all'ergastolo il muratore di Mapello come unico colpevole della morte di Yara, avvenuta il 26 novembre 2010.

[…] Spetterà […] al pm Ruggeri, ora, dimostrare di aver agito in maniera corretta. In sua difesa è già intervenuto il suo capo Antonio Chiappani, procuratore della Repubblica di Bergamo, rimasto «francamente sorpreso» dalla decisione del gip veneto. In particolar modo, dal fatto che «si imputi ora al pm il depistaggio», dopo che «nei tre gradi di giudizio era stata respinta la richiesta difensiva di una perizia sul Dna, dopo la definitività della sentenza sopravvenuta nell'ottobre 2018 che ha accertato la colpevolezza dell'autore dell'omicidio di Yara, e dopo che era passato più di un anno da tale definitività». […]

Estratto dell’articolo di Giuliana Ubbiali per il “Corriere della Sera” il 30 dicembre 2022. 

Il sigillo alla condanna di Massimo Bossetti è stato messo ormai quattro anni fa, nell'ottobre del 2018, con il verdetto della Cassazione. Ergastolo definitivo, per l'omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate Sopra, commesso il 26 novembre 2010. Il carpentiere di Mapello è in carcere (da tempo a Bollate) da 3.119 giorni e dovrà rimanerci. A meno che non trovi un valido motivo per chiedere la revisione del processo.

Ed è nell'ambito della ricerca di un pertugio da parte dei suoi difensori, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che ora verrà indagata la pm Letizia Ruggeri Sul caso della conservazione di 54 campioni di Dna, residui dell'indagine, dopo le sentenze di condanna, il gip di Venezia Alberto Scaramuzza ha trasmesso gli atti alla Procura per iscriverla nel registro degli indagati, per frode processuale e depistaggio. 

È il seguito dell'archiviazione, con le stesse ipotesi, per il presidente della Corte d'assise di Bergamo Giovanni Petillo e della funzionaria dell'ufficio corpi di reato Laura Epis. Bossetti li denunciò, mettendo in dubbio la corretta conservazione del Dna nel passaggio dall'Istituto San Raffaele di Milano al Tribunale di Bergamo. È da escludere che siano state mantenute le stesse condizioni termiche sotto zero. 

Opponendosi all'archiviazione dei due indagati, gli avvocati di Bossetti hanno chiamato in causa la pm Ruggeri: fu sua l'iniziativa di trasferire i campioni, a dicembre 2019, con la confisca avvenuta a gennaio. […] Ragionando per ipotesi, un'eventuale sentenza sul Dna residuo mal conservato, inciderebbe sulla richiesta di revisione del processo? 

Tre Corti d'assise hanno riconosciuto la validità delle analisi genetiche e respinto la richiesta difensiva di perizia, sette giudici di Bergamo, nei rimpalli con la Cassazione, hanno negato l'analisi e la verifica dei reperti e dei campioni confiscati. E per ottenere la revisione servono nuove prove. […] 

"Depistaggio sul dna di Bossetti". Ora il gip indaga il pm del caso Yara. La conservazione dei campioni di dna sul corpo di Yara Gambirasio al centro di un'indagine: stavolta si indaga sulla posizione del pm del caso Letizia Ruggeri. Angela Leucci il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Un’indagine volta ad attribuire eventuali responsabilità nella malaconservazione dei campioni di Dna sul corpo e i vestiti di Yara Gambirasio. Il gip di Venezia Alberto Scaramuzza ha chiesto l'iscrizione nel registro degli indagati del pm del caso, Letizia Ruggeri, in modo da valutare un eventuale depistaggio da parte del magistrato. L'iscrizione avviene a conclusione dell'udienza di opposizione all'archiviazione presentata dai legali di Massimo Bossetti del presidente della Corte d'assise di Bergamo e di una cancelliera. Frode processuale e depistaggio sono le accuse con cui il gip ha disposto l'iscrizione nel registro degli indagati per la Ruggeri.

I campioni

Erano 54 i campioni di dna rinvenuti su alcuni indumenti e sul corpo di Yara al suo ritrovamento mesi dopo la scomparsa e la morte. In questi campioni di Dna era contenuto il codice genetico di Ignoto 1: attraverso una ricerca di Dna senza precedenti, con un grande sforzo solidale da parte di persone che si sottoposero volontariamente al test, si risalì a Massimo Bossetti, successivamente condannato per l’omicidio della 13enne di Brembate di Sopra.

I reperti furono spostati dalle celle dell’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo: secondo i legali di Bossetti, in testa Claudio Salvagni, il trasporto avrebbe interrotto la catena del freddo, rendendo i campioni inutilizzabili in vista di eventuali nuove analisi.

La difesa di Bossetti chiese l’accesso alle provette il 26 novembre 2019, dopo la conferma della condanna in Cassazione. Ma non sa che il 21 novembre dello stesso anno i campioni aveva già lasciato Milano per raggiungere Bergamo dodici giorni dopo, il 2 dicembre, su richiesta della stessa Ruggeri. Al vaglio ora quindi ci sarà la buona fede del pm.

Gli atti di Scaramuzza

Negli atti si chiede l’iscrizione nel registro degli indagati di Ruggeri, a seguito della querela e dell’atto di opposizione presentati da Bossetti, “in buona parte indirizzati nei riguardi proprio di comportamenti del pm Letizia Ruggeri si impone la necessità di un’estensione soggettiva dell'iscrizione nei suoi confronti”.

Yara e il killer "al di là di ogni ragionevole dubbio"

Il reato ipotizzato è frode in processo penale e depistaggio che è regolato dall’articolo 375 del codice penale e punito da 3 a 8 anni di carcere, e mira a colpire chi “immuta artificiosamente il corpo del reato ovvero lo stato dei luoghi, delle cose o delle persone connessi al reato”.

Quindi da un lato viene ordinata l’archiviazione delle posizioni di Giovanni Petillo e Laura Epis, presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo e funzionaria responsabile dell'Ufficio corpi di reato, precedentemente indagati per la conservazione dei campioni, e si vuole “permettere al pm (Ruggeri, ndr) una compiuta valutazione anche della sua posizione in relazione a tutte le doglianze dell'opponente, che richiedono un necessario approfondimento, sia al fine di permettere alla stessa un’adeguata difesa”.

Bossetti, i Ris contro la pm "Dna nei reperti rovinati". Lo stupore della Ruggeri in Procura a Venezia: "Quel materiale non si poteva più utilizzare". Luca Fazzo il 31 Dicembre 2022 su Il Giornale.

«Io sono abbastanza meravigliata. La parte residuale che era rimasta in quelle provette erano quasi tutte muffe, rimasugli, materiale scadente...». Letizia Ruggeri, il pubblico ministero che ha dedicato anni di vita a scoprire l'assassino di Yara Gambirasio, ieri non parla, non commenta la notizia che la vede iscritta nel registri degli indagati per depistaggio e frode processuale. Per lei parlano però, negli atti dell'inchiesta, le dichiarazioni che ha fatto quando è stata convocata dalla Procura di Venezia che indagava in seguito alla denuncia dei legali di Massimo Bossetti: l'uomo che una sentenza ormai definitiva considera, aldilà di ogni ragionevole dubbio, l'assassino nel 2010 di Yara Gambirasio. E che dalla cella dove sconta l'ergastolo continua a protestare la propria innocenza.

L'accusa contro la Ruggeri ruota tutta intorno alle 54 provette con il Dna dell'assassino di Yara, «Ignoto 1», conservate a meno 80 gradi al San Raffaele di Milano e spostate nel 2019, su ordine della pm, in tribunale a Bergamo, a temperatura ambiente, nonostante i carabinieri avessero avvisato la Ruggeri che si sarebbe danneggiata la conservazione. Per i difensori, la Ruggeri fece apposta, per impedire nuove analisi, più moderne, che avrebbero potuto scagionare Bossetti. Così nella nuova inchiesta di Venezia tutto ruota intorno a una sola domanda: cosa c'era davvero, nelle provette conservate nell'ospedale milanese?

Qui le carte raccontano di due verità opposte, inconciliabili. Nel suo interrogatorio, quando si proclama «abbastanza meravigliata», la Ruggeri viene chiamata a replicare non alle tesi dei legali di Bossetti ma alle dichiarazioni di due uomini che hanno lavorato all'inchiesta al suo fianco: il comandante dei Ris Giampietro Lago e il genetista Giorgio Casari. Sono stati loro a mettere a verbale che nelle 54 provette c'era materiale più che sufficiente per sequenziare di nuovo il Dna, spazzando via ogni dubbio. Come dice alla Ruggeri il pm d'Ippolito: «Io le contesto che il professor Casari e il colonnello Lago hanno qui detto, da me interrogati, che l'esame era assolutamente ripetibile e che c'era del Dna sufficiente per poter effettuare una nuova comparazione e vedere se quel Dna era effettivamente oppure no il Dna di Bossetti. Hanno detto assolutamente sì", si sono espressi in termini di assoluta certezza». La Ruggeri risponde secca, «ho tutti i verbali del processo in cui è emersa una cosa completamente diversa, il materiale era inidoneo per qualsiasi altra comparazione». E conclude: «Il Dna di Bossetti, così bello, così limpido, di cui abbiamo parlato per tutte queste udienze, così inequivocabile, da quei reperti non verrà mai più fuori».

Sono, come si vede, due versioni opposte che arrivano da fronti in teoria alleati. In questa spaccatura si infila la difesa di Bossetti, che accusa la pm bergamasca di avere «con coscienza e volontà» fatto spostare le provette «con l'evidente finalità di sottrarrei i reperti alle indagini e di chiudere definitivamente la partita processuale». Ora, a cercare di fare luce, l'indagine veneziana.

Estratto dell’articolo di Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 30 dicembre 2022.

Letizia Ruggeri, il pm di Bergamo che ha lottato per trovare l'assassino di Yara Gambirasio, deve essere indagata per depistaggio in merito alla presunta e non corretta conservazione dei 54 campioni di Dna rinvenuti sul corpo della 13enne di Brembate e che la difesa di Massimo Bossetti chiede da tempo di potere analizzare. Lo ha stabilito il gip di Venezia Alberto Scaramuzza che ha ordinato la trasmissione degli atti al pm della procura veneta perché proceda all'iscrizione nell'apposito registro. 

Che ci fosse qualcosa di poco chiaro all'interno del processo contro Massimo Bossetti […] era abbastanza evidente. Soltanto chi si trincerava dietro un commento semplicistico […] poteva non vedere quante stranezze ha avuto questo procedimento penale.

Dapprima le celle telefoniche (il cellulare di Bossetti non è mai stato tracciato vicino alla palestra che è stato il luogo della scomparsa di Yara). In seguito le modifiche apportate al furgone che girava attorno alla palestra di Brembate «per motivi di comunicazione», venne detto in udienza, e reso simile a quello di Massimo Bossetti. Infine la prova regina, quella del Dna che non poteva essere ripetuta, ma presa apoditticamente come fatto e non come prova della Procura. 

Bossetti ha da subito detto che il Dna trovato sulla vittima Yara Gambirasio non fosse suo. A pag. 37 della trascrizione dell'interrogatorio del 6 agosto 2014 si legge: Bossetti: «Non riesco a capire come sia finito il mio Dna su quella povera ragazza... lo giuro... non ho mai fatto del male a nessuno io». Il pm Letizia Ruggeri così rispondeva «e anche tanto... lo sa che è anche tanto». Ma Bossetti replicava con enfasi: «Io vi sto dicendo la verità ... non ho mai fatto del male a nessuno... e non avrei anche nessun motivo». 

Soltanto in quel momento, ossia nella fase dell'interrogatorio per la convalida dell'arresto, il pm Ruggeri dichiarava che le tracce del Dna erano copiose ma improvvisamente quella importante ed unica prova trovata sugli slip della povera Yara Gambirasio si erano improvvisamente esaurite. Stessa cosa secondo la sentenza di primo grado dove, per mancanza di Dna, era impossibile effettuare il test in contraddittorio negandolo per esaurimento campioni.

A pag. 169 della sentenza di primo grado si legge: «Legittimamente, ad avviso di questa Corte, sono stati, poi, inseriti nel fascicolo del dibattimento gli accertamenti genetici del RIS in quanto il materiale genetico era stato consumato nel corso delle varie consulenze». Così anche la Cassazione, qualche anno più avanti, confermerà la mancanza di Dna; dato verificatosi adesso come falso. 

Insomma dal pubblico ministero Ruggeri ai giudici della corte di Assise di Brescia alla Cassazione, tutto ad affermare che il Dna trovato sugli slip di Yara sia esaurito per motivare l'impossibilità di fare, in contraddittorio con la difesa, una analisi comparata.

Tutto questo finché il Professor Casari dichiarava al compianto giornalista Gavino Sulas che nel suo reparto al San Raffaele era custodito una grande quantità di Dna ritrovata su Yara Gambirasio.

[…] Il 26 novembre 2019 (dopo la pronuncia della Cassazione) la difesa richiede l'accesso ai campioni di Dna e l'indomani ottiene l'autorizzazione, ma non sa che il pm Ruggeri ha già chiesto di spostare le provette: il 21 novembre i 54 campioni vengono tolti dal frigo e consegnati dal professore Giorgio Casari ai carabinieri di Bergamo, raggiungeranno il tribunale il 2 dicembre 2019, «12 giorni dopo» aver lasciato l'ospedale San Raffaele. Oggi quelle provette e quel dna sono inutilizzabili. C'è stata colpa del pm Ruggeri? Certamente nessuno più potrà sapere, in contraddittorio, se quel Dna ritrovato sugli slip di Yara Gambirasio sia di Massimo Bossetti. Con buona pace della Giustizia.

Gio. Ter. per “Libero quotidiano” il 30 dicembre 2022. 

Di seguito uno stralcio dell'interrogatorio, avvenuto in 10 marzo del 2021, al pm Letizia Ruggeri da parte del pm Adelchi D'Ippolito, dopo l'esposto denuncia degli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, difensori di Massimo Bossetti, accusato e condannato per l'omicidio di Yara Gambirasio, sul comportamento del pm Ruggeri. 

Alla domanda sulla necessità di una comparazione in contraddittorio con la difesa della prova del Dna trovati la Ruggeri risponde: «La comparazione non va fatta in contraddittorio, perché comparazione si intende...è ripetibile». 

D'Ippolito: «Ed è stato ripetuto poi in contraddittorio?».

Ruggeri: «Beh, è stato fatto un processo, nel processo c'era la relazione del RIS, la relazione di Previderè. Non è stato... in fase di indagini no».

D'ippolito: «Ecco, non è stato ripetuto».

Ruggeri: «No, ma la comparazione è la lettura di una tabella».

D'Ippolito: «Guardi, quello che è la comparazione io forse lo so, che dice?».

Ruggeri: «Sì, però...».

 D'Ippolito: «Grazie, grazie. Allora io le faccio questa domanda: è stato ripetuto in contraddittorio questo accertamento nella fase delle indagini?».

Ruggeri: «Allora... Il Professor Previderè aveva il profilo di Ignoto 1, perché stava cercando... stava cercando il Dna della madre. Quindi aveva il profilo di Ignoto 1, aveva tutti i marcatori, quindi lui aveva... è una tabella con dei marcatori. E... poi gli sono stati dati i campioni della sostanza biologica prelevata a Bossetti e lui da questi campioni ha estratto il Dna, lui ha estratto.. che è un'operazione sempre ripetibile, perché basta prendergli un altro...» 

D'Ippolito: «Però non è stata ripetuta nella fase delle indagini».

Ruggeri: «Lui ha guardato... aveva...ha guardato il profilo di Ignoto 1...Non so, non riesco a capire la domanda...».

D'Ippolito: «No, lei, Dottoressa, deve avere la cortesia di rispondermi, perché se io... Lei mi sta dicendo "È un esame sempre ripetibile"».

Ruggeri: «Sì».

D'Ippolito: «Benissimo. Allora io le domando: è stato ripetuto nella fase delle indagini? Mi deve rispondere o sì, se è stato ripetuto, o no, se non è stato ripetuto».

Ruggeri: «Allora, l'abbiamo guardato tutti il profilo, cioè... quindi sì, è stato... è stato... loro l'hanno estratto il Dna dal.. e hanno guardato la tabella e hanno visto che era lo stesso. A quel punto io con questa relazione ho chiesto il... cioè dopo aver fatto altre cose ho chiesto il rinvio a giudizio. Non abbiamo fatto un altro accertamento, no, io l'avevo fatto fare a Previderè».

Poi il pubblico ministero D'Ippolito chiedeva come mai non sono state approfondite alcune indagini e la Ruggeri, a questa domanda, risponde: «...la stampa pressava».

Insomma, dal quadro emerge come non sia mai esistita la benché minima volontà da parte della dottoressa Ruggeri, nonostante la Cassazione più volte avesse ricercato la valutazione in contraddittorio con la difesa, di rendere possibile questo passaggio. 

Passaggio che viene ritenuto importante per la Procura di Venezia che ha chiesto il rinvio a giudizio per la titolare della indagine su Bossetti. Ed infine, perché sempre la Ruggeri ha chiesto il trasporto al tribunale di Bergamo uffici "corpi del reato" di campioni che dovevano stare in una cella frigorifera a meno ottanta gradi?

La pm del caso Yara sotto indagine: “Ipotesi depistaggio sul dna di Bossetti”. Clamorosa svolta: la vicenda riguarda la conservazione dei reperti dell’inchiesta che ha portato alla condanna all'ergastolo del muratore di Mapello. L’ordine di Letizia Ruggeri fu legittimo? Annalisa Costanzo su Il Dubbio il 29 dicembre 2022

Un'indagine dal doppio fine: quello per permettere al magistrato Letizia Ruggeri «una compiuta valutazione anche della sua posizione in relazione a tutte le doglianze dell’opponente» e anche per «permettere alla stessa un’adeguata difesa». È quanto deciso dal gip di Venezia, Alberto Scaramuzza, che ha ordinato l'iscrizione nel registro degli indagati della pm che indagò sull'omicidio di Yara Gambirasio.

È proprio in relazione alla conservazione dei reperti di dna rinvenuti sul corpo e sui vestiti della 13enne di Brembate, trovata senza vita il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d'Isola, che adesso si dovranno muovere le indagini. Bisognerà infatti valutare se, come sostengono i difensori di Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all'ergastolo per l'efferato omicidio, ci siano state o meno eventuali responsabilità nella malconservazione dei campioni di dna.

«Sono sempre garantista e lo sono anche in questa circostanza, vedremo», dice l'avvocato Claudio Salvagni, storico difensore di Bossetti, che la procura dopo una lunga indagine ha identificato essere “ignoto 1”, quello della traccia di dna rinvenuta sugli indumenti intimi di Yara. Il muratore di Mapello, però, da sempre si dichiara innocente e, per tramite dei suoi legali, ha chiesto più volte che venisse confrontata nuovamente la prova regina dell'accusa, ossia il dna di “ignoto 1”, con il suo. Una richiesta, questa, che il giudice dell'esecuzione ha autorizzato soltanto il 27 novembre 2019: tredici mesi dopo la condanna definitiva di Bossetti e cinque giorni prima che quei reperti biologici venissero distrutti.

Se il profilo genetico di “ignoto 1” sia davvero quello di Massimo Bossetti, come affermano i tre gradi di giudizio, o no, come lo stesso afferma, non si potrà mai più accertare. «Questi esami non potranno più essere fatti perché il dna è stato distrutto», dice con amarezza l'avvocato Salvagni, ricordando come i reperti biologici disposti in 54 provette siano stati «portati da una temperatura di meno 80 gradi ad una temperatura ambiente e così il materiale biologico si è in automatico distrutto. La gravità sta proprio in questo aver deliberatamente o meno distrutto quel Dna». In virtù di ciò, il pool difensivo di Bossetti, ipotizzando il reato di depistaggio, ha sporto denuncia nei confronti del presidente della Corte d’Assise, Giovanni Petillo e della dottoressa Laura Epis, funzionaria dell’ufficio corpi di reato. La procura di Venezia (competente sui magistrati di Bergamo) ha chiesto l'archiviazione.

«A seguito della richiesta di archiviazione - ripercorre l'avvocato Salvagni - abbiamo avuto accesso agli atti di indagini di Venezia e quando li abbiamo letti siamo saltati sulla sedia perché a nostro giudizio emerge chiarissima la responsabilità della dottoressa Ruggeri». Da qui l'opposizione, con un documento di 70 pagine e la decisione del gip: da un lato ha archiviato le posizioni per depistaggio doloso di Perillo e di Epis e dall'altro ha rimandato gli atti in procura per il reato di depistaggio nei confronti del pubblico ministero Ruggeri.

Nelle nuove indagini che la procura di Venezia dovrà compiere giocheranno un ruolo cruciale alcune date, tre in particolare. La prima, quella della Corte di Cassazione, che il 12 ottobre 2018 ha condannato in via definitiva Massimo Bossetti quale assassino di Yara Gambirasio. Cinque mesi dopo il pubblico ministero Ruggeri chiede al giudice di poter spostare tutti i reperti all'ufficio corpo di reato. Una richiesta accolta e autorizzata dal giudice nel settembre del 2019.

C'è ancora un'altra data importante: il 21 novembre 2019 quando i carabinieri di Bergamo procedono a spostare «fisicamente» tutti i reperti dell'omicidio Gambirasio, compreso i 54 campioni di dna, dal laboratorio San Raffaele di Milano, dove erano conservati ad una temperatura di -80 gradi, all'ufficio corpo di reato. «Quando i carabinieri li ritirano dal San Raffaele allertano il pubblico ministero che lo spostamento dei reperti da una temperatura ad un'altra li avrebbe distrutti - evidenzia Salvagni -, ma il pm fa procedere. I carabinieri però, per scrupolo, portano e conservano i campioni nei freezer della compagnia».

Nel frattempo la difesa di Bossetti, il 27 novembre 2019, ottiene l'autorizzazione del giudice ad analizzare il dna: «La dottoressa Ruggeri – evidenzia Salvagni - era a conoscenza che la difesa fosse stata autorizzata a procedere con l'analisi perché io stesso, sabato 30 novembre 2019, sono stato a Bergamo per notificare l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione ad esaminare quei reperti. Lo sapevano». Cinque giorni dopo, il 2 dicembre, i reperti, compreso il dna che poteva togliere oltre ogni dubbio sul profilo genetico di “ignoto 1” e mettere la parola fine al caso, sono stati portati all'ufficio corpo di reato. «Fino al 2 dicembre erano in freezer correttamente custoditi e analizzabili» è il rammarico della difesa di Bossetti, che spera venga «certificata la distruzione dei reperti che - ricorda l'avvocato Salvagni - è un fatto illecito».

Le accuse sulla conservazione dei reperti. Yara Gambirasio, indagata la pm che seguì il caso: “Depistaggio sul Dna”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Dicembre 2022

Sul caso dell’omicidio di Yara Gambirasio si accende un nuovo faro. Ora si chiama in causa la pm Letizia Ruggeri che, dopo quattro anni di inchiesta e prelievi del Dna a tappeto, nel 2014 risolse il caso. Ruggeri deve essere indagata per depistaggio in merito alla presunta non corretta conservazione dei 54 campioni di Dna rinvenuti sul corpo della 13enne di Brembate e che la difesa di Massimo Bossetti chiede da tempo di potere analizzare. Lo ha stabilito il gip di Venezia Alberto Scaramuzza che ha ordinato la trasmissione degli atti al pm della procura veneta perché proceda all’iscrizione nell’apposito registro. Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all’ergastolo, con i suoi difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini, aveva presentato una denuncia per frode processuale e depistaggio alla procura di Venezia. Il punto principale contestato è lo stato di conservazione dei 54 campioni di Dna residui trasferiti, dopo i tre gradi di giudizio, dal San Raffaele di Milano all’ufficio corpi di reato a Bergamo.

La nuova inchiesta arriva a 12 anni dalla morte della tredicenne di Brembate di Sopra e a quattro dalla condanna definitiva all’ergastolo di Bossetti. La trasmissione degli atti alla Procura perché proceda all’iscrizione nel registro degli indagati della pm del caso Yara, Ruggeri, che non era mai stata indagata, per il gip è l’unico “provvedimento adottabile” al termine dell’udienza di opposizione all’archiviazione per il presidente del Corte d’Assiste di Bergamo e di una cancelliera. Questo a fronte di una “denunzia-querela e in un atto di opposizione” presentato dai legali di Bossetti Claudio Salvagni e Paolo Camporini “in buon parte indirizzati nei riguardi proprio” della pm che condusse le indagini e sostenne l’accusa nel processo a Bergamo che portò la condanna all’ergastolo di Bossetti.

Il gip di Venezia Alberto Scaramuzza, archiviata la posizione del presidente della Corte d’Assise Giovanni Petillo e della funzionaria dell’ufficio corpi di reato Laura Epis indagati in un primo momento, ora trasmette gli atti alla procura di Venezia relativamente al pm Letizia Ruggeri, come anticipato dall’agenzia Adnkronos. Dunque il gip, archiviando gli altri due, trasmette gli atti alla Procura perché venga iscritta Ruggeri con la stessa ipotesi. Il gip scrive di “necessità di un’estensione soggettiva dell’iscrizione nei suoi confronti a mod 21 (notizie di reato ndr) in relazione all’unico reato attualmente iscritto”, sempre cioè la frode in processo e depistaggio. Questo “sia al fine di permettere al pm una compiuta valutazione anche della sua posizione in relazione a tutte le doglianze dell’opponente” che “al fine di permettere alla stessa un’adeguata difesa”.

La questione riguarda le 54 provette contenenti la traccia biologica mista di vittima e carnefice, spostati dal frigorifero dell’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo. Per i difensori di Bossetti, quel cambio di destinazione, interrompendo la catena del freddo (i campioni erano conservati a 80 gradi sottozero) potrebbe aver deteriorato il Dna rendendo vano qualsiasi eventuale tentativo di nuove analisi. Gli avvocati di Bossetti più volte hanno chiesto di poter accedere ed esaminare reperti dell’indagine e i campioni di Dna, e di conoscerne lo stato di conservazione. A inizio dicembre sono arrivati gli ultimi due no di due diverse Corti d’Assise.

Il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani, ha commentato così la decisione anticipata proprio dall’AdnKronos: “Resto francamente sorpreso che dopo 3 gradi di giudizio, dopo 7 rigetti dei giudici di Bergamo sia all’analisi che alla verifica dello stato di conservazione dei reparti e dei campioni residui di dna, dopo che nei tre gradi di giudizio era stata respinta la richiesta difensiva di una perizia sul Dna, dopo la definitività della sentenza sopravvenuta nell’ottobre 2018 che ha accertato la colpevolezza dell’autore dell’omicidio di Yara, e dopo che era passato più di un anno da tale definitività, si imputi ora al pm il depistaggio in relazione alla conservazione delle provette dei residui organici, rimasti regolarmente crioconservati in una cella frigorifera dell’istituto San Raffaele fino a novembre 2019, quindi oltre un anno dopo il passaggio in giudicato della sentenza della condanna, e solo successivamente confiscati come prevede il codice di procedura” evidenzia. “Il provvedimento di Venezia arriva dopo che per altre due volte la corte d’Assise di Bergamo aveva negato ai difensori l’accesso a tali provette e dopo che la procura di Venezia aveva chiesto l’archiviazione della posizione del presidente della Corte d’Assise di Bergamo e di una cancelliera a seguito della denuncia per depistaggio” ricorda il procuratore Chiappani che si dice “fiducioso che in sede di indagini emergerà la correttezza dei comportamenti tenuti dalla collega“.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il caso Bossetti. Perché è stata indagata Letizia Ruggeri, la Pm dell’omicidio di Yara Gambirasio. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Dicembre 2022

Depistaggio. L’accusa nei confronti di Letizia Ruggeri, la Pm di Bergamo che ha portato alla condanna di Massimo Bossetti, è grave e apre uno squarcio nella verità processuale del caso Gambirasio. Per l’omicidio della piccola Yara, 13 anni, scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata assassinata il 26 febbraio 2011, il procedimento giudiziario si era concluso il 12 ottobre 2018 con la condanna definitiva all’ergastolo di Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, il cui movente sarebbe stato un’aggressione a sfondo sessuale.

Bossetti si è sempre dichiarato innocente e sulla verifica del Dna rinvenuto sul corpo della vittima non è mai stata fatta chiarezza. La difesa di Bossetti – con gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini –ha infatti contestato l’errata conservazione dei campioni del dna prelevati e le ragioni degli avvocati saranno oggetto di un procedimento apertosi ieri a carico della Pm, Ruggeri. Si tratta nello specifico della presunta non corretta conservazione dei 54 campioni di Dna che i legali chiedono da tempo di potere analizzare. Ieri la decisione assunta dal gip di Venezia Alberto Scaramuzza che ha ordinato la trasmissione degli atti al pm della procura veneta perché proceda all’iscrizione nell’apposito registro.

A fronte di una denunzia-querela e di un atto di opposizione della difesa dell’uomo condannato in via definitiva all’ergastolo, “in buona parte indirizzati nei riguardi proprio di comportamenti del pm Letizia Ruggeri si impone – scrive il gip – la necessità di un’estensione soggettiva dell’iscrizione nei suoi confronti” in relazione al reato di frode in processo penale e depistaggio (articolo 375 del codice penale), reato punito con il carcere da 3 a 8 anni, per chi “immuta artificiosamente il corpo del reato ovvero lo stato dei luoghi, delle cose o delle persone connessi al reato” (comma 1). Una scelta che ha come finalità quella di “permettere al Pm una compiuta valutazione anche della sua posizione in relazione a tutte le doglianze dell’opponente, che richiedono un necessario approfondimento, sia al fine di permettere alla stessa un’adeguata difesa”, si legge nel dispositivo con cui il giudice veneto ordina l’archiviazione per Giovanni Petillo e Laura Epis, rispettivamente presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo e funzionaria responsabile dell’Ufficio corpi di reato.

La questione su cui si è pronunciata il tribunale di Venezia – competente sui magistrati di Bergamo – riguarda le provette contenenti la traccia biologica mista di vittima e carnefice, spostati dal frigorifero dell’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo. Per Claudio Salvagni, difensore di Bossetti, quel cambio di destinazione, interrompendo la catena del freddo (i campioni dovevano essere conservati a 80 gradi sottozero) potrebbe aver deteriorato il Dna rendendo vano qualsiasi eventuale tentativo di nuove analisi.

Nell’atto di quasi 70 pagine, di opposizione all’archiviazione, si mettono in fila più date a partire dal 26 novembre 2019 (dopo la pronuncia della Cassazione) quando la difesa richiese l’accesso ai campioni di Dna di cui ottenne all’indomani l’autorizzazione, senza sapere che il pm Ruggeri aveva già chiesto di spostare le provette: il 21 novembre i 54 campioni vengono tolti dal frigo e consegnati dal professore Giorgio Casari ai carabinieri di Bergamo, raggiungeranno il tribunale il 2 dicembre 2019, “12 giorni dopo” aver lasciato il San Raffaele.

Se per la procura di Venezia né le verifiche né i testimoni hanno fatto emergere la prova che non ci sia mai stata, da parte degli indagati Petillo ed Epis, la volontà di distruggere o danneggiare quei campioni, ora spetta al pm Ruggeri dimostrare la sua buonafede. Certamente la circostanza dello spostamento di materiali così sensibili in assenza delle dovute condizioni tecnico-sanitarie provocherebbe, se realmente avvenuta con le imperizie esposte dal denunciante, una lesione insanabile al diritto di difesa di Bossetti.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Storia.

Rudy.

Patrick Lumumba.

Raffaele.

Amanda.

La Storia.

CASO KERCHER, IL DELITTO DI PERUGIA.

Gaia Vetrano 20 Maggio 2023 su nxwss.com 

Se provassimo a immaginare il luogo perfetto dove ambientare un romanzo giallo, forse Perugia non sarebbe il luogo perfetto. E Meredith Kercher non ne sarebbe la protagonista.

Nella placida cittadina umbra sembra non succedere mai nulla di strano. Calma e tranquilla. Una città ricca di arte, architettura e storia, famosa per una delle università più antiche in Italia, strade medievali strette, palazzi storici e chiese. Una gioia per gli occhi e soprattutto per il palato di coloro a cui piace il cioccolato.

In questo insolito scenario, al centro delle fiction di Don Matteo, un giorno di inizio autunno, due donne diventano le protagoniste di una storia che difficilmente il nostro paese dimenticherà. Un caso mediatico senza precedenti.

In via della Pergola, in una casa immersa nel verde, si trovano due donne, legate dalla complicità e dalla consapevolezza di trovarsi in un paese diverso da quello di origine. Un legame di solidarietà e aiuto reciproco. Sono Meredith Kercher, di Leeds, e Amanda Knox, di Seattle.

Le due prendono parte all’Erasmus, coronando il sogno di tanti di vedere l’Italia, e ora convivono a Perugia insieme ad altre due studentesse.

Meredith Kercher ha solo ventidue anni nel 2007.

Gli anni dell’università sono considerati da tutti come i più spensierati. Nonostante la mole di studio sia pesante, questa è ben sostenuta dalla gioia di vivere di quegli anni. Per molti sono considerati i più avvincenti ed emozionanti, in particolare se vissuti in un Paese straniero.

Quando uno studente cammina per le strade della propria città, è tanta la gioia, e poca la voglia di studiare. Con le proprie coinquiline si parla di uscite, di ex, di pettegolezzi e di ragazzi. Ma anche dei nuovi argomenti delle materie che state studiando. Di come alternate, pur sempre con difficoltà, la vita universitaria e quella sociale, destreggiandovi tra impegni sportivi e scadenze istituzionali.

Eppure, non tutto va per il verso giusto per le coinquiline di via della Pergola. 

La notte del 1° novembre del 2007, una donna chiama le Forze dell’Ordine dal suo appartamento di via Sperandio. Poco prima aveva ricevuto una telefonata anonima in cui le avevano detto di stare attenta al suo bagno, perché al suo interno qualcuno aveva inserito una bomba.

Ovviamente la Polizia si recherà subito sul luogo, non trovando però nessun ordigno. Ritorneranno a casa della donna anche la mattina successiva. I molteplici controlli che eseguiranno porteranno al ritrovamento di due telefoni, che appartengono a Meredith Kercher.

La signora abita infatti in una via limitrofa a quella dove abita quest’ultima. Quindi, intorno alle 13, la Polizia Postale vengono in via della Pergola per restituire alla legittima proprietaria i cellulari. Nel momento in cui arrivano, davanti alla portano trovano Amanda Knox ed Emanuele Sollecito. Nel caso in cui vi steste chiedendo chi siano: la prima è la seconda coinquilina di Meredith, l’altro è il suo fidanzato.

I due discutevano di aver rinvenuto una finestra della casa rotta, così raccontano di aver chiamato poco prima i Carabinieri per risolvere il problema. Nell’attesa, invitano la Polizia Postale ad entrare, dopo essere rimasti almeno trenta minuti abbracciati fuori dalla villetta. Un comportamento insolito che porterà gli inquirenti a chiedersi come mai abbiano deciso di introdursi nella casa proprio in quel momento.

Gli agenti della Postale entrano nell’abitazione e trovano la camera da letto di Meredith chiusa dall’interno. Per restituirle i telefoni sfondano la porta e trovano qualcosa che difficilmente dimenticheranno.

Purtroppo, basta poco per distruggere ogni aspettativa, per rendere gli anni più belli della propria vita un inferno. Una bocciatura inaspettata, sentirsi soli, la nostalgia per la propria casa. Oppure una tra le quarantasette coltellate che Meredith Kercher riceve la notte del 1° novembre del 2007 nel suo appartamento.

Il corpo di Meredith Kercher è quello di una giovane giunta ad agosto in Erasmus per concludere il suo percorso di laurea in Studi Europei e incominciare quello in Storia Moderna, Teorie Politiche e Storia del cinema. La Postale la ritrova nuda, avvolta in un piumone con un profondo taglio alla gola. Secondo i primi accertamenti, le altre tre coinquiline quella notte non avevano dormito in casa. La stessa vittima sarebbe tornata a casa dopo aver partecipato a una festa.

In fondo era una adolescente come le altre, che come tutti amava divertirsi e andare alle feste, come quella di Halloweem, dove la immortalano con mantello ad vampiro e rossetto rosso. Una foto che diventerà simbolo.

Una giovane metodica e talvolta riservata, dai lunghi capelli marroni e gli occhi scuri. La più piccola di quattro fratelli. È figlia di John Kercher, giornalista freelance britannico, e di Arline, donna anglo-indiana.

Il procuratore Giuliano Mignini si trova a coordinare l’indagine. Non sa che si trasformerà in uno dei casi più seguiti degli ultimi anni.

Da protocollo interviene immediatamente il medico legale, Luca Lalli. Secondo i primi risultati dell’autopsia, la morte sarebbe avvenuta a distanza di non più di 2-3 ore dall’ultimo pasto, a causa dell’emorragia carotidea o del successivo soffocamento causato dal sangue, il tutto in seguito a circa quarantasette coltellate. L’autopsia stabilisce l’ora della morte tra le 21:00 e mezzanotte circa. Per le coinquiline, Meredith avrebbe infatti cominciato a cenare presumibilmente per le 17.30/18 e avrebbe terminato entro le 19.

Inoltre, gli inquirenti ritrovano brandelli di tovagliolini di carta, usati probabilmente dal killer per pulirsi dal sangue. Conducono anche degli accertamenti sulla finestra della stanza della giovane, che si affaccia su un’ampia area verde.

Nel frattempo, la foto del corpo di Meredith Kercher coperto dal piumone, che lascia fuori solamente uno dei suoi piedi, gira su tutti i giornali del paese, diventando simbolo della vicenda. 

Uno dei misteri principali riguarda, appunto, le finestre. Non solo quella della stanza di Meredith, chiusa a chiave, ma anche quella della camera di Filomena Romanelli, altra coinquilina della casa, con il vetro spaccato dall’interno della camera. Mancano anche le carte di credito della Kercher e 300 euro.

Sulla base delle ferite di arma da taglio e dei dettagli che vi abbiamo fornito, ipotizzarono si trattasse di un omicidio compiuto da un ladro colto dalla ragazza mentre compieva un furto dentro quell’abitazione. Magari un possibile predatore sessuale. Eppure, gli inquirenti non sono del tutto convinti e sin da subito ci si chiede anche se si tratti di depistaggio.

Questo perché il vetro era rotto dall’interno. L’aggressore non è quindi entrato dall’esterno. Quindi la finestra era o una via di fuga oppure rappresentava un tentativo di dissuadere le indagini.

La coppia degli indiziati

Le indagini ripercorrono anche i tabulati telefonici, fino alla famosa telefonata compiuta da Raffaele Sollecito. Tramite questa dichiaravano alla polizia ci fosse una camera chiusa dall’interno. I due dubitavano fosse successo qualcosa, ma volevano comunque che qualcuno venisse a vedere.

Nel momento in cui Amanda Knox viene interrogata, non è inizialmente in grado di fornire una dichiarazione che sia in grado di dimostrare la sua innocenza. In particolare, afferma di essere stata presente quella sera e di aver visto qualcosa che potesse risultare sospetto, e fa riferimento e un uomo di colore. Il primo interrogatorio si verifica in assenza di un legale e sottopone la giovane a una forte pressione emotiva.

Su di lei si crea una morbosa attenzione. La chiamano Faccia d’Angelo o Foxy Noxy e viene definita come una giovanissima femme fatale in cerca di emozioni e da tanti definita come ossessionata dal sesso.

Difatti è una giovane estroversa, amante dei viaggi e appassionata di calcio e lingue. A Perugia studia per perfezionare il suo italiano mentre studia letteratura. Curt Knox, suo padre, è impiegato di Macy’s, la mamma Edda è insegnante di matematica.

Raffaele è un giovane studente pugliese di informatica. Il mondo lo conosce come il fidanzato della Knox, ma in realtà i due stanno insieme da solo sei giorni. Un ragazzo onesto, pacifico e dolce. La madre, separata dal marito, muore nel 2005. Suo padre Francesco è un medico ospedaliero specializzato in urologia e medicina legale, la sorella Vanessa è tenente dei Carabinieri. Fa uso sporadico di droghe e chi lo conosce racconta spesso del suo inquietante interesse per i coltelli.

Grazie anche a quanto risulta dalle prime autopsie, e di queste vi parleremo più avanti, il primo quadro indiziario comportò il fermo di tre persone: Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Patrick Dija Lumumba, proprietario del pub dove lavorava la prima. Quest’ultimo è un musicista di origini congolesi.

La chiamata in causa di Patrick costerà ad Amanda Knox anche una condanna per calunnia. Durante gli interrogatori la ragazza racconta di averlo visto sulla scena del crimine. Eppure, ricordiamo che inizialmente né lei né Sollecito vennero seguiti da alcun legale. In particolare, i due dichiareranno di aver subito dei soprusi da parte della polizia, e ciò ebbe grande rilevanza sul piano processuale.

Raffaele in particolare riferì di aver subito minacce di violenze. Emotivamente non è una situazione facile da sostenere per i due. Forse a posteriori il primo interrogatorio non venne condotto in maniera del tutto ortodossa.

Nonostante l’unione dei due, la prima versione dei fatti di Sollecito non combacia con quella della Knox. Questo, infatti, racconta di aver incominciato a guardare Naruto sul suo computer tra le 21:00 e le 21:30-22:00. Amanda l’avrebbe raggiunto per l’1. Andando avanti nelle indagini, Raffaele cambierà versione.

In particolare, Amanda si sarebbe vista con Patrick perché lui era interessato a conoscere Meredith. Così i due si sarebbero recati in via Pergola. La Knox sarebbe andata da Sollecito, non prima di rendersi effettivamente conto che Lumumba stesse provando ad avvicinare sessualmente la Kercher.

Infatti, a coinvolgere il congolese è stata l’errata traduzione di un messaggio inviatogli dalla Knox il giorno del delitto, «see you later», che nell’inglese degli Stati Uniti sta per «ci vediamo», interpretato erroneamente come «ci vediamo dopo», dunque come un appuntamento per la sera.

Eppure, il rapporto tra Amanda e Lumumba non era rosa e fiori. Lei era infatti stata licenziata perché ritenuta del tutto incompetente e incapace di gestire la clientela. Patrick possiede comunque un alibi che lo scagiona da ogni accusa: era in compagnia di un amico e cliente, un professore svizzero, che lo vide al bancone del suo pub.

Ciò che è certo è che vi fu molta fretta nell’arrestare i tre indiziati, perché probabilmente le indagini avrebbero avuto maggiore certezza nell’accertamento della loro colpevolezza se li avessero tenuti sotto controllo da lontano, magari con l’uso di microspie. 

Le dichiarazioni della Knox rimangono infatti delle ricostruzioni confuse, probabilmente dovute anche al consumo di marijuana fatto la sera prima.

Guede è realmente colpevole? Ricostruzione dei fatti e della scena del crimine

Le analisi tecniche individuano un quarto indiziato: è Rudy Guede. Giovane ivoriano, arriva in Italia a 5 anni con la madre, venditrice di libri, e il padre Roger, muratore. Con questo si trasferirà a Cantalupo di Bevagna e successivamente a Ponte San Giovanni, frazione di Perugia.

Dopo essere scappato definitivamente dalla famiglia, venne affidato nel 2004 a Paolo Caporali, imprenditore perugino, proprietario della Liomatic s.p.a. e patron di una squadra locale di basket. Gli verrà diagnosticata una forma di dissociazione (fuga psicogena, con tendenza alla rimozione e alla costruzione di personalità) e di sonnambulismo.

Rudy non porta orologio, dall’Halloween del 2007 il tempo ha imparato a misurarlo in carcere. Ladro esperto e scaltro, con precedenti di furto. Un ragazzo che non riesce a camminare da solo, questo dicono di lui. Timido e introverso.

Tv e giornali, nel frattempo, si preoccupano di scandagliare la vita privata dei tre principali indiziati. Anche la stampa americana comincia a interessarsi al caso, dato il coinvolgimento di Amanda, originaria di Seattle.

Knox e Sollecito sconteranno quattro anni di carcere preventivo, addirittura in isolamento contro la loro volontà. Gabriele resiste anche al cambio di cella, dal carcere di Perugia a quello di Terni. Fino alla fine del processo continuerà a sostenere di essere innocente e di non essersi trovato in quella casa. Questo nonostante le versioni riportate da lui e Amanda non coincidessero. 

Ma cosa è successo realmente quella notte?

Tra incongruenze e punti interrogativi ci è possibile ricostruire i fatti.

La notte di Halloween del 2007 Meredith Kercher e Rudy Guede si incontrano al Domus e si danno appuntamento per vedersi il giorno dopo. I due si erano conosciuti per la prima volta dentro un pub della città per guardare una finale di rugby.

Naturalmente, chi dopo aver fatto baldoria la notte delle streghe, torna a casa e va a dormire. Guede fa lo stesso, ma la mattina del 1° novembre si sveglia con un solo pensiero, quello di rivedere la Kercher. Va direttamente a cercarla a casa, ma il primo tentativo va a vuoto, perchè non trova nessuno.

Intorno alle 21 di sera, Rudy ritorna in via della Pergola. Lui vuole vedere Meredith, così incomincia a bussare. Mentre sta per andare via, sente dei passi: è proprio la Kercher, che sta tornando a casa dopo essere stata la sera fuori. Lei lo invita a entrare dentro, così i due si accomodano.

Si entra ora nella parte più complessa del nostro racconto.

I due parlano un po’, e Meredith racconta a Guede – così come questo dichiarerà – di avere dei sospetti riguardo l’onestà della sua coinquilina Amanda. La giovane è infatti convinta sia stata lei a rubarle trecento euro, ma non ne ha le prove. Ciò che traspare è un astio tra le due, che viene subito ipotizzato poi come possibile movente, soprattutto da parte del PM Mignimi.

Quando viene chiesto a Guede se abbia avuto o meno un rapporto sessuale con Meredith, nega che si sia verificato. Nonostante questo, vi è l’autopsia a dimostrare che la giovane abbia subito delle violenze prima della morte. Ed è proprio sul corpo di lei che vengo ritrovate le tracce del DNA di Rudy, soprattutto nella saliva.

A quel punto, stando sempre a quanto dichiarato da Guede, questo avrebbe chiesto di andare in bagno, dove sarebbe rimasto con le cuffie. Dopo aver all’incirca ascoltato tre brani, sente un urlo. A quel punto si alza e corre a vedere cosa è successo.

Uscito dal bagno avrebbe trovato la giovane a terra, con un giovane biondo, con indosso una cuffia bianca e una felpa Napapijri, chino sulla vittima. Disse che non lo riconobbe a causa della luce soffusa. In poco tempo questo sarebbe riuscito a scappare, non prima aver cercato di colpirlo. Guede non riuscì mai a identificare con sicurezza la presenza di Amanda e Raffaele nella scena del crimine.

Ma ci sono due cose strane da tenere a mente. La prima è la famosa chiamata che la vicina in via Sperandio riceve in cui le viene detto di avere una bomba nel bagno. Grazie a questa le Forse dell’Ordine ritrovano i telefoni di Meredith. Sembra quasi trattarsi di un tentativo di dare l’allarme, di portare l’attenzione verso quel delitto.

Inoltre, nella ricostruzione passata agli atti vi sono delle tempistiche che non combaciano. Stando alle dichiarazioni di Guede, la ferocia assassina che si sarebbe abbattuta su Meredith, sarebbe riuscita a infliggerle quarantasette coltellate in sei o sette minuti.

In particolare, la più profonda le viene impartita perché, probabilmente, trattenuta da un braccio. Proprio per questo motivo sulla scena del crimine vengono collocate più persone. Ed è per questo che nella sentenza si parla di concorso in omicidio.

Secondo quindi la ricostruzione, Meredith avrebbe provato a divincolarsi dalla stretta scontrandosi contro la lama che le stavano puntando addosso, ferendosi.

Questo ci porta a pensare si sia trattata di un’azione omicidiaria molto lunga, perché vi sono anche dei tentativi da parte della vittima di scappare. A dimostrare ciò le ecchimosi riportate sul braccio, sulle gambe e anche a livello vaginale.

Quindi, pensare che la giovane sia stata svestita, probabilmente violentata, si sia scontrata con i due o più aggressori e alla fine sia stata accoltellata in soli otto minuti è un po’ difficile.

Tutto ciò che si evince dall’autopsia porta a pensare che vi fossero più di due mani presenti in quella villa. Come vi saranno stati più di due coltelli, non essendovi alcuna prova che le ferite siano state riportate tutte dalla stessa arma.

Sull’aspetto sessuale della storia vi sono anche altri elementi da tenere in considerazione. Tra questi le foto che ritraggono Amanda mentre fa shopping di biancheria intima con Raffaele nelle giornate successive al delitto.

Senza dimenticare le immagini del bacio tra Sollecito e Knox, davanti la casa in via Pergola, quindi a pochi metri dalla scena del crimine, che vennero considerate come segno di disinteresse, freddezza e ossessioni erotiche “morbose”. Oppure la lista di ragazzi con cui Amanda era stata nel mese precedente a cui avrebbe potuto aver passato l’HIV da lei compilata in carcere, a causa di un falso positivo al test.

Proprio per questo motivo durante una delle prime fasi del processo, l’accusa avanzerà più volte la possibilità si fosse trattato di un gioco erotico finito male. Ricordiamo anche la passione di Sollecito per le armi da taglio e i coltelli.

Alla fine, Corte di Cassazione condannerà Knox e Sollecito 26 e 25 anni di reclusione con la sentenza di primo appello. Rudy Guede invece a 30 anni per concorso in omicidio e violenza sessuale il 16 dicembre 2010 (poi scontati a 16). Per gli altri due concorrenti, si è richiesto il processo d’appello.

Secondo gli atti, Knox, Sollecito e Guede si sarebbero visti in piazza Grimana e si sarebbero recati assieme a casa di Meredith, dove questa era appena rientrata dopo essere stata fuori. I quattro avrebbero passato la serata assieme. Lì Rudy avrebbe chiesto di andare al bagno e, uscito da questo, trovando una situazione carica di tensione sessuale, avrebbe cercato di soddisfare le proprie pulsioni con Meredith che era sola nella propria camera con la porta quantomeno socchiusa.

Meredith avrebbe rifiutato le avances di Rudy, il quale venne al contrario spalleggiato da Amanda e Raffaele. Secondo l’accusa per i due poteva trattarsi di un eccitante particolare che, pur non previsto, andava sperimentato.

A quel punto avrebbero infatti provato a soggiogarla con un coltello: probabilmente la Knox avrebbe usato uno da cucina mentre Sollecito una lama più piccola. Proprio sull’arma si creò in fase processuale una disputa importante. Delle due venne ritrovata solo la prima, su cui individuano tracce genetiche di Amanda e di Meredith. Eppure le perizie usate per il secondo appello negano la possibilità che questa fosse l’arma effettivamente usata.

In ogni caso, la situazione sarebbe degenerata a causa del dimenarsi della Kercher. La giovane sarebbe morta in una lunga agonia mentre i tre avrebbero provato a depistare la scena del crimine, rubandole innanzitutto i telefoni. Poi Guede sarebbe andato in una discoteca, mentre Knox e Sollecito a casa di quest’ultimo. La mattina seguente il tentativo di eliminare le tracce del delitto, rompendo anche la finestra dell’abitazione.

Nel corso degli anni, Guede cambierà versione riguardo la misteriosa figura china sul corpo di Meredith, affermando prima di essere sicuro fosse Sollecito, poi di essersi ricordato che in realtà fosse Amanda. Secondo il criminologo Carmelo Lavorino, la storia raccontata da Rudy sarebbe altamente contraddittoria e inattendibile, preparata come autogiustificazione dopo parecchio tempo.

Per quanto riguarda Sollecito, alcune sue tracce si trovavano sul gancetto del reggiseno della vittima, ma venne ipotissato si trattasse di una contaminasione accidentale.

Il 3 ottobre del 2011, Amanda Knox e Raffaele Sollecito saranno entrambi assolti dalle accuse di omicidio e violenza sessuale. Tutto questo portò all’esclusione della prova come falsa, facendo cadere le accuse a Sollecito.

Ciò che risulta probabile è che gli inquirenti abbiano cercato di fretta di trovare tre papabili colpevoli, ignorando alcuni elementi a loro difesa e concentrandosi principalmente su alcune incongruenze e sull’aspetto morboso e sessuale della vicenda. Una tale miscela di personaggi in un luogo così tranquillo lasciava poco spazio ai temporeggiamenti.

Il coinvolgimento degli USA

Il nostro paese avrebbe potuto scagionare Amanda e Raffaele proprio a causa delle pressioni a cui era sottoposto da parte degli Stati Uniti, che erano più che certi dell’innocenza della Knox, al punto da paragonare il processo per il delitto di Perugia alla caccia alle streghe di Salem.

Addirittura vi fu un tentativo da parte di qualche criminologo straniero di imporsi sulle indagini, rifiutando ad esempio la possibilità che il coltello da cucina fosse addirittura compatibile alle ferite riportate da Meredith.

Inoltre, in America l’elettroferesi risulta dare segnali positivi se riporta picchi sopra 150, mentre quelli sotto 50 sono ritenuti da scartare, e quelli presi in esame per l’accusa erano tutti sotto questo livello. Proprio per questo motivo rinnegano la possibilità che su quell’arma vi fosse il DNA di Amanda.

Oggi Raffaele Sollecito lavora come ingegnere informatico e ed elettronico in una propria impresa che si occupa della commemorazione dei defunti sul web e anche nell’ambito della progettazione di siti internet, videogames e droni. Vive in Italia e dal 2016 è opinionista fisso della nuova trasmissione Il giallo della settimana, spin-off di Quarto grado. Amanda Knox è giornalista freelance per un giornale di Seattle.

Ciò che a noi restano sono solamente dubbi e tanto rammarico riguardo la morte ingiustificata di una povera innocente.

Scritto da Gaia Vetrano.

GAIA VETRANO.19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passione e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Rudy.

Rudy Guede: «Il carcere? Botte, pianti e quel suicidio in cella». Jacopo Storni su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2023.

Condannato per l’omicidio Kercher, è libero e vive a Viterbo: «Un giorno rientrai e vidi che il mio compagno si era impiccato. Ho scritto alla famiglia di Meredith, nessuna risposta. Se le mie mani sono macchiate di sangue è perché provai a salvarla» 

Rudy Guede, condannato a 16 anni per l’omicidio di Meredith Kercher, ora lavora in biblioteca e in un ristorante a Viterbo, dove si è trasferito dopo il carcere

Per la prima volta dopo 16 anni, tre settimane fa Rudy Guede ha rivisto da vicino la casa in via della Pergola dove fu uccisa Meredith Kercher. «Sono tornato a Perugia per andare a trovare un’amica, lei abita in zona piazza Grimana, stavamo passeggiando sulla terrazza che affaccia in via della Pergola, improvvisamente i miei occhi hanno visto quella casa». Chissà cosa ha pensato Rudy, in quel preciso istante. Glielo chiediamo, lui ci pensa, non dice nulla, pensa ancora, poi dice: «Ho rivisto dopo molti anni un luogo con ricordi molto brutti». Non può essere soltanto questo. Chiediamo di sviscerare quell’emozione. Lui tentenna: «Come un brivido». Cosa significa un brivido? «Come un senso di tristezza, sai, quello è un luogo difficile, è un luogo dove è nata la fase traumatica della mia vita, è il luogo che mi ha cambiato la vita, neanche mi ricordavo più di quella casa, quando l’ho intravista da quella terrazza, io e la mia amica ci siamo fermati». E cosa vi siete detti? `«Mah, niente, tristezza, ho pensato che è il luogo dove sono nate tante disavventure, è il luogo in cui ho cercato di soccorrere una ragazza che poi è morta».

Un uomo libero

È il luogo del crimine, il delitto di Perugia. Era la sera del 1° novembre 2007. Meredith era una studentessa inglese, fu trovata senza vita nella casa che condivideva con la studentessa americana Amanda Knox. Aveva la gola tagliata. Furono arrestati Amanda Knox e Raffaele Sollecito, poi assolti in Cassazione quasi dieci anni dopo. L’ivoriano Rudy Guede, dopo la scelta del rito abbreviato, è stato condannato a 16 di carcere per violenza sessuale e concorso in omicidio. È l’unico condannato ma lui, ancora oggi, si dichiara innocente. Dopo 13 anni in carcere, oggi è un uomo libero. Vuole spogliarsi dei pregiudizi degli altri. «La pena che dovevo scontare in nome della legge si è conclusa, ora mi resta quella segnata dal giudizio degli sconosciuti, dalle occhiate sghembe al mio passaggio».

Tre oggetti

Arriva a Pistoia per incontrare 400 studenti nella sala comunale, un incontro promosso dagli Istituti De Franceschi Pacinotti ed Einaudi insieme all’associazione Culturidea. Un incontro a cui partecipa anche l’avvocato Fausto Malucchi, prorettore dell’Università di Criminologia di Vibo Valentia. È nel suo studio a Pistoia che incontriamo Rudy. Arriva con una maglietta gialla che vuole togliersi perché sudata, si mette una camicia bianca. Porta con sé gli oggetti che lo rappresentano: un pallone da basket (lo sport del cuore), gli scacchi (ha imparato in prigione da autodidatta) e una macchina fotografica: «In carcere manca la profondità di spazi e sono diventato miope, adesso porto le lenti, solitamente porto gli occhiali ma stavolta non li ho indossati perché con gli occhiali sembro più brutto. Essere privato del mondo e della visuale su ampi spazi, ha fatto nascere in me la voglia di fotografare, per questo giro sempre con la macchina fotografica. Voglio catturare ogni istante della vita, soprattutto le persone». 

Ribaltare l’ombra negativa

Rudy vuole ribaltare l’ombra negativa che aleggia da anni su di lui. Ha scritto un libro proprio per questo, si intitola Il beneficio del dubbio , realizzato a quattro mani con Pierluigi Vito. Tredici anni di carcere, tra Perugia e Viterbo, lo hanno trasformato. Così dice. In carcere si è diplomato, poi laureato. Tredici anni di sofferenza e risalita. Sul corpo porta ancora i segni. Sull’avambraccio sinistro c’è una cicatrice. «Nei primi giorni di galera in Germania mi hanno tenuto isolato per tre giorni in una cella da solo, quando mi hanno fatto uscire ho chiesto una lametta da barba e mi sono tagliato, caddi per terra, venni soccorso». Dalla Germania, dove si era rifugiato dopo la morte di Meredith, viene trasferito in Italia. «Il momento più brutto è stato quando il mio compagno Roberto si è tolto la vita. Stavo rientrando in cella, ho aperto lo spioncino e ho visto che i suoi piedi penzolavano, si era impiccato con il mio scaldacollo, ho rivisto di nuovo la morte da vicino».

«Di notte sognavo di stare con i miei amici»

Una volta fu picchiato dai compagni di cella: «Mi imposero di pulire la stanza, dissi no, mi colpirono all’occhio sinistro». Mostra la cicatrice. Poi ricorda i momenti in cella a piangere, da solo. Gli chiediamo di descrivere uno di questi momenti. Lui resta vago: «Piangevo senza farmi vedere». Parla usando figure retoriche, succede spesso: «La solitudine per me è la signora mestizia dalle gelide mani pungenti». Ricorda gli incubi notturni: «Quante volte mi sono svegliato nel cuore della notte, ingannato dal sogno di essere libero, di stare coi miei amici, con la mia famiglia. In quei momenti l’unico modo di reagire era aggrapparmi a quelle ali che si chiamano ricordi e volare ai tempi dell’infanzia».

L’infanzia, poi via da Abidjan

Un’infanzia struggente. I primi 5 anni in Costa d’Avorio. La madre lo lascia in custodia alla nonna. «Mi teneva in braccio e mi leggeva il Vangelo». Il padre parte per l’Italia. Un’immagine: «Un giorno vidi mia madre piangere mentre guardava una foto, guardai anch’io quella foto e vidi mio padre in abito da sposo, accanto a lui un’altra donna vestita di bianco, la sposa, si chiamava Blanche». Un’altra immagine: «Eravamo nel quartiere Rouge di Abidjan, avevo 5 anni, stavo partendo con mia zia per raggiungere mio padre in Italia, mia madre mi strattonava per tenermi con sé, mia zia mi strattonava per portarmi via». Arriva in Italia piccolissimo. Cresce col padre che però non c’è quasi mai, la sua matrigna che però non è una madre. «Di fatto sono cresciuto senza nessuno, a 7 anni mi cucinavo da solo». L’adolescenza a Perugia, le liti col padre. Il basket come unico rifugio. E ancora un’immagine: «Avevo 15 anni, mi lasciarono a lungo in casa da solo, intervennero i servizi sociali, mio padre venne convocato all’ufficio minori della Questura, sbottò contro i poliziotti, disse loro che mi potevano tenere, a lui non interessavo, poi sbattè la porta e se ne andò». 

Metabolizzare la sofferenza

Mentre parla, Rudy non batte ciglio. Almeno così sembra, come fosse distaccato, ragiona con freddezza. «Ma no» dice lui «non è freddezza, è soltanto che sono riuscito a metabolizzare la mia sofferenza, in tutti questi anni ho parlato col mio dolore». In carcere dice di non essere stato seguito dagli psichiatri, neppure attualmente è seguito. «Ho avuto tante persone che mi sono state vicine». Durante l’ adolescenza viene affidato a una famiglia italiana per pochi mesi, poi trova casa presso la famiglia della maestra delle elementari, Ivana, che si affeziona a lui. «La mia vera famiglia sono loro». I suoi genitori biologici non li sente quasi mai. Rudy cresce e chiede amore. Il vuoto di affetto. Lo trova in Veronica, ragazza della Basilicata: «Avevo 19 anni, lei studiava architettura a Milano. Era bellissima, la incontrai all’uscita da una discoteca, ci scambiammo i numeri, il primo bacio sui Navigli. Ci lasciammo dopo due anni, io tornai a Perugia, la distanza era troppa».

Cosa accadde quella notte

Poi arriva quel novembre 2007, quella notte su cui tante volte Rudy è tornato. La sua versione è sempre la stessa. Era salito da Meredith, stavano per avere un rapporto sessuale, si fermarono per mancanza di preservativo, Rudy andò in bagno, accese l’Ipod, poi sentì delle grida, uscì dal bagno e si trovò di fronte Meredith ferita. Vide poi un uomo con un bisturi, Amanda Knox e una figura maschile sul vialetto di casa che dicevano: «Andiamo via che c’è un negro». Poi se ne andò. «La paura ha preso il sopravvento e sono scappato come un vigliacco lasciando Mez forse ancora viva. Di questo non finirò mai di pentirmi». Rudy dice che Meredith è sempre nella sua mente: «Non passa giorno che non le dedichi un pensiero. È un macigno nell’anima, sarà così finché vivrò. Ho scritto ai suoi familiari ma non mi hanno risposto. Vorrei dirgli di perdonarmi se non sono riuscito a fare tutto il possibile per salvarla. Farle visita al cimitero in Inghilterra? Meglio di no».

«Ho tentato di salvarla»

Chiediamo a Rudy quale immagine di Meredith porta con sé. «È difficile pensarla adesso». Insistiamo, un’immagine. Lui ripete: «Se le mie mani sono macchiate di sangue è perché ho tentato di salvarla». Ma questo continua a essere un punto non chiarito visto che lui stesso ha ammesso di essere fuggito. Oggi Rudy vive a Viterbo, è fidanzato. La mattina lavora alla biblioteca del centro studi criminologici. La sera cameriere in un ristorante. Durante il giorno non torna quasi mai a casa: «In casa soffoco, mi ricorda il carcere, resto fuori anche se piove».

I tatuaggi fatti dopo il carcere

Dopo il carcere si è fatto due tatuaggi. Sul braccio destro ci sono un’ala e un sole, simbolo di libertà. Sul pettorale sinistro c’è la scritta buddista Bodhisattva, l’essere vivente che aspira alla reincarnazione attraverso la compassione. Si è avvicinato al buddismo in prigione. «In cella ebbi la visione di un bambino e di un monaco buddista, disegnai il monaco, pochi giorni dopo stavo guardando un programma televisivo e c’era la storia di un monaco, incarcerato per 27 anni, aveva lo stesso volto di quello che avevo disegnato. In quel momento ho capito che la mia non era l’unica sofferenza al mondo». A volte Rudy s’immagina padre: «Però ho paura, per essere padre bisogna avere cura del proprio figlio e io, memore della mia infanzia, ho paura di non essere all’altezza».

Patrick Lumumba.

Amanda, Lumumba e il processo da rifare. "Lui non ne sapeva nulla". La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di Amanda Knox riguardo alla sentenza di condanna per il reato di calunnia nei confronti di Patrick Lumumba. Nei prossimi mesi si rifarà il processo: "Una storia infinita". Rosa Scognamiglio il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

"L’imputata Amanda Knox nel 2013, all’indomani della conferma della sua condanna per il delitto di calunnia nei confronti di Patrick Lumumba da parte della Corte di Cassazione ha introdotto un ricorso dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo contro la Repubblica Italiana per alcune violazioni della Convenzione dei Diritti dell’Uomo; ricorso deciso con sentenza del 2019 che lo accoglieva in parte. L’introduzione di tale ricorso non veniva comunicata a Patrick Lumumba né dalla ricorrente, né dal governo italiano, né -soprattutto ed è ciò che più conta- dalla Corte EDU, nonostante la convenzione disponga che, nell’interesse di una corretta amministrazione della giustizia, il presidente della Corte può invitare ogni persona interessata a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze. Orbene: il fatto che la Corte EDU non abbia comunicato alcunché in ordine alla pendenza di tale procedimento a Patrick Lumumba, parte offesa e danneggiata dal reato di calunnia, credo sia un fatto a dir poco clamoroso". Lo rivela alla redazione de ilGiornale.it l’avvocato Carlo Pacelli, legale di Patrick Lumumba dai tempi del processo per il delitto di Perugia.

All'epoca Lumumba passò 14 giorni in carcere dopo essere stato accusato ingiustamente da Amanda Knox dell’omicidio di Meredith Kercher. Accuse dalle quali fu poi scagionato e prosciolto. L’americana fu invece condannata a tre anni di reclusione per calunnia. Sentenza che gli avvocati di Knox, sulla scorta di un pronunciamento della Corte EDU, hanno successivamente impugnato. Lo scorso ottobre il ricorso è stato accolto dalla Cassazione e dunque, solo per il reato di calunnia, nel 2024 si celebrerà un nuovo processo.

Avvocato Pacelli, il processo per calunnia Knox-Lumumba è da rifare.

"Tecnicamente sì. La corte di Cassazione ha revocato le sentenze relative al reato di calunnia, passate in giudicato nel 2013, e ha deciso la riapertura del processo. Di fatto, siamo di fronte a un quarto grado di giurisdizione; questo significa che, nei gradi dei rimedi giurisdizionali, il vertice delle impugnazioni del sistema processuale nazionale è una Corte europea. Apparentemente una bella cosa ma nella sostanza bisogna tener presente che la Corte EDU è un giudice del fatto e del diritto mentre la Cassazione è giudice del solo diritto. Ora che il giudice di ultimo grado sia un giudice anche del fatto e quello di penultimo grado sia solo di puro diritto crea un’evidente e stridente antinomia. Adesso aspettiamo di conoscere le motivazioni di questo pronunciamento, ma direi che si possono già fare alcune considerazioni al riguardo".

Di che tipo?

"L’art. 628 bis cpp, introdotto alla fine del ’22 dalla riforma Cartabia, prevede un meccanismo per l’esecuzione delle decisioni della Corte EDU e per la rimozione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate dal giudice nazionale. Ora: a parte l’estrema genericità della locuzione 'effetti pregiudizievoli', bisogna sottolineare che l’unico sindacato

consentito alla Cassazione è quello di valutare se la violazione accertata, per natura e gravità, ha avuto una incidenza effettiva sulla condanna. Quindi in primo luogo la Cassazione diventa assimilabile ad un giudice di rinvio, anche se la Cassazione, nel nostro ordinamento, di solito i rinvii li fa e non li riceve. Il fatto che la Corte di Cassazione, che è la suprema corte di legittimità, con solo il cielo sopra di sé, subisca le decisioni della Corte edu, nei termini come formulati dall’art. 628 bis cpp, è quantomeno singolare. Dal mio punto di vista è indicativo di un cambiamento nel

nostro sistema giurisdizionale".

Perché?

"Con questo nuovo istituto la Corte di Cassazione non potendo sindacare la decisione della Corte EDU, si trasforma da organo supremo di puro diritto in un organo supremo a sovranità limitata. C’è poi un altro aspetto importante derivante da questa decisione di ottobre della Cassazione".

Ovvero?

"In sostanza si va a compromettere l’effettività del nostro diritto nazionale ed in particolare si mette in discussione il principio della certezza del diritto. Nel caso di specie tutte le Corti d’Assise in nome del popolo italiano ed anche tutte le sezioni della Corte Cassazione che si sono pronunciate sulla vicenda hanno sempre affermato, al di là di ogni ragionevole dubbio la colpevolezza della Knox in ordine al reato di calunnia; e la condanna è passata in giudicato sin dal 2013, ovvero addirittura da ben 10 anni. Se ora siamo sottoposti a questa sovranità europea con questo istituto di nuovo conio vuol dire che dal punto di vista nazionale c’è una riduzione giurisdizionale e si è intaccato il principio di sovranità. A questo punto c’è anche un problema di prestigio del nostro organo supremo di legittimità. Credo sia

un fatto che debba essere segnalato all’opinione pubblica, e di cui dovremmo discutere anche in sede scientifico-giuridica. C'è un problema evidente di interferenza di competenze delle due corti, a prescindere dal caso Knox-Lumumba".

Queste “interferenze” di cui parla ci sono state anche nel caso Knox-Lumumba?

"Sì perché, come le dicevo, si è arrivati a questo nuovo processo sulla scorta di una decisione della Corte edu favorevole ad Amanda Knox senza addirittura che Patrick abbia potuto partecipare al procedimento dinanzi alla Corte EDU per le ragioni sopra dette".

Potrebbe essere più preciso riguardo alle violazioni contestate da Knox?

"La Corte edu ha riscontrato violazioni procedurali e non sostanziali; specificamente la violazione del diritto di difesa, perché la notte del 5/6 novembre 2007 la signora Knox non era stata assistita da un legale né da un interprete all’altezza delle sue funzioni. Ma già su questo punto, le dirò, andrebbero fatti dei chiarimenti".

Cioè?

"La notte tra il 5 e il 6 novembre 2007, Amanda Knox andò in questura liberamente e vi restò volontariamente, non perché qualcuno l’avesse convocata, e rese dichiarazioni del tutto spontanee quale persona informata sui fatti. All’1,45 era lì, in questura, perché aspettava l’allora fidanzato Raffaele Sollecito e decise di dare il suo contributo alle indagini

rispondendo alle domande degli investigatori: la calunnia si consumò in quell’ora. Pertanto la Corte di Cassazione avrebbe dovuto valutare anche la gravità delle violazioni accertate dalla Corte edu e l’incidenza delle stesse in ordine alla condanna per il reato di conclamata calunnia. In ogni caso, l’aspetto più grave è che il mio assistito non sia stato informato del procedimento innanzi alla Corte EDU".

Che cosa altro può dirci in ordine a questo nuovo istituto introdotto dalla riforma Cartabia?

"Questo istituto, di nuovo conio, entrato in vigore alla fine del 2022 prevede che, sulla richiesta del condannato, la Corte di Cassazione decide in camera di consiglio, a norma dell’art. 611 cpp, vale a dire senza l’intervento dei difensori, senza discussione orale e senza pubblica udienza, ma solo ed esclusivamente sulla base di un contraddittorio meramente cartolare; un vero vulnus al principio dell’oralità del processo penale".

Ora cosa accadrà?

"Per Patrick la condanna di Amanda era una questione chiusa. Ormai vive all’estero e si è rifatto una vita. Ora accadrà che rivedremo Amanda Knox e Patrick Lumumba di nuovo in un’aula della Corte d’Assise di Appello di Firenze. L’unica cosa che Patrick può fare è confidare nella giustizia, come del resto ha sempre fatto. Il delitto di Perugia, con annessi e

connessi, ormai è una storia infinita, dai tempi processuali interminabili: l’unica cosa certa è che Patrick da innocente ha subito ben 14 giorni di carcerazione di cui qualcuno è certamente responsabile”.

Raffaele.

"Niente risarcimento". La Cassazione respinge il ricorso di Raffaele Sollecito. Aveva chiesto un risarcimento milionario per gli anni trascorsi in carcere prima di essere assolto ricorrendo sulla base della responsabilità civile dei magistrati. Giovanni Fiorentino il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.

Si era più volte detto vittima di ingiustizia e aveva chiesto un risarcimento milionario (tenendo conto degli anni trascorsi in carcere prima dell'assoluzione dalle accuse) per gli errori che avrebbero commesso i giudici. Secondo la stampa umbra, Raffaele Sollecito non sarà tuttavia risarcito, perlomeno in attesa del pronunciamento della Corte europea dei diritti dell'uomo. Questo è il verdetto della Corte di Cassazione, che ha bocciato nelle scorse ore il ricorso inoltrato da Sollecito a Genova basandosi sulla responsabilità civile dei magistrati. Il motivo? La legge in questione risale ad otto anni fa e non può avere applicazione retroattiva. Condannato insieme ad Amanda Knox in primo grado nell'ambito dell'omicidio di Meredith Kercher, l'ingegnere trentanovenne ha trascorso quasi quattro anni dietro le sbarre prima di essere assolto in appello e scarcerato. Definitivamente scagionato, Sollecito (che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti) aveva avanzato una richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione al tribunale di Genova, in quanto secondo la legge non si può essere giudicati due volte dallo stesso magistrato.

E la Corte d’appello di Perugia aveva solo una sezione, quella della prima sentenza. Così il giudizio era stato assegnato alla Corte d’appello di Firenze e quella dei giudici fiorentini era stata l’ultima pronuncia nel merito, su questo caso. Qualora si contesti l’operato di un magistrato toscano, per competenza territoriale deve essere l’autorità giudiziaria genovese ad occuparsene. E la Suprema Corte ha a quanto pare respinto la richiesta del ricorrente in base alla norma del 2015 che ha modificato la legge Vassalli, quella sugli eventuali errori dei magistrati. La bocciatura non riguarda tanto le pretese risarcitorie, quanto la non retroattività della norma, che impedirebbe a Sollecito di utilizzare questa legge per far valere le sue ragioni. Un orientamento che la Cassazione ha a quanto pare confermato.

In tema di responsabilità civile dei magistrati, quando l'azione risarcitoria è fondata sull'adozione di un provvedimento, ed in particolare un provvedimento di custodia cautelare per il quale sia previsto specifico rimedio - si legge inoltre nella sentenza della Cassazione, riportata da PerugiaToday - il termine biennale di decadenza decorre dal momento in cui siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione, o gli altri rimedi previsti, e comunque non siano più possibili la revoca o la modifica del provvedimento. E non decorre, invece, dall'esaurimento del grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il danno, che costituisce il presupposto dell'azione solo nei casi di provvedimenti per i quali non siano previsti rimedi”. Il "caso" non è ancora chiuso del tutto, in quanto risulta come detto pendente il ricorso alla Corte europea. Ad oltre tre lustri dai fatti insomma, il "delitto di Perugia" e i suoi risvolti continuano a far discutere. 

Raffaele Sollecito torna a parlare: «Mi hanno devastato ma nessuna scusa». Dopo il ricorso sulle responsabilità del pm. «Mignini-Knox amici? Io no». Redazione online su la Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Febbraio 2023.

«Hanno devastato il mio futuro, compromesso la mia immagine. Hanno fatto a pezzi anche la mia famiglia, mettendola in ginocchio economicamente. Ma nessuno mi ha risarcito e tanto meno chiesto scusa": a parlare è Raffaele Sollecito, definitivamente assolto dopo essere stato coinvolto nelle indagini sull'omicidio di Meredith Kercher per le quali ha ora chiesto un risarcimento di oltre un milione di euro facendo affidamento sulla legge in materia di responsabilità civile dei magistrati. Negato però dai giudici civili di Genova (dove il procedimento si è svolto per questioni procedurali) in primo e secondo grado con una decisione che ora l’ingegnere informatico pugliese impugnerà in Cassazione.

Un rigetto, quello dei giudici liguri riportato da Repubblica, legato a questioni tecniche e alla mancata applicazione retroattiva della legge. «Andremo in Cassazione - ha detto Sollecito - perché ci sono precedenti a noi favorevoli».

Nel ricorso sono stati contestati quelli che Sollecito considera da sempre gli errori dell’indagine. Come l’assenza di un avvocato difensore nelle prime fasi istruttorie, la mancata presa in considerazione di alcuni testi e del suo alibi.

Condannato insieme ad Amanda Knox in primo grado, Sollecito passò quasi quattro anni in carcere prima di essere assolto in appello e scarcerato. Per poi essere definitivamente scagionato dalla Cassazione dopo altri tre gradi di giudizio per un delitto al quale si è sempre proclamato estraneo ma per il quale gli è stata però respinta la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. Ora il ricorso alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati.

Per Sollecito la questione non è solo economica per «i danni mai riparati». Vuole infatti che si entri «nel merito». «Nessuno mi ha mai completamente ripulito - sottolinea - del fango che mi hanno ingiustamente gettato addosso. Sono riuscito a ricostruirmi una carriera passo dopo passo, ma da solo senza che lo Stato mi abbia minimamente aiutato».

Sollecito si è trasferito ormai da otto anni a Milano dove lavora come ingegnere informatico. Occupandosi di realtà virtuale e di metaverso. «Mi occupo di sistemi e delle architetture che fanno funzionare questo mondo virtuale" rivendica.

Il passato legato all’omicidio Kercher sembra però non abbandonarlo. Riemerge anche per le notizie dell’amicizia stretta tra l’x pm Giuliano Mignini e Amanda Knox. «Una decisione loro» la liquida seccamente. «Io non ho intenzione di fare amicizia con chi ha cercato di distruggermi, con chi non ha cambiato idea e non ha chiesto scusa» conclude.

«Amanda è coraggiosa e aperta al dialogo, intelligente e generosa. Continuiamo a sentirci. Di Sollecito invece non parlo" la replica del magistrato ora in pensione. «Se ho cambiato idea sul coinvolgimento di Amanda nell’omicidio Kercher? Indietro nel tempo non torno» conclude Mignini.

Estratto dell’articolo di Marco Preve per repubblica.it il 6 febbraio 2023.

 Depurata dalla suggestione dell'overdose di immagini e resoconti morbosi sull'omicidio di Meredith Kercher, sgozzata a Perugia il primo novembre 2007, la vicenda umana di Raffaele Sollecito, coprotagonista con la fidanzata dell'epoca, Amanda Knox, di quella montagna russa giudiziaria che li vide definitivamente assolti nel 2015, ha un nuovo capitolo, e non si può dire che, forse, la sua storia non sia stata segnata in qualche modo dalla sfortuna. Si è visto ora negare il risarcimento non per il merito della sua odissea processuale, ma solo per la non retroattività della nuova legge.

 Dal 2015 Sollecito si batte per sostenere che, sia le indagini del pm perugino Giuliano Mignini che le decisioni dei tribunali e delle corti che condannarono lui e Amanda, sono viziate da una serie di errori e colpe che giustificherebbero il riconoscimento della responsabilità civile dei magistrati. […]

Nelle scorse settimane la Corte di Appello di Genova - qui era stata fissata la competenza visti i pronunciamenti dei tribunali non solo di Perugia ma da ultimo anche di Firenze - ha nuovamente respinto la sua richiesta di risarcimento pari a 3 milioni e 600 mila euro (fra danni patrimoniali e non) nella causa intentata allo Stato in base alla nuova legge sulla responsabilità dei magistrati del 2015.

 E proprio in quell'aggettivo "nuova" è racchiuso il destino di questa ennesima battaglia legale di Sollecito. Infatti, fino al 2015 chi voleva intentare causa a un giudice lo faceva in base alla cosiddetta legge Vassalli del 1988 (post caso Tortora) che nella sua versione originaria, in relazione agli errori di fatto, garantiva la pressoché totale immunità grazie anche alla cosiddetta "clausola di salvaguardia".

Il giudice avrebbe dovuto affermare l'esistenza di un fatto inequivocabilmente e pacificamente escluso dagli atti. Complicato. Con la riforma della legge 18 del 2015 - sollecitata dall'Europa - si è introdotta una nuova fattispecie astratta di responsabilità, consistente nel travisamento del fatto. Difficile a realizzarsi ma più praticabile rispetto alla Vassalli.

 La legge si applica, però, a situazioni di possibili errori commessi dopo la sua entrata in vigore e non è retroattiva. "Pertanto - scrivono i giudici genovesi Enrica Drago, Rosella Silvestri e Francesca Traverso - il termine decadenziale non può essere individuato come sostenuto da Sollecito...". I giudici in 18 pagine di sentenza spiegano i motivi di questa decisione e ribattono alle contestazioni dei legali di Sollecito, gli avvocati Antonio e Valerio Ciccariello ma il punto è un altro. […]

Ora è probabile che Sollecito presenti ricorso in Cassazione e in caso di un'altra porta chiusa tenti la strada della Corte Europea dei diritti dell'Uomo.

Amanda.

Amanda Knox di nuovo incinta: sui social la foto con il pancione in mostra. La 36enne americana, tristemente nota in Italia perché condannata e poi definitivamente assolta per la morte di Meredith Kercher, del 2007, si è rifatta una vita. È sposata, vive a Seattle e lavora come giornalista freelance. Linda Marino il 22 agosto 2023 su Il Giornale.

Amanda Knox è di nuovo incinta. La 36enne americana, diventata tristemente famosa per aver legato il proprio nome all'omicidio di Meredith Kercher, nel 2007, per il quale era stata condannata e poi assolta, ha condiviso una foto sul proprio profilo Instagram, che conta 115mila follower, in cui è ritratta seduta su una panchina con un evidente pancione e una bottiglia in mano. Nella didascalia dello scatto si legge: "Pregspreading @oxfordenglishdictionary", una parola in qualche modo riconducibile al termine “gravidanza”. Un utente le chiede: "Post di ritorno al passato o nuova bimba?" e lei risponde: "Nuovo!". La Knox, già mamma di una bambina, Eureka Muse Knox-Robinson, avuta nel 2022 dal marito romanziere Christopher Robinson, stando alle dimensioni del pancione dovrebbe essere al termine della gravidanza, quindi la cicogna dovrebbe arrivare fra poche settimane. In un altro commento, però, la stessa Knox lascerebbe intuire che la foto risale a qualche tempo fa e che quindi il secondogenito potrebbe essere già nato, ma al momento sono solo supposizioni. Se così fosse, non ci sarebbe da stupirsi, perché anche quando era nata la sua prima figlia, la Knox lo aveva annunciato qualche tempo dopo. Il motivo? Perché temeva per la sicurezza alla sua famiglia, aveva spiegato durante una intervista.

La statunitense venne a studiare in Italia, a Perugia, nel 2007. Quell'anno venne arrestata e condannata, insieme all’allora fidanzato Raffaele Sollecito, per l’omicidio della sua coinquilina Meredith Kercher, compiuto a Perugia. Per quel delitto, la Knox si è sempre proclamata innocente, fino a quando, al termine di un processo lungo e complesso, nel 2015 è stata definitivamente assolta. Oggi la Knox è giornalista freelance a Seattle, ha scritto un libro autobiografico e collabora con il National Innocence Project, una organizzazione non governativa statunitense che si occupa di errori giudiziari.

Nonostante in Italia abbia trascorso il periodo più duro della sua vita, pare sia ancora legata al nostro Paese, tant’è che la scorsa estate è persino venuta in vacanza e non ha perso l’occasione per fare tappa proprio in Umbria. In quell’occasione, la Knox ha incontrato Raffaele Sollecito e i due si erano fatti immortalare sorridenti a Gubbio, la città che avrebbero dovuto visitare quindici anni prima, il giorno in cui è morta Meredith. Lo scatto, in cui apparivano insieme sorridenti, era stato postato sui social e giudicato di cattivo gusto da alcuni utenti.

"Amanda Knox? Una mentitrice". L'attacco di Rudy Guede. Rudy Guede ha incontrato nelle scorse ore gli studenti di alcune scuole di Pistoia. E nell'occasione, il trentaseienne ivoriano condannato per l'omicidio di Meredith Kercher ha ribadito la sua versione dei fatti, attaccando duramente Amanda Knox. Giovanni Fiorentino il 2 Giugno 2023 su Il Giornale.

Amanda Knox? Una bugiarda. E il pubblico ministero del processo avrebbe poi subìto pressioni da parte degli Stati Uniti. A sostenerlo è Rudy Guede, che nelle scorse ore ha incontrato a Pistoia gli studenti di alcuni istituti scolastici superiori della provincia toscana. L'ivoriano oggi trentaseienne si trovava in Toscana anche per presentare il suo libro "Il beneficio del dubbio". Ma nel corso dell'incontro svoltosi a Palazzo di Giano, la discussione non ha potuto non toccare la morte di Meredith Kercher. Sono infatti trascorsi quasi sedici anni dal delitto di Perugia e dopo un infinito processo passato attraverso cinque gradi di giudizio, Guede venne condannato per concorso in omicidio e violenza sessuale. Alla fine furono invece assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito, dopo esser stati condannati in primo grado. Guede ha quindi trascorso in carcere tredici anni, terminando di scontare la pena nel 2021.

"Ho cercato di soccorrere Meredith, ma ero sotto choc"

L'uomo, dal canto suo, si riconosce l'unica colpa di aver lasciato Meredith da sola quando era forse ancora viva: se fosse stato più lucido avrebbe forse potuto fare qualcosa in più per salvarla, ma sarebbe a suo dire stato lo choc nel vedere una persona sanguinante ed in fin di vita a bloccarlo. E agli studenti pistoiesi ha ribadito la sua versione, motivando anche la successiva fuga. "Ho cercato di soccorrere Meredith, perlomeno finchè ho avuto lucidità. La verità è che non ho retto a quel che ho visto, il mio cervello è andato in tilt. E proprio a causa dello choc ho fatto delle c*****e immani - ha detto senza mezzi termini Guede - è vero che andai in discoteca, ma non lo feci per ballare: ero scioccato da quel che avevo visto e non volevo restare da solo, per questo seguii i miei amici. Idem dicesi per quel che avvenne dopo: andai a Lecco doveva viveva mia zia e poi in Germania, ma non volevo fuggire. Dissi anche ad un amico che sarei tornato per spiegare tutto".

"Amanda Knox? Continua a dire falsità sul mio conto"

Guede ha poi parlato anche del pubblico ministero Giuliano Mignini, il magistrato che all'epoca coordinò le indagini. E non ha poi espresso considerazioni positive sulla stessa Knox. "Mignini ha ricevuto pressioni dagli Stati Uniti. Ricordo poi le parole dei genitori di Amanda Knox e di Raffaele Sollecito, tutt'altro che benevole nei miei confronti. Amanda Knox ha inoltre realizzato un documentario su Netflix, nel quale dice falsità su di me e su Patrick Lumumba - ha chiosato - mi hanno dato dello spacciatore, del ladro. Ma non è vero: non ho mai rubato nulla, diversamente da quanto ha detto Knox tempo fa in un convegno di giuristi. È una mentitrice".

Estratto dell’articolo di Pierangelo Sapegno per “la Stampa” il 21 marzo 2023.

«Anche se ora sono libera e si è fatta giustizia sul mio caso, anche se adesso sono una madre e una moglie felice, sto ancora camminando sulla corda. E come tutti quelli che hanno guardato nell'abisso, così come ho fatto io, conosco bene quello strano senso di sconforto per portarne sempre un pezzo dentro di me».

 In un lungo articolo pubblicato sul sito Free Press, Amanda Knox racconta le sue prigioni, e tutta la sua storia kafkiana, un calvario lungo 4 anni passato a cercare di trovare un motivo per sopravvivere a 26 estati e 26 inverni col sole a spicchi. La sua vita «era deragliata», come scrive lei, nel momento in cui la sua compagna di stanza a Perugia, Meredith Kercher, era stata brutalmente stuprata e uccisa.

Cinque giorni dopo lei fu arrestata assieme al suo fidanzato, Raffaele Sollecito. «L'accusa era basta su una dichiarazione forzata che la polizia mi ha costretto a firmare dopo 53 ore di interrogatorio in una lingua straniera e senza un avvocato, dopo essere stata privata del sonno e maltrattata».

 Dopo qualche giorno, Rudy Guede, «un ladro locale», è stato accusato di quel delitto: «aveva lasciato le sue impronte e il suo Dna su tutta la scena del crimine e sul copro di Meredith. Mentre non è stata trovata una sola traccia di me in quella stanza e non mi sarebbe stato possibile partecipare a quella lotta violenta e sanguinosa senza lasciare nemmeno un segno».

[…] «La parola colpevole riecheggiava nella mia testa. Ho sentito una guardia dire a un'altra: "Poverina. Lei non capisce cosa sia appena successo"». Ma Amanda era silenziosa e senza lacrime perché quando si soffre non si ha neanche più la forza di piangere: lei lo sapeva benissimo che la sua vita cambiava, che quella era la sua epifania e quella di prima era finita.

 «Non ero una turista smarrita nell'attesa di tornare a casa. Ero un prigioniero e la prigione era la mia casa. La condanna, la sentenza, la prigione: questa era la mia vita. Non c'era altra vita che avrei dovuto vivere. Ero in carcere per un crimine che non avevo commesso, sarei stata rinchiusa per i migliori anni della mia esistenza.

Non mi sarei più innamorata, non avrei avuto figli, una famiglia e neppure un lavoro e una carriera. Ero sola con me stessa. Non importa quanto fosse meschino, crudele, triste e ingiusto il mio destino: quelli erano i giorni che mi aspettavano, quello era il mio destino. E io non potevo fare altro che cercare di dargli un senso».

 Amanda ha pensato al suicidio, se l'è immaginato in ogni dettaglio, sognando di ingoiare i frammenti di una penna, bere la candeggina o tagliarsi i polsi sotto la doccia. Ha cercato di reagire, dentro al perimetro della sua prigione: scriveva lettere, leggeva un libro. E a qualcosa serviva.

[…] Alla fine ce l'ha fatta. È sopravvissuta. Nel 2011, 4 anni dopo che tutto questo era cominciato, l'ultimo processo ha rovesciato la sentenza di primo grado e Amanda e Raffaele sono tornati liberi. Il male che ha fatto quell'ingiusto processo con la sua campagna stampa è rimasto, perché in giro la gente è ancora incredibilmente convinta che siano colpevoli. Però, lei è tornata in America, si è laureata, ha trovato un lavoro che le piace e ha messo su famiglia. […]

Amanda Knox racconta come è sopravvissuta al carcere. Il Domani il 20 marzo 2023

In un articolo pubblicato sul sito Free Press della giornalista Bari Weiss, Knox racconta il suo tentativo di dare un senso alla prospettiva di trascorre 26 anni in prigione di come «quell’abisso dopo non ti lascia più»

«Dopo essere stata condannata 26 anni di prigione per omicidio, nel momento in cui la terra scompariva sotto i miei piedi e il biasimo del mondo intero mi pioveva sulla testa, ho avuto la mia prima epifania». A poco più di 11 anni dal processo di appello che l’ha assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher, Amanda Knox ha scritto un articolo per raccontare il processo psicologico che l’ha aiutata a sopravvivere alla prospettiva di trascorrere in prigione i migliori anni della sua vita.

Pochi giorni fa Knox aveva raccontato nuovamente la sua esperienza su Twitter (ne aveva già scritto nel suo libro Waiting to Be Heard: A Memoir). Il thread sul social network ha attirato molta attenzione e ha spinto il sito Free Press, fondato dalla giornalista Bari Weiss, a chiederle di tramutarlo in un articolo.

L’EPIFANIA

Dopo aver riassunto il caso e le vicende processuali, Knox inizia il suo racconto ricordando la reazione delle guardie che la scortavano in prigione dopo la lettura del verdetto di primo grado, arrivata dopo due anni trascorsi in carcere in attesa della sentenza. «Poverina, non ha capito cosa le è successo», dicevano. «Pensavano – scrive Knox – che visto che non stavo piangendo istericamente, probabilmente non aveva assorbito il fatto che avrei dovuto trascorrere i successivi 26 anni intrappolata in questo posto. Ma io ero silenziosa proprio per in quel momento ero seduta con la mia epifania».

L’illuminazione, spiega, era questa: «Non ero, come avevo pensato per i due anni precedenti, in attesa di avere la mia vita indietro. Non ero una povera turista sperduta in attesa di tornare a casa. Ero una prigioniera e la prigione era la mia casa».

IL PENSIERO DEL SUICIDIO

Knox passa poi a descrivere il processo psicologico di adattamento alla sua nuova routine, una fenomeno descritto da moltissimi altri prigionieri nel corso della storia. «Non importa quando fosse meschino, crudele, triste e ingiusto il mio destino: quella era la mia vita. Ed era mio compito dargli un senso, viverla al meglio delle mie possibilità».

Knox descrive di aver pensato al suicidio, di esserselo immaginato in ogni dettaglio, di aver studiato concretamente come avrebbe potuto farlo. Immaginandosi «vividamente»il suicido e la morte, queste possibiltà «hanno smesso di sembrarmi ombre che mi avvolgevano sorgendo dai miei incubi incosci. E questo a sua volta mi ha permesso di vedere la mia vita per quello che era e di chiedermi: come posso renderla degna di essere vissuta?».

GUARDARE NELL’ABISSO

In pratica, questo significava domandarsi come rendere degna di essere vissuta ogni singola giornata. E la risposta era nelle piccole cose. Fare esercizi, camminare nel cortile, scrivere una lettera, leggere un libro. «Mi svegliavo triste, passavo la giornata triste e andavo a letto triste – scrive Knox – Ma almeno non ero disperata. Era una tristezza piena di energia sotto la superficie, perché ero viva, sana di mente, in grado di vedere la realtà per quello che era».

Knox racconta di aver avuto difficoltà nello spiegare la sua epifania ai genitori. Sua madre non capiva, scrive. «Disse che mi avrebbe salvato e che io dovevo sopravvivere soltanto finché non ci fosse riuscita. Le dissi che lo avrei fatto e non era una bugia. Sarei sopravvissuta. Lo sentivo nel profondo. Ma sapevo che sarei sopravvissuta perché avevo accettato che quella era la mia vita».

Ed effettivamente, Knox è sopravvissuta. Nel 2011, poco più di due anni dalla sentenza di primo grado e dopo quattro anni di carcere, il processo di apello ha rovesciato la sentenza di primo grado e Knox e il suo fidanzato di allora, Raffaele Sollecito, sono stati liberati.

Knox racconta che la sua epifania da allora non l’ha più abbandonata. «Anche se ora sono libera, se si è fatta giustizia sul mio caso, anche se ho una carriera nelle arti (che ho sempre desiderato), anche se sono un’attivista dei diritti (che non avrei mai immaginato di essere), anche se sono una moglie con un marito innamorato, una madre con un figlio pieno di vita, sto ancora camminando sulla corda. E come tutti quelli che hanno guardato nell’abisso, così come ho fatto io, conosco bene quello strano senso di conforto di portarne un pezzo sempre con sé».

Amanda e il suo pm. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2023.

Il magistrato che voleva condannare Amanda Knox è diventato suo amico. Si scrivono spesso, una volta si sono anche visti, e lei manda le foto della sua bambina soltanto a lui (dice lui). Non ci sarebbe niente di strano se, dopo essere andato in pensione, il sostituto procuratore che investigò su Amanda avesse cambiato idea, ma è proprio l’interessato a smentire che sia così. «Non rinnego nulla delle mie conclusioni processuali», afferma il dottor Mignini, «anzi, le confermo in pieno». Però. «Però tra noi si è creato un rapporto unico, straordinario». Quindi, nonostante lui continui a pensare che Amanda abbia ucciso Meredith Kercher (al punto da definire «sconcertante» la sentenza della Cassazione che l’ha assolta), trova piacevole il loro scambio epistolare e irresistibile la tentazione di raccontarlo in un libro. Le ragioni per cui la Knox desidera coltivare un rapporto personale con il suo più accanito accusatore attengono al campo della psicologia estrema, in cui non oso avventurarmi. Più banalmente mi domando che cosa spinga l’ex pubblico ministero a ricambiare le sue attenzioni, addirittura a ostentarle, visto che tuttora la considera un’assassina. O siamo in presenza di un allievo prodigio del tenente Colombo che sta cercando di entrare in confidenza con lei per indurla a confessare, oppure questa storia è la prova che il narcisismo sa essere più forte di tutto, anche del rispetto dovuto ai familiari della vittima, che in quel magistrato ci avevano creduto davvero.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Legge.

L’Amministrazione di Sostegno.

Incapaci per antonomasia.

I centri di salute mentale.

Il Caso di Pisa.

Il Caso di Imperia.

Il Caso di Foggia.

Il caso di Lando Buzzanca.

Il caso di Carlo Girardi.

La Legge.

Prima richiedeva il beneplacito dell'autorità giudiziaria, in via esclusiva

Volontaria giurisdizione, nuovo ruolo del notaio: ora idoneo all’autorizzazione per minori e incapaci

– Il notaio rogante diviene competente ad autorizzare atti per conto di minori di età o incapaci

– Prima era richiesta la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria

– Con la riforma assistiamo ad una semplificazione e ad una riduzione dei tempi (20gg)

– L’attività di valutazione compiuta dal notaio non si sostituisce ma si affianca a quella del Giudice

Maria Lombardo su Il Riformista il 18 Giugno 2023 

La legge di riforma della Giustizia Civile (D.lgs.149/2022) ha emendato la disciplina della volontaria giurisdizione semplificandola e attribuendo un nuovo ruolo al notaio rogante che diviene competente, in via concorrente con il Giudice Tutelare, ad autorizzare il compimento di atti di straordinaria amministrazione per conto di minori di età o incapaci o di atti aventi ad oggetto beni ereditari. Acquistare un immobile o accettare una donazione per conto di minori o incapaci. Compiere atti di straordinaria amministrazione nell’interesse di minori o incapaci o aventi ad oggetto beni ereditari.

Prima, il compimento di questi atti richiedeva la previa autorizzazione in via esclusiva dell’autorità giudiziaria che, investita con ricorso proposto dall’interessato (personalmente o per tramite di un legale), era chiamata ad un’istruttoria lunga e complessa, svolta attraverso l’assunzione di documenti o informazioni e volta a verificare la necessità o utilità dell’atto nell’interesse dell’incapace o del minore. Il tutto determinava una dilatazione dei tempi e un aggravio delle procedure per il compimento dell’atto negoziale. Con la riforma assistiamo ad una semplificazione.

Alla competenza del Giudice, si affianca quella del notaio rogante. Può essere direttamente il notaio incaricato della stipula dell’atto (il collegamento con l’atto da stipulare è l’unico criterio individuato dal legislatore per stabilire la competenza) a rilasciare l’autorizzazione al suo compimento, laddove ritenga sussistano le condizioni di legge. La procedura si semplifica e si snellisce e si accorciano i tempi per il compimento dell’atto.

Anzitutto, perché in tal caso l’istruttoria finalizzata al rilascio dell’autorizzazione è più veloce, essendo agevolata dall’aver il notaio già acquisito, al momento del conferimento dell’incarico di stipulare l’atto, le informazioni e i documenti necessari e valutato già in quella sede gli interessi sottesi. In secondo luogo, il provvedimento di autorizzazione del notaio diviene esecutivo dopo solo venti giorni dal deposito presso i competenti uffici. Quindi in un arco di tempo contenuto.

La semplificazione della procedura soddisfa sia gli interessi del privato a definire velocemente la vicenda, avendo peraltro come unico interlocutore un solo operatore del diritto, sia l’interesse generale ad alleggerire il carico di lavoro dei Tribunali in sede non giudicante. Una semplificazione che non avviene però a discapito della sicurezza dei traffici giuridici e della tutela dei soggetti “deboli” che ne sono coinvolti, che anzi ne viene rafforzata.

Infatti, l’attività di valutazione compiuta dal notaio non si sostituisce ma si affianca a quella del Giudice, innanzi a quale è possibile proporre reclamo. L’autorizzazione notarile non è dunque immediatamente efficace. Solo in assenza di reclamo, avendo così superato anche un secondo step del controllo di legalità e meritevolezza, diviene esecutiva decorsi venti giorni dal suo deposito presso gli Uffici competenti.

Maria Lombardo

L’Amministrazione di Sostegno.

Estratto dell’articolo di Andrea Pasqualetto per corriere.it venerdì 22 settembre 2023.

Ha contattato la maga, le ha chiesto la stregoneria e l’ha richiamata per capire l’effetto. Sembra impossibile ma secondo l’accusa l’avvocata genovese Barbara Raimondo avrebbe voluto uccidere un’anziana donna benestante con un rito voodoo.  

L’avrebbe fatto per ragioni economiche, essendo Raimondo l’erede designata alla successione. Le due infatti si conoscevano bene, la professionista era la sua amministratrice di sostegno e come tale disponeva del suo ingente patrimonio. Dal quale, sempre secondo la procura, avrebbe sottratto nel corso degli anni oltre un milione di euro. 

Un’accusa che è stata confermata dal giudice del tribunale di Genova che, oltre alla condanna con rito abbreviato a 5 anni di reclusione per peculato al falso, ha disposto per l’avvocata anche 18 mesi di libertà controllata per la vicenda della magia nera. Lo prevede l’articolo 49 del codice penale: «Reato impossibile». Cioè, l’avvocata avrebbe tentato un delitto giudicato impossibile e come tale non punibile con una condanna ma con una misura di sicurezza: 18 mesi di libertà controllata per la pericolosità. […] 

Ma possibile che un’avvocata, figlia di un principe del foro, pensi di uccidere con una pratica del genere? «Raimondo crede alle maghe, ma riteniamo che in appello questa accusa venga meno perché francamente è tutto molto difficile».

Quanto al resto, al peculato e al falso, Vaccari commenta così: «La mia assistita ha agito con leggerezza ritenendo di avere la disponibilità di questi beni. Ma poi ha anche cercato di risarcire l’anziana: le abbiamo offerto due appartamenti, uno a Santa Margherita e uno a Genova, che valgono molto più di un milione di euro.  

Ma la parte civile li ha rifiutati. Quanto alla condanna a 5 anni, sono moderatamente soddisfatto, considerato che il pm aveva chiesto una pena più pesante e che il giudice ha concesso le attenuanti generiche proprio per il tentativo di risarcire la signora».

[…] Per l’avvocata, poi, il fallimento è totale: aveva un’amica, poteva ereditare un patrimonio importante, si ritrova invece a fare i conti con una pesante condanna, la confisca dei beni, l’interdizione perpetua dei pubblici uffici e un lavoro, quello di avvocato, al quale dovrà probabilmente dire addio. Alè.

Incapaci per antonomasia.

Chi era Franco Basaglia, il riformista irregolare che ha curato i “matti” con i diritti. Rimosso in morte come in vita, a Venezia e a Trieste nessuna via porta il suo nome. Eppure è stato il protagonista di un evento fino ad allora inedito al mondo: la chiusura dei manicomi. Ha insegnato che la malattia psichica è anche malattia sociale. E che responsabilità e dignità sono terapeutiche. Andrea Pugiotto su L'Unità il 29 Agosto 2023 

1. Quando Franco Basaglia muore il 29 agosto 1980, a soli 56 anni, Il Gazzettino di Venezia relega la notizia in cronaca, mentre Il Piccolo di Trieste la tratta con distacco. Eppure, Basaglia è veneziano di nascita ed è stato primario del manicomio triestino. È un oblio che persiste: ancora oggi, Venezia e Trieste non hanno una piazza o una via intestata a suo nome; ce n’è una, invece, a Rio de Janeiro, città che ospitò le sue famose conferenze brasiliane.

Nemo profeta in patria. È il destino degli irregolari che non appartengono ad alcuna chiesa ufficiale. Non è un caso, semmai la manifestazione di quell’ignoranza razionale che ci spinge a decidere di non sapere: solo così, infatti, possiamo rinsaldare i nostri pregiudizi evitando le fatiche del dubbio e del confronto. Ignorare biografie come quella di Franco Basaglia non è, allora, solo un problema culturale. È soprattutto un problema politico, perché il vuoto (di memoria) chiede di essere riempito con un pieno, travasato da un presente che non offre storie di eguale spessore.

2. Già in vita, Franco Basaglia fu oggetto di rimozione da parte del mondo accademico, a suo modo un’istituzione totale: «Io sono entrato nell’università tre volte e per tre volte sono stato cacciato». Prima dall’Ateneo di Padova, per andare a dirigere il manicomio di Gorizia. Poi dall’Ateneo di Parma, dove insegna igiene mentale per otto anni «durante i quali sono stato isolato come un appestato». Infine quando, da neo-ordinario, declina la cattedra di neuropsichiatria geriatrica che gli fu proposta per emarginarlo: «ho preferito rifiutare e tornare in manicomio».

Il suo è stato il destino dell’uomo di confine. Lavora a Gorizia, città a metà tra Italia e Jugoslavia. Lavora nei manicomi, i cui muri separano – per convenzione – follia e normalità. Da quando non c’è più, Basaglia paga quel suo destino con una sorta di confino, politico e culturale. Eppure, con Franca Ongaro Basaglia, è stato il protagonista di un evento fino ad allora inedito al mondo: la chiusura dei manicomi, a dimostrazione che l’impossibile è possibile.

3. C’è un proverbio calabrese che sintetizza al meglio il lavoro di Franco Basaglia: «Chi non ha, non è». Riassume efficacemente i due capisaldi del suo agire: la malattia psichica come malattia (anche) sociale; il valore terapeutico della responsabilità individuale, attraverso la restituzione dei diritti negati al malato. Vengono in mente le foto dell’occupazione del manicomio di Colorno, coperto da striscioni studenteschi che recitano: «Il figlio del ricco è esaurito, il figlio del povero è matto», oppure «Se l’ospedale psichiatrico serve a curare le malattie mentali, i malati ricchi dove sono?». È la miseria a produrre orrori.

Basaglia ne è convinto. Non per ideologia. Non perché neghi le cause biologiche della malattia mentale. Semplicemente perché, interessato più al malato che alla malattia, lo considera nella sua unità di soma, psiche, civitas. È lui stesso a spiegarlo, con un esempio lampante: «Un conto è se io chiamo pellagra la malattia di chi vive solo di polenta, un conto se la chiamo miseria […]. Che cos’è, infatti, la pellagra? Dopo i primi sintomi (eritema, diarrea, tremori), intervengono disturbi psichici che iniziano con ipocondria, depressione e portano a gravi stati confusionali con allucinazioni visive, agitazione e delirio: la vera demenza pellagrosa. Malattia mentale, infine, da fame antica, però».

Le cause (anche) sociali della malattia mentale obbligano a spostare il baricentro della cura: centrale diventa una politica di prevenzione, capace di intervenire sugli ambienti di vita e di lavoro delle persone. Nel linguaggio giuridico si chiama libertà dal bisogno, attraverso l’affermazione dei diritti sociali riconosciuti in Costituzione. Infatti, chi non ha (diritti) non è, perché a chi tutto ha perso capita più facilmente di perdere, alla fine, anche sé stesso.

Per queste ragioni, secondo Basaglia, curare il malato mentale significa «restituirgli le sue integre possibilità esistenziali». Non calmarlo, sedarlo, addomesticarlo, ma riconoscergli dignità e responsabilità, diritti e doveri. Cosa impossibile in manicomio, perché si danno persone dotate di senso solo in un contesto dotato di senso. Da qui la sua lotta: prima per trasformare l’ospedale psichiatrico in una comunità terapeutica (a Gorizia); poi per la sua definitiva chiusura (a Trieste).

4. L’aspetto più interessante, nel rileggere l’esperienza basagliana, è l’originalità della sua pratica psichiatrica. Alla domanda (leninista) «Che fare?», Basaglia risponde: «Fare!». Secondo l’insegnamento di Sartre, sa bene che «le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte». Preferisce per questo misurarsi con la realtà delle cose, convinto che la praxis sia sempre una teoria ancora non detta.

Questo comandamento traspare, ad esempio, nel lavoro all’interno del manicomio di Trieste (cfr. Aa.Vv., La libertà è terapeutica?, 1983).

Reparti aperti. Eliminazione dei camici e della contenzione. Lavoro dei pazienti organizzato in cooperative e regolarmente retribuito. Assemblee di malati e di medici, e tra malati e medici. Trasformazione dell’area dell’ospedale psichiatrico in spazio aperto al pubblico per mostre, concerti, eventi teatrali, convegni anche internazionali. Sarà, questa, una storia comune a molte altre città. Nel 1969, infatti, la sua equipe di Gorizia dà vita ad una feconda diaspora che esporterà la praxis basagliana altrove: Pirella si insedia ad Arezzo, Jervis e Letizia Comba a Reggio Emilia, Schittar a Pordenone, Casagrande a Venezia, Slavich a Ferrara.

Inquadrate in campo lungo (cfr. John Foot, La “Repubblica dei matti”, 2014), tutte queste esperienze di de-istituzionalizzazione manicomiale seguono un metodo di lavoro comune, efficace, preciso, lontano da quell’antipsichiatria scellerata di cui Indro Montanelli accusa Basaglia (cfr. Pier Maria Furlan, Sbatti il matto in prima pagina, 2016).

5. Accanto al lavoro clinico, l’esperienza basagliana scorre lungo il binario parallelo del lavoro politico-istituzionale. Basaglia non è un extraparlamentare antagonista alla Repubblica dei partiti, con i quali semmai stringe alleanze. Nella loro diaspora, i basagliani cercano e trovano l’appoggio di assessori provinciali “illuminati” dallo choc che segue la visita al manicomio cittadino, di cui sono amministrativamente responsabili. Meritano un ricordo riconoscente: ad Arezzo, Bruno Benigni e Italo Galastri; a Colorno, Mario Tommasini; a Trieste, Michele Zanetti; a Ferrara, Carmen Capatti; a Perugia, Ilvano Rasimelli. Sono comunisti, socialisti, democristiani, espressione di una nuova classe dirigente che si affaccia alla politica nel dopoguerra, con la Costituzione repubblicana alle spalle.

La stessa legge n. 180 sarà approvata, nel 1978, con un voto parlamentare quasi unanime (con l’eccezione del Partito Radicale che la giudica un escamotage per evitare il referendum abrogativo della legge manicomiale del 1904, già convocato). Con grande intelligenza, dunque, Basaglia ha sempre usato il potere politico come un mezzo, forte di una convinzione: «È quello che ho già detto mille volte. Noi nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. E nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo». Ciò ne fa un intellettuale sui generis, capace di unire gradualismo (nel metodo) e radicalismo (negli obiettivi): un riformista massimalista, un concreto utopista, un legalitario rivoluzionario. Basaglia, insomma, incarna un ossimoro.

6. Il frutto più maturo dell’esperienza basagliana sarà la chiusura dei manicomi. In origine, era la legge Giolitti (n. 36 del 1904) a disciplinare la custodia e la cura dei «mentecatti». Questo, infatti, era il nomen iuris dell’internato: «mente captus» cioè «preso alla mente», e per questo «pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo». Incatenato due volte, alla malattia mentale e al manicomio dov’è rinchiuso e oggettivato secondo categorie corrispondenti ai reparti di cura e custodia coatte: tranquilli, semiagitati, agitati, sudici, paralitici, epilettici, infettivi, suicidi.

Sono discariche sociali, i manicomi, per l’appartenenza di classe dei malati e per le condizioni in cui sono tenuti in cattività. Quando nel 1961 varca l’uscio di quello di Gorizia, Basaglia vive il suo personalissimo déjà-vu, percependo il nauseante puzzo di morte che aveva già conosciuto nel carcere in cui, da giovane antifascista, era stato rinchiuso: «Quando vi sono entrato per la prima volta ho avuto quella stessa sensazione. Non c’era l’odore di merda, ma c’era come un odore simbolico di merda. Ho avuto la certezza che quella era un’istituzione completamente assurda, che serviva solo allo psichiatra che ci lavorava per avere lo stipendio a fine mese».

Il primo intervento di riforma risale alla legge del ministro socialista Mariotti (n. 431 del 1968). Cambia il nome in ospedale psichiatrico. Cancella gli internati dal casellario giudiziario. Prevede i centri d’igiene mentale territoriale. Introduce, accanto all’internato coatto, la figura dell’internato volontario che può dimettersi sotto la propria responsabilità in qualsiasi momento. È una prima crepa che Basaglia cercherà di allargare, propiziando il crollo di un’istituzione sclerotizzata: all’epoca, i “matti” internati si contano in 100.000, sottoposti ancora alle pratiche dell’elettrochoc e della contenzione, nonostante i progressi nella farmacopea.

È in questo quadro ordinamentale che interviene il dispositivo abolizionista della legge n. 180 del 1978, assorbita pochi mesi dopo nella legge-quadro sul Servizio Sanitario Nazionale. Giuridicamente, un ricovero contro la volontà dell’individuo va considerato eccezionale, residuale, sempre reversibile, di durata breve e predeterminata dalla legge, assistito da garanzie procedurali tali da scoraggiarne l’abuso. Per la prima volta, si scinde la tutela della salute mentale dalla difesa dell’ordine pubblico perché l’infermo di mente, in quanto tale, non è più presunto pericoloso a sé e agli altri (cfr. Daniele Piccione, Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la Costituzione, 2013).

Le raffiche di critiche mosse alla c.d. legge Basaglia partono fin dalla sua entrata in vigore. Provengono da parenti dei malati dismessi, primari, politici di destra (e di sinistra, come Antonello Trombadori), psichiatri (come Giovanni Jervis, già basagliano della prima ora, o Mario Tobino, divenuto scrittore di fama). Critiche che sbagliano bersaglio, mirando a un’opzione legislativa costituzionalmente orientata, e non alla sua lenta, faticosa, osteggiata attuazione. Critiche che ritornano insidiose, trovando sponde solide nell’attuale governo: oggi, «numeri alla mano, quell’assalto potrebbe concretizzarsi» (cfr., in Domani, 6 maggio 2023, la conversazione triestina tra Gianni Cuperlo e lo psichiatra basagliano Peppe Dell’Acqua).

7. Lo racconta molto bene la biografia scritta da Oreste Pivetta (Franco Basaglia, il dottore dei matti, 2012): l’esperienza basagliana attraversa il ’68 di cui è, a un tempo, causa ed effetto. Gorizia prima, Trieste poi, dimostravano la praticabilità di un cambio di paradigma che, dal manicomio, poteva estendersi alle altre istituzioni totali ancora esistenti: famiglia, scuola, università, ospedale, caserma, carcere. L’antiautoritarismo delle pagine di Goffman, Foucault, Cooper si traduceva in un agìto possibile in cui teoria e prassi avanzavano affiancate.

È lo Zeitgeist, lo spirito del tempo che Franco Basaglia incarna al meglio. Un volume collettivo, anomalo e di difficile lettura qual è l’Istituzione negata (1968), racconto dell’esperienza goriziana nel suo farsi, vende come il pane e diventa un bestseller. In quegli anni sorprendenti, i libri si scrivevano (e si leggevano) per rovesciare il mondo, non come oggi sul mondo alla rovescia. Anche in ciò si misura tutta la difficoltà nel superare il nostro deludente e regressivo presente. Andrea Pugiotto 29 Agosto 2023

ERA MIO PADRE. Alberta, figlia di Franco Basaglia: «Era il papà dei matti, non soltanto il mio. Usciti dai manicomi giravano a casa nostra». «Mi insegnò a non avere paura. La legge 180 è nata sui nostri divani». Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2023

Cosa ha voluto dire chiamarsi Basaglia?

«Accettare che tuo padre non è solo tuo, ma lo è di tante persone».

Di tutti i suoi pazienti psichiatrici?

«Dei matti sì, ma anche di tutte le persone che hanno lavorato con lui e di quel mondo che si è riconosciuto nella sua lotta».

Alberta, lei li chiama matti?

«Le parole hanno il senso che gli si dà. I matti sono matti, non è un’offesa. È uno stato».

Glielo ha insegnato suo padre Franco? Lo psichiatra che i matti li ha liberati chiudendo i manicomi?

«L’ho capito vivendo semplicemente nella mia famiglia. Mio padre non me lo ha dovuto insegnare».

Che vuole dire?

«Non ha mai avuto bisogno di prendermi da parte e insegnare quello che stava succedendo. Lo vivevo, appunto».

Stava succedendo una rivoluzione, lei capiva questo?

«Da bambina, da adolescente non è stato così chiaro. Capivo però che quello che stavo vedendo era una cosa strana di cui si parlava tanto anche fuori casa».

Cosa stava vedendo? I matti?

«Sì, quelli slegati, liberati quando mio padre è riuscito ad aprire il manicomio di Gorizia».

E gli altri?

«Prima che i muri e le reti fossero abbattute non li ho visti. Mio padre non ha voluto che vivessimo dentro il manicomio di Gorizia, il primo che ha diretto. Era prassi per i direttori dell’epoca vivere nei manicomi, lui si è opposto».

Lei era troppo piccola?

«Era troppo brutto quello che c’era in quel manicomio Persone legate, nude, buttate in un angolo. Un orrore che mio padre ci ha risparmiato. Il problema non erano i matti, ma come venivano trattati. I matti liberati, infatti, poi hanno girato tranquillamente per casa nostra».

Che effetto le facevano?

«Da bambina avevo paura. Erano brutti. Erano persone a cui era stato tolto tutto. Non avevano denti, spesso erano persone molto grasse. Però in questo caso mio padre una cosa importante me l’ha insegnata».

Cosa?

«A non aver paura della paura».

È stato un padre affettuoso?

«Sì, molto. Ma è sempre stato coinvolto dal suo lavoro, da quanto stava facendo. Era molto chiaro che la vita della nostra famiglia corrispondeva alla rivoluzione che andava montando».

L’ha mai aiutata a fare i compiti?

«Succedeva molto di rado. Comunque c’erano tante altre persone che poi potevano aiutarmi nei compiti».

Chi?

«I tanti che lavoravano con lui. Che stavano sempre in casa nostra. La legge 180 viene chiamata legge Basaglia, ma bisogna precisare che è frutto di un bel gruppo di lavoro discusso sui nostri divani. Non l’ha scritta lui».

Ha un ricordo emotivo di suo padre?

«Faccio fatica a condividere cose private».

Come mai?

«L’ho già detto. Ho avuto una gran fortuna ad avere avuto questi genitori, c’è un posto importante anche per mia mamma Franca. Ma poi mi sono dovuta rendere conto che mio padre non era solo mio, non poteva esserlo. Il nostro privato era condiviso».

D’accordo. Ma almeno un ricordo tutto suo dell’adolescenza lo avrà.

«Le gite in macchina. Quelle erano i momenti in cui si poteva stare finalmente con mamma e papà. E con papà avevamo un gioco tra noi».

Quale?

«La musica, in macchina l’ascoltavamo di tutti i tipi, classica o pop. io e papà facevano il gioco della prima nota. Dalla prima nota dovevamo capire se era Mozart, Bach, Caterina Caselli, Dik Dik».

A suo padre piaceva la musica?

«Si, è sempre stata una presenza in casa, il tramite del rapporto».

Che ricordo ha del Sessantotto? Come lo ha vissuto?

«Non l’ho vissuto, non avevo niente da contestare. Mio padre poi era diventato un’icona del Movimento, neanche la possibilità di contestare l’autorità paterna».

Nemmeno dopo ha mai contestato suo padre?

«Forse non ho avuto il tempo. È morto che avevo ventiquattro anni. Non sono pochi, però io all’epoca ero ancora molto figlia».

Un’icona del Movimento, un uomo molto famoso: possibile che sia stato così facile accettare che suo padre non fosse soltanto suo?

«È stato un percorso».

Mai stata gelosa?

«Sì, aveva intorno tante studentesse, spesso belle».

Che ricordo ha di Marco Cavallo?

«Un’emozione fortissima. Ho contribuito a costruire quel cavallo azzurro di cartapesta insieme a mio cugino artista, Vittorio Basaglia».

Quel cavallo ha guidato la folla dei matti che uscivano dal manicomio di Trieste.

«Era il 1973, cinque anni prima dell’approvazione della legge 180. All’epoca vivevo a Venezia, non con mio padre a Trieste, ma di quello che succedeva lì sapevo tutto».

Perché scegliere come simbolo Marco Cavallo?

«Perché esisteva davvero, era un cavallo che portava dentro e fuori la biancheria da lavare. I matti lo avevano chiamato Marco, era un retaggio del manicomio chiuso. Farlo uscire con la folla voleva dire suggellare la rivoluzione».

Il 13 maggio 1978 il Parlamento approva la legge 180. Si brinda in casa Basaglia?

«Nessun brindisi».

Come mai?

«Era troppo vicino al ritrovamento del cadavere di Moro, il 9 maggio. La legge era stata varata di corsa per evitare il referendum».

Secondo lei qual è la forza della legge?

«Aver sancito che in un paese democratico non è possibile pensare di tenere nascosta una persona malata. L’importanza di quella rivoluzione è stata costringere la società a farsi carico dei malati e delle loro famiglie. E c’è un punto fondamentale che troppo spesso viene dimenticato».

Quale?

«La legge 180 non ha soltanto chiuso i manicomi. Ha previsto che per le persone con sofferenza psichica venissero create strutture, disseminate nei territori, in grado di dare risposte di salute».

Lei è una psicologa, mai pensato di fare la psichiatra?

«L’aria che avevo respirato in casa mi era entrata dentro e non era mai più uscita. Ma ho voluto mettere una distanza da mio padre. Non mi sono mai occupata di salute mentale. Ho seguito i problemi di bambini e di donne vittime di violenza, entrambi non vengono ascoltati. Come succedeva ai matti prima».

Nessuno ascolta i bambini?

«Non vengono ascoltati i loro pensieri. I bambini hanno un punto di vista importante: sono più bassi e guardano il mondo da un’altezza diversa dalla nostra. Ne avrebbero di cose da dire».

Che commento ha fatto suo padre il giorno della discussione della sua tesi di laurea?

«Non ho voluto che venisse».

Perché?

«Mi sembrava davvero troppo avere Basaglia seduto in prima fila ad una laurea in psicologia».

Quindi nessun commento di Franco Basaglia alla sua laurea?

«Mi ha mandato un mazzo di fiori e un telegramma: “Brava papà».

Si è emozionata?

«L’ho messo dentro al portafoglio. Tre mesi dopo mio padre è morto».

L’ha conservato quel telegramma?

«Il portafoglio me lo hanno rubato».

 La chiamano “giustizia”… imputato assolto anche in Appello per omicidio dei due poliziotti a Trieste. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Aprile 2023. 

A tre anni e mezzo di distanza da quel dramma, dopo il primo grado anche la Corte di assise di Appello, presieduta dal giudice Igor Maria Rifiorati, ha assolto l'omicida domenicano per "incapacità di volere". Maran, vista la pericolosità, sarà trasferito in una Rems, una residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza.

“Siamo stanchi, siamo stanchi.. “, dice Fabio Demenego  scuotendo il capo, a fine udienza, il papà di Matteo . Sul suo viso e nelle sue parole c’è tanta rabbia e legittima delusione e rabbia. Matteo Il giovane agente di polizia Matteo Demenego morto in Questura assieme al collega Pierluigi Rotta, era suo figlio, ucciso  il 4 ottobre del 2019 dai colpi di pistola esplosi dal trentenne dominicano  Alejandro Augusto Stephan Meran, che era riuscito a impossessarsi delle armi dei due poliziotti, sparando all’impazzata tentando di ammazzare anche altri otto agenti. 

L’ assoluzione nel processo di primo grado sentenziata un anno fa , era stata pronunciata dopo una scontro giudiziario a colpi di perizie psichiatriche: un’assoluzione peraltro incredibilmente chiesta proprio dalla Procura della Repubblica di Trieste. Ma la Procura generale, rappresentata in appello dal magistrato Carlo Maria Zampi, aveva immediatamente fatto ricorso. 

A tre anni e mezzo di distanza da quel dramma, dopo il primo grado anche la Corte di assise di Appello, presieduta dal giudice Igor Maria Rifiorati, ha assolto l’omicida domenicano per “incapacità di volere”. Maran, vista la pericolosità, sarà trasferito in una Rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Attualmente è ancora detenuto in carcere a Verona.

Ieri è arrivata la sentenza di secondo grado, che mortifica ed addolora ancora una volta i famigliari delle vittime. “Siamo un po’ stanchi di sentire queste scuse: quanto è malato Meran, quanto sta male“ – ha osservato ancora Fabio Demenego, papà di Matteo – “Siamo stanchi di questa storia, però dobbiamo andare avanti e non ci resta niente altro da fare. È un po’ un ripetersi di queste udienze, prese con molta leggerezza. Però i giudici sono loro. Mi auguro solo che quando un giorno servirà loro l’aiuto di un agente di polizia e si presenterà un ragazzo di 20 anni… magari ci pensano”.

Nel processo di appello conclusosi ieri sono state recepite le teorie emerse in primo grado dagli accertamenti dello psichiatra Stefano Ferracuti, ordinario di Psicopatologia forense della facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza di Roma. La consulenza era stato assegnata in primo grado dalla Corte di Assise su richiesta dagli avvocati Alice e Paolo Bevilacqua, difensori di Meran. Il professor Ferracuti aveva ritenuto il dominicano “schizofrenico” ed al momento dei fatti “in preda a una condizione di delirio persecutorio tale da escludere totalmente la capacità di volere“. Perizia che aveva ribaltato quella disposta dal collegio peritale (fra i quali c’era anche Mario Novello, psichiatra, in passato responsabile del Dipartimento di Salute mentale Medio Friuli) nominato dal gip Massimo Tomassini in sede di incidente probatorio preparata. Quella perizia aveva indicato una “parziale incapacità” che avrebbe significato una condanna certa. Ma in appello ha prevalso il parere del Ferracuti.

Gli avvocati di parte civile intendono ora sollecitare la Procura generale ad attivarsi per presentare ricorso per Cassazione. “Questa sentenza smarrisce il senso di giustizia“, ha commentato a fine udienza l’avvocato Valter Biscotti, dell’associazione Fervicredo (Feriti e vittime della criminalità e del dovere).

Come deciso in appello l’omicida trentenne dominicano  Alejandro Augusto Stephan Meran sarà ristretto per trent’anni in una Rems nei pressi di La Spezia, in quanto durante tutti questi mesi è stato molto difficile trovare disponibile una struttura idonea. Redazione CdG 1947

Le storie di Antonia e Bruno, vite recluse di non ‘normali’, rifiutate dalla “civile” Italia. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2023. 

La foto scattata a Napoli e mostra la targa della prima piazza dedicata a una vittima della reclusione manicomiale. Si chiamava Antonia Bernardini, internata a Pozzuoli. Diede fuoco al materasso del letto cui era legata da 44 giorni. Morì per le ustioni 

Nel quartiere Avvocata di Napoli, la targa dedicata ad Antonia Bernardini: testimonia la prima piazza intitolata nel nostro Paese a una vittima della reclusione manicomiale

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 28 aprile. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una o più foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Esistono storie che chi sa per quale motivo crediamo essere lontane da noi. Lontane fino a quando qualcuno che conosciamo ci racconta di vicende familiari in tutto simili a quel caso di cronaca rimasto sepolto per anni nella nostra memoria. Ci sono percorsi che potrebbero essere gestiti con umanità e, quando questo non accade, è inutile dare responsabilità ai soggetti coinvolti in prima persona: è come comunità, come società nel suo insieme che dovremmo interrogarci e pretendere che si agisca per il miglioramento, per la cura del singolo, per la presa in carico di chi non è autosufficiente, di chi non ce la fa da solo.

«VIVIAMO IN UN PAESE IN CUI TUTTO CIÒ CHE VIRA DALL’ORRIDO PERCORSO DELLA “NORMALITÀ” È DA TEMERE»

Più volte mi sono chiesto come sia possibile che si facciano barricate nel nostro Paese per sottrarre alla cella le detenute con figli al seguito. Si tratta di poche decine di persone, ma il dibattito finisce sempre per virare al becero e al disumano, tipo: «I buonisti vogliono le scippatrici rom fuori dal carcere». Ormai è un dato di fatto, la politica che fa comunicazione e la comunicazione che fa politica, fanno sempre finire ogni legittima richiesta in vacca. Divide et impera: è così che si amministra ed è così che si spacciano informazioni, alimentando timori, facendo crescere l’ansia, la paura, la diffidenza. E allora tutto ciò che vira dall’orrido percorso definito della “normalità” è da temere. E, se possibile, da isolare, richiudere, confinare. Sarebbe una conquista di civiltà se verso il carcere si avesse la stessa empatia e apertura che si ha verso le fiction sul carcere, ma questa è un’altra storia... forse. 

Ma no, non è un’altra storia, ci commuoviamo e ci sentiamo migliori di fronte alla finzione, ma solo perché la realtà e la verità dei fatti ci spaventano. La fotografia di questa settimana è stata scattata a Napoli e mostra la targa della prima piazza dedicata a una vittima della reclusione manicomiale. Nel 2017 esce il libro Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio scritto da Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito (editore Sensibili alle foglie) e racconta quello che è accaduto ad Antonia Bernardini, vittima della reclusione manicomiale. Il 27 dicembre del 1974, Antonia Bernardini, internata nel manicomio giudiziario di Pozzuoli da oltre quattordici mesi, dà fuoco al materasso del letto di contenzione al quale è legata da 44 giorni consecutivi. I soccorsi non giungono in tempo e Antonia viene trasferita nel reparto ustionati del Cardarelli di Napoli in gravissime condizioni. Morirà pochi giorni dopo per le ustioni, il 31 dicembre del 1974.

«COME SI PUÒ LASCIARE PER 16 ANNI UNA PERSONA CON MANI BENDATE E UNA MASCHERA DI FERRO ALLA HANNIBAL LECTER?»

La tragedia di Antonia sconvolse l’opinione pubblica e generò un importante confronto politico e mediatico sulla gestione dei manicomi giudiziari e civili. In seguito alla morte di Antonia, il manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli fu chiuso e questa fu una grande conquista di civiltà. Oggi la piazza dedicata ad Antonia Bernardini si trova a Napoli, nel quartiere Avvocata, nello spazio antistante l’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli. È uno spazio pieno di significato e varrebbe davvero la pena passarci e dedicare un pensiero a chi, virando dall’orrido percorso della “normalità”, riceve un trattamento inumano che talvolta porta alla morte.

La storia di Antonia mi ricorda una notizia ascoltata pochi giorni fa. Credo fosse sabato 15 aprile... mi ha colpito perché il fine settimana è sempre il momento di interruzione degli affanni, è come se cercassimo pace, riposo, serenità. Ascoltavo la rassegna stampa di Radio Radicale. Mi sembra che ai microfoni ci fosse Marco Taradash che raccontava una vicenda portata all’attenzione dei media da Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna. Bruno è un uomo di 50 anni affetto da picacismo, un disturbo che porta a ingerire qualunque cosa, commestibile e non. Bruno è da 24 anni internato nel centro Aias di Cortoghiana, una frazione di Carbonia, nel sud della Sardegna. Bruno ha, da 16 di quei 24 anni, le mani avvolte da bende e una maschera di ferro che non è un presidio medico ma gli viene messa perché non commetta atti di autolesionismo.

Quello di Irene Testa è un appello: possibile che un essere umano debba vivere come Hannibal Lecter? Che una sola persona, che ha bisogno di cure costanti e attenzione continua non possa ricevere dal Paese in cui è nato e vive l’assistenza di cui ha bisogno? Che tutto debba essere lasciato alla cura della famiglia? Che Paese è quello che non riesce, da 16 anni, a farsi carico della vita di Bruno?

Che cosa è il gene killer CALM2 che scagiona una mamma dall’omicidio di quattro figli. Storia di Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 26 aprile 2023.

Che cosa è il gene killer CALM2 che scagiona una mamma dall’omicidio di quattro figli© Fornito da Corriere della Sera

Una mutazione genetica può diventare un killer silenzioso? In alcuni casi sì. E lo dice la scienza. A giorni è attesa una nuova sentenza che potrebbe scagionare definitivamente una donna australiana Kathleen Folbigg dall’omicidio di almeno due dei suoi quattro figli. Della sua storia se ne parla ormai da anni: nel 2003 la mamma fu condannata dal tribunale di Sydney a 40 anni di carcere per aver soffocato i suoi figli. Caleb aveva solo 19 giorni, suo fratello Patrick, malato di epilessia aveva 8 mesi, Sarah 10 mesi e Laura un anno e mezzo. Morirono tutti nel sonno. E Kathleen, che ha sempre gridato la sua innocenza, fu raccontata come «peggior serial killer donna d’Australia».

Le conseguenze della calmodulinopatia

Il primo colpo di scena risale al marzo 2019 quando con una petizione firmata da 150 scienziati e genetisti (tra cui anche nove premi Nobel) hanno chiesto la grazia e il rilascio immediato della donna. Secondo gli scienziati infatti a provocare la morte dei bambini era stato un difetto genetico congenito. Il vero responsabile del dramma sarebbe una rara mutazione sul gene denominato CALM2 scoperto nel Dna della mamma (portatrice sana) e in quello delle figlie Laura e Sarah. Queste mutazioni sono associate a patologie che provocano aritmie cardiache e che, nei bambini, possono causare un arresto cardiaco o la morte improvvisa. La malattia genetica causata dal gene CALM2 è chiamata calmodulinopatia ed è molto rara. Tra i consulenti dei magistrati australiani spicca anche il nome di Peter Schwartz, direttore del Centro per le aritmie cardiache di origine genetica dell’Auxologico Irccs di Milano che spiega: «L’importanza della calmodulina, una proteina che controlla la concentrazione di calcio nelle cellule, è dimostrata dal fatto eccezionale che l’uomo ha ben tre geni che la codificano in modo identico. Le mutazioni sul gene CALM2 influiscono sulla trasmissione del segnale elettrico nel cuore: nel 2013 abbiamo scoperto e pubblicato che mutazioni su questo gene possono provocare morte improvvisa nei bambini, soprattutto in quelli molto piccoli, spesso con una presentazione clinica simile a quella della Sindrome del QT Lungo».

Una ventina di geni implicati nelle aritmie cardiache

Il gene CALM2 non è l’unico gene che può causare aritmie cardiache: in totale sono almeno una ventina. «Alcuni causano malattie che lasciano il cuore di forma e di dimensioni normali ma alterato solo nell’elettricità - specifica Silvia Priori, professoressa ordinaria di Cardiologia dell’Università di Pavia - e altri che provocano sia l’alterazione dell’elettricità, e quindi aritmie, che anche una riduzione della capacità del cuore di contrarsi, e queste sono le cardiomiopatie». Questo gruppo di malattie possono portare alla morte in culla o, nelle persone adulte, a morte improvvisa. «Rispetto ad anni fa, oggi abbiamo maggiori capacità di identificare queste malattie rare del cuore e la speranza è che in futuro le morti improvvise vadano riducendosi perché è aumenta la capacità di intercettare in tempo il problema» dice la professoressa.

Con terapia genica prospettive di cura

Sul fronte medico ci sono buone notizie. Sono in fase di avvio trials clinici per testare terapie geniche che correggono il difetto genetico modificando il Dna. «A livello mondiale - spiega Silvia Priori - ci troviamo nella fase in cui aziende farmaceutiche hanno presentato agli Enti regolatori come Ema o Fda richieste di avviare sperimentazioni in fase 1-2 in pazienti molto gravi che non rispondono alle terapie. Questo passo avanti apre alla possibilità che queste patologie nel giro di cinque o sei anni si possano curare. Ora le trattiamo, cerchiamo di mitigare le conseguenze delle alterazioni, ma se riusciremo a “sistemare” questi difetti arriveremo a essere molto vicini a poter affermare che il paziente è guarito».

Quando un gene è alterato la proteina che deve svolgere una determinata funzione, (ad esempio il controllo dell’elettricità dell’attività cardiaca), risulta aumentata o diminuita. Se la proteina non funziona bene, non riesce a fare il suo lavoro, è possibile iniettare nel cuore dei pazienti, attraverso i vasi cardiaci, un “pezzo” di Dna che entra nel nucleo delle cellule e le aiuta a produrre la proteina che non era presente nel codice genetico della persona: si tratta di una terapia compensatoria. Quando invece il difetto genetico fa produrre troppa proteina o la proteina diventa iperattiva (ad esempio come la calmodulina porta troppo calcio all’interno della cellula e provoca le aritmie) è possibile utilizzare un approccio che si chiama interferenza dell’Rna per andare a spegnere la produzione eccessiva della specifica proteina.

Varianti rare anche nei figli maschi

La condanna di Kathleen Folbigg risale al 2003. In questi venti anni la ricerca genetica ha fatto notevoli progressi, tali anche da individuare mutazioni su geni noti e non noti, come la mutazione che avrebbe portato a morte improvvisa le due piccole Folbigg. Tra il 2018 e 2019 ci fu una prima riapertura parziale del caso, ma in quell’occasione il giudice non era riuscito a superare lo scoglio del principio secondo cui «quattro morti improvvise nella stessa famiglia sono prova di omicidio». Esiste tuttavia una possibile spiegazione anche per la morte dei due maschietti. Studi e test hanno evidenziato che Caleb e Patrick avevano due diverse varianti molto rare del gene BSN, collegato a problemi neurologici e attacchi epilettici letali. A Patrick era poi stata diagnosticata l’epilessia prima della nascita. Difficile dunque non vederne un nesso. «Non è questa la prima volta che in famiglia si verificano più morti in culla - aggiunge Priori - e per questi eventi drammatici viene accusata di omicidio la madre. E invece la responsabilità è di una mutazione genetica rimasta sconosciuta di cui sono portatori uno o l’altro genitore».

Un registro internazionale

A contribuire alla riapertura del caso è stato anche il fatto che nel 2015 Peter Schwartz e la collega Lia Crotti hanno creato un registro internazionale di tutte le mutazioni sul gene della calmodulina e oggi ci sono dati su 140 pazienti nel mondo. Nel 2021 Schwartz e altri 26 esperti hanno pubblicato un articolo scientifico su Europace, il giornale della European Heart Rhythm Association sul caso di Sydney: «La presenza di quel gene emerge come una spiegazione ragionevole per la causa naturale di quelle morti».

Come intercettare il difetto genetico di una malattia aritmogena

Ma cose si fa a intercettare un difetto genetico di una malattia che comporta aritmie cardiache che possono portare a morte improvvisa? La procedura prevede il campionamento di sangue con globuli bianchi, dai quali si estrae il DNA e si cercano le sequenze di proteine alterate che regolano l’attività elettrica del cuore. «Oggi che ancora non abbiamo terapie che permettono la guarigione andiamo a studiare casi con sintomi precisi» chiarisce la professoressa Silvia Priori. «Parliamo ad esempio di un bambino che ha svenimenti ripetuti, che ha avuto aritmie, che spesso non sta bene quando svolge attività fisica o si spaventa. Sono tutti sintomi delle diverse malattie che causano aritmie. Se abbiamo già un’ipotesi di quale patologia potrebbe trattarsi andiamo a vedere il Dna per capire se c’è qualche alterazione di geni della malattia sospettata. Se invece non ci sono ipotesi va fatto uno screening più ampio su tutti i geni delle malattie aritmogene conosciute. Una volta identificato il problema abbiamo le terapie per ridurre il rischio di andare incontro ad aritmie. Certamente in futuro, quando saranno disponibili terapie geniche per correggere il difetto, potremo forse sottoporre tutti i bambini a screening».

In Italia ormai, in quasi tutti i reparti di maternità viene eseguito un elettrocardiogramma al neonato entro il primo mese di vita. «Cambiamenti nell’elettrocardiogramma fanno sospettare alcune malattie genetiche e spesso riceviamo campioni per procedere con l’analisi del Dna proprio dai reparti di neonatologia. Sono tutti indizi che ci aiutano per la diagnosi » chiarisce la cardiologa. Un altro step importante è la visita medico sportiva che prevede elettrocardiogramma sotto sforzo per tutti quei ragazzini che svolgono attività sportiva agonistica. In molti casi è possibile identificare la malattia prima che si manifesti il sintomo, che purtroppo in alcuni casi è fatale.

La storia dell’uomo che vive come Hannibal Lecter. Mani legate e una maschera perché è malato, così Bruno vive da 16 anni: “Più una tortura che una cura”. Rossella Grasso su L'Inchiesta il 15 Aprile 2023 

In testa deve portare un casco con una gabbia metallica. Le mani devono essere legate, contenute da fasce. Così Bruno, paziente psichiatrico vive da 16 anni. Le immagini postate sui social da Irene Testa, tesoriere del Partito Radicale e Garante delle persone private della libertà personale della Sardegna sono agghiaccianti: “Se questo è un uomo – ha scritto la garante – Sedici anni con le mani legate e una maschera come quella di Hannibal Lecter. Non è un criminale ma un malato. Va cambiato subito il suo piano ‘terapeutico’”, ha scritto. E la sua denuncia è rimbalzata sui social diventando virale in poche ore.

Bruno ha 50 anni, da 24 è internato in un centro per persone con disagio psichico nel Sud Sardegna. Soffre di picacismo, vuol dire che ingerisce qualsiasi cosa gli capiti davanti: piccoli oggetti, che posso essere pericolosi, o fargli del male. Irene Testa è andata a trovarlo qualche giorno fa, dopo aver ricevuto una segnalazione. Quando lo ha visto è rimasta assolutamente impressionata dalla scena che si è trovata davanti: “Ho atteso un giorno prima di mettere nero su bianco quanto visto nella struttura. Un giorno per riprendermi dallo scenario agghiacciante e raccapricciante che mi sono trovata davanti. Non mi sto riferendo alla struttura ma ad un caso specifico di un ospite al suo interno, per la verità già sollevato da alcuni anni, in primis dalla Presidente dell’Unasam (Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale), Gisella Trincas Maglione, ma anche oggetto di esposti alla Procura, di lettere all’allora Ministro della Salute Speranza e di interrogazioni in Consiglio Regionale della Sardegna”.

E’ di Bruno che parlo, affetto da picacismo: una patologia che lo porta a ingerire qualsiasi cosa gli capiti davanti. Bruno da oltre 16 anni viene tenuto tutto il giorno legato per le mani con un casco in testa. Apparentemente non perché pericoloso verso gli altri, ma verso di sé. Io non sono un medico e non spetta a me dare ricette, magari dal sapore semplicistico perché guidate dall’onda emotiva: sono la garante delle persone private della libertà personale e proprio di persone, di singoli casi ho il dovere di occuparmi. Non mi rassegno, non posso accettare che una persona malata venga sottoposta a un trattamento che appare più vicino al concetto di tortura che a quello di cura. Non è però tempo dell’indignazione ma della concreta e rapida azione di tutti gli attori istituzionali che possano dare un contributo a cambiare questa situazione. Questa è una sorta di appello: dobbiamo farlo per Bruno e per tutti gli altri Bruno”.

Intervistata dal Corriere della Sera, Testa ha spiegato che la sua è una battaglia per trovare una soluzione per curare Bruno in maniera più dignitosa e umana: “Io non so se c’è un’alternativa, ma vorrei che altri medici esprimessero un parere. Mi hanno detto che ci vorrebbe un operatore sanitario solo per Bruno, ma l’aumento chiesto per la sua retta, pari al 30 per cento, non copre le spese per una persona a sua disposizione. Io spero che qualcosa cambi”.

La denuncia della garante ha creato molta indignazione e forse qualcosa per Bruno si sta muovendo. ”Sul caso di Bruno, affetto da picacismo e costretto da 16 anni a vivere legato e mascherato ho già sentito il presidente della commissione Sanità per concordare un’azione rapida affinché si studino i percorsi i più adeguati possibili per questo paziente che ha bisogno di personale dedicato”- ha detto il presidente del Consiglio regionale della Sardegna, Michele Pais, come riportato dall’AdnKronos – ‘Senza entrare nel merito della terapia e dell’assistenza ritengo sia umanamente insostenibile che chiunque possa vivere legato e mascherato – commenta Pais -. È una questione prima di tutto di dignità della persona. Il Consiglio regionale interverrà con ogni mezzo per garantire a Bruno, e in generale a chi soffre, un’assistenza mirata e che non leda i diritti umani”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Vittorino Andreoli: «Che il diavolo non esiste l’ho capito stando tra i matti. Volevo uccidere un collega che molestava una donna». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2023.

Lo psichiatra: «Bruciai tutte le cinghie per i malati, nessuno mi ha mai fatto del male. «Il mondo è in mano a imbecilli e la violenza dilaga. L’unico antidoto sarebbe l’amore»

Professor Vittorino Andreoli, lei sostiene che tutti possiamo avere un momento in cui potremmo uccidere. Lei questo momento l’ha avuto?

«Ho avuto l’istinto di ammazzare un collega psichiatra, uno che contava, e che molestava una dottoressa che lavorava per lui e mi aveva chiesto aiuto: era angosciata perché lui la toccava, la convocava solo per molestarla. E lei era terrorizzata: non voleva concedersi, ma aveva paura di perdere il lavoro. Mentre lo raccontava, ho sentito la pulsione omicida perché lo psichiatra dovrebbe invece aiutare le persone».

Lei è celebre anche per non aver mai legato un malato in 50 anni di mestiere: come ha fatto? E perché i suoi colleghi ancora oggi li legano?

«Quando trentenne, nel ‘71, divenni primario dell’Ospedale Psichiatrico di Marzana, a Verona, dissi a medici e infermieri di non legare più i malati gravi, ma che se avessero avuto bisogno, io sarei arrivato in cinque minuti. Contavo sul fatto di conoscere bene la farmacologia dopo le esperienze all’Istituto Farmacologico di Milano e in America. La mattina dopo, la caposala mi aspettava agitatissima, dice: venga, venga, un malato sta rompendo tutto, è pericoloso. Salgo, sento un rumore terribile in una stanza: urla, oggetti spaccati, bam bam. Fuori, tutti gli infermieri e i medici di turno. Dico alla caposala: apra la porta. Lei rimane ferma con la chiave in mano. L’infermiere più anziano mi fa: prof, conosco suo padre, la prego, non lo faccia».

La racconta come una scena da gladiatore col leone.

«Entro e vedo tutto divelto, il lavabo per terra, spaccato. Al che, inizio a rompere tutto quello che non era ancora rotto. Prendo il lavello o e bam bam, lo sbatto e risbatto per terra. Il malato si calma. Mi guarda. Io continuo. Lo ammetto: rompere mi dava una soddisfazione incredibile. Alla fine, prendo il malato sottobraccio, lo porto nel mio ufficio, gli dico di non rompere mai più niente fino al mio arrivo alle otto del mattino e lui così fece. Dopo, feci raccogliere i mezzi di contenzione e appiccai un falò in giardino. Sentii un piacere quasi fisico. Da allora, mai un malato mi ha dato uno spintone».

La percepivano come un fratello di follia?

«Sentivano che io a loro volevo bene. Se stabilisci una relazione, non hai bisogno di legare un malato. I miei collaboratori non l’hanno più fatto e nessuno ha più rotto niente. Poi, per controllare le pulsioni, servono i farmaci. Ma tuttora, l’80 per cento dei malati viene legato: la psichiatria è in grave crisi perché bisogna essere prima umani e poi psichiatri».

Lei racconta sempre che ha studiato da geometra per accontentare suo padre, ma che già allora voleva diventare «medico dei matti». Come nasce questa sua passione?

«Papà aveva iniziato come muratore ed era diventato cavaliere delle Repubblica. Ci teneva che continuassi la sua azienda edile, ma io studiavo di nascosto latino, greco, matematica perché, per l’università, serviva il liceo. E ora posso dire che, senza le tragedie greche, non saprei fare lo psichiatra. Comunque, dopo il diploma, gli dissi: papà, non me la sento, voglio occuparmi dei matti. Mi guardò, ma non disse niente. È stato il mio eroe. Feci l’ultimo anno di liceo ed eccomi qua».

Non mi ha detto come arriva la passione per «i matti».

«Perché frequentavo l’Azione Cattolica e alcuni miei compagni erano ossessionati dal demonio. Tutti ricevevamo un’educazione terrificante: il peccato era in agguato, il diavolo pure. Il mio amico Guido veniva a parlarmi di Satana, ne era spaventato. Io dicevo: non c’è. E lui: c’è, è qui. Non sapevo come aiutarlo. E mi venne la curiosità di visitare il vicino manicomio di San Giacomo Della Tomba».

Suppongo che le piacque.

«Mi colpirono soprattutto le donne buttate per terra, prive di ogni dignità, fascino. Il direttore mi disse: avrà cambiato idea. Risposi: no, queste persone hanno bisogno di tutto, perciò, forse, qualcosa di buono per loro posso farlo. Il direttore mi permise di tornare nei fine settimana per occuparmi dell’atelier di pittura dove i pazienti potevano esprimersi dipingendo e che poi ho seguito per tutta l’università. Ogni domenica, mamma sperava che portassi a casa una ragazza, ma io portavo un pittore matto».

Si laureò a Padova, lavorò a Cambridge, al Cornell Medical College di New York, quindi il neuroscienziato Seymour S. Kety le offrì una cattedra ad Harvard. Perché non accettò?

«Perché mia moglie, incinta della seconda figlia, mi disse: sono contenta, te lo meriti, però io e le bambine torniamo in Italia. Non le piaceva l’educazione empirica e superficiale che avrebbero ricevuto lì. Aveva ragione, ce lo diciamo ancora. E in Italia scelsi di fare clinica, nell’ex manicomio frequentato da studente».

Stare insieme da 60 anni è indice di amore folle o è da matti?

«È da persone che hanno capito che le modalità esistenziali cambiano, come l’amore nella vecchiaia. L’errore è un modello d’amore che vale solo a 40 anni».

Sulla vecchiaia, ha scritto per Solferino, «A una certa età». Com’è la sua certa età?

«Mi piace tanto lamentarmi. Dire: nessuno pensa a me. Ho tre figlie, cinque nipoti ed è stupendo perché la decodifica è: ho bisogno di voi, non mi sento amato. La vita va vissuta come un gioco».

La felicità è possibile?

«È un termine che odio perché riguarda l’io: prediligo la gioia perché riguarda il noi».

Possiamo dire che è lei che ha trovato le tre ragioni della follia?

«Quando ho iniziato, c’erano la scuola deterministica Lombrosiana, in cui tutto era legato a un’alterazione del cervello, e quella “democratica” di Franco Basaglia che faceva dipendere tutto dalla società. Io, usando un metodo da scienziato, ho trovato una terza via, oggi prevalente: il comportamento dell’uomo, sano o disturbato, è sempre il risultato di tre fattori, ovvero biologia, esperienze e ambiente fisico e relazionale. La premessa è che, essendo il cervello plastico, si può intervenire per curare e anche questa premessa è una scoperta oggi accettata da tutti».

I social hanno cambiato il funzionamento del cervello?

«Certo. È impossibile che uno che vive per ore della logica meccanica di Internet sappia usare la logica della mente, dei sentimenti. Ma il mondo è in mano a imbecilli da diagnosi psichiatrica».

Faccia nomi e diagnosi.

«Per non prendere querele, dico solo che uno che vuole portarci nello spazio o ibridarci col robot è un pazzo totale e incapace di affettività: un Asperger. E un altro, quello che crea mondi alternativi, è un oligofrenico: significa che ha poco cervello».

Fra baby gang e omicidi per futili motivi, vede un aumento dei disturbi psichiatrici?

«La risposta è sì. Il malato mentale è uno che ha trovato un modo per vivere in una situazione in cui le frustrazioni superano le gratificazioni, cosa frequente in questo mondo dominato dal denaro, dove dilagano violenza e stupidità».

Un antidoto c’è?

«L’unico sarebbe l’amore».

L'addio allo psichiatra e intellettuale. Chi era Franco Rotelli, psichiatra e intellettuale è stato il braccio destro di Basaglia. Angela Azzaro su Il Riformista il 19 Marzo 2023

Franco Rotelli, morto giovedì a Trieste all’età di 81 anni, è stato uno dei protagonisti della riforma psichiatrica italiana, uno dei giovani che negli anni Settanta insieme a Franco Basaglia, di cui era il braccio destro, costruisce qualcosa di straordinario: cambiare completamente l’idea che si ha della psiche, della normalità e della malattia. Un salto culturale e sociale che, con tutti i limiti, è ancora vivo. Questa intervista è stata realizzata qualche anno fa. E ricostruisce quella meravigliosa storia che ha portato nel 1978 alla legge 180: si aboliscono i manicomi in Italia. Ancora oggi quella legge e quell’esperienza sono un modello in tutto il mondo.

Rotelli, quando incontra Basaglia?

Lo ho conosciuto nell’ospedale psichiatrico di Parma, mi ero appena laureato. Nel ‘ 71 Basaglia vince il concorso a Trieste come direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale. Viene chiamato dal primo presidente di centrosinistra, Michele Zanetti, che vuole effettivamente cambiare le cose. Io lo seguo.

Quale situazione trovate?

Trieste sconta in quegli anni il problema degli esuli istriani, trecentomila persone che erano scappate dal loro Paese: un conto era vivere nelle campagne istriane negli anni Quaranta un altro vivere in città negli anni Cinquanta. Arriviamo in un manicomio con 1300 persone in una città che avrebbe dovuto averne molte di meno. Le immagini che ci troviamo davanti sono quelle terribili, immortalate nelle fotografie dell’epoca. Sbarre, contenzione, elettroshock.

I famigerati manicomi: quale legge li regolava?

Era in vigore la legge del 1904, che stabiliva condizioni oggi impensabili: prevedeva che tutte le persone internate in un ospedale psichiatrico fossero da considerarsi pericolose. Non era tanto un giudizio di valore, quanto un principio giuridico: se uno di questi veniva trovato per strada veniva processato. Era considerato come un prigioniero. C’era una presenza, oggi non più pensabile, della magistratura e della questura.

Che cosa decidete di fare?

Cambiare non era facile. Ma a nostro favore c’era l’esperienza di Gorizia, precedente a quella di Parma, che aveva assunto molta importanza a livello nazionale e il successo del libro di Basaglia, pubblicato nel ‘ 68, L’istituzione negata. Zanetti, che era democristiano, dà a Basaglia carta bianca. Si verifica qualcosa di impensabile fino ad allora, qualcosa di irripetibile. La carta bianca viene presa sul serio da Franco che ottiene 30 borse di studio per psicologi e psichiatri. Il clamore mediatico è tale che da tutta Italia arrivano studiosi e volontari. Tanti giovani, tutti molto motivati.

C’è un legame con i movimenti anti autoritari e studenteschi che in quegli anni stanno cambiando la società italiana?

Succede che da un luogo chiuso, oppressivo come il manicomio, nasce un’ondata liberatoria: una delle poche ondate di energia duratura del ‘68. Quella generazione di scalmanati riesce a cambiare la realtà dei manicomi, assumendosi grandi responsabilità. Si aprono i reparti, si mescolano uomini e donne, si apre l’ospedale all’esterno. Si modifica lo statuto giuridico delle persone ricoverate. Una piccola legge del ‘ 68 consentiva di poter entrare volontariamente nell’ospedale. Questo voleva dire una cosa ben precisa: che se entravi volontariamente, potevi uscire liberamente. Non eri più costretto a stare, come se fossi un prigioniero. Si crea la figura dell’ospite, che – anche se ricoverato – dal punto di vista giuridico resta un cittadino libero.

Un fatto passato alla storia è quella di un gigantesco cavallo di legno e cartapesta che viene portato in corteo da ospiti, medici, volontari. Si rompe il muro di separazione tra interno ed esterno. Ricorda quel giorno?

Marco Cavallo, questo è il suo nome, viene costruito da Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia insieme alle persone che partecipano ai laboratori nati all’interno dell’ospedale. Nel ‘ 73 si attraversa la città: è la rappresentazione scenica del cambiamento che si sta attuando. La città reagisce con interesse, ma le resistenze non sono poche. Il quotidiano Il Piccolo scrive contro di noi articoli molto violenti. Il Pci vuole e non vuole, approva e non approva quello che stiamo facendo. Allora il Pci a Trieste contava molto, era il partito di Vidali con migliaia di iscritti.

Questo dissenso crea una battuta d’arresto?

Assolutamente no. Noi andiamo avanti. C’è un clima da “liberazione”: ogni giorno leviamo qualche vincolo, combattendo contro la paura della gente e contro le regole. E costruiamo una forma di welfare artigianale: nascono le prime cooperative sociali di persone ricoverate. Fino a quel momento, lavoravano ma senza essere retribuiti. Gradualmente si crea un sistema di protezione sociale. Le persone iniziano a uscire, a trovare casa, a farsi una vita anche senza avere una famiglia.

Qual è la sfida a quel punto?

Alla fine del ‘73 non era chiaro se si dovesse riformare l’ospedale psichiatrico – umanizzandolo, abbellendolo e rendendolo più civile – o farlo fuori. Questa opzione fu chiara alla fine del ‘ 74. Pensammo: va distrutto. Altrimenti l’esclusione sarebbe rimasta come elemento fondante.

Era un periodo di grandi discussioni, di un lavorìo intellettuale oggi forse incomprensibile. Ricorda altre querelle?

Un altro dibattito riguardava “il dopo”. Secondo alcuni la malattia mentale non esisteva, era solo una conseguenza del malessere sociale. Noi eravamo convinti che i manicomi andassero chiusi, ma che si dovessero costruire servizi sufficientemente forti nel territorio: servizi che aiutassero le persone a curarsi e a vivere una vita dignitosa. Non volevamo buttare la gente per strada. Volevamo buttare via i manicomi. Dicevamo: le persone vanno curate, assistite, in un altro modo, con un altro paradigma, ma vanno aiutate! In California, negli stessi anni, chiudono i manicomi e le persone finiscono per strada senza alcun sostegno. Oggi fanno i conti con quella scelta e sono venuti da noi a studiare cosa è stato invece fatto in Italia.

Arriviamo così al 13 maggio del 1978, giorno in cui viene approvata la legge 180 che abolisce i manicomi. Che cosa succede?

Il gruppo originario che lavorava con Basaglia, non si muoveva solo in ambito psichiatrico. L’idea era quella di cambiare in generale la qualità della vita, la democrazia di questo Paese, di allargare le sue regole. La sfida era quella di spostare i confini della cosiddetta normalità. Quando arriva la legge che consente di chiudere i manicomi è un passo importante. Ricordo che quando fu approvata fummo sorpresi anche noi, non ce l’aspettavamo che potesse arrivare. Lo stesso Basaglia fu sorpreso dalla velocità con cui fu approvata. Moro era stato da poco ucciso. Questa drammatizzazione portò a una accelerazione impensabile fi no a quel momento. Quando arriva la 180, noi abbiamo ancora 500 persone nell’ospedale psichiatrico. Fu molto bello, anche perché eravamo giovani.

Si sfida il potere.

Pochissimi mesi prima dell’approvazione della legge, andammo a occupare una casa. Basaglia non era d’accordo. Ci fu uno scontro all’interno dell’equipe tra chi voleva affrettare le cose sul piano concreto e Franco che temeva ripercussioni negative. Diceva: “State fermi, non rompete troppo, e non estremizzate delle pratiche che rischiano di creare fratture politiche”. Aveva capito che la legge stava per essere approvata. Tutto era messo in discussione: le carceri, le case di riposo, le politiche per i minori – all’epoca c’erano gli orfanotrofi – le classi speciali.

Si mettono in discussione anche i concetti di normalità e di malattia…

La parola malattia applicata a queste questioni è una forzatura, questo non vuol dire che non esista qualcosa che si possa definire malattia, ma solo se diamo un valore relativo a questa parola. Non esiste lo schizofrenico, esistono persone che hanno disturbi schizofrenici. E non è la stessa cosa. Perché se una persona ha dei disturbi schizofrenici, tu puoi parlarci, vedere che cosa puoi fare. Se invece hai davanti lo schizofrenico, hai davanti una totalità che aggredisci riempendolo di farmaci o usandogli violenza. Dire schizofrenico è quindi un semplicismo, ma lo è anche negare che esista un problema di salute mentale. Un disturbo mentale grave comporta un degrado sociale, una distanza dagli altri, un isolamento, una stigmatizzazione, la perdita del lavoro. Se non contrasti tutto questo insieme non risolvi granché. Si deve fare in modo che le persone non precipitino: si deve cioè garantire loro una socialità invece che bombardarli di farmaci

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Mencarelli: tutti i sani si somigliano; ogni matto è invece matto a modo suo. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista il 6 Marzo 2023

Quanti sono gli scrittori che hanno provato a descrivere l’indescrivibile? Lo hanno chiamato anche “male di vivere” perché “depressione” o “malattia mentale” sa di troppo generico, troppo impreciso. Daniele Mencarelli c’è probabilmente passato per questi lidi neri e a distanza di vent’anni è riuscito a parlarne, a farne un romanzo.

Nel suo Tutto chiede salvezza (Mondadori, 2022, pp. 204, €18.05), che molti conosceranno grazie alla serie Netflix derivata dal libro, l’autore ci racconta in particolare del suo abisso con un personaggio non a caso suo perfetto omonimo. Mencarelli con maestria acquerella il male mentale dei suoi compagni di viaggio, all’interno di una settimana di TSO, il trattamento sanitario obbligatorio, l’ospedale dei “pazzi”, con pagine che tolgono il fiato.

Non occorrono troppe righe per capire che chi tiene la penna è una mano ferma e chirurgica, capace di descrivere i colori della depressione sia come arco iris di grigi, che usando tutta la tavolozza dei colori. Nulla è banale in questo romanzo, nulla è superfluo. Non lo sono anzitutto le descrizioni, ficcanti, delle sensazioni che abbrutiscono la mente e la vita del protagonista. Ma il suo occhio sa osservare con dolcezza ed empatia la malattia mentale di ognuno degli altri personaggi. E, parafrasando Tolstoj, tutti i sani si somigliano; ogni matto è invece matto a modo suo.

Sono uomini che schizzano fuori dalla pagina in tutta la loro infelice tridimensionalità. Risultano talmente realistici da far venire il dubbio che non siano parto di immaginazione, ma solo descrizioni di persone incontrate.I n ogni caso e in ogni caos, Tutto chiede salvezza è uno dei romanzi più belli della letteratura italiana del XXI secolo, e scusate se è poco.

SPOILER. Rispetto alla serie Netflix il testo è più cupo e grigio, venendo a mancare la storia d’amore con la donna ricoverata nella stessa clinica. Qui, nel romanzo, c’è la figura di una donna, ma è una donna non attraente la cui anima è stata ferita e presa in giro 6-7 anni prima da una comitiva di ragazzetti cattivi di cui faceva parte il nostro disarmato protagonista. Le scene in cui lui si rende conto di essere stato corresponabile della distruzione di questa povera ragazza, la telefonata che Daniele fa a sua madre per cercare di espiare e di avere un conforto, con la madre che risponde algida: “Bravo. Sei stato bravo. Eppure hai una sorella. Se lo avessero fatto a lei? Se m’hai chiamato perché pensavi che t’avrei alleggerito la coscienza hai sbagliato. Tra tutti i mali quello fatto per gioco, con leggerezza, è il peggiore che esista.” sono fra le più toccanti del romanzo.

Giulia Villoresi per “il Venerdì di Repubblica” il 7 gennaio 2023.

Il canone culturale non sa dove mettere Cesare Lombroso. Forse tra i maggiori intellettuali italiani dell'Ottocento. Forse tra gli aneddotisti. Forse era «un uomo di genio senza talento». Sicuramente un affabulatore, che spesso fondava le sue affermazioni su una manciata di casi, talvolta su un solo caso, motivo per cui poté stabilire, per esempio, che «la passione del pedalare trascina alla truffa», o che le prostitute hanno «l'alluce prensile». Da qui l'enigma: se questo medico ha fatto quasi solo scoperte sbagliate, perché non riusciamo a dimenticarlo?

 In effetti, Lombroso ha dato impulso alla moderna criminologia, alla polizia scientifica, alla grafologia, al diritto penale, alla psicologia collettiva: e lo ha fatto su basi ineffabili. Con lo stesso smarrimento dobbiamo ammettere che, mentre affermava l'inferiorità congenita dei diversi, fondava un nuovo modo di comprendere l'anomalia e di valorizzare la marginalità.

Cosa pensare, quindi? Forse che Lombroso, come del resto Freud, con cui condivide molto, aveva più affinità con gli scrittori che con gli scienziati.

Con questa intesa Alberto Cavaglion ha curato una miscellanea dei suoi testi, L'amore nei pazzi e altri scritti (Einaudi), in cui dà spazio «a scorci poco frequentati della produzione lombrosiana». Il primo è il diario giovanile: un piccolo gioiello di autoanalisi fatto di sogni e annotazioni, dove troviamo, in un bellissimo stile epigrammatico, l'aurora del suo destino («Tendenza che in me non spiego all'anatomia patologica»), l'abitudine alla fantasmagoria («Illusione di vedere il colera come un uomo») e quel modo tutto da scrittori di trarre leggi generali dalle intuizioni e persino dalle metafore («Tutti quelli che hanno malattia di cuore sono cattivi quasi sempre»).

 Altri scritti mostrano la sua eccezionale sensibilità verso campi di indagine a cui nessuno ancora pensava: il gergo dei delinquenti e quello dei commessi, il mancinismo, la meteoropatia. Si mise persino a inventariare gli oggetti e i segni prodotti dai carcerati - ceramiche, disegni sui muri, messaggi sui libri, tatuaggi - stilando una sorta di atlante della cultura materiale carceraria.

Ma il posto d'onore va alle lezioni di «Scienza popolare per signore»: undici conferenze tenute a Torino nel 1880, poi raccolte da Loescher, nelle quali Lombroso trasforma degli aneddoti scientifici in un patrimonio di novelle. Il suo modo d'introdurre i casi clinici potrebbe fondare un genere letterario a sé: «Da padre convulsionario, erpetico, e di famiglia di neuropatici, nacque una signora piccola, doligocefala, intelligente, mestruata a 12 anni»; oppure: «Un maestro di 52 anni, figlio di bevone, con nonna pazza, zio epilettico, fratello suicida, eccellente contabile, che aveva tentato un giorno di annegare la moglie, e sei volte di suicidarsi senza causa, venne arrestato per aver cercato di masturbare dei compagni d'ufficio».

 Per dimostrare i danni dell'alcolismo terrorizza il pubblico con numeri da Antico Testamento: «Da un solo capistipite ubbriacone, Max Jucke, discesero, in 75 anni, 200 ladri e assassini, 280 poveri ammalati di cecità, idiozia, tisi, e 90 prostitute, e 300 bimbi morti precocemente». Nel suo repertorio retorico abbondano il paradosso («egli, malgrado infingesse la pazzia, era pur matto egualmente») e la supercazzola («pochi anni sono, un cretino di Savoia, morso da un cane idrofobo, divenne intelligente negli ultimi giorni della sua vita»).

In L'amore nei pazzi - laddove tra i «pazzi» accomuna omosessuali e cannibali, transessuali e pedofili, necrofili e onanisti - apprendiamo che la ninfomane «spesso ha sete violenta, bocca arsa, alito fetido, sputacchiamento e tendenze a mordere chi incontra», mentre nella forma più mite tende «a denudarsi e a parlare di nozze proprie ed altrui».

Don Chisciotte e tutti i rimatori cortesi sono nel girone degli erotomani. In quello degli «amori zoologici», insieme a casi più scontati, c'è quello di una gentildonna straniera che, rimasta vedova, «a poco a poco s' innamorava del suo colombo», e così confidava a Lombroso i suoi turbamenti: «Quando lo vedo divento pallida e poi rossa, e mi batte il cuore, e lo bacio e ribacio e stringo al petto, e mi sento venir meno...».

 Ampio spazio è dedicato alla commovente storia di C., contadino di 37 anni, che «a 15 anni vede biancheggiare al sole un grembiale» e da quel momento «non può veder grembiali senza impossessarsene per masturbarsi»; tenterà di sfuggire al loro richiamo in ogni modo, facendosi marinaio, poi persino frate trappista; arrestato più volte per furto di grembiali, alla fine viene spedito in manicomio. In fondo la letteratura è narrare storie. Il modo in cui lo faceva Lombroso è descritto molto bene in un appunto del suo diario: «Quanta varietà agli occhi di chi vede senza guardare».

I centri di salute mentale.

Il dramma delle articolazioni psichiatriche. Sono "repartini" nati per tutelare i detenuti afflitti da disturbi mentali, ma il più delle volte le strutture sono inadatte e il rispetto dei diritti della persona è spesso violato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 luglio 2023

Isolamento prolungato nelle cosiddette celle lisce, episodi ingestibili da parte degli agenti penitenziari, gravi gesti autolesionistici e non di rado suicidi. Il tema della salute mentale in carcere rappresenta uno dei nodi più difficili da sciogliere, per la necessità da una parte di garantire cure adeguate che rendano il contesto detentivo quanto meno possibile peggiorativo del disagio psichico, dall’altra per la necessità di assicurare la sicurezza della società libera e all’interno degli istituti stessi. Come abbiamo visto anche con la lettera – pubblicata su Il Dubbio di ieri – di Irene Testa, la garante della regione Sardegna, il problema è tuttora irrisolto a causa dell’inefficienza e degrado delle sezioni speciali apposite.

Bisogna partire da una premessa. Le persone con patologia psichiatrica autori di reato si divide in due gruppi, i “folli- rei” e i “rei- folli”. Per “folli- rei” si intendono le persone giudicate incapaci di intendere e volere, ma socialmente pericolose e dunque il gruppo di persone per cui all’epoca venivano rinchiusi negli allora ospedali psichiatrici giudiziari ( Opg) e oggi presso le Residenze per le Misure di sicurezza ( Rems).

Per “rei- folli” si intende invece quella categoria onnicomprensiva di persone giudicate capaci di intendere di volere, riconosciute colpevoli di un reato e per questo condannate a pena detentiva. Ed è per quest’ultimi che il vigente ordinamento penitenziario prevede la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali, oggi denominate “articolazioni per la salute mentale”, volte a garantire servizi di assistenza rafforzata per rendere il regime carcerario compatibile con i disturbi psichiatrici. In tali reparti si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Nascono così.

Dall’inizio degli anni Duemila, a partire dalla casa circondariale di Torino, si è iniziato a sperimentare la nascita di “repartini” o comunque sezioni speciali dell’istituto penitenziario che avessero lo specifico compito di occuparsi della salute mentale. La loro creazione ed effettiva gestione non è mai stata normata in maniera univoca e coerente sul territorio nazionale, ma affidata a fonti secondarie, ad atti interni all’amministrazione penitenziaria o ad accordi territoriali tra l’amministrazione penitenziaria e sanitaria.

Tali articolazioni, però, si trovano solo in poche decine di carceri, con il risultato del mancato rispetto della territorialità della pena e soprattutto con la troppa concentrazione di detenuti psichiatrici in pochi reparti. In generale, queste sezioni sono principalmente dedicate alla gestione sanitaria, ma rimangono comunque parte integrante delle strutture penitenziarie, con la presenza della polizia penitenziaria. Alcune di queste articolazioni sono inserite all'interno di reparti sanitari, mentre altre occupano spazi specifici. Tuttavia, come segnalato più volte anche dal Garante nazionale, il rispetto dei diritti delle persone detenute è spesso violato.

Sono stati riportati casi di contenzione. In particolare come è accaduto nel passato al carcere di Torino, emerge l'esistenza di ' celle lisce': quelle spoglie e prive di suppellettili. La permanenza prolungata in queste condizioni, oltre il tempo necessario per calmare l'individuo e oltre il termine della cosiddetta ' acuzia' ( fase iniziale dell'arresto in cui l'individuo può essere particolarmente agitato), può costituire un trattamento inumano e degradante. Basti pensare al recente caso segnalato da Maria Grazia Caligaris dell'associazione “Socialismo Diritti Riforme”, quello riguardante un ragazzo algerino di 19 anni tenuto in isolamento ogni tre giorni al carcere sardo di Uta. Senza ovviamente dimenticare ciò che ha riportato la garante regionale Irene Testa sul disagio non solo al carcere di Uta, ma anche al penitenziario di massima sicurezza di Bancali.

In generale, queste sezioni sono principalmente dedicate alla gestione sanitaria, ma rimangono comunque parte integrante delle strutture penitenziarie, con la presenza della polizia penitenziaria e l'applicazione delle norme carcerarie come in ogni altro settore. Alcune di queste articolazioni sono inserite all'interno di reparti sanitari, come nel caso di Cagliari, mentre altre occupano spazi specifici. All'interno di queste articolazioni si trovano persone che non possono essere curate e assistite nelle sezioni ordinarie delle carceri. La maggior parte di loro si trova in ' osservazione psichiatrica' secondo il quadro giuridico, che prevede un periodo iniziale di 30 giorni prorogabili, durante il quale viene valutata la compatibilità dello stato di salute psicofisico con la detenzione.

L'ingresso e l'uscita da queste articolazioni avvengono su decisione interna dell'amministrazione sanitaria e penitenziaria, senza alcuna previsione di un controllo giurisdizionale ( che invece avviene nel caso di ricovero in una struttura esterna al carcere). Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia, le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti.

Folli rei”: non più Rems ma più servizi di salute mentale. Daniela Barbaresi, segretaria confederale Cgil, e Serena Sorrentino, segretaria generale Fp Cgil, sollecitano finanziamenti e assunzioni per la sicurezza degli operatori.

Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 17 maggio 2023

Non servono nuove Rems per i ‘ folli rei', ma occorre soprattutto potenziare i Dipartimenti di salute mentale e i servizi sociosanitari, incrementarne le dotazioni organiche, garantire progetti personalizzati. La recente tragedia della morte di Barbara Capovani, una psichiatra aggredita e uccisa mentre svolgeva il suo lavoro a Pisa, richiama l'attenzione sull'importanza di restituire ai servizi pubblici della salute mentale il ruolo di baluardo del diritto alla salute.

La segretaria confederale della Cgil nazionale, Daniela Barbaresi, e la segretaria generale della Fp Cgil, Serena Sorrentino, in una dichiarazione congiunta sottolineano la necessità di passare dalle mere dichiarazioni alla concretizzazione di interventi efficaci, attraverso finanziamenti e nuove assunzioni, per garantire la sicurezza degli operatori sanitari e la solidità del Servizio Sanitario Nazionale.

Le dirigenti sindacali sostengono che l'adozione di misure precise per prevenire la violenza contro gli operatori del Ssn non possa più essere rimandata, un'urgenza che è stata sostenuta a lungo attraverso la campagna “STOP alle aggressioni al personale sanitario”. La condizione in cui gli operatori lavorano, spesso con carichi di responsabilità enormi ma senza le risorse e il supporto adeguati, crea situazioni di insicurezza che indeboliscono la qualità dei servizi e aumentano il rischio di relegare la psichiatria a un vecchio ruolo custodiale.

La legge 180 del 1978, che ha decretato l'abolizione dei manicomi, è stata accompagnata dalla legge sanitaria 833 nello stesso anno. Quest'ultima riforma aveva l'obiettivo di creare alternative alla vita all'interno dei manicomi attraverso servizi socio- sanitari di prossimità, interventi per i diritti sociali e civili, lavoro, abitazione indipendente e tutela della salute e delle cure per le persone affette da disturbi mentali nei contesti della vita quotidiana, evitando così strutture speciali e coercitive. Nonostante la sfida sembrasse impossibile, grazie all'impegno di migliaia di lavoratori e lavoratrici, sono stati raggiunti numerosi successi in diverse esperienze. Tuttavia, l'attuazione della legge 180 ha incontrato ostacoli e battute d'arresto, lasciando molte persone e famiglie spesso sentirsi abbandonate, con difficoltà che sono state ulteriormente aggravate dai tagli alla sanità e ai servizi sociali pubblici.

Le sindacaliste Barbaresi e Sorrentino ci tengono però a sottolineare la necessità di reagire e respingere il ritorno alla logica manicomiale. Inoltre, è importante completare la riforma che ha chiuso alcuni anni fa gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. In occasione del 45 º anniversario dell'approvazione della Riforma Basaglia, le due segretarie sostengono la mobilitazione promossa dal Coordinamento nazionale ' Salute Mentale per tutti: Riprendiamoci i diritti'. Secondo Barbaresi e Sorrentino, non sono necessarie nuove strutture di sicurezza per i ' folli rei', ma è fondamentale proteggere i diritti alla salute e alle cure necessarie, evitando pregiudizi che alimentano lo stigma e negano la dignità delle persone. In questo contesto, è prioritario potenziare i Dipartimenti di Salute Mentale e i servizi sociosanitari, aumentando le risorse umane e garantendo la creazione di progetti personalizzati per ciascun individuo.

È fondamentale evitare che tutte le responsabilità ricadano sul personale sanitario. Gli operatori devono essere adeguatamente supportati e dotati delle risorse necessarie per svolgere il loro lavoro in modo sicuro ed efficiente. Ciò richiede una maggiore attenzione agli aspetti organizzativi e una riduzione dei carichi di lavoro e delle pressioni che gravano sul personale. La salute mentale deve essere considerata un diritto fondamentale e deve essere garantita a tutti i cittadini. Questo implica la necessità di investire nella formazione e nella sensibilizzazione della società nel suo complesso, affinché si superino gli stereotipi e i pregiudizi associati alla malattia mentale. Solo attraverso un'azione congiunta di istituzioni, operatori sanitari, organizzazioni sindacali e cittadini è possibile promuovere una reale inclusione sociale e garantire il pieno godimento dei diritti delle persone affette da disturbi mentali.

Il quarantacinquesimo anniversario dell'approvazione della legge Basaglia rappresenta un momento propizio per riflettere sull'importanza di continuare a lottare per una società più inclusiva e rispettosa delle persone con sofferenze mentali. La mobilitazione promossa dal Coordinamento nazionale “Salute Mentale per tutti: Riprendiamoci i diritti” è un'occasione per unire le forze e riaffermare l'impegno verso un sistema sanitario che ponga al centro il benessere psicofisico di ogni individuo.

È quindi necessario che le istituzioni e i legislatori si assumano la responsabilità di garantire un'adeguata protezione e supporto agli operatori della salute mentale, affinché possano svolgere il loro prezioso lavoro in un ambiente sicuro. Solo attraverso investimenti concreti, finanziamenti adeguati e politiche a lungo termine sarà possibile ridurre il rischio di violenza nei confronti degli operatori sanitari e garantire servizi di qualità a coloro che necessitano di cure psichiatriche.

La tragedia che ha coinvolto la psichiatra Barbara Capovani non può e non deve essere dimenticata. È un monito che ci richiama alla necessità di agire, di porre fine alla retorica delle dichiarazioni e di passare a interventi concreti. Solo attraverso un impegno congiunto sarà possibile restituire ai servizi pubblici della salute mentale il ruolo che meritano come baluardo del diritto alla salute.

Estratto dell'articolo di Grazia Longo per “la Stampa” il 27 aprile 2023.

Carenza di posti, lunghi tempi di attesa, necessità di definire meglio la pericolosità di un malato psichiatrico, ma anche necessità di un maggiore raccordo tra giudici e medici che lavorano nelle Rems. L'omicidio della psichiatra Barbara Capovani ripropone, in tutta la sua gravità, il problema della salute mentale e della reclusione dei malati psichiatrici giudiziari, ovvero quelli che hanno commesso reati.

Per loro in passato c'erano gli ospedali psichiatrici giudiziari, sostituiti, per effetto della legge 81 del 31 marzo 2015, dalle Rems, le Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza. Su queste strutture sanitarie è in corso una polemica perché è evidente il cortocircuito tra posti disponibili e liste d'attesa.

«In Italia esistono 31 Rems – precisa il Garante nazionale per i detenuti Mauro Palma –, ciascuna con 20 posti disponibili tranne Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, con 150 posti e una Rems in Emilia che ne ha 35. 

Ma i numeri di coloro che sono "internati" o aspettano d'esserlo ci induce a una serie di riflessioni su queste strutture sanitarie che hanno preso il posto dei manicomi giudiziari». 

Partiamo dai numeri. In carcere, in attesa di essere trasferiti nelle Rems, ci sono 42 persone. In lista d'attesa, con misure come la libertà vigilata o l'obbligo di firma, ce ne sono invece 675.

Mentre quelli inseriti già nelle Rems sono 650. «In tutto sono 1.367 persone – prosegue Palma – un numero esorbitante se si pensa che quando chiusero gli ospedali psichiatrici giudiziari gli internati nel totale erano 698. Questo confronto deve indurci a riflettere che c'è qualcosa che non funziona. Dovuto forse al fatto che, poiché le Rems sono ritenute strutture meno drammatiche dei manicomi giudiziari, la valutazione del malato psichiatrico giudiziario forse non è sempre adeguata. A volte basta sfasciare i mobili di una stanza o sputare addosso a un poliziotto per essere ritenuto tale ma non è così. Per patologie meno gravi basterebbe appoggiarsi ai servizi territoriali, riservando le Rems solo ai pazienti realmente pericolosi».

Palma solleva, inoltre, un'altra questione: «Il 47% degli attuali internati nelle Rems è in misura provvisoria: questi "rubano" chiaramente il posto a chi ha una misura definitiva ma si trova ancora in lista d'attesa». In altre parole può capitare che i più pericolosi siano fuori mentre invece dovrebbero stare dentro le Rems. 

(...) Come Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato della polizia penitenziaria Spp, secondo il quale le Rems «andrebbero abolite perché sono un fallimento. Meglio tornare agli ospedali psichiatrici giudiziari ma con più personale e la presenza di uno Sportello di aiuto psicologico».

Di Giacomo stigmatizza i lunghi periodi che intercorrono per accedere alle Rems: «Secondo il Dipartimento dell'amministrazione penitenziari il tempo medio di attesa è di 304 giorni, con regioni come Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Lazio in cui l'attesa arriva fino a 458 giorni. Le regioni con più detenuti in attesa sono la Sicilia con circa 140 detenuti, la Calabria con 120 e la Campania con 100. Dunque la creazione delle Rems che sulla carta dovrebbero disporre di non più di 20 posti letto si è rivelato un espediente per scaricare detenuti con gravi problemi psichici senza tra l'altro disporre di risorse ed organici adeguati». 

Secondo il sindacalista «si continua a sottovalutare la presenza nelle carceri di detenuti con problemi psichici che costituiscono un terzo degli 84 suicidi dello scorso anno e aggrediscono gli agenti. La percentuale più alta dei detenuti con disturbi psichiatrici soffre di nevrosi; il 30% di malattie psichiatriche collegate all'abuso di droghe e di alcool; il 15% di psicosi».

I centri di salute mentale sono al collasso. Ma aumentano le richieste d’aiuto dei più giovani. I camici bianchi sono troppo pochi e chi soffre di un disturbo mentale non può contare sul Ssn. Se ci si rivolge al Pronto Soccorso al più se ne esce con la prescrizione di uno psicofarmaco. L’unica soluzione è rivolgersi al privato (per chi se lo può permettere).  Gloria Riva su L’Espresso il 16 Febbraio 2023.

La cartina di tornasole della salute mentale in Italia sono le 395.604 richieste di contributo al bonus psicologo fioccate sul sistema informatico dell’Inps lo scorso autunno. In palio c’erano una cinquantina di euro per al massimo dodici sedute, pochi spiccioli per cui gli italiani hanno sgomitato. Alla fine solo una domanda ogni dieci è stata accolta - 41.657 per la precisione - e i fondi sono stati stanziati non in base alla gravità del disagio (era sufficiente un’auto-psicodiagnosi di malessere post covid per partecipare alla lotteria del bonus), ma secondo la ricchezza del richiedente. E terminate le dodici sedute? Il governo ha rifinanziato la misura con cinque milioni per quest’anno e altri otto per il 2024. Spiccioli rispetto ai 25 milioni messi sul piatto nel 2022. In estrema sintesi, da quest’anno chi ha un disagio - e non può permettersi uno psicologo privato - dovrà contattare il centro di Salute Mentale della propria zona e sperare che qualcuno disdica all’improvviso una visita, per essere ricevuti e ascoltati da un medico specialista. Più di tutto, serve tanta fortuna per essere presi in carico dall’Ssn, il Servizio Sanitario Nazionale.

Circa la metà delle segnalazioni pervenute al Tribunale per i diritti del Malato a gennaio riguarda proprio il deserto sanitario della cura mentale. Qualche esempio: il centro unico prenotazione del Molise ha risposto a una madre, disperata per il grave disturbo mentale del figlio, che la prima data utile sarebbe stata fra dodici mesi. È andata a finire che la famiglia sta pagando 90 euro a seduta, tre la settimana, nello studio di un medico privato. In Emilia Romagna, un bambino con una diagnosi di alterazione globale dello sviluppo psicologico non è stato preso in carico dall’Ssn perché non c’erano centri di neuropsichiatria infantile disponibili ad accoglierlo: anche in questo caso la famiglia si è sobbarcata l'intero costo delle cure. In Liguria, i cittadini e le associazioni dei famigliari di persone psichiatriche stanno raccogliendo le firme per chiedere alla Regione di consentire anche ai medici che stanno ancora studiando per diventare psichiatri e a quelli in pensione di essere arruolati nelle aziende sanitarie del territorio, che sono talmente sguarnite da avere una media di otto camici bianchi, anziché i 26 necessari per coprire i bisogni minimi locali.

I più colpiti dal disagio mentale sono i bambini e gli adolescenti: «Da alcuni anni gli esperti registrano un trend in crescita, ma la pandemia ha impresso una forte accelerazione al fenomeno», spiega Alberto Zanobini, presidente dell'associazione ospedali pediatrici italiani, Aopi, che spiega come nel suo ospedale pediatrico, il Meyer di Firenze, «nel 2018 gli accessi al pronto soccorso per problemi psichici sono stati 226, mentre nel 2022 sono saliti a 624 casi. Nell’arco di soli quattro anni l'incidenza è triplicata. Il problema più frequente è quello dei disturbi alimentari, in crescita anche i casi di autolesionismo e i sintomi ansiosi. Occorre un’attenzione speciale da parte delle istituzioni al problema della salute mentale», ritiene il medico. In base a un’indagine di Aopi solo un paziente pediatrico su cinque riesce a essere ricoverato in un reparto di neuropsichiatria e quattro su cinque vengono ospitati in reparti non appropriati, di cui uno addirittura nella psichiatria per adulti.

Ma è l’intero settore delle cure mentali ad attraversare un momento di grave criticità: «A fronte dell’aumento del disagio mentale, in particolare fra gli adolescenti, è nostro dovere etico dirvi che i Dipartimenti di Salute Mentale erogano con estrema difficoltà le prestazioni minime che dovrebbero essere garantite dai livelli essenziali di assistenza e operano in condizioni drammatiche», questo hanno scritto i 91 direttori sanitari dei dipartimenti di salute mentale di tutta Italia alle massime cariche dello Stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la premier Giorgia Meloni, il ministro della Salute Orazio Schillaci, i presidenti di Camera e Senato, in una lettera che suona come un campanello d'allarme. In Italia si sta sottovalutando la marea di quattro milioni di italiani con un disagio mentale, che solo in minima parte è assistita dal pubblico, visto che le Asl hanno in carico poco più di 800mila pazienti.

Secondo i dati del ministero della Salute, in media ogni giorno 1.313 persone si rivolgono al pronto soccorso per patologie psichiatriche, «ma l’85,4 per cento non viene ricoverato», spiega Massimo Cozza, direttore del dipartimento Salute Mentale dell’Asl Roma 2, che continua: «Probabilmente, con un’adeguata rete pubblica di salute mentale le persone con disturbi psichiatrici potrebbero avere le giuste risposte senza dover andare al Pronto Soccorso dove, per altro, al di là del ricovero, si può fare solo una visita psichiatrica con un'eventuale prescrizione farmacologica, quando invece servirebbe un approccio globale, psichico e sociale, che può essere realizzato esclusivamente con una salute mentale comunitaria basata sulla relazione tra operatore - psichiatra, psicologo, educatore, terapista, assistente sociale - e paziente». In mancanza di personale medico e infermieristico, i medici di base e gli specialisti fanno sempre più ricorso ai farmaci: secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Salute, i pazienti trattati con antipsicotici erano 14 ogni mille abitanti nel 2015, oggi sono 20 ogni mille abitanti; quelli curati con antidepressivi erano 124, saliti a 126,5 ogni mille abitanti. Per chi se lo può permettere, l’alternativa ai farmaci è ricorrere a cure private, tant’è che i dati della cassa previdenziale degli psicologi raccontano come il reddito medio dei professionisti per le visite private è cresciuto del 27 per cento tra il 2020 e il 2021, mentre «le prestazioni psicologiche private hanno raggiunto il valore record di 1,7 miliardi di euro, in aumento del 25 per cento rispetto all'anno precedente», dice il report dell’Enpap, l’Ente nazionale di previdenza degli psicologi.

Si arricchiscono gli psicologi, a scapito dei dipartimenti statali: «La rete pubblica dei dipartimenti di Salute Mentale, sempre più sfilacciata, ha bisogno di un rilancio dei percorsi psicologico-psicoterapeutici per realizzare una salute mentale comunitaria in grado di dare risposte ai bisogni dei cittadini. Chiediamo risorse per i servizi pubblici, consentendo alle Regioni di attuare fin dal 2023 un piano di assunzioni straordinario, secondo gli standard per l’assistenza territoriale definiti a fine 2022 proprio da Agenas», scrivono i dirigenti delle Asl al governo. Si tratta di destinare ai dipartimenti di Salute Mentale due miliardi di euro per raggiungere l’obiettivo minimo del cinque per cento del fondo sanitario, così come richiamato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, la 22 del 2022. Oggi la rete della salute mentale riceve il 2,75 per cento dei fondi della sanità pubblica, ma la Corte Costituzionale ha richiamato lo Stato a rifinanziare il servizio per evitare che la carenza di cure nelle fasi iniziali della patologia possa sfociare in esiti dannosi per l’intera comunità.

«La nostra lettera non ha ricevuto alcuna risposta dal governo», dice lo psichiatra romano Massimo Cozza, che aggiunge: «Pensare di affrontare il disagio mentale con la politica del bonus psicologo è un’assurdità ed è controproducente, perché grazie al bonus oggi ci troviamo con molte persone che hanno avviato una terapia e non potendo permettersi altre sedute, l’hanno dovuta interrompere». Il Ssn conta 30mila operatori fra medici, infermieri, educatori e assistenti sociali, all’appello ne mancano 10mila per consentire ai dipartimenti territoriali di funzionare a dovere. Per assumerli è necessario spendere due miliardi nel prossimo triennio: si tratta di parecchi quattrini, considerato che l’intera spesa sanitaria nazionale si attesta attorno ai 20 miliardi di euro, ma non sono poi così tanti se si considera che l’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, stima nel quattro per cento del Pil il costo totale della scarsa salute mentale, tenendo conto della riduzione della produttività e dell’aumento delle assenze sul lavoro, oltre all'incremento di spese sociali e di costi diretti per il sistema sanitario dove, alla fine, ricadono i casi più gravi di chi non è riuscito ad affrontare il malessere in stadio embrionale.

Il Caso di Pisa.

Psichiatra aggredita a Pisa: dall'aggressione all'arresto dell'ex paziente. La psichiatra Barbara Capovani è rimasta vittima di un agguato premeditato da parte di un ex paziente.Chiara Nava su Notizie.it il 24 Aprile 2023

La psichiatra Barbara Capovani è rimasti vittima di un terribile agguato premeditato da parte di un ex paziente, Gianluca Paul Seung. Ripercorriamo la vicenda, dall’aggressione all’arresto dell’uomo.

Psichiatra aggredita a Pisa: l’aggressione premeditata e la morte cerebrale

La psichiatra Barbara Capovani, madre di tre figli, è rimasta vittima di un agguato premeditato per mano di un suo paziente, Gianluca Paul Seung, di 35 anni. L’uomo, con un passato di altre aggressioni e violenze, con un arresto alle spalle, è stato fermato. La psichiatra è morta alle 23.40 di domenica 23 aprile, poche ore dopo la dichiarazione di morte cerebrale. Seung, che era un suo paziente dal 2019, l’ha aggredita con una spranga nel parcheggio dell’ospedale Santa Chiara di Pisa, con numerosi colpi alla testa.

Il giorno prima dell’aggressione l’uomo era andato a cercare la psichiatra, senza riuscire a trovarla. Il giorno seguente è tornato fuori dal padiglione, con abiti scuri, volto coperto da una mascherina, un cappellino in testa e uno zaino sulle spalle. Ha aspettato che la donna finisse il turno e andasse a prendere la sua bicicletta, per aggredirla alle spalle mentre era chinata a togliere il lucchetto. L’arma non è stata trovata e l’aggressore, che aveva numerosi precedenti, comprese molestie a una minorenne e aggressione ad uno psichiatra, dovrà rispondere di omicidio premeditato.

Psichiatra aggredita a Pisa: l’aggressore convinto di essere uno sciamano

L’aggressore della psichiatra si chiama Gianluca Paul Seung, ha 35 anni ed è un ex paziente dell’ospedale psichiatrico pisano e della dottoressa. Sui social network si definiva uno sciamano e aveva sporto molte denunce contro diverse persone, seguendo teorie complottistiche. L’uomo, con padre cinese e madre italiana, è stato fermato all’alba di domenica. Ha precedenti per violenze, anche carnali, ma era libero. Aveva già picchiato un medico di Viareggio, ha diversi processi in corso e diversi fogli di via da varie località.

Seguiva teorie complottistiche, si definiva uno sciamano, pensava ad un’associazione per la difesa degli utenti psichiatrici. Aveva accusato anche Mario Draghi, collegava la vicepresidente Usa Kamala Harris a Matteo Messina Denaro e diceva che la Regina Elisabetta gestiva un traffico di armi. Era in cura dalla dottoressa dal 2019. Quando aveva interrotto le cure l’aveva più volte attaccata sui social. Nonostante tutti i precedenti, l’uomo era libero.

Erano circa le ore 17:30 del pomeriggio di ieri, venerdì 28 Aprile, quando in zona Prati a Roma si è verificato un pericoloso tamponamento tra un’automobile e uno scooter. Ad avere la peggio è stata una donna di 73 anni, che è adesso ricoverata in ospedale in codice rosso.

L’esatta dinamica dell’incidente è ancora tutta da chiarire, ma dalle prime informazioni che arrivano sembra che l’automobile, una Citroen C1 grigia e lo scooter si siano scontrati all’altezza dell’incrocio tra via Orsini e viale Giulio Cesare, nel quartiere Prati a Roma. Lo schianto è stato particolarmente violento. Alcuni passanti che hanno assistito al sinistro hanno immediatamente chiamato i carabinieri che sono giunti sul posto qualche minuto dopo.

Oltre ai militari dell’Arma, sul luogo del sinistro sono giunti anche i medici del 118 che si sono occupati di trasferire all’ospedale la 73enne rimasta ferita. La donna in questo momento si trova al pronto soccorso ed è ricoverata in codice rosso. La polizia, nel frattempo, ha effettuato i rilievi utli per determinare le responsabilità dell’incidente.

(ANSA il 25 Aprile 2023) - Il decesso della psichiatra Barbara Capovani, avvenuto alle 23,40 di ieri a conclusione delle procedure di accertamento della morte cerebrale, porterà tra le conseguenze anche alla riqualificazione dell'ipotesi di reato a carico dell'uomo accusato dell'aggressione, da tentato omicidio premeditato a omicidio premeditato. La squadra mobile di Pisa ha sottoposto a fermo un suo paziente, diventato il suo assassino, Gianluca Paul Seung, 35 anni. La psichiatra era stata aggredita venerdì davanti all'ospedale di Pisa.

Estratto da open.online il 25 Aprile 2023 

Alle 23,40 del 23 luglio è stata dichiarata la morte cerebrale di Barbara Capovani, la psichiatra dell’ospedale Santa Chiara di Pisa aggredita da un suo paziente. Lui si chiama Gianluca Paul Seung e ha 35 anni ed è di Viareggio. Nei suoi confronti gli inquirenti sollevano l’accusa di omicidio premeditato.

L’uomo si trovava in cura presso il Servizio psichiatrico diagnosi e cura di Pisa nel 2019. L’uomo nutriva forti rancori nei confronti della dottoressa, che lo aveva avuto in cura in quell’anno. 

Secondo quanto ricostruito dagli investigatori avrebbe tentato l’agguato già dal giorno precedente ma Capovani non c’era. La notte scorsa la polizia si è recata presso la sua abitazione per eseguire una perquisizione. L’uomo si è barricato dentro. È scattata l’irruzione degli agenti che hanno trovato una balestra con diversi dardi.

[…] Questa volta, spiegano gli inquirenti, «ha colpito con un oggetto contundente ripetutamente al cranio la vittima, cogliendola di sorpresa alle spalle, mentre era chinata sulla propria bicicletta per rimuoverne il lucchetto e andare via alla fine del proprio turno di lavoro». 

Gianluca Paul Seung ha padre di origine cinese e madre napoletana. Si è trasferito da giovane in Toscana. Non ha completato gli studi superiori. Ha quattro processi in corso ed è stato accusato di aver molestato una ragazzina di 13 anni. È anche evaso dagli arresti domiciliari. Nessun procedimento è arrivato all’ultimo grado di giudizio.

Sul suo profilo Facebook Seung si definiva «uno sciamano, mediatore fra invisibile e visibile; collego le dimensioni». Sul social network aveva anche creato una pagina intitolata Associazione Adup ovvero “Associazione difesa utente psichiatrico” dove pubblicava foto di atti giudiziari. Tra cui un esposto contro l’allora premier Mario Draghi presentato alla guardia di finanza viareggina e un verbale di arresto a Lucca nel 2021 per essere evaso dagli arresti domiciliari con il quale accusa una poliziotta e i magistrati.

[…] A dicembre si era presentato a La Nazione per denunciare da No vax la “vendita di vaccini tossici”. Il nome di Capovani compare nei deliri di Seung. Lei nei suoi confronti effettua una diagnosi di disturbo narcisistico sostenendo comunque che il paziente fosse in grado di intendere e di volere. Lui l’ha accusata di vendere cellule staminali insieme a Putin, di essere una spia e, in un post del 17 luglio 2022, di “Rituali satanici”.

Il Resto del Carlino racconta che secondo Seung i satanisti «usano valute virtuali del tutto anonime, per comprare carne umana. Psichiatri di Pisa sono coinvolti. Barbara Capovani in testa». Nel novembre 2012 lo “Sciamano” ha aggredito il suo medico Mirko Martinucci mentre questi era al tavolo di un ristorante con la moglie. Poi è fuggito all’interno di un teatro e si è nascosto tra il pubblico. Nel 2021 ha aggredito per due volte una guardia giurata. Nella seconda occasione spruzzandogli negli occhi dello spray al peperoncino.

Il precedente

Il precedente dell’aggressione a Martinucci lo racconta oggi al quotidiano un altro dottore, Mario Di Fiorino. «Siamo in presenza di un soggetto che più volte ha manifestato un livello di violenza incredibile», ricorda. Dopo Martinucci ha continuato a stalkerizzarci tutti», ricorda il medico. 

Sulla capacità di intendere e di volere di Seung, Di Fiorino spiega che «la Cassazione ha di recente stabilito che i disturbi di personalità, se pervasivi e duraturi nel tempo, possono portare all’impunibilità. Questo ha fatto crescere a dismisura in Italia i casi in cui non si può procedere in giudizio. Perché sono stati spostati i confini tra la punibilità e l’impunibilità dei reati. Anche dei più violenti».

Estratto dell'articolo di Simone Innocenti e Luca Lunedì per corriere.it il 25 Aprile 2023

La polizia ha arrestato un uomo, che è ritenuto responsabile dell'aggressione di Barbara Capovani. La squadra mobile ha fermato un italiano di 35 anni, Gianluca Paul Seung, che è stato anche paziente del medico aggredito. Si tratta di un giovane che sui social si definiva sciamano e che aveva fatto numerose denunce a tutte le forze dell’ordine contro presunti complotti. Ha diversi fogli di via dalle provincia di Lucca e di Prato.

E pochi mesi fa è stato arrestato per aver preso a testate una guardia giurata al Tribunale di Lucca dove era stato convocato per un processo. «Sono uno sciamano, mediatore fra invisibile e visibile; collego le dimensioni», diceva su Facebook l’uomo fermato che vive in Versilia. Le accuse: tentato omicidio aggravato da premeditazione e lesioni. 

L’ha aspettata per un’ora e poi l’ha aggredita riducendola in fin di vita. Non ci ha discusso, l’ha solo colpita con una spranga. A quel punto è scappato e si è cambiato anche le scarpe.

[…]

Gianluca Paul Seung - attualmente accusato - ha opposto resistenza: ha usato lo spray al peperoncino contro gli investigatori. Nella sua abitazione la polizia - oltre ad aver trovato una balestra coi dardi - ha sequestrato delle mascherine anti-Covid: secondo gli inquirenti sono compatibili con quella che indossava al momento dell’aggressione. L’uomo, con diversi precedenti penali, è famoso per le sue posizioni antipsichiatria.  

Nella sua casa in Versilia la polizia non ha trovato i vestiti indossati durante l’aggressione e neppure la spranga […] Per gli inquirenti il movente è da ricercare proprio nella sua ipotetica crociata contro la psicologia ufficiale, anche se risulta che nel 2019 è stato seguito proprio da Barbara Capovani. 

[…] A lui gli inquirenti sarebbero arrivati anche grazie alle telecamere di sicurezza che si trovano nei paraggi dell’ospedale, dato che l’unica telecamera interna considerata importante per via del suo posizionamento rispetto alla scena dell’aggressione non avrebbe ripreso molto.

[…]

Il compagno di Barbara Capovani, la psichiatra uccisa a Pisa: «Le leggi sono inadeguate, lei voleva cambiarle». Simone Innocenti su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023

Il ricordo del cognato medico: «Le capitò anche un uomo accusato di stupri, per decisione del tribunale dovette ricoverarlo in reparto, anche se c’era una 15enne». Il compagno: «Terremo fede al suo impegno per avere leggi nuove» 

Barbara Capovani, la psichiatra uccisa da Gianluca Paul Seung all’ospedale Santa Chiara di Pisa, faceva il suo lavoro con passione e tra mille difficoltà. Stefano Bellandi, cognato della vittima, racconta: «Io ero suo parente ma soprattutto suo amico e con lei ho condiviso i tanti problemi che ogni giorno doveva affrontare, perché agli psichiatri vengono attribuiti compiti che non spettano loro». Un episodio su tutti: «In seguito a una decisione del tribunale, Barbara dovette ricoverare tra i suoi pazienti un uomo accusato di stupri. Nello stesso reparto si trovava però anche una ragazza di 15 anni. Non le dico le difficoltà che ha dovuto affrontare per quella convivenza incompatibile».

Il cognato la ricorda come una donna speciale: «Ho 65 anni e sono medico: ho conosciuto tanti professionisti. Le posso dire, con la mano sul cuore, che Barbara era la più intelligente, altruista e brava che abbia conosciuto in mia vita. L’unica cosa che ci auguriamo è che nessuno debba più vivere episodi di violenza così».

La convalida

Per oggi è fissata nel carcere di Pisa l’udienza di convalida del fermo di Gianluca Paul Seung, accusato di omicidio volontario premeditato: l’uomo — difeso dagli avvocati Gabriele Parrini e Andrea Pieri — potrebbe decidere di avvalersi della facoltà di non rispondere, come ha già fatto per l’interrogatorio con il procuratore Giovanni Porpora e con il sostituto procuratore Lydia Pagnini dopo essere stato fermato dalla squadra mobile pisana nella sua casa a Torre del Lago.

«Abbiamo deciso di restare nel silenzio — afferma Michele Bellandi, il compagno della psichiatra —. Posso solo dire che faremo una cerimonia privata e terremo fede all’impegno di Barbara che è sempre stato quello di cambiare un sistema con leggi che riteneva ormai inadeguate. Nella sua vita ha sempre aiutato chiunque e lo ha fatto in silenzio».

La zia

Intanto ai microfoni di RaiUno la zia di Seung, parlando con voce artefatta e volto reso non riconoscibile, ha voluto «chiedere scusa a questa famiglia»: «Sono una mamma e lei aveva tre figli». E rivolgendosi proprio ai figli della psichiatra uccisa dal nipote ha detto: «Siete nelle mie preghiere. Vi voglio bene». E ha quindi espresso un desiderio: «Vorrei conoscere questi ragazzi». Ha poi continuato parlando del nipote: «Doveva essere curato. Non era mia sorella (la mamma di Seung, ndr) che poteva fare qualcosa, ma lo Stato. Qui qualcuno deve intervenire perché sono situazioni che stanno succedendo tutti i giorni».

Dagospia il 26 aprile 2023. Lo psichiatra Paolo Crepet è intervenuto nella trasmissione "L'Italia s'è desta" condotta da Gianluca Fabi e Roberta Feliziani su Radio Cusano Campus. 

Sul caso della psichiatra uccisa a Pisa. "Per chi fa il mio mestiere è stata una notizia terribile che si aggiunge a tanti altri lutti di colleghi che ho conosciuto in questi anni.  

(...) Legge Basaglia? Io sono molto orgoglioso di aver fatto parte di quella stagione, erano 110mila internati e internate in Italia, sono ben contento che si sia detto basta. Basaglia è stato un eroe di questo Paese e si sciacquino la bocca prima di parlare di lui". 

La zia dell'omicida ha detto che il nipote doveva essere curato dallo Stato. "Io credo che esista anche un principio di responsabilità individuale, morale. Se è vero che un bambino che poi diventa adolescente ha bisogno di una rete familiare, quando questa rete familiare non c'è non è colpa dello Stato. E' evidente che ci siano delle responsabilità di tipo educativo. Le patologie non è che nascono come un meteorite che arriva. O c'è qualche psichiatra che pensa che vi sia una genesi genetica, oppure pensiamo che esista uno sviluppo psico-emotivo e relazionale che conduce a problemi psicologici così come conduce alla felicità laddove le cose funzionano. Se no è sempre colpa dello Stato che deve avere una sorta di radar. E' chiaro che un uomo di 40 anni è stato prima giovane adulto, prima ancora adolescente, ho letto che già dall'adolescenza manifestava problematiche.

La famiglia cos'ha fatto? Se la famiglia non esiste diciamolo, chiamiamo lo Stato al posto della famiglia. La psicosi doveva portare a un'allerta, chi doveva dare quest'allerta? Noi abbiamo voluto una società di monadi, di persone sole con un telefonino e con un computer, non c'è un'osteria, non c'è un cinema, non c'è neanche una tombolata, domani ci metteremo un visore, immaginatevi una persona paranoica con un visore, il visore triplicherà quella paranoia. Se il tempo medio di un colloquio è di 20 minuti, io posso mettere anche Freud a lavorare, ma non riuscirà a fare niente. 

Lo psichiatra, se ha un quarto d'ora di tempo, da dedicare al signore o alla signora Rossi affetto da problematiche gravi non può fare altro che dargli dei farmaci, non possiamo accusare lo psichiatra di fare quello, perché fare altro necessita di tempo e di strutture, per questo servirebbero day hospital, eppure di day hospital ce ne sono un paio in tutta Italia. Se uno semina grandine raccoglie tempesta".

Estratto dell'articolo di Simone Innocenti per il “Corriere della Sera” il 26 aprile 2023.  

Barbara Capovani, la psichiatra uccisa da Gianluca Paul Seung all’ospedale Santa Chiara di Pisa, faceva il suo lavoro con passione e tra mille difficoltà. Stefano Bellandi, cognato della vittima, racconta: «Io ero suo parente ma soprattutto suo amico e con lei ho condiviso i tanti problemi che ogni giorno doveva affrontare, perché agli psichiatri vengono attribuiti compiti che non spettano loro». Un episodio su tutti: «In seguito a una decisione del tribunale, Barbara dovette ricoverare tra i suoi pazienti un uomo accusato di stupri. Nello stesso reparto si trovava però anche una ragazza di 15 anni. Non le dico le difficoltà che ha dovuto affrontare per quella convivenza incompatibile». 

(...)

DAGOREPORT il 26 aprile 2023.

Responsabilità della famiglia? Basaglia è stato un eroe di questo Paese si sciacquino la bocca prima di parlare di lui? I veri eroi lasciati soli di questo Paese sono i famigliari delle persone affette da problemi psicologici e psichiatrici e chi si dovrebbe sciacquare la bocca prima di parlare è Crepet, steso sul suo bel divano a guardare o partecipare a una trasmissione tv mentre di sera, di notte e di giorno i famigliari di queste persone si trascinano in una esistenza di lotta e resistenza resa umiliante proprio dagli psichiatri come lui, devoti di una pseudoscienza (lo ha scritto K.R.Popper, il maggior epistemologo del ‘900) alla quale interessa solo l’eventuale miglioramento del malato come successo medico, mentre le conseguenze sul corpo famigliare e sociale sono a loro del tutto indifferenti, anzi guardate con sufficienza.

Quanti pazzi ci sono lasciati in giro dagli psichiatri? Praticamente tutti, in quanto per loro diventano “con problemi mentali” solo dopo che hanno ucciso qualcuno e vanno a processo. In quel caso gli psichiatri diventano periti della difesa per spiegare alla Corte che quello sì, ha ucciso qualcuno, ma non è condannabile o almeno è scusabile perché ha problemi psichici – che prima, naturalmente, nessuno di loro pensava fossero tali da consigliare l’internamento. 

Facciamo un elenco veloce e recente. Erano tutti sani Marco Mariolini, il cacciatore di anoressiche; Ferdinando Carretta, sterminatore della famiglia; Alessia Pifferi, che lasciava la neonata per sei giorni a casa pensando che potesse sopravvivere; il 15enne di Bucchianico, in Abruzzo, che ha ucciso il nonno di 78enne a calci e pugni;

Emilio Zanini, che trucidò la 22enne Roberta e che per il pm “merita la compassione per lo stato d’abbandono i cui l’hanno lasciato i servizi sociali e di sostegno” (perché questi, giustamente, lavorano 8 ore al giorno e vedono il paziente ogni due mesi mentre uno è pazzo 24 su 24); 

Ignazio Frailis che uccise perché sentiva la voce del pappagallo; lo scatenato Mauro Guerra ucciso da un carabiniere che invano cercava di fargli accettare un Tso; Benno Neumair, che uccide madre e padre e la sorella sospetta subito di lui; il brigadiere Antonio Milia che ha sparato al collega perché ossessionato; Andrea Tombolini che entra nel Carrefour e uccide  perché pensava di essere ammalato vedendo “tutte quelle persone felici”;

Alberto Scagni, che va sotto casa di sua sorella, 34 anni e madre di un bambino di un anno, e la uccide con diciassette coltellate perché non gli dà altri soldi; Filippo Ferlazzo, il 32enne che ha ucciso a mani nude Alika Ogorchukwu che era stato sottoposto a visite psichiatriche (ma tutto ok) e dopo l’omicidio, invece, viene definito “bipolare, border-line” (dopo)… devo andare avanti ancora molto? E le vite distrutte dei famigliari, pur senza essere uccisi? 

Sapete perché tutto questo? Per una teoria giusta, ma inapplicabile perché sarebbero necessari investimenti spropositati per un Paese con oltre duemila miliardi di debiti per aiutare i malati psichiatrici, che andrebbero seguiti 24 ore su 24 e che gravano SOLO sulle spalle delle famiglie.

I migliori centri psicosociali di capoluoghi del Nord Italia vedono questi malati (se va bene) un quarto d’ora ogni due mesi: e poi? I farmaci? Non facciamo ridere, chiunque conosce queste situazioni sa benissimo come si comportano questi pazienti con i farmaci. 

La teoria di Basaglia è giusta per i malati come sarebbe giusto il recupero del delinquente e non la sua carcerazione come insegnato da Michel Foucault, come sarebbero giusti i collari agli orsi affinché i forestali possano intervenire in tempo e giusto favorire la convivenza uomo-animale anche con lupi, vipere e serpenti a sonagli…, come sarebbe giusto recuperare tutti i centri storici con edifici più vecchi di 70 anni, come sarebbero giusti i centri accoglienza e un lavoro subito per i migranti, come sarebbe auspicabile che l’arte contemporanea…, come le metropolitane…, i ghiacciai…

Non chiedo che siate istruiti, signori Crepet, ma almeno Voltaire l’avete letto? Almeno il “Candide”? Non viviamo nel migliore dei mondi possibili come credeva il dottor Pangloss, ma solo in un mondo che l’Illuminismo aveva strutturato per una convivenza civile alla meno peggio. 

Ogni giorno, nelle università, si elaborano teorie con una loro validità… ma non è che poi sono tutte attuabili sul territorio perché non ci sono risorse per tutti e per tutto! Voi, e le vostre giuste teorie, non siete il centro del mondo! Così, per l’Illuminismo, il meno peggio fu una prigione non più afflittiva, una educazione scolastica coercitiva ma non troppo, i manicomi per conservare la vita agli altri senza pretesa di guarire tutti i malati, gli animali nei parchi o, se liberi, lasciando all’Homo sapiens la possibilità di difendersi ecc. ecc.

Oggi siamo alla richiesta nemmeno del migliore dei mondi possibili ma, addirittura, di un mondo perfetto (dove i sacrifici e i soldi, naturalmente, li fanno e li mettono gli altri). La destrutturazione dell’Illuminismo passa oggi dal divano dal quale Crepet pontifica.

Parla lo psichiatra Di Fiorino: "Capovani lasciata sola. Seung godeva di protezioni". Federico Bini il 25 Aprile 2023 su Il Giornale.

Le aggressioni, lo scontro dottrinale, la chiusura dei manicomi e le dichiarazioni calcolate per alleggerire la propria posizione giudiziale. Il killer Gianluca Paul Seung diventa un caso con interrogativi sempre più inquietanti. Ne abbiamo parlato con il dottor Mario Di Fiorino, primario di Psichiatria della zona Versilia

Forte dei Marmi - Dispiaciuto, ma anche molto arrabbiato il dottor Mario Di Fiorino, primario di Psichiatria della zona Versilia. Da molti anni aveva lanciato appelli, richiesto misure restrittive e capito la pericolosità dell'assassino della collega Barbara Capovani. A suo avviso una vittima innocente delle inefficienze del sistema sanitario e giudiziario.

Lei è uno dei dottori che meglio conosce la storia di Gianluca Paul Seung...

"Premetto che sono stato denunciato dal Seung. Ci accusava di aver spaccato il torace a una settantina di persone. Era sua abitudine fare questi esposti deliranti. Sulla famiglia posso dire che il padre è cinese e la madre napoletana. Separatasi dal marito, venne a vivere a Torre del Lago. Ed è lei che negli anni lo ha mantenuto. Credo avesse anche un bene lasciato in eredità ma hanno fatto in modo che non finisse pignorato per tutte le cause giudiziarie".

Perché proprio la dottoressa Barbara Capovani?

"Lei entra in scena quando Seung si agitò nella Questura di Pisa alcuni anni fa. Noi ci siamo 'salvati' perché avevamo attuato una serie di misure legali. Lei si è ritrovata sola dal sistema, abbandonata anche dalla magistratura…”.

Il cappuccio, forse la mascherina, lo zaino con nuovi vestiti, la spranga. Lasciano pensare ad un’aggressione premeditata. È un errore definirlo semplicemente un ‘pazzo’?

"Seung sicuramente è una persona problematica. Ed è stato utilizzato in chiave antipsichiatrica…".

Cosa intende per "utilizzato"?

"Utilizzato in chiave antipsichiatrica. Chi lo doveva seguire per conto del Comune, organizzava incontri tra gli antipsichiatri. Lui è stato, come dire, da un lato fanatizzato, invitandolo come relatore ed ospite qua e là, si è sentito importante, ha avuto una ragione di vita…".

Chi sono gli antipsichiatri?

"L’associazione antipsichiatrica è nata a Trieste, dove è stato anche Basaglia, che prima era a Gorizia. Sono un gruppo minoritario ma con molto potere. E hanno cercato di creare a Viareggio un centro di loro interesse. Lui è un soldatino di questo gruppo, e si muove per cercare di ottenere dei risultati perché chiaramente accusa gli psichiatri di ogni nefandezza e cerca di portare avanti questa idea antipsichiatrica".

Ma quel è l’obiettivo?

"Secondo quanto diceva un grande psichiatra francese, la loro è una lotta alle strutture psichiatriche. Basaglia in Italia ha chiuso ogni struttura, e siamo rimasti con delle comunità che per legge devono essere come case di civile abitazione. Generando un problema enorme al malato grave. Demonizzano gli strumenti utilizzati dallo psichiatra, i farmaci, la terapia elettroconvulsivante. Sostengono che l’istituzione psichiatrica serve solo per la custodia, sorveglianza e punizione della persona".

Come pensano di curare un paziente?

"Con il lavoro, le borse di studio, tutte cose così… io sono stato perito in dei processi anche a Trieste per un ragazzo che si era suicidato, hanno una modalità di lavoro incredibile".

Conosciuto da oltre dieci anni dai medici di più provincie, dalle forze dell’ordine e soprattutto dalla magistratura, Seung circolava indisturbato...

"Si muoveva tranquillamente. Noi per difenderci nel 2016 abbiamo dovuto chiedere al Questore di Lucca un ammonimento. Nel 2018 il divieto di avvicinamento. Lui veniva qui con violenza e abbiamo dovuto stopparlo. In tribunale, per quanto ne so, hanno tenuto aperti ben quattro processi, invece di unirli, se la sono presa tranquilla… una situazione drammatica".

I primi contatti con la vostra struttura?

"Il primo contatto avvenne quando due medici che lavoravano fuori furono chiamati dal servizio sociale del Comune, perché la mamma aveva grosse difficoltà a gestirlo. Una volta le aveva infranto il vetro della macchina. Lo seguiva un giovane medico che si chiama Martinucci. Un altro, Cerù, aveva convalidato la proposta di trattamento sanitario obbligatorio (2008). E richiede un accertamento sanitario nel 2009, affidando poi Seung allo zio di Napoli".

Il dottor Martinucci subì un’aggressione.

"Il ferimento del mio collega Martinucci fu drammatico. Stava mangiando un panino, lo assalì da dietro ferendolo al volto con una penna. Venti punti di sutura".

Sul suo profilo Facebook scriveva e condivideva ‘post’ spaventosi.

"Le ultime dichiarazioni avevano lo scopo, a mio avviso, di voler appositamente fare il matto. Sparo cose enormi così almeno non mi puniscono, sono malato… dice di essere nipote di Matteo Messina Denaro. Lui – da persona abbastanza semplice qual è – ritiene che in questo modo possa sfuggire alle punizioni. Lui è stato in prigione solo per delle molestie sessuali a una ragazzina di circa quattordici anni".

Immaginava un simile epilogo?

"È chiaro che noi sapevamo di avere a che fare con un fanatico che all’epoca aveva anche delle protezioni politiche che gli hanno concesso di avere spazio… e a noi stavano con 'il fiato sul collo', per usare una espressione del Seung. Quindi, avevamo sì paura, ma che arrivasse proprio ad ammazzare… certo, Martinucci poteva ammazzarlo".

È stato un bene chiudere i manicomi?

Entriamo in un discorso che assume anche una valenza culturale. Certo, hanno chiuso i manicomi, poi gli ospedali giudiziari e adesso ci sono le REMS che hanno meno della metà dei posti degli OPG”.

Quale idea personale si è fatto?

"Lui è stato periziato da tre periti. Due psichiatri e un criminologo. Hanno detto che è imputabile, ha un disturbo narcisistico, antisociale, quindi è un problema di personalità, non è un quadro psicotico. L’ultimo psichiatra che lo ha visto ha sostenuto invece che fosse delirante. Io l’ho letta la perizia e conoscendolo da tanti anni diceva cose strampalate perché si era reso conto che stavano arrivando delle nubi nere e quindi ha pensato di uscirne facendo il matto".

Dopo questo fatto è più spaventato dalla mente umana?

"Io sono spaventato dalle cose che non funzionano come da noi. Ho svolto l’incarico di perito di parte nel caso del mostro di Bolzano, ho visto abissi... Non provo spavento, ma dispiacere per la giovane collega e tanta rabbia, nonostante le denunce non è accaduto niente. Una richiesta...".

Mi dica.

"Scavate in questa storia".

Estratto dell'articolo di Monica Serra per “La Stampa” il 25 Aprile 2023

«Non servono poliziotti davanti agli ambulatori. Serve assumere più psichiatri che abbiano il tempo necessario per fare le giuste valutazioni e per le malattie mentali non ci possono essere liste d'attesa». Il tono pacato del professore Vittorino Andreoli, specializzato in psichiatria, neurologia e farmacologia, si infervora. 

Il caso della collega della clinica universitaria del Santa Chiara di Pisa, Barbara Capovani, massacrata a colpi di spranga da un ex paziente genera «un grandissimo dolore» in lui come in tutta la comunità scientifica. 

«I manicomi erano un obbrobrio, io stesso ne ho chiuso uno - spiega Andreoli - ma i reparti di Diagnosi e cura presenti in Italia non sono sufficienti per curare i disturbi deliranti (schizofrenia, maniacalità, paranoia), che possono portare alla violenza nei confronti degli altri, e la depressione melanconica, che può portare a gesti di autolesionismo anche estremi. Per queste patologie, che si presentano soltanto nel 10, 12 per cento dei casi, servono luoghi di cura prolungata in cui la degenza possa durare uno o due mesi e non 15 giorni al massimo come accade nei reparti oggi».

Professore, che differenza c'è con gli ospedali psichiatrici?

«Non c'entrano nulla. Parlo di strutture più piccole per 40/50 pazienti al massimo se pensate a livello regionale e non per 5 mila come era il Santa Maria della Pietà di Roma o 1.200 come il San Giacomo di Verona. E poi ciò che caratterizzava gli ospedali psichiatrici era il modo in cui veniva trattato il paziente. È più ospedale psichiatrico un reparto di Diagnosi e cura in cui ancora oggi in Italia si legano i pazienti - e ce ne sono - rispetto a queste strutture». 

Quale dovrebbe essere l'approccio?

«Scientifico, che è quello per cui mi batto da sempre. E che parta dall'osservazione: i medici devono avere il tempo di seguire il paziente, di scegliere i farmaci giusti. In 60 anni di professione, non ho mai legato un paziente ma so usare i farmaci per i casi acuti». 

(...) 

Quanto tempo è necessario per capire se un farmaco funziona?

«Almeno 2 o 3 settimane. In molti ambulatori, per via della grande richiesta e delle liste d'attesa - che sono una cosa folle - una visita dura in media 20 minuti. È impossibile fare le giuste valutazioni. E i reparti di Diagnosi e cura hanno al massimo 16 posti letto. Con la richiesta che c'è, il tempo a disposizione non basta neanche a valutare se il farmaco prescritto è quello giusto».

 Estratto dell'articolo di Filippo Fiorini per “La Stampa” il 25 Aprile 2023

Su una cosa sono sempre stati tutti d'accordo: Gianluca Paul Seung era malato. Precisamente, aveva un disturbo narcisista, manie di persecuzione, deliri di onnipotenza. 35 anni vissuti tra solitudine e paranoie. C'è abbastanza consenso anche sul fatto che fosse pericoloso: ha aggredito lo psichiatra che lo aveva in cura con una penna, nel 2011, causandogli ferite al volto di discreta gravità. Ha molestato una 13enne nel 2016, poi è evaso dagli arresti domiciliari. È a valle del modo in cui ha premeditato e messo in atto l'omicidio della dottoressa Barbara Capovani, venerdì scorso a Pisa, primario di psichiatria, che le posizioni si dividono. Era capace di intendere e volere? È imputabile? Come andava curato? Poteva essere fermato in tempo? 

Dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, fino a uno dei medici toscani che da anni ne segue la storia clinica, Mario Di Fiorino, e passando per esponenti di Fratelli d'Italia e Lega, ora la cosiddetta Legge Basaglia, che ha abolito i manicomi 45 anni fa, viene messa in discussione, all'ombra di dati preoccupanti sulle aggressioni al personale sociosanitario e di un crimine efferato che forse si poteva evitare.

Da un lato c'è il codice penale. Articoli 88 e 89, rispettivamente «vizio totale» e «vizio parziale» di mente. La linea difensiva che probabilmente adotteranno gli avvocati di Seung, perché dal carcere in cui si trova ora, venga trasferito in una Rems. Accanto, c'è la legge 180 del '78, ovvero la legge Basaglia. Vecchia come il sistema sanitario nazionale, ha fatto dell'Italia il primo e l'unico Paese al mondo a superare la costrizione psichiatrica istituzionale, in virtù di strutture più umane. 

Dal lato opposto ci sono i 1400 medici e infermieri aggrediti in Italia quest'anno. Quattro aggressioni al giorno. Ci sono i parenti delle vittime, come il marito, i tre figli, gli amici e i colleghi di Barbara Capovani.

Per domani, il ministro Schillaci ha convocato una «riunione per la riorganizzazione del tavolo sulla psichiatria», contesto in cui proporrà «più posti di polizia negli ospedali e pene più severe per chi aggredisce gli operatori». Alle sue parole, hanno fatto eco quelle Alfredo Antoniozzi, vice capogruppo di FdI alla Camera, per cui è ora di dire «basta alle garanzie estreme offerte ai criminali, spalleggiati da movimenti culturali che hanno prodotto danni devastanti al nostro Paese». 

(...)

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 25 Aprile 2023

«Sono uno sciamano, mediatore fra il visibile e l’invisibile; collego le dimensioni». Dice di sentire le cose, di vedere oltre, di capire. Nella mente di Gianluca Paul Seung si affollano sospetti e complotti che sfoga in denunce, post, mail, anche in pubbliche conferenze dove carica le parole con la polvere da sparo tirando in ballo uomini di potere, traffici strani, medici. «Usano valute virtuali del tutto anonime, per comprare carne umana. Psichiatri di Pisa sono coinvolti: Barbara Capovani in testa». 

Era diventata lei la sua ossessione. Lei che l’aveva avuto in cura tre anni fa, quando era evaso dai domiciliari per bussare nientemeno che alla porta della Questura di Pisa per depositare l’ennesima denuncia. Quel giorno gli agenti controllano il nome e lo avvertono: siamo noi a denunciare lei. Seung va in escandescenze, viene disposto un trattamento sanitario obbligatorio e lì spunta Capovani. La quale, dopo una settimana di analisi, traccia il suo profilo: «Non sono emersi disturbi della forma del pensiero, non oscillazioni dell’umore... Sono emersi invece numerosi sintomi appartenenti allo spettro dei disturbi antisociale, narcisistico e paranoico».

Seung non gliela perdona e nella sua mente la psichiatra diventa un mostro. La accusa di vendere cellule staminali per conto di Putin, la pensa responsabile della morte di Denise Pipitone, la collega a Matteo Messina Denaro, allo spionaggio russo. Fino al traffico d’organi, apice di una follia che ha radici profonde e che nel tempo si traduce in violenze, molestie e attacchi dissennati. È così che conosce i tribunali e pure il carcere, oltre che l’ospedale psichiatrico. Padre di origine cinese e madre napoletana, Seung si trasferisce da piccolo con la famiglia dalla Campania alla Toscana, in Versilia, mentre il padre se ne va all’estero. A vent’anni i primi segnali d’instabilità, il primo ricovero e i germi di un odio per la psichiatria che sfocerà nella fondazione dell’«Associazione difesa utente psichiatrico» (Adup): 140 seguaci su Facebook, naturalmente tutti contrari alla medicina ufficiale. Lui partecipa a convegni, discetta, promuove, accusa. Nel 2012, il salto di qualità.

Seung passa dalle parole ai fatti e aggredisce un medico, il suo, Mirko Martinucci. Dopo un incontro, lo raggiunge mentre sta pranzando con la moglie e lo colpisce alle spalle e al volto. Saranno ventidue punti di sutura e la frattura del setto nasale. «Il procedimento penale si è chiuso con la remissione di querela», precisa il suo avvocato, Gabriele Parrini. Ma da lì scaturisce anche un provvedimento che gli impedirebbe di avvicinare i medici dell’ospedale della Versilia. 

(...) Lui vuole entrare a tutti i costi, ne nasce una lite e Seung gli spruzza lo spray al peperoncino sul volto. «Questo procedimento non è ancora definito, credo», aggiunge il legale. Gli arriva un ammonimento del Questore di Lucca ma lo «sciamano», sempre più vittima dei suoi fantasmi, prosegue nelle denunce. «Esposto a Procura — Prefettura Lucca. Da inoltrare a Regina Elisabetta II, Uk — Fbi Christopher Wray, Usa». È un atto d’accusa nei confronti di persone che lui ritiene complici di Matteo Messina Denaro. «Questa ragazza potrebbe essere stata in verità venduta per il traffico di organi e quindi uccisa con complicità del Comune e del Sindaco, al servizio di Matteo Messina Denaro che denuncio da cinque anni», delira. Senza alcuna condanna da scontare, da un annetto Seung girava libero. Libero di scrivere centinaia di mail a procure, questure, prefetture, giornali, compreso il Corriere della Sera . In un crescendo di follia culminata venerdì scorso con l’uccisione a mazzate della dottoressa Capovani, colei che aveva osato scrivere dei suoi problemi mentali. Dulcis in fundo , Seung si è messo a girare il video del suo arresto, a Torre del lago, non prima di aver usato lo spray che preferisce contro gli agenti. Immagini concitate: «Stai fermo, stai fermo», dicono loro. «Non ho niente, guarda, non faccio nulla». Fa una sola cosa: invia il filmato ai seguaci.

Estratto dell'articolo di Paolo Fiorini per lastampa.it il 25 Aprile 2023

Gianluca Paul Seung, 35 anni, accusato dell'omicidio premeditato della psichiatra pisana Barbara Capovani (55), ha accolto gli agenti che venivano ad arrestarlo la notte di sabato, nella sua casa di Viareggio, riprendendo tutto con il cellulare. Il video, in cui si sente un poliziotto all'esterno dell'appartamento intimargli di restare fermo, è stato poi diffuso dallo stesso Seung tra i propri contatti. «Sto qua, non faccio nulla», dice, mentre in sottofondo si sento i rumori dell'irruzione.

Poi, ancora alla Polizia, «non, ho niente, guarda!», mostrandosi disarmato. Secondo il rapporto della Questura, tuttavia, avrebbe poi resistito all'arresto spruzzando dello spray al peperoncino su un agente. Ora, si trova in carcere in attesa della convalida, che avverà mercoledì 26. […]

Estratto dell'articolo di Filippo Fiorini per “La Stampa” il 27 aprile 2023.

Era stato interrogato domenica dal pm mentre l'Asl Toscana annunciava la morte e la donazione degli organi della dottoressa Barbara Capovani, ma aveva taciuto. È stato sentito ieri dal giudice per le indagini preliminari mentre un rene e il fegato della primaria di psichiatria che è accusato di aver aggredito a Pisa salvavano la vita di un bambino e di un adulto, trapiantati rispettivamente a Roma e a Milano, ma ha taciuto ancora. 

[...] Tuttavia, Gianluca Paul Seung, sedicente sciamano, complottista a tempo pieno e malato di mente, resterà dove si trova: il centro clinico del carcere Don Bosco. In altri termini, per il momento non sarà trasferito in una Rems, né beneficerà degli arresti domiciliari.

Sedato, «scosso e frastornato» nella percezione dei suoi legali, non è stato il pericolo di fuga a giustificare il provvedimento, perché il giudice non ne ha convalidato il fermo, che è avvenuto nella sua abitazione. È stato certamente il pericolo che il 35enne reiterasse il reato che è accusato di aver commesso venerdì scorso. 

Nel 2011, infatti, aveva aggredito un altro medico sfregiandolo con una penna. Giovedì 20, poi, aveva atteso senza successo questa psichiatra di 55 anni, madre di tre figli, amante degli animali al punto da introdurre la pet therapy nel suo reparto, contro la quale aveva maturato odio in seguito a un Tso cui era stato sottoposto, che ha poi attaccato a sprangate il giorno […]

[…] Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha citato direttamente la dottoressa Capovani ieri, per annunciare un decreto in cui intende riformare il tavolo per la salute mentale, organo inaugurato due anni fa allo scopo di «organizzare al meglio i servizi» per le patologie di questo tipo. Rispetto al precedente, Schillaci ha promesso di renderlo «più snello» e di «potenziare i percorsi di prevenzione». 

Al centro del dibattito, c'è la tutela del personale sociosanitario, sempre più spesso vittima di aggressioni, nonché il trattamento da riservare ai pazienti psichiatrici particolarmente pericolosi.

Psichiatra uccisa, parlano le figlie: "Un mostro ti ha portata via". Centinaia di persone hanno partecipato al funerale di Barbara Capovani, la psichiatra uccisa a sprangate a Pisa da Gianluca Paul Seung, un ex paziente che si è tenuta nell'aula magna dell'università di Pisa. Redazione l'1 Maggio 2023 su Il Giornale.

Dalla pagina Fb di Eugenio Giani

 Centinaia di persone hanno partecipato al funerale di Barbara Capovani, la psichiatra uccisa a sprangate a Pisa da Gianluca Paul Seung, un ex paziente che si è tenuta nell'aula magna dell'università di Pisa.

Struggente il ricordo dei familiari della dottoressa. «Mi hai sempre insegnato che su alcune cose non abbiamo controllo, ma che anche nelle peggiori circostanze si può fare qualcosa, individuare un aspetto su cui si può avere un margine di azione. Non trovavo niente che mi potesse dare pace, che mi potesse aiutare. Poi ho realizzato alcune cose, che mia mamma è un eroe e ha i superpoteri. Ha dato risposte e forza per affrontare tutto», ha detto la maggiore dei tre figli. «Eri la nostra cometa, il centro della nostra famiglia, l'anima di tutti noi, grazie del tuo esempio amore mio», le parole del compagno tra le lacrime. «Un mostro ti ha portato via, non è giusto sei nel cuore di tutti noi, tutti gli abbracci che mi hai dato sono conservati nel cuore» ha detto invece la figlia minore.

Tra gli interventi durante la cerimonia anche quello della giudice Eleonora Pulidori, presidente della sezione civile del Tribunale di Pisa. «Purtroppo possiamo solo prendere atto dell'impotenza degli strumenti con i quali abbiamo lavorato in questi anni. Nel 2023 un medico non dovrebbe trovarsi ad affrontare questo rischio. Esprimo dolore anche per il senso di ingiustizia che provoca questa vicenda», ha detto, chiedendo allo Stato di aggiornare un impianto legislativo non adeguato.

«Barbara amore mio, piccina e vero gigante, la nostra Kangurina mai ferma. Grazie per avermi amato». Simone Innocenti l'1 Maggio 2023 su Il Corriere della Sera.

La lettera del marito della psichiatra uccisa: «Eri la nostra stella cometa, la luce della famiglia, dedicavi tempo a ciascuno, individualmente e poi tutti insieme, eri il centro delle nostre chiacchierate» 

«Amore mio non so neanche da dove iniziare, come fare a dire delle cose che possano renderti giustizia, che possano far, se non capire, almeno intuire chi era Barbara. La poliedricità della tua personalità, le sue infinite sfaccettature e allo stesso tempo la tua gentile semplicità che ti rendeva accessibile ed aperta a tutti, senza eccezioni». Inizia così un lungo post su Facebook che Michele Bellandi, il compagno della psichiatra uccisa a Pisa all’ospedale Santa Chiara, dedica all’amore della sua vita. «Eri cosi piccina, con quel tuo corpicino esile ma anche forte e scattante: un moto perpetuo, quasi impossibile da fermare, tanto che in famiglia ti avevamo soprannominata Kangurina ( con la K)». 

Dopo il ricordo all’Aula Magna dell’Università di Pisa da parte dei familiari, questa è la prima vera riflessione pubblica che il compagno della donna da dopo la sua uccisione da parte di Gianluca Paul Seung, un suo ex paziente di 35 anni, poi arrestato dalla squadra mobile di Pisa. «E’ buffo, per tanti anni hai lavorato al dipartimento delle dipendenze: ma nessuna droga ne dava di più della tua presenza. Persino per i tuoi amati cani, sempre ipnotizzati dal tuo sguardo profondo e penetrante. E i vari addestratori che amavi contattare per capire ogni singolo aspetto dei tuoi miglior amici, erano tutti allibiti: nessuno aveva mai visto una relazione cosi stretta ed una dipendenza cosi totale nei loro decenni di esperienza», scrive ancora Bellandi. 

Che spiega come questa donna amasse il suo lavoro: «La tua dedizione al lavoro poi era totale. Non facevi il medico, eri nata medico : a 6 anni avevi deciso che avresti fatto la psichiatra e cosi e’ stato. La tua era una missione in cui hai sempre dato tutta te stessa. Non ti interessava la gloria personale, i soldi, rifuggivi l’apparire sui giornali. Eri pura sostanza, eri il fare verso l’apparire, avevi mille idee e una capacità di risolvere i problemi ineguagliabile». E ancora: «Nessuna minaccia, nessuna offesa, ti scalfiva. Tutti quelli che, non di rado, provavano a metterti i bastoni tra le ruote, partivano sconfitti in partenza. I loro interessi individuali, spesso egoistici o comunque di parrocchia, si scontravano, non solo con la tua ferrea determinazione ma soprattutto con il tuo volere un qualcosa di superiore: tu non agivi mai per interesse personale ma solo con l’idea e la preoccupazione di far star bene I tuoi pazienti, proteggere i tuoi colleghi, appunto con l’idea di “fare la cosa giusta”. Per questo eri imbattibile». 

Infine un ricordo struggente: «Eri la nostra stella cometa, eri la luce della famiglia, dedicavi tempo a ciascuno, individualmente e poi tutti insieme, eri il centro delle nostre chiacchierate, con le tue affermazioni non di rado provocatorie. Spesso criticata, poche volte “riconosciuta” - almeno non in quello contesto- per tutto ciò che facevi per noi, come tutti i grandi leader». 

Lo sguardo di Bellandi si svolge al passato: «Ci dicevamo spesso che da soli saremmo stati due “disgraziati” ma che insieme eravamo invincibili. Spero di trovare la forza per continuare ad esserlo anche senza di te al mio fianco, soprattutto per prendermi cura di ciò che era la tua preoccupazione più grande: “I tuoi bambini”». 

Le ultime parole sono nel segno di ciò che la donna uccisa ha insegnato a Bellandi: «Grazie per avermi accettato incondizionatamente, cosi come sono, ben conscia di tutti i miei difetti; grazie per tutto quello che mi hai insegnato e per aver lasciato a me e a tutti noi un esempio indelebile. Amore mio tu sarai qui, con noi, per sempre».

DAGONEWS il 25 Aprile 2023

Se vi chiedete cosa c’è dietro la mobilitazione degli psichiatri dopo il massacro di Barbara Capovani, la psichiatra uccisa a Pisa dall’ex paziente Gianluca Paul Seung, bisogna riavvolgere il nastro e tornare al 2015 sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari . Gli OPG facevano capo alla amministrazione penitenziaria ed erano strutture dove finivano i malati mentali che avevano chiuso i malati mentali. La loro chiusura, seppur ritenuta giusta dagli psichiatri, ha creato però una gigantesca falla e il motivo è presto spiegato.

I malati, infatti, sono finiti per pesare sulle spalle della psichiatria territoriale che riceve quotidianamente dai giudici disposizioni su come curare e riabilitare questa gente. Persone che, che a volte, non sono riabilitabili. 

In partica, quello che è successo è solo la punta dell’iceberg di una situazione di cui tutti gli psichiatri che lavorano nei servizi territoriali sono consapevoli. Non a caso è scattata un’enorme mobilitazione dopo l’aggressione a Barbara Capovani. È successo a lei, ma poteva capitare a ognuno di loro.

(ANSA il 25 Aprile 2023) - Mancano risorse e personale e servirebbero altri 10mila operatori nei servizi di salute mentale, ma il problema della sicurezza è soprattutto giuridico. "Dopo la chiusura dei manicomi nel 1978, qualche anno fa sono stati chiusi gli Ospedali psichiatrici giudiziari.

Ora ci sono le Rems - spiega Massimo Cozza, direttore del dipartimento di salute mentale dell'Asl Roma 2, fra i direttori dei dipartimenti hanno lanciato oggi una lettera-appello al Governo - ma queste strutture non sono adatte per tutti, in particolare per i pazienti che soffrono di disturbo antisociale, a rischio di atti violenti, come è stato per l'uomo che ha ucciso la psichiatra. 

Questi pazienti restano sui servizi del territorio, nei dipartimenti di salute mentale, senza avere le forze e le condizioni per affrontare le esplosioni di violenza. La richiesta è quella di cambiare il codice penale, fermo al Codice Rocco degli anni '30. La proposta è di aprire in alcune carceri alcune sezioni specializzate per i pazienti con disturbo psicotico antisociale che si sono macchiati di reati". 

Maria Novella De Luca per “la Repubblica” il 25 Aprile 2023

«Conoscevo bene Barbara Capovani, una collega straordinaria, la cui unica colpa è stata quella di aver cercato di curare l’uomo che l’ha aggredita. Tre figli, era una leader, di enorme umanità con i suoi pazienti. Questa è una tragedia annunciata. Sono anni che denunciamo i gravissimi rischi di chi lavora nel campo della salute mentale, in particolare nelle Rems. Ma nessuno ci ha ascoltati».

Sono amare le parole di Giuseppe Nicolò, direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl 5 di Roma, all’interno della quale si trovano tre Rems, ossia Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Strutture nate dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari nel 2015, nelle quali vengono ricoverati soggetti con problemi mentali che commesso reati. 

«Chiudere quei manicomi è stato giusto, un atto di umanizzazione, ma la legge sulle Rems è stata un fallimento. Siamo in una perenne condizione di pericolo — denuncia Nicolò — mentre per soggetti come l’aggressore di Barbara non esistono strutture adeguate. Dunque restano a piede libero. Liberi di fare del male».

Le Rems però hanno segnato la fine della vergogna degli ospedali psichiatrici giudiziari. Perché non funzionano?

«È stato totalmente sottovalutato il criterio della sicurezza, anche per ragioni ideologiche. Se negli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, i pazienti venivano soltanto contenuti e non curati, oggi nelle Rems prevale, giustamente, l’aspetto sanitario. Ma noi trattiamo persone che hanno anche una pericolosità sociale, hanno commesso reati, possono aggredire e spesso aggrediscono. E nelle Rems non è previsto alcun servizio di sicurezza. Vi sembra possibile?».

[…]

Gianluca Paul Seung, l’aggressore della dottoressa Capovani, avrebbe avuto titolo per essere ricoverato in una Rems?

«No, ma può accadere che soggetti come lui, intrattabili con i farmaci, di violenza incoercibile ma non incapaci di intendere e di volere, vengano poi inseriti nelle Rems o nelle case famiglia per mancanza di alternative. Con gravissimi danni per i pazienti ed enorme rischio per medici e operatori».

Dove dovrebbero essere curati allora?

«È questo il problema. In Italia non sappiamo dove metterli. Hanno un disturbo psichiatrico, in questo caso narcisistico e paranoico, ma anche atteggiamenti antisociali.

Sono imputabili, processabili ma in carcere sono ingestibili. Quindi quando vengono condannati finiscono sempre ai domiciliari. E poi a piede libero». 

Quale sarebbe invece il tipo di struttura adeguata?

«Percorsi carcerari ad alta sanitarizzazione. Sull’esempio delle Sdpd inglesi, reparti di massima sicurezza con assistenza psichiatrica».

[…]

Il Caso di Imperia.

(ANSA il 15 febbraio 2023) Si chiude con 32 indagati, soltanto 24 dei quali raggiunti da misura cautelare, l'operazione Praesidium della Guardia di Finanza che ha permesso di smascherare una serie di maltrattamenti da parte di operatori socio sanitari e infermieri presso la rsa "Le Palme" di Taggia, oggetto di un altro blitz delle fiamme gialle, a marzo del 2022, che si concluse con 41 indagati.

 Dalle indagini, eseguite con l'ausilio di intercettazioni telefoniche e ambientali audio e video, sono emersi la frequente omissione di servizi essenziali (dalla somministrazione dei pasti al cambio di postura), e vere e proprie aggressioni verbali e fisiche nei confronti degli ospiti, oggetto di insulti e percosse e, nel migliore dei casi, di procedure da sbrigare nel minor tempo possibile o addirittura da scansare, quando il tempo o l'impegno difettavano. Dieci sono i soggetti raggiunti dalla misura degli arresti domiciliari.

Si tratta di: Giuseppe Trudu, 48 anni, residente a Crevacuore (Biella); Stefania Lanfranco, 50 anni, residente a San Lorenzo al Mare; Rillana Moreira De Silva, 37 anni (Sanremo); Alexander Rosapinta, 44 anni (domiciliato a Badalucco); Paola Tripicchio, 57 anni, (Pompeiana); Lara Lupi, 53 anni, (Sanremo); Francesco Benespera, 55 anni (Taggia); Angelique Viggiani, 38 anni, (Imperia); Riccardo Pogliano, 61 anni, (Sanremo); Julia Cazorzi, 58 anni (Taggia).

 Gli altri 14 indagati sono stati raggiunti dalla misura cautelare della sospensione dall'esercizio di pubblico servizio: 6 per dodici mesi e 8 per sei mesi. "Le modalità odiose dei reati loro ascrivibili e l'indole prevaricatrice e violenta ripetutamente manifestata da gli indagati - scrive il gip Massimiliano Botti, alla fine delle quasi trecento pagine di misura cautelare, nel motivare gli arresti domiciliari - rendono molto probabile la reiterazione di reati contro la persona anche al di fuori dell'ambiente di lavoro e indipendentemente dalla prestazione di attività socio-assistenziale a favore di strutture pubbliche o private".

 (ANSA il 15 febbraio 2023) "E continua a cantare (…) finché non ti do una manata in mezzo ai denti e te li faccio inghiottire". E' soltanto una delle frasi con cui uno degli operatori socio sanitari indagati nell'inchiesta per maltrattamenti e abbandono di anziani, si rivolge a un'anziana ospite della rsa Le Palme, di Arma di Taggia.

 "La degente viene momentaneamente lasciata in piedi vicino al letto - si legge negli atti -. La stessa non rimanendo ferma riceve più volte rimproveri dalla oss e in ultimo le grida: 'Mo' ti do una testata in mezzo agli occhi che vedi come la smetti'". Gli anziani vengono più volte insultati e umiliati, come nel caso in cui la stessa imputata (Cazorzi), dopo aver fatto sedere la degente sul letto, la fa rialzare per abbassarle i pantaloni, dopodiché, la scaraventa sul letto esclamando: "La ciolla che sei. Con me non si scherza".

 La degente continua a cantare e lei risponde: "Basta! Deficiente! Sei proprio una napoletana cretina". C'è, quindi, il caso del cambio di pannolino di un'altra ospite, che si era sporcata e aveva sporcato il letto. "L'oss, stizzito dalla situazione - è riportato negli atti - prima fa urtare con violenza la degente sul letto, facendole urtare la testa e poi le tira un pugno sulla schiena […] In tutti gli episodi la degente emette grida di dolore".

Il Caso di Foggia.

La Legge Basaglia tradita dagli orrori sui pazienti a Foggia. «I fatti di Foggia», della struttura psichiatrica degli orrori, testimoniano e segnalano una protervia ed un accanimento contro i fragili tra i più fragili: i portatori di disagio mentale grave. Bruno Marchi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Gennaio 2023.

Da Bruno Marchi, specialista in Psicoterapia Psicoanalitica a Fasano (Brindisi), riceviamo e pubblichiamo.

«I fatti di Foggia», della struttura psichiatrica degli orrori, testimoniano e segnalano una protervia ed un accanimento contro i fragili tra i più fragili: i portatori di disagio mentale grave.

Per essi, dall’Età Classica, così come ci è stato dottamente insegnato da Michel Foucault, sembrerebbe che il destino sia lo stesso: segregazione. Sembrerebbe che le comunità di riabilitazione psichiatrica altro non siano che manicomi, magari in miniatura, per la cui chiusura Franco Basaglia ed i suoi collaboratori hanno dedicato la vita professionale e non solo. Sforzo, scientifico e politico, che nel corso degli anni purtroppo è stato vanificato da scelte sempre più «aziendali» che la sanità pubblica ha messo in atto tradendo, se non bastasse, non solo la legge 180/78, nota come «legge Basaglia», ma anche lo spirito della riforma sanitaria, anch’essa del 1978.

Molto frequentemente la spesa relativa ai pazienti psichiatrici ricoverati nelle comunità riabilitative è stata sostenuta senza la doverosa convinzione che il recupero di queste persone, poiché di persone e cittadini si tratta, richiede interventi specifici e specialistici ma anche azioni sociali e culturali sul territorio. Pertanto, non solo psicofarmaci che frequentemente hanno finalità esclusivamente sedative.

Tradita la legge Basaglia, si è realizzato un confino di queste persone, di questi cittadini, in strutture molto spesso chiuse in se stesse, autoreferenziali; piccoli universi anche virtuosi, ovviamente non ve ne sono solo di malsane, che nella maggior parte dei casi, però, non riescono a dialogare con i territori e con questo paradossalmente favoriscono, senza rendersene conto, un segregante processo di esclusione dal contesto sociale e dalla possibilità di fare esercizio di cittadinanza attiva, cioè di inclusione.

Alla base delle esperienze comunitarie problematiche, non necessariamente caratterizzate da violenza o perversione, ci sono diversi elementi tra i quali, qui si evidenzia, quello della formazione degli operatori che spesso è generale e non focalizzata sulla mente e sul suo mal/funzionamento; quello della supervisione clinica degli operatori la quale avrebbe anche funzione di sostegno a persone che quotidianamente impattano il disagio con quanto ne deriva sotto il profilo dell’affaticamento mentale; quello del supporto psicologico ai parenti più prossimi dei pazienti.

Non si tratta, per concludere, di suggerire una ricetta risolutiva poiché, di fatto, nessuno ce l’ha in tasca in quanto la tematica/problematica del disagio mentale grave è complessa e coinvolge più livelli: da quello biologico a quello più puramente mentale.

Si tratterebbe, pertanto, di intendere la comunità riabilitativa non come luogo di ricovero residenziale bensì come luogo veramente aperto al territorio che partecipi, grazie ad un opportuno processo di in/formazione, alla cura ed al reinserimento di queste persone sofferenti – poiché di sofferenza stiamo parlando – aiutandole a sviluppare le loro potenzialità in ambito culturale, creativo e lavorativo. Con altre parole: si tratterebbe di cominciare a considerare chi vive un disagio mentale grave come un cittadino avente diritti nella cui mente possono essere rintracciate risorse emotive alle quali agganciarsi per un possibile recupero, a condizione che tali risorse non siano spente dai farmaci e da una dinamica difensiva, da parte dei cosiddetti sani, tesa ad imbarcare sulla «nave dei folli» coloro che ci ricordano la caducità del nostro presunto equilibrio mentale.

Estratto dell’articolo di Valeria D'Autilia per “la Stampa” il 25 Gennaio 2023.

Presi a botte, chiusi a chiave o legati con le lenzuola. E poi insulti e minacce. «Ti uccido di mazzate», «Ti sparo in bocca». Vittime 25 pazienti psichiatrici, in prevalenza donne. Due i casi di abusi sessuali. Soggetti fragili, in condizioni di inferiorità fisica e psichica, incapaci di raccontare quello che subivano tra le mura della residenza socio-sanitaria «Don Uva» di Foggia. In balia di aguzzini con la divisa. Donne e uomini tra infermieri, operatori socio sanitari, educatrici e personale addetto alle pulizie. Sette sono finiti in carcere, otto ai domiciliari.

 […] Probabilmente, se non ci fossero state le telecamere nascoste nelle stanze e nei corridoi e le intercettazioni, svelare le violenze all'interno di questo ambiente «blindato e inaccessibile» sarebbe stato impossibile. E «tali fatti sarebbero rimasti ignoti». Perché queste vittime, stando agli inquirenti, «non erano in grado di riferire ciò che subivano sistematicamente». Neppure ai loro familiari.

[…]

 Nei video le urla strazianti, il rumore delle percosse. Angherie e umiliazioni in un clima di violenze e intimidazioni. Vulnerabili, disabili gravi tra i 40 e i 60 anni, incapaci di ribellarsi o denunciare. Vivevano una condizione di «paura e intollerabili sofferenze». Trascinati per i capelli. Strattonati come fossero oggetti. «Vattene da qua sennò ti infilo il coltello in gola».

E poi il palpeggiamento di una paziente e l'incitamento a compiere atti sessuali tra degenti. Nell'ordinanza, il gip ripercorre circostanze «agghiaccianti», in un quadro «inquietante, denso di degradazione e disprezzo della dignità», sottolineando le condotte attive di alcuni e una consapevole assenza di intervento da parte di altri. Per l'accusa, hanno visto e taciuto.

 Maltrattamenti, sequestro di persona, violenza sessuale, favoreggiamento personale: numerosi gli episodi contestati. La crudeltà verso questa umanità indifesa. «Ora puoi pure morire, una merda di cristiana» diceva uno degli arrestati, mentre cambiava il pannolone a una delle persone ricoverate. La struttura fa parte del gruppo Universo Salute.

L'amministratore delegato, Luca Vigilante, parla di massima collaborazione. Sin dal primo momento. E annuncia: «Procederemo ai licenziamenti laddove ce ne saranno gli estremi». Per ora, gli indagati sono sospesi.  […]

Violenze sugli indifesi: gli orrori di Foggia evocano i vecchi manicomi. Se i manicomi sono ritornati sotto mentite spoglie, evidentemente c’è un problema taciuto, che va sviscerato il più rapidamente possibile. Andrea Di Consoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Gennaio 2023

Le notizie che ci giungono di ora in ora sul “Don Uva” di Foggia lasciano tutti noi, com’è giusto che sia, in uno stato di dolore e di indignazione. Ma da soli il dolore e l’indignazione non bastano a mettere a fuoco quest’orrore, che non solo va capito, ma necessariamente arginato con laica fermezza.

La prima cosa da dire è che a leggere simili cronache viene da dire che in Italia sembrerebbero essere ritornati i vecchi manicomi. Non solo come luoghi di esclusione e di presunta “cura”, ma come spazi di umiliazione, di sopruso, di tortura e di violenza. La migliore psichiatria moderna è spesso anti-psichiatrica, ma se si è subdolamente reso necessario tornare alle vecchie forme della sorveglianza e della punizione, evidentemente c’è qualcosa di non detto a livello di sanità pubblica su come si possono gestire efficacemente i disagi psichiatrici gravi.

Se i manicomi sono ritornati sotto mentite spoglie, evidentemente c’è un problema taciuto, che va sviscerato il più rapidamente possibile.

La seconda questione riguarda i controlli e la qualità del personale che opera in queste strutture. Due sono le cose: o queste pratiche sono tollerate, oppure c’è stato un omesso controllo da parte di chi aveva e ha il dovere di verificare il rispetto e la correttezza dei protocolli utilizzati. Non basta perseguire penalmente chi si è reso responsabile di questi crimini, ma anche quanti avevano il dovere di controllare che tutto questo non avvenisse. Nessuna caccia alle streghe, per carità, ma qui stiamo parlando di un meccanismo ben strutturato di torture e violenze sessuali perpetrate nei confronti di donne inermi, ovvero incapaci di difendersi e di reagire.

Il terzo livello di lettura chiama in causa la qualità professionale e la formazione del personale chiamato a gestire quotidianamente disagi psichici gravi come la schizofrenia o le psicosi aggressive. Nessuno ha la bacchetta magica, ma per occuparsi di persone che vivono simili abissi della mente non basta essere infermieri o medici tra i tanti, ma bisogna avere una precisa vocazione e una profonda consapevolezza etica e medica. Mettere un qualsiasi infermiere a stretto contatto con questi abissi mentali porta inevitabilmente a vivere un disagio, un’esasperazione, una frustrazione. Tutti sentimenti che possono dar vita a reazioni mentali ed emotive imprevedibili. Insomma, nella trincea del disagio psichiatrico si devono mandare tiratori scelti – per usare una metafora militare – non impiegati in cerca di un posto fisso purchessia.

Quarta questione: le famiglie e la società civile. Avere in famiglia una persona con grave disagio e sofferenza mentale è un buco nero che richiede molta forza e molto spirito di sopportazione. Non è facile. Facile è solo parlarne quando non si vive il problema. Ma francamente la politica, la società civile e i media dovrebbero affrontare con maggiore onestà intellettuale e con maggiore sincerità il dramma del disagio psichiatrico, perché riguarda più persone di quanto si pensi. Illudersi di tornare a mettere la polvere sotto al tappeto come si faceva prima della Legge Basaglia non è possibile, perché sarebbe un grave arretramento civile e culturale. Ma bisogna parlarne con maggiore onestà e sincerità, senza provare vergogna, perché la vergogna, su questi temi, è l’anticamera della violenza.

C’è poi una questione che riguarda la psiche dei “professionisti” che si sono resi responsabili di questi orrori. Purtroppo non basta sottolineare il grave allentamento delle tensioni etiche e morali nel nostro tempo: parlarne è corretto, ma aprirebbe discussioni infinite, e probabilmente inconcludenti. Ma è evidente che chi prende a pugni un malato inerme o violenta una paziente con problemi psichiatrici a sua volta si ritiene libero di poter sfogare nella terra di nessuno di questi “nuovi manicomi” livelli molto alti, magari tenuti a freno “fuori dal lavoro”, di rabbia, violenza, e istinti di umiliazione e di sopraffazione.

La domanda è: è la cattività a cui porta lavorare in queste strutture “estreme” a condurre a simili comportamenti allucinanti e disumani, oppure inconsciamente chi nasconde violenza interiore inesplosa tende a lavorare in contesti di questo tipo?

Insomma, in queste ore drammatiche non basta indignarsi e invocare punizioni divine o pene esemplari. Bisogna andare a fondo nella problematica provando ad analizzare il più sinceramente possibile tutti i fattori in campo. Perché l’indignazione, da sola, non porta da nessuna parte.

Per esempio si potrebbe partire da una prima domanda, la più importante tra tutte: per caso in Italia sono ritornati i vecchi, orribili, umilianti, spaventosi manicomi che c’erano prima che entrasse in vigore la Legge Basaglia?

Il caso di Lando Buzzanca.

Valentina Lupia per “la Repubblica” il 19 dicembre 2022.

«È stato ammazzato dalla legge 604, quella sull'amministratore di sostegno », è dura e netta la denuncia di Francesca Della Valle, la compagna di Lando Buzzanca. L'ultimo atto della battaglia ad alta intensità che si sta consumando da più di un anno tra Massimiliano e Mario, i figli di Lando e la stessa Della Valle (supportata da Fulvio Tomaselli, medico e amico dell'attore) va in scena poche ore dopo la dichiarazione del decesso.

«Denuncerò chi lo ha abbandonato », minaccia dunque la giornalista che già in passato aveva attaccato i due figli ottenendo come risposta l'accusa - a volte velata a volte meno - di muoversi solo per questioni di eredità.

Buzzanca da tempo combatteva contro la demenza senile, venne rinchiuso in una residenza sanitaria assistenziale (una rsa), poi ricoverato d'urgenza al policlinico Gemelli di Roma. Le denunce a mezzo social della compagna dell'attore diventarono quotidiane: «Lo stanno assassinando », «L'hanno sequestrato», «Vogliono coprire una morte annunciata ». La donna chiese insistentemente che il compagno uscisse, perché non aveva «una malattia terminale ». Della Valle ce l'aveva contro «l'amministratore di sostegno», che «con il beneplacito del giudice tutelare » aveva isolato l'attore da lei.

Buzzanca è morto così in ospedale, senza che la famiglia, la compagna e il suo amico medico si siano chiariti e riappacificati. Anzi. I figli dell'attore nei giorni scorsi hanno annunciato denunce ed esposti. Il primo dei quali è proprio contro Della Valle: «Una sentenza ha stabilito che lei non ha alcun diritto nei confronti di nostro padre». La seconda è per Fulvio Tomaselli, il medico che sui social aveva raccontato in maniera dettagliata delle condizioni dell'attore 87enne con frasi che, secondo la famiglia Buzzanca, avrebbero leso la privacy dell'uomo. «Vorrei farvi vedere le immagini di Lando Buzzanca, ricoverato d'urgenza al Gemelli dall'8 novembre.

Non mi ferma la privacy, ho rispetto per un'icona italiana famosa nel mondo», aveva scritto di recente Tomaselli su Facebook parlando dell'attore come di «una tragica ombra di se stesso, rannicchiato in un letto, scheletrico, sfinito, drammaticamente lucido». La rsa, aveva aggiunto il medico, «non è un ospedale ma un luogo di assistenza. Lando avrebbe dovuto trascorrere lì 11 mesi ». E anche lui sostiene che «l'amministratore di sostegno» abbia «impedito che uscisse» e ostacolato gli incontri con Della Valle.

Il caso di Carlo Girardi.

(ANSA domenica 22 ottobre 2023) E' morto Carlo Gilardi, il professore di 92 anni di Airuno che era stato messo in una rsa del Lecchese il 27 ottobre 2020 da giudice tutelare e l'amministratore di sostegno anche se lui sarebbe voluto tornare a casa.. Il caso è stato oggetto di una serie di servizi delle Iene (e ha portato anche all'apertura di un processo per diffamazione).

E' di luglio un pronunciamento della Corte Europea dei diritti umani che ha stabilito che l'Italia ha violato i diritti di una persona anziana a cui le autorità hanno di fatto tolto ogni possibilità di veder presi in conto i suoi desideri e preferenze. Sono stati aperti gruppi Facebook per sostenerlo. Lo scorso giugno Andrea Bocelli si era presentato nella casa di riposo per cantargli 'tanti auguri' ma non era riuscito ad entrare. Da circa tre settimane il professore era tornato ad Airuno, città di cui è stato benefattore e che lo aveva da pochi giorni nominato cittadino onorario, ricoverato all'hospice Il nespolo a causa del peggiorare delle sue condizioni di salute.

È morto Carlo Gilardi, l’anziano professore rinchiuso in una RSA contro la sua volontà. Stefano Baudino su L'Indipendente sabato 28 ottobre 2023.

All’età di 92 anni, sul letto di un hospice lombardo, se n’è andato Carlo Gilardi. Il professore lombardo, protagonista di una storia resa mediatica dal programma di Italia 1 Le Iene, su decisione del giudice tutelare e dell’amministrazione di sostegno nel 2020 era stato prelevato contro la sua volontà dalla sua abitazione di Airuno e spostato in una RSA. Fin dal primo giorno, Gilardi – che per questo si sottopose anche uno sciopero della fame – ha combattuto per poter fare ritorno nella sua amata casa. Dopo lo scalpore suscitato dai servizi televisivi, il caso finì alla Corte Europea dei Diritti Umani, che condannò l’Italia per la violazione dell’articolo 8, inerente il diritto al rispetto della vita privata. L’uomo – a cui era stato diagnosticato da tempo un cancro al cervello – non è però mai riuscito a fare ritorno nel luogo dove avrebbe voluto passare l’ultima parte della sua vita ed è deceduto nell’hospice “Il Nespolo” di Airuno, dove era stato ricoverato a causa del progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute.

Carlo Gilardi era nato ad Airuno nel 1930. Detentore di un un ingente patrimonio di famiglia, nel 2017, in seguito a una segnalazione indirizzata da sua sorella al Tribunale di Lecco per la sua prodigalità verso individui ed enti pubblici, era finito sotto amministrazione di sostegno. Conosciuto per la sua grande cultura e generosità, il professore ha infatti sempre scelto di vivere in povertà, elargendo a varie persone somme di grande rilievo. Dopo che un’indagine aveva svelato che l’uomo era stato raggirato da un badante e un gruppo di persone che ospitava a casa sua (il primo è stato appena condannato in Appello a 1 anno e 8 mesi, gli altri sono a giudizio per lo stesso reato), il 27 ottobre 2020 l’amministratrice di sostegno Elena Barra si presentò a casa sua insieme a Carabinieri, infermieri e ambulanza. L’anziano venne prelevato dalla sua abitazione e trasferito nel reparto psichiatrico di un centro ospedaliero, per poi essere ristretto in un ospizio. Barra ha sostenuto di aver agito nell’interesse dell’anziano e nella cornice di un provvedimento del giudice tutelare, aggiungendo che Gilardi non è stato sottoposto a «nessun Trattamento Sanitario Obbligatorio)». “Ritengo che da tempo stiano cercando di farmi dichiarare incapace di intendere e volere al solo fine di poter gestire liberamente i miei soldi e le mie libertà”, aveva scritto Carlo in una lettera prima del ricovero. Nonostante inizialmente si fosse parlato solo di una situazione “temporanea”, all’anziano non venne mai più permesso di fare ritorno a casa.

Il 20 settembre 2021 il cugino di Carlo, Augusto Calvi, aveva presentato ricorso alla CEDU. Che, lo scorso luglio si è pronunciata a favore dell’ex professore, condannando l’Italia per aver violato i diritti di una persona anziana, dei cui desideri e preferenze le autorità non hanno tenuto conto. Nella sentenza, i giudici di Strasburgo hanno infatti attestato che Gilardi “si è trovato posto sotto la completa dipendenza del suo amministratore in quasi tutti gli ambiti e senza limiti di durata” e che “le autorità hanno, in pratica, abusato dell’elasticità dell’amministrazione di sostegno per perseguire le finalità che la legge italiana assegna, con dei rigorosi limiti, al Tso, la cui disciplina legislativa è stata dunque elusa mediante un ricorso abusivo all’amministrazione di sostegno”. La Corte ha sottolineato che “negli ultimi tre anni non sembra essere stata prevista alcuna misura finalizzata al rientro dell’interessato presso la propria abitazione, sebbene l’affidamento fosse stato deciso in via provvisoria” e nonostante Gilardi “non sia stato dichiarato incapace” e “non sia stato oggetto di alcun divieto, avendo le perizie indicato, al contrario, una buona capacità di socializzazione”. L’anziano – hanno ricostruito i giudici – è stato “privato, salvo poche eccezioni, di ogni contatto con l’esterno e ogni richiesta di colloquio telefonico o di visita dava luogo a filtraggio da parte dell’amministratore di sostegno o del giudice tutelare”. Secondo la Corte, insomma, “se l’ingerenza perseguiva l’obiettivo legittimo di proteggere il benessere in senso lato” di Gilardi, essa “non era tuttavia, rispetto alla gamma di misure che le autorità potevano adottare, né proporzionata né adatta alla sua situazione individuale”.

“Dopo anni di ingiuste sofferenze, per tornare libero hai dovuto morire eppure vivevi in uno Stato dove Istituzioni & Co. osano ancora parlare di diritti e libertà. Ora sei in un posto certamente migliore con persone speciali come te, la tua grande bontà ci doveva essere d’insegnamento ed invece, una pessima società, non l’ha compresa e l’ha usata per tentare di giustificare la tua ‘deportazione’ in RSA” ha scritto in una nota il Comitato Libertà per Carlo Gilardi, battutosi per tre anni per i diritti dell’anziano. “La triste vicenda che ti hanno costretto a subire, ignorando le tue ripetute richieste di libertà, esasperandoti per anni, finanche facendoti desiderare più volte di voler morire, è un’eclatante dimostrazione di dove possa spingersi l’insensibilità e la cattiveria umana. E dopo tutto ciò avranno anche la spudoratezza di chiamarla morte naturale? Ancora una volta ti chiediamo perdono con il cuore in mano e con le lacrime, per quello che questa triste società ti ha causato”, hanno concluso i componenti del Comitato. [di Stefano Baudino]

(ANSA 7 luglio ottobre 2023. ) - La Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l'Italia ha violato i diritti di una persona anziana a cui le autorità hanno di fatto tolto ogni possibilità di veder presi in conto i suoi desideri e preferenze. 

La vicenda ha inizio nel 2017 quando la persona, di cui la Cedu non fornisce le generalità, è posta sotto tutela legale, senza essere dichiarata incapace, "per la sua eccessiva generosità verso terzi e un indebolimento fisico e mentale". 

Alla fine del 2020 il giudice tutelare e l'amministratore di sostegno decidono che la persona deve essere inviata in una residenza sanitaria assistenziale (Rsa), e poco dopo stabiliscono che i suoi contatti con l'esterno, compresa la famiglia, devono essere limitati, se non vietati, e monitorati. Nel frattempo il giudice ha dato potere all'amministratore di sostegno di prendere praticamente tutte le decisioni in merito alla vita della persona anziana.

Nella sentenza la Cedu evidenzia che nel presente caso le autorità hanno "eluso la legge che regola il trattamento sanitario obbligatorio attraverso un uso improprio dell'amministratore di sostegno". 

I togati di Strasburgo argomentano che nonostante "il collocamento nella Rsa era stato deciso in via provvisoria", e la persona anziana avesse più volte espresso la volontà di tornare a casa, non è stata presa alcuna misura affinché questo potesse avvenire. Inoltre la Cedu indica che il governo "non ha fornito alcuna spiegazione sul perché fosse necessario subordinare qualsiasi incontro all'autorizzazione dell'amministratore o del giudice tutelare e isolare la persona anziana dai suoi parenti".

La Cedu sottolinea "una mancanza di garanzie efficaci per prevenire gli abusi e garantire che i diritti, i desideri e le preferenze della persona anziana siano presi in considerazione". 

Il pronunciamento della Corte europea dei diritti dell'uomo riguarda Carlo Gilardi, un benefattore di Airuno (Lecco) che dal 27 ottobre 2020 si trova in una Rsa. La trasmissione "Le Iene" di Italia 1 ha dedicato a questa vicenda, ed altre simili, servizi e approfondimenti fin dal primo momento. Nella sua ultima dichiarazione televisiva l'uomo si diceva: "stufo di star chiuso". L'avvocato Mattia Alfano, che rappresenta alcuni familiari, aveva presentato un ricorso per conto del cugino di Gilardi. (ANSA).

Da iene.mediaset.it il 7 luglio 2023.

La vicenda di Carlo Gilardi, a cui “Le Iene” hanno dedicato approfondimenti e servizi negli ultimi anni, è arrivata a ricevere una sentenza dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo che ha stabilito una violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti umani per aver disposto il ricovero presso una residenza sanitaria assistenziale.  

E mentre la Corte Europea dei diritti dell’uomo stabilisce una violazione, “Le Iene”, per la stessa vicenda, stanno subendo un processo per diffamazione in Italia. La trasmissione aveva inoltre chiesto di spostare il processo da Lecco per incompatibilità ambientale, richiesta che è stata negata dalla Cassazione.

Carlo Gilardi, il ricco benefattore di Airuno (cittadina della provincia di Lecco, ndr.) si trova infatti dal 27 ottobre 2020 in una RSA, contro la sua volontà. Il programma di Italia 1, che in questi anni ha fatto conoscere oltre quella di Carlo, diverse storie di persone che hanno subìto stravolgimenti della loro vita e a cui le istituzioni avrebbero tolto la libertà di scegliere come, dove, con chi vivere e persino dove morire, aveva raccolto anche uno sfogo di Carlo in cui diceva: “Io sono stufo di star chiuso qui”. 

L’avvocato Mattia Alfano, in qualità di rappresentante di alcuni familiari di Carlo, aveva presentato un ricorso proprio alla Corte Europea per conto del cugino. Nelle pagine della sentenza di oggi si legge che la causa presentata riguarda “la collocazione sotto tutela legale di una persona anziana e il suo collocamento in una casa di riposo ospedaliera in isolamento sociale dal mondo esterno durante tre anni”.

“La Corte giudica in particolare che Carlo Gilardi si è trovato posto sotto la completa dipendenza del suo amministratore in quasi tutti gli ambiti e senza limiti di durata. Rileva, inoltre, con preoccupazione, che le autorità hanno, in pratica, abusato dell’elasticità dell’amministrazione di sostegno per perseguire le finalità che la legge italiana assegna, con dei rigorosi limiti, al TSO (trattamento sanitario obbligatorio), la cui disciplina legislativa è stata dunque elusa mediante un ricorso abusivo all’amministrazione di sostegno”.

La Corte nota, inoltre, che “un rigoroso regime di isolamento è stato deciso dall’amministratore di sostegno anche se Gilardi chiedeva di poter tornare a casa. Egli è stato così privato, salvo poche eccezioni, di ogni contatto con l’esterno e ogni richiesta di colloquio telefonico o di visita dava luogo a filtraggio da parte dell'amministratore di sostegno o del giudice tutelare”. La Corte ha concluso che, nel caso di specie, “se l’ingerenza perseguiva l’obiettivo legittimo di proteggere il benessere in senso lato” del signor Gilardi, tale ingerenza “non era tuttavia, rispetto alla gamma di misure che le autorità potevano adottare, né proporzionata né adatta alla sua situazione individuale”. 

La sentenza della Corte dichiara anche che: “qualsiasi misura di protezione adottata nei confronti di una persona in grado di esprimere la propria volontà deve, per quanto possibile, riflettere i suoi desideri”.

“Tenuto conto dell’impatto che la collocazione” di Gilardi - si legge - “sotto tutela giudiziaria ha avuto sulla sua vita privata, la Corte osserva che, sebbene le autorità giudiziarie si siano dedicate ad un’approfondita valutazione della situazione dell’interessato prima di procedere al suo collocamento in una casa di cura, esse non hanno cercato durante esso, in considerazione della particolare vulnerabilità che sentivano di aver individuato, di adottare misure per mantenere le sue relazioni sociali e di mettere in atto un percorso specifico per favorire il suo ritorno a casa.

Al contrario, a seguito del suo collocamento in casa di cura” a Gilardi “si è visto imporre un isolamento dal mondo esterno, e in particolare dalla sua famiglia e dai suoi amici”. “Tutte le visite e le telefonate erano filtrate dal suo amministratore o dal giudice tutelare, ed una delle poche persone autorizzate a vederlo in questi tre anni era il sindaco del comune dove risiedeva. La Corte osserva, infine, che tale filtraggio è stato posto in essere non appena Carlo Gilardi è arrivato nella struttura, cioè prima della messa in onda sui canali nazionali del programma Le Iene”.

Anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, attraverso una nota ufficiale, esprime il proprio rammarico: “Perché le nostre indicazioni, più volte espresse e oggi richiamate dalla stessa Corte europea, non abbiano indotto le Autorità responsabili a evitare questa censura nei confronti del Paese. Esprime tuttavia anche la soddisfazione per i principi che tale pronuncia afferma e per la loro possibile futura applicazione in ulteriori casi che, in analogia con quanto avvenuto a Lecco, possano ripetersi in altre situazioni.

Il Garante nazionale ricorda di aver cercato a più riprese, come documentato dalla Corte Edu nella pronuncia odierna, di interloquire con le Autorità responsabili affinché le misure adottate venissero gradualmente ridotte e consentissero l’affermazione di quel margine di autodeterminazione che non può mai essere sottratto a qualsiasi persona.”.

Lettera di Davide Parenti, Autore de «Le Iene», pubblicata dal “Corriere della Sera” il 15 dicembre 2020.

Il 27 ottobre il professore Carlo Gilardi un uomo di 90 anni colto, mite - molto ricco - e nel pieno delle facoltà mentali è stato prelevato dalla sua casa di Airuno, portato nel reparto psichiatrico di un ospedale e poi in un ospizio: contro la sua volontà. Da quel momento, di lui si sono perse le tracce. Nessuno sapeva dove fosse, neanche il suo avvocato e i familiari, e nessuno a oggi ha potuto incontrarlo e fargli visita. 

Elena Barra, l'amministratrice di sostegno che ne ha disposto il ricovero, ha sempre detto che Carlo l'ha seguita volontariamente e che quel 27 ottobre la presenza dell'ambulanza e dei carabinieri era stata richiesta al solo fine di «garantire la sua incolumità». Sappiamo invece che Barra aveva in mano un ordine del giudice con tanto di autorizzazione all'uso della Forza pubblica per effettuare a Carlo un Accertamento sanitario obbligatorio.

Sappiamo per certo che Carlo non voleva andare in Rsa: da un registrazione di quel giorno lo si sente, disperato, gridare a ripetizione la propria volontà «io voglio la mia libertà che mi avete sottratto»; da testimoni interni all'Rsa sappiamo che, appena ricoverato, per protesta ha iniziato uno sciopero della fame.

La direzione dell'Rsa, insieme all'amministratrice Barra, ha mentito sulla durata del ricovero, sostenendo che sarebbe stato temporaneo, mentre da subito si prevedeva un ricovero a fine vita; tanto che la cartella clinica di Carlo viene modificata per ben due volte nell'arco di 40 giorni: da «Tso in Spdc deciso da amministratrice» a «ricovero sociale breve in Spdc», fino a «ricovero in Spdc» al fine di agevolare l'esecuzione di screening per Sars-CoV-2».

L'amministratrice Barra sostiene di aver attuato queste misure per proteggere Carlo da persone che volevano approfittare dei suoi soldi e della sua generosità. Da anni Carlo è un vero e proprio benefattore della comunità: ha reso disponibili le sue case a chi non poteva pagarsi un affitto, ha donato beni immobili, ha regalato al Comune un parcheggio e un parco per i bambini.

Tutto questo fino a tre anni fa, perché da quando è sotto amministrazione, Carlo non ha più accesso ai suoi soldi e ancora di più, non può nemmeno fare un semplice estratto conto per verificarne i movimenti. Per questa ragione, a settembre, ha denunciato la sua precedente amministratrice, l'avvocata Adriana Lanfranconi, perché a suo dire avrebbe fatto un bonifico di 40 mila euro a una persona a lui sconosciuta.

Il fascicolo della situazione patrimoniale di Carlo è a oggi ancora tenuto segreto. Nonostante le innumerevoli richieste, né il suo avvocato né l'avvocato dei familiari hanno potuto accedervi. Siamo riusciti a entrare in possesso di una parte della documentazione e quello che emerge sono grandi movimentazioni di denaro negli ultimi tre anni, e una serie di bonifici per acquisti di beni che non sono in possesso né in uso di Carlo e di cui lui non conosce nemmeno l'esistenza, compresa una bici elettrica da 1.290 euro che sta usando l'avvocata Adriana Lanfranconi.

In diverse e recenti lettere, Carlo denunciava il timore che qualcuno lo volesse chiudere in un ospizio per gestire liberamente i suoi soldi e manifestava anche la volontà di rendere pubblico il suo caso chiedendo aiuto alla stampa. A luglio, proprio per questi timori, si era sottoposto spontaneamente a una perizia psichiatrica che ne aveva certificato l'integrità mentale e psichica. Carlo è isolato da 50 giorni, strappato ai suoi animali, alla vita francescana che ha sempre condotto e alle persone che gli vogliono bene. Nemmeno a un interdetto o a un carcerato è vietato incontrare i familiari e il proprio avvocato.

Dopo i nostri servizi ci sono state diverse interrogazioni parlamentari ma nulla si muove. L'avvocato di Carlo, Silvia Agazzi, ha chiesto la revoca dell'amministratore e l'avvocato dei familiari, Mattia Alfano, ha fatto un esposto con tre ipotesi di reato: abuso d'ufficio, peculato, sequestro di persona. Al di là degli accertamenti giudiziari, quello che ci muove e ci preoccupa è la situazione in cui si trova Carlo, un uomo gentile che sta soffrendo a causa della propria generosità.

È triste pensare che nel nostro Paese sia possibile interdire una persona solo perché decide liberamente di condividere la propria ricchezza con i vicini di casa, i compaesani, altri esseri umani meno fortunati. Vorremmo che chi è in potere di farlo cambiasse il finale di questa storia. Per Carlo, e per tutti noi

(ANSA venerdì 7 luglio 2023) - La Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l'Italia ha violato i diritti di una persona anziana a cui le autorità hanno di fatto tolto ogni possibilità di veder presi in conto i suoi desideri e preferenze. 

La vicenda ha inizio nel 2017 quando la persona, di cui la Cedu non fornisce le generalità, è posta sotto tutela legale, senza essere dichiarata incapace, "per la sua eccessiva generosità verso terzi e un indebolimento fisico e mentale". 

Alla fine del 2020 il giudice tutelare e l'amministratore di sostegno decidono che la persona deve essere inviata in una residenza sanitaria assistenziale (Rsa), e poco dopo stabiliscono che i suoi contatti con l'esterno, compresa la famiglia, devono essere limitati, se non vietati, e monitorati. Nel frattempo il giudice ha dato potere all'amministratore di sostegno di prendere praticamente tutte le decisioni in merito alla vita della persona anziana.

Nella sentenza la Cedu evidenzia che nel presente caso le autorità hanno "eluso la legge che regola il trattamento sanitario obbligatorio attraverso un uso improprio dell'amministratore di sostegno". 

I togati di Strasburgo argomentano che nonostante "il collocamento nella Rsa era stato deciso in via provvisoria", e la persona anziana avesse più volte espresso la volontà di tornare a casa, non è stata presa alcuna misura affinché questo potesse avvenire. Inoltre la Cedu indica che il governo "non ha fornito alcuna spiegazione sul perché fosse necessario subordinare qualsiasi incontro all'autorizzazione dell'amministratore o del giudice tutelare e isolare la persona anziana dai suoi parenti".

La Cedu sottolinea "una mancanza di garanzie efficaci per prevenire gli abusi e garantire che i diritti, i desideri e le preferenze della persona anziana siano presi in considerazione". 

Il pronunciamento della Corte europea dei diritti dell'uomo riguarda Carlo Gilardi, un benefattore di Airuno (Lecco) che dal 27 ottobre 2020 si trova in una Rsa. La trasmissione "Le Iene" di Italia 1 ha dedicato a questa vicenda, ed altre simili, servizi e approfondimenti fin dal primo momento. Nella sua ultima dichiarazione televisiva l'uomo si diceva: "stufo di star chiuso". L'avvocato Mattia Alfano, che rappresenta alcuni familiari, aveva presentato un ricorso per conto del cugino di Gilardi. (ANSA).

Italia condannata per il caso Carlo Gilardi, l’anziano ‘protetto’ contro la sua volontà. Stefano Baudino su L'Indipendente il 10 luglio 2023.

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 8, inerente il diritto al rispetto della vita privata, sul caso di Carlo Gilardi, l’ex professore 92enne che si trova rinchiuso nella Rsa Airoldi e Muzzi di Lecco dall’ottobre del 2020. L’anziano era stato ristretto nel centro per anziani contro la sua volontà, nonostante fosse capace di decidere per se stesso. Il 20 settembre 2021 il cugino di Carlo, Augusto Calvi, aveva presentato ricorso alla Cedu. Che oggi gli ha dato ragione.

Carlo Gilardi è nato ad Airuno, in provincia di Lecco, nel 1910. Conosciuto per la sua grande cultura e generosità – che lo ha portato anche ad elargire donazioni di grande rilievo a persone ed enti -, ha sempre vissuto volontariamente in povertà, anche dopo aver ottenuto, nel 2017, un’ingente eredità in seguito alla morte di una delle sue sorelle. Il 27 ottobre 2020, l’anziano era stato prelevato dalla sua amata abitazione di Airuno e portato nel reparto psichiatrico di un centro ospedaliero, per poi essere ristretto in un ospizio. La sua amministratrice di sostegno, Elena Barra, ha sostenuto di aver attuato queste misure con l’obiettivo di proteggere Carlo da persone che volevano approfittare dei suoi soldi e della sua generosità, affermando di aver agito nell’ambito di un provvedimento del giudice tutelare e aggiungendo che l’anziano non è stato sottoposto a «nessun Tso (trattamento sanitario obbligatorio)».

Entrato nella Rsa senza che i parenti e l’avvocato ne fossero al corrente, Carlo ha iniziato uno sciopero della fame, protestando veementemente contro un atto che giudicava arbitrario. «Io voglio la mia libertà che mi avete sottratto» lo si sente gridare a ripetizione in una registrazione effettuata all’interno dell’ospizio. Tale situazione avrebbe dovuto essere solo temporanea, ma si è trasformata per l’anziano in una sorta di “ergastolo bianco”. A distanza di tre anni, Gilardi si trova ancora in isolamento sociale all’interno dell’Rsa: da quando vi ha fatto ingresso, non ha più potuto mettere piede a casa propria e solo un paio di volte gli è stato permesso di tornare in paese. In alcune lettere, scritte poco prima di essere portato nella struttura, Carlo aveva denunciato la paura che qualcuno lo volesse chiudere in un ospizio al fine di gestire liberamente le sue risorse economiche, esprimendo anche la volontà di rendere pubblici i dettagli del suo caso. Gilardi aveva anche denunciato l’ex amministratrice di sostegno, Adriana Lanfranconi, che secondo l’uomo aveva bonificato 40mila euro dal suo conto corrente a una persona a lui sconosciuta.

Nella sentenza, la Cedu rileva che Carlo Gilardi “si è trovato posto sotto la completa dipendenza del suo amministratore in quasi tutti gli ambiti e senza limiti di durata” e che “le autorità hanno, in pratica, abusato dell’elasticità dell’amministrazione di sostegno per perseguire le finalità che la legge italiana assegna, con dei rigorosi limiti, al Tso, la cui disciplina legislativa è stata dunque elusa mediante un ricorso abusivo all’amministrazione di sostegno”. I giudici evidenziano come “negli ultimi tre anni non sembra essere stata prevista alcuna misura finalizzata al rientro dell’interessato presso la propria abitazione, sebbene l’affidamento fosse stato deciso in via provvisoria” e nonostante Gilardi “non sia stato dichiarato incapace” e “non sia stato oggetto di alcun divieto, avendo le perizie indicato, al contrario, una buona capacità di socializzazione”.

I giudici di Strasburgo hanno inoltre sottolineato che “un rigoroso regime di isolamento è stato deciso dall’amministratore di sostegno anche se Gilardi chiedeva di poter tornare a casa” e che l’uomo “è stato così privato, salvo poche eccezioni, di ogni contatto con l’esterno e ogni richiesta di colloquio telefonico o di visita dava luogo a filtraggio da parte dell’amministratore di sostegno o del giudice tutelare”. Secondo la Corte, tale filtraggio “è stato posto in essere non appena egli è arrivato in stabilimento” e, successivamente, “il giudice tutelare si è basato esclusivamente sulle segnalazioni presentate dall’amministratore di sostegno, non ritenendo di dover sentire Carlo Gilardo, e ha rifiutato le richieste di contatto presentate dal sig. Calvi, unendosi al parere negativo dell’amministratore”. La Corte ha concluso che, “se l’ingerenza perseguiva l’obiettivo legittimo di proteggere il benessere in senso lato” di Gilardi, essa “non era tuttavia, rispetto alla gamma di misure che le autorità potevano adottare, né proporzionata né adatta alla sua situazione individuale”. [di Stefano Baudino]

Da iene.mediaset.it venerdì 7 luglio 2023.

La vicenda di Carlo Gilardi, a cui “Le Iene” hanno dedicato approfondimenti e servizi negli ultimi anni, è arrivata a ricevere una sentenza dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo che ha stabilito una violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti umani per aver disposto il ricovero presso una residenza sanitaria assistenziale. 

E mentre la Corte Europea dei diritti dell’uomo stabilisce una violazione, “Le Iene”, per la stessa vicenda, stanno subendo un processo per diffamazione in Italia. La trasmissione aveva inoltre chiesto di spostare il processo da Lecco per incompatibilità ambientale, richiesta che è stata negata dalla Cassazione.

Carlo Gilardi, il ricco benefattore di Airuno (cittadina della provincia di Lecco, ndr.) si trova infatti dal 27 ottobre 2020 in una RSA, contro la sua volontà. Il programma di Italia 1, che in questi anni ha fatto conoscere oltre quella di Carlo, diverse storie di persone che hanno subìto stravolgimenti della loro vita e a cui le istituzioni avrebbero tolto la libertà di scegliere come, dove, con chi vivere e persino dove morire, aveva raccolto anche uno sfogo di Carlo in cui diceva: “Io sono stufo di star chiuso qui”. 

L’avvocato Mattia Alfano, in qualità di rappresentante di alcuni familiari di Carlo, aveva presentato un ricorso proprio alla Corte Europea per conto del cugino. Nelle pagine della sentenza di oggi si legge che la causa presentata riguarda “la collocazione sotto tutela legale di una persona anziana e il suo collocamento in una casa di riposo ospedaliera in isolamento sociale dal mondo esterno durante tre anni”.

“La Corte giudica in particolare che Carlo Gilardi si è trovato posto sotto la completa dipendenza del suo amministratore in quasi tutti gli ambiti e senza limiti di durata. Rileva, inoltre, con preoccupazione, che le autorità hanno, in pratica, abusato dell’elasticità dell’amministrazione di sostegno per perseguire le finalità che la legge italiana assegna, con dei rigorosi limiti, al TSO (trattamento sanitario obbligatorio), la cui disciplina legislativa è stata dunque elusa mediante un ricorso abusivo all’amministrazione di sostegno”.

La Corte nota, inoltre, che “un rigoroso regime di isolamento è stato deciso dall’amministratore di sostegno anche se Gilardi chiedeva di poter tornare a casa. Egli è stato così privato, salvo poche eccezioni, di ogni contatto con l’esterno e ogni richiesta di colloquio telefonico o di visita dava luogo a filtraggio da parte dell'amministratore di sostegno o del giudice tutelare”. La Corte ha concluso che, nel caso di specie, “se l’ingerenza perseguiva l’obiettivo legittimo di proteggere il benessere in senso lato” del signor Gilardi, tale ingerenza “non era tuttavia, rispetto alla gamma di misure che le autorità potevano adottare, né proporzionata né adatta alla sua situazione individuale”. 

La sentenza della Corte dichiara anche che: “qualsiasi misura di protezione adottata nei confronti di una persona in grado di esprimere la propria volontà deve, per quanto possibile, riflettere i suoi desideri”.

“Tenuto conto dell’impatto che la collocazione” di Gilardi - si legge - “sotto tutela giudiziaria ha avuto sulla sua vita privata, la Corte osserva che, sebbene le autorità giudiziarie si siano dedicate ad un’approfondita valutazione della situazione dell’interessato prima di procedere al suo collocamento in una casa di cura, esse non hanno cercato durante esso, in considerazione della particolare vulnerabilità che sentivano di aver individuato, di adottare misure per mantenere le sue relazioni sociali e di mettere in atto un percorso specifico per favorire il suo ritorno a casa.

Al contrario, a seguito del suo collocamento in casa di cura” a Gilardi “si è visto imporre un isolamento dal mondo esterno, e in particolare dalla sua famiglia e dai suoi amici”. “Tutte le visite e le telefonate erano filtrate dal suo amministratore o dal giudice tutelare, ed una delle poche persone autorizzate a vederlo in questi tre anni era il sindaco del comune dove risiedeva. La Corte osserva, infine, che tale filtraggio è stato posto in essere non appena Carlo Gilardi è arrivato nella struttura, cioè prima della messa in onda sui canali nazionali del programma Le Iene”.

Anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, attraverso una nota ufficiale, esprime il proprio rammarico: “Perché le nostre indicazioni, più volte espresse e oggi richiamate dalla stessa Corte europea, non abbiano indotto le Autorità responsabili a evitare questa censura nei confronti del Paese. Esprime tuttavia anche la soddisfazione per i principi che tale pronuncia afferma e per la loro possibile futura applicazione in ulteriori casi che, in analogia con quanto avvenuto a Lecco, possano ripetersi in altre situazioni.

Il Garante nazionale ricorda di aver cercato a più riprese, come documentato dalla Corte Edu nella pronuncia odierna, di interloquire con le Autorità responsabili affinché le misure adottate venissero gradualmente ridotte e consentissero l’affermazione di quel margine di autodeterminazione che non può mai essere sottratto a qualsiasi persona.”.

Lettera di Davide Parenti, Autore de «Le Iene», pubblicata dal “Corriere della Sera” venerdì 7 luglio 2023.

Il 27 ottobre il professore Carlo Gilardi un uomo di 90 anni colto, mite - molto ricco - e nel pieno delle facoltà mentali è stato prelevato dalla sua casa di Airuno, portato nel reparto psichiatrico di un ospedale e poi in un ospizio: contro la sua volontà. Da quel momento, di lui si sono perse le tracce. Nessuno sapeva dove fosse, neanche il suo avvocato e i familiari, e nessuno a oggi ha potuto incontrarlo e fargli visita. 

Elena Barra, l'amministratrice di sostegno che ne ha disposto il ricovero, ha sempre detto che Carlo l'ha seguita volontariamente e che quel 27 ottobre la presenza dell'ambulanza e dei carabinieri era stata richiesta al solo fine di «garantire la sua incolumità». Sappiamo invece che Barra aveva in mano un ordine del giudice con tanto di autorizzazione all'uso della Forza pubblica per effettuare a Carlo un Accertamento sanitario obbligatorio.

Sappiamo per certo che Carlo non voleva andare in Rsa: da una registrazione di quel giorno lo si sente, disperato, gridare a ripetizione la propria volontà «io voglio la mia libertà che mi avete sottratto»; da testimoni interni all'Rsa sappiamo che, appena ricoverato, per protesta ha iniziato uno sciopero della fame.

La direzione dell'Rsa, insieme all'amministratrice Barra, ha mentito sulla durata del ricovero, sostenendo che sarebbe stato temporaneo, mentre da subito si prevedeva un ricovero a fine vita; tanto che la cartella clinica di Carlo viene modificata per ben due volte nell'arco di 40 giorni: da «Tso in Spdc deciso da amministratrice» a «ricovero sociale breve in Spdc», fino a «ricovero in Spdc» al fine di agevolare l'esecuzione di screening per Sars-CoV-2».

L'amministratrice Barra sostiene di aver attuato queste misure per proteggere Carlo da persone che volevano approfittare dei suoi soldi e della sua generosità. Da anni Carlo è un vero e proprio benefattore della comunità: ha reso disponibili le sue case a chi non poteva pagarsi un affitto, ha donato beni immobili, ha regalato al Comune un parcheggio e un parco per i bambini.

Tutto questo fino a tre anni fa, perché da quando è sotto amministrazione, Carlo non ha più accesso ai suoi soldi e ancora di più, non può nemmeno fare un semplice estratto conto per verificarne i movimenti. Per questa ragione, a settembre, ha denunciato la sua precedente amministratrice, l'avvocata Adriana Lanfranconi, perché a suo dire avrebbe fatto un bonifico di 40 mila euro a una persona a lui sconosciuta.

Il fascicolo della situazione patrimoniale di Carlo è a oggi ancora tenuto segreto. Nonostante le innumerevoli richieste, né il suo avvocato né l'avvocato dei familiari hanno potuto accedervi. Siamo riusciti a entrare in possesso di una parte della documentazione e quello che emerge sono grandi movimentazioni di denaro negli ultimi tre anni, e una serie di bonifici per acquisti di beni che non sono in possesso né in uso di Carlo e di cui lui non conosce nemmeno l'esistenza, compresa una bici elettrica da 1.290 euro che sta usando l'avvocata Adriana Lanfranconi.

In diverse e recenti lettere, Carlo denunciava il timore che qualcuno lo volesse chiudere in un ospizio per gestire liberamente i suoi soldi e manifestava anche la volontà di rendere pubblico il suo caso chiedendo aiuto alla stampa. A luglio, proprio per questi timori, si era sottoposto spontaneamente a una perizia psichiatrica che ne aveva certificato l'integrità mentale e psichica. Carlo è isolato da 50 giorni, strappato ai suoi animali, alla vita francescana che ha sempre condotto e alle persone che gli vogliono bene. Nemmeno a un interdetto o a un carcerato è vietato incontrare i familiari e il proprio avvocato.

Dopo i nostri servizi ci sono state diverse interrogazioni parlamentari ma nulla si muove. L'avvocato di Carlo, Silvia Agazzi, ha chiesto la revoca dell'amministratore e l'avvocato dei familiari, Mattia Alfano, ha fatto un esposto con tre ipotesi di reato: abuso d'ufficio, peculato, sequestro di persona. Al di là degli accertamenti giudiziari, quello che ci muove e ci preoccupa è la situazione in cui si trova Carlo, un uomo gentile che sta soffrendo a causa della propria generosità.

È triste pensare che nel nostro Paese sia possibile interdire una persona solo perché decide liberamente di condividere la propria ricchezza con i vicini di casa, i compaesani, altri esseri umani meno fortunati. Vorremmo che chi è in potere di farlo cambiasse il finale di questa storia. Per Carlo, e per tutti noi

Il caso di Carlo Girardi: con la scusa di proteggerlo, rinchiuso contro la sua volontà. Francesca Naima su L'Indipendente il 18 Dicembre 2022

Un uomo costretto a spendere i suoi risparmi per vivere in un luogo in cui non vuole stare ma nel quale è stato deciso lui debba trascorrere il resto dei suoi giorni. È in estrema sintesi la storia di Carlo Girardi, ex professore di Aiuruno (provincia di Lecco), che dal 24 ottobre 2020 si trova in una Residenza sanitaria assistenziale (Rsa) contro il suo volere nonostante sia capace di decidere per se stesso, come testimonia chiunque lo conosca. Eppure sembra che Girardi sia finito nella Rsa Airoldi e Muzzi di Lecco proprio dopo la richiesta di un Accertamento Sanitario Obbligatorio (ASO) a cui sarebbe seguita una pronta richiesta mossa dall’amministratore di sostegno dell’ex professore. Quella, appunto, di assicurarsi egli iniziasse a vivere in una Rsa. Un caso che fin dal primo momento appare tutt’altro che limpido, motivo per cui ha generato immediato scalpore e che comunque, nel giro di due anni, è rimasto invariato. La storia di Carlo Girardi è stata presa a cuore non solo da conoscenti e familiari, ma anche da tanti cittadini e dagli ex alunni, che si sono impegnati per liberarlo, come durante la manifestazione dello scorso 12 dicembre presenziata anche da alcuni membri del CCDU (Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani). L’ex docente rimane però segregato in un luogo in cui consapevolmente e nel pieno delle sue facoltà non vuole stare, con la beffa che per farlo deve pagare la profumata cifra di 3.500 euro all’anno e subendo un isolamento forzato perché parlare al telefono con Carlo Girardi o andarlo a trovare viene spesso reso impossibile dalla struttura, anche agli stessi familiari.

La vicenda si dispiega con molti spigoli bui. Su alcuni è stata fatta luce, su altri invece rimangono svariati punti di domanda specialmente anche perché il signor Girardi ha una disponibilità economica non indifferente e questo, fa gola. Non è mai stato escluso che chi tanto desiderasse vedere l’ormai 90enne chiuso nella Rsa volesse mettere mano al patrimonio dell’ex docente, il quale si è sempre mostrato disinteressato all’avere tanto da essere il primo a utilizzare le sue risorse per aiutare chi sapeva ne avesse bisogno, come raccontano persone a lui vicine. Stesse voci quelle di parenti, amici, ex colleghi, alunni, che parlano di un uomo tutt’altro che incapace di avere cura di sé stesso, tantomeno facilmente corrompibile dai malintenzionati (altra giustificazione utilizzata per mantenerlo nella Rsa). Quel che appare certo è che si sia arrivati a stabilire cosa sia il meglio per Carlo Girardi senza ascoltare la sua opinione.

Dal primo momento l’ingiustizia subita da Carlo Girardi è stata denunciata dallo stesso ex docente e poi da familiari, amici e conoscenti. La storia ha avuto molta risonanza anche grazie ai servizi de Le Iene andati in onda sia nel 2020 che l’anno successivo e il mese scorso durante una puntata del programma televisivo è stato trasmesso l’ultimo servizio sul “caso Girardi”, in cui sembrerebbe che il ricovero forzato vissuto dall’uomo sia conseguenza di un’astuta mossa degli amministratori di sostegno dell’ex professore, coscienti degli averi dell’ultimo e dunque vogliosi di attingervi. Eppure l’amministratore di sostegno dovrebbe garantire aiuto e tutela per alcuni soggetti in difficoltà, i quali possono richiedere assistenza direttamente o per cui viene fatta domanda da terzi, con le dovute verifiche e accertamenti, almeno in teoria.

E il fatto che un individuo abbia bisogno di aiuto non vuol dire egli non possa vivere provvedendo a se stesso e decidendo come condurre la propria vita. Essere seguito da un amministratore di sostegno significa essere affiancato da una persona competente perché si possono avere  impedimento fisici, o infermità mentali, fisiche, ma anche trovarsi nella morsa di certe dipendenze. Un aiuto concreto lontano anni luce dal severo giudizio che non si possa condurre la propria vita in maniera indipendente e dunque l’unica soluzione sia l’essere rinchiusi in una casa di riposo. Un servizio nato per tutelare, cui messa in pratica rischia però di cambiare radicalmente il fine mentre ci si dimena in un sistema burocratico pieno di insidie e che è capace di calpestare diritti fondamentali, proprio com’è stato per Carlo Girardi. Francesca Naima

Carlo Gilardi, chi è l’uomo facoltoso rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà? Giorgia Bonamoneta il 13 Novembre 2022 su money.it.

La vicenda di Carlo Gilardi è divenuta nota a tutti dopo l’inchiesta de Le Iene. Chi è l’uomo troppo generoso che è stato rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà?

Nel 2020 il programma Le Iene presentavano il dramma di Carlo Gilardi, un uomo rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà. Gilardi era stato inserito all’interno della struttura in seguito alla decisione di un giudice e della sua amministratrice di sostegno. Davide Parenti, autore de Le Iene, ne descrisse la storia attraverso un articolo denuncia su Corriere della Sera.

Carlo Gilardi è un uomo di oltre 90 anni, piuttosto facoltoso, che nel pieno delle sue capacità mentali - non è mai stato dimostrato il contrario - è sottoposto da due anni a un ricovero coatto nel reparto psichiatrico di una Rsa. Avvocati e familiari, al momento del prelievo, non erano al corrente del motivo e dell’operazione stessa. L’amministratrice di sostegno, Elena Barra, aveva affermato che Gilardi l’aveva seguita volontariamente, ma la presenza di carabinieri e un ordine del giudice che autorizzava l’uso della Forza pubblica (Carabinieri) per l’accertamento sanitario obbligatorio hanno subito acceso dubbi sulla vicenda.

Sempre secondo Barra il trattamento coatto era stato reso necessario perché Gilardi era “troppo generoso” nei confronti della comunità. L’uomo aveva infatti permesso a chi non aveva la possibilità di pagare un affitto di stare nella propria casa, aveva donato diversi beni immobili e aveva anche donato al Comune un parcheggio e un parco per i bambini. “Troppo generoso” o un tentativo di sfruttare il patrimonio dell’uomo? Questo dubbio proveniva direttamente dalle lettere scritte da Carlo. 

Anziano generoso o sfruttato? Ecco chi è Carlo Gilardi

Carlo Gilardi ha una pensione da insegnante, eppure tutta la vicenda che lo circonda sembra essere incentrata su un ricco patrimonio. Infatti Gilardi nel 2017 ha ricevuto una grossa eredità da parte della defunta sorella e questo, in seguito a una serie di notevoli atti di generosità dell’uomo, potrebbe aver attirato l’attenzione di terze persone interessate a mettere mani sul patrimonio.

Una sorella di Gilardi ha così chiesto che l’uomo fosse affiancato da un amministratore di sostegno per gestire il patrimonio ed evitare spese che, al di là della generosità, potevano apparire come frutto di manipolazione. L’uomo non ha mai dato segni di demenza e non ci sono prove nella sua cartella clinica che abbia bisogno di un effettivo controllo, tanto che lui stesso denunciò la precedente amministratrice di sostegno in più occasioni per avergli sottratto dei soldi.

Sottoposto a una perizia psichiatrica da lui richiesta, Gilardi è risultato “con un pensiero privo di alterazioni”, ma nonostante questo è stato trasportato contro sua volontà in una Rsa. Il 21 novembre 2022 si svolgerà il processo a cinque persone accusate di aver raggirato Carlo Gilardi per farsi dare soldi o case, tutte straniere, mentre è ancora silenzio sulle vicende portate alla luce da Le Iene.

Due anni dopo: cosa è successo a Carlo Gilardi?

La storia di Carlo Gilardi ha raggiunto moltissime orecchie, persino quelle di Giorgia Meloni che in Parlamento aveva chiesto spiegazioni sui motivi per i quali si poteva limitare la libertà di un uomo senza una giustificazione valida. A distanza di due anni un amico di infanzia di Girardi è riuscito a entrare di nascosto nella Rsa e a incontrarlo.

L’uomo presenta ancora le capacità cognitive riscontrate dall’ultimo accertamento volontario fatto e in un video registrato dall’amico, prima che è una suora interrompesse lo stesso, Gilardi teme che la decisione di bloccarlo all’interno di una Rsa in maniera definitiva provenga dalla sorella ancora in vita. L’interessamento di terzi, quali giudice e le due ultime amministratrici di sostegno (amiche), è quindi dovuto al patrimonio, dice Gilardi.

Carlo Gilardi in Rsa contro sua volontà? Le Iene “Inside”: l’odissea del benefattore. Silvana Palazzo su Il Sussidiario.it il 13.11.2022 

Carlo Gilardi, rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà? Le Iene ritornano sull’odissea del benefattore di Airuno con lo speciale “Inside” e preannunciano novità sul caso…

È dedicato a Carlo Gilardi e all’amministrazione di sostegno la terza puntata di “Inside“, speciale de Le Iene. Nina Palmieri e Carlotta Bizzarri preannunciano novità sulla vicenda dell’anziano e ricco benefattore di Airuno, che dal 24 ottobre 2020 si trova in nella Rsa “Airoldi e Muzzi” di Germanedo apparentemente contro la sua volontà. Si tratta di una vicenda a dir poco delicata, perché l’ex badante di Gilardi, Brahim El Mazoury, e le due giornaliste del programma sono finite a processo per diffamazione aggravata nei confronti dell’avvocato Elena Barra, amministratore di sostegno del facoltoso insegnante.

L’accusa riguarda le puntate andate in onda il 17 novembre 2020 e il 16 febbraio 2021, quelle che hanno raccontato l’odissea di Carlo Gilardi e alcuni punti oscuri della vicenda, a partire dal ricovero forzato in casa di riposo che, stando alla teoria illustrata dal programma, sarebbe stato deciso dalle amministratrici di sostegno dell’ex docente del Parini di Lecco per mettere mani al suo ingente patrimonio. Nel frattempo, il comitato “Libertà per Carlo Gilardi” continua a farsi sentire: “I giudici si diano una mossa a riportare a casa Carlo Gilardi e ad attuare i dovuti percorsi a sua tutela, come indicato dal Garante“.

Carlo Gilardi, nato ad Airuno (Lecco), è noto per la sua cultura e per essere una persona molto generosa. Infatti, l’ex professore in passato ha fatto donazioni anche di un certo rilievo sia a enti che persone fisiche, ad esempio ha regalato un defibrillatore al suo paese e un parcheggio al comune per l’asilo nido. Con Le Iene è diventato un caso nazionale, perché veniva denunciato il ricovero in Rsa contro la sua volontà. La vicenda inizia quando Sandra Gilardi, sorella del professore in pensione, chiede l’intervento di un giudice, alla luce della facilità col cui fratello regalava i suoi soldi. Dunque, nel 2017 il patrimonio dell’anziano è stato gestito da un giudice tutelare, poi da un amministratore di sostegno.

Nell’ottobre 2020 c’è stato il trasferimento in Rsa, a scoprire quale fosse è stato il programma Le Iene. Alcuni parenti hanno collaborato e, dopo aver minacciato di ricorrere all’avvocato, sono riusciti a parlare al telefono con Carlo Gilardi. “Sto benissimo! Spero un giorno o l’altro di poter essere cacciato via ma non mi cacciano via. Sono stato prelevato, messo in ospedale, poi in ospizio e cosa vuoi farci. Come siano andate le cose non lo so esattamente… solo che la colpa prima è di mia sorella Sandra che mi ha messo nelle mani degli avvocati. È lei la colpevole di tutto, gli altri fanno solo il loro dovere“, le parole raccolte dal programma. La tutrice di Carlo Gilardi, l’avvocato Elena Barra, e il direttore della Rsa hanno sempre negato il Tso, parlando di ricovero temporaneo, invece fonti interne citate da Le Iene sostengono il contrario.

Le Iene presentano Inside, stasera alle 20.30. Carlo e gli altri: quando la tutela diventa la ragnatela

Terzo appuntamento stasera in prime-time su Italia1 con “Le Iene presentano Inside”. Con Nina Palmieri vi parliamo dell’istituto dell’amministrazione di sostegno e del caso di Carlo Gilardi, il ricco e anziano benefattore di Airuno che da più di due anni si trova in una rsa apparentemente contro la sua volontà

Torna, stasera in prime-time su Italia1, “Le Iene presentano Inside”. Il terzo appuntamento dal titolo “Carlo e gli altri: quando la tutela diventa ragnatela” è un approfondimento, in onda dalle 20.30, dedicato all’amministrazione di sostegno, la figura istituita per coloro che si trovano nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi.

Il sistema è nato circa vent’anni fa con il buon intento di tutelare persone fragili, anziane o non del tutto autosufficienti, aiutarle nella gestione del loro patrimonio e nella cura dei loro bisogni quotidiani rispettandone sempre gli interessi. In molti casi sostiene chi ha bisogno ma, in altri, mostra delle falle che porterebbero alla trasformazione della tutela in ragnatela.

In questa puntata Nina Palmieri e Carlotta Bizzarri pongono l’attenzione su quelle situazioni in cui sono apparse contraddizioni e punti poco chiari. Partendo dalle novità che riguardano l’ormai nota vicenda di Carlo Gilardi, l’anziano e ricco benefattore di Airuno che da più di due anni si trova in una rsa apparentemente contro la sua volontà, si racconteranno le storie di coloro che ai microfoni de Le Iene hanno testimoniato i loro disagi.

La trasmissione in questi anni ha fatto conoscere diverse storie di persone che hanno subìto stravolgimenti della loro vita e a cui le istituzioni avrebbero tolto la libertà di scegliere come, dove, con chi vivere e persino dove morire. Nel corso della serata tanti gli spunti di riflessione e le domande a cui provare a rispondere, una tra tutte: un Paese civile può o meno permettere che un uomo perda la possibilità di decidere per se stesso e per la sua felicità?

Che fine ha fatto Carlo Gilardi: l’uomo generoso rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà. GIUSEPPA GIORDANO il 14 novembre 2022 su tag24.it.

Che fine ha fatto Carlo Gilardi. Carlo Gilardi è un ex professore in pensione, un signore piuttosto facoltoso, che nel pieno delle sue capacità mentali - non è mai stato dimostrato il contrario - è sottoposto da due anni a un ricovero coatto nel reparto psichiatrico di una Rsa.

Che fine ha fatto Carlo Gilardi. Carlo Gilardi è un ex professore in pensione, nato ad Ariuno, in provincia di Lecco, il 4 dicembre 1910 ed è un signore piuttosto facoltoso, che nel pieno delle sue capacità mentali – non è mai stato dimostrato il contrario – è sottoposto da due anni a un ricovero coatto nel reparto psichiatrico di una Rsa. Avvocati e familiari, al momento del prelievo, non erano al corrente del motivo e dell’operazione stessa. L’amministratrice di sostegno, Elena Barra, aveva affermato che Gilardi l’aveva seguita volontariamente, ma la presenza di carabinieri e un ordine del giudice che autorizzava l’uso della Forza pubblica (Carabinieri) per l’accertamento sanitario obbligatorio hanno subito acceso dubbi sulla vicenda.

Che fine ha fatto Carlo Gilardi: chi è, il patrimonio e la generosità

Carlo Gilardi ha una pensione da insegnante, eppure tutta la vicenda che lo circonda sembra essere incentrata su un ricco patrimonio. Infatti Gilardi nel 2017 ha ricevuto una grossa eredità da parte della defunta sorella e questo, in seguito a una serie di notevoli atti di generosità dell’uomo, potrebbe aver attirato l’attenzione di terze persone interessate a mettere mani sul patrimonio.

Una sorella di Gilardi ha così chiesto che l’uomo fosse affiancato da un amministratore di sostegno per gestire il patrimonio ed evitare spese che, al di là della generosità, potevano apparire come frutto di manipolazione. L’uomo non ha mai dato segni di demenza e non ci sono prove nella sua cartella clinica che abbia bisogno di un effettivo controllo, tanto che lui stesso denunciò la precedente amministratrice di sostegno in più occasioni per avergli sottratto dei soldi.

Sottoposto a una perizia psichiatrica da lui richiesta, Gilardi è risultato “con un pensiero privo di alterazioni”, ma nonostante questo è stato trasportato contro sua volontà in una Rsa.

Gilardi era stato inserito all’interno della struttura in seguito alla decisione di un giudice e della sua amministratrice di sostegno, Elena Barra. Sempre secondo Barra il trattamento coatto era stato reso necessario perché Gilardi era “troppo generoso” nei confronti della comunità. L’uomo aveva infatti permesso a chi non aveva la possibilità di pagare un affitto di stare nella propria casa, aveva donato diversi beni immobili e aveva anche donato al Comune un parcheggio e un parco per i bambini. “Troppo generoso” o un tentativo di sfruttare il patrimonio dell’uomo? Questo dubbio proveniva direttamente dalle lettere scritte da Carlo.

Il processo il 21 novembre

Il 21 novembre 2022 si svolgerà il processo a cinque persone accusate di aver raggirato Carlo Gilardi per farsi dare soldi o case, tutte straniere. Alla sbarra: Abdelmalak Rougui, 40 anni, marocchino, si sarebbe fatto prestare denaro, mai restituito; Hichem Horroun, 45, algerino, sarebbe stato beneficiario di ingenti somme; Khalifa Mejbri, 40 anni, tunisino, si sarebbe prestare 100mila euro per beneficenza e per l’acquisto di un’auto; Nedal Abushunar, 49, Israele, in carcere di Bollate per altra causa, avrebbe beneficiato in comodato d’uso di un immobile e Abdellatif Ben Mustapha Hamrouni, 53 anni, tunisino, avrebbe ottenuto soldi.

Il caso Gilardi in Parlamento

I parenti di Carlo, un gruppo di cugini, si sono rivolti all’avvocato Mattia Alfano e hanno fatto ricorso alla Corte per i diritti dell’uomo, ricorso che è stato accolto.

La storia di Carlo ha innescato un moto di solidarietà. La sua situazione è arrivata fino in Parlamento e la premier Giorgia Meloni, che quando era deputata aveva presentato un’interrogazione parlamentare, ha chiesto alle Iene di farle avere tutto il materiale raccolto sul caso Gilardi per sottoporlo al ministero della Giustizia.

Nessuno può sostituirsi ad un altro nella presa di decisioni che riguardano la vita di quell’altro” ha ribadito l’avvocato Michele Capano, presidente dell’associazione diritti alla follia e a stabile questo concetto è l’Onu.

L’Assoluzione in Appello.

"Parlateci di Bibbiano".

La Condanna in Primo Grado.

Le Storie.

La Storia di Anna.

Affidi a Torino, fratellini tolti ai genitori.

L’Assoluzione in Appello.

Bibbiano ed i bambini rapiti dallo Stato: primo grado condanna per Foti; secondo grado assoluzione per Foti. Come può cambiare l’approccio psicologico dei media e della società rispetto all’evoluzione dei fatti modificati dall’opinione di un giudice diverso dal precedente. Chi ha ragione: il primo o il secondo? E che dire della strumentalizzazione politica prima e dopo le sentenze? E la disinformazione dei Media prezzolati e/o partigiani? C’è chi guarda il Dito, ma la Luna indicata (i bambini rapiti dallo Stato) dovrebbe essere la pietra dello scandalo.

PROCESSO “ANGELI E DEMONI”. «Le accuse a Foti? Generiche e prive di basi scientifiche». Bibbiano, i giudici che hanno assolto lo psicoterapeuta: dal “grande imputato” nessun danno alla paziente. Ecco le motivazioni della Corte d’appello. Simona Musco su Il Dubbio il 6 settembre 2023

Altro che “lupo di Bibbiano”: la consulenza che ha attribuito a Claudio Foti la responsabilità di aver provocato un disturbo borderline nella sua giovane paziente è generica e priva di basi scientifiche. Di più: il gup che ha condannato in primo grado lo psicoterapeuta ha recepito «incondizionatamente le conclusioni rassegnate dal consulente del pm», che si è limitato «a una disamina degli elementi raccolti nella fase investigativa e all’effettuazione di un incontro» con la paziente e sua sorella quando le stesse erano già state ascoltate dai carabinieri senza ancorarsi aduno straccio di prova.

A scriverlo è il giudice Andrea Sacchetti, componente del collegio (presieduto da Sonia Pasini) che lo scorso 6 giugno ha assolto Foti, lo psicoterapeuta finito alla gogna nel processo “Angeli e Demoni”. Secondo le motivazioni della sentenza, il professionista non ha provocato alcun disturbo nella sua paziente all’epoca 17enne, finita da lui per gli abusi subiti durante l’infanzia e l’adolescenza, né ha concorso nell’abuso d’ufficio contestato per l’affidamento del servizio di psicoterapia e, infine, come già stabilito in primo grado, non ha tentato di frodare l’autorità giudiziaria.

Per la quarta sezione della Corte d’Appello di Bologna, invece, è la diagnosi con la quale Foti era stato accusato di lesioni a essersi risolta «in una valutazione priva di riferimenti agli strumenti di indagine prescritti dal “Dsm 5” (la “bibbia” degli psicoterapeuti, ndr) e dalla letteratura scientifica, venendo riferita in maniera essenzialmente apodittica, stante la radicale assenza di una qualsivoglia menzione, anche solo attraverso frasi di stile, del paradigma e dei criteri seguiti». Insomma, una pura e semplice convinzione fondata sul nulla, nonostante la diagnosi di una malattia necessariamente debba basarsi su «elementi verificabili, conoscibili e, per ciò stesso, accompagnati dall’indicazione delle fonti che ne consentano il controllo». Un errore in cui non è incorsa solo la consulente, ma anche il giudice: «La radicale carenza dei necessari passaggi di verifica e riscontro qualifica la sentenza in termini di mera intuizione dell’organo giudicante - si legge ancora -, in pieno spregio dei più recenti arresti giurisprudenziali in precedenza ampiamente citati».

Un atto d’accusa pesante: la condanna è stata infatti pronunciata in «totale assenza di riferimenti a leggi di copertura e ai sottostanti studi» e del grado «di consenso da parte della comunità scientifica che dovrebbe caratterizzare il dato scientifico». Consenso invece raccolto da Foti, che si è visto sostenere da oltre 300 professionisti a difesa della sua psicoterapia. D’altronde, evidenzia la sentenza, sarebbe bastato consultare la letteratura scientifica in materia per scoprire che il “Disturbo borderline di personalità” si forma nei primi anni di vita e si manifesta nell’adolescenza e nell’età adulta. Fonti scientifiche depositate, invece, dall’avvocato Luca Bauccio e che riconducono «l’eziopatogenesi a fattori legati all’età infantile, con riferimento ad ambienti familiari invalidanti, abusi sessuali o ipotesi di violenza assistita».

Nel caso della giovane in cura presso Foti, tali fattori c’erano tutti ben prima della terapia, evidenzia la sentenza, come confermato anche dalla madre della stessa paziente. E la consulenza di Rossi, si legge, non fornirebbe «elementi che consentono di affermare che la stessa abbia effettuato la propria diagnosi avvalendosi degli strumenti recepiti dalla comunità degli psicologi». Conclusioni che valgono anche per il “disturbo depressivo persistente con ansia”, anch’esso causato, secondo l’accusa, da Foti, rispetto al quale «la consulenza, così come la sentenza, non pone alcuna relazione — né si interroga minimamente al riguardo — tra il consumo di sostanze stupefacenti pesanti, quali l’acido lisergico, e la depressione, l’ansia, le manifestazioni di rabbia».

E per quanto riguarda la presunta frode processuale, esclusa logicamente anche dalla cronologia degli eventi, è «evidente che se l'imputato avesse orientato la propria attività terapeutica al fine di trarre in inganno l’Ag minorile non avrebbe documentato tramite registrazione le proprie sedute, consegnando quindi all'Autorità giudiziaria che procedeva nei suoi confronti i relativi files». Il suo fine era quello di accreditarsi come professionista, al più, ma non quello di danneggiare o truffare qualcuno. Così come manca la prova di un accordo collusivo in merito all’abuso di ufficio - che pure viene valorizzato dalla Corte -, reato che verrà meglio approfondito a Reggio Emilia, dove è in corso il processo ordinario. Nonostante le delibere e i documenti portati a processo dalla difesa, a dimostrazione dell’esistenza di un procedimento amministrativo sequenziato da più atti, per i giudici d’appello gli incarichi non erano legittimati da procedure formali.

Punto non condiviso dall’avvocato Bauccio: «La creazione del servizio - spiega al Dubbio - vanta di passaggi amministrativi formalizzati in una delibera del 6 maggio 2016, n.45, con la quale si è deciso di adeguare un immobile da usare per “progettare attività ed interventi di sostegno soprattutto psicologico”». Ma non solo: c’è «la determina dirigenziale che rimandava direttamente al progetto “La Cura”, che organizzava quel servizio», l'istituzione «di un bando che veniva vinto dall'associazione che si impegnava a fare svolgere il servizio di psicoterapia ad “Hansel & Gretel”», la sottoscrizione «dell'accordo multilaterale che espressamente richiamava il progetto “La Cura”» e infine «la delibera dell'Unione del 16 settembre 2016 n. 92, che ratificava la sottoscrizione dell'Accordo multilaterale. È chiaro - continua Bauccio - che tutto si può dire ma non che non esistesse una procedura. Un incarico siffatto non è per definizione “a voce”. Non può esserlo. Potrà avere profili di illegittimità, tutti da dimostrare, ma non è e non sarà mai a voce».

In ogni caso, Foti non avrebbe assunto alcun comportamento diretto a determinare o ad istigare il pubblico ufficiale, non avrebbe preso alcun accordo e non avrebbe fatto alcuna pressione, limitandosi a eseguire le prestazioni che per i giudici gli erano state «illecitamente affidate». Insomma, non avrebbe fatto nulla, se non il proprio lavoro. «Col naufragio dell'accusa a Foti - conclude Bauccio - naufraga un processo che non aveva ragione di esistere e una persecuzione mediatica senza precedenti verso un innocente». Un innocente condannato «“in spregio” alle più elementari regole di diritto e di tecnica diagnostica. Speriamo che questa sentenza sia da monito alla facili semplificazioni e alle demonizzazioni senza scienza e spesso, mi riferisco a soggetti terzi rispetto ai magistrati, anche senza coscienza che hanno dominato questa vicenda».

Quella gogna “interessata” di Travaglio contro Foti. Non basta l’assoluzione: Il Fatto prosegue la campagna stampa contro lo psicoterapeuta "di Bibbiano”. Il Dubbio il 9 giugno 2023

A due giorni dall’assoluzione pronunciata dalla Corte d’appello di Bologna stupisce che si sia scatenato nuovamente il linciaggio ai danni di Claudio Foti. Questa è barbarie.

Sulle colonne de il Fatto Quotidiano da due giorni si leggono isterici vaticini sulla colpevolezza di Foti, sagaci giochi di parole degni di dispute minori (Chiagni e Foti, così Travaglio), sui social si vedono lugubri fotomontaggi con i quali Foti viene indicato come il responsabile del suicidio di quattro persone (così Pablo Trincia su Twitter) e si leggono anche disquisizioni pseudo giuridiche sull’assoluzione “per insufficienza di prove”, formula inesistente nel nostro codice, o su un fantomatico valore non pieno dell’assoluzione ai sensi dell'art. 530 c.p. c. 2 ben sapendo che Foti è stato assolto perché il fatto non sussiste (per il reato di lesione) e per non aver il commesso il fatto (per il reato di abuso d'ufficio).

Nessuna parola di pentimento e nessuna considerazione invece sul fatto che Foti è stato indagato e arrestato per frode processuale e, pur assolto in primo grado, la pubblica accusa ha impugnato la sua assoluzione e il suo appello è stato rigettato. Per questi maestri del garantismo verso i forti e del giustizialismo verso i deboli l’unica cosa che conta sembra essere incrinare l’assoluzione di Claudio Foti.

Le affermazioni che vogliono ribadire la colpevolezza di Claudio Foti nonostante la sua assoluzione sono semplicemente inaccettabili. In un paese civile chi viene assolto ha il diritto di essere trattato da innocente. L’assoluzione di Claudio Foti è piena: il codice di procedura penale non contempla assoluzioni di serie A e di serie B. Si comprende benissimo quale sia l’intenzione dei denigratori e di chi non si rassegna all’innocenza di Claudio Foti: speculando sulla formula assolutoria si spera di nascondere la sostanza di questa vicenda, che è una sola: Claudio Foti è innocente, egli è stato vittima di un errore giudiziario e di un linciaggio umano e professionale lungo quattro anni che ha visto alleati politici e media giustizialisti senza scrupoli che non conoscono e non vogliono riconoscere i fondamenti dello stato di diritto.

Ora che il gioco è andato in frantumi, si tenta di mistificare anche il dispositivo della sentenza di assoluzione. Quante assurdità si leggono in queste ore: Foti viene attaccato sull’abuso d’ufficio da chi poi propugna l’abrogazione del reato di abuso di ufficio e viene attaccato per aver protetto e creduto troppo alla parola dei minori. Certo di fronte a tanta acrimonia nasce un plausibile sospetto: nei mesi scorsi Claudio Foti è stato costretto a chiamare in giudizio Travaglio, Belpietro e compagnia a causa della feroce campagna stampa subita in questi anni. Oggi, di fronte all’assoluzione, costoro uniti e compatti denigrano Foti, svalutano la sentenza di assoluzione, reiterano e amplificano le accuse. La domanda è legittima: costoro agiscono così forse perché sperano di ridimensionare una sentenza di assoluzione che li danneggia? Sperano così facendo di salvarsi dalle condanne? Il sospetto è legittimo e tanta foga e insolenza non fa che giustificarlo. Travaglio&co meglio avrebbero fatto a dichiarare nei loro articoli e nei loro interventi la circostanza che erano stati chiamati da Claudio Foti a rispondere della diffamazione ai suoi danni in modo da consentire al lettore di tarare le loro dichiarazioni inquisitorie e comprendere che forse erano interessate.

Claudio Foti non resterà a guardare questo secondo tempo di linciaggio mediatico. Chiameremo a rispondere tutti coloro i quali pretenderanno di ripetere Io squallido spettacolo di gogna mediatica: chiediamo il rispetto della sentenza della Corte d'appello di Bologna e della Costituzione, chiediamo che cessi questo giornalismo forcaiolo, primitivo, violento, picchiatore di innocenti e di indifesi.

Lettera firmata avv. Luca Bauccio, difensore di Claudio Foti 

(Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano il 9 giugno 2023) – La combriccola di “giornalisti” che parla di processi che non conosce ha emesso un’altra sentenza irrevocabile: siccome Claudio Foti, condannato in primo grado a 4 anni, è stato assolto in appello per la vecchia insufficienza di prove (art. 530 comma 2 Cpp) da un solo episodio del caso Bibbiano, sono innocenti pure gli altri 17 […]

Chiagni e Foti (Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – La combriccola di “giornalisti” che parla di processi che non conosce ha emesso un’altra sentenza irrevocabile: siccome Claudio Foti, condannato in primo grado a 4 anni, è stato assolto in appello per la vecchia insufficienza di prove (art. 530 comma 2 Cpp) da un solo episodio del caso Bibbiano, sono innocenti pure gli altri 17 imputati tuttora a processo a Reggio Emilia per un centinaio di capi di imputazione, con 155 testi e migliaia di intercettazioni, già avallati da un gup, da 3 giudici del Riesame e da 5 di Cassazione; anzi, a Bibbiano non è successo niente. Mentana “chiede scusa” a Foti a nome “di tutto il sistema dei mass media” (e parlare per sé?). La Stampa dice che “il paese esce dall’incubo” (che non sono i bambini strappati alle famiglie con false accuse, ma il processo a chi le fabbricò). Per il Messaggero “crolla il castello di carta”. Merlo su Rep straparla di “sciacallaggio” dei “grillini” e dei “soliti giornalisti” (quindi lui non c’entra). E, tanto per cambiare, dà ragione a Renzi che sul Riformatorio chiede a Meloni, Salvini e Di Maio di scusarsi per una delle poche cose giuste che han detto:cioè che rubare bambini ai genitori con la connivenza delle giunte targate Pd, che in Val d’Elsa affidarono senza gara a Foti&C. le terapie minorili per oltre 200mila euro, fu uno scandalo.

Questo bel quadretto illumina anche la credibilità dei “garantisti” all’italiana, che beatificano lo psicologo per ora assolto assolto (c’è ancora la Cassazione). E fingono di non sapere che nulla è più “giustizialista” del metodo da lui teorizzato e praticato in varie parti d’Italia e proseguito a Bibbiano dai suoi seguaci, fra cui la moglie imputata a Reggio. Le perizie della sua onlus “Hansel e Gretel” hanno accusato decine di genitori, nonni, zii, maestri di aver violentato, abusato, menato, persino coinvolto in riti satanici un’infinità di bimbi che per questo furono sottratti alle famiglie e affidati ad altre; dopodiché s’è scoperto che non avevano fatto nulla, sono stati assolti e i bambini son tornati in famiglia e a scuola, se intanto genitori e maestri non s’erano suicidati o ammalati. Bel garantismo. Ricordate le maestre, la bidella e lo scrittore di Rignano Flaminio, sputtanati come pedofili e poi assolti? C’erano pure le perizie di Foti. Il sequel fu nella Bassa Modenese, dove però l’inchiesta giornalistica Veleno di Pablo Trincia ruppe il muro di omertà. I fatti di Bibbiano – in attesa di sapere dalla sentenza principale se furono reati o solo vergogne penalmente irrilevanti – dicono che tutti i bambini dati in affido in base alle perizie dei fotiani sono tornati alle famiglie naturali e tutti i genitori processati per violenze e abusi sono stati assolti. Siccome ora dovremmo tutti chiedere scusa a Foti, con quei bambini e con quei genitori chi si scusa?

Bibbiano, assolto Claudio Foti: “Sì, è innocente e va riabilitato”. Nel dibattito sul caso Bibbiano, giunto ad una svolta con l’assoluzione di Claudio Foti, diamo spazio all’opinione dell’avvocato che ha assistito lo psicoterapeuta. Luca Bauccio su Il Riformista il 10 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio alla discussione sull’assoluzione di Claudio Foti, psicoterapeuta che, negli anni, è stato accusato di essere una sorta di “mostro di Bibbiano”: giunta l’assoluzione, è giusto riabilitare Foti oppure no? Favorevole alla riabilitazione l’avvocato che ne ha seguito il caso, Luca Bauccio. Contrario invece Michele Barcaiuolo, senatore di FdI.

Qui di seguito il pensiero di Luca Bauccio.

Sono l’avvocato del Dr. Claudio Foti, il noto mostro di Bibbiano.

Due giorni fa il mostro è stato licenziato dalla Corte d’appello di Bologna e riconsegnato alla sua dignità di uomo e di professionista perbene. Mi aspettavo che la sentenza di assoluzione bastasse per ritenere chiusa una pagina infame della politica italiana. Sono ingenuo, lo ammetto.

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La risposta alla sentenza di assoluzione è stata peggio dell’accusa. Sono arrivati insulti e moniti iettatori, persino a voi de il Riformista che – rarità – avete chiesto conto della squallida gogna: ignoranti, incompetenti, non viaggiate, non sapete nulla, non è finita qui, le indagini vanno avanti, vedrete, si sta ancora indagando. Così hanno parlato le celebrità del web e dei podcast.

In queste ore di sbalordita incredulità ho persino letto un post su Twitter con la foto di quattro lapidi di due uomini e due donne morti suicidi e il nome di Claudio Foti associato sotto: i morti, informa il noto “necro-influencer” che lo ha creato, sarebbero stati procurati proprio da lui, l’assolto, Claudio Foti.

Il monito è chiaro: non fidatevi della giustizia, meglio i giustizieri, meglio loro, i premi Pulitzer della calunnia, del fine accusa mai. Costoro ci stanno spiegando da due giorni che la sentenza di assoluzione di Claudio Foti non è proprio una assoluzione piena, che il processo continua a carico di altri coimputati, che non è finita qui, che c’è la Cassazione – chissà che si aspettano – che Foti non va chiamato per nome, perché egli è “quel signore”, che un colpevole è per sempre, o almeno fin quando l’influencer boia e il giornale patibolo non decideranno che sia arrivato il momento di finire lo sventurato, o graziarlo nel dimenticatoio.

Insomma, come Dio, anche Bibbiano c’è. Della verità, dei fatti, della logica nessuna traccia. Perché si dovrebbe credere al fatto che loro ne sappiano più dei giudici? Più degli avvocati? Più dello stesso imputato? Claudio Foti era stato condannato con l’accusa di aver provocato due gravissimi disturbi psichici a una paziente minorenne ma i disturbi, dice la scienza, non potevano essere causati dalla sua terapia perché c’erano da prima che essa iniziasse e perché le cause di quei disturbi si manifestano nei primi 6 anni di vita e solo con il ricorrere di determinate condizioni patologiche, non quando hai 16 anni e fai la terapia! Ci sono fiumi di studi, tutti prodotti nel processo in appello, documentati, certificati, spiegati, verificati, motivati.

Claudio Foti è stato accusato di aver portato la paziente ad assumere sostanze stupefacenti: ma la paziente le assumeva da due anni prima che incontrasse Claudio Foti. Claudio Foti è stato accusato di aver messo padre e figlia l’una contro l’altro: ma la figlia non vedeva il padre già da anni prima che incontrasse Foti e il Tribunale per i minori aveva pure sospeso al padre la potestà genitoriale. E i disturbi come sono stati diagnosticati? Dopo un’ora di colloquio con una psicologa, senza test, senza approfondimenti, senza domande, senza altri incontri. Eppure i manuali di psicologia forense li prescrivevano, inderogabilmente. Nulla. Nella consulenza psicologica non era spiegata neppure in che cosa consistessero quei disturbi diagnosticati, che definizione avessero e sulla base di quale legge scientifica causale fossero stati attribuiti alla terapia di Claudio Foti. L’elenco delle incongruenze è fin troppo lungo. Nel processo sono state tutte elencate, documentate, confutate. Ogni pezzo dell’inchiesta è stato smontato, ogni affermazione smentita, ogni stereotipo accusatorio svelato.

La Corte d’appello ha ascoltato, verificato, e infine ha assolto l’imputato perché sulla base del diritto è stato stabilito che era innocente. Udita la sentenza però, i sacerdoti delle manette si sono scagliati sull’innocente con una furia impensabile. Giustizialisti con gli innocenti e garantisti con i colpevoli, costoro riconoscono solo il loro tribunale e la loro giustizia, che accordano e regalano a chi pare a loro.

E i politici che promettevano di andare via per ultimi da Bibbiano? Hanno gridato, fatto sceneggiate, insultato, perseguitato, scatenato la caccia all’uomo raccogliendo a piene mani il profitto della loro gogna, e poi sono spariti, primi tra gli ultimi. Costoro, fuggiaschi con viltà, l’unica cosa che potevano fare non l’hanno fatta: chiedere scusa per il dolore che hanno dato, per le famiglie che hanno afflitto, per le carriere che hanno distrutto. Claudio Foti, che piaccia o no, è stato assolto: era ed è innocente.

Bibbiano è stata una leggenda infame che alla fine si è ritorta contro chi l’ha inventata. Bibbiano non c’è, non c’è mai stata. Bene, adesso come avvocato di Claudio Foti e come cittadino chiedo a costoro solo una cosa: parlateci di voi, voi che avete accusato e aizzato a lanciare le pietre contro l’innocente, adesso, parlateci di come fate a non vergognarvi? Come fate a ignorare il male che avete fatto? Luca Bauccio

Bibbiano, assolto Claudio Foti: “No, non va riabilitato. Politicamente va condannato”. Nel dibattito su Bibbiano, giunto ad una svolta con l’assoluzione di Claudio Foti, diamo spazio all’opinione del senatore Barcaiuolo. Michele Barcaiuolo su Il Riformista il 10 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio alla discussione sull’assoluzione di Claudio Foti, psicoterapeuta che, negli anni, è stato accusato di essere una sorta di “mostro di Bibbiano”: giunta l’assoluzione, è giusto riabilitare Foti oppure no? Contrario Michele Barcaiuolo, senatore di FdI. Favorevole, invece, alla riabilitazione l’avvocato che ne ha seguito il caso, Luca Bauccio.

Qui di seguito il pensiero di Michele Barcaiuolo.

L’inchiesta “Angeli e Demoni” suscitò scalpore in tutta Italia per un presunto giro di affidi illeciti di bambini da parte della rete dei Servizi sociali della Val d’Enza alla Onlus “Hansel e Gretel” di Torino a cui furono assegnati, senza appalto, numerosi casi di minori allontanati o da allontanare dalle famiglie per presunti abusi sessuali. Come riportato dalla stampa, le accuse mosse a carico dei responsabili dei Servizi predetti sarebbero relative a falsificazione di atti e relazioni relative alla condizione di minorenni all’interno delle loro famiglie di origine, allo scopo di allontanare i bambini stessi dalle proprie famiglie affidandoli ad amici e conoscenti compiacenti a fronte della corresponsione del contributo mensile alle famiglie affidatarie.

La svolta nell’inchiesta arrivò quando i carabinieri sostennero come falsi i documenti redatti dagli stessi servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, carte in seguito trasmesse all’autorità giudiziaria. Dall’inchiesta risultano almeno ventisette indagati e l’aspetto più inquietante è costituito dal coinvolgimento di esponenti e dipendenti della Pubblica Amministrazione locale, ai quali sono contestati reati di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione e peculato d’uso.

Martedì scorso è stato assolto in appello lo psicoterapeuta Claudio Foti che in primo grado era stato condannato a quattro anni per abuso d’ufficio, lesioni dolose gravi e frode processuale. Si attende però di conoscere le motivazioni dell’assoluzione e l’esito del secondo filone giudiziario scaturito dall’inchiesta che vede alla sbarra altri 17 imputati tra cui il sindaco della cittadina emiliana, Andrea Carletti e l’allora responsabile dei servizi sociali del Comune, Federica Anghinolfi. Questo secondo processo si svolge infatti con rito ordinario e non abbreviato come quello che si è concluso martedì scorso.

Per dare un giudizio sulla vicenda, non è rilevante il processo in sé o come si evolverà ma è fondamentale che il caso sia stato sollevato e che sia arrivato all’attenzione dell’opinione pubblica. La posizione di Fratelli d’Italia è sempre ed in tutte le circostanze garantista, ma la posizione politica resta di condanna davanti a un modello di affidi che ignora, a nostro avviso, la protezione dell’infanzia, perché il diritto primario di ogni minorenne è quello di vivere all’interno della propria famiglia di origine, e l’affidamento familiare può essere contemplato come misura temporanea di supporto alle famiglie, nell’ottica della prevenzione dell’abbandono e non come soluzione da applicare in casi di acclamata inidoneità delle famiglie. Il modello Bibbiano, sostenuto anche dalla Giunta emiliano-romagnola che non ha perso occasione per promuovere conferenze e presentazioni, si è fatto promotore della cosiddetta cultura delle “famiglie arcobaleno”, nato dall’onda del politicamente corretto che si ostina ad assecondare le richieste di un mondo incapace di fare i conti col concetto che avere un figlio non sia un diritto ma, al massimo, un desiderio. Un mondo noncurante dell’assenza di letteratura scientifica sul tema delle famiglie omogenitoriali, un mondo che dimentica la peculiarità della cultura italiana.

L’assoluzione di Claudio Foti non è certamente il punto di conclusione dell’intera vicenda Bibbiano ma forse un punto di inizio per aprire un dibattito su quanto sia inopportuno e nocivo condurre esperimenti sociali sui bambini. La tecnica dell’EMDR, utilizzata dal laureato in lettere e psicoterapeuta con l’ausilio di macchinari per indurre stimolazioni sensoriali in grado di attivare il processo di riconoscimento e rielaborazione del trauma, è certamente uno strumento riconosciuto dalla comunità scientifica che però, nel caso di Bibbiano non è stato oggetto degli adeguati controlli che prevedono la modulazione dello strumento. È stato sollevato un tema importantissimo, ovvero le competenze degli psicologi e di chi lavora a contatto con i bambini. E soprattutto l’ideologia, che non deve esserci in questo contesto lavorativo.

Un tema delicato in grado di dimostrare che bisogna stare attenti a quali tecniche si utilizzano per parlare con i bambini e per influenzarli; il cuore di questo fenomeno è l’ideologia che c’è dietro: ci sono alcune persone, associazioni, o formatori che sostengono l’uso di tecniche non scientifiche e molto pericolose perché partono da un pregiudizio iniziale. Se si pensa che un bambino su cinque è stato abusato, è inevitabile che tu te lo vada a cercare con domande suggestive senza tenere presenti i danni che si possono arrecare al minore e all’intera famiglia. In conclusione: noi continuiamo a contestare in modo forte il metodo Bibbiano politicamente, al netto delle responsabilità penali che accerterà la magistratura, ricordando che è ancora in essere l’altro filone del processo, e che ci sono già stati 5 patteggiamenti.

Ma il compito della politica è quello di impedire che in futuro possano essere sottratti bambini alle proprie famiglie senza motivazioni certe e consolidate, la magistratura valuterà le condotte che si sono perpetuate in quel sistema in passato. Michele Barcaiuolo

Carlo Giovanardi: Ecco perché non chiederò mai scusa a Foti. Redazione su L'Identità il 10 Giugno 2023 di CARLO GIOVANARDI

Claudio Foti è stato assolto in appello a Bologna per due episodi marginali relativi all’inchiesta “Angeli e Demoni “, avviata a Bibbiano dalla Procura di Reggio Emilia. E’ andato subito in onda, a reti unificate e sui giornali, il tentativo di far passare il Foti come una vittima di una sorta di caccia alle streghe mentre purtroppo in Italia è avvenuto proprio il contrario. Scriveva infatti nel 2007 Claudio Foti nel suo saggio “Il negazionismo dell’abuso dei bambini, l’ascolto non suggestivo, la diagnosi possibile”, pubblicato dalla rivista Minori Giustizia: “L’olocausto dell’abuso sulle donne e sui bambini con i suoi scenari … forse più impensabili ed indicibili di quelli dei lager e assolutamente non circoscritti da un visibile filo spinato rimane comunque un fenomeno in gran parte sommerso e l’impegno a sottrarlo dalla notte millenaria di rimozione e di negazione, in cui resta avvolto, risulta assai più difficile di quanto sia accaduto per altre espressioni di violenza storicamente documentate”.

Dopo aver paragonato gli abusi in Italia all’Olocausto del popolo ebraico, Foti aggiunge: “La prima verità è che gli abusi organizzati (ritualistici o finalizzati al traffico di materialepedopornografico) esistono e sono diffusi; la seconda verità è che sono destinati a rimanere ancora a lungo sostanzialmente impensabili e pertanto socialmente inaffrontabili dal punto di vista preventivo e repressivo”.

Ma non basta: il Centro Hans e Gretel di Claudio Foti ha sostenuto e diffuso tra magistrati minorili, operatori dei servizi e psicologi il dato che il 75 per cento dei bambini italiani sia abusato in famiglia o sessualmente o tramite violenza fisica e psichica. E se la Giustizia assolve o archivia le accuse contro i genitori? “I dati relativi alle false accuse “, scrive Foti, “non possono basarsi sulle archiviazioni e sulle assoluzioni giudiziarie. Non si può considerare il responso giudiziario come un fondamento di verità clinica e sociale, confondendo la verità giudiziaria con quella scientifica e dimenticando che la prima necessariamente deve tener conto, giustamente ed inevitabilmente, del parametro delle prove”.

Secondo Foti infatti e la sua teoria del “disvelamento progressivo” il bambino a rischio di abuso (7 su 10) deve essere sottratto immediatamente ai genitori, con i quali per mesi viene precluso ogni contatto, e debitamente (ed empaticamente) interrogato farà affiorare gli abusi subiti. La storia terribile dei diavoli della Bassa Modenese, con riti satanici e squartamenti di bambini inventati di sana pianta, il calvario delle povere maestre di Rignano Flaminio scambiate per orchi, le vicende dei bambini sottratti alle famiglie a Bibbiano, tutti i casi in cui Foti è stato direttamente o indirettamente coinvolto, e tanti altri terribili episodi in giro per l’Italia testimoniano le tragiche conseguenze di questa vera e propria caccia alle streghe, che ha distrutto nel nostro paese migliaia di famiglie. Il problema pertanto non è quello di processare o condannare Foti, ma contestare e demolire definitivamente dal punto di vista scientifico le sue stravaganti teorie.

Bibbiano, processo Angeli e Demoni, Claudio Foti assolto in Appello: «Io alla gogna per quattro anni». Margherita Grassi su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

Bologna, la Corte d'Appello assolve lo psicoterapeuta da ogni accusa. In primo grado era stato condannato a quattro anni.

Assolto per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste. Si ribalta in secondo grado la sentenza per Claudio Foti, lo psicoterapeuta coinvolto nell'inchiesta «Angeli e Demoni» sui presunti affidi illeciti nella Val d'Enza Reggiana. La Corte di Appello di Bologna lo ha infatti assolto da tutte le accuse: per non aver commesso il fatto dall'abuso di ufficio e perché il fatto non sussiste dal reato di lesioni dolose gravi. Confermata anche l'assoluzione dall'accusa di frode processuale. In primo grado a Reggio Emilia era stato condannato a quattro anni. Il fondatore della onlus Hansel & Gretel ha accolto la sentenza, arrivata dopo una lunga di camera di consiglio, con commozione. Foti era uno dei nomi principali dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti nella val d’Enza reggiana, inchiesta che deflagrò quasi quattro anni fa, il 27 giugno 2019, infuocando l’estate di Bibbiano e i mesi a venire fino a diventare tema centrale anche delle elezioni regionali del gennaio 2020, tra un botta e risposta di «piazze» tra Lega e Sardine. Claudio Foti, noto psicoterapeuta e guru della torinese Hansel&Gretel, ritenuto dalla procura di Reggio Emilia figura chiave, scelse il rito abbreviato: condannato a quattro anni l’11 novembre 2021 in primo grado per abuso di ufficio e lesioni dolose gravi, è stato ora assolto in Appello a Bologna. La sentenza è arrivata poco dopo le 19.30 al termine di una lunga camera di consiglio. 

«Umiliato e perseguitato come uomo e psicoterapeuta»

Nel dispositivo si legge che Foti, che aveva fatto ricorso, è stato assolto in relazione alle accuse di lesioni gravissime nei confronti di una ragazza che era stata sua paziente quando era ancora minorenne. «Hanno vinto la verità e la giustizia, dopo quattro anni di gogna. Ho pianto, si è incrinato il teorema accusatorio», ha commentato Foti.  «È stato il riscatto di quattro anni di umiliazione e persecuzioni come uomo e come psicoterapeuta», ha aggiunto il suo avvocato Luca Bauccio. Il processo di secondo grado si era aperto lo scorso febbraio. Nelle motivazioni della condanna del novembre di un anno e mezzo fa, il giudice scrisse, tra l’altro, che «le modalità con cui Foti conduceva le sedute di terapia riuscirono innegabilmente a alterare lo stato psicologico di una bambina». Secondo il gup, Foti aveva provocato disturbi depressivi in una ragazzina all’epoca 17enne che sottopose a terapia tra 2016 e 2017, tramite domande definite «suggestive», ingenerando in lei «la convinzione di essere stata abusata dal padre e dal socio».

Ancora in corso il processo a carico di altre 17 persone

«Ho dedicato 40 anni della mia vita all’ascolto attento e rispettoso di bambini e di ragazzi», aveva detto il 72enne psicoterapeuta all’epoca, paragonandosi ad Enzo Tortora e dicendo che «la situazione ambientale del tribunale di Reggio è fortemente condizionata dal clima mediatico». Proprio in tribunale a Reggio è in corso da un anno il dibattimento a carico di 17 persone tra amministratori ed ex amministratori, psicologi e assistenti sociali accusati a vario titolo di aver redatto relazioni errate sui minori in carico ai servizi sociali o di averli sottoposti a terapie che avrebbero generato in loro «falsi ricordi».

Anni di gogna e campagna elettorale. “Muore la leggenda Bibbiano”, assolto lo psicoterapeuta Foti: Lega, grillini e media di cosa parleranno? Ciro Cuozzo su Il Riformista il 7 Giugno 2023 

Da parlateci di Bibbiano alle assoluzioni. Dopo anni la giustizia fa il suo corso con buona pace di leader e gregari politici di Lega e Movimento 5 Stelle (e della stampa giustizialista e fedele alle Procure) che hanno cavalcato la vicenda per anni,  a partire dall’estate 2019, alimentando gogna e indignazione contro il Pd e i vertici dell’epoca. Cosa dirà Matteo Salvini dell’assoluzione di Claudio Foti? Lo psicoterapeuta titolare dello studio di cura torinese ‘Hansel&Gretel’, e imputato nell’inchiesta ribattezzata dalla procura di Reggio Emilia “Angeli e Demoni” sulle presunte adozioni illecite di bambini, è stato assolto da tutte le accuse nella sentenza di Appello. Assolto perché “il fatto non sussiste”. Amen.

“Con oggi muore la leggenda di Bibbiano e rinasce la verità di una comunità di professionisti che hanno voluto perseguire solo la protezione del minore” commenta Luca Bauccio, legale di Foti, facendo riferimento a una vicenda utilizzata per la campagna elettorale per le regionali in Emilia Romagna dalla Lega, dal leader Matteo Salvini e dalla candidata, sconfitta, Lucia Borgonzoni (celebri, si far per dire, le magliette utilizzate in Parlamento).

Foti in primo grado, nel processo in abbreviato, era stato condannato a quattro anni per abuso d’ufficio e lesioni volontarie psicologiche. In secondo grado è crollata la tesi della procura emiliana. “Hanno vinto la verità e la giustizia, dopo quattro anni di gogna. Ho pianto perché si è incrinato il teorema accusatorio”, dice lo psicoterapeuta uscendo dalla Corte bolognese martedì sera, 6 giugno, dopo una sentenza che, come spesso accade, mette ancora una volta in un angolo i giustizialisti di professione.

“Felice, emozionato, rinato. Questa assoluzione mi restituisce alla dignità e all’onore che merito, non ho mai fatto del male ai miei pazienti, li ho sempre aiutati, mettendo a disposizione tutto il mio tempo e il mio sapere”, ha aggiunto in una dichiarazione diffusa in serata.

Soddisfatto il legale Luca Bauccio: “Foti è stato riscattato di quattro anni di umiliazione e persecuzioni come uomo e come psicoterapeuta”. Al termine del processo e della condanna in primo grado, i legali di Foti parlarono di “sentenza totalmente inaspettata, non avremmo scelto il rito abbreviato se le carte delle indagini avessero lasciato presupporre una condanna. Il trattamento avuto nei suoi confronti ricorda quello riservato a Enzo Tortora, poi assolto in Corte d’Appello”.

Intanto la procura generale, dopo la disfatta, fa sapere che leggerà le motivazioni pubblicate nei prossimi mesi e, successivamente, valuterà l’eventuale ricorso in Cassazione. L’assoluzione di Foti potrebbe condizionare anche il processo ordinario, quello sempre in corso a Reggio Emilia e che vede imputate 17 persone. L’abuso di ufficio contestato allo psicoterapeuta (è caduto in Appello) sarebbe stato commesso in concorso con il sindaco dem di Bibbiano Andrea Carletti, in relazione all’affidamento senza gara, alla sua associazione, del servizio di psicoterapia nell’Unione Val d’Enza.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Processo Angeli&Demoni, lo psicoterapeuta messo alla gogna era innocente: “Quattro anni infernali”. Simona Musco su Il Dubbio il 6 giugno 2023

«Non sono stato in carcere, ma per quattro anni ho vissuto da detenuto. Ora spenderò gli anni che mi restano da vivere per trasformare questo evento profondamente lesivo in un’occasione di crescita per tutta la società». Ha la voce spezzata Claudio Foti pochi minuti dopo aver sentito i giudici proclamare in aula la sua innocenza. Nessuna ostetricia dei ricordi, nessun plagio: lo psicoterapeuta dipinto come il “lupo di Bibbiano” non ha provocato alcun disturbo borderline nella sua paziente all’epoca 17enne, finita da lui per gli abusi subiti durante l’infanzia e l’adolescenza.

A stabilirlo la Corte d’Appello di Bologna, che oggi lo ha assolto nel processo “Angeli&Demoni”, quello che lo aveva trasformato da difensore dei minori abusati a mostro, secondo un’opinione pubblica che lo voleva anche oltre il capo di accusa ladro di bambini. Nessuna lesione grave - il fatto non sussiste -, dunque, nessun abuso d’ufficio - non ha commesso il fatto - e nemmeno frode processuale, per la quale era già stato assolto. Foti, dopo la lettura della sentenza, è scoppiato a piangere, abbracciando il suo legale, Luca Bauccio (in foto insieme a Foti), che in aula ha smontato pezzo per pezzo la tesi del sistema Bibbiano, di cui lui, pur essendo personaggio marginale, era stato eletto protagonista.

«Ho subito gravi limitazioni alla mia libertà e alla mia vita professionale - dice Foti al Dubbio -. Bisogna riflettere su quello che è accaduto, quello che accade agli psicoterapeuti. Ma anche sulla gogna, sulla stupidità in rete che diventa potere. Bibbiano è un prisma con tante facce che meritano una riflessione culturale. È stato difficile, ma abbiamo dimostrato l’inconsistenza delle ragioni accusatorie, a partire da fatti, documentazioni, elementi di realtà che erano stati stravolti dal castello accusatorio. Sono felice, emozionato, rinato. Questa assoluzione mi restituisce la dignità e l'onore che merito, non ho mai fatto del male ai miei pazienti, li ho sempre aiutati, mettendo a disposizione tutto il mio tempo e il mio sapere. Oggi finiscono quattro anni di dolore e di ingiustizia. Potrò tornare al mio lavoro e alla mia vita».

Per il professionista si tratta anche di una vittoria della psicoterapia del trauma: «Oggi ci sono tanti bambini traumatizzati che non vengono curati e pochi psicoterapeuti che spesso affrontano incomprensioni e comportamenti di squalifica. Ma bisogna guardare al futuro: ho già preparato una serie di iniziative per trasformare questi quattro anni in qualcosa di positivo».

Secondo il giudice che lo aveva condannato in primo grado, «le modalità fortemente pregiudizievoli con le quali l'imputato conduceva le sedute, anche mediante l'errato utilizzo della tecnica dell'Emdr, hanno provocato a Paola (nome di fantasia, ndr) un disturbo di personalità borderline e un disturbo depressivo con ansia». Una circostanza impossibile, secondo gli oltre 200 psicoterapeuti e psicologi che hanno contestato la diagnosi, dal momento che un tale disturbo ha, secondo la letteratura scientifica, origini nell’infanzia. Foti, secondo il giudice, avrebbe però «veicolato in Paola il convincimento di essere stata oggetto di plurimi abusi sessuali e vessazioni psicologiche», provocando in lei grande sofferenza. Presunti abusi della quale è stata lei stessa a parlare prima ancora della terapia - alla zia e alla madre -, ma il cui ricordo, secondo il giudice, sarebbe stato invece instillato da Foti, che l’avrebbe spinta ad odiare il padre, in un processo di demolizione della sua figura condannato dal giudice, nonostante sia lui stesso a definire l’uomo un «violento». Da qui lo sviluppo di un disturbo di personalità borderline, del quale il percorso psicoterapeutico di Foti avrebbe rappresentato «una componente rilevante», attraverso modalità «scorrette ed invasive», dunque, suggestive, di cui non poteva non essere consapevole, motivo per cui è stato riconosciuto il «dolo diretto».

Nulla di tutto ciò secondo i giudici d’appello, circostanza evidente anche dalla visione delle registrazioni di quelle sedute, durante le quali mai Foti aveva suggerito alla ragazza che potesse essere stato il padre a farle male. La pm Valentina Salvi, nel corso della requisitoria, ha citato il mancato rispetto, da parte di Foti, della famigerata Carta di Noto, un documento che raccoglie le linee guida per l'indagine e l'esame psicologico del minore nei casi di abuso che in questa indagine viene considerato come una “Bibbia” da cui non deviare. Tale strumento, però, viene ritenuto valido come altri a disposizione degli psicologi e indirizzato al lavoro psicologico-forense più che a quello clinico, il cui rispetto, secondo diverse sentenze della Cassazione, non può essere considerato un imperativo. Ma se anche lo fosse, ha evidenziato Bauccio, è stata proprio la psicologa Rita Rossi, consulente dell’accusa e autrice della diagnosi, a violare le linee guida della Carta, che prescrive più incontri e più test, arrivando invece ad una conclusione senza sottoporre questionari e all’esito di un solo incontro.

«La Corte d'Appello ha fatto giustizia di un processo basato sulla superstizione e sulla caccia alle streghe - ha commentato il legale -. Sono stati anni di persecuzione che hanno permesso a molti di costruire carriere, improvvisare tribunali e condurre proprie redditizie campagne scandalistiche senza alcun fondamento e verità. In questi anni è stata criminalizzata la psicoterapia del trauma, è stata accreditata la favoletta dei bambini rubati alle famiglie per essere dati in pasto a famiglie lesbiche, una poltiglia di menzogne, cultura razzista, speculazione politica. Nel mezzo tanti innocenti che hanno pagato pesantemente questa caccia alle streghe. In Italia - ha aggiunto - vi è un serio problema di garantismo verso il presunto innocente, è sufficiente che una procura avanzi una ipotesi di reato e, se conviene, si scatena la gogna e la lapidazione del sospettato. Tutta la vita, privata e professionale di Claudio Foti è stata colpita e denigrata, e oggi possiamo dire finito un incubo durato quattro anni. Con oggi muore la leggenda di Bibbiano e rinasce la verità di una comunità di professionisti che hanno voluto perseguire solo la protezione del minore». Una leggenda alimentata dal podcast “Veleno”, che ambiva a riscrivere la storia dei diavoli della Bassa modenese, confermata invece da tre sentenze e due tentativi di revisione. «Foti rispondeva di lesa “podcastità”, di lesa e offesa alla giustizia delle serie televisive», ha concluso il legale.

«Foti un criminale: ha osato criticare il podcast “Veleno”». Bibbiano, secondo il gip lo psicoterapeuta sarebbe un «autore per convinzione» per aver difeso una sentenza definitiva che l’inchiesta giornalistica sui “diavoli della Bassa Modenese” tentava di riscrivere. Simona Musco su Il Dubbio il 30 maggio 2023

Lo psicoterapeuta di Bibbiano andava arrestato perché aveva un’opinione. Secondo l’ordinanza che quattro anni fa autorizzò le misure cautelari (poi annullate) per Claudio Foti, condannato nel processo “Angeli e Demoni” per lesioni gravi e concorso in abuso d’ufficio (nessuna accusa di affidi illeciti), il «peculiare atteggiamento» che denoterebbe il «tasso potenziale di criminalità» dell’indagato deriverebbe dall’aver criticato un podcast: “Veleno”.

Una critica che farebbe di lui un «tipico autore per convinzione», come si evincerebbe dalla «saccente presunzione, priva di qualsiasi deviazione dal dubbio incrollabile di essere dalla parte della ragione, con la quale commenta durissimamente l’inchiesta giornalistica» di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, autori del podcast, che aveva l’aspirazione di riscrivere la storia dei “diavoli della Bassa Modenese”, la vicenda giudiziaria che a fine anni ‘90 portò a condanne per 157 anni di carcere per abusi su minori.

Una convinzione imperdonabile, per il giudice, nonostante siano stati ben 70 suoi colleghi, in diversi momenti, a stabilire la veridicità degli stupri denunciati da decine di bambini. E, dunque, il fatto di aderire ad una verità riconosciuta processualmente - criticabile, ma comunque definitiva - certificherebbe il curriculum criminale di Foti. Il particolare emerge nel libro “Bibbiano: dubbi e assurdità”, scritto dal Comitato Giobbe e presentato lunedì al Teatro Belli di Roma. Un lavoro corposo, nel quale vengono analizzate passo per passo il processo mediatico, le conseguenze sulle politiche di tutela dei minori e le incongruenze giudiziarie.

Ma soprattutto si delinea un quadro preciso del punto di partenza: un’inchiesta giornalistica - nata perché «era una bella storia», secondo i suoi autori -, fondata sulla ritrattazione, a distanza di anni, di due vittime su sedici (le altre, riunite nel comitato “Voci vere”, continuano a ribadire di essere state abusate) e che mirava a far riaprire i processi. Ma alle tre sentenze di merito, negli ultimi tre anni, se ne sono aggiunte altre due: quella della Corte d’Appello di Ancona e quella della Cassazione, nel 2021, che hanno respinto la richiesta di revisione del processo certificando «la solidità dell’impianto logico/argomentativo delle sentenze impugnate» e ravvisando «l’inidoneità degli elementi nuovi a scalfire la decisione di cui viene chiesta la revisione».

Ma quali erano gli elementi nuovi a sostegno della tesi di una macchinazione ai danni dei genitori coinvolti in quel caso di 20 anni fa? Il meglio noto “caso Bibbiano”, che secondo gli autori di “Veleno” sarebbe stato la conferma della tesi contenuta nel loro lavoro giornalistico. Un fatto strano se consideriamo che “Veleno” rappresenterebbe, invece, il punto di partenza dell’inchiesta sugli affidi in Val d’Enza: «I Carabinieri ci hanno ringraziato perché abbiamo fornito loro una chiave investigativa che prima non avevano», ha affermato lo stesso Trincia in un’intervista.

La chiave investigativa si fonderebbe su un fatto: il presunto aumento vertiginoso di affidi in Emilia, che avrebbe fatto sospettare di un sistema messo in piedi dai servizi sociali per lucrare. Sistema che, per la procura, sarebbe rappresentato da otto casi su centinaia di affidi (sempre decisi dal Tribunale per i minori) evidentemente considerati legittimi, in un contesto in cui, secondo i dati a disposizione - consultabili anche prima dell’indagine - non vi sarebbe stata alcuna anomalia numerica in fatto di allontanamento dei minori. Tant’è che la Commissione parlamentare messa in piedi dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per certificare l’orrore ha fatto emergere una realtà totalmente differente: l’Italia è il Paese con il minor numero di allontanamenti in Europa. Un dato non necessariamente positivo, dal momento che potrebbe indicare un vuoto di tutela, come ipotizzato dall’Onu. «I dati sui minori fuori famiglia relativi all'Italia - si legge nella relazione finale, passata sottotraccia - indicherebbero una minore propensione all'allontanamento (2,8 per mille, a fronte del 10,5 della Germania, del 10,4 della Francia e del 6,1 del Regno Unito)». Insomma, nessuna emergenza. Se non fosse che il marasma suscitato da “Angeli e Demoni” ha provocato l’effetto opposto rispetto a quello che, almeno a parole, veniva predicato nelle ore convulse dopo il blitz - che per uno strano caso è coinciso con la violentissima campagna elettorale in Emilia Romagna -: la crescita del ricorso alle comunità rispetto gli affidi, con impennata dei costi sociali e umani, dal momento che il ricovero nelle case famiglia costa sette volte in più rispetto all’affido.

«In nome del garantismo verso coloro i quali erano stati indagati e imputati a Modena nel processo dei diavoli della Bassa - ha spiegato nel corso dell’incontro Luca Bauccio, legale di Foti, per il quale la sentenza d’appello è prevista il 6 giugno -, un garantismo posticcio, ritardatario, ci siamo inventati un altro colpevole al quale abbiamo ridotto i diritti che si vogliono restituire a quegli altri. È questa l'assurdità, che sconta il fatto che le premesse non sono genuine». In quell’ordinanza, conclude il legale, veniva spiegato come Foti dovesse «essere privato della libertà personale perché ha un'indole, ha una tendenza: siamo nella colpa d’autore, una superstizione, una chimera, un obbrobrio giuridico. Il diritto moderno, il diritto praticato nel mondo ripudia la colpa d'autore perché trasferisce dai fatti al profilo della persona il tema della responsabilità e della verità. E quindi si ricostruisce la fisionomia e quasi la reputazione criminale del soggetto attraverso questi tratti che andiamo a incollare per formare una figura che poi giustifica e regge tutta una narrazione accusatoria».

Bibbiano, il legale: «La relazione sugli abusi del padre? Non esiste». Clamorosa rivelazione nel corso del processo d’appello “Angeli&Demoni”. Lo psicoterapeuta Foti, in primo grado, era stato condannato a 4 anni per lesioni gravi. Simona Musco su Il Dubbio il 22 aprile 2023

I servizi sociali di Bibbiano e lo psicoterapeuta Claudio Foti non hanno mai scritto nessuna relazione nella quale si affermasse che a violentare la 17enne in cura dal terapeuta fosse il padre. Né mai, in nessun atto, si afferma che tali violenze siano avvenute in presenza della madre. Ma è stata proprio quest’ultima a parlare di tale documento, rivelatosi inesistente, sostenendo che a svelarglielo sono stati i Carabinieri. Il clamoroso particolare è emerso ieri nel corso del processo d’appello a carico di Foti, il fondatore della onlus Hansel & Gretel al quale il gup di Reggio Emilia ha inflitto, a novembre 2021, quattro anni per lesioni gravi e concorso in abuso d’ufficio nel processo ' Angeli& Demoni'. A spiegarlo in aula, davanti ai giudici, è stato il legale dello psicoterapeuta, Luca Bauccio, che ha recuperato il dato dal colloquio l’unico - avuto dalla madre e dalla giovane con la psicologa Rita Rossi, consulente nominata dal pm Valentina Salvi, la stessa che ha diagnosticato, in quell’unico incontro di un’ora, un disturbo di personalità borderline con depressione grave a Paola (nome di fantasia), provocato proprio dalle sedute con Foti. «Alla donna era stato detto dai carabinieri che sarebbe esistita una relazione dei servizi nella quale si affermava che la mamma assisteva agli abusi sessuali del padre sulla minore - ha spiegato il legale -, una circostanza che aveva colpito profondamente la donna, al punto da riferirla in famiglia». Ed è così che lo apprende Paola, rimasta talmente scossa da dirsi confusa e prostrata: «Quello che mi turba - aveva riferito alla dottoressa Rossi - è non sapere la verità». Purtroppo, ha sottolineato Bauccio, «la psicologa non ha tratto da questa affermazione della madre nessuna conseguenza, pur essendo chiaro e incontrovertibile che mai i servizi sociali hanno avanzato una tale accusa. Anche perché altrimenti i servizi avrebbero dovuto chiedere al Tribunale dei minori di sospendere la responsabilità genitoriale anche della madre. Invece ne hanno sempre valorizzato il contributo, così come Foti. Non c’è alcuna relazione in cui si affermi un fatto del genere - ha evidenziato il legale -, ciononostante questo rimane un argomento e probabilmente ha motivato la diffidenza e l’astio delle due donne nei confronti di Foti e dei servizi sociali. Il fatto è falso. Ma né Rossi né la pubblica accusa si sono posti il problema di verificare questa circostanza e di accertare eventualmente le responsabilità». 

Bauccio, che ieri ha concluso la sua discussione - le repliche sono previste il 6 giugno -, ha concentrato la propria arringa sulla assenza di una definizione scientifica affidabile degli eventi lesivi attribuiti all’imputato. «In questo processo - ha spiegato il legale - non c’è un’elaborazione sui meccanismi causali che avrebbero prodotto questo evento come conseguenza dell’azione di Foti». A sostegno della sua tesi Bauccio ha portato la giurisprudenza di Cassazione, in particolare la sentenza delle Sezioni Unite Franzese, la sentenza delle Sezioni Unite Ronci e la sentenza Thyssen Krupp, ma soprattutto la sentenza Cozzini, che riprende le linee guida della sentenza Daubert proprio sui criteri da seguire nella valutazione delle prove scientifiche. Tale sentenza stabilisce alcuni paletti: bisogna innanzitutto verificare «se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide ed obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto di una determinata azione nel determinare lesioni personali o morte di un soggetto» ; in caso di risposta affermativa, «occorrerà determinare se si sia in presenza di legge universale o solo probabilistica in senso statistico» ; nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, «occorrerà chiarire se l’effetto causale si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali». Insomma, «il giudice non è anarchico», ma deve attenersi «al rispetto di un protocollo che pone sempre in evidenza il rapporto con il caso concreto». 

L’altra parte della discussione ha riguardato il dolo, argomento rispetto al quale Bauccio si è rifatto alla sentenza Thyssen, «che ha spiegato come non sia un elemento astratto, ma impone una individuazione concreta della volontà dell’agente. Ricostruire la volontà dell’agente - ha aggiunto - significa porsi dalla sua parte e quindi rappresentarsi lo scenario, le sequenze fattuali, la visione delle cose, il senso che alle cose dà l’agente per capire la sua reale volontà. Non un agente astratto, idealizzato, costruito per definizioni, com’è accaduto in questo processo, dove Foti è stato costruito come personaggio demoniaco, infernale, portatore di ogni abuso, di ogni mercantilismo sviluppato sulla pelle di minori indifesi. La visione dell’azione dal punto di vista di chi agisce ha permesso, applicando gli insuperabili criteri della Thyssen, di ricostruire i meccanismi delle sue azioni, le ispirazioni, i processi deliberativi, tutti confluenti nella sua assorbente dimensione di psicoterapeuta. Non c’è il dolo, né intenzionale, né eventuale, né diretto e non c’è una colpa, perché Foti non ha violato alcuna norma preventiva, non ha agito in modo malaccorto, sventato, perché non ha fatto altro che concentrarsi sulle questioni più importanti: l’abuso, l’abbandono, il conflitto familiare. Pretendere di sostituirsi allo psicoterapeuta, imporre un ordine e un metodo - ha concluso -, significa avverare una pretesa ideologica che dovrebbe essere respinta e refrattaria al processo penale».

Dall’inchiesta mediatica al processo multimediale...Angeli & Demoni, proiettate in aula intercettazioni ancora sotto riserva di ammissibilità. Per il pubblico ministero si tratterebbe di «corpo del reato». Simona Musco su Il Dubbio l’1 aprile 2023

Una testimonianza infarcita con intercettazioni non ancora ammesse dal Tribunale, “videoproiettate” con sottotitoli che altro non sono se non brogliacci della polizia giudiziaria. E poi un documento privato, appunti personali la cui lettura è stata autorizzata alla stregua di atti a firma della pg. È quanto accaduto a Reggio Emilia, nel corso del processo “Angeli & Demoni” sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Un processo caratterizzato da un’accesissima dialettica tra accusa e difesa e da continui colpi di scena processuali, con scelte procedurali che hanno destato più volte le lamentele delle difese. Il tutto con un calendario fittissimo di udienze - due a settimana, il lunedì e il mercoledì -, nonostante tale processo non rientri, stando alle previsioni di legge fissate dall’articolo 132 bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale, tra quelli prioritari.

ASCOLTATE INTERCETTAZIONI ANCORA NON ACQUISITE

Ad essere ascoltato come primo teste dell’accusa, rappresentata dalla pm Valentina Salvi, è il maresciallo Giuseppe Milano, colui che indagò sul sistema degli affidi. Una testimonianza, la sua, intervallata dall’ascolto delle conversazioni intercettate nel corso delle indagini. Si tratta di audio poco nitidi, tanto da rendere necessario l’utilizzo dei sottotitoli. E qui, secondo le difese, si pone il primo problema: i testi proiettati sono infatti ricavati dai brogliacci di ascolto. Si tratta, dunque, di atti di indagine, in un momento in cui ancora le stesse intercettazioni non risultano trascritte da un perito e, dunque, non ancora acquisite in dibattimento. Un punto sul quale le difese hanno avanzato un’eccezione, respinta però dallo stesso Tribunale.

Ma il fatto è reso ancora più eclatante da un altro particolare: i giudici, infatti, non si sono ancora pronunciati sull’utilizzabilità di quelle intercettazioni, che la pm ha chiesto di acquisire come «corpo di reato». Le difese hanno sollevato un problema di utilizzabilità: le captazioni erano state infatti disposte per un tipo di reato, mentre l’accusa vorrebbe utilizzarle per altri, alcuni dei quali non ricadono nei limiti previsti dall’articolo 266 del codice di procedura penale, risultando dunque non intercettabili. Giovanni Tarquini, difensore del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, ha evidenziato, a titolo d’esempio, che i limiti edittali dell’abuso d’ufficio - reato contestato al suo assistito - non prevedono le intercettazioni. Ma secondo la pm Salvi, essendo numerosi i reati contestati, «alcune parti delle intercettazioni possono essere inutilizzabili per una fattispecie, ma rilevanti per un’altra».

Per superare lo stallo, la pm ha affermato che tali intercettazioni rappresenterebbero corpo di reato: si tratta infatti, in alcuni casi, delle sedute di psicoterapia svolte presso il centro “La Cura”, considerate lesive dell’integrità dei minori. «Un’interpretazione a dir poco analogica - ha evidenziato il professore Oliviero Mazza, difensore, insieme a Rossella Ognibene, dell’ex responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza Federica Anghinolfi -. Il corpo del reato è la cosa sulla quale o mediante la quale si commette il reato, un’intercettazione non può essere nulla di tutto ciò, è solo la prova di quello che accade». Il Tribunale si è dunque riservato sull’acquisizione delle intercettazioni, che però sono state comunque “utilizzate” nonostante siano sotto riserva di ammissibilità - nel corso della testimonianza di Milano.

GLI APPUNTI IN AULA

Ma non solo. Il maresciallo si è presentato in aula non con le informative e gli atti a sua firma documenti che gli ufficiali di pg sono autorizzati a consultare durante le loro testimonianze -, ma con degli appunti personali, come confermato dallo stesso su richiesta dei difensori. Appunti che non fanno parte degli atti di indagine e il cui utilizzo è stato, dunque, contestato dalle difese. I giudici, dopo 30 minuti di camera di consiglio, hanno concluso che quegli appunti, in quanto atti comunque a firma dell’operante, sono utilizzabili, benché si tratti di «un atto privato del testimone», consentendone la consultazione - a posteriori - agli avvocati. «Ma la differenza tra l’atto processuale e l’atto privato è evidente - contesta Mazza -. Si tratta, di fatto, di un documento privato letto durante l’udienza».

LA TESTIMONIANZA

La testimonianza di Milano pone, comunque, delle questioni. La tesi dell’accusa è, infatti, che gli affidi fossero “forzati” per garantire un ritorno economico a famiglie affidatarie e psicoterapeuti. Da qui la contestazione del dolo, che però dalla stessa testimonianza viene quantomeno messo in dubbio. Milano ha infatti confermato la convinzione, da parte degli imputati, dell’esistenza di una “setta di pedofili” operante in Val d’Enza, dalla quale erano intenzionati a proteggere i bambini. Tant’è che è stato lo stesso maresciallo, in udienza, a dire che il fine de “La Cura” era quello di curare i bambini. Delle due, dunque, l’una: o si trattava di un’operazione programmata a tavolino per far guadagnare qualcuno, con un movente economico, o si aveva a che fare con il tentativo di proteggere i bambini da una ipotetica setta. Elemento che farebbe venir meno l’elemento soggettivo del reato contestato.

Bibbiano, un manifesto pro Foti: «Contro di lui metodo antiscientifico». In campo 130 psicoterapeuti in difesa del collega condannato per aver provocato un disturbo borderline con la sua terapia: «Affermazione totalmente priva di fondamento scientifico». Simona Musco Il Dubbio il 13 marzo 2023

Non si può diagnosticare un disturbo borderline di personalità “associato” ad un disturbo depressivo persistente con ansia con un solo colloquio. E ancora: non si può prescindere dai fatti traumatici del passato, specie se mai messi in dubbio: farlo significa assecondare una «deriva antiscientifica». A scriverlo sono 130 psicoterapeuti, firmatari di un manifesto che critica la consulenza che ha portato alla condanna di Claudio Foti, lo psicoterapeuta fondatore della onlus Hansel & Gretel condannato a novembre 2021 in abbreviato a 4 anni nel processo “Angeli&Demoni”, sui presunti affidi illeciti nella Val d’Enza.

Una consulenza fondamentale, nell’economia del processo, perché è proprio su quella base che Foti è stato giudicato colpevole di aver provocato, con la sua terapia, lesioni gravissime ad una giovane di 17 anni, mandata da lui dal Tribunale dei minori di Bologna dopo aver rivelato gli abusi subiti da ragazzina. Nel manifesto, i professionisti - tra i quali Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta fondatore di una fra le più importanti scuole italiane di psicoterapia - non entrano nel merito della vicenda processuale, ma esprimono preoccupazione «per una deriva antiscientifica che mette in pericolo l’esigenza di migliaia di operatori che hanno bisogno di svolgere la propria attività in condizioni di serenità, e migliaia di pazienti che hanno bisogno di credere in una prassi clinica affidabile, governata dallo scrupoloso rispetto delle conquiste della scienza e della professione». La stessa preoccupazione espressa dall’avvocato di Foti, Luca Bauccio, che oggi replicherà in Corte d’Appello alla richiesta dell’accusa di confermare e anzi inasprire la condanna inflitta in primo grado.

Il nocciolo della questione è il metodo utilizzato dalla consulente del pm per arrivare a certificare che siano state proprio le domande formulate da Foti a determinare l'insorgenza di una patologia nella giovane, partendo da un presupposto: la diagnosi è stata effettuata un anno dopo il termine della psicoterapia, con un solo incontro tra la psicologa forense incaricata dal pm e la giovane e senza la somministrazione di alcun questionario.

Ma non solo: «Dopo quell'incontro, nessun altro colloquio si è tenuto, né è stato dato riscontro di cure intraprese dalla paziente successivamente alla diagnosi». Insomma, tutto fuorché una procedura scientifica, dal momento che nella relazione manca anche qualsiasi riferimento alla storia della giovane, ovvero al «riferito episodio di abuso all'età di 4 anni, riferita violenza sessuale all'età di 13 anni, separazione molto conflittuale dei genitori, violenze subite nel contesto familiare dalla madre da parte del padre e da parte del proprio fratello, abbandono per anni da parte del genitore, atteggiamenti di pesante squalifica e colpevolizzazione patiti dal padre, rifiuto e contrapposizione reattivi da parte della ragazza, comportamenti trasgressivi, stati depressivi, interruzione della frequenza scolastica, marcata svalutazione di sé, consumo di sostanze stupefacenti». Eventi verificatisi prima dell'inizio della psicoterapia e sulla cui base il Tribunale per i minorenni l’aveva inviata da Foti.

Nonostante questo, la consulente ha ricollegato il disturbo «alle domande asseritamente induttive dello psicoterapeuta proprio sugli eventi di abuso, eventi che peraltro erano già stati riferiti dalla ragazza, alla stessa madre e in diversi contesti e a diverse figure». Proprio per tale motivo, «noi, studiosi e professionisti, dopo la lettura della consulenza affermiamo in scienza e coscienza che essa ha proceduto alla diagnosi del grave disturbo di personalità borderline senza il rispetto dei criteri indicati dalla procedura prevista dal Dsm V e applicati nella pratica professionale quotidiana da psicologi e psicoterapeuti». La consulenza ha anche ritenuto irrilevanti gli eventi del passato della giovane, nonostante gli stessi «per pacifica e concorde convinzione si collocano con forza causale nella eziopatogenesi del disturbo di personalità borderline o del disturbo depressivo con ansia».

Affermare che un disturbo di personalità possa essere determinato da una ipotetica formulazione di domande suggestive nel corso di una psicoterapia «è un'affermazione totalmente priva di fondamento dal punto di vista scientifico». E il percorso che ha portato la consulente a tale conclusione e «a pronunciarsi su una psicoterapia affermandone il carattere iatrogeno, è frutto di un processo antiscientifico ed aprioristico».

Tra gli studiosi firmatari del manifesto ci sono anche Dante Ghezzi e Georgia Vasio Perilli, supervisori Emdr Europe Association, che hanno analizzato le videoregistrazioni della terapia svolta da Foti sulla giovane che sarebbe stata vittima del suo “metodo”. Analisi messa nero su bianco in un documento, nel quale viene sottolineato come Foti «abbia applicato correttamente ed efficacemente il metodo Emdr», sotto la supervisione di Luca Ostacoli, esponente di spicco di tale disciplina. La conclusione è semplice: lo psicoterapeuta ha proceduto con «delicatezza» e «correttezza», nonché con «il dovuto atteggiamento neutrale», tant’è che la stessa paziente, nell’ultima seduta, «esclude decisamente che il lavoro svolto col dottor Foti possa avere suscitato un odio verso il padre prima inesistente», affermando di essere più consapevole del proprio passato, ma di non provare, per ciò, maggiore malessere: «Adesso non lo sento più questo dolore - ha infatti affermato la giovane -, c’è, però non così tanto da pensare di uccidermi». Proprio per tale motivo, secondo i due esperti, «il comportamento di Foti» durante le sedute «si è rivelato non induttivo, efficace e corretto». L’esatto contrario di quanto sostenuto in un’aula di giustizia.

Bibbiano, il processo mediatico? Per Paci è colpa delle difese. Il procuratore: «Pm messa in discussione sulla stampa, spostando il recinto del processo su una funzione mediatizzante». Simona Musco su Il Dubbio il 16 febbraio 2023.

Il procuratore di Reggio Emilia Calogero Gaetano Paci “attacca” le difese del processo Angeli&Demoni, sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Con un’accusa di mediatizzazione che arriva nel momento in cui il procedimento è pubblico e, dunque, accessibile ai media - che cozza con il clima da tribunale mediatico che ha caratterizzato la fase delle indagini, tale da spingere il gip a revocare le misure cautelari ai due principali indagati «proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità».

Paci ha scelto di intervenire in prima persona in aula, a difesa dell’indagine e della collega Valentina Salvi - titolare dell’inchiesta - puntando il dito contro le difese, che nella scorsa udienza avevano criticato alcune scelte della pm. Prima fra tutte quella di contestare alcune specifiche aggravanti - la relativa questione sollevata dalle difese è ancora sub iudice - in relazione alle accuse di falso e lesioni.

Nel primo caso, la procura ha infatti contestato l’aggravante prevista dall’articolo 476 comma 2 - “Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni” -, contestabile relativamente agli atti fidefacenti. Nel secondo, invece, Salvi ha spostato avanti la consumazione delle lesioni, facendole diventare continuate. Una mossa, secondo le difese, dettata dall’esigenza di evitare la prescrizione, «una modifica strumentale ed abusiva per tenere in vita il processo», aveva commentato subito dopo l’udienza Oliviero Mazza, difensore, assieme a Rossella Ognibene, dell’ex assistente sociale Federica Anghinolfi, principale imputata del processo. Gli imputati hanno ora tempo fino al 20 marzo per decidere se andare avanti con il rito ordinario o scegliere riti alternativi.

La difesa aveva però anche contestato a Salvi una “svista”, ovvero quella di aver depositato una memoria che conteneva tra gli allegati atti di indagine non consentiti dalla procedura, come trascrizioni di chat, parti di relazioni dei periti e sommarie informazioni testimoniali che i giudici avrebbero dovuto conoscere soltanto durante il dibattimento. Documenti poi rimossi da Salvi - così come ritenuto corretto anche dalla Corte -, che ha giustificato l’errore parlando di «refuso».

Da qui la contestazione delle difese, alle quali ieri ha risposto Paci, secondo cui il presunto errore commesso dalla pm non sarebbe da considerare tale, in quanto sarebbe giusto far conoscere tali atti al Tribunale. Secondo il procuratore dai banchi degli avvocati sarebbe arrivata, dunque, «una serie di riferimenti a mio giudizio non solo sgradevoli sul piano della dialettica processuale, ma anche pesantemente offensivi e delegittimanti della pubblica accusa da parte di alcuni avvocati».

Che avrebbero messo in discussione la procura, nonostante la tenuta delle accuse nelle fasi cautelari e preliminari del dibattimento. «La mia non è una difesa d’ufficio perché il capo di un ufficio giudiziario ha il dovere di intervenire quando la credibilità e la professionalità di un magistrato viene messa indebitamente, scorrettamente in discussione anche attraverso articoli di stampa, spostando il sacro rispetto del recinto del processo su una funzione mediatica e mediatizzante. Nulla di più scorretto dunque», ha sottolineato, contestando il «vaso comunicante che è evidente si sia venuto a creare tra il processo e il suo palcoscenico, cioè la stampa».

Parole che hanno fatto saltare sulla sedia il professore Mazza. «Mi sorprende l’affermazione del procuratore in merito agli atti erroneamente depositati dalla pm - ha commentato al Dubbio -, in quanto contraria alla filosofia del codice, che è fondata sulla separazione delle fasi. Ho trovato questo intervento decontestualizzato, in quanto non era il momento per fare una requisitoria sul processo Bibbiano, né quello di fare una difesa d’ufficio della dottoressa Salvi. Il discorso verteva sulle questioni preliminari, invece ho sentito un discorso di politica giudiziaria».

Ma la cosa peggiore, a dire del legale, è stata l’attacco alle difese, accusate di portare avanti una strategia di mediatizzazione del processo. «Di fronte a questa accusa rimango sconcertato - ha aggiunto -. Sappiamo tutti quanto sia stata mediatica la fase delle indagini. Il dibattimento è pubblico, dunque tutto quello che accade in aula è destinato a defluire sulla stampa. Viceversa, le indagini dovrebbero essere condotte in segreto e nonostante questo ricordo perfettamente di aver ascoltato le intercettazioni al telegiornale delle 20. L’accusa di utilizzare la sponda mediatica in un momento in cui gli atti sono pubblici e non quando gli atti erano ancora segreti mi pare assurda. È giusto che la libera stampa possa interrogarsi sui fatti che hanno portato a questo giudizio e anche sulle modalità di conduzione delle indagini».

I giudici hanno infine accolto la richiesta dell’avvocata Ognibene di acquisire le relazioni originali degli assistenti sociali, che secondo l’accusa sarebbero state modificate per pilotare gli affidi e dimostrare i presunti abusi

Bibbiano, parla la difesa: «Il processo mediatico adesso lo vogliamo noi». Polemica dopo che il Tribunale ha negato l’accesso in aula dei media. Ma l’altro difensore: «Basta spettacolarizzazioni». Simona Musco su Il Dubbio il 16 dicembre, 2022.

Due posizioni diverse, entrambe contro la gogna mediatica, ma diametralmente opposte. Al processo “Angeli e Demoni”, sul presunto sistema di affidi illeciti di minori nella Val d'Enza, a tenere banco è stata la richiesta al collegio di trasmettere in “diretta” video le udienze. Richiesta alla quale le difese dei due principali imputati - gli assistenti sociali Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli - hanno risposto in modo completamente diverso, nella convinzione, nel primo caso, che mostrare all’opinione pubblica le prove sia un modo per ripristinare il corretto racconto dei fatti e nel secondo che le telecamere non possano far altro che rappresentare un’ulteriore spettacolarizzazione di una vicenda diventata ormai simbolo della violazione della presunzione di innocenza.

Il collegio, alla fine, ha ritenuto di escludere le riprese del dibattimento, puntando proprio sul clamore mediatico suscitato dall’inchiesta, che per mesi ha tenuto banco sui giornali diventando anche il tema principale di un’intera campagna elettorale. Da qui la scelta di chiudere le porte alle telecamere, per evitare un potenziale pregiudizio alle testimonianze e che i testi possano essere esposti ad attacchi e giudizi del pubblico. Un rischio concreto, come dimostrano i casi di minacce ai danni di assistenti sociali e imputati e le clamorose parole del gip che all’epoca revocò le misure cautelari per i due imputati: «Proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità», scriveva il giudice, il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via scemando». La stampa potrà ovviamente seguire il processo e fare foto in aula - ad esclusione dei soggetti che neghino il consenso -, ma le riprese saranno consentite solo nel corso delle udienze precedenti all’apertura del dibattimento.

La posizione di Mazza e Ognibene

A difendere Anghinolfi, ex dirigente dei servizi sociali della Val d’Enza, alla quale la procura contesta 64 capi d’imputazione sui 108 totali, sono il professore Oliviero Mazza e Rossella Ognibene. Che ieri hanno espresso la convinzione che sia necessario trasformare il Tribunale di Reggio Emilia in una “casa di vetro”, per ripulire dal fango, dopo anni di strumentalizzazioni, l’immagine della propria assistita, dipinta come un mostro sui giornali senza possibilità di contraddittorio. Il processo, infatti, è stato già celebrato sulla stampa, che nell’annunciare la prima udienza, lo scorso 8 giugno, annunciava con certezza l’apertura del processo ai “ladri” di bambini.

Un’intollerabile violazione della presunzione di innocenza, ma anche un giudizio inappellabile, che la difesa intende smontare con i fatti. Secondo Mazza, infatti, «la gogna mediatica c’è già stata ed è stata inesorabile - spiega al Dubbio -. Trasmettere il processo in video significherebbe fare un’operazione verità e quindi riabilitare la nostra assistita attraverso la conoscenza dei fatti, non più mediata dall’accusa ma direttamente dal contraddittorio dibattimentale. Ciò non sarà possibile: le telecamere dovranno rimanere fuori. Certo, ci saranno i giornalisti, ma i giornali si sono dimostrati, nella maggioranza dei casi, già schierati». Mazza ricorda infatti che «la stampa è il medium e il medium è un tramite. Sarebbe stato meglio che ciascuno potesse farsi un’opinione seguendo il processo».

Anche perché nel racconto del caso “Bibbiano” - definizione che rappresenta un’altra strumentalizzazione della vicenda, con l’inutile demonizzazione di un’intera cittadina - ci sono stati due filtri: «Quello a monte, che è la procura, e quello a valle, che è la stampa, che ha dato voce solo alla versione dei fatti fornita dagli inquirenti. Invece credo che una conoscenza diretta delle prove vere, quelle dibattimentali e non quelle di indagine, sarebbe stata opportuna - sottolinea Mazza -. Evidentemente il Tribunale non la pensa così». Se una limitazione doveva esserci, aggiunge il legale, la ragione stava altrove: ovvero nella presenza, nel processo, di minori, che di fatto vanno tutelati, anche a scapito del diritto di cronaca. Questa ordinanza, invece, «vuole preservare la verginità conoscitiva dei testimoni. Ma se queste sono le ragioni - conclude Mazza - viene di fatto abrogato l’articolo 147 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, perché in tutti i processi si ravvisa questa esigenza».

L’obiezione di Canestrini

L’assistente sociale Monopoli, invece, è assistito dall’avvocato Nicola Canestrini, che sulla questione ha una posizione completamente diversa. «La pubblicità del processo è un tratto distintivo di ogni Stato di diritto e quindi va celebrato indubbiamente a porte aperte. Ma quando diventa spettacolarizzazione e quindi nuoce alla genuinità dello svolgimento dibattimentale pone un problema - spiega al Dubbio -. Per questo mi sono opposto alle riprese. La pubblicità del processo non serve a soddisfare i pruriti del pubblico o di qualche giornalista, ma serve per avere garanzia di trasparenza».

Ma quali sono le conseguenze per gli altri processi? La posizione di Canestrini è netta: «Vedere al tg, magari all’ora di cena, spezzoni, magari emotivamente molto forti o di impatto, di un processo in corso influenza il processo stesso. Mi sta bene che le riprese vengano trasmesse a processo finito e anzi sono d’accordo a raccogliere le immagini del dibattimento in un documentario - aggiunge -, ma credo che il real time vada escluso da tutti i processi». Diverso, secondo il legale, il discorso per la radio, data la minore capacità suggestiva ed evocativa rispetto al video. «Sarei d’accordo, ad esempio, che ci fosse Radio Radicale - sottolinea -, perché sono convinto che la diversità del mezzo sia garanzia di una diversa gestione delle informazioni ricevute. In ogni caso, sono contento che ci siano posizioni diverse, sostenute da colleghi che stimo, perché questo potrebbe fungere da stimolo per altri avvocati a trovare una posizione di sintesi. La verità, d’altronde, sta sempre nel contraddittorio».

Da open.online il 7 giugno 2023.

Per conoscere i motivi dell’assoluzione dello psicoterapeuta Claudio Foti nel caso Bibbiano bisognerà attendere altri tre mesi. Ma intanto i 4 anni di pena che il fondatore della Onlus “Hansel e Gretel” aveva ricevuto per i reati di abuso d’ufficio e lesioni gravissime sono cancellati. Era il 27 giugno del 2019 quando il suo nome venne indicato nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti nella val d’Enza. 

A quasi quattro anni di distanza lui dice che «hanno vinto verità e giustizia». Ma non dimentica: «Mi hanno persino accusato di vestirmi da lupo per spaventare i bambini». E rimpiange: «Tutto ciò che ho creato è andato distrutto. Ho dedicato anima e cuore per far nascere il centro Hansel & Gretel e la gogna mediatica di questi anni l’ha raso al suolo. Mi hanno accusato di lesioni, proprio io che invece ho sempre difeso i bambini».

Una poltiglia di menzogne

Nell’intervista che oggi rilascia a La Stampa Claudio Foti dice che non dimenticherà mai il giorno dell’arresto: «Vennero a prendermi davanti ai miei figli. Ho subito quattro anni di mortificazioni e nei primi sei mesi la gogna mi ha accompagnato in tutte le giornate. Per difendermi ho dovuto portare in tribunale una valanga di prove: dossier, video, testimonianze. È stato estenuante». E nel colloquio con Antonio Giaimo ribadisce: «In questi anni è stata criminalizzata la psicoterapia del trauma, è stata accreditata la narrazione dei bambini rubati alle loro famiglie per essere dati in pasto a coppie omosessuali. Una poltiglia di menzogne, cultura razzista, speculazione politica. 

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Le responsabilità della politica

Secondo lo psicoterapeuta «si voleva dimostrare che Claudio Foti era contro le cosiddette politiche per la famiglia che alcuni partiti sventolavano come loro vessillo». Per esempio «Matteo Salvini venne a Bibbiano a tenere un comizio, mostrava l’immagine di un bimbo portato via alla famiglia. Era falsa. Ancora una volta menzogne che suscitano indignazione: voleva essere un attacco mortale a un gruppo sociale». 

Foti fa l’elenco delle accuse: «Ci paragonavano a ladri di bambini, meccanismi che fanno perdere di vista la realtà dei fatti. Mi hanno messo alla gogna pubblica. Le voglio ricordare uno dei tanti episodi che ho vissuto in questi quattro anni: sono stato cacciato da un ristorante di Reggio Emilia proprio per come ero stato dipinto da alcuni personaggi politici». E ricorda che anche il Movimento 5 Stelle se l’è presa con lui: «Già, il Pd partito di Bibbiano, diceva Luigi Di Maio. Poi ci è andato al governo insieme, ben due volte».

La riabilitazione

Foti dice che dell’esperienza gli rimarranno dentro «le madri dei bambini che ho curato e conosciuto da vicino. Ecco, la loro stima e fiducia sono rimaste ed è doveroso fare una riflessione: solo chi ti conosce da vicino ti può giudicare e certe affermazioni quindi sortiscono il loro effetto solo su chi si ferma ad un livello superficiale dei fatti». Mentre adesso «tutto il mio lavoro di decenni è andato distrutto. Ma non finisce qui. Non può finire qui. In questi anni ho scritto molto, adesso è il momento di dare il via a tutta una serie di iniziative. Da questo paese non voglio un risarcimento economico. Voglio un risarcimento culturale. Girerò l’Italia per raccontare la mia storia. Il primo appuntamento in agenda è giovedì (domani, ndr). Presenterò il mio libro: “Bibbiano, dubbi e assurdità”. E mi batterò perché tutti quelli che hanno raccontato delle bugie su di me e sul mio lavoro ne rispondano».

Eppur si sconfessa. Parliamo di Bibbiano, ma anche dell’ipocrita abiura giudiziaria. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta l'8 Giugno 2023

La corte di appello di Bologna ha assolto lo psicologo Claudio Foti dal reato di abuso d’ufficio «per non aver commesso il fatto». Ma la sua vicenda non è un caso di malagiustizia, è un pentimento della propria condotta scientifica per evitare una pena pesante

Claudio Foti, lo psicologo di Moncalieri, propugnatore del metodo verificazionista nei processi per abusi sui minori (la teoria per cui ogni forma di disturbo e disagio psicologico, nasconde un abuso) è stato assolto in appello dai giudici di Bologna dopo essere stato condannato in primo grado per i reati di lesioni personali in danno di una paziente e di abuso d’ufficio per i finanziamenti pubblici percepiti per la sua attività nei consultori della Val d’Elsa

Il professionista era stato arrestato quattro anni fa nell’ambito di una indagine condotta dalla Procura di Reggio Emilia che lo aveva accusato di aver utilizzato metodologie e terapie scorrette per la cura di minori sofferenti, nel corso di cause civili per l’affido dei minori.

In particolare l’attenzione dei procuratori si era focalizzata sul rapporto con una giovane paziente cui Foti, secondo l’accusa, avrebbe sollecitato falsi ricordi di violenze subite dal padre, ricorrendo anche in modo scorretto ad una discussa terapia (EMDR) e causando uno stato di forte soggezione semi-ipnotica. A sostegno dell’accusa vi erano le registrazioni di diverse sedute con vari pazienti, alcune delle quali prodotte dalla stessa difesa di Foti che i pm ed il Tribunale del Riesame avevano ritenuto costituissero rilevanti prove a carico.

La corte di appello di Bologna ha assolto Foti dal reato di abuso d’ufficio «per non aver commesso il fatto» (il che non suona benissimo per l’altro imputato di rilievo, l’ex sindaco di Bibbiano Carletti) e dalla più grave accusa di lesioni volontarie «perché il fatto non sussiste».

Non essendoci ancora le motivazioni, si possono fare ipotesi sul ragionamento seguito dai giudici di secondo grado: per l’accusa più importante che investe la credibilità e perizia professionale dell’imputato ci si può basare sulla sua stessa linea difensiva. Ebbene si può ben dire che il prof. Foti per essere assolto ha rinnegato le sue teorie “scientifiche” ed abiurato ai principi, evidentemente non granitici.

Nel corso del processo la sua difesa si è basata su una consulenza redatta dal noto psicologo infantile Luigi Cancrini sostenuta e condivisa da un manifesto sottoscritto da centotrenta colleghi che hanno denunciato come «antiscientifica» la tesi dell’accusa (anch’essa corroborata da consulenze tecniche di due stimate psicologhe che hanno esaminato le pazienti di Foti ed analizzato le sue sedute) secondo cui il disturbo della personalità rinvenuto su una persona in cura dallo psicologo fosse di origine «iatrogena», vale a dire causato dalla terapia adottata dal medico.

Secondo i colleghi di Foti mancherebbe ogni evidenza scientifica che possa dimostrare con certezza il legame tra un trauma e una terapia psicologica, ma v’è di più: nel manifesto gli specialisti sostengono che «quanto allo sviluppo di un Disturbo Borderline di Personalità esso è legato, nel parere unanime di tutti gli studiosi che se ne occupano, da cinquant’anni a questa parte, a una serie di eventi sfavorevoli e di fattori relazionali e ambientali tutti purtroppo, bene documentati nella storia della paziente e tutti in grado di determinare quel Disturbo».

Ebbene, il prof. Foti ed i seguaci della sua scuola di pensiero (molti dei quali facenti parte dell’associazione Cismai) hanno in centinaia di consulenze presso gli uffici giudiziari di tutto il paese sostenuto per anni l’esatto contrario e cioè che i disturbi borderline nei minori hanno nella maggior parte una precisa origine in abusi sessuali occultati o rimossi e che dunque la missione dello specialista fosse quella di farli emergere anche contro la volontà del paziente.

Come bene ha spiegato Giuliana Mazzoni, una delle più importanti studiose internazionali di psicologia infantile, «sposano l’approccio teorico pantraumatico che in Italia è rappresentato dall’idea che le forme di abuso sessuale e fisico, di maltrattamento e di incuria siano endemiche nel contesto del nostro Paese e abbiano pertanto un’incidenza molto elevata nella popolazione generale».

Oggi i sostenitori di Foti hanno dichiarato il contrario: che un disturbo può essere legato «a una serie di eventi sfavorevoli e di fattori relazionali e ambientali (…) tutti in grado di determinare quel Disturbo». Benissimo: ci si augura dunque che la drammatica esperienza processuale del dottor Foti sia utile a lui ed ai suoi estimatori per evitare in futuro tragici errori giudiziari che sono costati vite spezzate (a partire dalla famigerata vicenda di Rignano Flaminio) senza neanche il conforto di una tardiva assoluzione.

Circa le terapie del dott. Foti, va anche ricordato che la testimone al processo Isabel Fernandes, presidente dell’associazione EMDR Italia, non ha esitato denunciare e sconfessare lo psicologo in aula sull’uso fatto della procedura, affermando che «Quella di cui mi è stata data lettura non costituisce terapia EMDR in quanto ben lontana dal protocollo dell’EMDR».

Ci si scuserà, dunque, se per tali motivi si faccia fatica a salutare nel dottor Foti un epigono di Enzo Tortora, Aldo Braibanti e Galileo Galilei: certamente la scienza non può essere piegata ai teoremi giudiziari ma deve valere per tutti, anche per le decine e decine di genitori innocenti condannati e privati dei figli.

A proposito di epigoni di Galileo, insieme con quella di Foti, è giunta anche l’abiura della Juventus all’idea della Superlega esternata in un goffo comunicato, quasi fantozziano. Una pubblica esibizione da “battenti” autoflagellanti. Al contrario del pentimento del dottor Foti, questa è una pessima notizia per chi crede nei valori della libera concorrenza. Essa è l’effetto di un uso parziale della giustizia e conferma, semmai ce ne fosse bisogno, l’origine e la finalità della vicenda. Un importante foglio sportivo spagnolo (Diario As) cita espressamente «gravi minacce» di maxi squalifiche pluriannuali dell’ineffabile boss della Uefa Ceferin.

Ci ritorneremo, per ora diciamo – come insegnamento di ordine generale – che le idee, anche quelle più sbagliate, non meritano un processo, nessun tipo di processo. Il garantismo è questo.

Bibbiano, il procuratore Paci: «Tutti i bimbi sono tornati a casa, era giusto indagare». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 7 Giugno 2023

Dopo l’assoluzione dello psicologo Foti: «I fascicoli per abusi sessuali, salvo uno, a carico dei genitori e usati per l’affidamento sono stati archiviati: dimostra la correttezza delle indagini» 

«Il caso Bibbiano dopo l’assoluzione di Foti? C’è un dato di fatto: tutti i fascicoli, salvo uno, per abusi sessuali istruiti a carico dei genitori e usati come presupposto per l’affidamento dei minori sono stati archiviati: ciò dimostra la correttezza delle indagini e la genuinità dei dati probatori acquisiti nell’inchiesta».

Quanti erano i fascicoli?

«Otto. Sette archiviati, uno è a giudizio per atti sessuali con una ragazza sotto i 14 anni: ma l’allontanamento di lei dalla famiglia era stato giustificato da presupposti falsi».

In sintesi: si può dire che tutti i bimbi abbiano lasciato le famiglie in affido per fare rientro in quelle naturali?

«È proprio così. Alcuni dopo cinque anni dall’allontanamento».

Gaetano Paci è procuratore a Reggio Emilia dal maggio 2022. Ha ereditato l’indagine «Angeli & Demoni», quella sui finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d’Enza per togliere i bambini a famiglie deboli e affidarli (con aiuti mensili sino a 1.300 euro) ad altre coppie giudicate più adatte. Due i processi istruiti: a Reggio c’è quello in primo grado che vede a giudizio 17 imputati tra assistenti sociali, psicoterapeuti e amministratori. E a Bologna martedì è stato assolto in Appello lo psicoterapeuta Claudio Foti, difeso da Luca Bauccio, che aveva scelto l’abbreviato. Accuse azzerate «per non aver commesso il fatto» con riferimento all’ abuso di ufficio, e «perché il fatto non sussiste» riguardo le lesioni volontarie su una minorenne inflitte per far affiorare il ricordo degli abusi. «Violenze di cui la ragazza non rammentava nulla — puntualizza Pace — ed erano state escluse con archiviazioni, su richiesta della Procura Minorile e di quella ordinaria, accolte dai rispettivi Gip».

I vostri prossimi passi?

«Come ha detto la procuratrice generale di Bologna Lucia Musti attenderemo le motivazioni della sentenza per valutare il convincimento della Corte con cui è stato riformato il provvedimento di primo grado. Ma un dato bisogna evidenziarlo già da ora».

Quale?

«L’assoluzione per entrambi i reati è ai sensi del secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale che dà la facoltà al giudice di pronunciarla quando, pur ritenendo sussistente la prova dei fatti, questa non è ritenuta completa o univoca».

Parliamo della vecchia formula dell’assoluzione per insufficienza di prove.

«Esatto. Vuol dire che il giudice non ha escluso radicalmente i fatti perché altrimenti avrebbe pronunciato l’assoluzione ai sensi del primo comma del 530 che prevede una serie di cause di assoluzione con formule tassative che ruotano tutte attorno all’insussistenza del fatto».

Dopo l’esito della lunga camera di consiglio Foti ha detto: «Ha vinto la giustizia».

«Comprendo umanamente la sua reazione ma il fatto che ci si stata l’assoluzione non vuol dire che venga meno l’impianto dell’intera indagine».

Torniamo al giugno 2019: dopo le 17 misure cautelari divampa il «caso Bibbiano».

«Fu un’indagine imponente, condotta in tempi rapidissimi grazie alla pm Valentina Salvi e ai carabinieri di Reggio dopo le prime notizie di reato giunte nel 2018, quelle afferenti gli abusi sessuali segnalati dai Servizi della Val d’Enza ma che poi si rivelarono insussistenti. Ciò grazie a fonti di prova orali, documentali e intercettive provenienti dagli stessi imputati. Fonti di prova che hanno retto davanti al Riesame, che ha riconosciuto la sussistenza del delitto di abuso di ufficio per cui Foti è adesso stato assolto, e alla Cassazione, che si è pronunziata esclusivamente sulle esigenze cautelari nei confronti di altro coimputato».

Sullo sfondo del «caso Bibbiano» resta la questione degli affidi, delicatissima...

«Ecco, teniamo conto che se l’articolo 403 del codice civile che disciplina la materia è stato riformato è perché sono state recepite tante indicazioni emerse dall’indagine reggiana che evidenziava come gli affidamenti avvenissero sulla base di documentazione riservata alla quale le parti non avevano accesso e non potevano esprimere alcuna valutazione in contraddittorio. Nemmeno erano previsti tempi contingentati entro i quali il giudice poteva ratificare le decisioni. È cambiato un bel po’, da allora».

Bibbiano, crolla un’altra fake sull’affido di una bambina. Angeli&Demoni, smentita la presunta relazione tra la principale imputata del processo, Federica Anghinolfi, e una delle madri affidatarie: era stata una fonte anonima a rivelarla, ma nessuno aveva verificato. Simona Musco su Il Dubbio il 15 giugno 2023

La relazione tra Federica Anghinolfi e una delle madri affidatarie di Bibbiano? Non c’è mai stata, ma a dirlo ai carabinieri era stata una fonte confidenziale, le cui affermazioni non sono però mai state verificate. È quanto emerso ieri a Reggio Emilia nel processo Angeli& Demoni, dove a rispondere a vario titolo di aver messo in piedi un sistema di affidi illeciti sono 17 persone. Ad ammetterlo, in aula, il maresciallo dell’Arma Giuseppe Milano, superteste dell’accusa, che su sollecitazione dei legali della difesa di Fadia Bassmaij e Daniela Bedogni, le due madri affidatarie della giovane Martina (nome di fantasia), ha confermato che la relazione tra quest’ultima e Anghinolfi, principale imputata del processo e responsabile dei servizi sociali dell’Unione della Val d’Enza, in realtà non è mai esistita.

Ciononostante, su segnalazione di una fonte anonima, era questa l’informazione contenuta nell’informativa che ha dato il via alle indagini, consentendo le intercettazioni - le uniche relative alle famiglie affidatarie telefoniche e ambientali, tra le quali la famosa lite in auto con la ragazzina che ha indignato l’intero Paese. Ma le intercettazioni usate dall’accusa per testimoniare un rapporto poco empatico tra le due donne e la giovane sarebbero pochissime a fronte di quelle, come ammesso dallo stesso Milano, che testimoniano un rapporto tutt’altro che abusante.

La presunta relazione mai esistita sulla cui base sono state anche emesse le misure cautelari - si è trasformata, nel capo d’accusa, in una relazione amicale, nata, però, soltanto nel momento in cui avviene l’affido, ovvero nel 2016. «Dal controesame è emersa la buonafede delle affidatarie - ha spiegato Andrea Stefani, difensore, assieme a Valentina Oleari Cappuccio, di Bassmaji e Bedogni -. Milano ha confermato che non solo non è stata accertata la falsità di nessuna delle relazioni e dei contenuti trasmessi ai servizi, ma che è stata anzi accertata la corrispondenza al vero di molti di quei contenuti che poi, secondo Milano, venivano in parte travisati nelle relazioni». Altro dato rilevante è la contestazione di maltrattamenti, che si basa anche su alcune intercettazioni in cui vengono registrati alcuni accessi d’ira da parte delle due donne, che cercavano di spingere la ragazzina ad aprirsi con la psicologa per spiegare cosa le fosse accaduto. La difesa ha chiesto, a fronte delle dieci intercettazioni citate da Milano, quante altre conversazioni dimostrassero un atteggiamento di amore nei confronti di Martina. «Milano ha ammesso che erano molte di più e che la relazione di cura e affetto nei confronti della minore è dimostrata da documenti e intercettazioni - spiega ancora Stefani -. In un’accusa di maltrattamenti, la più strana vista in vita mia, direi che è un dato rilevante. Alzare la voce solo dieci volte con una ragazza pre-adolescente credo possa capitare a qualsiasi genitore, affidatario o no. Costruire su questo un’accusa di maltrattamenti mi sembra l’effetto di una pesca a strascico fatta, come tante volte accade, con intercettazioni disposte senza particolare ragione».

Altra accusa è il concorso dell’estraneo nell’abuso d’ufficio che sarebbe stato commesso da Anghinolfi nell’attribuzione di una quota doppia per l’affido della ragazza, in merito al quale Milano ha confermato che non risulta alcuna consapevolezza, da parte di Bassmaji e Bedogni né della presunta contrarietà alle linee guida né di un accordo collusivo con la dirigente dei servizi né di pressioni da parte delle affidatarie, che si limitavano a presentare una richiesta di fronte alle difficoltà nella gestione della ragazza, che necessitava anche di una baby sitter per fare i compiti. Da qui la quota doppia che coprisse anche questa spesa. Ma non solo: l’unica circostanza di fatto tra quelle riferite ai servizi e agli psicologi dalle affidatarie considerata falsa, perché smentita da Martina davanti alla psicologa - ovvero quella di sevizie e comportamenti sessualizzati, da parte della ragazzina, nei confronti degli animali domestici -, sarebbe in realtà dimostrata dai diari della stessa. Pagine in cui, ben due anni prima della terapia, Martina spiega dettagliatamente almeno quattro episodi nei confronti del gatto e del cane domestici. Tutte prove trascurate nel corso delle indagini e che hanno portato ad accusare le due donne di aver inventato tali circostanze. «Costruire su questo un’accusa di falsità nella relazione e di aver instillato falsi ricordi nella bambina mi sembra assurdo», aggiunge Stefani.

Martina è anche la ragazzina che aveva personalmente contattato i carabinieri affermando di essere stata lasciata sola in casa, circostanza confermata da Milano e già documentata dal Dubbio sulla base delle relazioni dei militari intervenuti. Non si trattava della prima volta di Martina con i servizi sociali: era stata la stessa madre, pochi mesi dopo la nascita della bambina, a chiedere di essere aiutata a trovare un nuovo alloggio, dicendosi «spaventata» e dichiarando di non voler tornare a casa del marito.

Una situazione determinata dal rapporto conflittuale tra madre e padre con tanto di denunce per lesioni dolose in famiglia - e un percorso di convivenza molto difficile, al punto che più volte i carabinieri di Bibbiano sono stati chiamati ad intervenire per sedare le liti tra i due. Nella relazione di quel giorno di giugno 2016, i servizi sociali raccontarono di una casa «trascurata», con «cibo avariato lasciato sui mobili da diversi giorni e disordine generale».

Un falso, secondo l’informativa consegnata al pm dagli investigatori, ma la circostanza era confermata dai due carabinieri intervenuti, che sentiti a sommarie informazioni avevano parlato di «un disordine diffuso composto da stoviglie non lavate e non riordinate e residui di cibo su alcuni piatti lasciati all’interno del lavandino e sul piano di lavorazione della cucina». Insomma, proprio quanto riportato dalla relazione a firma dell’assistente sociale Francesco Monopoli, contestata come falsa.

A intervenire ieri in aula anche il legale di Monopoli, Nicola Canestrini, che ha chiesto conto a Milano dell’intercettazione tra lui e il suo assistito nel corso delle indagini. Una conversazione di 8 minuti e 52 secondi perfino trascritta, nonostante sia vietato dalla legge, in virtù della quale Canestrini ha presentato un esposto disciplinare nei confronti di Milano, poi archiviato. «Non mi stupisce che sia stato archiviato - spiega Canestrini -, perché in Italia c’è un atteggiamento poco rispettoso nei confronti del diritto alla difesa.

Ciò è solo la dimostrazione che i rimedi interni non servono a niente, non spaventano nessuno, perché vengono tutti archiviati». Il legale ha anche contestato che le sit stilate da Milano riportano solo le risposte e mai le domande, impedendo di verificare se le stesse siano state suggestive. Una “leggerezza” che lo stesso maresciallo è stato costretto ad ammettere.

Bibbiano, crolla un’altra fake: nessun “elettroshock” sui bambini. Angeli&Demoni, la perizia: la “macchinetta dei ricordi”? Pericolosa come una canzone in cuffia. E per trovare le certificazioni Ce bastava cercare su Google. Simona Musco su Il Dubbio il 28 giugno 2023

La macchinetta dei ricordi di Bibbiano? Una roba innocua. Di più: la certificazione Ce risultata inesistente - e che l’avrebbe resa quindi irricevibile sul mercato europeo - in realtà si trova sul sito della stessa azienda, com’è possibile appurare con una semplice ricerca su internet.

Il processo Angeli&Demoni sui presunti affidi illeciti in val d’Enza continua a regalare colpi di scena. L’ultimo oggi, quando testimonianze apparentemente “innocue” si sono rivelate particolarmente pregnanti. La più rumorosa è stata forse quella di Michele Vitiello, consulente informatico e forense e perito dell’accusa, autore della perizia sulla cosiddetta “macchinetta dei ricordi”, ovvero il dispositivo NeuroTek utilizzato dalla psicoterapeuta Nadia Bolognini nelle sue sedute di Emdr con i bambini. Un aggeggino risultato incapace di fare alcun male ma spacciato, sulle prime pagine di tutti i giornali esattamente quattro anni fa, come una macchina per l’elettroshock, strumento di tortura per instillare nella mente di piccoli innocenti ricordi di falsi abusi.

Stando alla relazione di Vitiello, che ha mostrato il funzionamento della macchina in aula, l’unico possibile rischio risiederebbe nella diversa modalità di alimentazione tra Italia e Usa. Un rischio che si basa sul presupposto di una sua impossibilità a stare sul mercato europeo. Ma per usale tale macchinetta non serve necessariamente un’alimentazione: funziona anche con una comune batteria da 9 volt, “legale” anche in Italia. Non solo: già dal 2011 - quindi otto anni prima dell’inchiesta - sul sito erano reperibili le certificazioni di conformità alle direttive europee sul basso voltaggio e sulla compatibilità elettromagnetica. I legali di Bolognini, Roberto Trinchero e Francesca Guazzi, hanno annunciato che nelle prossime udienze depositeranno tutta la documentazione che proverebbe la conformità del prodotto alla normativa europea.

Ma al netto della parte burocratica, ciò che emerge dalla relazione di Vitiello è che «le vibrazioni emesse dal macchinario non provocano danni all’utente», così come «l’intensità del segnale elettrico generato nelle cuffie al massimo della potenza è pari ad una canzone ascoltata col cellulare in cuffia». Dunque «non ha conseguenze negative per la salute del soggetto esposto» e «non emette campi elettromagnetici significativi». L’avvocato Trinchero ha anche contestato, in aula, la formulazione dell’incarico affidato dalla pm Valentina Salvi a Vitiello, che nell’allegare gli audio della seduta da analizzare aveva intitolato uno di essi «lavaggio del cervello con macchinetta dei ricordi». «Non ci facciamo influenzare», ha assicurato la presidente del collegio, Sarah Iusto, alla quale Vitiello ha confermato che l’unico rischio era dato dall’assenza di certificazione europea. «L’avete cercata?», ha chiesto Trinchero, domanda alla quale Vitiello ha risposto evasivamente: «Il marchio comunque non c’era».

Proprio il presunto - e poi tardivamente smentito - elettroshock praticato sui bambini era stato uno dei motivi di accanimento contro Andrea Carletti, sindaco di Bibbiano inizialmente associato da un comunicato stampa anche alle vicende relative agli affidi e accusato solo di abuso d’ufficio. Ma a certificare le sue intenzioni ci ha pensato un altro teste dell’accusa, Lorenza Rossi, agente di commercio alla quale gli assistenti sociali Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli, gli psicoterapeuti Claudio Foti e Nadia Bolognini e il sindaco Carletti - difeso da Giovanni Tarquini e Vittorio Manes - si erano rivolti allo scopo di individuare una struttura ricettiva da trasformare in casa famiglia. Qual era, si è chiesta la pm, l’atteggiamento di Carletti rispetto al progetto? «Partecipava alle riunioni perché era stato evidenziato il problema che c’era in Val d’Enza», ovvero un aumento significativo di segnalazioni di abuso (non solo sessuale). Insomma, stando a quanto detto da Rossi il suo intento era quello di aiutare i bambini.

L’accusa ha tentato di dimostrare i costi eccessivi della terapia effettuata a Bibbiano portando in aula Filippo Tinelli, psicoterapeuta presso un piccolo centro privato a Parma, al quale una delle psicoterapeute imputate, Imelda Bonaretti, aveva proposto una collaborazione. «Tra di noi c’era stima e mi chiese se eravamo disponibili ad aiutare alcuni ragazzi del servizio della val d’Enza - ha sottolineato -. Avevamo anche offerto una tariffa calmierata a 50 euro a terapia, data l’importante funzione sociale». Ma non se ne fece più nulla. E ciò perché, ha dimostrato in aula Rossella Ognibene, legale, assieme a Oliviero Mazza, di Anghinolfi, Tinelli non si è mai occupato di bambini e il piano era quello di realizzare un centro di accoglienza che andasse oltre la sola terapia. C’è di più: l’accusa ha contestato la presunta invasività della tecnica Emdr, ignorando che l’alternativa proposta come migliore, perché più economica, sarebbe ancora più penetrante, nell’ottica della procura: la cosiddetta Schema Therapy, ha confermato Tinelli su richiesta di Guazzi, si propone di «riscrivere i ricordi».

In aula si è discusso anche delle due madri affidatarie intercettate in auto, Fadia Bassmaij e Daniela Bedogni, alle quali il maresciallo Francesco Cocchi, sentito come teste, chiese di consegnare alcuni documenti che riguardavano la minore loro affidata, confermando che non era necessaria la presenza di un avvocato. Una volta in caserma, però, Bedogni fu sentita a sommarie informazioni, con alcune domande che in realtà, ha fatto notare l’avvocato Andrea Stefani, rimandavano a diversi capi d’accusa. E le donne avevano infatti già le cimici in auto, data l’ipotesi che avessero concorso in alcuni reati. «Quelle domande - ha sottolineato il legale - si riferivano anche a reati poi contestati solo alle due affidataria, come quelle relative agli atteggiamenti sessualizzati della bambina sugli animali», atteggiamenti confermati dai diari segreti della stessa minore.

Altro capo d’accusa analizzato quello di minaccia a pubblico ufficiale, contestato ad Anghinolfi per aver intimato ad alcuni membri della polizia municipale di arrestare, all’interno dei locali dei servizi sociali, un padre che la stava insultando a seguito dell’allontanamento della figlia. Ma a negare qualsiasi tipo di minaccia o violenza sono stati gli stessi poliziotti intervenuti quel giorno: «Non c’erano gli estremi di notizie di reato», ha sottolineato Davide Galassi, confermando le parole di Fernando Rocchi, che ha affermato che contro di lui Anghinolfi non aveva fatto nulla. E, sollecitato dalla pm, ha parlato di un aumento degli allontanamenti a cui la polizia locale avrebbe assistito tra il 2014 e il 2018. Ma di quanti allontanamenti si parla? «Quattro o cinque» in un anno. Queste, dunque, le dimensioni del «sistema».

Bibbiano, genitori smentiti in udienza: «La scuola segnalò situazioni strane». I docenti, dopo gli incontri con madre e padre, dissero: «Sembrano affettivamente poco preoccupati». Simona Musco su Il Dubbio il 4 luglio 2023

Le segnalazioni sugli atteggiamenti sessualizzati del piccolo N.? Venivano dalla scuola. E quelle sulla muffa a casa dei minori C. ed S.? Dall’Asl. Nel processo sui presunti affidi illeciti in val D’Enza meglio noto come “Angeli& Demoni” continuano a venire fuori pezzi di storia rimasti taciuti. Una storia che finora era stata raccontata solo a senso unico, con il teorema dei servizi sociali “cattivi” interessati al giro economico attorno agli affidi (otto casi) tanto da strappare senza scrupoli i bambini alle loro famiglie. Ma le testimonianze raccolte ieri dal Tribunale di Reggio Emilia, dove sono comparsi i primi due genitori di bambini coinvolti nel caso, comincia a far venire fuori un quadro diverso. «Sono emerse prove che smentiscono la falsità delle relazioni su alcuni punti che avevano fatto scalpore. La procura è partita da un teorema e sono stati acquisiti solo quei pochi e scarsi elementi utili allo stesso, trascurando le prove oggettive e documentali», ha dichiarato Oliviero Mazza, difensore, assieme a Rossella Ognibene, dell’assistente sociale Federica Anghinolfi, principale imputata del processo.

Il teste più significativo è stato la madre di N., che dichiarato di non aver mai avuto contezza di alcun problema relativo alla situazione del figlio. Una situazione ottimale, ha dichiarato, fino all’intervento dei servizi sociali. Ma i comportamenti del bambino sono stati segnalati e monitorati per tre anni - dal 2013 al 2016 - dalla scuola, che in una relazione ha raccontato il progressivo peggioramento del suo comportamento, fatto di agiti sessuali su se stesso e sui compagni, nonché difficoltà nel controllo degli sfinteri, iperattività e aggressività. La donna, dopo aver negato le segnalazioni, ha minimizzato quanto certificato dai documenti, che però non sono mai finiti nell’ordinanza di custodia cautelare. «Sono atti recuperati dalle difese e ignorati dalla procura ha evidenziato Mazza - ed obiettivamente preoccupanti, perché indici di un disagio».

Stando alla relazione, il bambino era solito toccare se stesso e i compagni nelle zone intime, affermando, su richiesta degli insegnanti, che si trattava di un gioco praticato col fratellastro, assieme ai baci, «quando vanno a letto». Gli insegnanti hanno comunicato ad entrambi i genitori la situazione, riportando «con chiarezza i continui costanti e preoccupanti peggioramenti del comportamento si legge nel documento -, i frequenti comportamenti masturbatori verso se stesso e verso gli altri e la grossa regressione rispetto ai controllo degli sfinteri. In quella sede è stato più volte sottolineato che il livello di preoccupazione è alto». Affermazioni che avevano lasciato «sconvolta» la madre. Ma i genitori, secondo le conclusioni della scuola, «sembrano essere “affettivamente poco preoccupati” ed emotivamente poco protettivi e contenitivi verso» N.

Il Tribunale dei minori aveva prescritto che il bambino e il fratellastro non si vedessero insieme, prescrizione trasgredita dai genitori, che hanno consentito ai due di andare in campeggio insieme senza comunicarlo ai servizi sociali. La notizia emerse solo dopo mesi, quando i bambini lo confidarono a scuola. Da qui e dal peggioramento degli episodi, il Tribunale dei minori ha disposto l’affido di N. ad un’altra famiglia. Il bambino era finito al centro del racconto mediatico, a seguito dell’accorata lettera scritta dal nonno per rivedere il nipote. Nonno che, stando alla segnalazione della scuola, andava a prendere il bimbo «a volte non completamente sobrio». Ad Anghinolfi veniva anche contestata la violenza privata per aver costretto la madre a svelare a N. - all’epoca di 10 anni - che il marito non fosse suo padre. Un dato falso: fu la stessa donna, davanti al Tribunale dei minori, a dichiarare di aver chiesto aiuto ai servizi sociali per svelare la verità al figlio, come dimostrato ieri dai legali.

Altro testimone il padre di C. ed S., a cui i servizi sociali erano arrivati su segnalazione dei carabinieri, dopo che la Guardia medica dell’ospedale aveva certificato un presunto abuso sessuale da parte dell’uomo sulla figlia. Un abuso ipotizzato anche dalla madre. Di fronte alle dichiarazioni dell’uomo, secondo cui le condizioni della casa erano assolutamente ottimali, contrariamente a quanto dichiarato dai servizi sociali, la difesa ha tirato fuori una relazione dell’Asl che certificava come l’appartamento nuovo e privato in cui la famiglia aveva vissuto per due anni prima di passare in quello comunale fosse «antigienico e sovraffollato», nonché pieno di muffa, tant’è che era stato lo stesso uomo a chiedere l’intervento dei servizi sanitari per certificare tutto e chiedere un’altra sistemazione. «Una cosa che depone, a livello indiziario, sul fatto che avessero potuto far ammuffire anche l’appartamento successivo, un bilocale in cui vivevano quattro persone con due bambini piccoli», ha spiegato Mazza. Inoltre fu lo stesso padre, davanti al Tribunale dei minori, ad ammettere che la casa era in disordine. «La mia sensazione - ha concluso Mazza è che si stia cominciando a dimostrare la complessità e anche la problematicità delle situazioni familiari. Comunque la si voglia pensare sull’intervento dei servizi, siamo di fronte a situazioni che sono ben lontane dalla narrazione delle famiglie perfette alle quali venivano sottratti i minori. C’erano minori che avevano bisogno di assistenza e genitori che non erano in grado di offrirla».

Il lupo di Bibbiano? Era un pupazzetto comprato all’Ikea. Nessun travestimento da parte della psicoterapeuta Nadia Bolognini: si trattava solo di un peluche usato durante la terapia per giocare e simulare scene vissute. Simona Musco su Il Dubbio il 24 ottobre 2023

I travestimenti da lupo a Bibbiano? Mai esistiti. Nonostante i titoloni di giornale e le foto della psicoterapeuta Nadia Bolognini appositamente modificate, il “lupo” altro non era se non un innocuo e comunissimo pupazzo comprato all’Ikea, che veniva utilizzato durante le sedute per giocare o simulare scene con le quali i bambini potevano spiegare il loro vissuto.

Il particolare è emerso al Tribunale di Reggio Emilia lunedì, quando Rossella Ognibene, difensore, assieme ad Oliviero Mazza, di Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale dell’Unione della Val d’Enza e principale imputata del processo Angeli & Demoni sui presunti affidi illeciti, ha tirato fuori dalla borsa il pupazzo, per mostrarlo ad Antonella Tesauri, assistente sociale ascoltata come teste. Tesauri ha confermato di non aver alcuna informazione circa l’utilizzo di un costume o di un travestimento da parte di Bolognini, confermando invece la presenza, presso il centro “La Cura”, di giocattoli con i quali la terapeuta conduceva le sedute con i bambini.

Nonostante ciò, secondo l’accusa (capo 52), Bolognini si sarebbe travestita «da “lupo”, o da altri personaggi “cattivi” tratti da racconti popolari, ed inseguiva» uno dei minori «all’interno del proprio studio (presso la Cura) urlandogli contro ed inseguendolo, col dichiarato fine di “punirlo” e “sottometterlo” (anche con chiaro significato sessuale), associando, al termine del gioco, la figura del “lupo cattivo”». Una fake news, quella del lupo, che aveva colpito anche lo psicoterapeuta Claudio Foti (assolto in abbreviato), che è stato accusato di essersi travestito per spaventare i propri pazienti, tanto da essere stato cacciato da un ristorante emiliano in quanto - disse il ristoratore - «non do da mangiare ad un lupo che rapisce i bambini».

Negli audio delle sedute di Bolognini si sentono la psicoterapeuta e il piccolo N. giocare e parlare dei presunti abusi subiti dal fratellastro - per i quali diceva di provare «rabbia» -, ma anche ridere e urlare. Intercettazioni, ha commentato a margine Mazza, «da ascoltare con estrema attenzione per comprendere il senso di quella concitazione». La vicenda del piccolo N. è venuta fuori a seguito della segnalazione degli insegnanti del bambino: stando ad una relazione di ben cinque pagine scritta dalla scuola, il bambino, di appena 5 anni, era solito toccare se stesso e i compagni nelle zone intime, affermando, su richiesta degli insegnanti stessi, che si trattava di un gioco praticato col fratellastro, assieme ai baci, «quando vanno a letto».

Gli insegnanti hanno comunicato ad entrambi i genitori la situazione, riportando «con chiarezza i continui costanti e preoccupanti peggioramenti del comportamento - si legge nel documento depositato a processo -, i frequenti comportamenti masturbatori verso se stesso e verso gli altri e la grossa regressione rispetto al controllo degli sfinteri. In quella sede è stato più volte sottolineato che il livello di preoccupazione è alto». Ma i genitori, secondo le conclusioni della scuola, «sembrano essere “affettivamente poco preoccupati” ed emotivamente poco protettivi e contenitivi verso» il bambino.

Tesauri, in aula, ha ricordato il momento degli arresti, quando - stando ad un’intercettazione - si era dimostrata sbalordita, dal momento che, a suo dire, il carico dei casi da trattare era talmente tanto da non aver bisogno di «inventarci il lavoro». L’assistente sociale, infatti, non si capacitava di come si potesse ipotizzare un intervento dei servizi finalizzato a costruire casi quando gli stessi «erano sommersi». Tutti gli assistenti sociali finora ascoltati, nonché gli educatori, hanno confermato in aula di non aver mai ricevuto pressioni da Anghinolfi per modificare le relazioni. E l’unica ad aver parlato a Tesauri di sollecitazioni in tal senso sarebbe stata Francesca Magnavacchi, indicata come persona offesa nel processo per il reato di violenza privata.

Secondo l’accusa, Anghinolfi, facendo «indebite pressioni» sulla collega neo-assunta a tempo determinato, avrebbe costretto Magnavacchi «a redigere, nonostante la manifestata contraria volontà della persona offesa, relazioni finalizzate all'allontanamento di minori contenenti circostanze false ovvero omesse circostanze reali». Magnavacchi, però, per quanto ad oggi noto, non ha presentato la querela prevista dalla riforma Cartabia, facendo così decadere l’accusa. L’assistente sociale verrà però sentita come testimone.

In aula, lunedì, è comparsa anche Milvia Vittoria Sala, che ha gestito la casa famiglia che ha ospitato la piccola A. dopo l’allontanamento dai nonni. La donna ha riferito dei pianti sommessi della piccola, pianti che, però, sarebbero stati una costante nella vita della bambina, come segnalato non solo dagli insegnanti, ma anche dall’atto di accusa della procura, secondo cui le «regressioni emotive e gli sbalzi d'umore» erano stati riscontrati nella minore «fin dalla tenera infanzia, come risultato dalla storia clinica» acquisita presso l’Asl.

Fu la stessa bambina a raccontare alla psicologa, accusata di averla in qualche modo plagiata, dei presunti abusi subiti dal compagno della madre, confidati poi anche alla nonna e alla mamma. Abusi di cui, poi, parlò anche a scuola e con gli amici. Fu la madre a riferire il tutto al Tribunale dei Minorenni, presso la quale era in carico fin dal 2012, quando era già stato previsto un allontanamento di madre e figlia dall'abitazione dei nonni. Il servizio sociale aveva tuttavia lavorato affinché la situazione si stabilizzasse e madre e figlia potessero continuare a vivere con i nonni.

Nel 2020 il perito del Tribunale per i Minorenni aveva concluso nella sua relazione affinché madre e figlia arrivassero finalmente a vivere insieme. Ma dopo tre anni questo non è ancora avvenuto. La madre, anche dopo il blitz della Procura di Reggio Emilia, ha infatti continuato a vivere in un’abitazione diversa da quella della figlia, oggi 15enne, collocata ancora presso i nonni insieme al padre, al quale è stato diagnosticato un disturbo borderline, tanto da essere sottoposto, in passato, a trattamento sanitario obbligatorio.

Lo psicoterapeuta assolto. Claudio Foti racconta gli anni terribili di gogna e di isolamento. su L'Inkista il 24 Ottobre 2023

Intervista al fondatore della Hansel e Gretel, mostrificato a Bibbiano prima del processo per calcolo politico e altre miserie

La Corte d’appello ha recentemente depositato le motivazioni della sentenza con la quale è stato assolto. Soddisfatto?

Certamente, sebbene un processo lasci sempre ferite profonde legate all’ingiustizia patita. Comunque sono stato assolto perché il fatto non sussiste: non ho frodato la giustizia né ho procurato danni alla mia paziente. Quanto all’abuso d’ufficio la Corte ha accertato che non ho commesso il reato. 

Qualcuno dice che la sua assoluzione sarebbe per insufficienza di prove…

L’avvocato Luca Bauccio che mi ha difeso in appello mi ha spiegato che si tratta di una marchiana invenzione, fuori dal codice e dalla Costituzione. Chi lo afferma lo fa solo per gettare nuovamente ombre sulla mia persona. Dovranno rassegnarsi: sono innocente, sono stato assolto. 

Lei ha operato nel caso dei Diavoli della Bassa Modenese raccontato da Veleno?

Non ho mai operato in quella vicenda né come consulente né come terapeuta. Si tratta di un’altra marchiana invenzione.

Ma delle tesi di Veleno cosa dice?

Veleno è un racconto lacunoso e a senso unico. La realtà è complessa e come psicoterapeuta non posso che rifiutare le semplificazioni. Questi casi andrebbero studiati a fondo con un’analisi storico-processuale. Nella vicenda della Bassa Modenese ci sono bambini abusati, vite spezzate, di cui Veleno non parla. Sarebbe ora di ricordarsi anche delle vittime allora minori e sarebbe utile raccontare l’altra faccia di quella vicenda, confermata da tre gradi ådi giudizio e da due sentenze che hanno respinto la revisione del processo, riaffermando l’inossidabilità delle prove e la credibilità dei bambini.

Rignano Flaminio, Biella, lei si sente responsabile di quelle accuse di abuso?

A Biella il processo si è concluso con una sentenza che nonostante il suicidio degli imputati non ha dichiarato la loro innocenza, ben potendolo fare. A Rignano Flaminio gli imputati sono stati assolti. In entrambi i casi in qualità di consulente del pubblico ministero ho fatto una valutazione sui minori, concordando peraltro con numerosi altri colleghi, una ventina circa. Di cosa mi si accusa? Gli psicologi non valutano le prove, non decidono il rinvio a giudizio o la condanna. Allora dovremmo buttare in pasto ai leoni tutti gli psicologi che prestano la propria attività per la parte soccombente in un processo? 

E del suicidio della famiglia di Biella?

Ho pietà di quelle persone, indicarmi come responsabile di quella tragedia è un atto violento e menzognero. Sono stato il consulente dell’accusa e mi sono espresso sul minore che aveva denunciato gli abusi. Il compito dei consulenti di parte non è quello di formulare accuse ed emettere sentenze. È chiaramente scritto nel codice di procedura penale.

Cosa è il metodo Foti?

È un’invenzione ridicola, utile a creare il mostro. Ho sempre seguito le procedure standardizzate della psicoterapia del trauma. 

Ma non c’è il rischio di un metodo che induce false testimonianze nei bambini?

Chiunque esamini le videoregistrazioni delle mie sedute, che io stesso ho consegnato, può verificare il mio ascolto benevolo e rispettoso della paziente. E poi dalla sentenza che mi ha assolto si ricava che non potevo indurre racconti di abuso: la paziente li aveva fatti ben prima di conoscermi e che non potevo aver causato in lei disturbi psichiatrici che, per parere concorde della comunità scientifica, non possono essere generati da qualche seduta di psicoterapia, bensì solo da eventi traumatici nei primi sei anni di vita!

Secondo l’accusa lei era una macchina da soldi.

Sì, avrei commesso terribili reati per guadagnare duecentosettanta euro lordi al mese. Le sembra possibile? Non ho beni finanziari né proprietà. La Corte d’appello ha rimesso la verità al suo posto. 

Cosa pensa realmente dell’abuso sessuale sui minori?

È un fenomeno diffuso e difforme che tende a restare rimosso. Ogni tanto la società si sveglia a partire da vicende come quelle di Caivano e scopre che il problema esiste, per poi ritornare ben presto a dimenticarsene. Per quarant’anni ho lavorato, ho scritto, ho formato sul tema degli abusi, che non sono solo sessuali. Come è stato possibile che abbiano trasformato in colpa il mio impegno a tutela dei bambini?

E gli affidi illeciti?

A Bibbiano non mi sono mai occupato neppure di un affido, perché ero esterno al Servizio! Ciò nonostante mi hanno fatto passare come il boss degli affidi. 

Cosa l’ha ferita di più?

Sono stati quattro anni terribili, di gogna, di isolamento, di persecuzione. Certo fa paura questa mostrificazione delle persone prima di un processo e di una sentenza definitiva. La cultura liberale e garantista è stata messa in un angolo per calcolo politico e altre miserie e questo è un problema di tutti.

Come è sopravvissuto?

In tre modi: praticare la meditazione, piangere per scaricare la sofferenza, comunicare e scrivere. 

Cosa fa adesso?

Sto organizzando la pubblicazione dell’ampio materiale che ho scritto. Fra poco uscirà Lettere dal trauma. 

"Parlateci di Bibbiano".

Estratto dell'articolo di Franco Giubilei per “la Stampa” l'8 giugno 2023.

Ai bar di Bibbiano, il paese dei mostri divenuto sinonimo delle nefandezze della sinistra con uno slogan coniato per l'occasione, «Parlateci di Bibbiano», si gioca a carte come sempre e si parla d'altro. 

Un po' come se quelle vicende infamanti per cui è stato appena assolto in appello Claudio Foti, il terapeuta della onlus Hansel e Gretel al centro dell'inchiesta, fossero accadute altrove. Quasi tutti però, se glielo vai a chiedere, giurano sull'estraneità ai fatti del sindaco Andrea Carletti, tuttora sotto processo per abuso d'ufficio: 

«È la solita commedia all'italiana – dice Giorgio Bartoli, 84 anni, davanti al circolo parrocchiale Giovanni XXIII –, una storia politica, c'erano le elezioni regionali, è venuta pure la Meloni e in tv non si sentiva che Bibbiano, Bibbiano, Bibbiano. La maggior parte qui, però, ha difeso il sindaco, che per noi non aveva colpe: se c'è una persona seria è lui. Quelli intorno a lui, magari, ma comunque la cosa si sta sgonfiando».

(...) 

Quanto al sindaco Carletti, ha valutato positivamente la sentenza di Foti. Le accuse rivoltegli non hanno niente a che fare con la persona che è, e questo i cittadini di Bibbiano lo sanno bene. C'è stata una strumentalizzazione politica di questo caso». 

Quel che non si coglie a Bibbiano invece è il sollievo per un sistema presentato a tutta Italia come malato, o peggio, e che l'assoluzione di Foti sembra invece riscattare nella sua immagine ferita: «Qui la gente in effetti non ci pensava più – concorda il signor Bartoli –, difficile dire se è perché le accuse sono state percepite come inverosimili fin dall'inizio, o se le persone sono indifferenti a questa questione».

Quanto al coinvolgimento del resto dell'amministrazione, a cominciare dalla dirigente dei servizi sociali Federica Anghinolfi, il titolare di un locale nella piazza centrale ricorda che «qui in paese tutti sparavano addosso al Comune, senza sapere niente, fra l'altro. Io ho sempre pensato che il sindaco non c'entri niente, al punto che ho voluto farmi sposare da lui, quando è tornato in carica dopo che si era autosospeso per l'inchiesta. Poi può aver sbagliato, nel senso che non si mette una firma se non si è sicuri». 

Ma c'è chi racconta invece di una Bibbiano spaccata fra colpevolisti e innocentisti, come questo artigiano sui quarant'anni: «La gente qui ha gli occhi con le fette di prosciutto sopra. Ho appena rivisto Peppone e Don Camillo, qui siano ancora a quei livelli… La gente si scontra fra chi pensa siano tutti innocenti e chi siano tutti colpevoli, ma senza saperne veramente niente, per sentito dire».  

(...)

Estratto dell'articolo di Valeria Di Corrado per il Messaggero l'8 giugno 2023.  

Era stato dipinto come il "lupo cattivo di Bibbiano", il "guru" dell'inchiesta "Angeli e Demoni" sui presunti affidi illeciti nella Val d'Enza. 

Ma il "demone" non era lui e adesso l'intero castello accusatorio - messo in piedi su tesi prive di fondamento scientifico, basate su pochi e discutibili elementi probatori - rischia di crollare. I giudici della Corte d'appello di Bologna martedì hanno assolto lo psicoterapeuta Claudio Foti, che gestiva insieme all'ex moglie la onlus piemontese "Hansel e Gretel". 

Durante le sedute, secondo la Procura di Reggio Emilia, venivano usati metodi manipolatori per far affiorare nella mente dei ragazzini episodi di abusi sessuali e maltrattamenti mai subiti, con l'obiettivo di allontanarli dai genitori, per poi darli in affido. In primo grado Foti era stato condannato dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale reggino a 4 anni di reclusione. 

In appello è stato assolto, «perché il fatto non sussiste», dall'accusa di aver provocato in una paziente di 17 anni lesioni volontarie psicologiche, ossia il disturbo borderline; «per non aver commesso il fatto» dal reato di abuso di ufficio; mentre è stata confermata l'assoluzione dalla frode processuale.

«Era un'accusa folle e senza senso dal punto di vista professionale quella mossa al dottor Foti, ossia l'aver dolosamente indotto con la psicoterapia un disturbo borderline. È come sostenere che un paziente si ammala di polmonite perché ha assunto l'aspirina - spiega il professore Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta  

(...) 

LA GOGNA MEDIATICA «Il mio assistito è stato riscattato dopo 4 anni di umiliazione e persecuzioni come uomo e come psicoterapeuta - ha commentato l'avvocato Luca Bauccio - Con questa sentenza muore la leggenda di Bibbiano e rinasce la verità di una comunità di professionisti che hanno voluto perseguire solo la protezione del minore». «Questa assoluzione mi restituisce alla dignità e all'onore che merito, non ho mai fatto del male ai miei pazienti, li ho sempre aiutati, mettendo a disposizione tutto il mio tempo e il mio sapere», ha commentato "a caldo" Foti. Una vera e propria gogna mediatica quella a cui è stato sottoposto, «fondata su una narrazione utile alla stampa ma su pochi atti di indagine propriamente detti - spiega l'avvocato Giuseppe Rossodivita, contattato da "Il Messaggero" in quanto "memoria storica" del processo di primo grado in cui difendeva lo psicoterapeuta –

È un processo che non poteva che finire con un'assoluzione, bisognava solo aspettare che le infondate tesi della Procura e della sua consulente decantassero. Foti aveva persino depositato ai pm i video delle sedute della 17enne che sarebbe stata da lui plagiata, per dimostrare che non c'era stata nessuna manipolazione; ma non se n'è tenuto conto». «Foti non c'entrava nulla con gli affidi, ma è stato dipinto come il "ladro di bambini", il "demone". È servito, in quanto capostipite di una scuola di pensiero, come volto di un processo mediatico, con uno storytelling costruito ad arte e strumentalizzato dalla politica.

Bipopulismo manettaro. Il Pd non parla di Bibbiano neanche ora che potrebbe infine recuperare l’onore. Mario Lavia su Linkiesta il 9 Giugno 2023

Solo Renzi e in parte Calenda si sono mobilitati contro gli osceni demagoghi di governo e di opposizione, adesso smentiti dall’assoluzione di Foti. Nessuno della segreteria di Schlein, invece, ha mosso un dito contro Cinquestelle, leghisti e meloniani

L’ultimo giapponese rimasto nella giungla demogrillina, Nicola Zingaretti, ieri al Corriere della Sera ha ribadito che nella scorsa legislatura con i Cinquestelle «abbiamo costruito l’unico progetto politico credibile per arginare le destre». Tre bugie in poche parole. Non era l’unico progetto, non era credibile e non è servito ad arginare le destre. Ma Zingaretti a quel tempo era innamorato di Giuseppe Conte, «il punto di riferimento dei progressisti», e in fondo al cuore forse lo è anche oggi, che – ammette – il Partito democratico è senza una linea, una pesante critica a quella Elly Schlein da lui chiamata nei contatti privati «la matta».

In tutta l’intervista l’ex segretario del Partito democratico non trova il modo per spendere una parola sul fatti del giorno, cioè il caso Bibbiano con l’assoluzione in secondo grado dello psicoterapeuta Claudio Foti (il fatto non sussiste) dalle accuse di manipolazione delle testimonianze dei bambini.

Di fatto, Zingaretti è in buona compagnia perché incomprensibilmente ad attaccare gli sciacalli di ieri (Conte, Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Giorgia Meloni) ci hanno pensato solo Carlo Calenda e soprattutto Matteo Renzi, mentre si è “ascoltato” un silenzio inspiegabile da parte di Elly Schlein e degli altri dirigenti dem. A parte uno della vecchia guardia come Piero Fassino: «Le cose sono adesso chiare in modo inequivocabile. Ci fu una vergognosa aggressione che, avvalendosi di una vicenda giudiziaria, infangò il Partito democratico e i suoi amministratori. Di questa campagna calunniosa e indecente sul piano morale e politico, qualcuno chiederà scusa?».

Il silenzio del gruppo dirigente forse si spiega con la volontà di non fare la cosa che sarebbe automatico fare: prendersela soprattutto con Giuseppe Conte (e Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista) che sulla montatura di Bibbiano costruirono una linea politica lucrando bei voti su una presunta terribile vicenda. Li ricordate, no? «Mai con il Pd, mai con il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli», tuonava nel luglio 2019 l’allora plenipotenziario pentastellato Di Maio, che solo tre anni dopo andava a scodinzolare davanti alla ciotola preparata da Enrico Letta per entrare in Parlamento – e nemmeno prese il quorum.

Conte faceva il sostenuto perché era presidente del Consiglio e non infieriva ma lasciava che i suoi azzannassero il Partito democratico godendo delle difficoltà di questo partito che era all’epoca all’opposizione.

Di Salvini è meglio non parlare perché il ricordo della senatrice leghista Lucia Borgonzoni – che in aula che si leva la giacca e mostra la maglietta bianca con la scritta “parlateci di Bibbiano” – suscita ancora un certo ribrezzo.

E poi, dulcis in fundo, c’era lei, Giorgia Meloni, all’epoca ancora ben dentro la parte della militante post-missina, con il cartello «siamo stati i primi ad arrivare saremo gli ultimi ad andarcene» in una parossistica corsa alla strumentalizzazione di un caso che non c’era.

Il saggio Pierluigi Castagnetti due sere fa twittava: «A quest’ora ancora nessuno ha chiesto scusa per avere utilizzato la sofferenza di bambini per una speculazione elettorale». Aspetta e spera, caro Castagnetti. Non esiste più la dignità dell’ammissione dell’errore, l’inevitabilità dell’allargamento delle braccia in segno di scuse, neanche solo il dubbio di aver sbagliato. Sono cose che non si usano più, nel tempo del presentismo mediatico. Ammettere non fa notizia. Alla stregua del politico arrestato e poi rilasciato con tante scuse – ormai è distrutto –, a che serve constatare l’errore, eppure Dante – lo scrisse anni fa Paolo Di Stefano – non avrebbe scritto la Commedia se non avesse riconosciuto di aver smarrito «la diritta via».

Macché, qui le cose scivolano via nel fumo della memoria. D’altra parte il Partito democratico si occupa più dei vicepresidenti del gruppo parlamentare che di questi fatti che pure gli hanno fatto male e avrebbe tutto l’interesse, oltre che tutto il diritto, a pretendere le scuse di tre quarti del mondo politico.

E così, a parte un tweet di Calenda, l’unico a picchiare duro contro i grillini, Salvini e Meloni è stato Matteo Renzi. Piaccia o non piaccia è toccato a lui difendere l’onore di quel Partito democratico che stava per abbandonare: sono le strane vendette della Storia. Sul suo Riformista Renzi è stato pesante: «Domando a Giorgia Meloni: cara presidente, hai detto che sei stata la prima ad arrivare e che saresti stata l’ultima ad andartene. Bene. Hai l’occasione. Chiudila tu la vicenda Bibbiano. Chiedi scusa. E poi spegnila tu la luce così che nessuno si accorga di chi ha la faccia rossa di vergogna». Anche stavolta, Elly Schlein non l’abbiamo vista arrivare.

Caso Foti, ecco tutte le fake news che inquinano i media. Bibbiano: sono centinaia le notizie inventate o manipolate in questa storia, a partire dai famigerati video delle sedute di psicoterapia, che tutti dicono di aver visto, ma nessuno conosce. Simona Musco su Il Dubbio l'8 giugno 2023

Se non puoi fare uno scoop inventalo, diceva un vecchio direttore di giornale. Una frase che calza a pennello nella vicenda di Claudio Foti, lo psicoterapeuta del processo “Angeli&Demoni”, dove non basta essere assolti da un collegio di giudici per far terminare il processo, che continua sui giornali, negli studi televisivi, in questo caso più che mai a colpi di fake news. E a descrivere perfettamente il clima è una frase dell'ex deputato Italo Bocchino, che inventa una nuova categoria penale: «Resta intatta la responsabilità morale di Foti».

Sono decine, centinaia, le notizie inventate o manipolate in questa storia, a partire dai famigerati video delle sedute di psicoterapia, che tutti dicono di aver visto, ma che tutti raccontano riportando frasi mai pronunciate, legittimando il dubbio che nessuno ci abbia mai davvero buttato un occhio. Il Dubbio, nelle scorse settimane, ha visionato e raccontato quelle sedute, che si possono riassumere in modo sintetico così: la ragazza in psicoterapia, su ordine del Tribunale dei minori, presso Foti, aveva raccontato gli abusi subiti a madre, zia e assistenti sociali prima di confermare tutto davanti allo psicoterapeuta, al quale dichiara sin da subito l’odio nei confronti del padre (decaduto dalla responsabilità genitoriale per fatti che mai hanno riguardato Foti), rispetto al quale il professionista non esprime mai alcun giudizio. E seduta dopo seduta, la giovane dice di sentirsi meglio, fino ad affermare che non ha più voglia di morire.

Il resto - altra notizia volutamente ignorata - è storia: i carabinieri, come rivelato dall’avvocato Luca Bauccio in aula senza alcuna smentita da parte della pm, riferiscono a madre e figlia dell’esistenza di una relazione nella quale Foti attribuirebbe le violenze subite dalla ragazza al padre. Ma questa relazione, semplicemente, non è mai esistita. Nessuno lo ha mai detto, men che meno Claudio Foti. Ma procediamo con ordine: quali sono le fake news di questa storia? Riassumerle tutte, forse, è impossibile: la macchina del fango procede impazzita da ormai quattro anni. Ma ecco le più importanti, le più resistenti, verificate una per una. 

1) Foti non ha i titoli per fare lo psicoterapeuta

Falso: così come lui, tantissimi psicologi e psicoterapeuti sono stati abilitati all’esercizio della professione a seguito della legge di istituzione dell’ordine. Non senza i titoli, ovviamente: la legge, infatti, prevede che possano iscriversi all’albo anche i laureati entro l'ultima sessione dell'anno accademico 1992-1993, previa specifica formazione professionale in psicoterapia - documentata - nonché preminenza e continuità dell'esercizio della professione psicoterapeutica. Nel caso di Foti, oltre alla laurea in Lettere, il curriculum certifica, tra le altre cose, il tirocinio presso il servizio di Neuropsichiatria infantile dell'Ospedale Maggiore della Carità di Novara; la frequentazione di una Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica e corsi e seminari di formazione di ogni genere. Foti, come centinaia di suoi colleghi formatisi negli stessi anni, è autorizzato allo svolgimento della terapia e qualificato. 

2) La tecnica Emdr è “discussa” o è una “macchinetta dei ricordi”

Falso: il trattamento si basa sulla stimolazione sensoriale bilaterale e a livello scientifico la sua efficacia è stata dimostrata direttamente da oltre 30 anni di studi, con fotografie del cervello, prima e dopo la terapia, che certificano un significativo miglioramento dei sintomi di sindrome post-traumatica da stress e un parallelo incremento dei volumi ippocampali. Nel caso contestato a Foti c’è stata una sola seduta con Emdr, senza alcun utilizzo di macchinari. 

3) Isabel Fernandez, principale esperta di Emdr, ha contestato "in aula" la seduta con tale tecnica

Falso: a Fernandez non è stato sottoposto il video della seduta, ma sono stati letti alcuni stralci, non il resoconto dell’intero incontro. Nemmeno si sa dal verbale cosa sia stato letto a Fernandez. A seguito del polverone mediatico suscitato da tale testimonianza, l’esperta ha ribadito la fiducia in Foti tramite una lettera. In ogni caso, decine di esperti hanno certificato lo svolgimento corretto delle sedute, mentre le consulenti della pubblica accusa hanno ammesso di non avere conoscenze in materia. 

4) Foti è coinvolto nell'inchiesta sui Diavoli della Bassa

Falso: né Claudio Foti né gli altri imputati del processo Angeli&Demoni hanno a che fare con tale vicenda, peraltro accertata giudiziariamente da tre sentenze e un tentativo di revisione rigettato recentemente dalla Cassazione. Storia in merito alla quale 14 vittime su 16 non hanno mai cambiato versione, contro le due che hanno contribuito alla realizzazione del podcast “Veleno”. Ed è proprio su uno dei casi di “Veleno” che si sono pronunciati la Corte d’Appello di Ancona e la Cassazione, ribadendo l'inossidabilità delle prove e l’inconsistenza delle circostanze testimoniate dall’inchiesta giornalistica. 

5) Foti sostiene che esiste un numero molto alto di abusi in famiglia

Falso: a dire che l’abuso è un fenomeno frequente e sommerso è l’Oms, che ne certifica la prevalenza tra le mura domestiche, mentre l’Onu denuncia il vuoto di tutele in Italia, dove, oltretutto, il numero di allontanamenti di minori dalle famiglie è molto al di sotto della media europea (2,8 per mille, a fronte del 10,5 della Germania, del 10,4 della Francia e del 6,1 del Regno Unito). Foti ha solo ripetuto questi dati in alcuni dibattiti pubblici. Nei suoi libri e nei suoi corsi - ma anche nella terapia con la sua paziente a Bibbiano - ha inoltre sempre valorizzato il ruolo insostituibile della famiglia. 

6) Le linee guida del Cismai sarebbero in discussione e quelle più accreditate sono descritte nella Carta di Noto

Falso: il Coordinamento Cismai fa parte, dal 2017, dell’elenco delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie riconosciute dal ministero della Salute. La Carta di Noto, invece, secondo numerose sentenze della Cassazione, «sviluppa protocolli orientativi e non vincolanti non avendo alcun valore rigorosamente scientifico». Inoltre, tra i firmatari della Carta si ritrovano alcuni tra i più accaniti sostenitori della sindrome di alienazione parentale, già certificata come bufala, come Richard Alan Gardner, sostenitore della pedofilia come normalità ed espulso dalla Columbia University di New York proprio per le sue tesi. 

7) Foti è responsabile di false accuse contro presunti pedofili in famiglia poi assolti

Falso: Foti ha svolto in diversi processi il ruolo di consulente dell’accusa o delle parti civili. In nessuno di essi è stato perito, figura ben più determinante nella formazione della prova. Il suo intervento si registra comunque sempre dopo la formulazione delle accuse da parte delle procure coinvolte, che potevano contare, in diversi casi, anche sulle denunce di uno o entrambi i genitori. I processi in cui le diagnosi di Foti non sono state ritenute sufficienti alla condanna probabilmente non superano nemmeno i sei casi, numero incommensurabilmente minore rispetto a quelli in cui, invece, si sono rivelate fondate. Nelle critiche per le false accuse mosse agli imputati non viene mai puntato il dito contro gli accusatori reali, ovvero pm (in forza del loro ruolo istituzionale) e denuncianti, ma solo contro Foti. 

8) Foti sarebbe responsabile del suicidio di un’intera famiglia di Biella, accusata di aver abusato di figlio e nipote

Falso: Claudio Foti fu chiamato come consulente a distanza di molti mesi dalle denunce, quando già l’attività investigativa era in fase inoltrata. Ancora oggi, il figlio – ora adulto – conferma le sue accuse contro i familiari e smentisce le ricostruzioni romanzate sul punto. Nessuno, all’epoca, sognò di mettere al bando Paolo Crepet, secondo cui quel suicidio - senz’altro tragico - era un’ammissione di colpa. Oggi, senza alcuna sentenza che certifichi come siano andati i fatti, diventa però prova di innocenza per coloro che scelsero di suicidarsi. 

9) Foti ha creato e applicato un suo metodo

Falso: Foti ha studiato e applicato metodi riconosciuti dagli studi scientifici, senza mai creare nuovi tipi di terapie. L’ascolto può essere solo empatico: senza empatia non c’è ascolto per definizione in una psicoterapia. Per scoprirlo sarebbe bastato guardare le sedute (osservate peraltro in quel momento da ben sette psicologi dell’Asl di Reggio Emilia, che si trovavano dietro il vetro unidirezionale della stanza utilizzata: tali sedute erano parte di un percorso di formazione che l’Azienda sanitaria aveva assegnato come incarico a Foti). 

10) Foti c’entrava con gli affidi e dopo l’inchiesta i bambini sono tornati a casa

Falso: non ha gestito nemmeno un caso di affido segnalato nel processo “Angeli&Demoni” e mai nulla sul punto è stato contestato dalla procura. Inoltre, i bambini (otto) sono rientrati a casa ben prima dell’inchiesta: alcuni, peraltro, non sono mai stati allontanati dalla madre. I casi oggetto del processo rappresentano una percentuale molto bassa rispetto agli affidi in val d’Enza: è numericamente e logicamente impossibile parlare di “sistema”. 

11) L'accusa non crolla e tutto resta com'era

Falso: i reati sono stati contestati in concorso. I fatti contestati vedono Foti descritto come il deus ex machina: se è innocente lui, vi sono fondati motivi per arrivare a sostenere la infondatezza delle accuse mosse contro gli altri coimputati, ma giustamente sarà solo il processo in corso a stabilirlo. 

12) Secondo il procuratore di Reggio Emilia, Gaetano Paci, «ci sono milioni di conversazioni» che proverebbero la responsabilità degli imputati

Falso: le conversazioni, nell’ordine di qualche migliaio, sono state allegate dalla difesa Foti a dimostrazione dell'abnegazione degli operatori e dell'assenza assoluta di dolo. Al centro di esse, è emerso, ci sono il benessere della minore, le sue condizioni di salute e la volontà degli operatori di arrivare alla guarigione. Da alcune di esse poi si è appreso come una ragazza fosse stata picchiata da un parente senza che la madre, presente ai fatti, la soccorresse per impedire le percosse. Nessuna contestazione è stata mossa, sia pure sotto un profilo morale, nei confronti di quella madre. 

13) Il giudice ai sensi dell’articolo 530 comma 2 ha usato la "facoltà" di assolvere e l’assoluzione non sarebbe piena

Falso: il giudice, ricorrendone i presupposti, non ha la facoltà ma il dovere di assolvere. L’assoluzione ai sensi dell’articolo 530 comma 2 è sempre piena. La formula perché il fatto non è stato commesso e perché il fatto non sussiste non lasciano ombre sull’innocenza dell’imputato. 

14) Chi accusa la macchina mediatico-giudiziaria non conosce le carte

Falso: chi formula questa accusa non ha partecipato ad una sola udienza del primo e del secondo grado, non è un giudice, non è un tecnico e non riconosce valore al dispositivo di assoluzione. Tanto meno si è occupato della lettura e dello studio delle centinaia di migliaia di pagine del fascicolo e degli 8 terabyte di materiali presenti negli oltre 30 cellulari e computer oggetto di sequestro probatorio.

Chi è il mostro?

Bibbiano: accuse gigantesche e insussistenti, fu solo sciacallaggio. Indignazione e clamore, ma il caso era una fake news. Nessuno fa ammenda? Aldo Torchiaro su Il Riformista l'8 Giugno 2023 

Del caso di Bibbiano, pozzo di ogni nequizia, “inferno sulla terra”, non era vero niente. Era la madre di tutte le fake news. Le indagini partirono nell’estate del 2018; fu allora che il pm di Reggio Emilia – Valentina Salvi – in seguito a denunce presentate dai servizi sociali verso genitori accusati di essere violenti – decise di dare inizio alle indagini, che coinvolsero medici, psicologi, assistenti sociali e politici. L’ipotesi era che, attraverso falsi documenti e pressioni psicologiche, i servizi sociali riuscissero a plagiare i minori, affinché i genitori venissero screditati e si potesse procedere all’affido, sulla base di ipotetiche violenze, nei fatti mai subite.

Una gigantesca campagna diffamatoria e calunniosa a cui hanno preso parte politica, media e istituzioni giudiziarie. Partiamo da queste ultime? Sono gli investigatori di Reggio Emilia a chiamare “Angeli e Demoni”, proprio come un thriller di Dan Brown, l’inchiesta. Dove gli angeli sono i bambini e i demoni i loro mostruosi sfruttatori. L’inchiesta della procura reggiana che venne così chiamata fa capire sin da quel suo atto di nascita quale fosse l’aurea del caso. Perché se chi deve tutelare le garanzie dell’imputato e la sua presunzione di innocenza intitola l’indagine, sta così indirizzando – eccome – il corso del processo. Sia come sia, “Angeli e Demoni” è iniziata nel 2018 e ha avuto al centro della indagini la rete di servizi sociali della Val D’Enza. L’accusa verso i responsabili dei servizi sociali consisteva nel fatto che avrebbero falsificato più relazioni al fine di riuscire ad allontanare diversi bambini dalle proprie famiglie per darli in affido ad amici e conoscenti. Il tutto, naturalmente, dietro compenso. Tutte fandonie. Accuse gigantesche e insussistenti.

Proiezioni di ombre fatte ad arte per spaventare, creare un allarme tanto infondato quanto efficace. Tutti i tg e i talk show hanno tenuto i riflettori accesi per due settimane di fila. I sindaci della zona erano tutti del Pd? Il centrodestra e il Movimento Cinque Stelle si fregano le mani. Bibbiano diventa un esperimento elettorale. Adombrando quell’alone di sospetto apodittico – basato cioè sull’unico sostegno del sospetto stesso – quanto consenso poteva essere distolto alla parte che fino ad allora era il consolidato riferimento amministrativo dell’area reggiana? La vicenda non poteva non entrare prepotentemente nella campagna elettorale per le Regionali che nel 2020 interessavano l’Emilia Romagna che qualcuno riteneva contendibile. Ed eccola, Lucia Borgonzoni a incarnare l’eroina, la liberatrice: la leghista candidata contro Stefano Bonaccini cavalca spericolatamente i fantasmi di Bibbiano.

E per non essere da meno, ecco la rincorsa della deputata Maria Teresa Bellucci di Fratelli d’Italia che porta il caso in parlamento. Giorgia Meloni, da presidente di Fratelli d’Italia, si precipita a sirene spiegate. “Siamo arrivati per primi, ce ne andremo per ultimi”, dirà. Luigi Di Maio si abbandonerà a un video emozionale al grido:“Mai con il Partito di Bibbiano”. Alessandro Di Battista annuncerà, con sfrontata solennità, che avrebbe messo da parte tutti i numerosi impegni per dedicarsi a scrivere un libro sulla “incredibile vicenda di Bibbiano”. In Parlamento, comparvero striscioni prima, magliette poi. Indignazione a comando. Una commissione parlamentare d’inchiesta venne istituita in fretta e furia il 27 maggio 2021 per essere affidata alla presidenza della leghista Laura Cavandoli.

E oggi? Chi si scusa? Domanda retorica, in un Paese che non conosce vergogna. Di fatto, la corte d’Appello di Bologna ha assolto lo psicoterapeuta Claudio Foti, il primo degli specialisti finiti sul banco dell’accusa, con una sentenza che farà giurisprudenza. “Occorrerà naturalmente attendere le motivazioni”, hanno dichiarato ieri Giovanni Tarquini e il professor Vittorio Manes, avvocati difensori di Andrea Carletti, il sindaco di Bibbiano imputato nel processo, “Ma questa decisione, così netta nell’escludere ogni profilo di rilievo penale ed ogni irregolarità in capo a Foti, sembra confermare ciò che questa difesa ha sempre sostenuto: la totale buona fede del sindaco Carletti nell’assoluta correttezza e piena affidabilità delle attività svolte della onlus Hansel & Gretel e del percorso terapeutico svolto dagli assegnatari del servizio”.

La sentenza mette una pietra tombale sui presunti affidi illeciti nella val d’Enza reggiana. E la politica, e i leader politici che avevano speculato sulla vicenda? Ne chiede conto Matteo Renzi: “Nel 2019,Meloni, Salvini, Di Maio si erano messi d’accordo per attaccare su Bibbiano. Lo scandalo o presunto tale. Ieri si è scoperto che quello scandalo non era tale e gli indagati sono stati assolti. Facciamo una cosa Giorgia, perché non sei la prima oggi a chiedere scusa per l’indecorosa campagna giustizialista che hai fatto?”. A Renzi che parla apertamente di sciacallaggio fa eco la capogruppo di Italia Viva al Senato, Lella Paita. “Ma ve li ricordate quelli con la maglietta ‘Parliamo di Bibbiano’? Ve li ricordate i cartelli e la gogna mediatica? Tante vite rovinate dal fango. Ma i partiti populisti che hanno speculato per anni su questa vicenda chiederanno mai scusa?”. Dagli interessati, risponde un eloquente e imbarazzante silenzio. Aldo Torchiaro

Estratto dell'articolo di Stefano Baldolini per repubblica.it il 7 giugno 2023.

"Parlateci di Bibbiano". "Pd Partito di Bibbiano". "Gli ultimi ad andarcene da Bibbiano". "Mai più casi Bibbiano". Semplicemente "#Bibbiano". Il caso dei presunti finti affidi del paesino della Val d'Enza, reggiano, esploso nell'estate del 2019, non si è chiuso ieri con l'assoluzione dello psicoterapeuta Foti dalle accuse di manipolazione delle testimonianze dei bambini. 

Un processo per chi non ha scelto il rito abbreviato è ancora in corso. Tra le 17 persone alla sbarra, c'è anche il sindaco Andrea Carletti che cadute tutte le altre accuse deve rispondere di abuso d'ufficio. Carletti è l'esponente dem che divenne il simbolo di una strumentalizzazione politica con pochi precedenti. 

Vale la pena tornarci a quel luglio di quattro anni fa. Epoca del governo Conte I, detto gialloverde, con alleati i 5 stelle di Luigi Di Maio e la Lega di Matteo Salvini. Due dei principali partiti insieme a Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, responsabili di un massiccio attacco contro il Partito democratico.

Vale la pena fermarsi su un fotogramma di Fuori dal Coro, la trasmissione di Mario Giordano andata in onda su Rete4 l'11 luglio 2019. Su un cambio di cartello. "Soldi dalla Russia? Lega sotto accusa", recita il primo. "Ladri di bambini, l'inferno di Bibbiano", il secondo, pochi secondi dopo. 

[…] 

Passano alcuni giorni, si arriva al 17 luglio. Dall'estrema destra romana, da CasaPound e Forza Nuova, arriva l'hashtag #ParlateciDiBibbiano che diventerà lo slogan principale della campagna contro il Nazareno. Le stesse parole erano state usate sugli striscioni dei movimenti neofascisti.

[…]  Come rivendicato più volte, l'attuale presidente del Consiglio fu la prima ad arrivare a Bibbiano. Il 5 luglio 2019. Ribadendo l'ottimo fiuto, Giorgia Meloni cavalca da subito una vicenda che promette un ottimo ritorno in termini politici. Manifesta davanti al municipio assieme a un gruppo di militanti, famiglie e cittadini. 

Il giorno dopo rilascia un'intervista a La Verità in cui accusa il Pd di insabbiamento: "Mi aspettavo che, ancora prima di me, qui arrivasse Zingaretti". Parla di "emersione dell'ideologia gender"  e non risparmia critiche all'allora presidente della Camera, il 5 stelle Roberto Fico, ritenuto responsabile del rallentamento in Parlamento della norma che consente di indagare sulle case famiglia.

Meloni tornerà diverse volte a Bibbiano. Un suo post con il cartello "Siamo stati i primi ad arrivare. Saremo gli ultimi ad andarcene!", è rilanciato in queste ore da allora esponenti dem come Carlo Calenda e Matteo Renzi che parlano di "violenza degli attacchi" e "sciacallaggio". 

Appena nominata presidente del Consiglio citerà l'inchiesta lo scorso 25 ottobre alla Camera, nel suo discorso per la fiducia. "Mai più casi Bibbiano" - la promessa -. "Abbiamo assunto l'impegno di limitare l'eccesso di discrezionalità nella giustizia minorile con procedure di affidamento e di adozione garantite e oggettive".

 Uno dei più lesti a cavalcare l'ondata di sdegno popolare sollevata dall'inchiesta "Angeli e Demoni" è Matteo Salvini. "Chi tace su Bibbiano è complice", scrive sui suoi social il leader della Lega rilanciando e "onorando" i post di Nek e Pausini. "Non avrò pace finché l'ultimo bambino non sarà a casa", urla davanti al municipio in un blitz "da papà e da ministro" alla vigilia dell'intervento del presidente Conte alla Camera sul Russiagate. 

[…] "Verrà creata una banca dati e nascerà una squadra speciale per la protezione dei minori", annuncia il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che apre un'inchiesta sugli affidi e attacca il Pd. Nulla di paragonabile all'attivismo del vicepremier Luigi Di Maio che lascia il segno dichiarando di "non voler aver nulla a che fare con il partito di Bibbiano". 

[…]  Lucia Borgonzoni, che qualche tempo prima si era esibita al Senato con la t-shirt: "Parliamo di Bibbiano". In Emilia Romagna però vinceranno i dem Bonaccini e Schlein. 

Video. Bibbiano, 4 anni fa Giorgia Meloni diceva che non era necessario chiedere scusa. E ora? Arriva l’assoluzione per Claudio Foti. 4 anni fa la vicenda al centro della polemica politica. Il caso divenne oggetto di comizi e post social. Meloni, allora, diceva che non c’era necessità di chiedere scusa. Ora, forse, è il caso di scusarsi eccome. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2023 

In un video postato all’epoca in cui andava di moda cavalcare la vicenda Bibbiano – ovvero l’inchiesta “Angeli e Demoni“, portata avanti dalla procura di Reggio Emilia – l’attuale Premier Giorgia Meloni, allora leader di Fratelli d’Italia, esordiva dicendo che non c’era necessità di chiedere scuse sul caso giudiziario in oggetto.

Non solo: Meloni si era fatta fotografare, reggendo un cartello con su scritto “Siamo stati i primi ad arrivare, saremo gli ultimi ad andarsene”: intendeva che Fratelli d’Italia avrebbe tenuto alta l’attenzione sul caso, che vedeva, fra i coivolti, un esponente del Pd, sindaco del paesino, fulcro della vicenda.

Ma le scuse oggi si rendono nececcarie, visto che è arrivata l’assoluzione per Claudio Foti, psicoterapeuta al centro dell’inchiesta, in quanto gestore dei servizi erogati dal punto di supporto “Hansel e Gretel”. La Corte di Appello di Bologna ha assolto Foti da tutte le accuse, infatti, per non aver commesso il fatto dall’abuso di ufficio e perché il fatto non sussiste dal reato di lesioni dolose gravi. In primo grado a Reggio Emilia Foti era stato condannato a quattro anni.

“Ho una domanda per la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni: a che ora intende chiedere scusa per lo sciacallaggio di quattro anni fa su Bibbiano?”, ha chiesto oggi il nostro direttore, Matteo Renzi, via social. Una domanda per la Premier cui ci sentiamo di aderire: a che ora, Presidente, arriveranno le scuse?

Parlateci (davvero) di Bibbiano. Bibbiano, Giorgia: spegni la luce così nessuno vede la faccia rossa di vergogna. Matteo Renzi su Il Riformista l'8 Giugno 2023 

Quando scoppiò il caso Bibbiano non ero più segretario del PD. E stavo già maturando la decisione di lasciare quel partito. Ma fui tra i pochi che mise la faccia fuori per difendere la dignità degli amministratori di quel partito – nel silenzio imbarazzato dai più – da una campagna di diffamazione pesantissima condotta dai populisti grillini, leghisti, meloniani.

Le tre principali strutture social del mondo politico italiano fecero un accordo esplicito: la Bestia di Salvini, Casalino per Conte e Di Maio e i presunti italici patrioti della Meloni attaccavano senza pietà il PD. Il motivo era semplice. L’ipotesi che vi possano essere delle violenze sui bambini è un tema che suscita ovviamente e giustamente orrore in tutta la comunità civile.

Dare le colpa di questa – presunta – violenza a un partito politico era un atto squallido e meschino ma veniva fatto dalle due forze politiche di maggioranza, dell’allora maggioranza, e dalla forza di opposizione di estrema destra. Parlateci di Bibbiano. Questo lo slogan ripetuto ovunque, scritto sui muri, rilanciato sui social, gridato in Parlamento e nei talk show.

Quando qualcuno avrà voglia di scrivere la storia della comunicazione politica degli ultimi dieci anni questa vicenda sarà annoverata e ricordata tra le più drammatiche e simboliche. Parlateci di Bibbiano. La Meloni faceva a gara: siamo stati i primi ad arrivare e saremo gli ultimi ad andarcene, dicevano i cartelli di Fratelli d’Italia.

Salvini era nel periodo delle magliette: persino in Parlamento i suoi si presentavano con le T-shirt con scritto Parlateci di Bibbiano. E Di Maio come al solito riusciva a esagerare sull’esagerazione: il PD è il partito “che ruba i bambini con l’elettroshock” diceva, salvo poi allearsi con il PD un mese dopo e diventare moderato in cambio della Farnesina.

Dopo quattro anni di aggressioni populiste la vicenda Bibbiano si è chiusa con le assoluzioni. In un mondo come quello politico in cui ci si dimentica a pranzo quello che si è mangiato a colazione può sembrare strano che ci sia chi come noi chiede oggi: “parlateci (davvero) di Bibbiano”.

Di Maio si occupa di Medio Oriente, anche se il Medio Oriente non sembra occuparsi di lui. Salvini pensa alle infrastrutture e ai ponti e pare aver trovato una dimensione più adatta al suo profilo anziché fare il Grande Inquisitore. Ma quella che ci interessa di più è Giorgia Meloni. Colei che è diventata Presidente del Consiglio nel rivedersi in quelle immagini in cui la foga giustizialista la possedeva, non prova un minimo di imbarazzo?

Domando a Giorgia Meloni: cara Presidente, hai detto che sei stata la prima ad arrivare e che saresti stata l’ultima ad andartene. Bene. Hai l’occasione. Chiudila tu la vicenda Bibbiano. Chiedi scusa. E poi spegni la luce su questa storia. Spegni la luce così che nessuno si accorga di chi ha la faccia rossa di vergogna.

Matteo Renzi

L'inchiesta della Val D'Enza. Bibbiano, un caso lungo quattro anni. L’inchiesta “Angeli e Demoni” dai tribunali alla politica. L’inchiesta “Angeli e Demoni”, il cui epicentro fu il Comune di Bibbiano, è stata una complessa vicenda giudiziaria che ha scosso l’Italia negli ultimi anni, passando dalle aule dei tribunali all’agone politico. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2023 

L’inchiesta della procura di Reggio Emilia che prende il nome di “Angeli e Demoni” è iniziata nel 2018 e ha avuto al centro delle indagini la rete di servizi sociali della Val D’Enza. L’accusa verso i responsabili dei servizi sociali consisteva nel fatto che avrebbero falsificato più relazioni al fine di riuscire ad allontanare diversi bambini dalle proprie famiglie per darli in affido ad amici e conoscenti. Il tutto, naturalmente, dietro compenso.

Le indagini partirono nell’estate del 2018; fu allora che il pm di Reggio Emilia – Valentina Salvi –  in seguito a denunce presentate dai servizi sociali verso genitori accusati di essere violenti – decise di dare inizio alle indagini, che coinvolsero medici, psicologi, assistenti sociali e politici. L’ipotesi era che, attraverso falsi documenti e pressioni psicologiche, i servizi sociali riuscissero a plagiare i minori, affinché i genitori venissero screditati e si potesse procedere all’affido, sulla base di ipotetiche violenze, nei fatti mai subite.

Nelle 277 pagine dell’inchiesta si ipotizzavano anche metodi manipolatori cui venivano sottoposti i bambini, con l’obiettivo di allontanarli dai genitori, per poi darli in affido e sottoporli ad un circuito di cure private a pagamento della Onlus piemontese Hansel e Gretel. Il pagamento di queste prestazioni, secondo l’accusa, avveniva senza rispettare le solite procedure d’appalto.

Nella vicenda, vennero indagati: il sindaco del Partito democratico di Bibbiano, Andrea Carletti; la responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza, Federica Anghinolfi; una coordinatrice dello stesso servizio, un’assistente sociale e due psicoterapeuti della Onlus coinvolta. Il totale fu di 27 persone, fra i quali Claudio Foti e sua moglie, gestori del centro “Hansel e Gretel”.

Tra i reati contestati ci furono frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione e peculato d’uso. Foti venne accusato di aver manipolato la testimonianza di una ragazza durante le sedute di psicoterapia, e di abuso d’ufficio in concorso perché sarebbe stato consapevole che le sedute dovevano essere bandite con un concorso e non affidate direttamente.

Foti nello specifico venne accusato di aver manipolato la ragazza, al fine di convincerla di aver subito abusi sessuali dal padre e di averla sottoposta alla tecnica della Emdr, la discussa “macchina dei ricordi”, “in totale violazione dei protocolli di riferimento”. Questo uno degli episodi di cui si parlò di più, mediaticamente, quando l’inchiesta divenne nota nell’estate del 2019, diventando una delle indagini più citate negli ultimi anni dalla politica.

Foti in primo grado a Reggio Emilia era stato condannato a quattro anni; a giugno 2023 arriva la sentenza di secondo grado che ribalta la precedente. La Corte di Appello di Bologna lo ha infatti assolto da tutte le accuse: per non aver commesso il fatto dall’abuso di ufficio e perché il fatto non sussiste dal reato di lesioni dolose gravi. Confermata anche l’assoluzione dall’accusa di frode processuale.

Nel corso degli anni, Bibbiano diventa terreno di scontro politico. “Parlateci di Bibbiano” diviene uno slogan virale, diffuso sui social. La vicenda entra prepotentemente nella campagna elettorale per le Regionali 2020 in Emilia Romagna. La deputata Maria Teresa Bellucci di Fratelli d’Italia portò il caso in parlamento. Giorgia Meloni, leader  FdI e futura Premier, in quei mesi fu molto attiva nel tenere alta l’attenzione sul caso, che coinvolgeva un esponente di un partito avverso, ovvero il Partito Democratico. Anche la Lega si distinse per la durezza delle posizioni sul caso. Matteo Salvini della Lega Nord chiese l’apertura di una commissione nazionale d’inchiesta sulla vicenda. Alessandra Locatelli , che fu ministro per la Famiglia della Lega Nord, chiese l’istituzione di una commissione nazionale d’inchiesta sull’azione dei centri di accoglienza responsabili per i minori. Il deputato leghista Alessandro Morelli si associò in queste richieste. Il M5S utilizzò come tormentone politico l’espressione “Il Partito di Bibbiano”, riferito al Pd. Matteo Renzi, in questo quadro, fu l’unico a esprimersi contro l’utilizzo politico della vicenda giudiziaria.

Dopo 4 anni, infine, giunge l’assoluzione di Claudio Foti: una svolta nell’inchiesta che spinge a ripensare alla strumentalizzazione a fine politico avvenuta all’epoca. come fatto notare dal nostro direttore Matteo Renzi.

I ‘carnefici’ invece sino tutti a piede libero. La cronistoria delle strumentalizzazioni sullo scandalo di Bibbiano, tra Meloni, Di Maio e Salvini. Phil su Il Riformista il 7 Giugno 2023 

Sono passati solo 4 anni, ma molti dei protagonisti di quella vicenda infame sembrano spariti, chi in altri lavori come inviato Ue per il Golfo Persico, chi semplicemente inghiottito dalla velocità della politica, come tanti parlamentari del M5S. Tra quelli rimasti vivi e vegeti, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il ministro dei trasporti Matteo Salvini, la sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni.

Tornando al passato, le lancette vanno riportate al luglio del 2019, ma questa storia comincia molto prima. In Italia regnano i gialloverdi, ovvero il governo di Conte, Di Maio e Salvini, che nel frattempo aveva anche abolito la povertà. L’inchiesta della Procura di Reggio Emilia ha un nome che sembra un film ‘Angeli e Demoni’ ed ha tutte le caratteristiche per fomentare una sanguinosa battaglia politica. Il colpevole è facile da individuare, è il Pd, quello timido ereditato da Nicola Zingaretti con dentro ancora una fortissima componente ‘renziana’. Fu infatti prevalentemente solo Matteo Renzi ad indignarsi subito per la campagna che Lega, M5S e Fdi stavano montando. Scriveva l’allora Senatore del PD, oggi leader di Italia Viva, il 29 luglio del 2019: ‘Con che faccia Di Maio e Salvini attaccano noi? Su questi temi dovremmo essere uniti tutti insieme per difendere i bambini. Siamo padri e madri, siamo figli: come si fa a dividerci su vicende del genere? Che vergogna utilizzare l’orrore per attaccare gli avversari politici, che pure non c’entrano nulla’. Il M5S, allora il gruppo più rilevante della legislatura, si assunse, come spesso è avvenuto, l’onere di avviare il massacro.

Ad Uno Mattina si presenta un pezzo grosso, il vicepresidente del Consiglio, nonché ministro dello Sviluppo Economico, e pronuncia parole gravissime: “Io col partito di Bibbiano non voglio averci nulla a che fare. Col partito che in Emilia toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli, io non voglio avere nulla a che fare”, dichiarò Luigi Di Maio. Attaccare il Pd per Luigi Di Maio aveva anche un senso politico: da settimane il partner di maggioranza Matteo Salvini interveniva su Bibbiano, accusando il M5S di fare sponda con il partito di Zingaretti, siamo pur sempre alla vigilia della rottura del Papeete.

Già Salvini, probabilmente il campione, il più insistente, in questa infame montatura. Il leader della Lega riuscì persino a portare sul palco di Pontida una bambina, facendo credere ai giornalisti che fosse di Bibbiano, ed invece era la protagonista di una brutta vicenda di allontanamento dalla famiglia, avvenuto però in Lombardia.

Poteva mancare a questa macabra campagna il contributo di Giorgia Meloni? In effetti l’attuale presidente del Consiglio, con quel suo cartello di allora, aveva ragione. Fratelli d’Italia sono stati tra i primi ad arrivare e gli ultimi ad andarsene (un riferimento a Bibbiano anche nella seduta di insediamento del suo governo alle Camere).

Alla fine di questa incredibile storia restano sicuramente due vittime: un sindaco PD (Andrea Carletti) accusato di culpa in vigilando accostato nella narrazione giornalistica al reato di pedofilia, e lo psicoterapeuta Claudio Foti, assolto ieri in appello, ma massacrato per 4 anni nelle aule di giustizia e negli show televisivi. I ‘carnefici’ invece sino tutti a piede libero, per lo più comodamente alloggiati a Palazzo Chigi.

La campagna infuocata. “Parlateci di Bibbiano”: lo sciacallaggio di Salvini, Di Maio e Meloni sull’inchiesta per attaccare il Pd. Carmine Di Niro su L'Unità il 7 Giugno 2023

Nell’estate del 2019 era tutto un “parlateci di Bibbiano”, gli hashtag #Bibbiano su Twitter erano di tendenza quotidiana per settimane. C’era chi, è il caso del recentemente “convertito” dopo anni di populismo Luigi Di Maio, parlava del Pd come del “Partito di Bibbiano”.

Bibbiano città epicentro di uno scontro politico giocato sulla pelle dei bambini, quelli al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni” della Procura di Reggio Emilia sulla rete di servizi sociali della Val D’Enza, sui presunti affidi illeciti: le accuse nei confronti degli indagati era (tra le altre) quella di aver falsificato più relazioni al fine di riuscire ad allontanare diversi bambini dalle proprie famiglie per darli in affido ad amici e conoscenti. Il tutto, naturalmente, dietro compenso.

Accuse che tornano oggi a ‘deflagra’ sui giornali a seguito dell’assoluzione in Appello di Claudio Foti, psicoterapeuta e fondatore dello studio di cura Hansel & Gretel, uno dei principali indagati per l’inchiesta su Bibbiano. Foti, condannato a 4 anni in primo grado, è stato assolto da tutte le accuse con diverse motivazioni: per quanto riguarda il reato di abuso d’ufficio “per non aver commesso il fatto”, mentre per il reato di lesioni dolose gravi “perché il fatto non sussiste”. Confermata anche l’assoluzione dall’accusa di frode processuale.

“Tutto ciò che ho creato è andato distrutto. Ho dedicato anima e cuore per far nascere il centro Hansel & Gretel e la gogna mediatica di questi anni l’ha raso al suolo. Mi hanno accusato di lesioni, proprio io che invece ho sempre difeso i bambini”, è passato al contrattacco il medico, sottolineando i “quattro anni di mortificazioni” e la “poltiglia di menzogne, cultura razzista, speculazione politica”.

Già, la politica. Perché tra gli indagati, ancora oggi a processo per il solo reato di abuso d’ufficio, c’era anche il sindaco Dem Andrea Carletti. Coinvolgimento nell’indagine che diede il là ad una vergognosa speculazione politico-mediatica.

L’epoca era quella del governo Conte I, quello giallo-verde con Movimento 5 Stelle e Lega. Matteo Salvini e Luigi Di Maio erano alleati in maggioranza, ma trovarono il supporto anche dall’allora ‘piccolo’ Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni in un tiro al bersaglio contro il Partito Democratico.

Fu proprio l’attuale premier la prima a cogliere la palla al balzo. Il 5 luglio 2019, l’inchiesta era appena nata, Giorgia manifesta davanti al municipio di Bibbiano ed evoca il pericolo di insabbiamento dell’inchiesta, oltre a straparlare (già a quei tempi) di “emersione dell’ideologia gender”.

Proprio un post social della leader di FdI in cui, davanti al cartello del Comune di Bibbiano regge uno striscione con la scritta “Siamo stati i primi ad arrivare. Saremo gli ultimi ad andarcene!”, è stato rilanciato in queste ore da Carlo Calenda e Matteo Renzi per ricordare lo sciacallaggio politico messo in atto da Meloni.

Impossibile anche dimenticar Luigi Di Maio, nel 2019 vicepremier di Conte, che dichiarava di “non voler aver nulla a che fare con il partito di Bibbiano”, salvo poi stringere l’alleanza che reggerà in piedi il Conte II.

A Pontida andrà poi in scena nel settembre di quell’anno la sceneggiata clou, con Matteo Salvini che al raduno del Carroccio sale sul palco con la piccola Greta, una bambina presunta vittima del ‘sistema Bibbiano’, pur senza mai citare il paesino della Val d’Enza. Peccato che, come si scoprirà solo dopo, quella bambina non c’entrava assolutamente nulla con Bibbiano, essendo originaria di un paesino del Comasco.

DI Carmine Di Niro 7 Giugno 2023

Bibbiano, la lettera di una bimba al padre: «Perché hai mentito?» Scricchiola ancora l’accusa: l’uomo –  condannato per rapina e minacce aggravate -, ha sostenuto in aula che la lettera fosse stata falsificata dai servizi, ma la difesa lo ha smentito: coincide perfettamente con quella inviata dalle affidatarie all'assistente sociale Monopoli. Simona Musco su Il Dubbio il 23 novembre 2023

«Mia figlia mi scriveva lettere commoventi che io non ho mai ricevuto. Ricevetti una sola lettera, di rabbia, consegnatami da Francesco Monopoli: mi disse che la bimba aveva finito l'inchiostro perciò aveva scritto lui». A dirlo in aula, lunedì, è stato uno dei padri vittime dei presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Un racconto, però, totalmente smentito dai fatti e dai numerosi documenti depositati dalle difese. Che hanno scoperto, innanzitutto, che la lettera consegnata al padre era originale, nonché i precedenti penali violenti dell’uomo. Che pur essendo stato designato in sede di separazione come genitore collocatario della minore a lui “strappata” oggi non vive con la figlia: dopo lo sfratto subito, la ragazza è tornata a vivere con la madre e la situazione non è mai cambiata da ottobre 2021.

Fu la bambina a chiamare i carabinieri

La vicenda è quella di Martina (nome di fantasia) che, secondo l’accusa, i servizi sociali della Val d’Enza avrebbero strappato via alla famiglia senza un motivo. Ma ad affidarla ai servizi sono stati i Carabinieri, che il 7 giugno del 2016 furono contattati telefonicamente proprio da Martina, che chiese loro di recarsi a casa perché «mamma e papà l’hanno lasciata da sola». A recarsi sul posto furono il brigadiere Romeo Tanchis e il carabiniere Giorgio Biccirè. E poco dopo, il comandante della Stazione, Andrea Berci, contattò i servizi sociali, stilando un verbale (del quale Il Dubbio è in possesso) nel quale dichiarò di aver rinvenuto la minore «in situazione abbandonica e/o di grave pregiudizio, in quanto materialmente e/o moralmente abbandonata». Da quel momento, dunque, la bambina passò in carico ai servizi sociali. Ma non si trattava della prima volta: la prima segnalazione alla procura dei minori arrivò nel 2008, da un’assistente sociale mai coinvolta nelle indagini e secondo la quale erano presenti «elementi di preoccupazione sia rispetto alle condizioni di vita della minore sia rispetto al ruolo delle figure genitoriali». Elementi, questi, risalenti dunque a molti anni prima del blitz “Angeli e Demoni”, ma non contenuti nel fascicolo del pm. «La bimba non stava mai da sola - ha detto in aula il padre - o con la madre o con la zia o un’amica di famiglia, che veniva ad aiutare per le pulizie». Ma sono i vicini di casa, stando alle dichiarazioni dello stesso padre nel 2016 - e che sono state a lui puntualmente contestate in aula dalle difese - a confermare i lunghi periodi di solitudine della bambina, che spesso affermava di non avere nessuno che le cucinasse, al punto da chiedere aiuto dalla finestra. L'uomo - anche lui spesso fuori per lavoro - aveva infatti confermato i periodi di assenza della madre in un verbale di sette anni fa, negando poi le sue stesse dichiarazioni nel corso dell’indagine “Angeli e Demoni”, quando l’uomo descriveva una situazione del tutto diversa. «Ogni giorno chiamavo il mio avvocato ma Monopoli rispondeva che lui era malato, che la bimba aveva degli impegni o non voleva vedermi: c'era sempre una scusa». Ma anche questa circostanza si è rivelata non corretta: a testimoniare gli incontri e le telefonate protette sono i messaggi in cui Monopoli si informava dell’esito degli stessi incontri.

La presunta lettera modificata

Nel raccontare di una lettera in cui Martina esprimeva la sua delusione per le bugie del padre, l’uomo ha puntato il dito contro Monopoli, sostenendo che era stato lui ad aggiungere le frasi polemiche, di fatto falsificandola. La lettera era stata scritta dopo il ricovero di Martina in ospedale, a causa di un episodio epilettico. Monopoli, quella mattina, avvisò il padre, rassicurandolo sul fatto che lo avrebbe tenuto informato nel pomeriggio. L’uomo, però, disattendendo le prescrizioni del Tribunale dei Minori - che imponeva incontri protetti tra padre e figlia - si recò in ospedale, rassicurando la bambina sul fatto di essere autorizzato a tale incontro senza operatori presenti. Ma non era vero. Da qui la lettera: «Caro papà - scriveva Martina il 4 novembre 2017 - mi manchi tanto però ti chiedo una cosa perché mi hai mentito in ospedale dicendo che tu ti sei messo d'accordo con Francesco Monopoli che potevi venire? Sei obbligato a rispondermi e un'altra cosa: tu mi hai già mentito dopo il patto che non dicevamo le bugie? Ciao e ricordati di rispondermi con la verità altrimenti non mi fiderò più di te. Ciao! Baci». Secondo l’uomo, sarebbe stato Monopoli a scrivere le frasi rabbiose. Ma a smentire l’uomo sono i messaggi, depositati mercoledì in aula: la lettera, infatti, è stata inviata a Monopoli dalla famiglia affidataria, esattamente così come poi è stata consegnata al padre. Insomma, si tratta di una lettera originale e non manipolata da nessuno.

Le numerose contraddizioni

Sono numerose le contraddizioni dell’uomo. Che ha negato, ad esempio, un’ordinanza del Tribunale - depositata agli atti - che gli imponeva di collaborare affinché la figlia si riavvicinasse alla madre. Ma non solo: parlando della moglie con il ctu Giuseppe Bresciani, nominato nella fase di incidente probatorio nel procedimento penale contro la madre per l’ipotesi di maltrattamenti, l’uomo aveva raccontato che «la signora aveva altre vite, la signora si prostituiva, ho scoperto anche quello dopo... persone investigative di alto livello mi hanno confermato questo». Inoltre, a sommarie informazioni documentali nel 2016 aveva affermato anche che la bambina gli avrebbe riferito che la madre incontrava il proprio amante anche a casa loro, nei periodi di assenza del padre per lavoro, e che la stessa avrebbe assistito anche a scambi di baci tra i due, cosa che sarebbe stata costretta a tenere nascosta al padre, finché ha potuto. Affermazioni negate in aula, nonostante la dettagliata relazione del ctu (che testimonierà nel corso del processo) e i verbali di quelle sit, acquisiti dal collegio giudicante. Dalle indagini difensive è emerso però anche dell’altro: stando ad una relazione dei servizi sociali di altro Comune (al quale il caso era stato riassegnato dopo il blitz), redatta il 5 dicembre 2019 a seguito di un incontro protetto padre-figlia, l’uomo avrebbe confidato a Martina «di sapere già tutto prima degli altri» in relazione all’inchiesta. «Sapeva che il 27 (giugno, ndr) sarebbe scoppiata la bomba, sapeva delle cimici, delle intercettazioni, suscitando» nella figlia «stupore ed ammirazione». «Adesso che inizierà il processo riderà», annotavano ancora i servizi riportando le sue affermazioni. L’uomo, in aula, ha negato di aver mai pronunciato queste frasi: «Non è vero, per saperlo avrei dovuto essere un agente dei servizi segreti». Ma quelle parole sono nero su bianco.

Il disagio attuale della bambina

Gli avvocati Andrea Stefani e Valentina Oleari Cappuccio, difensori delle madri affidatarie di Martina, hanno depositato una relazione dei servizi sociali di Reggio Emilia, risalente ad aprile 2022, ovvero tre anni dopo il blitz. Una relazione che certifica la situazione attuale della ragazza: «In più di un’occasione, si è rischiato che la minore fosse consegnata ai servizi - si legge -. È stato necessario richiamare, anche in maniera molto forte, la coppia genitoriale alle loro responsabilità parentali e restituire loro di come queste loro posizioni compromettevano in maniera molto forte l'equilibrio psico emotivo della minore. I colloqui con la coppia genitoriale non sono assolutamente di facile gestione, il livello di conflittualità è ancora molto alto e ognuno, in maniera diversa, ha delle rivendicazioni nei confronti dell’altro e la minore viene, purtroppo, troppo spesso non vista, non considerata nelle evoluzioni psichiche». Tant’è che è stata la stessa Martina a chiedere «di riprendere gli incontri» con la psicologa dell’Ausl. Ma non solo: nonostante il padre avesse dichiarato al ctu Bresciani di tenere molto all’istruzione della figlia, «abbiamo riscontrato delle lacune da parte dei genitori che sono stati sollecitati a porvi rimedio, ed in particolare nessuno dei due aveva la password per controllare il registro elettronico (compiti, note, assenze etc...) e non avevano preso ancora i libri alla figlia (mancava la parte dei soldi del padre)». La ragazza è stata bocciata il primo anno di scuole superiori a causa del numero di assenze, 320 ore in totale.

La querela della moglie

La difesa di Federica Anghinolfi - Oliviero Mazza e Rossella Ognibene - ha portato in aula la querela dell’aprile 2008 sporta dalla madre della bambina per le percosse ricevute dal marito, dal cognato e dalla cognata, che a loro volta hanno sporto querela contro la donna, con la stessa accusa. Episodi che si sarebbero svolti, secondo gli stessi querelanti, alla presenza della bambina. E in diverse occasioni i carabinieri sono intervenuti per sedare le liti tra i due coniugi. L’uomo ha negato di aver mai picchiato la moglie, che nel 2008 è andata a vivere in comunità con la bambina. I servizi avevano chiesto al padre di uscire di casa per consentire alla donna di rimanere lì con la figlia, ma l’uomo si è opposto. Circostanza negata dallo stesso mercoledì in aula, ma contraddetta da un documento depositato dalla difesa: «In base alla situazione di grossa conflittualità fra la coppia genitoriale, alla presenza di una minore che ha assistito in più occasioni alle divergenze fra i suoi genitori e alla non disponibilità» del padre «di allontanarsi da casa - si legge in una relazione del 20 maggio 2008 inviata al Tribunale dei Minori -, il Servizio scrivente ha provveduto a collocare in emergenza» la madre con la bambina.

I precedenti del padre

L’uomo ha precedenti per reati violenti: una condanna per rapina ad un distributore di benzina - con tanto di calci e pugni al gestore, al quale vennero puntate due pistole, solo una quelle quali era un giocattolo -, condanna già nota alle cronache e alle parti, e una seconda condanna per minaccia aggravata, che l’uomo ha prima negato in aula, e poi, di fronte all’evidenza, ammesso. A scovare la seconda condanna è stato l’avvocato Nicola Canestrini, difensore di Francesco Monopoli. Stando alla sentenza - il reato si è poi estinto per prescrizione, ma dopo una doppia conforme -, il 13 gennaio 2010 l’uomo si è presentato in un bar insieme alla moglie, chiedendo alla donna al bancone «di consegnargli la pagina di giornale ove era riportata la foto della moglie (a lei consegnata in precedenza da quest'ultima, quando le aveva riferito “le cose” che l'imputato la costringeva a fare). Poiché la donna rispondeva di non avere più quel giornale, l'imputato si era alterato, aveva buttato il contenitore dello zucchero sul bancone del bar, l'aveva insultata e poi minacciata dicendole di stare attenta e che l'avrebbe “ammazzata” e mostrandole un coltellino che teneva in mano», col quale in seguito avrebbe anche lacerato la gomma dell’auto della donna (sul punto la querela è stata però ritirata).

Bibbiano, la difesa: «I carabinieri inviavano audio alla stampa?» L’intercettazione: «Questa settimana mi sembra ideale... tre o quattro devono partire». La pm: «Parlavano dell’invio in procura». I legali: «Poco credibile». Simona Musco su Il Dubbio il 27 novembre 2023

«Questa settimana mi sembra ideale per gli audio… quello del lupo… quello dei compiti in classe, del sesso con mamma e papà… tre o quattro devono partire». A parlare è un carabiniere del Comando provinciale di Reggio Emilia. È l’8 luglio 2019, ore 10.56. Il blitz dei carabinieri nell’ambito dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza è scattato da poco meno di un mese e l’intera Italia è sconvolta dai particolari emersi dall’ordinanza di custodia cautelare, finiti quasi integralmente sui giornali.

Ma ci sono ancora molti dettagli rimasti nascosti nelle carte e nei file in possesso degli inquirenti. Le indagini sono ancora in corso e quel giorno un militare sta chiamando uno degli indagati dell’inchiesta Angeli&Demoni. Il telefono squilla a vuoto, ma la registrazione autorizzata dal gip è già partita. Sono 29 secondi, il militare sta parlando con un collega la cui voce rimane sullo sfondo. E l’impressione, almeno per i difensori, è che si stia programmando un invio scientifico di audio alla stampa, che pochi problemi si è fatta a mettere in piedi quel processo mediatico che ha caratterizzato l’intera vicenda.

A consegnare quell’audio al collegio sono stati Oliviero Mazza e Rossella Ognibene, difensori di Federica Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza e principale imputata nel processo. Ai quali si sono associati tutti i colleghi e, in particolare, Giovanni Tarquini, avvocato del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, che già in passato aveva tentato di capire quale fosse il canale tra inquirenti e stampa, date le fake news diffuse sul suo assistito, in particolare in relazione al presunto furto di minori di cui si sarebbe reso responsabile assieme «all’elettroshock» (in realtà mai avvenuto).

La questione è spinosa, perché sintomo - nell’ottica difensiva - delle violazioni che avrebbero caratterizzato l’intera vicenda. Il deposito è avvenuto a inizio udienza e solo al termine della prima parte, attorno alle 13, l’ufficiale di pg che ha svolto le indagini ha fatto ingresso in aula con un foglio. Si tratta di un documento, con tanto di timbro e data dell’8 luglio 2019, timbro che però non è segnato da alcuna firma. Per la pm Valentina Salvi oggetto di quella conversazione era soltanto la trasmissione delle intercettazioni all’ufficio Cit della procura - ovvero il Centro intercettazioni telefoniche, dove sono collocate le sale d’ascolto e gli apparati elettronici e informatici per le attività di intercettazione e di archiviazione dei file -, atto che non è obbligatorio, ha sostenuto, depositare nel fascicolo del pm.

Ma la difesa di Anghinolfi ha respinto al mittente la spiegazione: «Quando nell’intercettazione si dice “questa è la settimana ideale per gli audio, 3 o 4 devono partire”, non può essere il preannuncio di un deposito ufficiale delle intercettazioni, anche perché a tutto concedere, se anche così fosse, dovremmo interrogarci sulla possibilità della pg di selezionare audio - ha detto Mazza -. Tre o quattro devono partire, come dire: tutti gli altri invece non partono». La trascrizione di quell’audio, dunque, è importante per valutare l’attendibilità di uno dei principali testi d’accusa, il maresciallo Giuseppe Milano, che secondo la difesa sarebbe il protagonista di quell’audio. Ma Mazza ha sollevato anche un’altra questione, già discussa in udienza preliminare: l’incompletezza del fascicolo pm.

«Tutte le note di trasmissione del pg al pm non possono non essere comprese nel fascicolo d’indagine. Questa è la riprova di ciò che abbiamo sempre detto - ha sottolineato -, ovvero la nullità dell’avviso di conclusione delle indagini perché il fascicolo, ad oggi, è ancora incompleto. La domanda che questa difesa si pone è: cosa dobbiamo aspettarci dal fascicolo del pm, ci sono altri atti che non conosciamo, altri atti, magari favorevoli alla difesa, che non sono stati depositati? Rimane valida la richiesta della difesa di trascrizione, nonostante la nota del pm, proprio perché inconferente con il tenore letterale dell’intercettazione che vorremmo trascrivere, ma segnaliamo ancora una volta la nullità non solo dell’avviso di conclusione indagini, ma anche della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto che dispone il giudizio, quindi la sequenza di atti propulsivi per l’incompletezza del fascicolo del pm. Finché è incompleto noi non sapremo mai cosa è rimasto fuori dal fascicolo e questo per la difesa è destabilizzante». Una puntualizzazione che trova d’accordo Tarquini. «Quando l’ascolterete - ha spiegato - emergerà la totale incompatibilità tra un atto di trasmissione, ammesso che ci sia stato, e il contenuto e il riferimento al portar fuori “3 o 4” che è incompatibile con un atto di deposito formale». Ma per l’accusa tutto è avvenuto nel rispetto del codice di procedura: «È stata seguita la normativa in materia di intercettazioni, telefoniche o ambientali che siano».

Durante l’ultima udienza è stato ascoltato a lungo l’ex comandante della Stazione dei Carabinieri di Bibbiano, Andrea Berci, che ha negato di aver mai sentito parlare di «setta di pedofili», riferendosi invece a «persone che potevano avere intenti di questo tipo». Inoltre, parlando dell’assistente sociale Francesco Monopoli, ha chiarito di non aver mai ricevuto pressioni da parte sua. «Lo avrei cacciato dalla caserma - ha sottolineato -. Non c’era alcuna possibilità che lui potesse fare delle pressioni. Non ho mai avuto motivo di pensare che aggiustasse la realtà - ha aggiunto -. Né ha mai chiesto di bonificare dalle cimici dei locali. Mi sarei alzato e sarei andato in procura». Quello con Monopoli era «un rapporto professionale esteso», ha evidenziato. «Lui con me ci parlava volentieri. Si è sempre dimostrato accorato e tendente al bene, per cercare di risolvere nel modo giusto la situazione. Lui con me si sfogava, mi ha detto più di una volta: “non me ne frega nulla se anche tu un giorno mi tradirai e mi dirai che sono un bandito, ma sei rimasto solo tu e basta”». Ma non solo. Berci ha anche raccontato la vicenda relativa a Martina (nome di fantasia), che il 7 giugno del 2016 chiamò i carabinieri affermando di essere stata lasciata sola dai genitori. «La famiglia, per quanto mi riguarda, era in particolare difficoltà», ha ricordato, riferendosi ad un precedente intervento presso l’abitazione, «che era un disastro: la signora aveva distrutto tutto - ha evidenziato -. Sosteneva davanti alla figlia che fossero stati sottratti dei soldi dal marito», circa 5mila euro. Il militare intervenuto in quel caso mise in allerta Berci. «Mi disse: fa attenzione, perché la famiglia è in uno dei suoi momenti particolari».

Il 7 giugno 2016 ad intervenire furono il brigadiere Romeo Tanchis e il carabiniere Giorgio Biccirè, ai quali Berci vietò di entrare in casa in assenza dei servizi. «Non avrei lasciato la bambina un’ora con i colleghi o con la porta aperta o a girare per il giardino come era solita fare. Detto ciò, anche se l’atteggiamento del padre era migliore di quello della madre, siccome faccio il carabiniere secondo me era un reato da caricare (sic.) entrambi. La madre era fuori da almeno un giorno - ha aggiunto - perché aveva una relazione con un altro uomo, quindi prendeva corpo l’idea che il padre fosse volontariamente uscito di casa per lasciarla sola, infatti le aveva detto di chiamare il 112. Era evidentemente aumentata la pressione interna alla famiglia».

Il padre si era lamentato con Berci del fatto che i servizi non consegnassero i suoi regali alla bambina. Ma uno scambio di messaggi tra Berci e Monopoli smentisce tale volontà: «Il 3» il padre «vedrà la bambina, può darglieli lui», aveva scritto l’assistente sociale. Le difese hanno messo in evidenza la forte conflittualità tra i coniugi e anche le reciproche denunce, tra le quali quella in cui la moglie sosteneva di essersi «dovuta prostituire perché il marito non provvedeva alle necessità familiari». Ascoltata, nel pomeriggio, anche l’assistente sociale Cinzia Magnarelli - che l’avvocato Nicola Canestrini, difensore di Monopoli, aveva chiesto di considerare inattendibile, date «le modalità fortemente suggestive o nocive adottate dagli inquirenti» nell’interrogatorio del 4 settembre 2019. Magnarelli - che ha già patteggiato la pena - ha parlato di «disaccordi», più che di pressioni, pur ricordando un episodio in cui Anghinolfi avrebbe minacciato un ordine di servizio.

L’assistente sociale ha sottolineato, tra le altre cose, di essersi rifiutata di parlare di «stupro» nel corso di un convegno in relazione al caso di una ragazzina, come invece richiesto da Anghinolfi per smuovere le coscienze. Caso che si è concluso con una condanna a 4 anni e 8 mesi a carico di un padre, che stando all’accusa aveva costretto la bambina a «subire atti sessuali». Il capo d’accusa è proprio «violenza sessuale». Insomma, uno stupro.

La Condanna in Primo Grado.

Bibbiano ed i bambini rapiti dallo Stato: primo grado condanna per Foti; secondo grado assoluzione per Foti. Come può cambiare l’approccio psicologico dei media e della società rispetto all’evoluzione dei fatti modificati dall’opinione di un giudice diverso dal precedente. Chi ha ragione: il primo o il secondo? E che dire della strumentalizzazione politica prima e dopo le sentenze? E la disinformazione dei Media prezzolati e/o partigiani? C’è chi guarda il Dito, ma la Luna indicata (i bambini rapiti dallo Stato) dovrebbe essere la pietra dello scandalo.

Lo psicoterapeuta Claudio Foti, condannato in primo grado nel caso degli affidi nel comune di Bibbiano, è stato assolto in appello. Il Post.it il 6 giugno 2023.

Lo psicoterapeuta Claudio Foti, che nel 2021 era stato condannato in primo grado nel caso degli affidi nel comune di Bibbiano per abuso d’ufficio e lesioni dolose gravi, è stato assolto in secondo grado dalla Corte d’Appello di Bologna. Per quanto riguarda l’abuso d’ufficio secondo la Corte Foti non ha commesso il fatto; per quanto riguarda il reato di lesioni dolose secondo la Corte il fatto non sussiste.

Foti è il fondatore e responsabile della onlus Hansel e Gretel di Moncalieri (Torino) a cui il comune di Bibbiano (Reggio Emilia) aveva commissionato lo svolgimento di sedute di psicoterapia, convegni e corsi di formazione.

Nell’estate del 2018 alla procura di Reggio Emilia era stato riportato un aumento significativo e considerato anomalo di segnalazioni di abusi sessuali su minori relative ai due anni precedenti  e soprattutto al servizio sociale dell’Unione dei comuni della Val D’Enza. Così iniziò un’indagine sulle sedute di psicoterapia e sui metodi utilizzati per verificare gli eventuali abusi rivelati da bambini a familiari o maestre. L’indagine, che portò ai discussi arresti del giugno del 2019, fece emergere secondo la procura un meccanismo che portava, attraverso l’intervento dei servizi sociali e poi della Hansel e Gretel, all’allontanamento non giustificato dei bambini dalle loro famiglie. I bambini allontanati erano poi mandati nella struttura pubblica La Cura, gestita dalla Hansel e Gretel.

Che cosa dice la prima sentenza sul “caso Bibbiano”. Il Post.it il 12 novembre 2023.

Il processo nato dall’inchiesta “Angeli e Demoni”, quella che riguarda i casi di abusi nel processo di affidamento di minori nel comune emiliano di Bibbiano, ha concluso ieri la fase del rito abbreviato chiesto da due degli imputati. Lo psicoterapeuta Claudio Foti è stato condannato a quattro anni per lesioni gravissime e abuso d’ufficio (l’accusa aveva chiesto sei anni). L’altra indagata che aveva chiesto il rito abbreviato, l’assistente sociale Beatrice Benati, è stata invece assolta.

Per altre 17 persone che hanno optato per il rito ordinario ci sarà il processo: sono infatti state rinviate a giudizio. Tra di loro c’è il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, che andrà a giudizio per abuso d’ufficio ma è stato prosciolto dalle accuse di falso. Cinque persone sono state prosciolte al termine delle indagini. 

La vicenda, cominciata nel giugno del 2019, occupò per molte settimane le cronache dei giornali ed ebbe particolare visibilità per lo scontro politico che provocò tra il Partito Democratico, che amministrava la città, e Lega, Fratelli d’Italia e Movimento 5 Stelle, che accusarono il centrosinistra locale e l’intero sistema dei servizi sociali dell’Emilia- Romagna, regione a sua volta governata dal PD. Il procuratore capo di Reggio Emilia intervenne però spiegando che «sotto inchiesta non c’è il sistema dei servizi: sotto inchiesta ci sono delle persone». È stata chiarito e ridimensionato anche il coinvolgimento del sindaco Carletti, accusato per la presunta violazione delle normative degli appalti e non per i presunti abusi sui bambini.

Bibbiano è un centro con poco più di 10.000 abitanti a 16 km da Reggio Emilia. Finì al centro dell’attenzione il 26 giugno 2019 quando 16 persone, tra amministratori, assistenti sociali e psicoterapeuti furono oggetto di misure cautelari, e 24 in totale finirono nel registro degli indagati sospettate di aver redatto o agevolato relazioni false per allontanare bambini dalle loro famiglie e darli in affido, in alcuni casi, ad amici e conoscenti. Secondo la Procura di Reggio Emilia le false relazioni erano state compilate dopo sedute di psicoterapia che avevano suggestionato i minori, alterando i loro ricordi tanto da indurli, in alcuni casi, ad accusare ingiustamente i genitori di molestie sessuali.

Claudio Foti, responsabile della onlus Hansel e Gretel di Moncalieri, in provincia di Torino, finì agli arresti domiciliari e così pure il sindaco di Bibbiano.

L’inchiesta era iniziata nell’estate del 2018 quando alla procura di Reggio Emilia venne riportato un aumento significativo e considerato anomalo di segnalazioni di abusi sessuali su minori avvenuto soprattutto negli ultimi due anni. I casi riguardavano soprattutto il Servizio sociale dell’Unione dei comuni della Val D’Enza, e la Procura autorizzò la polizia giudiziaria a effettuare intercettazioni ambientali delle sedute con i minori.

Alle sedute di psicoterapia si arrivava dopo che il bambino aveva rivelato a un familiare o a una maestra quelli che il gip di Reggio Emilia Luca Ramponi, chiamò, nell’ordinanza che portò agli arresti, «elementi anche labili di abusi sessuali». Il gip evidenziò «un copione quasi sempre uguale a se stesso» con provvedimenti di allontanamento in via d’urgenza, segnalazioni alla Procura della Repubblica di Reggio Emilia e al Tribunale per i minori, e una serie di relazioni che avevano in comune la «tendenziosa rappresentazione dei fatti» oppure la «omissione di circostanze rilevanti», sempre secondo le indagini della Procura.

L’inchiesta era incentrata su due tipologie di reati. Da una parte l’indagine voleva accertare le modalità di assegnazione da parte del comune di Bibbiano di sedute di psicoterapia, convegni, corsi di formazione alla comunità Hansel e Gretel. In sostanza si voleva accertare se ci fosse stato un uso improprio dei fondi pubblici. Dall’altra parte l’indagine si concentrò sulle sedute di psicoterapia dei bambini e sui metodi utilizzati per verificare gli eventuali abusi. L’indagine che portò agli arresti del giugno 2019 fece emergere secondo la Procura un meccanismo che portava, attraverso l’intervento dei servizi sociali e poi della onlus Hansel e Gretel, all’allontanamento non giustificato dei bambini dalle loro famiglie.

Dopo la segnalazione ai servizi sociali i bambini venivano inviati presso la struttura pubblica La Cura, gestita dalla Hansel e Gretel, diretta da Foti. Qui i bambini erano sottoposti a sedute pagate dai comuni della Val d’Enza fino a 130 euro l’una. Secondo il gip durante le sedute avvenivano «significative induzioni, suggestioni, contaminazioni» che in alcuni casi preparavano i bambini ai colloqui nelle sedi giudiziarie che dovevano decidere sull’eventuale affido, con modalità che«rischiano fortemente di contribuire alla costruzione di falsi ricordi».

Le sedute venivano condotte da Foti e dai suoi collaboratori secondo il metodo EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing): una tecnica che attraverso un apparecchio chiamato Neurotek manda ai pazienti stimoli acustici e tattili. Isabel Fernandez, presidente dell’associazione EMDR Italia, spiegò a Repubblica, in un’intervista come funziona la tecnica, «nata per curare il disturbo da stress post traumatico dei veterani del Vietnam, ora usata con chi sopravvive a un terremoto. Si basa su movimenti oculari destra-sinistra, gli stessi della fase Rem del sonno. Il ricordo perde la sua carica emotiva negativa, si attenua». 

Per Fernandez la tecnica non fa «affiorare ricordi di situazioni traumatiche che non sono avvenute». E il Neurotek «non è un apparecchio dannoso ma è inutile se non ci sono ricordi traumatici». Alcuni giornali arrivarono a parlare di elettroshock a cui venivano sottoposti i bambini, ma l’inchiesta non ha mai fatto cenno a nulla del genere.

Il caso più simbolico presentato dalla Procura di Reggio Emilia, e che ha portato ieri alla condanna di Foti, riguarda una ragazza che la Hansel e Gretel ebbe in cura tra il 2016 e il 2017. Secondo la Procura le sedute sarebbero state condotte con modalità suggestive, generando nella minore «la convinzione di essere stata abusata dal padre e dal socio». Questo aveva causato in lei «disturbi depressivi». La ragazza era stata sottoposta alla tecnica della EMDR «in totale violazione dei protocolli di riferimento». Il metodo adottato da Foti non è considerato valido dalla Carta di Noto, un documento che dà le linee guida da seguire e mettere in pratica per chi lavora con minori presunte vittime di abuso. Foti ha sempre contestato la carta di Noto chiamandola «Vangelo apocrifo».

Durante l’inchiesta emersero molti casi ritenuti rilevanti dalla Procura di Reggio Emilia e che hanno portato ai rinvii a giudizio decisi ieri. Per esempio la casa in cui viveva una bambina veniva descritta dalla relazione dei servizi sociali come non adatta a un minore perché fatiscente e trascurata. I carabinieri che eseguirono poi l’ispezione trovarono che la casa fosse assolutamente normale. In altri casi venivano riportate come frasi pronunciate dai bambini quelle che erano elaborazioni degli assistenti sociali o addirittura delle sintesi.

In un altro caso venne accertato che in una relazione su una presunta violenza sessuale subita ci fu una manipolazione evidente e fu falsificato un atto pubblico: al disegno fatto da una bambina in cui ritraeva se stessa accanto all’ex compagno della madre vennero aggiunte le mani che dal corpo dell’uomo arrivano all’area genitale della minore. Il grafologo che esaminò il disegno non ebbe alcun dubbio sul fatto che si trattasse di un falso. Secondo il gip questa modifica fu fatta dalla psicologa della Asl che seguiva la bambina per avvalorare l’esistenza di abusi sessuali compiuti dall’ex compagno della madre.

Nell’ordinanza che accompagnò gli arresti il gip sottolineò anche il caso di una psicoterapeuta che «dichiarava sistematicamente alla minore che quest’ultima aveva subito attenzioni sessuali quando era piccola da parte di un uomo di cui lei si fidava e che si era approfittato di lei, con inequivocabili riferimenti al padre, aggiungendo che si trattava di traumi presenti nella sua mente e che era necessario tirare fuori. Suggeriva ripetutamente la necessità di svuotare gli “scatoloni” metaforicamente presenti nella cantina dei propri ricordi, alcuni dei quali chiamati “papà” e “sesso”, promettendole benessere e ulteriori vantaggi qualora la bimba li avesse svuotati». 

Secondo le carte dell’inchiesta, sempre la stessa psicoterapeuta nella sua relazione per condizionare i periti sosteneva che la madre della bambina fosse «una prostituta» e che «nessuno dei due genitori si era mai occupato di lei». Inoltre aveva riferito al perito «asseriti sintomi dissociativi della bambina omettendo di riferire la sintomatologia a lei nota di epilessia» e aveva sostenuto di aver osservato personalmente durante le sedute «comportamenti aggressivi e sessualizzati» che in realtà le erano stati descritti dalle persone affidatarie.

Secondo l’ordinanza del gip che portò agli arresti, l’obiettivo era quello di dipingere il nucleo familiare originario come connivente o complice con il presunto adulto colpevole di abusi, supportando «in modo subdolo e artificioso» gli indizi, nascondendo elementi che indicavano possibili spiegazioni alternative ai comportamenti dei minori.

A gestire il metodo delle relazioni forzate, secondo la Procura, sarebbe stata la dirigente dei servizi sociali dell’Unione Val D’Enza, Federica Anghinolfi. La dirigente avrebbe spinto gli operatori che lavoravano con lei a redigere relazioni false, facendo sì che i bambini venissero affidati a coppie di sua conoscenza.

Dal 2017 al 2019 gli assistenti sociali coordinati dalla Anghinolfi intervennero nei casi di 100 bambini. In 85 di questi casi il Tribunale corresse le loro scelte e solo in 15 casi i giudici confermarono la necessità di un intervento. Di questi 15, in otto casi i genitori non fecero ricorso contro l’allontanamento.

Oltre a essere stato condannato a quattro anni, Foti è stato interdetto dai pubblici uffici per la durata di cinque anni e sospeso dalla professione di psicoterapeuta e psicologo per due anni. Dovrà inoltre risarcire i danni in favore delle parti civili Gens Nova Onlus, Unione Val d’Enza, Unione dei Comuni Modenesi Area Nord, Ausl di Reggio Emilia, Regione Emilia-Romagna, Ministero della Giustizia, Comune di Montecchio Emilia. L’altra persona che aveva scelto il rito abbreviato era l’assistente sociale Beatrice Benati. Era accusata di violenza privata per aver consigliato a una donna di interrompere la relazione col compagno che sospettava di nutrire interesse sessuale per la minore, per evitare che fosse affidata a un’altra famiglia. Benati è stata assolta.

Tutti gli imputati ad eccezione di cinque sono stati rinviati a giudizio per un totale di 97 capi d’imputazione. L’ex dirigente del Servizio sociale dell’Unione Val d’Enza, Federica Anghinolfi, è stata prosciolta da due capi d’accusa ma andrà a processo per altri 64. L’assistente sociale Francesco Monopoli, altra figura centrale nell’ipotesi di accusa, è stato assolto invece per un capo di imputazione e rinviato a giudizio per i restanti 31. Per il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti e quello di Montecchio Emilia Paolo Colli è stato disposto il rinvio a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, ed entrambi sono invece stati prosciolti per il delitto di falso. Carletti dovrà rispondere dell’assegnazione alla onlus Hansel e Gretel dei servizi di psicoterapia, avvenuta, secondo l’accusa, senza che fosse disposto un bando pubblico. Il processo inizierà a giugno 2022.

Dopo la sentenza Claudio Foti, che si è sempre dichiarato innocente, ha detto:

«Ho dedicato 40 anni della mia vita all’ascolto attento e rispettoso di bambini e ragazzi. Abbiamo consegnato 15 videoregistrazioni che non sono state esaminate con la dovuta attenzione. Credo che chiunque si approcci senza pregiudizio all’analisi di quei video potrà verificare un atteggiamento esattamente opposto a quello necessario e sufficiente per potermi condannare per lesioni.

C’è stato uno scontro, in quest’aula, che non doveva avvenire in ambito giudiziario, ma in accademia, fra posizioni culturali e teoriche diverse. Io credo che sia stata criminalizzata la psicoterapia del trauma, cioè una posizione che non c’entra nulla con il “metodo Foti”, distorto e spettacolarizzato. La psicoterapia del trauma è portata avanti da una componente ampia di psicoterapeuti, di clinici, che hanno un approccio che si oppone ad un’altra branca. Una contrapposizione che però è stata fatta in un’aula giudiziaria, cosa a mio parere scorretta».

Uno degli avvocati di Foti, Giuseppe Rossodivita, uscendo dal tribunale, ha detto ai giornalisti:

«La situazione ambientale di questo tribunale, evidentemente, è stata fortemente condizionata dal processo mediatico. Ovviamente faremo appello, continuiamo ad avere fiducia nella giustizia, ma soprattutto nel fatto che viviamo in uno Stato di diritto. Foti non era accusato dei fatti riportati dalla stampa, non ha mai avuto a che fare con minori. Ma molti giornalisti hanno avuto con lui lo stesso atteggiamento avuto con un’altra persona, poi assolta in appello: Enzo Tortora».

Le Storie.

Estratto da leggo.it il 17 giugno 2023.

La Procura di Milano ha chiuso le indagini, in vista della richiesta di processo, con l'accusa di riduzione in schiavitù per una coppia di genitori affidatari che per circa 15 anni, tra il 2000 e il 2015, avrebbero costretto una giovane, ospitata nella loro casa quando era appena maggiorenne, a subire «violenze sessuali, anche di gruppo» anche in «un contesto di riti satanici e messe nere».

Il tutto sarebbe accaduto in un paese in provincia di Como, quando la ragazza appena maggiorenne e della personalità fragile, in «prosieguo amministrativo» fino ai 21 anni viene affidata dai servizi sociali a una coppia di «genitori affidatari» che avrebbe dovuto prendersene cura, con un rimborso economico. 

La giovane inizia a subire le attenzioni sessuali del genitore affidatario e poi resta incinta. La coppia dapprima cerca di convincerla ad abortire, poi nega qualunque coinvolgimento e solo dopo il test del Dna disposto dal Tribunale per i minorenni ammette che il figlio è dell’uomo.  […] 

Dal 2005, poi, la donna sarebbe rimasta vittima di abusi durante riti satanici e messe nere a cui avrebbero preso parte «diversi uomini, non meglio identificati», che indossavano «delle tuniche bianche e dei cappucci», anche in uno «studio di registrazione insonorizzato» e alla «presenza di un crocifisso capovolto». 

In quel contesto la donna sarebbe stata anche ferita con un coltello con «incisioni sulla schiena e sulle gambe e sottoposta a «torture». Nel 2006 sarebbe riuscita a trasferirsi in un'altra regione, ma i due sarebbero andati a riprenderla e l'avrebbero sottoposta ad altre violenze. Sarebbe stata anche «segregata in una intercapedine» e poi «nascosta all'interno di una botola».

Il caso ha avuto un iter giudiziario travagliato con denunce presentate dalla donna, che ora ha 41 anni ed è assistita dal legale Massimo Rossi, anche fuori dalla Lombardia. I genitori hanno sempre negato sostenendo che le sue denunce sono «tutta una invenzione».

La Storia di Anna.

Storia di Anna, allontanata per errore dalla sua famiglia. Maurizio Tortorella Panorama il 26 Aprile 2023

Aprile 2023 Per un’accusa di maltrattamenti, rivelatasi infondata, una ragazzina di 13 anni è stata tolta ai genitori, albanesi, e per un anno è finita in comunità. Dove la sua vita è soltanto peggiora

Non è Bibbiano, certo. Ma questa è comunque la storia di una ragazzina di 13 anni collocata in una casa-famiglia per un anno e 13 giorni, una sofferenza che avrebbe potuto essere evitata. La vicenda, che in questo assomiglia invece a molte delle storie di Bibbiano, coinvolge una normalissima famiglia di immigrati: per l’esattezza un padre e una madre di origine albanese, che individueremo con le iniziali P e K, arrivati in Italia dal 2006 e residenti in un Comune della cintura milanese, dove fanno gli infermieri: lei in ospedale e lui in una residenza per anziani. Per anni, P e K hanno lavorato sodo e sono riusciti a comprare una casa dove abitano in sei. Con loro vivono la nonna materna e tre figlie piccole, tutte nate a Milano: Anna (il suo nome è di fantasia, come quelli che seguono), venuta alla luce nel 2007; Lucia, nel 2012; e Lorenza nel 2018. I problemi iniziano nel 2019, quando Anna passa dalle elementari alle medie. Nella nuova scuola la ragazzina non riesce a farsi amici, i compagni la bullizzano, lei si fa solitaria e triste. Le difficoltà degenerano all’inizio del 2020, con il Covid e con l’inizio del lock-down da marzo. Anna inizia ad avere un’età difficile, 13 anni. Costretta a casa dalla pandemia, passa ore su internet e si affoga di social network. Come tanti altri adolescenti, è sempre più ribelle e insofferente alle regole. Un giorno la madre torna a casa dal lavoro e scopre, assai spaventata, che la figlia s’è ferita alle braccia. Dopo litigi e molte discussioni, la ragazzina le rivela che a imporle quell’atto di autolesionismo è stato un gruppo che frequenta online. Preoccupatissimi, i genitori stringono i controlli su Anna, scoprono che si collega anche a siti pornografici e guarda immagini di suicidi. Allora le impediscono di chattare con estranei e di passare troppo tempo online. K è una donna severa, ma è anche intelligente, razionale: capisce che la figlia ha bisogno d’aiuto e si rivolge a una psicologa indicatale dalla scuola. La situazione precipita il 25 maggio 2021, quando K torna a casa dal lavoro e verso le 18 - come da regole prestabilite - spegne il collegamento internet di Anna. La ragazzina, che mal sopporta la severità materna, reagisce malissimo: inveisce contro di lei, grida, la offende, la morde. Esasperata, K le dà uno schiaffo. Anna scappa in camera sua, e da lì chiama il 114, il numero di «Emergenza infanzia». La polizia arriva a casa, e agli agenti Anna racconta che la madre l’ha percossa, e che l’ha perfino minacciata con un coltello. La ragazza viene portata in ospedale, dove le viene diagnosticato «un disturbo del comportamento». I medici certificano una «piccola ecchimosi» su un ginocchio e una «cicatrice da autolesionismo» su un braccio. Tanto basta perché i servizi sociali decidano il suo allontanamento immediato, una misura drastica che l’indomani viene confermata dal Tribunale dei minori di Milano, e così Anna viene collocata in una struttura protetta. I suoi genitori e l’avvocato, oggi, contestano con forza che la ragazzina non sia stata ascoltata dai magistrati minorili. Si scoprirà poi che Anna, tra marzo e aprile, aveva già chiamato tre volte il numero Emergenza infanzia denunciando le sue presunte sofferenze: agli operatori Anna aveva descritto continue percosse della madre e della nonna materna, e aveva raccontato che le sevizie l’avevano indotta ad atti di autolesionismo, e addirittura a un tentativo di suicidio. A nulla serve che P e K cerchino di affermare la loro versione dei fatti, del tutto diversa. Il 4 giugno 2021 il Tribunale dei minori sospende la loro responsabilità genitoriale non soltanto su Anna, ma anche sulle altre due figlie più piccole, che per il momento restano a casa. Sempre senza ascoltare Anna, il Tribunale conferma la sua collocazione nella comunità educativa. I giudici accusano P e K di «grave inadeguatezza genitoriale» e decidono che i loro rapporti con la ragazza dovranno svolgersi «con modalità protetta». In definitiva, P e K diventano un padre e una madre nel limbo: con la minaccia di più gravi provvedimenti, viene imposto loro di collaborare con i servizi sociali, e di accettare un complesso processo rieducativo. In effetti, in quel momento il quadro a carico della coppia, sulla carta, pare molto negativo. E infatti contro di loro parte anche un’inchiesta penale, per il reato di maltrattamenti. Il pubblico ministero, però, indaga. E interroga Anna, che subito ridimensiona molto l’accaduto: la ragazzina riconosce che le accuse che ha lanciato sono in gran parte false, e in definitiva si assume la responsabilità del litigio tra lei e la madre. A quel punto, il primo dicembre 2021, il Pm chiede l’archiviazione delle indagini, attribuendo la problematicità della minore allo «scontro tra le due culture che sono venute a far parte della sua vita». Il magistrato aggiunge che «i discorsi e i comportamenti della ragazza miravano a far focalizzare su se stessa l’attenzione del mondo che la circondava», mentre i metodi educativi dei genitori, «per quanto rigidi», non sono «assolutamente sufficienti a sostenere un’accusa di maltrattamenti». Il giudice concorda in pieno con il pm: nella sua archiviazione, datata 30 luglio 2022, scrive che «il quadro indiziario originario si è di molto ridimensionato, fino a risolversi in una situazione di tensione e conflitto madre-figlia, peraltro in via di superamenti in base a quanto riferito dalla minore». Tutto finito? Sì e no. Perché è vero che l’8 giugno 2022, cioè due mesi prima della conclusione del procedimento penale, il Tribunale dei minori restituisce Anna alla sua famiglia. Però lo fa, ancora una volta, senza ascoltarla. E insiste nella limitazione della potestà genitoriale di P e di K sulle loro tre figlie, condendola con un giudizio molto severo. I giudici scrivono che la coppia non è in grado di «fronteggiare il malessere psichico di Anna, e le sfide che l’adolescenza pone e porrà», e aggiungono che questa stessa presunta manchevolezza vale «a ruota, anche per le due altre figlie».

Quanto al monitoraggio svolto dai servizi sociali, anch’esso pare in buona misura contraddittorio. Perché una relazione condotta nel dicembre 2011 definisce la coppia collaborativa e attiva. K viene descritta come «sintonica e capace di comprendere la dimensione psicologica ed emotiva delle bambine, in quanto mostra di possedere sufficienti doti cognitive e relazionali», e la relazione aggiunge che «dai colloqui emergono discrete capacità genitoriali». Quanto al padre, i servizi sociali scrivono che «si presenta come una persona radicata positivamente su forti sentimenti di sensibilità e dovere». Insomma, non sembra certo una situazione irrecuperabile. Tanto che nel gennaio 2022 e poi nel marzo di quello stesso anno sono gli stessi servizi sociali a suggerire al Tribunale dei minori il rientro a casa della ragazzina. Ma poi, nella relazione conclusiva del 20 marzo 2023, il tono cambia: gli assistenti sociali scrivono che la famiglia è poco collaborativa, chiusa, e non mostra alcuna fiducia. Sottolineano che Anna avrebbe ritrattato le sue accuse «probabilmente a fronte di pressioni psicologiche». E concludono che la ragazzina «oggi afferma che la colpa dell’accaduto è dei servizi sociali, che lei non avrebbe voluto andare in comunità, e che vi è stata portata senza che nessuno le abbia spiegato la motivazione». K, oggi, è una madre felice e in parte rasserenata per il rientro a casa della figlia maggiore, ma è esasperata e resa inquieta dal perdurare della sospensione della potestà genitoriale, che considera una spada di Damocle. Da madre, è molto amara su quanto è accaduto alla figlia. Sostiene che in comunità è stata male, («ha anche preso il Covid, e non volevano farle il tampone») ed è peggiorata psicologicamente. K parla del «calvario», che la figlia avrebbe vissuto, a soli 13-14 anni, «in un ambiente non sereno», dove avrebbe «continuato negli atti di autolesionismo», compiuti stavolta «perché voleva tornare a casa». In quella comunità Anna avrebbe anche iniziato fumare, e compiuto qualche furtarello in compagnia degli altri ragazzi. K sostiene che un’assistente sociale le abbia detto che questo sarebbe potuto benissimo accadere anche a casa, e che un giudice minorile le abbia detto che si trattava soltanto di una «sperimentazione». K oggi è molto preoccupata per la figlia, e soprattutto rifiuta con tutta se stessa l’accusa di essere una madre poco attenta alla psicologia di Anna e delle sue due sorelline, sostenuta da giudici e da assistenti sociali: «Secondo loro», risponde lei, «io sarei troppo rigida su quel che fa e magari anche su come si veste mia figlia, e quindi sicuramente in futuro sarò una madre troppo rigida anche con le due piccole. Ma che cosa ne sanno, giudici e assistenti sociali? E come possono prevedere il futuro? Io credo che quel che Anna e noi abbiamo sofferto sia stato terribilmente ingiusto, e profondamente sbagliato». Il suo avvocato sottolinea, e non ha poi tutti i torti, che l’accusa di scarsa attenzione proviene in realtà da chi non ha mai ascoltato la piccola Anna. E ha presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Affidi a Torino, fratellini tolti ai genitori.

Affidi a Torino, fratellini tolti ai genitori: chiesto il processo per mamme affidatarie e assistenti sociali. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2023.

Dieci gli indagati che rischiano il rinvio a giudizio. Stralciata la posizione di tre poliziotti che hanno chiesto la messa alla prova

Ogni sforzo le sembrava vano, ma non si è mai arresa. Per nove anni ha lottato per poter riabbracciare i figli e vedere la propria famiglia di nuovo unita. Il traguardo non è ancora stato raggiunto, ma ora questa mamma di origine nigeriana si porta nel cuore l’aver trascorso con i suoi ragazzi il primo Natale: il primo dopo una lunga e sofferente attesa. È un piccolo, ma importante, passo avanti di una storia iniziata nel 2013, quando la donna si rivolge ai servizi sociali perché non riesce a gestire i due figli, una femminuccia di 4 anni e un maschietto di 2 con problemi comportamentali. Anziché aiutarla, le assistenti sociali la convincono a dare i bambini in affidamento a una coppia di donne, una poliziotta e un’impiegata.

All’epoca la madre non immaginava che i bambini sarebbero stati manipolati nel tentativo di convincerli a rifiutare ogni rapporto con la famiglia di origine. A portare alla luce questa vicenda e a individuare le tante e diverse presunte responsabilità è stata la pm Giulia Rizzo, che nei giorni scorsi ha chiesto il rinvio a giudizio per 10 dei 14 indagati. L’inchiesta racchiude la storia di una madre tradita e di un affido pilotato: le accuse, a vario titolo, sono di maltrattamenti, truffa, falso e frode processuale. 

Rischiano il processo le madri affidatarie che avrebbero maltrattato e manipolato i bambini (anche con cartoni animati ambientati in un campo di concentramento), le assistenti sociali che avrebbero gestito l’affido e le psicoterapeute che avrebbero redatto false relazioni sui piccoli. In particolare, sul bambino: nei documenti delle esperte è riportato che il minore aveva comportamenti fortemente sessualizzati e che tali atteggiamenti erano da ricondursi ad abusi sessuali da parte del padre (finito ingiustamente sotto inchiesta). Il sospetto e il presunto coinvolgimento della madre naturale come testimone silenziosa delle violenze inducono il Tribunale ad avviare le pratiche per l’adottabilità.

In questo contesto la poliziotta avrebbe chiesto ad alcuni colleghi di trovare nella banca dati informazioni che potessero screditare i veri genitori. Sotto accusa, infatti, ci sono tre poliziotti, che devono rispondere di accesso abusivo al sistema informatico: la loro posizione è stata stralciata, gli avvocati difensori hanno chiesto di poter accedere alla messa alla prova. Stralciata, sempre in attesa che venga valutata la messa la prova, anche la posizione dell’ex avvocato che patrocinava la coppia affidataria.

I Casi Irrisolti.

Kimberly Bonvissuto.

Mario Conti.

Adamo Guerra.

Alessandro Venturelli.

Mia Kataleya Chicllo Alvarez.

Daniele Potenzoni.

Madeleine 'Maddie' McCann.

Alessandro Venturelli.

Marianna Cendron.

Angela Celentano.

Mirella Gregori.

Sonia Marra.

Daouda Diane.

Ettore Majorana.

Federico Caffè.

Sara Pedri.

Gli Altri.

I Casi Irrisolti.

Antonio Giangrande: Scomparse letali. Genitori disattenti e ricerche infruttuose.

Le ricerche fallimentari degli scomparsi: dispiegamento oneroso ed inutile di uomini e mezzi, con elicotteri e cani molecolari.

Si potevano salvare! Yara, Ciccio e Tore, Gioele, Nicola...Errori madornali e ritrovamenti casuali.

Cosa c'è dietro la scomparsa di 20mila persone nel "Triangolo dell'Alaska". Storia di Alessandro Ferro su

Il Giornale martedì 26 settembre 2023.

Il paragone viene subito alla mente: il famoso Triangolo delle Bermuda che ha risucchiato cinque aerei della marina americana nel dicembre del 1945, dando il via alle numerose leggende e teorie che si susseguono su quell'area potrebbe essere nulla in confronto al "Triangolo dell'Alaska" dove sono sparite almeno 20mila persone dal 1970 ad oggi.

Di cosa si tratta

"Perché così tante persone scompaiono nel gelido nord dell'Alaska? Scopri di più in questa epica maratona di Missing in Alaska", è il titolo di un documentario di tre ore a cura di History Channel dove si ripercorrono tutti i misteri e le sparizioni avvenute negli ultimi 50 anni che lo ha fatto diventare il luogo con più casi irrisolti di qualsiasi altro posto sulla Terra. L'area in questione, il famoso "triangolo", va dalla capitale Anchorage a Juneau, nel sud-est del Paese per poi risalire fino all'abitato di Utqiagvik, sull'estrema costa settentrionale.

Gli avvenimenti più eclatanti

Tutto nacque nel 1972 quando un piccolo aereo passeggeri scomparve senza più lasciare tracce durante un volo dalla Capitale del Paese a Juneau: non furono mai più ritrovate le persone a bordo e nemmeno i rottami nonostante le ricerche durate per settimane. La stessa sorte, sulla stessa tratta, toccò al leader della maggioranza alla Camera degli Usa, Thomas Hale Boggs Sr: il suo bimotore a bordo del quale viaggiava con il deputato dell’Alaska, Nick Begich, con l'aiutante Russell Brown e il pilota Don Jonz, scomparve per sempre e i quattro non furono mai più trovati. Le ricerche, durate quasi un mese e mezzo, furono poi interrotte durante il viaggio da Anchorage a Juneau.

Le spiegazioni più gettonate

La stessa sorte è toccata successivamente a numerosi altri aerei scomparsi nel Triangolo dell’Alaska ma non solo, anche senza volare sono svaniti nel nulla turisti ed escursionisti fino ad arrivare alla cifra record di 20mila persone circa. Per provare a spiegare quanto avvenuto negli anni sono stati scomodati innanzitutto gli Ufo di cui ormai si occupa in maniera assidua anche il Pentagono. I media inglesi parlano di fenomeni legati a rapimenti del Wendigo, una creatura soprannaturale molto popolare tra le leggende nord-americane e descritto come un mostro in grado di uccidere e perfino mangiare gli essere umani.

Per dare una possibile spiegazione alla sparizione di migliaia di persone sono state scomodate anche le anomalie magnetiche che avrebbero interferito con le bussole degli escursionisti. L'esperta ufologa, Debbie Ziegelmeyer, ritiene che l'Alaska sia "attraente" per i gli alieni perché è scarsamente popolata. "Possono praticamente andare dove vogliono", ha dichiarato al Mirror. La vicenda, però, sembra più complessa perché qualcuno - o qualcosa - potrebbe essere attratto dalla tecnologia militare all’avanguardia. L'ipnoterapeuta e ricercatore del paranormale, Jonny Enoch, ha dichiarato che "chiaramente" sta succedendo qualcosa di strano nel "Triangolo dell'Alaska". Infine, trattandosi di una terra con un clima spesso estremo (d'inverno), nulla di straordinario che affamati orsi possano aver ucciso tanti malcapitati escursionisti.

Il paese dei bambini perduti. Tre persone scomparse su quattro sono minorenni. ENRICO DALCASTAGNÉ su Il Domani il 25 settembre 2023

Nei primi mesi dell’anno sono state presentate oltre 13mila denunce di scomparsa: sono soprattutto giovani uomini di nazionalità straniera che fanno perdere le loro tracce e si spostano in altri paesi. Cosa cambia da regione a regione e come funzionano le ricerche

In questi giorni si è molto parlato di un uomo, Adamo Guerra, che tutti credevano morto, suicida dieci anni fa, e che invece si era ricostruito una vita in Grecia. E lì, a Pratasso, lo hanno scovato le telecamere di Chi l’ha visto?. Nei giorni successivi si è scoperto che non era esattamente così: l’ex moglie in realtà sarebbe stata a conoscenza della sua nuova vita già da tempo, almeno dal 2016. Guerra dovrà comunque rispondere di violazione degli obblighi di assistenza familiare, in un processo che secondo l’Ansa si celebrerà presto a Ravenna.

Fatti come questo, e gli altri grandi casi di cronaca di persone che sembrano sparite nel nulla, sono solo la superficie di un fenomeno molto più diffuso. Riguarda minori portati all’estero da uno dei genitori ma anche molti giovani fragili, stranieri piombati in un incubo di indigenza economica e indifferenza. O anziani piegati dalla solitudine.

Nei primi sei mesi dell’anno sono state presentate in Italia 13.031 denunce di scomparsa di persone. I ritrovamenti – rivela un report del ministero dell’Interno – sono stati 6.297, mentre 6.734 sono i casi ancora aperti. Nonostante l’entità del fenomeno, c’è una tendenza positiva: rispetto alla seconda metà del 2022, le denunce sono diminuite di quasi l’11 per cento.

L’IDENTIKIT DEGLI SCOMPARSI

Ma chi è che scompare in Italia? Il report firmato dal commissario straordinario per le persone scomparse, la prefetta Maria Luisa Pellizzari, conferma un dato ormai assodato: la fascia dei minorenni è quella più interessata, con il 74 per cento, mentre il 22 per cento riguarda la fascia di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Meno colpiti sono gli over 65, che costituiscono il 4 per cento dei casi.

Notevole è anche il divario degli scomparsi per quanto riguarda il genere. Se l’82 per cento sono uomini, la percentuale delle scomparse di genere femminile è drasticamente più bassa e non va oltre il 18 per cento. La forte incidenza dei minorenni stranieri si ripercuote poi sul dato generale, che indica come il 65 per cento degli scomparsi siano di origine straniera (8.500 rispetto a 4.531 italiani).

MINORI E STRANIERI

I minorenni che scompaiono sono in larga parte stranieri (il 78 per cento rispetto al 22 di italiani) e appartengono alla categoria dei giovani immigrati entrati in Italia ma che vedono il paese come un luogo di transito: una tappa prima di spostarsi nel centro e nord Europa. Non a caso è la Sicilia – approdo di varie rotte dal Nordafrica – la regione con il più alto numero di minorenni stranieri scomparsi.

In testa ai paesi di provenienza ci sono Egitto, Tunisia, Guinea, Costa d’Avorio e Afghanistan. Pur essendo tecnicamente scomparsi, spesso si tratta di allontanamenti programmati già prima della partenza: per quanto riguarda i ritrovamenti, gli esiti favorevoli sono più numerosi quando a scomparire è un italiano rispetto a uno straniero, che può aver fatto perdere le sue tracce varcando il confine.

Il fenomeno dei minori scomparsi interessa in buona parte giovani stranieri che si allontanano dalle strutture di accoglienza in cui sono ospitati, per raggiungere famiglie o parenti, anche all’estero. Il profilo del minore italiano che scompare, invece, riguarda nella maggioranza dei casi giovani che si allontanano per motivi di disagio e che il più delle volte sono rintracciati o rientrano spontaneamente.

ALLONTANAMENTI VOLONTARI

Ma a cosa sono legate tutte queste scomparse? Il report uscito a inizio settembre distingue tra cittadini italiani e cittadini stranieri. Nel primo caso, il 77 per cento delle volte si tratta di allontanamenti volontari, a cui segue un 11 per cento di cause non accertate e un 10 per cento di scomparse dovute a disturbi psicologici.

I dati sono simili per gli stranieri, anche se la percentuale di allontanamenti volontari sale all’87 per cento del totale e diventa significativa la porzione di scomparsi in fuga da un istituto o una comunità (l’8 per cento rispetto all’1,5 degli italiani). Solo in pochi casi, invece, la persona di cui non si hanno più notizie è vittima di un reato.

IN QUALI REGIONI?

A registrare i numeri più significativi di scomparse sono le regioni del Sud Italia, con una sola eccezione al Nord. Al primo posto – nella prima metà del 2023 – c’è infatti la Sicilia con 3.366 denunce, seguita da Lombardia e Campania (con 1.467 e 1.290 persone). Subito dietro si piazzano Puglia, Lazio e Friuli-Venezia Giulia.

Anche per quanto riguarda i ritrovamenti, i numeri più alti sono quelli di Sicilia (1.092), Lombardia (959) e Campania (580). In coda a questa classifica, invece, si collocano Trentino-Alto Adige, Basilicata e Valle d’Aosta, che sono anche le regioni con meno scomparse: il dato è ovviamente influenzato dal numero di abitanti e di denunce di partenza.

UN SISTEMA COMPLESSO

Quando viene segnalata una scomparsa si attiva un articolato meccanismo per ritrovare la persona. In relazione alle circostanze che hanno portato agli eventi, la prefettura di competenza attiva uno specifico piano che può coinvolgere la polizia, i vigili del fuoco e il soccorso alpino e speleologico. Ma anche gli psicologi e il vasto mondo del volontariato.

Oltre che sulle attività di ricerca, l’ufficio del commissario straordinario guarda alle strategie di prevenzione. In questo senso, i protocolli sottoscritti con varie istituzioni consentono di affrontare il problema da diverse angolazioni. L’attività della commissaria straordinaria Pellizzari è poi supportata dalla Consulta nazionale per le persone scomparse, un organismo che include le associazioni dei familiari e formula proposte e suggerimenti.

ENRICO DALCASTAGNÉ. Giornalista professionista. È laureato in Mass media e politica a Bologna e ha frequentato il master in giornalismo della Luiss di Roma. Già collaboratore del Foglio e di YouTrend, si occupa di politica e società italiana.

Non solo Kata: spariti 5.900 bambini. Il caso dei minorenni mai cercati. Il 30% delle scomparse è definitivo. Le autorità: "Denunciare subito". Maria Sorbi il 21 Settembre 2023 su Il Giornale.

Un sopralluogo di due ore per cercare una traccia, anche minima, di Kata. All'hotel Astor di Firenze ieri è arrivato anche il generale Luciano Garofalo, ex comandante del Ris di Parma, consulente dei genitori. «Abbiamo trovato spunti interessanti per nuove analisi» spiega. Non si sa se si riferisca alle tracce di sangue trovate nei rubinetti qualche giorno fa o a qualche elemento nuovo. Ma al momento ogni passo, seppur piccolo, nelle indagini è utile a non spegnere le speranze o, se non altro, a cercare una risposta.

Kata, la bimba peruviana di 4 anni, è sparita il 10 giugno. Non poco. E ogni giorno ci si aspetta tutto e il contrario di tutto: che rispunti dal nulla o che arrivi la notizia che nessuno vuole dire ad alta voce.

Per quanto la sua storia sia avvolta da tanti elementi stonati - il contesto sociale, li racket degli affitti, il ruolo della famiglia poco chiaro - solletica l'incubo di tutti i genitori: la sparizione dei figli.

Sembra incredibile ma in Italia si contano, solo nei primi quattro mesi dell'anno, 5.908 casi: 1.319 italiani e 4.589 stranieri. Sono i dati diffusi dall'Ufficio del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse in occasione della Giornata internazionale a loro dedicata. Quasi seimila famiglie che hanno fermato vita e respiro. Alcune per pochi giorni, altre tutt'ora. Sul totale delle scomparse, la percentuale dei ritrovamenti è stata del 73,84% per i minori italiani ed al 31,58% per i minori stranieri.

Quello che sconvolge ancora di più è che non tutti i bambini vengono cercati. Molti perchè non hanno nessuno che si possa preoccupare per loro, come i ragazzi delle case famiglia, degli istituti, gli stranieri che scappano per raggiungere i genitori all'estero. Tanti minori stranieri fuggono dalle strutture di accoglienza - nelle quali, al loro arrivo in Italia, vengono ospitati. Il profilo del minore italiano che scompare invece delinea, in una grande maggioranza casi, giovani che si allontanano per motivi di disagio e che il più delle volte vengono rintracciati o rientrano spontaneamente.

I numeri indicano un trend sostanzialmente analogo a quello registrato nel 2022, quando i minori scomparsi sono stati in totale 17.130. Le denunce hanno riguardato 4.128 minori italiani e 13.002 minori stranieri.

«Agire con tempestività in caso di scomparsa è indispensabile» scrive il sito del Ministero dell'Interno. E si pensa alla storia di Kata. Le prime ore, quelle immediatamente successive alla scomparsa, sono fondamentali per scongiurare i rischi anche per l'incolumità del minore. La legge consente a chiunque di effettuare una denuncia, quindi anche un vicino di casa o un conoscente possono attivarsi.

Nella sua campagna contro la scomparsa dei minori, il ministero ricorda i diversi strumenti messi a disposizione dalle istituzioni per arginare il fenomeno: oltre al Numero Unico di Emergenza 112, il Numero Unico Europeo di Emergenza 116.000, affidato in Italia al ministero dell'Interno e gestito dal Telefono Azzurro. Cosa succede dopo aver lanciato l'allarme? Dopo la denuncia, prende avvio un meccanismo per ritrovare la persona e può essere attivato dalla prefettura della provincia uno specifico piano delle ricerche che coinvolge, secondo i casi, le Forze di polizia, i Vigili del Fuoco, il Soccorso Alpino e Speleologico.

Nel giallo dell'hotel Astor interverrà l'Arma. Nei prossimi giorni gli investigatori, coordinati dai magistrati della Dda, torneranno nell'ex albergo per nuove ricerche oltre a quelle dell'ex comandante dei Ris Garofalo. Che sostiene siano ancora fondamentali i sopralluoghi, anche dopo quattro mesi dalla scomparsa: «Chi viveva e sapeva quali erano le dinamiche, dal nostro punto di vista è importante. Possiamo riflettere insieme alla mamma rispetto a un evento e ottenere indicazioni su quello che rimane un mistero: è uscita, non è uscita, è ancora lì dentro. Da questo punto di vista valuteremo queste riflessioni».

La Procura intanto ha iscritto nel registro degli indagati per l'ipotesi di reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, cinque persone, tra le quali due zii della bambina, uno paterno, il 19enne Marlon Edgar Chicclo, e uno materno, il 29enne Abel Alvarez Vasquez, il quale attualmente è in carcere per presunto racket delle stanze dell'hotel occupato abusivamente. La Procura ha disposto accertamenti tecnici irripetibili, volti ad accertare la presenza di materiale biologico o genetico e all'estrapolazione di eventuali profili del Dna (da borsoni, trolley e da rubinetti di stanze dell'hotel Astor) e alla loro successiva comparazione con quello della piccola Kata.

Collisione di Cerritos, quando il Piper colpì in pieno un volo di linea. Il 31 agosto 1986 un Piper decollato dall'aeroporto di Torrance, colpì in volo un aereo di linea della compagnia aerea messicana, Aeromexico. Nell'impatto morirono tutti i passeggeri e 15 persone a terra. Mariangela Garofano il 17 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La collisione

 Le indagini e le cause dello scontro

Il 31 agosto 1986 il volo Aeromexico 498 diretto da Città del Messico a Los Angeles, si scontrò con un aereo privato che viaggiava da Torrance a Big Bear City, California. Nel violento impatto, noto come Collisione di Cerritos, persero la vita le 67 persone a bordo dei due aeromobili e 15 persone che si trovavano sul luogo dello schianto, tra cui 10 bambini.

La collisione

Quel 31 agosto del 1986, dall’aeroporto di Città del Messico, un Douglas Dc-9-32, della compagnia Aeromexico, decollò diretto a Los Angeles, con tre scali intermedi da effettuare. Ai comandi del velivolo vi erano Antonio Valdez Prom e il primo ufficiale Jose Valencia, 4 tra hostess e steward e 64 passeggeri. Il comandante aveva all’attivo 4.632 ore di volo su un Dc-9 e più di 10.000 di volo totali, mentre Valencia 1.463 ore di volo di cui 1.245 sul Dc-9. Dall’aeroporto della cittadina californiana di Torrance, situata nella contea di Los Angeles, partì invece un Piper con a bordo William Kramer, la moglie e la figlia, diretti a Big Bear City.

Alle 11.46 il volo Aeromexico 498 aveva iniziato la discesa verso l’aeroporto di Los Angeles, ma pochi minuti più tardi, alle 11.52, il Piper, inspiegabilmente, si scontrò con il Dc-9, colpendone lo stabilizzatore sinistro, il quale tagliò la parte superiore del piccolo aereo, decapitando Kramer e i suoi familiari. Ma la tragedia sembrava non avere fine: il Piper, gravemente danneggiato, precipitò nel cortile di una scuola, la Cerritos Elementary School. La sorte del volo Aeromexico purtroppo non fu migliore di quella del Piper. Subito dopo essere stato colpito, il Dc-9 si schiantò in un quartiere residenziale nella città di Cerritos, prendendo fuoco. Il grave incendio distrusse 5 abitazioni, uccidendo 15 persone. Il bilancio complessivo della sciagura fu di 82 vittime, tra cui 10 bambini che volavano sul Dc-9 diretto a Los Angeles.

Quel 31 agosto 1986 era una domenica e la maggior parte delle persone che vivevano nella tranquilla cittadina di Cerritos, erano nei loro giardini, chi a godersi il sole esitivo, chi a preparare il pranzo, chi in chiesa. Ma tutti i sopravvissuti allo schianto ricorderanno per sempre il terribile boato del Dc-9 che pecipitava sulle abitazioni vicine alle loro. Alcuni raccontano di aver pensato a un terremoto, alcuni all'esplosione di una bomba, alcune donne svennero dallo choc. Ma tutti ricordano una cosa: la fuga dalle case verso l'esterno, dove le fiamme e i resti dell'aereo carbonizzato, si mischiavano ai corpi dei passeggeri degli aerei e dei loro amici e vicini, andati via per sempre in una frazione di secondo.

La routine, lo schianto, le scatole nere: l'inquietante segreto di quell'aereo per l'Angola

Le indagini e le cause dello scontro

Le indagini per stabilire le cause del disastro vennero affidate al National Transportation Safety Board (Ntsb). Il team di inquirenti dimostrò che il Piper era entrato nello spazio aereo tra i 6.000 e i 7.000 piedi di altitudine, senza autorizzazione. Il controllo del traffico aereo impone, che essendo quella la quota più “affollata", ogni velivolo che intenda salire a quell’altitudine, debba chiedere l’autorizzazione, ma Kramer non lo fece. Purtroppo l’operatore del traffico aereo non si accorse della manovra del Piper, perché impegnato con un altro velivolo, quindi l’aereo di Kramer, che non disponeva di un transponder modello C, che gli indicasse l’altitudine, salì e non si accorse della presenza del volo Aeromexico.

A rendere la situazione ancora più pericolosa, il Piper non era equipaggiato nemmeno di un sistema anti collisione (Tcas), che gli indicasse la presenza di un altro velivolo nelle vicinanze. A seguito della tragedia accaduta a Cerritos, la Faa ordinò che tutti i jet nello spazio aereo americano venissero equipaggiati con un Tcas e di un transponder di tipo C anche per i piccoli aerei, per evitare che si verificassero tragedie come quella tra il Piper e il volo Aeromexico. Gli investigatori condannarono la Faa e il defunto pilota del Piper, William Kramer, in quanto unici responsabili dell’incidente. Mariangela Garofano

Commercio di bambini: il mercato aperto in Australia e il mercato nero globale. Dee McLachlan il 10 giugno 2023 su gumshoenews.com.

Tutti abbiamo sentito e letto dei rapporti sul "traffico di bambini" in tutto il mondo. Si va da bambini senza certificato di nascita oggetto di traffico transfrontaliero; al prelievo di organi, all'adrenocromo e al sacrificio di bambini. E alla fine dell'articolo, includo di seguito il video (redatto) di Clayton Morris sulla nuova serie di documentari di Mel Gibson che espone Hollywood. Questo è il mercato nero.

Ma in questo articolo scriverò del mercato aperto , in bella vista, del commercio di bambini in Australia. È un business enorme e redditizio. Dal mio lavoro e dalle mie indagini degli ultimi anni sulla "protezione" dei minori ho prodotto un rapporto intitolato: “Un rapporto sullo sfruttamento dei bambini in Australia”

L'obiettivo del rapporto è avviare indagini sull'attività di trarre profitto dal commercio o dalla tratta di bambini (non quei casi in cui è richiesta la legittima protezione dei bambini). Questo è un breve estratto del rapporto:

Potrebbe essere difficile capire come questo sia possibile in Australia. Ci sono state 8.000 vittime di abusi istituzionali [la Royal Commission in Institutional Responses into Child Sexual Abuse] ma molti credono che questo rapporto (riferendosi allo sfruttamento) sia una macchia maggiore per il paese. Alcuni stimano che potrebbero esserci più di quindicimila bambini sottratti illegalmente o del tutto ingiustificatamente ai loro genitori per guadagno finanziario. A vantaggio delle leggi sulla segretezza, questa è una brutale realtà nascosta in bella vista.

Materie in Avviso

Il commercio di bambini (vale a dire, tratta di bambini)  è definito come la “rimozione” illecita o illegale o lo sfruttamento di bambini per guadagno finanziario o compenso… mediante il continuo sfruttamento delle loro vittime.

The  Conspiracy to Defeat the Course of Justice  per ostacolare, prevenire, pervertire o sconfiggere il corso della giustizia nei Tribunali dei Minorenni in tutta l'Australia.

L'AFP ha la responsabilità primaria delle forze dell'ordine per indagare su frodi e corruzione gravi o complesse contro il Commonwealth , compreso l'uso illegale di materiale o servizi, la causa di una perdita, l'uso improprio dei beni del Commonwealth e la condotta del cartello.

Questo avviso descrive in dettaglio come alcune agenzie governative, dipendenti pubblici e appaltatori esterni stanno utilizzando il sistema di protezione dei minori per facilitare e incentivare l'allontanamento illegale e ingiustificato dei bambini australiani dalle loro case. Questi bambini vengono “processati” attraverso i tribunali minorili e la loro rimozione da una madre e/o un padre affettuosi attraverso pratiche segrete e ingannevoli è criminale. Queste persone hanno cospirato, consapevolmente o inconsapevolmente, per sconfiggere il corso della giustizia e danneggiare i bambini. Le conseguenze dei tre crimini summenzionati sono che stanno danneggiando generazioni di bambini australiani e i loro protettivi genitori e famiglie.

Panoramica del danno

Il processo e le conseguenze dell'allontanamento di un bambino da una relazione d'amore e da un genitore è una delle peggiori forme di abuso psicologico nei confronti del bambino . La scienza dimostra che altera il cervello del bambino e non è solo un disgregatore della società, ma può distruggere la famiglia e spezzare il sacro legame biologico della maternità. …queste azioni possono essere considerate calamitose e catastrofiche. …Sir James Munby ha spiegato la gravità dei casi familiari o di un bambino sottoposto a procedimenti di cura… e il professore di pediatria alla Harvard Medical School, Charles Nelson – sulla separazione di un amorevole legame genitore-figlio – come riportato dal Washington Post, ha detto: “ L' effetto è catastrofico… Ci sono così tante ricerche su questo che se le persone prestassero attenzione alla scienza, non lo farebbero mai”.

Comprensione della protezione dell'infanzia in Australia

 “ I bambini e i giovani in Australia hanno il diritto di crescere sicuri, connessi e supportati nella loro famiglia, comunità e cultura. Hanno il diritto di crescere in un ambiente che consenta loro di raggiungere il loro pieno potenziale. " ( Fonte )

Il mantra del governo è uno sforzo ambizioso per proteggere i bambini. Tuttavia, la soluzione predefinita per la "protezione" sembra essere quella di "allontanamento dei bambini" con attualmente oltre 60.000 bambini in custodia statale - vale a dire, Out-of-Home-Care (OOHC)... È anche quasi impossibile ottenere dati fattuali grezzi su i bambini in affidamento mentre l'industria ei tribunali per i minori operano in SEGRETO; ma aneddoticamente le agenzie di protezione sono in molti casi l'antitesi di questo messaggio. I bambini affidati alle cure del governo hanno maggiori probabilità di subire danni; le loro famiglie sono state distrutte e il potenziale del bambino stentato. è generazionale...

Decine di migliaia di persone beneficiano finanziariamente dell'allontanamento dei bambini da case non sicure e sicure … I mezzi di sussistenza di molte persone dipendono dalla cosiddetta protezione dei bambini (cioè allontanati). Più bambini vengono rimossi dai tribunali in OOHC, maggiori diventano i budget... Una conseguenza naturale dell'economia comportamentale...

L'impatto della rimozione ingiustificata dei bambini dalle loro case legittime per incentivi finanziari sta corrodendo il tessuto stesso della società e sta provocando fratture sociali. …l'impatto delle loro azioni sulla società australiana è epocale, dannoso e di vasta portata.

Gli abusi sui minori e il business dei traslochi di minori

C'è una negazione collettiva degli abusi sui minori e questo è in parte dovuto all'ignoranza e all'apatia. È emerso che il PROTOCOLLO della polizia prevede di nascondere le prove di abusi sessuali su minori, a meno che non sia impossibile farlo. Quando un genitore protettivo denuncia un abuso sessuale del proprio figlio, il risultato più probabile è che perda il figlio.

Queste azioni vanno contro la scienza. Un documento ben documentato, di Collin-Vézina, De La Sablonnière-Griffin, Palmer & Milne, 2015 p.123, avviato dall'Office of the Children's Guardian (OCG) del NSW ha presentato uno studio che rilevava che l'Australia, sorprendentemente, ha il più alto tasso riportato di abusi sessuali su bambine a livello internazionale al 21,5% ( Stoltengorgh, van Ijzendoorn, Euser, & Bakersman-Kranenburg, 2011)...

La Commissione etica legislativa australiana (ALECOMM) ... dimostra che le decisioni dei tribunali aumentano il rischio per i bambini ... I cosiddetti avvocati indipendenti per bambini e esperti di tribunali per la famiglia spesso incoraggiavano i tribunali a rimandare i bambini che avevano rivelato abusi sessuali a vivere con il loro aggressore e che il contatto con cessa il genitore protettivo.

È ovvio che alcuni bambini devono essere tenuti al sicuro da una casa danneggiata o pericolosa, ma con oltre 60.000 bambini in OOHC; il numero di questi bambini che rientrano in questa grave categoria a rischio non è noto. Tuttavia, molti sostenitori e ricercatori stimano che forse il 50% dei bambini in OOHC sia stato allontanato ingiustificatamente/illegalmente.

Comprensione dell'industria del "commercio di bambini" in Australia

Certo, ci sono alcuni bambini che hanno bisogno di essere salvati, ma questo dovrebbe avere un'adeguata supervisione giudiziaria civile o penale - e non attraverso i  fronti della camera stellare del 1692 Oyer e Terminer chiamati Tribunali dei bambini e della gioventù.

La segretezza nei tribunali minorili avrebbe lo scopo di proteggere la privacy di un bambino, ma viene utilizzata per proteggere gli autori e mascherare il dannoso "business dei traslochi". C'è una cultura della segretezza e una cultura dell'occultamento degli abusi sessuali sui minori. Esistono vari metodi utilizzati per sabotare il legame genitoriale protettivo del bambino e i vulnerabili, spesso attraverso la stesura di rapporti di opinione psicologica in cui una frase può essere usata per maledire un buon genitore. Queste opinioni di "esperti" vengono spesso acquistate per facilitare la rimozione dal tribunale. Sarebbe più corretto dire: "La questione è davanti alla camera delle stelle". E una volta che questi bambini vengono rimossi dalle cure statali, diventano beni (unità) o "beni mobili" per un'industria che offre enormi incentivi finanziari nel settore OOHC.

Anche quando viene denunciata la criminalità dei dipendenti pubblici, le agenzie di protezione e i dipendenti pubblici sembrano incapaci di invertire il "commercio" e riparare un torto. I bambini trafficati dalle agenzie governative statali hanno, in effetti, una "Politica di non ritorno".

Comprendere lo sfruttamento

La parola "traffico di bambini" evoca immagini di bambini africani di età compresa tra gli 8 ei 14 anni caricati con la forza su camion e portati oltre il confine con la Liberia per lavorare nelle piantagioni di cacao della Costa d'Avorio. Ad esempio, il valore di ogni bambino è determinato dalla produzione lavorativa del bambino nell'arco di diversi anni, che potrebbe essere dell'ordine di 8-10 dollari australiani al giorno. I guadagni del commercio dei bambini derivano dalla vendita del cacao. Un bambino vittima di tratta (adolescente) potrebbe essere "valutato" circa A $ 3.000 ogni anno per il "sindacato"...

Al contrario... ogni bambino inserito nel sistema in Australia, diventa una "unità", una risorsa, [e] equivale all'incirca a $ 90.000 a $ 150.000 per unità (bambino) in cura ogni anno. Si dice che i bambini con bisogni speciali "costino" (in servizi) fino a $ 350 - 450.000 all'anno; questo è ulteriormente supportato dall'NDIS. Più bambini sono sotto tutela... più soldi (tasse) sono richiesti, con conseguenti salari, tasse e profitti sempre crescenti. In Australia, il denaro che sostiene coloro che beneficiano finanziariamente di traslochi illegali proviene dall'inganno (frode) del contribuente.

Sono in atto molti meccanismi per facilitare i trasferimenti ingiustificati... [e] non hanno senso – a meno che non si consideri che questi bambini sono semplici “beni” per un'industria che beneficia dell'ottenimento e del commercio di bambini – dove i bambini hanno un valore e dove i profitti sono aumentati da l'espansione del "traffico" di prodotti... [e] altro denaro viene trasferito per finanziare l'industria della giustizia nelle camere stellari dei tribunali dei minori e dei giovani. Enormi guadagni finanziari vengono ottenuti attraverso processi giudiziari quando questi trasferimenti illegali vengono contestati nei tribunali. Questo rientra nel dipartimento del procuratore generale ed è un'ulteriore frode al Commonwealth.

[Estratto di fine rapporto. Il rapporto delinea i meccanismi e gli esempi di denaro speso e scambiato.]

Domande: Quanto vale il settore Out of Home Care per l'Australia? Quanti soldi vengono spesi per la famiglia e poi per i tribunali dei minori in Australia? Un caso che cito dimostra che forse $ 2 milioni di dollari sono stati spesi e guadagnati solo perché un agente di polizia donna ha nascosto orribili abusi sui minori, scrivendo nelle sue note di ingresso "nessuna divulgazione". Il bambino è stato rimosso perché l'ufficiale ha mentito. È una vergogna nazionale. E ci sono centinaia di casi simili.

E ora al mercato nero...

(ANSA il 22 febbraio 2023) - Nel 2022 le denunce di scomparsa in Italia sono state 24.369, una media di 67 al giorno, il 26,4% in più rispetto alle 19.269 dell'anno precedente. Nell'82% dei casi si tratta di allontanamenti volontari, le denunce per possibili vittime di reato rappresentano lo 0,22%. Sono i dati riferito nella relazione annuale del Commissario di governo per le persone scomparse, Antonino Bella.

"Minori, adulti e anziani - ha sottolineato presentando la relazione al Viminale - che fanno perdere loro tracce ponendo i familiari in una situazione di grande angoscia, tra speranze e dolore". In media le denunce relative a stranieri sono 41 al giorno, 47 quelle di minori (36 stranieri e 11 italiani): per lo più si tratta di maschi di età compresa tra i 15 e i 17 anni. L'incremento di denunce di scomparsa di minori è del 47,8% per gli stranieri e del 24,1% per gli italiani. È stato svolto un continuo monitoraggio sulle denunce di scomparsa di minori stranieri provenienti dall'Ucraina, che, nell'anno 2022, sono state 70.

I ritrovamenti sono stati 12.170, il 49,9% delle denunce di scomparsa, un dato in lieve aumento rispetto all'anno precedente. Bella ha sottolineato che continuano a ridursi i tempi di ritrovamento: il 75% degli scomparsi vengono ritrovati entro la prima settimana. Il 10% dei ritrovamenti è avvenuto in ambito ferroviario e ha riguardato per lo più minori.

Estratto dell’articolo di Andrea Galli per corriere.it il 28 maggio 2023.

La dirompente forza dei numeri: in Lombardia 8 persone sparite al giorno. Mai state così tante, e infatti, secondo l’ultimo scenario ufficiale disponibile, nel 2022 le complessive 2.988 scomparse (gli uomini sono il doppio delle donne) hanno generato significativi aumenti delle denunce nelle singole province. A partire (+36%) da quella di Milano, il cui totale di allontanamenti (1.087) corrisponde, sempre in media, a 3 nuovi casi al giorno.

[…] Nell’82% degli episodi ci si imbatta in sparizioni volontarie. E in questa nostra società di invasivo monitoraggio tramite ogni attivazione di cellulari, pc e tablet, di acquisti e spostamenti «mappati» volenti o nolenti, ecco, andarsene senza lasciare traccia alcuna — almeno apparentemente — assume le coordinate di un’impresa da super-latitante. 

Non allontanamenti decisi in un tempo istantaneo e passibili di rivelatori indizi lasciati, quanto fughe pianificate: altrimenti non si spiega come a fronte di quelle 2.988 scomparse vi siano 806 persone ancora da rintracciare.

Si scappa per radicali scelte, per chiudere un’esperienza di vita o lavoro; certo si scappa per problemi economici, in famiglia oppure se magari titolari d’azienda; mai si scappa, oppure di rado, per prevenire un possibile reato (l’1% dei casi a leggere le denunce) e, ad esempio, abbandonare d’improvviso parenti o compagni violenti anticipando tragedie. […] 

Ora, una credenza comune collega l’atto dello scomparire con il trasferimento in destinazioni lontane tipo i soliti luoghi caraibici. In realtà, di recente, possono «bastare» a garantire duratura copertura anche mete vicine come nell’Est Europa muovendosi nell’Ue.

E in ogni modo, fuor di retorica, la gestione del caso da parte delle forze dell’ordine, dunque la sua possibile soluzione, è relativa al metodo investigativo adottato, all’iniziale possesso di notizie mirate, alla storia pregressa dell’individuo da trovare, ai suoi eventuali errori commessi nella fase della partenza. Dopodiché l’argomento degli scomparsi è assai complesso, interseca scenari umani, segue dinamiche sia intime e locali, sia sociali e internazionali. […]

Il dramma dimenticato dei bambini scomparsi in Italia. Linda Di Benedetto su Panorama il 26 Maggio 2023

Nei primi 4 mesi del 2023 quasi 6mila minori spariti nel nulla. 1.319 italiani e 4.589 stranieri. Il fenomeno è preoccupante perché parliamo di migliaia di bambini e adolescenti di cui non si sa più nulla e di famiglie che non hanno mai smesso di cercare i loro figli.

I dati pubblicati dal Ministero dell’interno per la giornata internazionale dei bambini scomparsi mostrano in Italia numeri allarmanti che registrano nei primi 4 mesi del 2023, quasi 6mila minori spariti nel nulla di cui 1.319 italiani e 4.589 stranieri. Numeri che secondo il report ministeriale indicano un trend sostanzialmente simile a quello registrato nel 2022, dove sono spariti 17.130 di cui 4.128 minori italiani e 13.002 stranieri. Ma anche se Numeri che abbiamo analizzato con Annalisa Loconsole vice presidente di Penelope Associazione Nazionale delle famiglie e degli amici delle persone scomparse. «In Italia la maggioranza dei minori di cui si perde traccia sono stranieri che vengono associati dai servizi sociali alle comunità per poi sparire nel nulla. La loro scomparsa viene denunciata dalle strutture da cui erano ospitati come un allontanamento volontario. Adolescenti che arrivano in Italia senza un’identità e sono difficili da ritrovare perché sono doppiamente invisibili. Ma non sono solo gli immigrati clandestini che sbarcano in Sicilia a sparire ma c’è anche un flusso migratorio che attraverso il Friuli proviene dall’Europa dell’est di cui si perdono le tracce». Perché spariscono? «Le cause sono molteplici. A volte si allontanano volontariamente perché sono stranieri e cercano di raggiungere altri paesi ma questa è la migliore delle ipotesi. Infatti spesso succede che siano adescati in rete, o come un caso di cui ci siamo interessati ultimamente in Puglia siano vittime di bullismo e per sottrarsi a queste azioni scappano via per non essere più perseguitati. Mentre un altro fenomeno che sta aumentando vertiginosamente riguarda la sottrazione internazionale dei minori da parte di un genitore che porta all’estero il proprio figlio e anche se i tribunali italiani emettono una sentenza per sottrazione di minore (che in Italia è un reato penale) non è sufficiente per il rimpatrio del bambino. Poi abbiamo adolescenti che si allontanano da casa dopo liti famigliari o che compiono atti di autolesionismo e sentono di dover fuggire. Ma soprattutto dietro queste sparizioni c’è sempre il rischio che possano essere intercettati e restare vittime di ogni tipo di violenza e sfruttamento». Ci può dire qualche caso di cui si è occupata la vostra associazione? «Ce ne sono tanti di casi anche molto datati. Ad esempio in Puglia Alessandro Ciavarella scomparso da Monte Sant’Angelo nel 2009 all’età di 16 anni, o Mauro Romano scomparso da Racale nel 1977 quando aveva appena 6 anni. Ma anche nel foggiano ci sono stati molti casi di bambini piccolissimi spariti perché molto probabilmente rientrati nella cosiddetta lupara bianca insieme ai genitori, ossia si presume che siano stati vittime di omicidi di mafia. O ancora il caso dei due adolescenti Mariano Farina e Salvatore Colletta, di 12 e 15 anni che sparirono nel nulla il 31 marzo del 1992 in Sicilia. Un elenco lunghissimo di bambini e adolescenti che non sono stati più trovati e per l’attenzione deve restare sempre alta».

Il dramma dimenticato dei bambini scomparsi in Italia. Linda Di Benedetto su Panorama il 26 Maggio 2023

Nei primi 4 mesi del 2023 quasi 6mila minori spariti nel nulla. 1.319 italiani e 4.589 stranieri. Il fenomeno è preoccupante perché parliamo di migliaia di bambini e adolescenti di cui non si sa più nulla e di famiglie che non hanno mai smesso di cercare i loro figli.

I dati pubblicati dal Ministero dell’interno per la giornata internazionale dei bambini scomparsi mostrano in Italia numeri allarmanti che registrano nei primi 4 mesi del 2023, quasi 6mila minori spariti nel nulla di cui 1.319 italiani e 4.589 stranieri. Numeri che secondo il report ministeriale indicano un trend sostanzialmente simile a quello registrato nel 2022, dove sono spariti 17.130 di cui 4.128 minori italiani e 13.002 stranieri. Ma anche se Numeri che abbiamo analizzato con Annalisa Loconsole vice presidente di Penelope Associazione Nazionale delle famiglie e degli amici delle persone scomparse. «In Italia la maggioranza dei minori di cui si perde traccia sono stranieri che vengono associati dai servizi sociali alle comunità per poi sparire nel nulla. La loro scomparsa viene denunciata dalle strutture da cui erano ospitati come un allontanamento volontario. Adolescenti che arrivano in Italia senza un’identità e sono difficili da ritrovare perché sono doppiamente invisibili. Ma non sono solo gli immigrati clandestini che sbarcano in Sicilia a sparire ma c’è anche un flusso migratorio che attraverso il Friuli proviene dall’Europa dell’est di cui si perdono le tracce». Perché spariscono? «Le cause sono molteplici. A volte si allontanano volontariamente perché sono stranieri e cercano di raggiungere altri paesi ma questa è la migliore delle ipotesi. Infatti spesso succede che siano adescati in rete, o come un caso di cui ci siamo interessati ultimamente in Puglia siano vittime di bullismo e per sottrarsi a queste azioni scappano via per non essere più perseguitati. Mentre un altro fenomeno che sta aumentando vertiginosamente riguarda la sottrazione internazionale dei minori da parte di un genitore che porta all’estero il proprio figlio e anche se i tribunali italiani emettono una sentenza per sottrazione di minore (che in Italia è un reato penale) non è sufficiente per il rimpatrio del bambino. Poi abbiamo adolescenti che si allontanano da casa dopo liti famigliari o che compiono atti di autolesionismo e sentono di dover fuggire. Ma soprattutto dietro queste sparizioni c’è sempre il rischio che possano essere intercettati e restare vittime di ogni tipo di violenza e sfruttamento». Ci può dire qualche caso di cui si è occupata la vostra associazione? «Ce ne sono tanti di casi anche molto datati. Ad esempio in Puglia Alessandro Ciavarella scomparso da Monte Sant’Angelo nel 2009 all’età di 16 anni, o Mauro Romano scomparso da Racale nel 1977 quando aveva appena 6 anni. Ma anche nel foggiano ci sono stati molti casi di bambini piccolissimi spariti perché molto probabilmente rientrati nella cosiddetta lupara bianca insieme ai genitori, ossia si presume che siano stati vittime di omicidi di mafia. O ancora il caso dei due adolescenti Mariano Farina e Salvatore Colletta, di 12 e 15 anni che sparirono nel nulla il 31 marzo del 1992 in Sicilia. Un elenco lunghissimo di bambini e adolescenti che non sono stati più trovati e per l’attenzione deve restare sempre alta».

Il mistero della scomparsa mentre erano in navigazione nel Mediterraneo. Moglie sparita in crociera, il marito accusato di averla gettata in mare chiusa in una valigia: “Ci ha abbandonati lei”. Redazione su Il Riformista il 4 Aprile 2023

Erano partiti insieme a tutta la famiglia per una crociera riappacificatrice partita da Genova nel febbraio del 2017 lungo le coste del mar Mediterraneo. Ma quando la nave è approdata all’ultima tappa, la mamma di quella famigliola non c’era più. Sembra la trama di un romanzo giallo e invece è un fatto realmente accaduto tra il 10 e il 13 febbraio 2017. La donna si chiama Li Yingley, la 37enne di origini cinesi. Sotto accusa a processo per quella misteriosa sparizione è finito il marito, l’ex informatico tedesco Daniel Belling, 49 anni, accusato di omicidio e distruzione di cadavere. Per l’accusa avrebbe ucciso la moglie per poi disfarsi del suo corpo in mare, compresa la valigia. Ma l’uomo, finito in carcere e poi mandato agli arresti domiciliari a Dublino dove viveva con i figli minorenni avuti con la donna, ha sempre respinto ogni accusa sostenendo che fosse stata la moglie a decidere di abbandonare la sua famiglia.

Secondo quanto riportato da Il Secolo XIX, la procura avrebbe recentemente stabilito l’obbligo di dimora per Daniel Belling, imputato per omicidio e volato in Irlanda dopo il carcere, se torna in Italia. La ripresa del processo è fissata per metà mese. La difesa intanto conferma la sua ipotesi: “È tornata in Cina”. RomaToday ha ricostruito la vicenda. La famiglia si è imbarcata a Genova il 9 febbraio del 2017. Il 10 Li viene vista nel ristornate della nave a ora di cena con il marito e i figli. Dalle 20 in poi non c’è più nessuna traccia. La sua assenza verrà però ufficializzata solo all’arrivo della nave a Civitavecchia il 22 febbraio quando il personale della nave si rende conto che la donna non è più a bordo.

Secondo l’accusa sarebbe stato il marito a uccidere la donna per poi disfarsi del corpo chiudendolo in una valigia lanciata poi dalla nave in mare aperto. I sospetti sono ricaduti sin da subito sul marito perché non ha denunciato la scomparsa della moglie e all’arrivo a Civitavecchia si è immediatamente diretto in aeroporto per prendere il primo volo per tornare a casa. L’uomo ha sempre ammesso però che tra i due ci fossero dei dissidi in atto. Belling ha sempre respinto le accuse sostenendo che la moglie avrebbe approfittato della crociera per lasciare lui e i figli durante una tappa e sparire.

Ma tra i punti oscuri della vicenda c’è proprio il momento in cui l’uomo avrebbe ucciso la moglie per poi disfarsene in mare aperto. Possibile che i sofisticati sistemi di videosorveglianza della nave non abbiano ripreso nulla? Come pure, possibile che gli stessi sistemi di videosorveglianza non hanno neppure mai più ripreso la donna in una data successiva al 10 febbraio? Dov’è finita Li? Un altro nodo riguarda la cabina. Quando il 22 febbario la nave è attraccata a Civitavecchia gli investigatori hanno chiesto di analizzare la cabina dei due coniugi alla ricerca di indizi. Con meraviglia trovarono che la stanza era già stata assegnata nuovamente e quindi ripulita da cima a fondo cancellando di fatto tutte le ipotetiche prove.

A questo si aggiunge che, secondo gli investigatori, se Belling avesse ucciso e messo in valigia la moglie per poi liberarsene gettandola dal balcone della cabina, sarebbe finita sul ponte sottostante largo 12 metri e non in mare. Belling di contro avrebbe potuto uscire dalla cabina con la valigia e raggiungere una delle porte del corridoio che, se aperta, avrebbe consentito di buttare qualcosa in mare senza impedimenti, ma nessuna telecamere riprende una scena di questo tipo. Dalle indagini è emersa anche la registrazione dell’utilizzo di una carta intestata a Li Yinglei lungo un’arteria autostradale irlandese il 23 marzo, e cioè quasi due settimane dopo che Belling era stato arrestato e trasferito nel carcere di Regine Coeli. E da qui l’ipotesi che la donna possa davvero essere fuggita per ritornare magari in Cina. Un mistero rimasto per ora ancora irrisolto.

Cinque famosi casi di cronaca rimasti irrisolti in Italia. Ci sono diversi casi di cronaca italiani che sono rimasti irrisolti, lasciando tutti con il fiato sospeso. Scopriamoli insieme. Chiara Nava il 30 Gennaio 2023 su Notizie.it.

5 famosi misteri italiani rimasti irrisolti

La scomparsa di Emanuela Orlandi

La scomparsa di Angela Celentano

La scomparsa di Denise Pipitone

Il delitto di Via Poma

Il mostro di Firenze

Dalla scomparsa delle piccole Angela Celentano e Denise Pipitone, fino ad arrivare al delitto di via Poma e al mostro di Firenze.

Ci sono diversi misteri italiani che sono rimasti irrisolti. Scopriamoli insieme.

5 famosi misteri italiani rimasti irrisolti

La storia italiana è sempre stata e continua ad essere ricca di casi di cronaca nera. Alcuni di questi hanno letteralmente lasciato l’Italia con il fiato sospeso e purtroppo non hanno ancora trovato una soluzione. Per anni sono stati in prima pagina sui giornali, ne hanno parlato trasmissioni televisive e telegiornali, mentre le ricerche, le indagini e i processi andavano avanti senza sosta.

La giustizia italiana non si è mai fermata, così come non si sono mai fermate le reazioni e l’apprensione dell’opinione pubblica. Nonostante gli indizi, le varie piste, i sospetti, ci sono casi che ancora oggi sono rimasti irrisolti e privi di un vero colpevole. Andiamo ad approfondire insieme cinque famosi misteri italiani che non sono ancora stati risolti.

La scomparsa di Emanuela Orlandi

Uno dei misteri che ha sconvolto l’Italia riguarda la sparizione di Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia e cittadina dello Stato Vaticano.

La 15enne è scomparsa nel nulla il 22 giugno 1983, mentre tornava a casa dalla scuola di musica. Prima di far perdere le sue tracce, Emanuela aveva telefonato alla sorella Federica dicendole che un uomo l’aveva fermata proponendole un lavoro come promoter per una nota marca di cosmetici, che ha poi smentito quel tipo di offerta di lavoro. Un caso che ha coinvolto lo Stato Vaticano, la Banda della Magliana, il Banco Ambrosiano e i servizi segreti, ma che è rimasto un mistero.

La famiglia ha ricevuto numerose telefonate, alcune delle quali ritenute attendibili. Ci fu anche la telefonata di un uomo chiamato l’Amerikano, che affermò di tenere Emanuela in ostaggio e chiamò in causa Ali Ağca, l’uomo che aveva sparato a Giovanni Paolo II due anni prima, chiedendo la sua liberazione. L’uomo chiamò anche a casa Orlandi, facendo sentire la voce della ragazza, ma non ci furono mai prove a confermare questa versione.

La trasmissione Chi l’ha visto ricevette una telefonata anonima che invitava ad andare a vedere chi era sepolto nella basilica di Sant’Apollinare e indagare sul favore che Renatino, della Banda della Magliana, fece al cardinal Poletti. Le dichiarazioni dell’amante Sabrina Minardi confermarono il fatto che la Banda della Magliana si fosse occupata del rapimento della 15enne. Nonostante le tante ipotesi, il caso è rimasto irrisolto.

La scomparsa di Angela Celentano

Una gita in montagna durante una mattina d’agosto, in compagnia della comunità evangelica di Vico Equense, si trasformò in un incubo. Proprio sul Monte Faito Catello e Maria persero la loro piccola Angela, di 3 anni. Partirono immediatamente le ricerche e inizialmente si iniziò a pensare ad un incidente, ma della piccola neanche l’ombra. Fin da subito le indagini coinvolsero la famiglia Celentano e mentre il caso diventava di dominio pubblico iniziarono ad arrivare numerose segnalazioni, telefonate, foto. Sono state seguite molte piste da quel momento, da quella messicana fino a quella turca, che si sta seguendo ora che le indagini sono state riaperte. Purtroppo, nonostante le segnalazioni e gli avvistamenti, per il momento Angela Celentano non è mai stata trovata. In questo momento si attendono i risultati di un test del dna su una ragazza sudamericana.

La scomparsa di Denise Pipitone

La piccola Denise Pipitone è scomparsa il 1 settembre 2004, a 4 anni, da Mazara del Vallo. Una zia l’ha vista per l’ultima volta quella mattina, sul marciapiede davanti alla porta di casa. La piccola ha rincorso un cuginetto ma dietro l’angolo è scomparsa nel nulla. Le indagini si sono concentrate sull’ambito familiare, anche per via di alcune intercettazioni. Secondo le ricostruzioni, a rapirla sarebbe stata la sorellastra Jessica Pulizzi, in concorso con la madre Anna Corona e l’ex fidanzato Gaspare Ghaleb. La donna è stata assolta al termine del processo di primo grado dal Tribunale di Marsala per insufficienza di prove, con la conferma della Cassazione. La mamma Piera Maggio ha sempre lottato per avere giustizia, per ritrovare la sua bambina e poterla riabbracciare. Nel corso degli anni ci sono state numerose segnalazioni, si è parlato anche della pista rom, soprattutto dopo un avvistamento avvenuto a Milano riportato da una guardia giurata. Purtroppo la piccola Denise non è ancora stata trovata.

Il delitto di Via Poma

Il 7 agosto 1990 Simonetta Cesaroni è stata trovata morta nell’ufficio in cui lavorava, in Via Poma, a Roma. Una ragazza riservata e responsabile, che si divideva tra la famiglia, il lavoro e il fidanzato Raniero Busco. L’ultimo segno di vita risale alle 17.15, quando Simonetta ha telefonato alla collega Luigia Berrettini. Alle 21.30 la sorella e il fidanzato sono andati con il datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi, negli uffici. Secondo loro l’uomo era molto nervoso e ritardava l’arrivo allo stabile. Sono riusciti a farsi aprire la porta dalla moglie del portiere alle 23.30 e hanno trovato il corpo di Simonetta, completamente nudo, con solo il reggiseno e i calzini e 29 ferite da arma da taglio. Molti effetti personali non sono mai stati ritrovati. I principali sospettati furono il portiere Pietro Vanacore e il fidanzato della giovane, Raniero Busco. Le accuse contro il primo sono state archiviate e l’uomo si è suicidato nel 2010. Nel 2011 è stato condannato Raniero Busco, a 24 anni di reclusione, ma nel processo di appello è stato assolto, con la conferma della Cassazione. Il caso è rimasto irrisolto.

Il mostro di Firenze

Un vero e proprio incubo che ha perseguitato le colline toscane dal 1968 al 1985 e che non ha mai trovato una soluzione convincente. Il mostro di Firenze è l’autore di sette duplici omicidi avvenuti nei boschi della provincia di Firenze, più probabilmente di otto omicidi. Una scia di crimini ai danni di giovani coppie che si appartavano nella campagna toscana. Si tratta del primo caso di omicidi seriali riconosciuto nel nostro Paese. Per compiere gli omicidi venivano usate una o più armi bianche e sempre la stessa pistola, una Beretta calibro 22 Long Rifle serie 70, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera H sul fondello dell bossolo. Il killer uccideva prima la vittima maschile e poi quella femminile. Solitamente la ragazza veniva allontanata dall’auto, martoriata da colpi di arma da taglio e venivano fatte delle escissioni, in particolare nella zona del pube. Le indagini furono molto lunghe e travagliate e portarono all’identificazione dei soli esecutori materiali degli omicidi. Nel 2000 sono stati condannati i compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti, mentre Pietro Pacciani fu assolto in appello e morì prima del nuovo processo. Le ipotesi sui mandanti sono rimaste aperte e il mistero non è mai stato risolto.

Kimberly Bonvissuto.

Apprensione alle porte di Milano. Scomparsa Kimberly Bonvissuto a Busto Arsizio: si teme nuovo caso Cecchettin. Il padre “Ti prego stiamo morendo”. Redazione su Il Riformista il 25 Novembre 2023 

“È uscita di casa solo con il telefono e il caricabatterie – ricostruisce il padre -. Nessun vestito di ricambio. Nulla. Stiamo vivendo ore devastanti”. Si teme di dover rivivere una vicenda drammatica “visto quello che è successo soli pochi giorni fa”, è il riferimento a Giulia Cecchettin.

L’appello disperato del padre di Kimberly

“Kimberly ti prego, se mi stai ascoltando, accendi il telefono. Chiamaci, facci sapere che stai bene. Stiamo morendo; qualunque cosa sia successo la affronteremo e la supereremo insieme. Ma ti prego facci sapere che stai bene: torna a casa”.

È il drammatico appello lanciato da Mariano Bonvissuto, il padre della ventenne di Busto Arsizio (Varese) scomparsa da lunedì. Da quel momento di lei nessuna traccia: telefono spento, nessun contatto con la famiglia o gli amici. Silenzio anche sui social sui quali la giovane era attiva.

“Seguendo questo padre ho pianto – spiega Bonvissuto -. Adesso provo la sua stessa angoscia. Io credo con tutto me stesso che Kimberly stia bene. Ma l’ansia, il non sapere, il non avere sue notizie ci sta logorando”.

Le segnalazioni e le telefonate al padre della ragazza

Il padre della ragazza spiega anche che ha ricevuto delle telefonate con segnalazioni: “Spero che siano state fatte in buona fede e non per portarci fuori strada. 

Nel caso, abbiamo già riferito tutto agli inquirenti, chi lo ha fatto se ne assumerà la responsabilità”. Su cosa possa essere accaduto, Bonvissuto dice di non avere ipotesi. Si rimette alla polizia che ringrazia.

“Non lo so – ripete -. Sono i poliziotti che hanno tutte le carte in mano. Lavorano senza alcun risparmio. Non lo so cosa possa essere successo. Kimberly è una normale ragazza di 20 anni: ha fatto l’alberghiero, poi ha iniziato a fare qualche lavoretto. Voi – dice rivolto ai cronisti – sapete cosa passi per la testa di una ragazza di 20 anni?”.

I genitori non hanno idea del perché sia scomparsa

“Non c’è un episodio che possa aver fatto scattare qualcosa. E Kimberly, al netto di normali chiusure tipiche di una giovanissima, non aveva mai avuto comportamenti che potessero mostrare irrequietezza”. Il padre nega anche che la ragazza abbia un fidanzato: “Non mi risulta. Un fidanzamento è un impegno serio, ce ne avrebbe parlato. Magari una frequentazione. In ogni caso adesso conta soltanto che lei torni sana e salva. Che rivarchi questo portone e torni a casa, al sicuro”.

Gli inquirenti, intanto, vagliano ogni pista. Esclusa quella che portava a Napoli, dove Kimberly conosce un ragazzo con il quale ha avuto contatti sui social: il giovane non ha nulla a che vedere con la scomparsa. Le segnalazioni arrivano da diverse parti. La procura ha aperto un fascicolo contro ignoti.

Ritrovata Kimberly, la cugina come copertura per stare con un ragazzo. La 20enne di Busto Arsizio (Varese) è stata rintracciata in una località nel Lazio e sta bene. Si è allontanata volontariamente insieme a un ragazzo. Federico Garau il 28 Novembre 2023 su Il Giornale.

Buone notizie per quanto riguarda il caso di Kimberly Bonvissuto, la giovane 20enne scomparsa lunedì scorso. La ragazza è stata infatti rintracciata e, per fortuna, sta bene. A riferire questo sviluppo è stata la famiglia, ovviamente sollevata.

La scomparsa e gli appelli

Kimberly, originaria di Busto Arsizio (Varese), ha fatto perdere le sue tracce lo scorso lunedì 20 novembre. Da allora non si è più saputo nulla di lei e in molti, anche in considerazione dei terribili fatti di cronaca nera di questi giorni, hanno subito pensato al peggio. A dare per prima l'allarme era stata la madre, che non riusciva più a contattare la figlia. Il cellulare della giovane, infatti, risultava staccato.

Secondo quanto riferito dalla famiglia della ragazza, la 20enne era uscita di casa per incontrare la cugina, ma c'era stato subito il sospetto che si fosse trattato di una scusa per vedersi invece con un ragazzo. Nei giorni successivi alla denuncia della scomparsa le autorità avevano dato avvio alle ricerche della ragazza e la procura della Repubblica di Busto Arsizio aveva aperto un fascicolo senza indagati come atto dovuto. "L'allontanamento dalla propria abitazione di Kimberly è da ritenersi volontario, e non causato da intimidazioni o minacce. Per quanto constatato, almeno fino a qualche giorno fa, la ragazza è in buone condizioni di salute e si trova in territorio italiano", era quanto riportato nel comunicato ufficiale.

Kimberly rintracciata in Lazio

Stando alle ultime notizie, la 20enne di Busto Arsizio è stata trovata nel Lazio. È stata una pattuglia della polizia locale ha riconoscere la ragazza. Barbara Attardi, avvocato che sta assistendo la famiglia Bonvissuto, ha rilasciato un comunicato, riportato da Il Giorno, in cui figurano le parole dei genitori della giovane. "Nostra figlia Kimberly è stata trovata ed è in buone condizioni di salute. Confermiamo che si è allontanata volontariamente e che non si trovava in una situazione di pericolo. Ringraziamo le Forze dell'Ordine, gli Inquirenti e tutti coloro che hanno permesso tale risultato. Chiediamo ora il massimo rispetto per le persone coinvolte con l'intento di proteggere anche e soprattutto Kimberly e la sorellina", hanno dichiarato Mariano Bonvissuto e Grazia Tuccio.

La fuga d'amore

A quanto pare le ipotesi degli inquirenti erano corrette e Kimberly si è davvero allontanata per stare con un ragazzo. Un giovane che, fra l'altro, conosceva. Lunedì scorso, dunque, la 20enne era uscita di casa intorno alle 16.00 dicendo di stare andando a incontrare la cugina, che era stata invece usata come copertura per stare con il ragazzo.

Mario Conti.

Mario, asso dell’alpinismo sparito tra le cime di casa. Storia di Barbara Gerosa su Il Corriere della Sera giovedì 16 novembre 2023

 «Nulla è impossibile per chi ha scalato le vette più alte del pianeta. Per questo, anche dopo tre giorni di ricerche serrate senza esito, continuiamo a sperare. Mario ha dimostrato di saper affrontare situazioni estreme, supererà anche questo ostacolo e tornerà da noi». Angelo Schena, membro del comitato direttivo del Cai, racconta le preoccupazioni e le speranze delle ultime ore, mentre il mondo della montagna si interroga su cosa possa essere accaduto. Mario Conti, 79 anni, celebre alpinista lecchese, nel curriculum la conquista del Cerro Torre in Patagonia, guida alpina da 54 anni, è scomparso nel nulla. Inghiottito dalle cime di casa, dopo aver sfidato il Lhotse e l’Himalaya.

Martedì pomeriggio è uscito per la consueta passeggiata pomeridiana alle pendici delle gole delle Cassandre, nella frazione Mossini di Sondrio, dove vive, e non è più tornato. A lanciare l’allarme è stata la moglie, Serena Fait, anche lei guida alpina, e le ricerche non si sono più fermate. In campo decine di uomini, droni ed elicotteri: tecnici del Soccorso alpino, esperti del nucleo speleo alpino fluviale della Guardia di finanza, carabinieri, vigili del fuoco, volontari della protezione civile. Più di venti squadre hanno setacciato i boschi accanto alla casa di Mariolino (il fisico asciutto a decretarne il soprannome): fino a 500 metri di quota, e poi ancora più su, al limite della neve, battendo le aree verso la Valmalenco e Castione Andevenno. Bonificata la zona intorno al torrente Mallero.

L’alpinista, uscito senza cellulare (particolare che rende ancora più complicate le ricerche), soffre di vuoti di memoria. Sui social l’appello lanciato da amici, famigliari e alpinisti del gruppo dei Ragni di Lecco, che dal 1964 annovera Conti tra i soci più rappresentativi. Anche loro impegnati a scandagliare la montagna, i maglioni rossi del sodalizio a tingere i boschi.

«Sono stato con lui in Patagonia», racconta Alberto Marazzi, uno dei Ragni. Il fiato corto, la concitazione. «Non posso lasciarlo solo — continua —. È stato il mio maestro, ha sempre supportato i giovani. Calma e determinazione sono i tratti distintivi del suo carattere. Ci ha insegnato che non bisogna mai arrendersi, senza per questo cercare di fare gli eroi. Siamo qui per lui e non ce ne andremo senza trovarlo». Determinazione, come quella che ha consentito a Conti di guidare tre spedizioni alla parete Ovest del Cerro Piergiorgio, di conquistare il Garet El Djenoun in Algeria, gli Ottomila himalayani e le cime peruviane. Il suo nome resta indissolubilmente legato all’ascensione del Cerro Torre, era il 13 gennaio 1974, in cordata con Casimiro Ferrari, Daniele Chiappa e Pino Negri. Caduto, forse dopo aver perso l’orientamento. Ferito. Finito nel torrente Mallero. Non c’è risposta sui suoi movimenti dalle telecamere di videosorveglianza, gli avvistamenti che avevano riacceso le speranze si sono rivelati infondati. Per tre notti un fascio di luce ha illuminato i sentieri del Monte Rolla. Resterà acceso fino a quando il Ragno di Lecco tornerà a casa.

Adamo Guerra.

I sussurri di Lugo sul finto suicida: “Molti sapevano dov’era”. La madre: “Chiedete alla moglie, ha fatto tutto lei...”.  Maria Elena Gottarelli Emilio Marrese su La Repubblica venerdì 22 settembre 2023.

Il giorno dopo la resurrezione di Adamo, il paese è piccolo e la gente mormora sempre di più. A dir la verità, mormorava anche prima che il fuggiasco venisse ritrovato a Patrasso dopo dieci anni di morte apparente. Ora a sentirli lo sanno tutti da un pezzo, figurarsi, che il Mattia Pascal di Lugo era vivo, che non aveva tirato le cuoia ma solo un bidone all’ex moglie, e a tutta la famiglia.

Estratto da open.online venerdì 22 settembre 2023.

Tutti lo pensavano morto, suicida dieci anni fa quando – il 7 luglio 2013 – era scomparso da Imola. Adamo Guerra, al tempo 45enne, gestiva un negozio di casalinghi vicino casa a Lugo, era sposato e aveva due figlie minorenni. Ai familiari e a un collega aveva lasciato tre lettere, ritrovate dai suoi genitori il 16 luglio: «Ciao mamma e papà, non ho molte parole da dire, ma purtroppo è andata sempre male. E adesso è arrivato il momento di farla finita», si leggeva in una. La procura di Bologna aveva aperto un’indagine poi archiviata nel 2015 per “presumibile suicidio”. 

I carabinieri avevano trovato la sua auto al porto di Ancona, tant’è che la moglie Raffaella Borghi da cui – secondo il quotidiano la Repubblica – era separato ma era rimasto in buoni rapporti pensava si fosse buttato giù. Ma la svolta è arrivata nel febbraio 2022. Da anni la donna aveva fatto domanda per il divorzio ma la pratica non andava avanti.

Questo perché l’avvocato aveva scoperto che l’uomo era ancora vivo, in Grecia. Ieri al programma Chi l’ha visto?, Borghi era ospite e ha potuto vedere il filmato in cui l’inviato di Federica Sciarelli rintraccia il fu marito suicida: «Facciamo che non mi avete trovato e finisce qui», ha risposto Guerra alle domande del giornalista. La donna, sconvolta, non ha potuto che commentare: «Non è un umano. Non è un uomo. Non è un padre». [...] 

Dietro quindi al solo ipotizzato suicidio c’erano motivazione economiche, o almeno così pensava la moglie: «Ho pensato si fosse buttato giù dal traghetto, caduto in brutti giri, preda degli strozzini». La Procura di Bologna apre le indagini, i carabinieri trovano l’auto dell’uomo al porto di Ancona e scoprono che il 9 luglio si era imbarcato per Patrasso, in Grecia. 

In mare gli inquirenti trovano le sue scarpe, gli abiti e altri oggetti, tutti riconosciuti dalla moglie. Nel 2015 l’indagine viene archiviata per “presumibile suicidio” e la donna si fa seguire da una psicologa che l’aiuta ad andare avanti. Il pensiero, però, rimane sempre lì: «Diceva a me e alle mie figlie che eravamo brave. Avevo questo pallino. C’è un papà e un papà non può dire me ne vado», ha riferito ieri alla conduttrice Sciarelli. [...]

Estratto dell’articolo di Elisa Campisi per corriere.it venerdì 22 settembre 2023.

È un reato sparire?

«Si può sparire — risponde Enrico Mario Ambrosetti, avvocato e professore ordinario di Diritto Penale all’Università di Padova —, c’è il diritto all’oblio, ma se si hanno degli obblighi di questi si deve rispondere. 

L’uomo scomparso per dieci anni si è sottratto ai suoi obblighi familiari. Nel 2013 aveva due figlie minori e per tutto il periodo in cui ha fatto credere di essere morto è venuto meno al suo dovere di mantenimento». 

Che reato si potrebbe configurare?

«La violazione degli obblighi di assistenza familiare, sanzionati penalmente dagli artt. 570 e 570 bis. Ne risponde chi si sottrae alla responsabilità genitoriale, facendo mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore o comunque non autosufficienti anche dopo i 18 anni. Essendoci di mezzo dei minori (le figlie avevano 12 e 16 anni nel 2013 ndr), si procede d’ufficio». 

Il reato potrebbe essere andato in prescrizione?

«Va in prescrizione dopo 6 anni dalla data in cui sono scaduti i suoi obblighi familiari. In questo caso, dato che le ragazze hanno oggi 22 e 26 anni, è probabile che il padre abbia ancora dei doveri nei loro confronti o che comunque le figlie siano diventate autosufficienti meno di 6 anni fa. […]».

Cosa può chiedere l’ex moglie in questi casi?

«I due erano separati, quindi non c’è abbandono del tetto. Tuttavia, la donna potrebbe chiedere il risarcimento dei danni economici per aver cresciuto le figlie da sola». 

Non c’è anche un reato di procurato allarme?

«Per l’articolo 658 del codice penale, chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l’Autorità o presso enti o persone che esercitano un pubblico servizio, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da 10 a 516 euro. […]».

Estratto dell’articolo di Alessandro Fulloni e Andrea Pasqualetto per corriere.it sabato 23 settembre 2023.

Raffaella Borghi […] Quando la avvicinano i giornalisti, sta sgranocchiando una merendina. «Scusatemi, pausa merenda» esordisce con cortesia. Ma a chiederle del suo ex marito, di Adamo Guerra — l’uomo di 55 anni che nel luglio 2013 abbandonò la famiglia dicendo di «voler farla finita» e che poi è stato ritrovato, giorni fa, da Chi l’ha visto? a Patrasso — fa un cenno eloquente con la mano, lasciando intendere di non voler parlare. Poi sembra ripensarci, dice che «è una storia delicatissima». Aggiunge che «io per prima sono la più sorpresa per quello che è successo». […] 

Sono le 17, su Lugo di Romagna — 30 mila abitanti a circa 20 chilometri da Ravenna — pioviggina. […] Piero, il padre della donna. […] racconta che «la sera prima della scomparsa era qui a mangiare da me, con le due bimbe, con la moglie, si rideva e si scherzava. Ma aveva già pianificato tutto, si vede. Non era mica una cattiva persona. Cosa gli sia passato per la testa non lo so, non so come stesse con il suo lavoro. Debiti? Non credo, mai emerso. Prima aveva un negozio qui a Lugo, una rivendita di casalinghi che portava avanti con il padre Paolo e lo zio Dino. Adamo poi è andato a fare il rappresentante» trasferendosi a Imola dopo la separazione. 

E le nipotine? […] «sono cresciute senza padre, con noi e con la mamma. Quella tra Raffaella e suo marito è stata una storia matura, si erano conosciuti da adulti. Dopo la scomparsa lei è stata veramente brava, si è rimboccata le maniche dedicandosi alle ragazze, una oggi è studentessa universitaria e l’altra è diventata mamma da poco. L’abbiamo aiutata tutti, anche i genitori di Adamo, per quel che hanno potuto. Quando abbiamo saputo che lui era vivo? Di recente, siamo rimasti tutti senza parole, ma qualche dubbio lo avevamo avuto in precedenza».  

Rivederlo? «Mah, non ho del rancore contro nessuno, se viene potrà entrare in casa e lo abbraccerò. Certo non gli dirò “sei un bravo ragazzo”, semmai gli ripeterò “sei stato uno scemo”». L’ex commesso viaggiatore a Patrasso, nel Peloponneso, lavora in un’agenzia di servizi. 

«Da noi non c’è alcun fascicolo aperto» precisa al Corriere Daniele Barberini, procuratore di Ravenna. C’è anche da considerare che il reato di procurato allarme — quello che potrebbe essere ravvisato dopo l’orchestrazione del finto suicidio — va in prescrizione dopo quattro anni. Per procedere, occorre in ogni caso individuare il luogo del presunto reato per stabilire la competenza territoriale. Uno è Lugo, dove Guerra lasciò le tre lettere, una ai suoi genitori, una seconda all’ex moglie e una terza a un collega, in cui annunciava che «era arrivato il momento di farla finita» dopo aver contratto un debito.  […] L’altro posto è Ancona, dove l’uomo abbandonò l’auto nei pressi del porto cercando di far pensare che si fosse gettato in mare da un traghetto. […]

Il caso di Adamo Guerra e il finto suicidio, «la famiglia sapeva della sua presenza in Grecia già nel 2016». Ilaria Sacchettoni, inviata a Patrasso su Il Corriere della Sera domenica 24 settembre 2023.

S'infittisce il giallo sull'uomo che si sarebbe rifatto una nuova vita a Patrasso. Nel 2016 era stato segnalato vivo e vegeto attraverso canali diplomatici alla famiglia. Un’inchiesta della Procura romagnola ne ritenne probabile la morte nel 2018

Giallo nel giallo: sulla scomparsa (e il ritrovamento) di Adamo Guerra, il preteso Mattia Pascal di Lugo di Romagna che, dopo aver finto un suicidio nel 2013,  si sarebbe rifatto una nuova e confortevole vita a Patrasso, spunta la novità. Nel 2016 era stato segnalato vivo e vegeto, attraverso canali diplomatici, alla famiglia, la ex moglie Raffaella Borghi con la quale aveva avuto due figlie e alla quale si era precedentemente rivolto in una lettera disperata che manifestava l’intenzione di farla finita. Come confermato da polizia e carabinieri, le autorità italiane lo avevano rintracciato in Grecia (ma non a Patrasso) e, in seguito, come previsto dalle procedure, avevano notificato a Borghi la scoperta. A settembre 2016 Borghi presentò una denuncia ai carabinieri di Imola per accusare l'ex di violazione degli obblighi familiari, in relazione al mantenimento delle figlie. 

La ex moglie avrebbe dovuto conoscerne i movimenti

Dunque, diversamente da quanto era emerso nel corso della trasmissione «Chi l’ha visto», la ex moglie avrebbe dovuto conoscere i movimenti del padre delle sue figlie dal 2016. Qui a Patrasso di Guerra non c’è traccia al momento: l’uomo che negli ultimi dieci anni avrebbe lavorato per un’agenzia di autonoleggio sembra essersi eclissato.  Va ricordato pure che un’inchiesta sulla sua presunta morte condotta dalla Procura romagnola aveva concluso ritenendo probabile la sua morte nel 2018. Ricordiamo che dietro di sé aveva lasciato tre lettere dall’esplicito contenuto drammatico. Possibile che la famiglia abbia tenuto per sé informazioni di segno opposto? Contattata dal Corriere della Sera Raffaella Borghi si era detta scossa dalle ultime scoperte, vale a dire dal fatto che il  suo ex non fosse morto, successivamente però ha chiesto di essere lasciata in pace. Il giallo continua.

Il finto suicida sarà processato per la fuga in Grecia. Finisce in Tribunale la vicenda di Adamo Guerra, l'uomo scomparso nel 2013 da Lugo, in provincia di Ravenna. Redazione il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

Finisce in Tribunale la vicenda di Adamo Guerra, l'uomo scomparso nel 2013 da Lugo, in provincia di Ravenna, dove abbandonò l'ex moglie e le due figlie, sparendo nel nulla, e ritrovato recentemente a Patrasso, in Grecia, dalla trasmissione Chi l'ha visto?. Il 57enne dovrà comparire davanti ai giudici di Ravenna per difendersi dall'accusa di violazione degli obblighi di assistenza familiare per avere abbandonato il domicilio domestico, sottraendosi ai doveri inerenti la responsabilità genitoriale e alla qualità di coniuge, facendo mancare i mezzi alla moglie Raffaella Borghi e alle due figlie. Fu la ex moglie, che in realtà lo sapeva in Grecia già dal 2016, a presentare la denuncia per non aver provveduto al sostentamento familiare. Nei giorni scorsi la storia degli ex coniugi è finita su tutti i giornali perché sembrava che l'uomo avesse inscenato un suicidio con i familiari, che lo avrebbero considerato morto per 10 anni. Dalla querela risulta invece che la moglie, forse anche prima del 2016, era a conoscenza del fatto che Guerra era all'estero e lo accusava di violazione degli obblighi familiari. A Chi l'ha visto? la donna ha raccontato che, dopo aver ricevuto una segnalazione dell'ex marito in Grecia, nel 2019 e nel 2021 aveva contattato il Consolato italiano ad Atene per avere conferma della sua presenza sul territorio greco, ma gli fu risposto che lì non c'era nessuna traccia di lui. Secondo quanto risulta, la donna sarebbe stata in effetti avvisata che Guerra era stato fermato per un normale controllo, già tra la fine del 2014 e il 2015: identificato, aveva riferito di non volere comunicare con i parenti in Italia. In seguito l'ex moglie ha chiesto informazioni al Consolato. Intanto a Ravenna, pur tra qualche intoppo, partirà il processo contro l'uomo. La prima udienza era stata fissata a settembre 2019, ma il dibattimento era stato poi sospeso perché l'imputato era stato dichiarato irreperibile fino a quando, nell'ambito del procedimento civile avviato ancora dalla donna per il divorzio, a febbraio 2022, aveva fatto richiesta all'Aire (anagrafe italiani residenti all'estero) di essere cittadino italiano residente in Grecia.

Adamo Guerra, l’ennesima vittima dell’ennesima sceneggiata mediatica. Ha finto il suicidio lasciando una lettera per l'ex moglie e le figlie. Poi è stato trovato vivo e vegeto in Grecia. Ma la scoperta importante è stata un'altra: l'ex consorte Raffaella Borghi sapeva che l'ex marito non si era tolto la vita. E sapeva anche dove si trovava., Ma intanto lo sputtanamento e la gogna mediatica targata 'Chi l'ha visto' si erano già scatenati. Andrea Aversa su L'Unità il 25 Settembre 2023

La domanda è lecita. La trasmissione ‘Chi l’ha visto‘ sapeva che Raffaelle Borghi forse aveva mentito? La chiave della questione è tutta nella risposta. Noi immaginiamo che la redazione del programma abbia fatto tutte le dovute verifiche del caso prima di strutturare il servizio. Il caso è quello di Adamo Guerra. L’uomo era scomparso da 10 anni. O meglio era creduto morto. Nel 2013 aveva lasciato una lettera all’ex moglie Raffaella Borghi dove le diceva di avere gravi problemi economici e che l’avrebbe fatta finita. Guerra doveva pagare all’ex consorte gli alimenti per le figlie. Così si è imbarcato per la Grecia, direzione Patrasso. Ha finto di essersi tolto la vita e poi ha vissuto l’ultima decade nella località greca.

Perché Adamo Guerra va difeso dalla gogna mediatica

A quanto pare non lo ha fatto tanto in incognito. Infatti, l’Ansa, ha svelato un retroscena: la Borghi, insieme a una delle due figlie, il 30 settembre del 2016 ha firmato una denuncia contro Guerra. Quest’ultimo era ritenuto colpevole di aver violato i vincoli economici nei confronti della famiglia. Dunque, sia la donna che almeno una delle due figlie e forse – persino – anche i nonni (che negli anni hanno aiutato molto madre e figlie rimaste sole), sapevano che l’uomo fosse vivo. E forse conoscevano anche il luogo nel quale si trovava.

La storia

La conferma è arrivata dalla stessa Borghi in sede di denuncia. Ai carabinieri spiegò che le autorità greche, nell’ambito delle indagini europee volte al ritrovamento dell’ex marito, avevano individuato la località dove Guerra viveva. La notizia era stata comunicata a tutta la famiglia. Quindi è falso anche un altro elemento: l’aver scoperto solo nel 2022 che Guerra fosse vivo. Una rivelazione giunta grazie a una richiesta fatta da lui stesso all’Anagrafe italiana dei residenti all’estero (Aire). Tornando al quesito iniziale dell’articolo, considerato che poi la Borghi si è rivolta a ‘Chi l’ha visto‘, gli autori della trasmissione e la conduttrice Federica Sciarelli, sono stati vittime inconsapevoli di questa sceneggiata o hanno consapevolmente contribuito a scatenare la gogna mediatica nei confronti di Guerra? Oppure, la messa in scena è stata – da un lato – un regolamento di conti in famiglia (anche da un punto di vista economico, pare che la figlia più grande della coppia debba iniziare l’università) e dall’altro un prodotto televisivo ‘truffaldino‘?

La sceneggiata

Perché Adamo Guerra va difeso dalla gogna mediatica? Per carità nessuno nega, almeno dai fatti raccontati, che molto probabilmente Guerra non si è comportato benissimo. Ha rigettato le proprie responsabilità, quanto meno di genitore. Ma chi siamo noi per giudicarlo? Eppure le telecamere della Rai, scomodate da una finta segnalazione, sono andate a pizzicarlo fino in Grecia. Sono andate sul suo posto di lavoro, a riprenderlo e registrarlo. A tamponarlo con una raffica di domande. Non è neanche servita la ‘delicatezza’ di oscurare il volto di Guerra: nel giro di qualche ora la faccia dell’uomo era su tutti i giornali e le televisioni. E alla fine questa storia potrebbe anche pregiudicare le buone ragioni della sua famiglia. Andrea Aversa 25 Settembre 2023

Alessandro Venturelli.

Da 3 anni cerca suo figlio per l'Europa: "Nessuno fa nulla per gli scomparsi". Alessandro Venturelli, 23 anni, se n'è andato di casa a dicembre 2020 facendo perdere le tracce. La madre, Roberta Carassai, non ha mai smesso di cercarlo: "Viaggio con la sua foto in borsa. Lo Stato mi ha abbandonata". Rosa Scognamiglio il 22 agosto 2023 su Il Giornale.

"Nessuno indaga ma io non mi fermerò. Vorrei solo che mio figlio mi telefonasse e dicesse: 'sono vivo'". Roberta Carassai non hai mai smesso di cercare suo figlio, Alessandro Venturelli, il 23enne scomparso da Sassuolo il 5 dicembre 2020. Quel giorno il ragazzo uscì di casa portando con sé alcuni effetti personali, tra cui un libro: "Il potere della mente", il titolo del volume. Da lì, il buio. I genitori non hanno mai perso la speranza di porterlo riabbracciare. "Viaggio da tre anni con la sua foto in borsa, ma lo Stato mi ha abbandonato" racconta la madre in un'intervista al quotidiano La Repubblica.

La forza di una mamma

Da circa 32mesi Roberta è in viaggio tra l'Italia e l'Europa alla ricerca del suo unico figlio. È stata a Genova, Padova, Treviso e persino in Olanda. Ora si trova a Napoli, in compagnia di un'amica che l'ha accompagnata nell'ennesimo "viaggio della speranza". Una speranza che si riaccende ogni qualvolta uno sconosciuto al telefono le dice di aver visto Alessandro da qualche parte. Il ragazzo è riconoscibile dal tatuaggio sul polso: un quadrifoglio e la data, in numeri romani, del giorno in cui si è risvegliato dal coma, dopo un terribile incidente in moto avuto a 15 anni e mezzo. L'ultima segnalazione è arrivata proprio dal capoluogo partenopeo, qualche giorno fa. Roberta non ci ha pensato su due volte e, come fa sempre, si è precipitata sul posto. Poi la domanda di rito: "Avete scattato una fotografia? Mi serve una prova. - chiede - Qui resto sempre male. Nessuno pensa a fare una foto. Nessuno mi dà la conferma che aspettavo".

Le segnalazioni

Sulla scorta dei presunti avvistamenti - alcune persone hanno detto di aver visto il giovane nel centro sociale "Mammut" di Secondigliano e poi in un bar del centro - si è precipitata in Questura. "Sono andata speranzosa - precisa la donna - perché quattro persone diverse, che non si conoscevano tra loro, mi hanno detto di aver visto quello che sembrava mio figlio con una ragazza". È stata anche alla stazione di piazza Garibaldi: "La Polfer mi ha detto di aver visto uno che somigliava ad Alessandro prendere un treno. Io ho chiesto di vedere i filmati delle telecamere, ma mi hanno detto che doveva essere la questura ad autorizzare". Un tunnel senza via d'uscita quello in cui finisce Roberta tutte le volte che imbocca una nuova strada: "Mi palleggiano da una parte all’altra. - dice - Ma non partirò finché non avrò risposta".

La battaglia

Da quando Alessandro è andato via di casa, la vita di Roberta non è più la stessa. Ha dovuto prendersi anche una pausa dal lavoro perché "dopo quello che è accaduto non avevo più la testa", puntualizza. Sono cambiate le priorità: "Tant’è che non riesco più ad avere un rapporto con tutti gli amici di prima. Non voglio sentire la quotidianità delle altre persone, sto troppo male. - continua - Mio marito e io facciamo solo cose utili a ritrovare Alessandro. Siamo uniti nel dolore, anche se lo viviamo in maniera diversa: lui non sta mai fermo, si dedica alla palestra, alla sua passione per il telescopio. Io invece mi impegno in prima persona al mille per mille, non ce la faccio a distrarmi da questo obiettivo. Ho bisogno di solitudine, di piangere e gridare". Più che un viaggio, quella di Roberta Carassai è una missione: "Non ce la faccio più, mi sento impotente: nella mia battaglia quotidiana avrei bisogno di persone competenti. - aggiunge - In questi anni mi sono accorta che per gli scomparsi nessuno fa niente: è una piaga sociale, c’è un buco normativo. Penso tante volte alla storia di Emanuela Orlandi, alla battaglia della sua famiglia e all’omertà e alla chiusura che si sono trovati di fronte, e mi vengono i brividi".

La speranza

Alessandro Venturelli era un perito tecnico ma sognava di viaggiare. Quando andò via di casa, il 5 dicembre 2020, sembrava provato. "Chiedeva protezione, non libertà. - ricorda la mamma - Sembrava depresso, aveva paura, mi diceva: 'Mi sento manipolato'". Lei e il marito sono convinti che il figlio sia stato manipolato da qualcuno, forse vittima di una setta. Motivo per cui Roberta si sposta sempre tenendo in borsa le foto dei tatuaggi di Alessandro: "Ho fatto diversi appelli. - dice - Sono passati 32 mesi e penso sempre: se non lo riconosco dal viso, posso farlo solo dai tatuaggi. Ed è una cosa che mi fa una paura immensa". La speranza di poterlo riabbracciare è viva più che mai: "Vorrei solo che mio figlio mi telefonasse e mi di cesse: sono vivo. Gli risponderei: se hai bisogno di aiuto, io sono qua".

Mia Kataleya Chicllo Alvarez.

(ANSA l'11 giugno 2023) - Per le ricerche della bambina di 5 anni di cui non si hanno notizie da ieri, dopo essere scomparsa dal palazzo dove abita nel quartiere di Novoli, i carabinieri hanno attivato due diversi team di unità cinofile molecolari, una dei volontari VAB della città metropolitana di Firenze, una del centro cinofili carabinieri di Firenze. E' quanto si spiega dall'Arma. I due cani hanno setacciato per tutta la notte la "grossa porzione dell'area urbana" in cui ricade l'edificio ove la scomparsa dimorava.  

Gli esiti sono stati negativi. Sono stati attivati, si spiega, anche i vigili del fuoco di Firenze che hanno perlustrato l'argine del vicino fiume Mugnone, con esito negativo. Tre i reparti dei carabinieri che procedono nelle indagini e nelle ricerche: i militari della stazione Santa Maria Novella, il nucleo operativo e quello investigativo.

(ANSA l'11 giugno 2023) - "Non abbiamo una pista in questo momento che possiamo considerare più importante, non escludiamo nulla. Mi sento ragionevolmente di escludere che sia dentro l'edificio. Stiamo ricevendo telefonate da cittadini che ritengono di averla vista in località intorno a Firenze e stiamo controllando". Lo ha detto il generale Gabriele Vitagliano, comandante provinciale dei carabinieri di Firenze giunto nell'edificio da dove si sono perse le tracce della piccola. 

"L'ipotesi è che siccome stava giocando possa essersi allontanata magari seguendo un altro bambino, speriamo che sia con un adulto che possa prendersene cura. In questo momento non abbiamo elementi che possano comprovare una cosa o un'altra. L'ultima immagine delle telecamere evidente è che la bambina sia dentro ma non mi sento di escludere che sia uscita coperta da un adulto", ha concluso.

(ANSA l'11 giugno 2023) - E' stata convocata per le 15:30 in prefettura a Firenze una cabina di regia per la scomparsa della bambina Chicllo Alvarez Mia Kataleya. La riunione, prevista nell'ambito del Piano provinciale per la ricerca delle persone scomparse. servirà per fare un punto di situazione con tutti i soggetti coinvolti nell'attività di ricerca della piccola.

(ANSA l'11 giugno 2023) - È un ex hotel chiuso da almeno un decennio, l'Astor di via Maragliano, lo stabile occupato dove viveva la ragazzina di origine peruviana di 5 anni e da dove si sono perse le sue tracce da sabato alle 15. Un edificio occupato abusivamente molte volte, l'ultima nel settembre 2022 quando sono stati sfondati gli ingressi e alcuni cittadini peruviani, romeni e di paesi dell'est Europa presero possesso dei locali.

 "Abbiamo subito chiesto lo sgombero a settembre il giorno dopo l'occupazione dando garanzie nel momento per la presa in carico di bambini e soggetti fragili -dice l'assessore al sociale di Firenze Sara Funaro - La proprietà fece denuncia in procura. Ma ancora non è arrivato il decreto di sequestro preventivo che permette di intervenire". Funaro, pur precisando che "ora non è il momento delle polemiche", sottolinea come "le amministrazioni comunali non possono intervenire in autonomia ma si coordinano con le altre autorità".  

Dunque nonostante la richiesta di sgombero a settembre e la denuncia in Procura in tanti, più di 100 contando i minori, vivono nell'ex hotel. L'immobile è vasto, copre un fronte di circa 80 metri su via Maragliano, di circa 40 su via Boccherini e ha tante stanze. Dentro ci sarebbero almeno 80-100 adulti, ma una donna straniera che ci vive aggiunge, che vi abitano pure "55 bambini". La strada è in piena città, tra i viali del centro e la periferia emergente di Novoli, con l'università, il palazzo di Giustizia e gli uffici della Regione a 500 metri. 

Chi ci vive racconta che i bambini vengono lasciati giocare in due piccoli cortili interni. In uno di questi Kata è stata vista giocare prima della scomparsa, in quello che affaccia in via Boccherini, strada di palazzi residenziali e negozi aperti. Le utenze sono collegate abusivamente, una situazione che i comitati di residenti hanno segnalato alle autorità da tempo. All'interno ci sarebbero vani resi non accessibili neanche agli stessi occupanti e pure le cantine sarebbero occupate abusivamente perchè ogni spazio è sfruttato.  

Come in situazioni analoghe, è stato calcolato che a Firenze le occupazioni siano circa una ventina, le condizioni igieniche e degli impianti sono precarie. Nello stabile occupato ci sono stati recenti screzi all'interno. Come quello del 23 marzo quando c'è stata una rissa a bastonate per la disputa su un alloggio e venne udito uno sparo, poi le autorità conclusero che fu usata una scacciacani. Ci furono due feriti andati al pronto soccorso.

 Il 29 maggio si è verificata un'aggressione e un uomo, 40enne dell'Ecuador, precipitato dal terzo piano riportando fratture. In passato, prima di uno sgombero in tempi di Covid, l'ex hotel ha avuto altre occupazioni abusive. E prima di essere un hotel, lo stabile ospitò gli uffici della Provincia di Firenze che assegnò pure alcuni locali al Conservatorio come sede distaccata.

Estratto da leggo.it l'11 giugno 2023.

Una bambina di 5 anni scomparsa a Firenze. Sono in corso da sabato le ricerche della piccola, della quale non si hanno più notizie dalle 13 di ieri, quando stava giocando con altri bambini nel cortile dello stabile dove vive, l'ex hotel Astor, occupato da alcune famiglie. I genitori hanno sporto denuncia.

Bambina scomparsa a Firenze

La bimba scomparsa si chiama Kata, è di origine peruviana e al momento dell'ultimo avvistamento indossava una maglietta bianca e pantaloni rosa lunghi[…]

Controlli con i cani in due palazzi

Controlli con l'unità cinofila sono stati effettuati nello stabile situato all'angolo tra via Maragliano e via Boccherini a Firenze dove vive Kata, diminuitivo di Kataleya. […] 

Le ricerche di Kata sono cominciate alle 23 di sabato.

I militari hanno più volte controllato lo stabile e le vie d'intorno, anche con l'aiuto di due unità cinofile, una della Vab e l'altra dell'Arma fatta arrivare appositamente da Milano. Resta da capire, anche da un esame approfondito delle immagini catturate dalle telecamere della zona, se la piccola si sia allontanata dallo stabile. […]

La lite con altri bimbi

La madre di Cataleya ha seguito in strada le ricerche condotte dai carabinieri con le unità cinofile, tra via Maragliano, via Boccherini e via Monteverdi, nell'area intorno al palazzo occupato dove vive con la figlia e da dove la piccola è scomparsa ieri nel primo pomeriggio. Con la madre ci sono alcune connazionali. Da quanto appreso da persone vicina alla bimba, ieri prima di sparire Kataleya era nel palazzo dove vive, un ex albergo occupato da varie famiglie, mentre la madre era al lavoro. Quando la donna è rientrata non ha trovato la piccola. Sembra che poco prima di scomparire la bambina avrebbe avuto un bisticcio con altri bambini.

(ANSA l'11 giugno 2023) - Sulla scomparsa della bimba di 5 anni a Firenze "tutte le ipotesi sono aperte, compreso il rapimento da parte di adulti o l'allontanamento". Lo ha detto il generale Gabriele Vitagliano, comandante provinciale dei carabinieri di Firenze giunto nell'edificio da dove si sono perse le tracce della piccola. "Nello stabile sono state effettuate due perquisizioni, una la scorsa notte e una stamane, ma non ci sono tracce -spiega- la piccola sarebbe scomparsa attorno alle 15 e la madre è tornata dal lavoro verso le 15.15 non trovandola".

Kata scomparsa a Firenze a 5 anni, la mamma: «Presa da qualcuno che conosceva, ai carabinieri ho detto chi è». Jacopo Storni su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023 

«Lancio un appello a tutti, alla comunità peruviana ma anche a tutti i cittadini di Firenze: è la mia bambina, riportatemela» 

Katherine si aggira per il cortile fatiscente dove è stata vista sua figlia per l’ultima volta. Incontra le operatrici dell’associazione Penelope, che lavora sul fronte delle persone scomparse. Scrive il suo nome in stampatello su un foglio, poi parla con i carabinieri. E poi scoppia a piangere, si copre il volto con le mani. Indossa un cappellino nero con la scritta Armani, la visiera abbassata per nascondere gli occhi. Ha un giubbotto di jeans e i pantaloni grigi di una tuta, le scarpe da ginnastica. Esce e rientra nel palazzo. Cammina per le strade del quartiere urlando a squarciagola il nome della figlia scomparsa. Ma nessuno le risponde. E allora piange ancora. Non dorme da oltre 24 ore.

Poco prima di pranzo, ieri mattina, ha un lieve malore e viene trasferita al pronto soccorso dell’ospedale Santa Maria Nuova, dove viene sedata e dove incontra uno psicologo messo a disposizione dai servizi sociali del Comune.

Quando ha visto per l’ultima volta sua figlia Kata?

«Io lavoro come commessa al supermercato Carrefour e sabato mattina l’ho salutata come ogni mattina mentre uscivo per andare a lavorare.

Quando poi sono tornata dal lavoro sabato pomeriggio non ho trovato la mia bambina».

A chi l’aveva lasciata?

«L’avevo lasciata a una amica di cui mi fido».

Chi l’ha vista per l’ultima volta?

«È stata proprio questa mia amica ad averla vista per l’ultima volta, era con la sua figlioletta a giocare, nei corridoi e nel cortile del palazzo. Da quel momento ancora non abbiamo più notizie. Forse me l’hanno portata via, è impossibile che lei si sia persa da sola. Penso che qualcuno che conosceva l’abbia presa. Ho detto ai carabinieri chi possono essere queste persone».

Lei che cosa pensa sia accaduto?

«Non so più cosa pensare, davvero non lo so, non riesco a parlare».

Aveva litigato con qualcuno negli ultimi giorni?

«Nei giorni scorsi altre persone che abitano nel palazzo si sono comportate in modo aggressivo nei nostri confronti, io e mia figlia ci siamo chiuse in una stanza e loro hanno cercato di entrare». 

Pensa che possono averle portato via sua figlia?

«Non lo so». 

Quando siete arrivati in Italia, lei e i suoi figli? 

«Siamo arrivati a Firenze quando mia figlia aveva soltanto un anno. Lei è cresciuta qui, ha passato in Italia quattro anni della sua vita, va alla scuola dell’infanzia Lavagnini, è molto brava e si impegna molto». 

Vuole lanciare un appello per ritrovarla? 

«Lancio un appello a tutti, alla comunità peruviana che si sta attivando sulla Rete, ma anche a tutti i cittadini di Firenze: è la mia bambina, vi prego con tutto il cuore di riportarmela».

Luca Serranò per repubblica.it l'11 giugno 2023.  

[…] Sabato mattina Kataleya Mia Alvarez, questo il nome della piccola di origini peruviane, era nell'edificio in cui vive, l'ex hotel Astor che è occupato da varie famiglie, […] A quanto pare, poco prima aveva bisticciato con un'altra bambina: "Giocavano nel cortile, mia figlia mi ha detto che hanno litigato e lei è salita a casa" racconta un'amica della mamma. Quando la mamma, Caterina, è tornata a casa dal lavoro non l'ha trovato la figlia. Dopo averla cercata invano, ha presentato denuncia ai carabinieri.

Kataleya indossava una maglietta bianca e pantaloni viola. Le ricerche si concentrano tra via Maragliano, via Boccherini e via Monteverdi. […]. La madre della bambina le segue in strada, insieme ad alcune connazionali. […] "Dov'è, dov'è la mia bambina?" è la frase che ripete nel pianto. Poi più tardi aggiunge: "Ho paura che sia stata portata via da qualcuno".

La mamma e la famiglia del fratello che vivono nello stesso stabile occupato avevano avuto discussioni e screzi negli ultimi tempi con altri inquilini del palazzo (sembra con persone del terzo piano), soltanto pochi giorni fa erano stati aggrediti e costretti a barricarsi in una stanza mentre altri cercavano di sfondare la porta, armati di coltelli.  

In quell'occasione un giovane equadoriano si era gettato da una finestra del primo piano facendo un volo di otto metri. […] "Ma non voglio pensare che siano stati loro, non possono essere arrivati a tanto" dice ancora la mamma. Che poi aggiunge: "Più passa il tempo e più ho paura che qualcuno me l'abbia portata via, non so cosa pensare...aiutami a ritrovarla". […]

Un'amica della mamma racconta: "La piccola era stata lasciata a casa con lo zio". Poi sarebbe andata a giocare in cortile. Un'altra amica della mamma aggiunge: "Ci hanno detto che dalle telecamere sulla strada si vede la bambina entrare nel cortile e non la si vede più uscire[…] I cani sembrano indirizzare le ricerche nello stesso palazzo e in uno adiacente. Tuttavia della bambina non ci sono tracce. Sono arrivati anche i vigili del fuoco del nucleo sommozzatori per ispezionare le condutture e una squadra con un'autoscala per raggiungere tutte le stanze dell'edificio. 

Controlli nel fiume Mugnone, nel parco delle Cascine e nell'edificio dove abita

[…] 

Un appello in mattinata è stato diffuso anche dalla prefettura con un invito ai cittadini a collaborare: "Ieri sera ricevuta la segnalazione di scomparsa della minore Chiello Alvarez Mia Kataleya sono state attivate le ricerche come previsto dal piano provinciale  per la ricerca delle persone scomparse con il coinvolgimento dele forze di polizia, dei vigili del fuoco e di altri soggetti istituzionali. Le attività in corso sono coordinate dall'arma dei carabinieri in raccordo con la prefettura e la procura. Rivolgiamo un appello a chi fosse in possesso di notizie utili a rintrracciare la piccola Alvarez Mia Kataleya, di informare senza ritardo attraverso il numero unico dell'emergenza 112 la locale Arma dei carabinieri".

Cata Alvarez, il sospetto inquietante a casa sua: "Chi non vuole aprire la porta". Libero Quotidiano l'11 giugno 2023

Sono ore di febbrili indagini e di ricerche a Firenze per la scomparsa di Kataleya Mia Alvarez, la bimba di 5 anni figlia di peruviani che manca da sabato pomeriggio. Stava giocando con i coetanei nel cortile dello stabile occupato, l’ex hotel Astor, dove abita con la madre, che però al momento della scomparsa era assente perché a lavoro. "Stiamo indagando a 360 gradi", dice il generale dei carabinieri Gabriele Vitagliano.

Dopo un sopralluogo nell’immobile, con l’ausilio dei vigili del fuoco e i cani molecolari, gli inquirenti tendono a escludere che la bimba possa essere ancora lì dentro nonostante dalle immagini di una telecamera posta sull’ingresso del palazzo, non ci sia traccia della sua uscita. Gli accertamenti si concentrano anche sulla situazione dello stabile, dove anche recentemente ci sono stati interventi di ordine pubblico, e sulla situazione della famiglia. 

Le ricerche sono concentrate tra via Maragliano, via Boccherini e via  Monteverdi e in particolare proprio sull’ex hotel Astor. Secondo informazioni non ufficiali, ci sarebbero immagini delle telecamere di videosorveglianza che riprendono la bambina entrare in cortile. Sul posto, in via Maragliano, i carabinieri hanno fatto intervenire le unità cinofile. I cani sembrano aver indirizzato le ricerche nello stesso palazzo e in uno adiacente. Nelle ricerche, sempre secondo alcune indiscrezioni, sembra che alcuni occupanti dell'ex hotel, si siano rifiutati di aprire le porte delle loro stanze e non abbiano collaborato. 

Il padre della bimba risulta essere detenuto. La madre è stata portata in ospedale perché ha avuto un malore. 

Cata Alvarez, la testimonianza choc: "Salita su un bus con tre persone". Libero Quotidiano l'11 giugno 2023

La piccola Kataleya, chiamata Cata, non si trova. La madre è disperata e nell'ex hotel occupato in un quartiere periferico di Firenze non ci sarebbero tracce della piccolina. Sono state effettuate due perquisizioni, una ieri e una questa mattina, ma senza esito positivo. E così in tutta la città le forze dell'ordine sono a lavoro per cercare di capire dove possa essere finita questa bimba di soli 5 anni. Nel pomeriggio di ieri la piccola stava giocando con una amichetta.

Poi è sparita nel nulla. La mamma questa mattina ha accusato un malore ed è stata trasferita in ospedale. I cani delle forze dell'ordine stanno setacciando la zona in cerca di una traccia della bambina. Non sono escluse ipotesi di rapimento e gli inquirenti vagliano ogni pista. Ed è in questo quadro che arriva una testimonianza che potrebbe ribaltare tutto. Al Tg3 un uomo che probabilmente vive nello stabile o nella zona dove è scomparsa la piccolina ha affermato: "Un ragazzo mi ha detto di averla vista salire su un bus insieme ad altre tre persone". Una circostanza che se confermata cambierebbe radicalmente il quadro delle indagini in corso. Le ricerche non si fermano e andranno avanti, senza sosta, anche nelle prossime ore. 

Firenze, scomparsa piccola Kataleya. L’ex hotel Astor già noto alla polizia. Maxi risse e donne che “volano giù” dal balcone. Redazione su Il Riformista l'11 Giugno 2023 

Con il passare delle ore sale la preoccupazione per la scomparsa della piccola Kataleya, svanita nel nulla da 24 ore mentre si trovava a casa dello zio all’interno dell’ex hotel Astor. Secondo le informazioni raccolte dagli investigatori la piccola si sarebbe allontanata dopo un litigio con il fratellino e la cugina, suoi coetanei. La mamma, rientrata dal lavoro, l’avrebbe cercata invano.

Le segnalazioni dai cittadini di Firenze

“Stiamo ricevendo telefonate da cittadini che ritengono di averla vista in località intorno a Firenze e stiamo controllando”. Lo ha detto il generale Gabriele Vitagliano, comandante provinciale dei carabinieri di Firenze, incontrando i giornalisti per fare il punto con i giornalisti sulle indagini sulla scomparsa di Mia Kataleya Alvarez,

Il generale Vitagliano ha spiegato che le indagini si stanno conducendo a 360 gradi. “Non abbiamo una pista in questo momento che possiamo considerare più importante, non escludiamo nulla, ma mi sento ragionevolmente di escludere che sia dentro l’edificio – ha affermato – L’ipotesi è che siccome stava giocando possa essersi allontanata, magari seguendo un altro bambino, speriamo che sia con un adulto che possa prendersene cura. In questo momento non abbiamo elementi che possano comprovare una cosa o un’altra. L’ultima immagine delle telecamere evidente – ha concluso – è che la bambina sia dentro ma non mi sento di escludere che sia uscita coperta da un adulto”

L’hotel Astor già noto alle forze dell’ordine

L’ex hotel Astor, in via Maragliano, nel quartiere di Novoli, nella zona nord di Firenza, ha chiuso l’attività ricettiva alla fine del 2020. Lo stabile è occupato dal settembre 2022, quando fu il Movimento di lotta per la casa a entrare nell’edificio.

All’epoca vi entrarono una settantina di persone, tra italiani, ungheresi, romeni e peruviani, tra cui una trentina di minori. Oggi i presenti sarebbero circa un centinaio. Da allora non è stata trovata una soluzione definitiva per gli occupanti. La proprietà ha chiesto a più riprese lo sgombero, a cui si sono uniti anche i residenti della zona, preoccupati per la situazione di illegalità.

Anche il sindaco Dario Nardella, già nello scorso settembre, aveva chiesto lo sgombero e la vicenda era stata discussa durante un Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica convocato in prefettura. Nel marzo scorso nell’ex hotel c’è stata una maxi rissa con bastoni e bottiglie ed anche una scacciacani per contendersi un alloggio: furono denunciati quattro peruviani, tra i 20 e i 30 anni, due dei quali finiti in ospedale per contusioni.

A fine maggio una donna era ‘volata’ giù dal secondo piano dell’ex albergo, a quanto sembra in fuga da un’ennesima lite, riportando solo lievi ferite e contusioni. La situazione fuori controllo nell’edificio occupato è stata portata più volte all’attenzione del Consiglio comunale, in particolare dal gruppo di Fratelli d’Italia, che hanno denunciato la situazione di persistente illegalità.

“L’ex albergo occupato rappresenta ormai un enorme problema per il quartiere, in mano a gruppi di extracomunitari violenti. Chiediamo lo sgombero immediato della struttura”, scrivevano in un comunicato i consiglieri comunali di Fdi Alessandro Draghi e Jacopo Cellai.

Tutti cercano la piccola Kataleya di 5 anni. Firenze, scomparsa Kataleya: la solidarietà di Piera Maggio mamma di Denise Pipitone. Chi ha notizie parli. Redazione su Il Riformista l'11 Giugno 2023 

Piera Maggio, la mamma di Denise Pipitone, la bimba scomparsa a Mazara del Vallo l’1 settembre 2004, rilancia sui suoi profili social le parole della madre della piccola sparita a Firenze, gli appelli e gli aggiornamenti sulle ricerche. Un modo per stare vicina ai familiari che stanno vivendo il suo medesimo dramma. “Chiunque avesse informazioni utili, serie e comprovate e’ pregato di mettersi in contatto con le autoria’ competenti del posto oppure chiamate il (112). Massima attenzione. Grazie”, scrive su Facebook.

Intanto continuano le ricerche della piccola. Intorno alle cinque del pomeriggio i carabinieri sono tornati nell’ex albergo Astor di via Maragliano con una speciale unità cinofila specializzata nella ricerca di tracce ematiche di persone scomparse. Le ricerche nello stabile non hanno sortito alcun risultato. Nell’ex hotel avevano già agito le unità cinofile dotate di cani molecolari.

La direzione dei Servizi sociali del Comune di Firenze ha messo a disposizione della mamma di Kata un supporto psicologico. Lo rende noto Palazzo Vecchio spiegando che si tratta di uno psicologo che “svolge servizio in affidamento da parte del Comune su tematiche di area marginalità e disagio sociale”.

Il video del fast food

Nel pomeriggio una conoscente della famiglia della bimba ha detto ai giornalisti, uscendo dall’ex hotel occupato, che “risulterebbe l’esistenza di immagini di una telecamera che sabato sera avrebbero ripreso tre adulti, fra cui due donne, insieme a due minori nei pressi di un fast food in città: uno dei minori è una bambina e si starebbe accertando se corrisponde alla bimba scomparsa”

Bimba scomparsa a Firenze: aperte tutte le ipotesi, anche il rapimento. Adnkronos su L'Identità l'11 Giugno 2023 

Si indaga in ogni direzione, gli investigatori dei carabinieri non escludono nessuna pista, compresa quella di un eventuale rapimento per vendetta. Ma per ora sono risultate vane le ricerche della bambina peruviana Mia Kataleya Chicllo Alvarez, che i familiari chiamano Kata, la bambina di 5 anni scomparsa da Firenze sabato 10 giugno. Intorno alle 15 è stata vista l'ultima volta nel cortile dell'ex hotel Astor, uno stabile occupato di via Maragliano 100, nel quartiere di Novoli, nella zona nord della città, dove abita la famiglia insieme a circa cento persone, in gran parte romeni e peruviani. Il palazzo, che è stato setacciato più volte anche con i cani molecolari, nelle ultime settimane è stato al centro più volte di litigi e risse tra gli occupanti.  "Ho detto ai carabinieri chi può averla presa". Così ha risposto ai giornalisti Kathrina, la mamma di Kata. "Non si è mai allontanata da sola – ha aggiunto – Per me qualcuno me l'ha presa e portata via, l'ho detto ai carabinieri". Parlando con i cronisti, la madre ha detto anche: "Ho ricevuto una chiamata da un numero sconosciuto, mi ha detto di avere mia figlia" Un'amica della bambina scomparsa, secondo quanto è stato riferito da una conoscente di Kathrina, avrebbe raccontato di aver visto degli sconosciuti, donne e uomini, prendere Kataleya, cambiarle abiti e portarla via. Le testimonianze sono al vaglio degli investigatori dei carabinieri che stanno conducendo le indagini. "Le indagini sono a 360 gradi. Non abbiamo nessun elemento al momento che ci fa propendere per una pista piuttosto che per un'altra. Tutte le ipotesi sono aperte, compresa quella del rapimento da parte di adulti o l'allontanamento", ha detto il generale Gabriele Vitagliano, comandante provinciale dei carabinieri di Firenze, facendo il punto dell'inchiesta con i giornalisti. "Nello stabile sono state effettuate due perquisizioni, una la scorsa notte e una stamani ma non ci sono tracce della bambina. La piccola sarebbe scomparsa attorno alle 15 e la madre è tornata dal lavoro verso le 15.15 non trovandola più", ha spiegato il generale Vitagliano. A fine mattina, dopo ore estenuanti di attesa e vane ricerche, la madre della bimba, Kathrina, ha avuto un lieve malore ed è stata soccorsa. "Più passa il tempo e più ho paura che qualcuno me l'abbia portata via, non so cosa pensare. Aiutatemi a ritrovarla", sono state le parole pronunciate più volte dalla giovane donna. A sostegno della madre, il Comune ha messo a disposizione una psicologa. La piccola Kata, secondo il racconto della madre Caterina, era affidata a un adulto "che si è distratto un attimo e quando l'ha cercata non c'era più. E' stata vista l'ultima volta intorno alle 15:15. Da allora sembra davvero sparita nel nulla", ha detto il generale Gabriele Vitagliano alle telecamere del programma di Rai 3 "Chi l'ha visto?"  La madre per andare a lavorare aveva affidato la figlia allo zio: quando la donna è tornata nell'ex albergo occupato, Kata non c'era più in cortile a giocare con gli altri bambini.  Prima delle 15.15 la bambina, "affidata al parente della madre", ha raccontato il generale Vitagliano, era nel cortile "dove i bambini si sentono abbastanza liberi di giocare assieme". "L'adulto si è distratto un attimo – in un contesto che lui evidentemente riteneva essere sufficientemente protetto anche perchè le famiglie in zona si conoscono – e quando ha cercato di nuovo la bambina non l'ha vista più".  "L'unico elemento di novità", ha spiegato ancora il comandante dei carabinieri, è quello che deriva dalle ricerche svolte all'interno dell'ex albergo: "Abbiamo letteralmente rivoltato la struttura da cima a fondo e non abbiamo trovato la bambina". Le ricerche all'interno dell'edificio comunque continuano anche per cercare "eventuali indizi" utili alle indagini "per cercare di capire che cosa possa essere successo". I carabinieri al tempo stesso stanno controllando le segnalazioni pervenute "da cittadini di tutta la provincia: per ora sono tutte risultate infondate, ma non ci possiamo esimerci da verificarla una per una".  "Stiamo, inoltre, passando al setaccio in queste ore – ha aggiunto il generale Vitagliano -, allargandoci sempre di più come raggio, le telecamere del quartiere che finora non hanno dato un esito. Ci auguriamo, allargando il raggio di quello che vediamo e che studiamo, di poter trovare qualcosa". Gli investigatori hanno sentito numerose persone per cercare di ricostruire cosa possa essere accaduto nell'ex hotel Astor, dove la convivenza tra gli inquilini è particolarmente difficile, tanto che Kathrina, come ha confessato un'amica della mamma di Kata, voleva "andare via da quell'inferno". Tra le ipotesi al vaglio degli inquirenti anche quella del rapimento per vendetta ma finora non risultano richieste di denaro.  Fin dalla serata di sabato è stato attivato dalla Prefettura di Firenze il 'Piano ricerche persone scomparse' dopo la segnalazione dai carabinieri in seguito alla denuncia della madre. Nelle attività di ricerca e soccorso sono coinvolte le forze di polizia, i vigili del fuoco e altri soggetti istituzionali. Le attività di ricerca sono coordinate dall'Arma dei Carabinieri in stretto raccordo con la Prefettura e la Procura della Repubblica, che ha aperto un fascicolo di indagine. La Prefettura ha rivolto un appello a chi fosse in possesso di notizie utili a rintracciare la piccola Mia Kataleya, di informare senza ritardo, attraverso il Numero Unico Emergenza 112 la locale Arma dei Carabinieri. Sempre la Prefettura ha diffuso anche la foto della bimba di 5 anni che al momento della scomparsa indossava una maglietta bianca e pantaloni viola.  In Prefettura oggi pomeriggio si è tenuta la cabina di regia, prevista nell'ambito del 'Piano provinciale per la ricerca delle persone scomparse'. La riunione è servita per fare un punto sulla situazione con tutti i soggetti coinvolti nell'attività di ricerca della minore.  La finalità dell'incontro – spiega un comunicato – è stata quella di fare un punto aggiornato di situazione e verificare se vi fosse bisogno di altro rispetto a quanto già messo in campo. Le ricerche fino ad ora si sono svolte all'interno dell'immobile e lungo il fiume Mugnone, anche con l'impiego di cani molecolari. Proseguiranno le attività di ricerca anche con l'impiego di personale del volontariato attivato dagli Uffici della Protezione Civile della Città metropolitana e del Comune di Firenze". La cabina di regia, è stato spiegato, è "permanentemente operativa per monitorare le attività di ricerca".  Nel comunicato la Prefettura, che aveva già diffuso la foto della bimba, riporta anche la descrizione di Kata: altezza 115 cm, occhi e capelli castani. Al momento della sparizione indossava maglietta a maniche corte di colore bianco, pantalone di colore viola e scarpe nere. 

(ANSA il 12 giugno 2023) - "È impossibile che lei si perda da sola, qualcuno l'ha presa e l'ha portata via. Io ho detto ha carabinieri chi può essere, queste persone". 

Lo ha detto Katfrina Alvarez, mamma della bambina scomparsa da ieri a Firenze, intervistata dal Tg1. Al giornalista che le chiedeva cosa direbbe a queste persone, la donna ha risposto: "Che la riportino la bambina, che non se la devono prendere con lei. Questi problemi sono dei grandi, non dei bambini".

Michele Giuntini per l’ANSA il 12 giugno 2023.

Ricerche no stop a Firenze per trovare la piccola Kataleya, 5 anni, scomparsa sabato pomeriggio da un ex hotel occupato da un centinaio di abusivi, fra cui decine di minori, in via Maragliano. 

Vi abita con la madre e un fratellino, il padre è in carcere, ci sono altri parenti fra cui uno zio che è il fratello della mamma, sono peruviani. La bambina è scomparsa e la stessa madre l'ha cercata per ore, anche di notte nelle vie del quartiere urlando il suo nome per vedere se rispondeva. 

La donna, ascoltata dai carabinieri, ha fatto anche il nome di una persona sospettata: "È impossibile che lei si perda da sola, qualcuno l'ha presa e l'ha portata via. Io ho detto ha carabinieri chi può essere", ha detto la donna intervistata dal Tg1. Dopo oltre un giorno poche sono le certezze e molti i timori di un'evoluzione infausta della vicenda. 

Gli adulti dell'ex Astor l'hanno vista l'ultima volta mentre giocava nel cortile dell'edificio occupato. Le ripetute perquisizioni allo stabile di carabinieri e vigili del fuoco escludono che Kata sia dentro. È sparita verso le tre del pomeriggio del 10 giugno.

Quando la madre torna, poco dopo, dal lavoro, si parla di un quarto d'ora, non la trova, chiede di lei, anche al fratello, ma nessuno ne sa niente. Una donna di un alloggio vicino le parla di un bisticcio tra bambine, con la sua figlia che piangendo è tornata in casa. Ma di Kataleya non ha altre notizie, pensava fosse con lo zio. Kata invece sarebbe rimasta da sola in cortile ed è scomparsa nel giro di pochi minuti. Una telecamera pubblica puntata su via Boccherini, lato nord dell'ex hotel, la fa vedere mentre esce da sola dal cancello della corte e poi vi rientra. 

Qualcuno la ha attirata fuori? Il cancello non è serrato e si apre facilmente. Altre immagini, riferiscono i carabinieri, mostrano andirivieni di adulti, tutti occupanti: i video sono setacciati per capire se qualcuno se la fosse portata via sottraendola all'obbiettivo della telecamera. 

Ogni ipotesi è valida, spiegano dall'Arma dei carabinieri: dall'allontanamento volontario - magari seguendo fuori un altro bambino per giocare -, all'intervento di un adulto, ovvero il rapimento. La mattina la madre Kathrina, 26 anni, fa un appello disperato: "Chiedo che mi aiutiate a cercarla. Sono passate troppe ore e non so niente".

Riferisce di uno screzio con una famiglia "al terzo piano perché facevano troppo rumore" e poi ricorda un'aggressione il 29 maggio pare per la disputa di un alloggio, in cui un sudamericano è precipitato in strada; per questo fatto avrebbero incolpato suo fratello "ma lui - ha detto - non c'entra niente". 

La donna accusa un malore e viene portata in ospedale dopo che le dicono che nuove ispezioni nel palazzo - tre piani sopra un'area di oltre 3.000 metri quadri - hanno dato ancora esito negativo. Le perquisizioni sono al dettaglio, dal tetto alle cantine fino alle stanze che alcuni occupanti non hanno voluto aprire ai familiari della bimba.

L'Arma ha schierato le sue unità specialistiche dal reparto scientifico ai cani molecolari capaci di fiutare le tracce a chilometri di distanza a unità cinofile specializzate nel seguire tracce di sangue. La ricerca si estende anche al torrente Mugnone che scorre nel quartiere di San Jacopino. Arrivano segnalazioni alle autorità. Qualcuno crede di averla vista in località della provincia. 

Una conoscente parla di immagini serali vicino a un fast food di Firenze, un video mostrerebbe una bambina con tre adulti, una segnalazione che non è considerata attendibile Un'altra donna riferisce alle autorità di aver ricevuto una telefonata in spagnolo da un tale che dice di avere la bambina. Viene verificato tutto. I pompieri smontano un grande condizionatore d'aria sul tetto. Addetti controllano perfino i cassonetti della differenziata. Verso le 13 il sindaco Dario Nardella e l'assessore al Sociale Sara Funaro fanno un sopralluogo, parlano con il comandante provinciale dei carabinieri Gabriele Vitagliano e con la polizia municipale. Una descrizione viene diramata tutto il giorno e la prefettura la puntualizza in un comunicato. Kata è alta 1 metro e 15, ha occhi e capelli castani. Quando è sparita indossava una maglietta bianca a maniche corte, pantaloni di colore viola e scarpe nere. Ha 5 anni, bimbi piccoli così si fidano di tutti. (ANSA).

(ANSA il 12 giugno 2023) - Il padre della piccola Kata, 27 anni, detenuto nel carcere di Sollicciano a Firenze, ieri ha ingerito detersivo venendo poi portato in ospedale dove è stato sottoposto a lavanda gastrica. Oggi il giovane, secondo quanto appreso, è rientrato a Sollicciano: nei suo confronti è stato attivato il piano di prevenzione del rischio suicidario, come sempre quando si verificano casi del genere. 

Da capire, secondo quanto appreso, se si sia trattato di un tentativo di suicidio o di un atto di autolesionismo a seguito delle notizie sulla scomparsa della sua bambina. Il padre di Kata è detenuto per piccoli reati contro il parimonio.

Il padre di Kata, come riportato da FirenzeToday che ha dato per primo la notizia, dopo aver ingerito detersivo, è stato trasportato ieri intorno alle 19, al pronto soccorso dell'ospedale di Torregalli, dove è rimasto fino a questa mattina. Secondo quanto riferisce sempre FirenzeToday, anche in ospedale l'uomo si sarebbe mostrato molto agitato e, piantonato dalla polizia penitenziaria, avrebbe tentato anche in ospedale, durante la notte, il suicidio, provando a strangolarsi con un cavo. Sarebbe già stato nuovamente portato nel penitenziario fiorentino.

Da lanazione.it il 12 giugno 2023.

Accertamenti sono in corso sul racconto fornito da un'amica della mamma della bambina scomparsa da ieri a Firenze: la donna avrebbe riferito di aver ricevuto una telefonata da un uomo che avrebbe parlato in spagnolo e che avrebbe detto di avere lui la piccola. 

Altri accertamenti sarebbe in corso su un video che ritrarrebbe la bambina alla fermata dell'autobus con degli adulti. Un terzo accertamento riguarda un video che ritrarrebbe la piccola a un fast food insieme a due uomini e una donna. Le segnalazioni sulla presenza della bambina sono molte e sta alle forze dell’ordine analizzarle.

(ANSA il 12 giugno 2023) - Proseguono le ricerche a Firenze della bimba di 5 anni scomparsa il 10 giugno da un ex hotel occupato di via Maragliano. Nella notte alle attività delle forze dell'ordine si sono aggiunte quelle dei volontari coordinati dalla protezione civile, che l'hanno cercata in alcune zone della città.

Domenica sera fino a tarda notte hanno manifestato solidarietà alla madre di Kata decine di peruviani, soprattutto donne e bambini venuti da altre parti di Firenze e della cintura metropolitana. 

Sono rimasti in strada, sotto l'ex albergo, in attesa di novità che purtroppo non ci sono state. A un certo punto è arrivata un'ambulanza ma è stata fatta intervenire per dare soccorso a una donna che alloggia dentro l'ex hotel la quale ha accusato un malore. La strada laterale, via Boccherini, è rimasta sempre chiusa ed è stata vigilata dalla polizia municipale.

Il caso della bambina scomparsa a Firenze diventa politico-giudiziario: la Lega annuncia un’interrogazione a Nordio. Angelo Vitolo su L'Identità il 12 Giugno 2023

La scomparsa della piccola Kata a Firenze da sabato scorso nell’ex albergo Astor, occupato dal 2022 da centinaia di cittadini stranieri, si trasforma anche in un caso politico-giudiziario che la Lega intende portare con urgenza in Parlamento all’attenzione del ministro della Giustizia. E la denuncia degli esponenti leghisti fiorentini fornisce alla cronaca anche ulteriori frammenti sulla situazione complessiva vissuta nell’edificio, teatro di episodi assai gravi mai rammentati finora nell’immediatezza della scomparsa della bambina. Oltre a far registrare un mancato intervento di Comune e Uffici giudiziari su quanto la Digos fiorentina aveva da tempo segnalato con una articolata informativa.

“Dal programma elettorale del Sindaco del 2019 iniziano e perdurano le solite promesse da ‘marinaio’ di Nardella, dove parlando di ‘Firenze è sicura’ paragrafo n.10 si leggeva che ‘… Nel caso di occupazioni collettive di immobili la Amministrazione è determinata a intervenire di concerto con le autorità statali preposte in modo tempestivo, riducendo drasticamente la durata delle occupazioni abusive’. In questi anni abbiamo assistito ad una Giunta inerme davanti alle occupazioni abusive, pronta sempre per volontà dell’assessore alla casa Sara Funaro a trovare soluzioni e mediazioni volte alla fine a non modificare sensibilmente lo stato delle cose. Timori per un’eventuale ribellione o escalation di occupazioni del Movimento di lotta per la Casa, vera e propria organizzazione locale volta ad individuare ed occupare in città immobili vuoti e sfitti? Paura di perdere determinate “sacche” di consenso a sinistra? Non lo sapremo mai. Ciò che vediamo però in circa 20 immobili presi abusivamente, dall’hotel Astor all’edificio di Via Ponte di Mezzo (ex occupanti viale Corsica) fino ad arrivare all’annosa e vergognosa vicenda del Cpa di Via Villamagna, nulla viene fatto per sgomberare e cacciare gli occupanti abusivi. Chiunque essi siano. A Firenze è evidente da decenni si vivacchia, si traccheggia. La legge insomma può attendere”. Lo dichiarano, in una nota congiunta, il capogruppo in Palazzo Vecchio e segretario provinciale della Lega, Federico Bussolin, il commissario comunale della Lega, Federico Bonriposi.

“La vicenda di queste ore che tutti seguiamo con grande apprensione è soltanto l’ennesimo episodio di cronaca che riguarda l’ex Astor. Dietro c’è la storia nera di un’occupazione che dura da troppo tempo. È settembre 2022 quando – racconta la stampa – lo stabile abbandonato (l’albergo chiuse i battenti nel 2020) viene invaso da disperati e senza casa: prevalentemente si tratta di peruviani, qualche ecuadoriano e rumeni che coabitano in condizioni precarie e difficilissime. È da mesi che come Lega chiediamo in Consiglio Comunale lo sgombero dell’hotel senza ottenere mai un’azione concreta da parte del Sindaco. Tutto procede con le solite frasi di rito dell’amministrazione, i soliti rimpalli di responsabilità, senza risultati concreti”.

“Come sapevamo bene, e come ci conferma la stampa locale, in situazioni analoghe per eseguire lo sgombero sostanzialmente si agisce in due modi da prassi: in flagranza di reato entro 48 ore dall’occupazione, oppure in virtù di un sequestro preventivo della magistratura, chiesto (tanto che la Digos della questura depositò un’articolata informativa in procura) ma pare mai disposto. Solo con il provvedimento del giudice ci sarebbero tutti i presupposti legali per riunire il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica in prefettura e dare mandato alla forza pubblica di intervenire. Perché il giudice dormiva? Cosa ha fatto il Sindaco Nardella, oltre al “compitino”, per sollecitarne l’azione? Attende la Giunta forse “l’autorizzazione” e la collaborazione, tramite l’ennesimo comunicato delirante, del Movimento di lotta per la Casa? L’ex hotel Astor è stato al centro di diversi episodi di violenza e degrado ricordiamolo: Lo scorso marzo un gruppo di persone ha fatto irruzione nell’edificio per impossessarsi di un alloggio già occupato, scatenando una maxi rissa a colpi di bastoni e bottiglie e anche con la presenza di una scacciacani. A seguito di un’altra lite, recentemente a fine maggio invece una donna era caduta dal secondo piano dell’ex albergo. Una situazione intollerabile da mesi e mesi, che oggi sale tristemente alle cronache cittadine, ma che doveva essere risolta da tempo da una Giunta che sa solo traccheggiare.”

“Per questo, in coerenza con le nostre sollecitazioni a mezzo stampa e per chiarire la situazione davanti alla città presenteremo, con il Senatore della Lega Manfredi Potenti, una apposita interrogazione parlamentare urgente al Ministro della Giustizia Nordio in merito anche al comportamento ed alla gestione della vicenda suddetta da parte della Procura di Firenze. I fiorentini sono stanchi dei falsi annunci, vogliono il rispetto delle regole. Tolleranza zero. Per questo annunciamo per la giornata del prossimo Sabato 17 giugno una mobilitazione di Gazebo Lega nei Quartieri per una raccolta firme “per chiedere lo sgombero di tutti gli immobili occupati” e per dire basta al buonismo della sinistra. Stop illegalità e violenze!”.

(ANSA il 13 giugno 2023) - Accertamenti sono scattati anche in provincia di Bologna sulla sparizione di Kata, la bambina peruviana di 5 anni, scomparsa da sabato 10 giugno a Firenze. Secondo quanto si apprende una segnalazione arrivata alle forze dell'ordine bolognesi ha fatto attivare il piano di ricerche per persona scomparsa da parte della prefettura, che è stato poi chiuso, come avvenuto anche a Firenze, quando è stata avviata l'indagine penale. 

Estratto da lanazione.it il 13 giugno 2023.

Niente. Kata, la bambina di cinque anni sparita sabato dall’hotel Astor occupato, non si trova: le ricerche in città hanno dato esito negativo e ora, fino ad una nuova eventuale indicazione, si sono fermate. 

S’indaga per sequestro di persona a scopo di estorsione, reato di competenza della direzione distrettuale antimafia, ma nessun rapitore si è fatto ancora vivo, tranne una telefonata ("Ho io la bambina", ha detto una voce in spagnolo a uno dei numeri messi sui volantini) che gli stessi inquirenti reputano di un mitomane. Poi il buio.

A rendere il tutto più complicato, e meno chiaro, anche la reazione dei genitori della piccina a queste giornate durissime. Dopo una “dimostrazione“  in carcere del babbo Miguel Angel (ha bevuto detersivo), ieri sera anche la mamma Katherine ha fatto un gesto sconsiderato: ha ingerito della candeggina. Per la seconda volta in due giorni, è arrivato il 118 a soccorrerla. 

E’ stata ricoverata in ospedale, non risulta in pericolo di vita perché la quantità inghiottita era minima (5 ml). Per la donna è stata un’altra lunga giornata. Al mattino, ha fatto appelli, rivolgendosi direttamente a chi avrebbe preso la bambina. Al pomeriggio è stata sentita dai magistrati, i pm Giuseppe Ledda e Christine Von Borries della Dda, titolari del fascicolo. 

[…] Ma tanto, troppo non torna. "Kata avrebbe pianto se fosse stata trascinata via – spiega la madre –. Chi l’ha presa conosceva la bimba", azzarda ancora la donna, 25 anni, da 4 anni in Italia, sposata con un uomo attualmente in carcere per furto ma dal quale si è separata ma in buoni rapporti.

I pm volevano far chiarezza anche sulle sparizioni di un paio occupanti “rivali“: Katherine avrebbe sostenuto di non averli più visti dalla sera prima o dal giorno della scomparsa di Kata. Proprio gli stessi che accusavano il fratello e che ce l’avevano con lei e i suoi familiari. Gli stessi, con grande probabilità, autori di un inquietante post sui social in spagnolo condito di emoticon: "Ricordate che avete una famiglia in Perù". […]

Estratto dell'articolo di Jacopo Storni per corrierefiorentino.corriere.it il 16 giugno 2023.

Detective Walter Piazza, 50 anni di esperienza nell’investigazione privata a livello nazionale ed internazionale. Si presenta così sul suo sito internet. Eccolo, l’investigatore privato assoldato dai familiari di Kata a cinque giorni dalla scomparsa. Arriva nel palazzo dell’ex hotel Astor con una maglietta nera, una giacca nera e gli occhiali da sole. Una telecamera nascosta a forma di penna infilata dentro il colletto della maglietta.

[…] Sguardo serio, qualche parola ai giornalisti: «È necessario che collaborino un po’ di più tutti all’interno dell’ex hotel Astor». Dice di essere un investigatore privato «autorizzato» (cosa che tiene a rimarcare «perché oggi sono tutti investigatori ma la licenza ce l’hanno in pochi»).

Poi aggiunge: «Vogliono fare tutti i mafiosi, ma dei mafiosi non hanno niente», dice in riferimento agli occupanti, per poi proseguire: «Speriamo sia una cosa di minor rilevanza e non sia una pista così pesante, anche perché un’organizzazione legata al racket penso sia più intelligente». 

Lui sembra abbastanza convinto che «il rapimento sia una questione non di grandi criminali, ma di quattro imbecilli a cui la situazione è sfuggita di mano». Poi racconta un episodio avvenuto sempre giovedì: «La mamma di Kata ha ricevuto una telefonata anonima durante la quale ha sentito una bambina che probabilmente stava piangendo. Difficile capire se fosse veramente sua figlia, sicuramente adesso indagheranno gli inquirenti, a cui io non mi voglio sovrapporre ma semmai aiutare».

Secondo l’investigatore, legato anche alla trasmissione «Chi l’ha visto», «dietro a questo caso ci può essere una convenienza. Di che cosa, di che tipo non lo so. E la verità potrebbe essere nella compagnia dei bambini della bimba. Sono molto attenti e magari, attraverso i disegni, sarebbe da valutare anche questo tipo di accertamento. Un bimbo ti può fare un disegno di una scena che può dare delle indicazioni». […]

Estratti da leggo.it il 16 giugno 2023.

[…] I carabinieri sono tornati stamani all'ex hotel Astor a Firenze, il palazzo occupato da dove è scomparsa sabato scorso la piccola Kata, uscendo poco dopo con due donne che sono state fatte salite su auto dell'Arma. Si tratta di una cittadina di origini romene che vive all'interno dell'edificio occupato e di una giovane peruviana, anche lei abitante nel palazzo: entrambe, da quanto spiegano, devono essere sentite in procura dagli inquirenti come persone informate sui fatti.  

Dopo circa un'ora e mezzo è tornata, per prima, la giovane ragazza peruviana. Circa mezz'ora dopo è rientrata nell'edificio anche la donna di origini romena, accompagnata in auto dai carabinieri. Nessuno ha rilasciato dichiarazioni.

Estratto dell’articolo di A. Piccirilli per today.it il 16 giugno 2023.

"Aiutatemi a cercare la mia bambina in qualsiasi modo, chiamandoci, facendoci sapere qualcosa", dando "una speranza. Sono già passati cinque giorni e non so niente, nulla. La polizia, i carabinieri non ci dicono nulla". 

A parlare, a 'Chi l'ha visto?', su Rai 3, è Miguel Angel Romero, il padre di Kata, la bambina di 5 anni scomparsa da Firenze sabato 10 giugno. Proprio ieri l'uomo è uscito dal carcere di Sollicciano dove era rinchiuso da marzo in seguito a una condanna in primo grado per furto e reati contro il patrimonio. Il giudice ha attenuato la misura, applicando l'obbligo di firma.

Della bimba non c'è nessuna traccia. Sembra sparita nel nulla. Le indagini degli inquirenti sembrano aver imboccato una corsia preferenziale, ovvero quella della faida interna all'ex hotel occupato che vedrebbe contrapposte tre fazioni: due di peruviani, di cui una vicina alla famiglia di Kata e una di romeni. 

Una guerra che s'inserirebbe nell'ambito di un racket che prevederebbe il pagamento di un prezzo tra gli 800 e 1.500 euro per un alloggio nella struttura. Inoltre due testimonianze, di cui una proveniente da una bambina, avrebbero indicato agli inquirenti che la piccola sarebbe stata portata via da un adulto, nel pomeriggio di sabato scorso, dal cortile dell'hotel Astor.

Gli investigatori non escludono neppure la presenza di un "covo" vicino all'albergo occupato, dove chi avrebbe rapito Kata potrebbe averla tenuta per alcune ore. Le recenti perquisizioni nella e nei pressi della struttura occupata non avrebbero tuttavia offerto riscontri. Queste le ultime notizie sul fronte delle indagini. 

I genitori sono sicuri che la bimba sia stata rapita. Il papà di Kata ha raccontato di "essere venuto in Italia con la bambina che aveva sei mesi e di aver cercato una stanza a Firenze, a Prato, a Poggio a Caiano, Quarrata. […]

Alla domanda se paga l'affitto, ha risposto: "No, abbiamo pagato solo una volta. Hanno fatto un rapimento, non so, per estorsione? Davvero, non lo so". Quanto a eventuali richieste estorsive ricevute: 

"No. L'ho detto a tutti: faccio tutto il possibile per aiutare i carabinieri", anche perché chi l'ha presa "ha pianificato tutto", visto che sono diverse le vie di fuga, dice l'uomo che però non ha dei sospetti su una persona in particolare.

Secondo Romero dunque il rapimento di Kata sarebbe stato studiato nei minimi dettagli. "Hanno rapito mia figlia, è stato pianificato tutto. Sanno cosa hanno fatto, loro", ha aggiunto, escludendo però che il rapimento sia avvenuto per una sorta di vendetta o una punizione per la sua famiglia.  […]

Sgomberato ex hotel Astor di Firenze per la bambina scomparsa a Firenze. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Giugno 2023

A una settimana esatta dalla sparizione della bambina all’alba le forze dell’ordine a Firenze hanno iniziato a liberare l’immobile ex albergo occupato abusivamente . Secondo la procura c'è pericolo che l'occupazione "agevoli o protragga" le conseguenze del reato.

L’ex hotel Astor di via Maragliano a Firenze, occupato da decine di famiglie dove vive anche Kataleya, la bambina peruviana di 5 anni scomparsa dal primo pomeriggio di sabato scorso, e sgomberato questa mattina, è oggetto di un decreto di sequestro preventivo, emesso dal giudice delle indagini preliminari di Firenze, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia. Da tempo il Comune aveva chiesto alla Prefettura lo sgombero dello stabile, ma mancava il decreto di sequestro che doveva essere chiesto dalla procura. 

Dopo la scomparsa di Kataleya la procedura ha avuto un’accelerazione e stamani è arrivato allo sgombero. Nello stabile vivono circa un centinaio di persone, molti i bambini. Diversi nuclei familiari provengono da altre occupazioni, gestite dal Movimento di lotta per la casa, finite con sgomberi, la bambina peruviana di 5 anni scomparsa dal primo pomeriggio di sabato scorso. La struttura era stata occupata abusivamente, tra il 19 settembre 2022 e il giugno 2023, da 54 persone, suddivise in 17 nuclei familiari, di cui 19 minori.

Sul posto numerose le forze dell’ordine tra Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza e Polizia Locale. Il tratto della strada dove si affaccia l’ex hotel e la strada laterale, via Boccherini sono state interdette al traffico. Lo stabile dell’ ex-hotel era stato occupato nel settembre scorso, venendo abitato per lo più da famiglie di origine peruviana e romena. 

Isopralluoghi compiuti dalla polizia giudiziaria, in occasione del tentato omicidio del 28 maggio 2023 e, successivamente, dell’ipotizzato sequestro di persona a scopo di estorsione di Mia Kataleya Chiclio Alvarez del 10 giugno 2023, hanno confermato – si legge in una nota della procura di Firenze – la presenza nell’immobile di numerosi nuclei familiari. Si è ipotizzato il delitto di invasione di edifici. Sussiste il pericolo che il protrarsi della condotta criminosa, impedendo i necessari e urgenti lavori di ristrutturazione e messa a norma dell’edificio occupato, agevoli o protragga le conseguenze del reato contestato o agevoli la commissione di altri reati e comporti il rischio di ripetizione di reati contro la persona connessi alle condizioni di accesso alla gestione dell’immobile“.

Su delega della Dda, l’esecuzione è stata curata dalla Questura e dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Firenze, con la collaborazione degli assistenti sociali, dei vigili del fuoco e del personale del 118. La Prefettura e il Comune di Firenze si sono attivati per assicurare che gli occupanti vengano alloggiati presso altre strutture abitative.

Il Movimento però aveva abbandonato da qualche tempo, l’occupazione dell’ex Astor, dopo l’innalzamento della tensione fra gruppi che si fronteggiavano per il controllo delle stanze (per farsi pagare). Kataleya abitava nell’ex albergo di via Maragliano da alcuni mesi con la sua famiglia. Il padre ha raccontato di “avere comprato” la stanza. 

Da tempo il Comune aveva chiesto alla Prefettura lo sgombero dello stabile, ma mancava il decreto di sequestro che doveva essere chiesto dalla procura. Dopo la scomparsa di Kataleya la procedura ha avuto un’accelerazione e stamani siamo arrivati allo sgombero. Nello stabile vivevano circa un centinaio di persone, molti i bambini. Diversi nuclei familiari provengono da altre occupazioni, gestite dal Movimento di lotta per la casa, finite con sgomberi

Oltre al questore Maurizio Ariemma e all’assessore Sara Funaro del Comune di Firenze sul posto è comparsa anche Kathrina, la madre della bimba scomparsa. Probabilmente la donna sta raccogliendo i suoi effetti personali prima di lasciare il palazzo. Anche lo zio di Kata arriva con la moglie per lo stesso motivo. All’interno dello stabile occupato, è entrato anche il comandante provinciale dei Carabinieri di Firenze, colonnello Gabriele Vitagliano.

Nel frattempo con mezzi e risorse straordinarie proseguono le indagini e le ricerche della piccola bambina peruviana, scomparsa in modo apparentemente inspiegabile: gli impianti di videosorveglianza l’hanno infatti ripresa mentre entra nell’edificio, alle 15.01 di sabato, senza più uscirne. Lo sgombero di questa mattina potrebbe dunque servire per ulteriori verifiche tra gli spazi labirintici del palazzo. Procura e carabinieri continuano infatti a concentrarsi sul centro occupato e anche sull’edificio adiacente, dove secondo almeno una testimonianza – quella di una bambina, che ha riferito di aver visto uno sconosciuto trascinare via Kata in lacrime – sarebbe stata portata la piccola. Ieri i carabinieri del Ros hanno ispezionato proprio un garage del palazzo accanto, per cercare il nascondiglio in cui potrebbe essere stata trattenuta almeno per qualche ora. I Carabinieri, guidati dai pm Christine Von Borries e Giuseppe Ledda, lavorano su molteplici direzioni ed ipotesi investigative . Al momento quella “ufficiale“, che ha indotto all’apertura di un fascicolo per “sequestro di persona a scopo di estorsione“, sarebbe di una ritorsione contro i familiari della bambina, alcuni dei quali coinvolti nei frequenti scontri tra clan (per il monopolio del racket delle stanze) che da tempo inquinavano la vita del palazzo.

Sono previsti intanto nuovi sopralluoghi nell’ex Hotel Astor per reperire nuove tracce che possano ricondurre a Kata. Interverranno anche i Gis, il Gruppo di intervento speciale, le teste di cuoio dei Carabinieri con reparti ad alta tecnologia per passare ai raggi x la struttura e verificare intercapedini e vuoti dove potrebbe essere stata nascosta la bambina. Il nuovo sopralluogo sarà agevolato dall’assenza di persone, tutte sgomberate in giornata.

Secondo quanto si apprende il dato definitivo che risulta alla questura di Firenze e che è stato comunicato al Viminale è di 132 persone sgomberate dall’hotel Astor. Tra loro risultano 42 minori. Gli occupanti dell’ex hotel sono stati valutati dai servizi sociali del Comune di Firenze che erano presenti e sono stati accolti in quattro strutture con la collaborazione della Fondazione solidarietà Caritas e della cooperativa Girasole.

Redazione CdG 1947

Maxi ispezione dei Carabinieri nell’ ex hotel Astor a Firenze: nessuna traccia della bimba scomparsa.

Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Giugno 2023. 

I carabinieri del Ros, del Ris e del Gis sequestrano reperti, trovato cellulare in un cassonetto

E’stato ispezionato oggi da cima a fondo per sette ore, dalle 9 alle 16, con un vasto dispiegamento di uomini e mezzi, i carabinieri del Ros, del Sis e la squadra “Silent team” dei Gis , l’ex hotel Astor in via Maragliano nella zona nord di Firenze ma non è stata rinvenuta alcuna traccia della giovane bambina peruviana Mia Kataleya Chiclio Alvarez . La maxi perquisizione della struttura è stata possibile in quanto ieri è stata completamente sgomberata dai 132 occupanti abusivi erano, di cui 42 erano bambini.

Al sopralluogo all’interno dello stabile sgomberato di via Maragliano hanno partecipato anche due tecnici del Gis (Gruppo d’Intervento Speciale), esperti nell’uso di apparati tecnici ad alta tecnologia. 

Un telefono cellulare è stato trovato in un cassonetto di rifiuti all’esterno dell’ex hotel Astor a Firenze, dove è scomparsa la piccola Kata lo scorso 10 giugno. Il telefono è stato individuato questa mattina durante lo svuotamento dei cassonetti ed è stato acquisito dagli investigatori che hanno svolto un nuovo sopralluogo nell’ex albergo occupato.

I carabinieri hanno individuato la telecamera di un privato cittadino che inquadrava completamente l’ingresso di un’area adiacente al cortile dell’ex hotel Astor a Firenze, dove viveva Kataleya prima di scomparire. Secondo gli inquirenti se qualcuno si fosse allontanato da quell’area, scavalcando il muro di cinta del cortile dello stabile che era occupato, la telecamera avrebbe dovuto inquadrarlo e riprenderlo.

Nel pomeriggio odierna è stata trovata anche una botola che si trova nel cortile dove la bambina spesso giocava, che conduce alle fondamenta dello stabile con un dedalo di corridoi angusti. Passaggi che sono stati inspezionati, ma anche qui nessuna traccia della bambina. Al momento è’ stato controllato sinora il 50% della struttura. Le ricerche si sono interrotte e riprenderanno domattina lunedì 19 giugno . 

Il generale in congedo Garofano nominato consulente

Il generale in congedo Luciano Garofano, ex comandante del Ris di Parma, che è stato nominato consulente dagli avvocati Sharon Matteoni e Filippo Zanasi, legali dei genitori della piccola Kata, Katherine Alvarez Vasojes e Miguel Angel Chicllo Romero. Le dichiarazioni di Garofano: “Presto un sopralluogo, se autorizzato, il tempo trascorso va nella direzione di esiti gravi“. “Per adesso posso parlare solo in base all’esperienza e a quello che ho visto – aggiunge l’ex-alto ufficiale -. Il rischio che la bimba possa essere stata nascosta lì dentro c’è, e le operazioni di oggi con i carabinieri del Gis e del Ros andavano fatte perché non si può lasciare niente di intentato. Certo il tempo trascorso va purtroppo nella direzione di esiti gravi della vicenda ma resta aperta l’ipotesi che il sequestro sia maturato nell’ambito di una guerra per il controllo delle stanze tra fazioni e, in questo caso, la bambina, viva ma segregata, servirebbe al ricatto”.

Quanto a possibili rilievi di tracce biologiche secondo il generale “in quella promiscuità, con oltre cento persone all’interno, è come cercare un ago in un pagliaio”. Secondo Garofano il fatto che siano subito entrati in azioni i reparti specializzati dell’Arma e il Raggruppamento operativo speciale in particolare, è una “garanzia” per le indagini. “Si sono mossi subito e bene, e non lo dico sempre”. Redazione CdG 1947

Quello che sappiamo sulla sparizione della piccola Kata. Linda Di Benedetto su Panorama il 19 Giugno 2023.

 Dal 10 giugno non si trova, investigatori e forze dell'ordine stanno facendo di tutto per ricostruire le ultime ore della bambina la cui sparizione potrebbe nascondere una vicenda dai contorni molto ampi

Dal 10 giugno scorso Kata non si trova più. Della piccola di 5 anni si sono perse le tracce a Firenze e nonostante indagini, testimonianze ed ispezioni della bambina non c’è traccia. Kataleya Mia Chicllo Alvarez sarebbe stata vista per l’ultima volta intorno alle 15 del 10 giugno nel cortile dell’hotel ex Astor occupato da diverse famiglie di via Maragliano 100, nel quartiere di Novoli. La sua scomparsa è stata denunciata ai carabinieri di Santa Maria Novella, dalla madre Katherine Alvarez al 20.30 dello stesso giorno. Dopo la notizia della scomparsa sono stati impegnati nelle ricerche della piccola peruviana 225 volontari suddivisi in 94 squadre, coordinati dalla Protezione civile. Sono state perlustrate strade, giardini e argini del fiume tra l’ex stazione Leopolda e Peretola, comprese le Cascine, l’Indiano e le strade intorno all’aeroporto. I sommozzatori dei vigili del fuoco hanno perlustrato l’Arno e il Mugnone ma della piccola nessuna traccia. La struttura dell’ex Astor che sembra aver inghiottito Kata è stata ispezionata prima controllando le stanze degli occupanti e poi si è proceduto con lo sgombero dell'immobile. Una stabile che all’interno ospitava circa cinquanta occupanti di diverse etnie, diciassette famiglie e 19 minori e di cui oggi si è preso carico il Comune di Firenze. Nonostante le ricerche siano proseguite anche nel weekend ed oggi al momento non sarebbero emersi particolari rilevanti.

Gli specialisti dell'Arma secondo quanto riportato dalle agenzie, hanno trovato un'intercapedine con accesso dal giardino e attraverso delle ispezioni effettuate con apparecchiature tecnologiche specifiche quali sonde, telecamere e droni è stato verificato il contenuto di vani angusti, intercapedini, controsoffitti, cunicoli, tubazioni, pozzetti e di un sottotetto, anche normalmente non accessibili. Inoltre in un cassonetto è stato rivenuto un cellulare "che sarà oggetto di successivi approfondimenti investigativi" hanno dichiarato gli inquirenti. All'ispezione hanno partecipato due tecnici inviati dal Gis (Gruppo d'intervento speciale) dei carabinieri insieme al personale Sis della scientifica. I carabinieri hanno acquisito anche le immagini di un’ulteriore telecamera privata che inquadra il cortile sul retro dell'hotel Astor dove potrebbe essere stata portata Kata, per poi essere fatta uscire dalla struttura. L'ipotesi di una seconda via di fuga è presa in considerazione dagli inquirenti in quanto non ci sono immagini che inquadrano la bambina in uscita, dopo il suo rientro dentro l'albergo alle 15.01 di quel giorno. Il padre di Kata, Miguel Angel Romero Chicclo, si è presentato spontaneamente in procura per parlare con il pm Christine Von Borries, accompagnato dai suoi legali, Filippo Zanasi e Sharon Matteoni, che hanno atteso fuori. I due legali dei genitori di Kata, hanno ingaggiato come consulente il generale dei carabinieri in congedo Luciano Garofano, già comandante del Ris di Parma. Le piste Sono diverse le piste seguite dagli investigatori che per il momento non escludono nulla. Tra queste il racket delle stanze cedute dietro pagamento è quella privilegiata dagli inquirenti che con i magistrati della Dda e anche il Ros dei carabinieri, indagano per sequestro di persona a scopo di estorsione. Ma è solo una delle ipotesi su cui stanno lavorando giorno e notte gli investigatori. Ci sarebbero anche due testimoni che parlano di un adulto che avrebbe portato via la bambina contro la sua volontà. Ma anche questa per il momento resta solo un'altra ipotesi. Sono stati poi sentiti tutti gli occupanti , per approfondire anche la guerra fra bande che si consuma nello stabile. Dissidi che secondo i genitori della bambina, sentiti anche loro dai magistrati, sarebbero il movente di un presunto rapimento. Le ombre sul caso La piccola non appare mai nelle telecamere quindi sembra non essere mai uscita dalla struttura da qui l'ipotesi che chi l'ha rapita sia passato dal retro, scavalcando un muro che dà sul cortile. L’altra ipotesi che non lascia presagire niente di buono e che Kata dall’Astor non sia mai uscita e le continue ricerche  senza sosta sembra che stiano cercando di stabilire proprio questo. Anche se Luciano Garofano all’Adnkronos in veste di consulente dei genitori di Kata ha dichiarato: «La bimba è scomparsa da un posto che, come abbiamo visto dalle immagini, era un ‘porto di mare’ e il fatto che anche la ricerca effettuata oggi nei posti più reconditi di quello stabile non abbia dato esito ci fa considerare che è stata portata via».

Quello di cui i pm fiorentini hanno scelto di non occuparsi...La scomparsa di Kata e le responsabilità della procura di Firenze: tutti sapevano ma nessuno ha fatto nulla. Matteo Renzi su Il Riformista il 20 Giugno 2023 

Sono trascorsi quasi dieci giorni da quando nella città del Rinascimento una bambina di cinque anni è sparita nel nulla. Ovviamente la priorità è ritrovare la piccola Kata sana e salva ed è a questo che devono puntare gli sforzi di tutti gli addetti ai lavori. Rimane tuttavia un dubbio atroce: se le Istituzioni avessero fatto la loro parte, oggi ci troveremmo in questa condizione? La risposta è semplice: no.

C’è una responsabilità grossa come una casa in questa vicenda. Ed è la responsabilità della Procura di Firenze. Gli uomini e le donne guidate da Luca Turco hanno scelto di non procedere al sequestro dell’Ex Astor, l’immobile teatro del terribile fatto di cui stiamo parlando. Il Comune di Firenze aveva richiesto lo sgombero ormai nove mesi fa. Le forze dell’ordine anche. Perché la Procura ha scelto di negare l’intervento, salvo poi ordinare lo sgombero una settimana dopo la scomparsa di Kata e un mese dopo che un cittadino ospite di questa struttura abusiva era fisicamente volato da una finestra del terzo piano, salvando la vita per miracolo?

L’Ex Astor è in mano a un paio di gruppi criminali che gestiscono il racket delle stanze abusive. Il meccanismo è semplice: si forza la proprietà privata, si entra nell’ex Hotel e si inizia a dirigere il traffico facendo entrare famiglie di disperati costretti a pagare centinaia di euro in nero per un buco senza bagno dove dormire con i bambini. Così hanno fatto i gestori del racket dell’ex Astor, peruviani e rumeni in maggioranza.

Tutti a Firenze sapevano: i servizi sociali, la Prefettura, le autorità civili. Ma nessuno ha fatto nulla in attesa del decreto di sequestro della procura. Che ancora oggi pare interessata a interrogare Urbano Cairo per sapere le ragioni dello stop a Giletti, indagine su cui il facente funzione di procuratore capo continua a passare molto tempo. Quello di cui i PM fiorentini hanno scelto di non occuparsi invece è la vita reale di una cinquantina di famiglie di disperati sottoposti alle angherie di un manipolo di criminali.

Da sindaco ho richiesto molti sgomberi. E li abbiamo fatti sempre con umanità, dando a tutti un letto e togliendo dall’abusivismo e dall’illegalità intere generazioni. Oggi sono costretto a prendere atto che nella mia città – la citta dell’Istituto degli Innocenti, dell’accoglienza ai più piccoli – una bambina di cinque anni sparisce perché costretta a vivere in una condizione di illegalità diffusa. La responsabilità istituzionale e morale del non aver sgomberato l’immobile è della Procura di Firenze. Mi dicono: ah ma tu ce l’hai con loro perché si sono concentrati su Open. No. Io non ce l’ho con Turco perché si occupa di Open. Ce l’ho con quei Pm che non si preoccupano di garantire sicurezza e legalità nella mia città. Non sono indignato per quello che hanno fatto a me questi signori: sono indignato per quello che dovevano fare e non hanno fatto all’Hotel Astor.

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista 

Erano troppo occupati su altre indagini. Il dramma di Kata e le colpe dei pm fiorentini: la legalità nell’ex Hotel Astor solo dopo la scomparsa della bimba. Daniele Bertini su Il Riformista il 20 Giugno 2023 

È ancora densa la nebbia che avvolge, ormai da più di due settimane, la sorte della piccola Kata, la bambina peruviana scomparsa a Firenze mentre stava giocando nello stabile occupato in cui abitava. E intanto ci si chiede: si sarebbe potuta evitare la tragedia? La Procura di Firenze ha sottovalutato i rischi legati all’occupazione abusiva, chiedendo il sequestro dell’immobile e quindi permettendone lo sgombero solo dopo la scomparsa di Kata?

Molti i dubbi intorno alla vicenda, con gli inquirenti che vagliano tutte le ipotesi, tra cui, la più accreditata, quella del sequestro di persona. Si parla di una resa dei conti tra i clan che si spartivano il racket degli affitti dell’edificio occupato, l’ex Hotel Astor, in cui erano arrivate ad abitare più di cento persone e che soltanto sabato scorso, appunto una settimana dopo la tragica scomparsa, è stato sgomberato. Proprio l’occupazione dell’ex hotel sembra essere, a dire il vero, l’unica certezza in questa oscura vicenda.

Il degrado e l’illegalità, fin dall’inizio dell’occupazione, il 19 settembre del 2022, sono le protagoniste negative della tragedia in corso in questi giorni. Anzi, la scomparsa della piccola Kata pare essere soltanto l’ultimo atto di un’escalation di violenze verificatesi nello stabile. A fine maggio un occupante era volato da una finestra del terzo piano, in quello che la stessa Procura ritiene essere stato un tentato omicidio, e prima ancora, a marzo, una maxi rissa per il controllo degli affitti aveva coinvolto quattro cittadini peruviani, di cui uno tratto in arresto per violazione degli arresti domiciliari. Eppure, nonostante una situazione così esplosiva, mai era scattato lo sgombero dell’edificio, eseguito dalle forze dell’ordine sabato, su delega della Dda, dopo che il gip di Firenze aveva emesso il decreto di sequestro preventivo sull’immobile.

In molti in città, accanto all’inquietudine per le sorti della bambina, si domandano il perché di questo ritardo nello sgombero. Tra accuse di negligenza al Comune e rimpalli di responsabilità verso la Questura, per comprendere meglio la vicenda occorre riavvolgere il nastro e tornare al settembre 2022. Il 21 settembre, solo due giorni dopo l’ingresso degli occupanti nell’ex hotel, l’occupazione è all’ordine del giorno sul tavolo del Cosp (Comitato Provinciale Ordine e Sicurezza pubblica). Tutti i soggetti coinvolti a quel tavolo, Prefetto, Questore e Sindaco, sono concordi sulla necessità immediata dello sgombero e sull’importanza di individuare soluzioni abitative temporanee per gli occupanti. Emerge un solo ostacolo allo sgombero, ossia la mancanza del decreto di sequestro dell’immobile, ancora non disposto dall’Autorità giudiziaria.

Un atto, quello della richiesta di sequestro preventivo da parte della Procura, che presuppone la commissione di un reato (quasi una prassi nei casi di invasione di edifici) e che rappresenta il presupposto necessario affinché le forze di Polizia procedano allo sgombero e ristabiliscano la legalità. Un atto che nel caso dell’ex hotel Astor è stato richiesto dalla Dda solamente a seguito della scomparsa della piccola Kata. “I sopralluoghi compiuti dalla polizia giudiziaria, in occasione del tentato omicidio del 28 maggio 2023 e, successivamente, dell’ipotizzato sequestro di persona a scopo di estorsione di Mia Kataleya Chiclio Alvarez del 10 giugno 2023, hanno confermato – si legge in una nota della procura di Firenze – la presenza nell’immobile di numerosi nuclei familiari. Si è ipotizzato il delitto di invasione di edifici. Sussiste il pericolo che il protrarsi della condotta criminosa, impedendo i necessari e urgenti lavori di ristrutturazione e messa a norma dell’edificio occupato, agevoli o protragga le conseguenze del reato contestato o agevoli la commissione di altri reati e comporti il rischio di ripetizione di reati contro la persona connessi alle condizioni di accesso alla gestione dell’immobile”.

I dubbi, dunque, restano: perché la Procura accerta la presenza di occupanti, e dunque richiede il sequestro dell’immobile per invasione di edifici, solo a seguito dei sopralluoghi della polizia giudiziaria nel caso del tentato omicidio del 28 maggio e del rapimento della piccola Kata, e non a seguito della denuncia del proprietario dell’hotel (del 20 settembre) e delle informative della digos? I pericoli denunciati nella richiesta di sequestro preventivo erano già presenti dall’inizio dell’occupazione. Perché, insomma, di fronte a un’occupazione abusiva che si protraeva da tempo, e che è inverosimile che fosse sconosciuta agli uffici della Procura, viste le numerose richieste di intervento di altri soggetti istituzionali (Questura e Comune in primis), si è atteso fino all’ennesimo episodio di illegalità per intervenire?

Eppure, come emerge dalla stessa richiesta di sequestro avanzata dalla Procura, il protrarsi dell’occupazione rappresentava già di per sé un pericolo per la commissione di altri reati. Adesso c’è una sola priorità: ritrovare la piccola Kata. Un secondo dopo si dovranno chiarire molte cose. Qualcuno dovrà rispondere alle molte domande che rimbalzano in città in questi giorni, che chiamano in causa le responsabilità indirette di quella che, ogni giorno di più, sembra assumere i contorni della nefasta conseguenza di una situazione di illegalità diffusa. Ma che, proprio per questo, poteva e doveva essere evitata. E qualcuno, si spera, dovrà assumersi la responsabilità di questa storia drammatica. Daniele Bertini

Estratto da leggo.it il 24 giugno 2023.

Continuano le indagini e le ricerche di Kata, la bambina peruviana di 5 anni di Firenze di cui non si sa più nulla dal 10 giugno scorso, da 12 giorni. Sono al vaglio degli investigatori quasi 1.500 telecamere puntate sulle strade di Firenze e non solo quelle nelle vicinanze di via Maragliano e via Boccherini, le due strade su cui si affaccia l'ex hotel Astor, dove viveva la piccola scomparsa.  E arrivano anche nuove testimonianze sulla drammatica vicenda. A “Mattino Cinque News” una donna che vive nella zona dell’ex hotel Astor e che dice di conoscere molto bene le vie di fuga dall’albero ha detto di aver sentito una bambina piangere in quel pomeriggio dello scorso 10 giugno.

«La bambina l’ho sentita piangere e poi ha urlato: “mamma, mamma, mamma’”, ha dichiarato la donna al programma di Canale5. Poi la stessa donna ha aggiunto: «È vero che in quell’hotel Astor ci sono molti bambini. Ma non era un grido come gli altri: mi si è spezzato il cuore quando ho sentito quelle urla». 

Kathrina Alvarez, madre di Mia Kataleya Chiclio Alvarez, la bimba peruviana di 5 anni scomparsa da 13 giorni mentre stava giocando nel cortile dell'ex hotel Astor di Firenze, dove viveva con la famiglia, ha telefonato all'Arma dei carabinieri per chiedere aiuto la prima volta alle ore 18.41 di sabato 10 giugno, lo stesso giorno in cui la piccola è svanita nel nulla.  […]

Dalle indagini è risultato anche più lungo il lasso di tempo in cui sarebbe avvenuto il rapimento: in tutto si parla di circa 1 ora e 45 minuti. Si tratta del periodo che passa dall'ultima volta che Kata viene vista a quando scatta l'allarme per la scomparsa. Alle 15.01 di sabato 10 giugno una telecamera esterna ha ripreso Kata davanti a uno degli ingressi dell'ex hotel in via Boccherini e tra le 15.12 e le 15.13 viene nuovamente inquadrata mentre sale le scale e poi le riscende per andare nel cortile. In quel momento la mamma sta tornando dal centro di Firenze, dopo il turno di lavoro e arriva nell'ex albergo alle 15.45.

Ma, secondo quando avrebbe riferito ai magistrati, non vede subito la figlia che pensa stia giocando con il fratellino maggiore, 8 anni. La donna va in camera e solo dopo circa un'ora avrebbe iniziato a cercare Kata, quindi poco prima delle 17, e non trovandola in cortile inizia ad allarmarsi e a chiedere aiuto. Poi alle 18.41 telefona ai carabinieri.

L'urlo di una bambina, o di un bambino, immediatamente seguito dallo sbattere di uno sportello di un'auto. Lo ha registrato la telecamera di video-sorveglianza di una pizzeria, a poca distanza dall'ex Hotel Astor di Firenze». Lo racconta un servizio in onda questa sera durante la trasmissione «Quarto Grado - Le Storie» su, in merito all'inchiesta sulla scomparsa di Kata, la bambina di 5 anni scomparsa dal cortile dell'ex Hotel Astor, a Firenze, lo scorso 10 giugno. Il video, spiega la trasmissione, è stato recuperato e analizzato dal giornalista Giorgio Sturlese Tosi, «il quale ha anche verificato che l'orario indicato dal sistema di registrazione fosse sincronizzato con l'ora reale.

Alle 17:20 di sabato 10 giugno, la telecamera del locale sito all'incrocio tra via Monteverdi e via Veracini, a tre minuti a piedi dall'ex Hotel Astor, registra un grido che squarcia il silenzio del quartiere. Sono trascorse due ore e sette minuti, da quando la piccola Kata è stata ripresa, alle 15.13, ancora all'interno dello stabile occupato. […]

Svolta sul sequestro Kata: tre sospetti e un furgone. Uno degli indiziati è un parente. Una telecamera ha ripreso un uomo che carica qualcosa a bordo. Marco Gemelli il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.

Potrebbe esserci un'accelerazione importante nelle indagini per la sparizione della piccola Kataleya, la bambina peruviana scomparsa da Firenze ormai quasi tre settimane fa. Ieri mattina, su mandato del procuratore aggiunto Luca Tescaroli e della pm Christine Von Borries, sono scattate nuove perquisizioni per cercare sue tracce anche nei garage del palazzo adiacente l'ex hotel Astor, dove viveva con la madre e il fratellino.

Gli inquirenti, che nei giorni scorsi avevano fatto prelevare il Dna a tutti gli occupanti della struttura da cui il 10 giugno era svanita la bambina, starebbero cercando tracce di tre persone, tra cui un parente della bambina che però al momento non risulta indagato. In particolare, gli investigatori si starebbero concentrando sui locali di una ditta accanto al cortile dell'ex Astor, che risulterebbe gestita da due fratelli italiani (perquisiti come terzi non indagati), dove la piccola Kataleya potrebbe essere stata nascosta per alcune ore. Sempre ieri, i genitori della bambina sono tornati spontaneamente in procura per parlare con il magistrato. Alla base delle nuove perquisizioni c'è l'analisi delle telecamere della zona, che ha permesso di individuare alcuni video potenzialmente illuminanti, registrati tra le 15,29 e le 16,46 (dunque poco dopo l'ultima immagine di Kata, alle 15,13 nelle scale del cortile) da un apparecchio di sorveglianza della ditta, che si attiva grazie a un sensore di movimento. Nel dettaglio, come ricostruito da Repubblica, si udirebbe un rumore sordo come di un oggetto che cade dall'alto, poi - sette minuti più tardi - il suono dell'apertura di un cancello e il rumore di un motorino che entra e parcheggia accanto a un furgone bianco. Poi le immagini di un uomo che apre il portellone posteriore, carica qualcosa all'interno e poi lo richiude prima di uscire dal cancello in retromarcia. L'uomo a bordo del furgone sarebbe poi rientrato alle 16,44: la telecamera l'ha ripreso mentre scende, getta un fazzoletto in un sacco nero, apre la porta di metallo davanti a sé e la richiude dopo pochi secondi, per poi tornare in sella al motorino e ripartire.

Una serie di particolari che hanno spinto gli inquirenti a passare al setaccio anche le auto dei due fratelli per verificare se si tratti di una pista concreta. Il riserbo al momento è massimo: i filmati delle venti telecamere che coprono il quadrilatero dell'albergo sono stati studiati più volte negli ultimi giorni. Occhi puntati sui cancelli di via Boccherini, dove si concentrava il via vai degli occupanti, sull'ingresso principale di via Maragliano e sul cancello raggiungibile solo dopo un percorso particolarmente tortuoso- di via Monteverdi. Il lavoro sui filmati ha permesso di ricavare una precisa cronologia degli ingressi nelle ore precedenti la scomparsa e nelle ore successive: tutte le persone inquadrate in quella forbice di tempo sono state identificate.

Estratto dell’articolo di Marco Gemelli per “il Giornale” il 30 giugno 2023.

Potrebbe esserci un’accelerazione importante nelle indagini per la sparizione della piccola Kataleya, la bambina peruviana scomparsa da Firenze ormai quasi tre settimane fa. Ieri mattina, su mandato del procuratore aggiunto Luca Tescaroli e della pm Christine Von Borries, sono scattate nuove perquisizioni per cercare sue tracce anche nei garage del palazzo adiacente l’ex hotel Astor, dove viveva con la madre e il fratellino.

Gli inquirenti, che nei giorni scorsi avevano fatto prelevare il Dna a tutti gli occupanti della struttura da cui il 10 giugno era svanita la bambina, starebbero cercando tracce di tre persone, tra cui un parente della bambina che però al momento, non risulta indagato. In particolare, gli investigatori si starebbero concentrando sui locali di una ditta accanto al cortile dell’ex Astor, che risulterebbe gestita da due fratelli italiani (perquisiti come terzi non indagati), dove la piccola Kataleya potrebbe essere stata nascosta per alcune ore.

Sempre ieri, i genitori della bambina sono tornati spontaneamente in procura per parlare con il magistrato. Alla base delle nuove perquisizioni c’è l’analisi delle telecamere della zona, che ha permesso di individuare alcuni video potenzialmente illuminanti, registrati tra le 15,29 e le 16,46 (dunque poco dopo l’ultima immagine di Kata, alle 15,13 nelle scale del cortile) da un apparecchio di sorveglianza della ditta, che si attiva grazie a un sensore di movimento.

Nel dettaglio, come ricostruito da Repubblica, si udirebbe un rumore sordo come di un oggetto che cade dall’alto, poi - sette minuti più tardi - il suono dell’apertura di un cancello e il rumore di un motorino che entra e parcheggia accanto a un furgone bianco. Poi le immagini di un uomo che apre il portellone posteriore, carica qualcosa all’interno e poi lo richiude prima di uscire dal cancello in retromarcia.

L’uomo a bordo del furgone sarebbe poi rientrato alle 16,44: la telecamera l’ha ripreso mentre scende, getta un fazzoletto in un sacco nero, apre la porta di metallo davanti a sé e la richiude dopo pochi secondi, per poi tornare in sella al motorino e ripartire. […]

Kata, si riapre tutto: "Ho ricevuto una telefonata", la rivelazione del padre. Libero Quotidiano il 02 luglio 2023

Non ci sono tracce di Kata. La bambina di origine peruviana ormai manca da casa da parecchie settimane e le indagini svolte anche all'ex hotel Astor di Firenze non hanno avuto riscontri. A quasi un mese dall'ultima volta che la bambina è stata vista, immortalata anche dalle telecamere della zona, il padre è tornato dagli investigatori per aggiungere qualche particolare decisivo che rende ancora più misteriosa la vicenda.

Nell'ultimo colloquio con gli inquirenti, il padre avrebbe parlato di una telefonata ricevuta dal Perù, "in cui una voce sconosciuta gli avrebbe detto che la bambina è stata rapita per errore", riporta Repubblica. E così sono stati immediatamente avviati alcuni accertamenti per capire l'attendibilità di questo racconto e soprattutto per definire se quella peruviana possa essere una pista da seguire. Tra le ipotesi c'è anche quella di un possibile mitomane in grado di depistare le indagini. Ma di fatto al momento gli inquirenti non se la sentono di escludere alcuna ipotesi. In queste lunghe settimane i controlli all'hotel Astor non hanno prodotto i frutti sperati. Ma a questo punto la pista di un rapimento si fa sempre più concreta. Bisognerà attendere ancora qualche giorno per capire cosa possa esserci dietro la telefonata ricevuta dal papà di Kata. Ogni scenario è possibile. 

Firenze, scomparsa Kata: a più di un mese spunta un nuovo video della bimba all’hotel Astor. Sparirà pochi istanti dopo. Le indagini: “Non è in città” forse fuori dall’Italia. Redazione su L'Unità il 14 Luglio 2023 

Kata sale e scende da una rampa di scale che affaccia sull’esterno, prima di rientrare dentro la struttura dell’ex hotel Astor di Firenze. Un nuovo video, diffuso dai carabinieri, mostra le ultime immagini della bambina di 5 anni scomparsa un mese fa. Finora l’ultima traccia della piccola era il suo rientro nel complesso Astor nel pomeriggio del 10 giugno, dopo aver salutato gli amichetti rimasti a giocare in strada. L’ultimo filmato pubblicato è ripreso da un’altra angolazione e risalirebbe sempre al 10 giugno, ma catturerebbe momenti successivi a quelli già noti.

Il nuovo filmato pochi istanti prima della sparizione

Finora l’ultima traccia di Kata, scomparsa a 5 anni da Firenze il 10 giugno, era il suo rientro alle 15.01 nel complesso dell’ex hotel Astor, lo stabile occupato doveva viveva con la famiglia. Nel nuovo video già agli atti, si vede Kata, per pochi secondi, salire e scendere una rampa di scale, quelle esterne dell’ex hotel visibili sopra i muri di recinzione della struttura. La bambina si ferma a metà, infine riscende e scompare all’interno dello stabile occupato. Anche in queste nuove inquadrature la bimba è sola.

Il rapimento della piccola sarebbe una vendetta del racket delle camere abusive. Secondo la tesi investigativa, la famiglia di Kata si sarebbe ribellata a certe dinamiche di gestione dell’ex hotel Astor, la struttura occupata nella quale vivevano insieme ad altre centotrenta persone. Secondo quanto riportato da Il Tempo “Nessuno vuol neppure sentire parlare di Kata al passato. Noi siamo convinti sia viva e lavoriamo per ritrovarla. A Firenze non c’è. Ormai questa è una convinzione molto diffusa. Se la bimba non è a Firenze ed è ancora viva ci sono buone possibilità sia in una città straniera, magari nel racket dell’accattonaggio o in qualche mega struttura occupata, in Italia”.

Estratto dell'articolo di Grazia Longo per lastampa.it sabato 5 agosto 2023.

Che lo zio materno di Kata fosse nel mirino della polizia per il racket delle stanze dell’ex hotel Astor era cosa nota sin dai primi giorni del rapimento della bambina. E la vicenda ha da subito gettato una luce inquietante sulla scomparsa di Kata, perché secondo la procura di Firenze all’origine del sequestro ci potrebbe proprio essere una vendetta per il controllo delle camere dell’ex hotel occupato. La bimba è stata rapita quasi due mesi fa, il 10 giugno scorso. […] Da dove è stata portata via? Resta un mistero. 

L’ex hotel è stato praticamente sventrato alla ricerca di qualche nascondiglio ma non è stato trovato nulla. […] In questi due mesi carabinieri coordinati dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli, capo dell’antimafia di Firenze, hanno scartato varie segnalazioni e piste infondate, fra cui una telefonata - attribuita a un mitomane - ricevuta sul cellulare di un'amica della madre in cui qualcuno diceva: «Ho io tua figlia».

Nei giorni immediatamente successivi alla sparizione della figlia la madre di Kata fa il nome di un sospetto, ma il generale dei carabinieri Gabriele Vitagliano spiega che «lo ha fatto sulla base di una valutazione di buonsenso ipotizzando che la sparizione della figlia potesse essere collegata a litigi dentro l'ex albergo. È una pista che stiamo seguendo ma non ci sono né un nome né elementi di riscontro». 

Il papà di Kata, Miguel Angel Romero Chicillo, 27 anni, è anche andato a cercarla con alcuni amici in un campo nomadi di Firenze. Perché insieme alla moglie Kathrina non sa più dove sbattere la testa e si aggrappa a tutte le piste possibili. Anche a quella di una zingara ladra di bambini. Ma della bimba peruviana di 5 anni tra le roulette dei Rom non c’era traccia. Una spedizione a vuoto, dunque, sintomo tuttavia del tormento che attanaglia Miguel e Kathrina, 26 anni, genitori anche di un altro figlio di 8 anni.

In questo giallo che da quasi due mesi non trova soluzione le suggestioni purtroppo si accavallano con pochi elementi concreti e sembra di rimanere in un tunnel alla fine del quale non compare alcuna luce. Tranne, appunto, lo spiraglio del racket delle stanze.

Kata, il giudice: «Scontri violenti nell’ex albergo. I genitori hanno taciuto importanti informazioni sul rapimento». Alessandro Fulloni, inviato a Firenze, e Simone Innocenti su Il Corriere della Sera sabato 6 agosto 2023

Le ultime notizie sulla bambina scomparsa a Firenze: c’erano faide tra i parenti della famiglia Alvarez e gruppi di peruviani, ecuadoregni e romeni che occupavano l’hotel. Una guerra per il possesso e la gestione illecita delle stanze per le quali chiedevano denaro 

Che fine ha fatto la piccola Kata? E perché è sparita? Dubbi, tanti. Certezze, poche. Ma la pista imboccata dagli investigatori di Firenze coordinati dai pm Christine Von Borries e Giuseppe Ledda emerge con chiarezza dal decreto di perquisizione nei confronti dei genitori della piccola, Miguel Angel Ramon Chicllo e Katherine Alvarez.

Nel provvedimento che, in sostanza, permette agli inquirenti di acquisire i cellulari della coppia, si legge che la scomparsa di Kata è «maturata all’interno dei rapporti conflittuali che sono sfociati in aspre contese nell’ambito dell’occupazione abusiva dell’hotel Astor».

Risse e pestaggi

Risse, pestaggi, minacce. Gli inquirenti parlano di «faide tra i parenti della famiglia Alvarez e gruppi di peruviani, ecuadoregni e romeni che occupavano l’hotel per il possesso e la gestione illecita delle stanze per le quali erano richieste», dietro brutalità e percosse, «somme di denaro». Il sequestro dei cellulari dei genitori serve dunque a capire se vi siano mail, messaggi o chat utili alle ricerche. Il pesantissimo dubbio, citato nello stesso decreto di perquisizione, è che la mamma e il papà di Kata possano aver ricevuto da qualcuno importanti informazioni sul rapimento ma abbiano preferito non riferirle durante gli interrogatori.

Quando il 10 giugno scorso la peruviana rincasa dal lavoro — è una colf — non trova, come invece si aspettava, la figlia in cortile con gli altri bimbi. La cerca, vanamente, per i tre piani dell’ex albergo e poi corre a sporgere denuncia.

Sostiene di non sospettare di nessuno e si limita a dire di avere avuto, a partire da marzo, d elle liti con altre famiglie peruviane e rumene per «motivi di convivenza».

La squadraccia

Incomprensibilmente tace del tutto sui pestaggi e le punizioni che ruotano attorno al racket degli affitti. E addirittura nulla rivela di quel che è successo una decina di giorni prima, la sera del 28 maggio, quando un uomo, l’ecuadoregno Santiago Medina Pewlaz, sui trent’anni, per salvarsi dalle sprangate di chi voleva cacciarlo dall’Astor ha preferito lanciarsi nel vuoto, dall’appartamento 306 al secondo piano, restando miracolosamente vivo.

Di quella «squadraccia» armata di mazze da baseball e tubi di ferro, molti con i volti travisati, che quella sera ha terrorizzato alcune famiglie faceva parte anche lo zio materno di Kata, Abel Alvarez Vasquez, detto «Dominique». La scena descritta dalle carte è questa: qualcuno grida «sales afuera». Parole brutali indirizzate a Pewlaz, prima in spagnolo e poi pure in italiano: «Esci fuori!». Poi altre frasi così: «Cane di m... t e matamos! Ti ammazziamo». 

Appartamento 306

A urlare minaccioso fuori dall’appartamento 306 è un uomo sulla quarantina, il peruviano Carlos Martin De Colina Palomino. Tatuato, un po’ di pancia, capelli corti, lo chiamano Carlos. O Charlocho. Violento, modi rudi e spicci, dice in giro che lui è «el duegno» — il «proprietario» — dell’hotel Astor. Charloncho — irreperibile — vuol cacciare la folta famiglia dei Barbosa, mariti ed ex mariti, mogli, una nonna, bimbi, fidanzati — per fare entrare altri nuclei che possono pagare di più. Cifre che, non solo in questo caso, si sono moltiplicate vertiginosamente passando da 100 euro mensili a 800/900. Fatto sta che fuori dalla porta si radunano Charlocho, Dominique — poi riconosciuti dai testimoni ascoltati in Procura — e gli altri.

Lo scontro

I Barbosa si nascondono, barricandosi nelle loro camere. Santiago, che è mezzo brillo, apre, convinto che gli aggressori vogliano solo parlare. Ma viene subito colpito dalle sprangate. «Te matamos, te matamos...». Indietreggia, la compagna si frappone tra lui e gli assalitori che vorrebbero bastonare pure lei ma è Dominique a risparmiarle brutte conseguenze: «Fermi tutti, è una donna!».

Tra porte che si aprono e e si richiudono e telefonate al 118, Santiago pensa solo a salvarsi raggiungendo la finestra e lasciando così da sola la fidanzata che si è battuta per lui e che è «incredula» per quella fuga. Dominique nel frattempo terrorizza altre persone, prende un vecchio per il collo e lo trascina giù per le scale. A un altro uomo ruba il portafogli con 900 euro.

Ma i genitori di Kata? Le carte dicono che il padre era in prigione per altre questioni. Però il 23 marzo precedente, con il fratello e la compagna, aggredisce uno dei Barbosa, che li denuncia. I due fratelli lo prendono a calci e pugni e la donna lo graffia con le unghie sul braccio sinistro e sulla faccia. Fatti di cui agli investigatori ha preferito non dire nulla.

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “La Stampa” lunedì 7 agosto 2023. 

Dall'ordinanza del gip Angelo Antonio Pezzuti sull'arresto di Angenis Abel Alvarez Vasquez, conosciuto come Dominique, zio materno di Kata, la bimba peruviana di 5 anni rapita il 10 giugno scorso all'ex hotel Astor di Firenze, emerge la sua partecipazione attiva al racket delle stanze dell'albergo.

Viene evidenziato il suo ruolo «nella compravendita del diritto ad occupare le stanze esigendo dalle persone che volevano entrare dai 600 ai mille euro». Un'attività condivisa con il papà di Kata, Miguel Angel Alvarez Chicllo Romero. Il fratello di quest'ultimo testimonia infatti che «i due avevano la gestione delle stanze: erano soliti vendere una stanza piccola a 800 euro mentre quelle con il bagno a 1. 200 euro». Eppure la mamma di Kata, Katherine Alvarez, difende sia il marito sia il fratello. 

Cosa pensa dell'arresto di suo fratello?

«Mi dispiace ma non credo sia vero ciò che dicono quelli che lo hanno denunciato. Non è vero che chiedeva i soldi per le stanze. La colpa è degli altri tre arrestati, non sua». 

E suo marito? Risulta che prima di essere arrestato per il furto delle carte di credito aiutasse suo fratello Dominique a chiedere i soldi per consentire l'occupazione delle camere.

«Non è vero. La parola di quelli che denunciano vale quanto la nostra. Per quanto riguarda mio fratello, poi, lo conosco da tutta la vita e so che non è cattivo, che non fa quelle cose».

[…] Crede possa essere stata rapita per vendetta sullo sfondo del racket delle camere dell'Astor?

«Non posso escludere niente. Queste sono cose su cui stanno indagando i carabinieri, ma noi non abbiamo fatto male a nessuno. Non avevamo problemi con nessuno». 

Secondo la procura lei e suo marito non state raccontando tutto quello che sapete, per questo esamineranno il contenuto dei vostri telefonini.

«[…] Possono controllare tutti i nostri messaggi e tutte le nostre telefonate. Noi non abbiamo niente da nascondere, noi abbiamo sempre collaborato con polizia e carabinieri. Diciamo la verità, ma forse c'è qualcun altro che non lo fa».

A chi si riferisce?

«Non lo so […]».

Estratto dell’articolo di Luca Serranò per “la Repubblica” lunedì 7 agosto 2023. 

Ripercorrere tutti i contatti avuti dai familiari prima e dopo la scomparsa. In particolare quelli del padre, che appena uscito dal carcere (era detenuto per furto) avrebbe iniziato a indagare in proprio. 

C’è anche questo obiettivo dietro la scelta della procura di Firenze di sequestrare i telefoni dei genitori della piccola Kataleya, entrambi perquisiti due giorni fa dai carabinieri come terzi non indagati. Il sospetto […] è che alcune preziose informazioni sul rapimento della bambina peruviana siano state nascoste o comunque alterate, per motivi ancora tutti da chiarire.

«Emerge la figura di Miguel Angel Chicclo Romero, il padre della bambina […] Scarcerato il 13 giugno successivo, da quel momento si attiva personalmente nelle ricerche della figlia tanto da avviare indagini parallele, prendendo contatti con soggetti di nazionalità peruviana e romena, arrivando a fare un’incursione notturna di un campo nomadi nella periferia di Firenze, alla ricerca della bambina». 

Secondo i magistrati, nella sua disperata ricerca della figlia l’uomo potrebbe dunque aver saputo qualcosa che ha però scelto tenere per sé, o comunque di condividere solo con una ristretta cerchia di persone. […] Anche la moglie, sempre secondo i pm, potrebbe non aver detto tutto. [...]

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per “il Messaggero” lunedì 7 agosto 2023. 

Anche il padre di Kata è sotto inchiesta della Procura di Firenze per il racket delle stanze all'ex hotel Astor, dal quale è stata rapita sua figlia il 10 giugno scorso. A inguaiare Miguel Angel Chicclo Romero (26 anni) è in primis la testimonianza di suo fratello Marlon Edgar, lo zio paterno della bambina. 

[…] Marlon spiega ai poliziotti che suo fratello Miguel e il cognato Argenis Abel Alvarez Vasquez (detto Dominique) «avevano la gestione delle stanze dell'albergo». «In particolare - racconta nel verbale - ogni volta che una famiglia andava via, loro acquistavano il diritto ad entrare nella stanza e la rivendevano a chi ne faceva richiesta». 

Insomma, il padre e lo zio materno di Kata, da abusivi, si erano messi a lucrare su altri abusivi, pretendendo somme di denaro per soggiornare all'Astor. Dominique, che è appunto il fratello della madre della piccola sequestrata, è stato arrestato sabato scorso dalla polizia insieme ad altri tre peruviani: è accusato di tentato omicidio, lesioni gravi, estorsione e rapina. 

Proprio a lui era stata affidata la bimba, prima che si perdessero le sue tracce, perché la mamma quel maledetto sabato era al lavoro dalle 7,30 alle 15,30 e il padre in carcere. A domanda specifica degli agenti, Marlon spiega qual era il "tariffario" imposto da suo fratello Miguel e dal cognato: «Erano soliti vendere una stanza piccola a 800 euro una tantum, mentre quelle con il bagno a 1.200 euro». Per questo ora i pm […] stanno indagando sul ruolo del padre di Kata nel racket delle camere. Anche perché la pista principale seguita dagli inquirenti sul movente del rapimento è la vendetta, legata proprio alle vessazioni subite dagli altri occupanti dell'hotel e al giro di denaro estorto con minacce e violenze. 

[…] Pure la madre della bambina a volte supportava suo fratello Dominique nelle controversie che scoppiavano all'Astor in seguito a queste pretese di soldi. Un inquilino aveva denunciato i genitori di Kata perché il 22 marzo «era stato colpito con pugni al volto da Miguel» e dalla fidanzata di quest'ultimo, Katherine Alvarez Vasquez, «che lo aveva graffiato con le unghie sul braccio sinistro e sulla faccia». 

[…] Sono tante le bugie raccontate finora dai genitori della bimba scomparsa. La madre diceva che non aveva mai avuto litigi con gli altri inquilini dell'Astor, ma più di una testimonianza la smentisce. […]

[...]

Kata, Vittorio Feltri: "Non solo sui genitori, il mio dubbio sull'indagine". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 07 agosto 2023

La vicenda di Kata, la bambina rapita mesi addietro a Firenze in un contesto da incubo, così come ci viene raccontata non mi convince affatto. Due giorni fa lo zio e due ceffi, residenti nell’albergo dismesso e abusivamente occupato, sono stati arrestati con l’accusa di aver gestito le camere, esigendo da chi le abitava affitti totalmente illegali. Mi pare che la cattura del trio sia tardiva, e stupisce che i genitori della fanciulla soltanto adesso siano sottoposti a lunghi interrogatori. Non si comprende tutto questo ritardo nella ricerca dei responsabili del sequestro. Per quale motivo non si è agito tempestivamente?

Non posso fare a meno di sottolineare oltretutto che, se l’immobile non fosse stato illecitamente adibito a edificio abitabile, non sarebbe divenuto una scena del crimine. Il comune di Firenze, città nella quale si erge l’ex albergo, non si è mai accorto che esso fosse divenuto da tempo una sorta di casa popolare, che andava subito requisita e sfollata e non dopo, ossia in seguito alla sparizione di una minore? Come mai le autorità municipali non sono intervenute per arginare una situazione intollerabile? Come si spiega che nessuno si sia mosso prima della scomparsa della bimba?

L’impressione è che anche l’indagine in corso sia proceduta a rilento, tanto è vero che prima di arrestare i trafficanti arbitrari di camere sono trascorsi mesi. Quanto ai genitori della piccola ci si domanda perché l’avessero abbandonata nel casermone dove lei circolava liberamente da sola, totalmente incustodita. Secondo punto. Per quale ragione la mamma e il papà non hanno collaborato fattivamente con gli investigatori, i quali solamente ora peraltro si sono svegliati sottoponendoli al torchio di interrogatori? Terzo punto. Dato che la famiglia di Kata è povera in canna, non può di sicuro pagare il riscatto eventualmente richiesto per riavere la piccina.

Il movente del complicato caso resta del tutto oscuro. È evidente che la questione sia stata gestita fin dall’inizio con i piedi, senza passione, come si trattasse di una banale lite di condominio. Mentre qui c’è di mezzo una creatura innocente che non si sa ancora in quali sporche mani sia finita. Chiediamo al governo di intervenire per fare un po’ di chiarezza, è inammissibile che tra le varie sventatezze che sono segnalate vi sia la circostanza che l’ex hotel sia stato gestito senza titolo da gentaglia priva di scrupoli. Per favore, un pizzico di buona volontà. Aggiungo, per concludere pessimisticamente, che ho un timore: che Kata sia stata uccisa perché non credo che il rapitore abbia un animo gentile né un debole per l’infanzia. 

"La famiglia sa...". Quella verità su Kata, lo zio e l'albergo. Dalle videocamere messe al vaglio risulta che Kata non è mai uscita dall’albergo. Il perito forense al Giornale.it: "Non ci sono tracce della bambina. Si crede che anche i genitori sappiano, ma non parlano". Isabel Demetz il 10 Agosto 2023 su Il Giornale.

Kataleya Alvarez, ormai scomparsa da due mesi, ovvero dallo scorso 10 giugno, è un mistero che a quanto pare non vuole risolversi. Ma Michele Vitiello, incaricato perito forense dalla Procura di Firenze, scopre alcuni dei dubbi che si sono accumulati negli scorsi giorni, a partire dall’arresto dello zio di Kata, Abel Alvarez Vasquez, lo scorso 5 agosto.

Il racket degli affitti

“Hanno arrestato lo zio e gli altri perché servono per seguire una seconda traccia, rilevata durante le indagini”, spiega al Giornale.it Vitiello. Il perito forense si riferisce all’indagine sul racket degli affitti all’interno dell’ex hotel Astor, occupato da una comunità di peruviani – e non solo – di cui faceva anche parte la famiglia di Kata.

Una dichiarazione che risulta anche dagli interrogatori tenuti ieri, 9 agosto. Lo zio di Kata è stato arrestato insieme ad altri tre peruviani, in quanto accusati di gestire il racket degli affitti. Sono stati sentiti nella giornata di ieri dal gip nell’interrogatorio di garanzia e, secondo quanto riferito dall’avvocato, Elisa Baldocci, avrebbero rigettato le accuse, fornendo inoltre anche una versione, naturalmente diversa, riguardo all’episodio dell’ecuadoregno caduto dall’edificio poco prima che Kata scomparisse. Durante l’interrogatorio non è stato parlato di Kata, ma è possibile che ne verrà fissato uno ad hoc con il pm, come spiegato da Baldocci.

“Omissioni da parte della famiglia”

Vitiello parlando dei moventi dell’arresto dei quattro peruviani ha spiegato, invece, che è stato questo ad aver reso possibile l’analisi dei telefoni dei famigliari. “In questo modo si possono analizzare anche i messaggi dei genitori”, perché, come spiega il perito, “sembra emergere che la famiglia sa qualcosa”. Dunque, il dubbio della procura è che qualcuno dei famigliari, lo zio, i genitori, sia a conoscenza dei misteri che ancora avvolgono la scomparsa della bambina di cinque anni.

“Nessuna traccia della bambina”

La teoria verrebbe rinforzata ulteriormente dalle immagini delle telecamere. Vitiello, infatti, è a capo della squadra predisposta per mettere al vaglio il materiale video della videosorveglianza di Firenze, però, fino ad ora, non vi sono state scoperte importanti per le indagini. “Se vi fossero state, sarebbe uscita la notizia”, spiega il perito, “ma di Kata non vi è traccia. Per quanto ci riguarda Kata non è mai uscita dall’albergo”.

Una dichiarazione che preoccupa e che, infatti, renderebbe plausibile l’ipotesi secondo cui qualcuno all’interno dell’ex hotel Astor e vicino a Kata sa. “Ci sono molte omissioni”, dichiara Vitiello "e dunque si è posta la necessità di mettere i messaggi al vaglio".

L’unica “novità”, per così dire, che risulta dalle telecamere è la “presenza di personaggi strani”, come racconta Vitiello. Non potendo pronunciarsi ulteriormente, specifica, però, che “ci saranno ulteriori approfondimenti sul ruolo e sul perché della presenza di questi personaggi”.

Le tappe del caso. Le tappe della scomparsa di Kata e i ritardi sullo sgombero dell’ex Hotel Astor. Da due mesi si sono perse le tracce della piccola bambina peruviana. Crescono polemiche e sospetti sul ruolo degli occupanti della struttura, tra le responsabilità della Procura e quelle dell’amministrazione comunale. Daniele Bertini su Il Riformista il 10 Agosto 2023 

Fino a sessanta giorni fa la notizia di un bambino scomparso in città avrebbe potuto trovare spazio soltanto nelle pagine di un romanzo di Marco Vichi. Da sessanta giorni invece a Firenze questa vicenda è la triste realtà. Sono passati ormai due mesi da quando, il 10 giugno scorso, Mia Kataleya Chiclio Alvarez – per tutti “Kata” – una peruviana di 5 anni, è stata rapita dall’ex albergo Astor, occupato abusivamente da settembre 2022 e poi sgomberato il 17 giugno 2023, sette giorni dopo il fatto, quando ormai era evidentemente troppo tardi.

L’arresto dello zio e il racket criminale

Dopo mesi di annunci, smentite e vane attese, qualche giorno fa la Procura ha finalmente battuto un colpo arrestando lo zio e sequestrando i telefoni dei genitori della bimba.

Le regole, in quell’ex-hotel occupato, erano dettate da un racket criminale guidato da peruviani e romeni, che gestivano e controllavano le camere della struttura, riscuotendo rigorosamente a nero gli affitti dalle disperate famiglie “ospitate”.

L’ipotesi degli inquirenti è che la famiglia di Kata fosse coinvolta proprio in quel racket di affitti illegali e che dunque sia stata vittima di una ritorsione. Nello specifico lo zio di Kata è accusato – con altre tre persone – a vario titolo di estorsione, di tentativi di estorsione e rapina, di minacce ai danni di altri occupanti lo stabile per episodi documentati tra il novembre 2022 e il maggio 2023. Inoltre, ha accuse di tentato omicidio e lesioni gravi per l’episodio del 28 maggio scorso – pochi giorni prima della scomparsa di Kata – quando uno degli occupanti, ecuadoregno, temendo di essere ucciso, preferì lasciarsi cadere in strada dal terzo piano dell’edificio. Per fortuna l’uomo è poi miracolosamente sopravvissuto, ma la vicenda è emblematica del clima che si respirava in quei corridoi.

Una situazione di degrado, quella dell’ex albergo occupato, tristemente nota a tanti a Firenze, ma che fino alla scomparsa di Kata non è stata ritenuta doverosa di intervento da parte degli uffici di viale Guidoni, sede della Procura di Firenze.

È emerso infatti che lo sgombero era stato richiesto dal Comune fin dall’avvio dell’occupazione, risalente al settembre 2022. Richiesta ignorata anche dopo il rapimento della piccola, se è vero come vero che si sono attesi altri otto giorni prima di dare la disposizione, sacrosanta, di liberare l’edificio. Perché non è stato firmato subito il decreto? Perché si è fatta passare una settimana in cui tutto può essere accaduto all’interno di quelle mura? Perché si è rischiato di compromettere qualche pista utile per le indagini? Non serve essere esperti di tecniche investigative o appassionati di serie tv poliziesche true-crime per sapere che i primi giorni sono quelli decisivi per il ritrovamento delle persone scomparse. In quelle ore invece, alle ispezioni all’interno dell’albergo si sono susseguite soltanto decine di ipotesi, battute via via dalle agenzie di stampa: “i cani molecolari continuano a segnalare la presenza di Kata nei pressi dell’hotel”, “forse vista su un bus a Bologna”, “alla base del possibile rapimento una resa dei conti”, “Kata rapita per sbaglio, si parla di scambio di persona”.

I pochi elementi e quel video

Decine di testimoni e presunti tali sono stati sentiti dagli inquirenti. Ma non è emerso niente di veramente concreto.

Al momento però la nebbia è fitta e le certezze sono praticamente nulle, di definito ci sono solo pochi elementi emersi subito dopo la scomparsa di Kata e sono forniti da una delle 1500 telecamere a disposizione delle autorità su tutto il territorio fiorentino. Quella che punta sul lato di via Boccherini dell’edificio ha ripreso quelle che ad ora sono le ultime immagini di Kata prima del rapimento. L’orologio segna le 15.01. Si vede Kata insieme ad alcuni bambini, tra cui suo fratello, che rientrano dopo alcuni secondi. Alle 15.13 Kata viene inquadrata di nuovo, da sola, mentre scende verso il cortile. Da quel momento ha inizio il mistero: Kata non si trova più. La mamma Kathrina Alvarez farà la prima telefonata di emergenza alle 18.41, in serata formalizzerà la denuncia, dando il via all’iter dedicato alle persone scomparse. Il padre, Miguel Angel Romero Chiclio, è in quel momento detenuto nel carcere di Sollicciano per furto, ma viene fin da subito scarcerato per contribuire alle indagini sulla scomparsa della figlia.

Le responsabilità 

E se anche non tutti hanno avuto la chiarezza di Matteo Renzi, che ha definito la Procura “moralmente responsabile del mancato sgombero dell’ex hotel. Una responsabilità atroce”, sugli errori dei magistrati in pochi hanno sollevato dubbi. Anche Michele Giuttari, capo della squadra mobile di Firenze ai tempi dell’inchiesta sul “mostro”, intervistato sulla vicenda dalla Nazione, punta l’indice sui ritardi della Procura: avrebbero dovuto chiudere l’ex Astor subito e non aspettare così a lungo. C’è però anche chi ha ipotizzato che alcune responsabilità siano da ricondurre all’amministrazione comunale. Nei giorni successivi alla scomparsa, infatti, dai banchi della Lega in consiglio comunale si annunciavano interrogazioni al ministro Nordio perché fossero chiarite le responsabilità dei ritardi. Ma da Palazzo Vecchio hanno fin da subito ricordato la richiesta di sgombero di settembre 2022. Inspiegabilmente ignorata dalla Procura.

Intanto Firenze assiste distratta al lento evolversi della vicenda. Trenta giorni fa, ad un mese dalla scomparsa, l’associazione Penelope aveva organizzato una manifestazione per chiedere alla città di non abbassare la guardia (semmai l’avesse alzata). In quell’occasione avevano risposto all’appello un centinaio di persone, metà peruviani e metà fiorentini; tra loro ovviamente i genitori di Kata. Uno sparuto gruppo di persone che chiedeva verità e giustizia. “Avremmo voluto assistere a una risposta decisamente diversa da una città che da sempre rappresenta un baluardo della difesa dei diritti civili e della tutela dei cosiddetti ultimi. Nessun rappresentante delle istituzioni è qui stasera. Non riconosco più la mia Firenze” aveva detto quella sera una manifestante. Stasera è la notte di San Lorenzo, le stelle cadenti susciteranno i desideri di tanti fiorentini che scruteranno il cielo col naso all’insù. Sarebbe bello che tutti avessero lo stesso pensiero: Kata deve tornare a casa. Daniele Bertini

Estratto dell’articolo di tgcom24.mediaset.it martedì 15 agosto 2023.

Una intercettazione riapre le speranze di ritrovare la piccola Kata, la bambina di 5 anni scomparsa dall'ex hotel Astor di Firenze lo scorso 10 giugno. Si tratta di una telefonata tra il padre e il nonno della bimba, avvenuta pochi giorni dopo la sparizione. Le parole pronunciate dai due uomini al telefono lascerebbero pensare che Kata sarebbe stata rapita e portata in Perù. 

Da qui un secondo filone d'inchiesta aperto dalla Procura dopo quello legato al racket degli affitti nell'ex albergo dove risiedeva la famiglia, per il quale è stato arrestato lo zio della piccola. L’ipotesi della vendetta o di un ricatto ai familiari della bambina per il loro ruolo nelle violenze nell’ex hotel Astor non sarebbe, dunque, l'unica pista seguita dagli investigatori.

Secondo quanto riporta il quotidiano La Repubblica, le ricerche della piccola Kata sarebbero state estese al Perù, anche con la collaborazione della polizia locale. [...] 

L'intercettazione "È già qui in Perù, ci penso io", avrebbe detto il nonno di Kata nella telefonata partita da un carcere dove è detenuto, "sta bene, l’hanno rapita per errore". Di queste parole aveva parlato con gli inquirenti anche il papà della bambina, che quando la figlia è stata rapita si trovava a sua volta in carcere. 

[...] 

I carabinieri del nucleo investigativo e del Ros scavano nel contesto familiare della bambina. Si sta cercando di verificare se altri membri della famiglia abbiano avuto contatti dello stesso tenore. Anche per questo nei giorni scorsi sono stati sequestrati i cellulari al padre, alla madre e ad altri cinque familiari della piccola.

Nessuno di loro è indagato per la scomparsa. Allo stesso modo, non risulta indagato lo zio della piccola, arrestato nei giorni scorsi nell'ambito dell'inchiesta sul racket degli affitti nell'ex hotel Astor. L'uomo e le altre persone arrestate con lui hanno risposto alle domande degli inquirenti, ma nell'interrogatorio non c'è stato alcun riferimento al rapimento di Kata.

Kata, mistero sulla bimba scomparsa a Firenze. La nonna svela la sua verità. Christian Campigli su Il Tempo il 17 agosto 2023

Vittima di uno scambio di persona. Rapita per un tragico errore. Che sta distruggendo la vita ad un'intera famiglia. La nonna paterna di Kata, la bimba peruviana di 5 anni, scomparsa a Firenze lo scorso 10 giugno, ha le idee molte chiare. E in una lunga intervista concessa al quotidiano La Nazione, racconta la sua verità. "Mio figlio non vive più, non dorme, non mangia. Mi ha detto di aver persino pensato al suicidio. Credo che mia nipote sia stata vittima di uno scambio di persona: volevano rapire un’altra bambina ed è stata presa per sbaglio. Sono sicura che nessuno avrebbe mai fatto del male alla mia famiglia volontariamente. Siamo delle brave persone: mio figlio ha avuto una vita difficile ma ha scontato la sua pena in carcere. E la famiglia di Katherine, mia nuora, è una delle più rispettabili del nostro Paese. So che Abel, lo zio di Kata, è stato arrestato. Io non ho idea di cosa succedesse all’Astor, ma sono certa che Abel non c’entri niente". I quotidiani locali, negli ultimi giorni, hanno rilanciato un'indiscrezione resa nota dal nostro quotidiano oltre un mese fa. Ovvero che la piccola Kata sarebbe viva. E sarebbe stata portata in Perù dai suoi rapitori.

La vicenda della bimba peruviana ha scosso anche la politica fiorentina. Nell'ultimo mese sono stati 3 gli sgomberi (compreso quello dell'ex Hotel Astor, la struttura nella quale Kata viveva con la famiglia e oltre 140 persone) effettuati nel capoluogo toscano. Forze di polizia hanno ripreso possesso di una struttura occupata abusivamente da antagonisti appartenenti al Collettivo Studentesco Universitario nel corso dei primi mesi del 2016. L'immobile è di proprietà della Ausl Toscana Centro. In una nota, il Viminale parla di "interventi fondamentali per il ripristino della legalità". Soddisfazione da parte del centrodestra cittadino. "Nel 2021 presentai un'interrogazione alla maggioranza di sinistra che governa la città - ha sottolineato il capogruppo di Fdi a Palazzo Vecchio, Alessandro Draghi - non si usi mai più il diritto allo studio come scusa per occupare edifici pubblici". Sulla stessa linea anche gli esponenti fiorentini della Lega Federico Bussolin e Federico Bonriposi, rispettivamente segretario provinciale e commissario comunale del Carroccio. "Adesso ci auguriamo che prosegua in modo costante quest'opera di sgombero. E che arrivi il momento, finalmente, anche dello sgombero del Cpa di via Villamagna".

(ANSA sabato 19 agosto 2023) -  Improvviso litigio nel pomeriggio fra Miguel Angel Chicclo Romero e Kathrina Alvarez, i genitori della bambina Kataleya scomparsa a Firenze dal 10 giugno. Secondo quanto si apprende, mentre la polizia era già intervenuta per calmare gli animi, il padre in un gesto di disperazione ha rotto una bottiglia e minacciato di ferire se stesso coi cocci di vetro, pur non facendolo. E' intervenuto il 118, che ha ricoverato il padre di Kata in ospedale per controlli. L'episodio non ha nessun rilievo penale e i motivi della discussione al momento non sono evidenti. Lo stato di tensione in cui versa la coppia potrebbe però spiegare l'accaduto.

La lite c'è stata nella zona di Firenze dove la famiglia peruviana soggiorna dopo lo sgombero dell'ex hotel Astor. Secondo una ricostruzione la madre di Kata era in casa e il padre nella strada quando la polizia è intervenuta con equipaggi delle Volanti per ricomporre la situazione, così come accade in tanti interventi di routine per discussioni familiari. Da prime informazioni pare che al rientro del marito da fuori, la donna non abbia voluto farlo entrare in casa, tanto da suscitare la reazione dell'uomo. 

Pare che alla base di questo dissidio nella coppia ci sia una lite avvenuta in precedenza. Gli urli e le frasi a voce alta fra i due hanno allarmato il vicinato che ha chiamato le forze dell'ordine. Il padre della bambina è apparso piuttosto scosso emotivamente, al punto da minacciare autolesionismo dopo aver spaccato per terra la bottiglia. Il gesto ha preoccupato gli operatori, quindi il personale sanitario di soccorso ha deciso di ricoverarlo in ospedale per fargli superare lo stato di agitazione e calmarlo.

L'uomo al momento si trova in osservazione in ospedale. L'episodio, si ribadisce da fonti della polizia, non ha fatto emergere nessun risvolto penale. Già l'11 giugno Miguel Angel Chicclo Romero alla notizia del rapimento della bambina aveva ingerito del detersivo mentre era ancora detenuto in carcere a Sollicciano, poi all'ospedale San Giovanni di Dio a Torregalli venne sottoposto a lavanda gastrica. Dopodiché, finché non è stato scarcerato, nei suoi confronti il penitenziario ha attivato il piano di prevenzione del rischio suicidario. Il giorno dopo, il 12 giugno, pure la madre Katherine ingerì una piccola quantità di candeggina e venne portata d'urgenza all'ospedale di Careggi dove fu sottoposta a lavanda gastrica

Estratto dell’articolo di Antonella Mollica per il “Corriere della Sera” venerdì 1 settembre 2023.

L’hanno cercata in tutti gli anfratti dell’ex hotel dove viveva e dove è stata vista per l’ultima volta, negli scantinati, nei palazzi intorno, nei filmati delle 1.500 telecamere disseminate in tutta la città, nelle stazioni e negli aeroporti. 

Ma la scomparsa di Kata, la bambina peruviana di 5 anni di cui si sono perse le tracce a Firenze da 83 giorni, continua ad essere un mistero. Quasi tre mesi di ricerche e indagini, avvistamenti senza seguito, tante ipotesi, qualche pista investigativa imboccata e subito sfumata, nessuna certezza.

[…] La Procura continua ad indagare per sequestro a scopo di estorsione ma fino ad oggi nessuna richiesta di riscatto è mai arrivata. I genitori di Kata, dopo lo sgombero e il sequestro dell’immobile, vivono con il figlio più grande in una struttura del Comune. Si sono presentati più volte in questi mesi dagli inquirenti per raccontare episodi del passato che potrebbero aiutare nella ricerca di Kata o di chi l’ha portata via. 

È stato Miguel, il papà di Kata, a suggerire la pista della droga. Si è presentato dagli inquirenti con la registrazione di una telefonata in cui suo fratello, detenuto in Perù, gli racconta di aver ricevuto in carcere una confidenza da un altro detenuto: «Kata è stata rapita per errore ed è stata portata in Perù». Nessun altro elemento, nessuna prova di quelle affermazioni e soprattutto nessun riscontro. 

Il detenuto in questione è un peruviano di 25 anni che fino all’aprile 2022 viveva a Firenze, dove venne trovato con 13 chili di marijuana. Dopo la denuncia è scomparso dall’Italia, forse per paura di una vendetta per quella partita di droga non pagata. Mesi dopo verrà arrestato in Spagna per altri reati e poi estradato in Perù.

Nell’appartamento alla periferia di Firenze dove l’uomo viveva — e dove c’era la droga, lanciata con un borsone da una finestra durante la perquisizione e ritrovata due giorni dopo da un vicino nel giardino — viveva anche una donna con una bambina di poco più piccola di Kata. 

Potrebbe essere stata lei il vero obiettivo del sequestro, ha suggerito il detenuto. La donna e la figlia finiranno cinque mesi dopo nell’occupazione dell’Astor, mentre l’uomo farà perdere le tracce. In Italia non verrà neppure processato perché irreperibile. La bambina è stata l’ultima a giocare con Kata all’Astor e per questo è stata sentita più volte dagli inquirenti con l’aiuto della psicologa. La Procura sta adesso valutando se chiedere una rogatoria per ascoltare il detenuto e tutti gli altri familiari di Kata che vivono in Perù. […]

A Firenze. Svolta nel caso della piccola Kata, cinque indagati per la scomparsa della bimba di 5 anni. Gli avvisi di garanzia sono stati spiccati nei confronti di 5 ex occupanti dell’albergo dove la bambina di origini peruviane viveva con la madre e il fratello. Alcuni ripresi dalle telecamere mentre uscivano con 2 trolley e un borsone. Redazione Web su L'Unità il 12 Settembre 2023

Cinque persone indagate per la scomparsa della piccola Kata Alvarez. Svolta a Firenze sulle indagini della bambina di cinque anni sparita nel nulla, presumibilmente rapita dall’ex hotel occupato Astor lo scorso 10 giugno. Gli avvisi di garanzia sono stati spiccati nei confronti di cinque ex occupanti dell’albergo dove la bambina di origini peruviane viveva con la madre e il fratello. Le ordinanze sono state elevate per eseguire accertamenti tecnici irripetibili “volti ad accertare la presenza di materiale biologico o genetico e all’estrapolazione dei eventuali profili del Dna da borsoni, trolley e da rubinetti di stanze dell’hotel e alla loro successiva comparazione con quello della vittima”.

Degli indagati dalla Procura di Firenze, si legge in una nota, tre sono stati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza mentre uscivano dall’albergo con due trolley e un borsone. Secondo gli investigatori, per la loro grandezza, avrebbero potuto contenere all’interno la piccola. Il trolley e il borsone sarebbero stati utilizzati anche il 17 giugno, quando l’albergo è stato sgomberato. Altri due occupanti dell’albergo sono indagati dopo il ritrovamento di tracce di sangue nei bagni delle loro stanze, nei giorni successivi al sequestro. L’iscrizione nel registro degli indagati per queste cinque persone permetterà di effettuare accertamenti e comparazioni con il Dna della piccola Kata.

La bambina fu vista l’ultima volta il 10 giugno nel cortile dell’albergo. Le telecamere di sorveglianza la inquadrarono alle 15:01 mentre usciva dal cancello dell’ex albergo per rientrarvi dopo aver abbandonato i compagni di gioco. Alle 15:13 la bambina veniva inquadrata un’altra volta mentre saliva, sempre sola, le scale esterne dello stabile per raggiungere il terzo piano e poi tornare in cortile. La madre Katherine Alvarez era al lavoro in un supermercato in centro e aveva affidato la bambina e il figlio maggiore, 9 anni, al fratello Abel, come era già successo altre volte.

La Procura di Firenze ha aperto un fascicolo per sequestro di persona a scopo di estorsione. Le indagini si sono focalizzate sul racket degli affitti che caratterizzava la vita nell’ex albergo occupato e sgomberato. Appena ieri un nuovo sopralluogo era stato annunciato nell’ex hotel Astor per svolgere accertamenti più invasivi anche con operazioni di scavo. Chiesta una rogatoria del Perù per ascoltare alcuni possibili testimoni.

Redazione Web 12 Settembre 2023

"Kata nascosta in un trolley". Indagati in 5 per sequestro. Svolta nell'inchiesta sulla scomparsa della bimba peruviana: "Usciti dall'ex hotel Astor con dei borsoni". Marco Gemelli il 13 Settembre 2023 su Il Giornale.

Borsoni e trolley che avrebbero potuto contenere la piccola Kata. E un rubinetto che potrebbe contenere tracce ematiche compatibili con quelle della piccola peruviana scomparsa da Firenze lo scorso 10 giugno. Sono questi i tasselli che hanno portato la Procura di Firenze a iscrivere nel registro degli indagati cinque persone, con l'accusa di sequestro a scopo di estorsione, ed a continuare la ricerca di tracce di Dna all'interno dell'ex hotel Astor dove la bambina viveva con la mamma e il fratello. Il caso a cui gli investigatori lavorano senza sosta da oltre tre mesi potrebbe quindi essere vicino a una svolta, anche se la prudenza resta massima: la Procura ha disposto una serie di accertamenti tecnici irripetibili per verificare la presenza di materiale biologico o genetico in una serie di oggetti borsoni da viaggio e trolley, in particolare - recuperati durante le numerose ispezioni che si sono susseguite all'ex hotel occupato, da dove lo scorso giugno la piccola di origini peruviane è stata rapita.

Tra i cinque indagati ci sono anche due parenti della bambina: lo zio materno di Kataleya, Argenis Abel Alvarez Vasquez, detto Dominique, già in carcere per il tentato omicidio di un cittadino ecuadoregno anch'egli ex occupante dell'hotel Astor, e lo zio paterno Marlon Edgar Chicclo, di 19 anni. Tre degli indagati, spiega una nota, sono stati ripresi dalle telecamere installate nella zona mentre uscivano dall'ex albergo proprio il 10 giugno, in orario successivo alla scomparsa di Kata, con un borsone e due trolley che per dimensioni avrebbero potuto occultare il corpo della bambina. Alcuni degli indagati avrebbero utilizzato gli stessi oggetti anche una settimana più tardi, in occasione dello sgombero dello stabile deciso dagli inquirenti. Gli altri soggetti finiti nel registro degli indagati invece sono occupanti di tre distinte stanze, nei cui rubinetti dei bagni sono state individuate tracce di una presunta sostanza ematica, in occasione delle perquisizioni effettuate il giorno successivo alla scomparsa di Kata.

Gli accertamenti sono stati svolti con l'ausilio di un consulente tecnico nominato dalla direzione distrettuale antimafia, diretta dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli: sarà lui a cercare tracce di Dna da poter poi comparare con quello della piccola, svanita nel nulla e verosimilmente sequestrata.

Se fino a ieri sembrava che le telecamere della zona non avessero ripreso nulla di determinante, nessun movimento sospetto nell'area intorno all'ex hotel, le immagini dei borsoni e dei trolley trasportati dagli indagati potrebbero gettare nuova luce sull'inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Tescaroli e dai pm Christine von Borries e Giuseppe Ledda. L'ipotesi è che le immagini abbiano «catturato» i sequestratori che si allontanano con la bambina nascosta all'interno di una valigia. Le analisi genetiche sui borsoni e trolley confermeranno o meno questa teoria, così come gli esami sui rubinetti dei bagni potranno dare riscontro o meno sull'eventuale corrispondenza con il sangue di Kata.

Già nei prossimi giorni i carabinieri, coordinati dalla procura fiorentina, torneranno nello stabile di via Maragliano, alla periferia nord di Firenze - oggi vuoto e sotto sequestro - per effettuare ulteriori ricerche, se necessario con appositi scavi e abbattimento di mura per trovare altri elementi. Come noto, sulla vicenda della piccola peruviana la Procura fiorentina ha aperto un fascicolo per sequestro di persona a scopo di estorsione: sin da subito le indagini si sono concentrate sul racket degli affitti nell'ex hotel, con opposte fazioni di sudamericani e romeni a contendersi la piazza, anche se finora alla famiglia non è arrivata alcuna richiesta di riscatto. Nel corso dei mesi non sono state escluse le ipotesi che la piccola Kata abbia lasciato l'Italia e sia tornata in Perù, così come quella che sia stata rapita per uno scambio di persona.

 (ANSA mercoledì 13 settembre 2023) "In procura non mi dicono niente, noi siamo i genitori, vogliamo sapere almeno qualcosa. Siamo con l'angoscia di non sapere nulla, quindi fare questa cosa di indagare mio fratello e mio cognato mi fa pensare tante cose, che non trovano niente e vogliono mettere nei guai noi, la mia famiglia, e questo non va bene". 

Lo ha detto il padre di Kata, Miguel Angel Romero Chicclo in un incontro con la stampa organizzato dai suoi legali davanti all'hotel Astor di Firenze. "Ho fiducia in mio fratello e in mio cognato, li conosco bene, sono sicuro che non sanno niente e hanno detto tutta la verità", "incolpare la mia famiglia mi offende". 

Estratto dell'articolo di Antonella Mollica per il Corriere della Sera mercoledì 13 settembre 2023.

Si riparte da dove tutto è cominciato per cercare tracce della piccola Kata: l’hotel […]. La Procura ha iscritto cinque persone nel registro degli indagati con l’accusa di sequestro di persona a scopo di estorsione per la scomparsa della bambina peruviana di 5 anni: ci sono i due zii, quello materno, Abel Alvarez Vasquez — in carcere da un mese per l’inchiesta sul racket degli alloggi e sul tentato omicidio di un ecuadoregno —, quello paterno, di appena 19 anni, due cugine peruviane di 26 e 31 anni, e un rumeno di 29, tutti ospiti dell’hotel […]

Si cercano tracce del dna di Kata in due grossi trolley, in un borsone e in tre bagni dell’albergo dove sono state rilevate tracce scure che potrebbe essere sangue. Dalle telecamere di sorveglianza di fronte all’hotel, le stesse che hanno inquadrato Kata prima della scomparsa, si vedono le due donne e il rumeno uscire separatamente con le valigie. […] il sospetto è che qualcuno possa averla portata via dentro una valigia. 

[…] Tracce ematiche (anche se non c’è certezza sulla loro natura) sarebbero state trovate sui rubinetti e nei lavandini di tre stanze, la 104, la 201 e la 203: in una viveva la famiglia di Kata, le altre due sarebbero state occupate dai due zii, ora indagati per consentire gli accertamenti biologici. 

Nei mesi scorsi erano stati utilizzati droni e sonde per cercare nei sotterranei e negli anfratti della struttura di 3 mila metri quadrati. La Procura nei giorni scorsi ha deciso di ritornare nell’ex hotel per nuovi accertamenti: settimana prossima verranno realizzati scavi e abbattuti i muri che erano stati eretti dagli occupanti come divisori tra le stanze […] 

Nei giorni scorsi la Procura ha formalizzato una rogatoria per ascoltare tredici persone in Perù, tra cui un fratello del padre di Kata e un detenuto che nel carcere di Lima, dove entrambi si trovano, gli ha parlato di un sequestro per errore nato come vendetta per una partita di droga non pagata a Firenze. 

«Vorrei sapere se mia figlia è viva, non sapere nulla mi distrugge» ha detto ieri Katherine Alvarez, la mamma di Kata, che poi si è sfogata: «Ci sentiamo soli, non sentiamo la vicinanza di nessuno. Abbiamo fatto appello a tutte le istituzioni, anche al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma non abbiamo ricevuto risposte. Non riusciamo a capire come sia possibile che nostra figlia sia scomparsa da tre mesi e nessuno sappia che fine ha fatto». Sul fatto che suo fratello Abel sia indagato anche per la scomparsa di Kata […]: «Spero che queste novità degli ultimi giorni possano portare a qualcosa di concreto».

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” - Estratti giovedì 14 settembre 2023.

Parla telegrafica, sospira, piange, si riprende ed è per lei tutto molto faticoso.

Katherine e la piccola Kataleya, lei e sua figlia, lei e il mistero della scomparsa. A vederla così, timida e fragile, stretta in una camicetta bianca, sembra sproporzionata rispetto all’enormità mediatica del caso. 

Katherine Alvarez, la venticinquenne mamma peruviana di Kata, oggi non va al supermercato dove lavora. È venuta con il marito e i loro avvocati ad affrontare le tv.

L’abbiamo incontrata dopo la sofferta conferenza televisiva. 

Perché questa decisione di parlare?

«Perché voglio la verità sulla mia bambina. E anche per dire a tutti che facciamo una raccolta fondi per pagare chi racconterà cosa ha visto. Io sono convinta che qualcuno di quelli che abitavano all’Astor sa cos’è successo e che non parli per paura».

I legali che assistono i genitori di Kata, Filippo Zanasi e Sharon Matteoni, hanno depositato due memorie dove suggeriscono alcune piste investigative che porterebbero anche all’ex albergo fiorentino teatro del mistero. 

Lei cosa pensa sia successo?

«Io sento che Kata è ancora viva. Qualcuno l’avrà presa e lei ora è da qualche parte, spero al sicuro». 

Un sequestro: a quale scopo visto che non è mai stato chiesto un riscatto?

«Chi l’ha fatto potrebbe essersi spaventato e non ha più chiesto nulla».

Una vendetta per un torto subito?

«Quale torto? Noi non abbiamo fatto del male a nessuno».

Il traffico di droga?

«Ma noi non c’entriamo proprio nulla con la droga».

Le bande degli affitti in nero dell’Astor...

«Non sapevo di queste cose, io ho pagato per entrare all’Astor». 

Dagli atti d’indagine risulta che sapeva e che il racket era controllato in parte dalla sua famiglia 

«Non è vero».

Accanto a Katherine c’è il marito, Miguel Angel Chicllo Romero (i due non vivono più insieme). «Anche se fosse che c’erano questi affitti, cosa c’entrano con il sequestro? Tu rischieresti una brutta condanna per 300 euro di affitto? Noi non abbiamo soldi... Io penso alla pedofilia, a qualcuno che l’ha venduta, c’è il traffico di organi…». Katherine, la Procura sta indagando i suoi parenti, due zii di Kata, per le tracce forse di sangue trovate nelle loro stanze, cosa ne pensa?

«Penso che non c’entrino nulla. Marlon poi è solo un ragazzo, ha 18 anni. Noi lo sapevamo da due mesi di queste tracce ma non sono di Kataleya, perché quelle stanze le avevamo lasciate una settimana prima della scomparsa. Non so perché ne parlino ora, perché?».

E gli altri indagati, le due donne e il romeno, che quel giorno uscivano dallo stabile con trolley e borsone?  Le sembra possibile che Kata possa essere stata portata via così?

«Mi sembra difficile ma è possibile. Quelli però io non li conosco». 

(...)

I magistrati pensano che lei e suo marito non abbiate raccontato tutto…

«Io ho detto tutto, si tratta di mia figlia». 

Non crede che una raccolta fondi, una sorta di taglia sui responsabili, sia un po’ pericolosa? Qualcuno potrebbe depistare per convenienza, anche solo per soldi… «Pagheremo solo se le informazioni serviranno a ritrovare Kataleya. L’obiettivo è individuare la mia bambina e a questo punto non vedo altri modi».

Uno scambio di persona?

«Non lo escludo».

Ha mai pensato che Kata potrebbe non esserci più?

«Non voglio credere a questa cosa. Ho la speranza di trovarla viva, il cuore mi dice questo».

(…)

Le indagini sul rapimento della piccola Kataleya proseguono. Ma il tema è quello degli sgomberi. Firenze, cosa non ha funzionato per lo sgombero dell’ex Hotel Astor? Se fosse stato effettuato prima lo sgombero dell’e Hotel Astor, stabile occupato di Firenze, la piccola Kata sarebbe stata rapita lo stesso? Nei prossimi giorni un nuovo sopralluogo. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 19 Settembre 2023 

Per la Procura di Firenze a rapire la piccola Kataleya ‘Kata’ Alvarez dall’ex hotel Astor il 10 giugno scorso sarebbe stati dunque tre uomini e due donne, quest’ultime cugine. Sono peruviani, tranne un uomo romeno, tutti già occupanti abusi dell’albergo. Due di essi, in particolare, sono gli zii della piccola. Gli inquirenti sono arrivati a loro grazie alle immagini delle telecamere che li mostrano mentre escono dall’Astor dopo la scomparsa della bimba, lo stesso pomeriggio del 10 giugno, con dei bagagli, un borsone e due trolley, che hanno dimensioni tali da potervi eventualmente nascondere la bambina e portarla fuori.

Per gli inquirenti ci sarebbe però stato uno scambio di bambina per una partita di droga non pagata: non sarebbe stata infatti Kata da rapire come punizione, ma un’amichetta con cui lei giocava, ossia la figlia della donna convivente di un peruviano fuggito nel 2022 nel suo paese ed il quale abbandonò 13 chili di marijuana in una casa di Rifredi. La donna e la bimba, rimaste sole, andarono poi a vivere all’Astor.

La scorsa settimana il Riesame di Firenze ha anche confermato le quattro misure cautelari nei confronti di altrettanti cittadini peruviani, emesse il 5 agosto dal giudice per le indagini preliminari di Firenze, su richiesta della Dda. Nei confronti dei quattro le accuse sono di estorsione e rapina, tra il novembre 2022 e il 28 maggio 2023, e di tentato omicidio e lesioni gravi ai danni di alcuni occupanti della struttura che era stata occupata abusivamente nel settembre dello scorso anno da cittadini peruviani e rumeni.

Nei prossimi giorni, comunque, è in programma un nuovo sopralluogo all’ex Astor. Prima occorrerà rimuovere i detriti prodotti dalle precedenti ispezioni degli investigatori e suppellettili abbandonati dagli occupanti. Per cercare tracce al sequestro di Kata, i tecnici potrebbero decidere di scavare nel perimetro dell’ex albergo e di svolgere attività impattanti nella struttura. I magistrati hanno anche pianificato una serie di accertamenti tecnici irripetibili finalizzati a verificare la presenza e la natura di “materiale biologico o genetico” e ad estrapolare eventuali profili di Dna dai bagagli che sono stati sequestrati.

“Non possiamo mai perdere la speranza che la piccola Kata sia ritrovata e sia sana e salva. Il fatto che la Procura abbia disposto l’indagine su nuove persone ci fa capire che può esserci uno sviluppo anche importante. Non possiamo entrare nel merito delle indagini, ovviamente, ringrazio l’Arma dei carabinieri che sta facendo un lavoro molto importante fin dai primi giorni”, ha dichiarato l’altro giorno il sindaco di Firenze, Dario Nardella.

“Purtroppo – ha proseguito il sindaco – la vicenda drammatica della piccola Kata ci sta facendo capire che ci sono sacche di gruppi etnici che sono dedite alla delinquenza, questa povera bimba si è trovata suo malgrado in questa situazione e dall’altro lato accende i riflettori su un aspetto di cui si parla davvero poco, ad esempio la scomparsa dei minori nel nostro Paese”. “Quando dico che le statistiche del ministero ci trasmettono dati sconvolgenti, ovvero che ogni giorno in Italia spariscono 30 minori, le persone restano sbigottite. Questo è un fatto preoccupante che purtroppo cresce ogni anno e che ci deve far alzare il livello di guardia su tutte quelle situazioni in cui sono coinvolti minori”, ha aggiunto Nardella.

Il tema, comunque, è sempre quello degli sgomberi. Nel caso dell’Astor, lo sgombero era stato effettuato solo 17 giugno, circa una settimana dopo la scomparsa di Kata. Da Palazzo Vecchio hanno fatto sapere che l’attuale amministrazione ha già condotto 60 sgomberi in città e con i governi nazionali di ogni colore politico. Ad ogni modo, Nardella ha riconosciuto che nel caso dell’ex hotel Astor qualcosa non ha funzionato per il verso giusto. “Fin dal primo giorno come Comune di Firenze avevamo chiesto lo sgombero – ha ricordato – sappiamo infatti ormai per esperienza che bisogna intervenire non appena gli immobili vengono occupati, altrimenti il nucleo di persone che occupa fa arrivare altre persone ancora. È mancata la decisione del Comitato dell’ordine pubblico (composto dal prefetto e dai vertici delle Forze di polizia, ndr), sono procedure che chiamano in causa il parere delle forze dell’ordine e poi la decisione del Comitato”. Se fosse stato effettuato prima lo sgombero dell’Astor? Kata sarebbe stata rapita lo stesso? Una domanda a cui è impossibile dare una risposta. Paolo Pandolfini

Da open.online - Estratti giovedì 21 settembre 2023.

Una testimone nel caso di Kataleya Alvarez dice che la bambina scomparsa dall’ex hotel Astor a Firenze è stata chiamata da una donna prima di sparire. Si tratterebbe della stessa persona che secondo i genitori non ha detto tutto quello che sa. La testimone parla oggi con l’edizione fiorentina di Repubblica. 

Il suo ricordo parte dalle 15 del 10 giugno scorso. «Io abito accanto all’albergo. Per un periodo ci ho anche lavorato prima che chiudesse per la pandemia. Quel giorno ero andata a correre e sono passata davanti ai cancelli dell’Astor. Ricordo bene di aver visto la bambina che usciva, c’era anche il suo fratellino. In quel momento una donna che si trovava nel cortile l’ha chiamata. Kataleya si è voltata indietro quasi piangendo. Forse perché voleva restare fuori. Poi la donna ha chiuso il cancello. Perché l’ha chiamata?».

(...) La testimone quindi aggiunge un elemento a quello che si vede nel video. E spiega perché Kata è rientrata nell’hotel invece di rimanere con gli altri bambini. Perché, secondo questa versione, qualcuno l’avrebbe chiamata indietro. Una voce di donna, secondo la testimone. Che, da quello che sembra, l’avrebbe anche vista chiudere il cancello. Anche se questo dettaglio nel filmato non si vede. «Quella donna dell’hotel gestiva e dava ordine», aggiunge la testimone.

I genitori e la donna

I genitori di Kata si sono spesso appellati agli ex residenti dell’hotel Astor. In almeno una circostanza si sono appellati direttamente proprio a questa donna, spiega il quotidiano. Che però con i magistrati non sembra aver parlato. «Quando più tardi sono tornata a casa già stavano cercando la bambina perché non la trovavano più, sono arrivati anche i carabinieri», fa sapere ancora la testimone. «Ho visto spesso quella donna e gli altri bambini. I cancelli dell’albergo erano spesso aperti, entravano e uscivano in strada. E chi abita in questo quartiere conosce la situazione che c’era là dentro. Secondo me quella donna sa qualcosa. Dai carabinieri? Non sono andata, ma se mi cercano racconterò queste stesse cose».

Estratto dell’articolo di Luca Serranò per firenze.repubblica.it martedì 26 settembre 2023.

Non appartiene alla piccola Kataleya la traccia di sangue rinvenuta nel bagno della stanza 104 dell'ex Astor, in uso oltre che alla bambina scomparsa anche a due zii (materno e paterno) finiti sotto indagine per sequestro di persona. 

Il genetista Ugo Ricci, che aveva ricevuto l'incarico dalla procura di estrapolare eventuali campioni di Dna e compararli con quello della piccola, ha consegnato una prima relazione in cui si certifica appunto l'assenza di tracce sangue riconducibili a Kata. 

Nessuna traccia biologica, inoltre, sarebbe stata rilevata nelle valigie sequestrate due settimane fa ad altri tre indagati, due cittadine peruviane e un romeno; due di loro, in particolare, erano stati ripresi dalle telecamere mentre uscivano dall'ex Astor con quei bagagli, proprio a ridosso della scomparsa.

Le indagini continuano ora sugli altri fronti paralleli, dall’ipotesi del rapimento a scopo di estorsione a quella dello scambio di persona . Al tempo stesso si continua a scavare nel contesto familiare, e sui rapporti che  alcuni parenti e lo stesso zio materno – tra i ras dell’occupazione, ancora detenuto in carcere con accuse di estorsione e tentato omicidio- avrebbero avuto con ambienti criminali. […]

Firenze, la scomparsa di Kata maturata nel degrado dell’ex Hotel Astor: il ritardo della Procura e la conferma del Ministero. Un documento del Ministero degli Interni convalida la tesi rispondendo al “question time” sulla vicenda presentato alla Camera dei deputati da Maria Elena Boschi. Sul caso intanto la nebbia è fitta, e le certezze sono nulle. Daniele Bertini su Il Riformista il 13 Ottobre 2023 

Prima della scomparsa di Kata, la bambina peruviana sparita a Firenze il 10 giugno scorso, “il Comando provinciale dei carabinieri di Firenze non ha ricevuto alcuna delega dall’autorità giudiziaria, né richieste straordinarie di rafforzamento delle misure di sicurezza nei pressi dell’ex Hotel Astor. Inoltre, nella informativa del 21 settembre all’autorità giudiziaria, la locale Digos comunicava che la proprietà dell’immobile, nella denuncia sporta presso il medesimo Ufficio in data 19 settembre 2022, aveva richiesto l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo e l’immediata liberazione dell’immobile”. È quanto conferma un documento del Ministero degli Interni che risponde al “question time” sulla vicenda presentato alla Camera dei deputati da Maria Elena Boschi.

Il Comando generale dell’Arma conferma dunque quello che da tempo a Firenze sostengono in molti: la Procura avrebbe sostanzialmente atteso molto, troppo, prima di intervenire nell’ex albergo occupato abusivamente.

Un immobilismo che di fatto avrebbe tollerato la situazione di estremo degrado nella quale è maturata la scomparsa della bambina di 5 anni sparita misteriosamente, nonostante le molte telecamere attive nella zona e le tantissime persone presenti sul posto al momento del presunto rapimento. Da allora sono trascorsi 144 giorni ma nessun elemento si è rivelato utile per capire almeno quale pista seguire e dove provare a cercare la piccola. Ogni mese i genitori guidano una marcia per chiedere verità e giustizia, tutte le volte restano a mani vuote e il loro dolore si unisce a quello di una piccola comunità che si è stretta attorno a loro.

Nemmeno il presunto rapimento della bambina sarebbe stato elemento sufficiente per provvedere all’intervento, se è vero, come vero, che da viale Guidoni si attese ancora una settimana prima di disporre l’azione per liberare la struttura. Insomma arriva la conferma che, se lo sgombero fosse stato eseguito nei tempi richiesti, con ogni probabilità Kata non sarebbe stata rapita e una lunga scia di comportamenti criminosi sarebbe stata evitata.

Anche per questo da oltre quattro mesi le domande che tutti si pongono sono sempre le stesse: perché non è stato firmato subito il decreto di sgombero? Perché si è fatta passare una settimana in cui tutto può essere accaduto all’interno di quelle mura? Perché si è rischiato di compromettere qualche pista utile per le indagini?

Al momento però la nebbia è fitta e le certezze sono praticamente nulle; di definito ci sono solo pochi elementi emersi subito dopo la scomparsa di Kata e sono forniti da una delle 1500 telecamere a disposizione delle autorità su tutto il territorio fiorentino. È vero, non si poté intervenire in flagranza di reato il 18 settembre, si ricorda ancora nella nota prodotta negli uffici del Viminale ma già tre giorni dopo, il 21 settembre “il personale della locale Digos intervenuto nell’occasione ha denunciato gli occupanti maggiorenni a norma dell’art. 633 del codice penale depositando la notizia di reato presso la Procura della Repubblica il giorno seguente” come si legge sempre nella risposta del Ministero degli Interni.

Dal 22 settembre 2022, quasi nove mesi prima della sparizione di Kata, si sarebbe quindi potuto procedere e ristabilire una situazione di legalità. Ma nulla si mosse, come niente è accaduto nei mesi che sono seguiti. La relazione del Ministero è tanto fredda quanto chiara: “Successivamente alla ricezione dell’informativa, l’autorità giudiziaria ha richiesto alla Questura di effettuare un accesso nell’ex Hotel per un censimento dei soggetti presenti all’interno, cui si dava esecuzione il 17 novembre 2022, unitamente a personale dei Servizi sociali del Comune di Firenze. La Questura informava la Procura della Repubblica circa tale attività il 28 dicembre 2022”. Anche allora si optò per l’immobilismo.

La questione dell’ex Astor è stata discussa anche nei Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica del 21 settembre, del 19 ottobre 2022 e del 22 febbraio 2023. Ma niente ha smosso gli animi della Procura, che è poi dovuta necessariamente intervenire dopo il Comitato provinciale del 16 giugno di quest’anno, al termine del quale è stato finalmente emanato il “decreto di sequestro preventivo” adottato dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Firenze, su richiesta finalmente presentata dal Pubblico Ministero sempre in data 16 giugno 2023.

“Secondo le indicazioni fornite nel corso del Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica svoltosi nella mattina del 16 giugno cui si è fatto cenno, nella mattina del 17 giugno è stata data esecuzione al decreto di sequestro preventivo – ricorda la nota del Ministero -. Le relative operazioni si sono svolte senza pregiudizio per l’ordine pubblico”. Prima dello sgombero però nei primi tre mesi di quest’anno sono state presentate cinque querele, tutte trasmesse all’Autorità giudiziaria, da parte di occupanti dello stabile, per fatti verificatisi all’interno dello stesso, nello specifico una per “furto in abitazione”, una per “violenza privata” e “minaccia”, tre per “maltrattamenti in famiglia”. Campanelli d’allarme puntualmente ignorati da chi avrebbe potuto intervenire in tempo. Daniele Bertini

Firenze, la madre di Kata e la rissa in discoteca: cosa è successo al Tenax. Antonella Mollica su Il Corriere della Sera martedì 21 novembre 2023.

Katherine Alvarez, la mamma della bambina scomparsa, denunciata per lesioni aggravate dopo aver accoltellato una 21enne. La polizia indaga: ci sono collegamenti con quanto accaduto a Kata?

Una serata in discoteca come tante, un incontro casuale nel bagno del locale e le vecchie ruggini tra due rivali in amore esplodono. È finita nei guai Katherine Alvarez, la mamma di Kata, la bambina peruviana di 5 anni scomparsa dall’hotel Astor il 10 giugno scorso. La notte tra domenica e lunedì è stata denunciata per lesioni aggravate per avere colpito con un coltello una connazionale di 21 anni nel bagno della discoteca Tenax di via Pratese.

La vittima è stata soccorsa da un’ambulanza del 118 ed è stata portata all’ospedale di Careggi dove i medici hanno riscontrato e suturato 5 ferite lacerocontuse alla testa e al viso, per una prognosi di 20 giorni. 

Il coltello non è stato però trovato.

La mamma di Kata ha detto di essere stata aggredita e di essersi difesa ma la ventunenne ha raccontato un’altra versione: Katherine l’avrebbe aggredita per vecchi rancori sentimentali. Le due donne si sarebbero trovate in bagno, avrebbero iniziato a discutere animatamente, poi a litigare, infine si sarebbero prese dai capelli. Ad avere la peggio è stata la giovane peruviana dal momento che evidentemente Katherine aveva un coltello.

A chiamare la polizia alle due di notte sono stati gli altri ospiti della discoteca. Quando gli agenti sono arrivati al Tenax hanno trovato la donna che veniva soccorsa dal 118 e la folla intorno a lei che indicava Katherine, la mamma di Kata, come l’autrice dell’aggressione. 

Saranno adesso le indagini degli investigatori a fare luce su quanto accaduto e soprattutto a capire se ci possa essere qualche connessione tra quanto accaduto e la scomparsa di Kata. 

Sono ormai passati 5 mesi e mezzo dal giorno in cui la piccola peruviana è stata ripresa dalle telecamere di sorveglianza a giocare dentro l’albergo occupato abusivamente per poi sparire nel nulla. Una settimana dopo l’hotel è stato sgomberato. 

«Ma li manteniamo ancora noi gli ex occupanti dell’Astor?» chiedono i consiglieri comunali di Fratelli d’Italia Alessandro Draghi e Jacopo Cellai. «A quattro mesi dallo sgombero, a causa di una delibera di giunta che ha reso indiscriminata l’accoglienza degli ex occupanti, gli stessi trovano ancora ospitalità nelle strutture pagate dal Comune. Una vergogna».  

Daniele Potenzoni

Secondo il padre, è lui. Video. Chi è Daniele Potenzoni: il 36enne autistico scomparso nel 2015 riconosciuto dal padre in un video dall’est. Affetto da disturbi autistici scompare nel nulla alla stazione metropolitana di Roma Termini. Da allora, i genitori non hanno smesso di cercarlo. Redazione Il Riformista il 9 Giugno 2023 

Dal 2015, dal giorno della scomparsa di Daniele Potenzoni, la città di Roma non ha mai smesso di essere tappezzata da volantini e manifesti con il volto del 36enne autistico svanito nel nulla alla stazione di Roma Termini.

Il 10 giugno 2015 alla stazione della metropolitana di Termini mentre si dirigeva con una comitiva in piazza San Pietro, per partecipare ad un udienza papale è semplicemente sparito. Il suo caso è stato seguito da diverse testate e trasmissioni in questi anni ed è diventato piuttosto noto, anche perché i genitori distrutti dal dolore non hanno mai smesso di cercarlo.

Una donna, il 9 giugno, ha pubblicato un video in un gruppo Facebook dedicato alla scomparsa in cui si vede un uomo che assomiglia molto alle foto segnaletiche di Potenzioni create con l’age progression, cioè con la tecnica che permette di cambiare la foto di una persone in modo da mostrare l’impatto dell’invecchiamento sul suo aspetto.

L’identifik sembra corrispondere: alto un metro e ottanta circa, corporatura magra, naso schiacciato e storto, occhi castani. Secondo il padre, è lui.

Commentando il video di questi giorni, il padre ha dichiarato: “Sembra proprio lui, anzi, per noi fino a prova contraria è lui! Ci auguriamo che qualcuno ci chiami e che vengano fatte tutte le verifiche. Si sentono frasi che potrebbero essere in russo, o in una lingua simile, e un’idea ce la siamo fatta… Quale? Il nostro Daniele potrebbe essere finito nelle grinfie di zingari romeni o di altra nazionalità che se lo portano in giro per il mondo, sfruttando la sua fragilità, usandolo per chiedere elemosina in qualche spettacolino di strada o circense”.

Daniele Potenzoni, scomparso nel 2015: un video riaccende le speranze. Il padre: «Forse usato per spettacoli di strada». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.

Nel filmato, girato in un bosco, una voce dice: «Arnold Schwarzenegger nel film Terminator». Il disabile sparì nella metro a Roma, mentre andava all'udienza del Papa

Daniele Potenzoni e il mistero della sua scomparsa: esattamente 8 anni dopo si riaccende la speranza di ritrovare il giovane disabile con problemi di autismo che ormai tutta Italia conosce. Era la mattina del 10 giugno 2015 quando quel ragazzone dal naso storto e i capelli radi, a Roma con altri pazienti del centro diurno di Melegnano (Milano) per partecipare all'udienza di papa Francesco, sparì nella fermata del metrò della stazione Termini. Una vicenda assurda: la banchina era stracolma di passeggeri, le porte del convoglio si aprirono, il 36enne salì mentre gli altri, compresi i due accompagnatori (uno fu in seguito processato e assolto), rimasero fuori. Da quel momento, buio totale. Nonostante le centinaia di segnalazioni, gli appelli di personaggi pubblici (qui quello di Francesco Totti), le lettere della famiglia alle massime autorità, i vertici investigativi, il disabile non è mai tornato a casa.  

Adesso, la nuova speranza è innescata da un video che una signora ha postato nella pagina Fb dedicata a Daniele, dopo averlo scaricato da Instagram. Un filmato che ha colpito molto i genitori e i fratelli, Luca e Marco, per i tratti e le espressioni che mostrano «una somiglianza impressionante».  Ci sono due uomini e un cane, nella radura di un bosco. La  persona non inquadrata in volto dice: «Arnold Schwarzenegger nel film Terminator». A terra, seduto, c'è l'uomo che potrebbe essere lo scomparso. « Sembra proprio lui, anzi, per noi fino a prova contraria è lui! - esclama Francesco Potenzoni, il padre, dalla casa di famiglia a Pantigliate - Ci auguriamo che qualcuno ci chiami e che vengano fatte tutte le verifiche. Si sentono frasi che potrebbero essere in russo, o in una lingua simile, e un'idea ce la siamo fatta...» Quale? «Il nostro Daniele potrebbe essere finito nelle grinfie di zingari romeni o di altra nazionalità che se lo portano in giro per il mondo, sfruttando la sua fragilità, usandolo per chiedere elemosina in qualche spettacolino di strada o circense». 

Aggiunge papà Potenzoni: «La citazione nel video dell'attore famoso potrebbe quindi spiegarsi, così come la presenza del cagnolino: mio figlio ama tantissimo gli animali. Ho appena sentito il nostro avvocato che mi ha detto di aspettare ancora un po', massimo un giorno, prima di presentare denuncia alla polizia postale. Partendo da Instagram - conclude - non dovrebbe essere difficile identificare sia l'autore del filmato sia il luogo in cui è stato girato». Luca, il fratello minore che a Daniele dedicò una canzone, ci conta molto: «Sono 8 anni che riceviamo segnalazioni, ma questa le supera tutte: sono rimasto sconvolto. L'uomo del video è una goccia d'acqua: nei lineamenti, nella postura, nel modo in cui si muove. Aspetto, fiducioso come non mai». (fperonaci@rcs.it) 

Madeleine 'Maddie' McCann.

Estratto dell'articolo di leggo.it il 22 maggio 2023.

La polizia ha avviato una imponente ricerca del corpo di Madeleine McCann in un bacino idrico nella regione portoghese dell'Algarve. I poliziotti tedeschi stanno guidando le ricerche nel luogo piuttosto isolato che credono fosse frequentato dall'accusato Cristian Brueckner. La ricerca ufficiale inizierà domani (23 maggio) ma le strade della zona sono già chiuse dalla polizia portoghese vicino alla città di Silves. […] 

Si tratta della prima operazione del genere dal 2014 a Praia da Luz, in Portogallo, dove la bimba è scomparsa. Questa volta si prevede che gli scavi riguarderanno sia i boschi attorno alla grande diga artificiale e al bacino idrico, sia nell'acqua del bacino stesso.

[…]

Gli ufficiali si concentreranno sul bacino idrico di Barragem do Arade vicino a Silves, un luogo in cui un testimone oculare avrebbe detto di aver visto una donna dare una bambina che assomigliava a Madeleine McCann a un uomo nei giorni successivi alla scomparsa del bambino. Un testimone della zona ha rivelato: "Ci sono circa due dozzine di ufficiali della Policia Judiciaria che sembrano supervisionare le cose in questa fase". 

La bambina è scomparsa dalla sua camera d'albergo nell'appartamento per le vacanze di Praia da Luz il 3 maggio 2007.

[…] Cristian Brueckner, 45 anni, è attualmente dietro le sbarre per lo stupro di una donna americana avvenuto nel settembre 2005. Nell'autunno 2022, è stato accusato di diversi crimini sessuali in Algarve contro donne e bambini, tra cui lo stupro di un rappresentante delle vacanze irlandesi nel 2004 e l'abuso sessuale di una bambina di 10 anni vicino a Praia da Luz nel 2007. Non ha affrontato accuse formali per la scomparsa di Madeleine.

Madeleine McCann, la polizia riprende le ricerche nella diga di Arade. In tutta Italia i cittadini si mobilitano contro le grandi navi da crociera. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 22 maggio 2023.

Per molte persone l’arrivo della bella stagione è sinonimo di partenze. Il nostro Paese è da sempre meta turistica d’eccellenza, e ogni anno si prepara a vedere i suoi mari solcati da migliaia di grandi navi. Uno stress per ambiente e persone residenti in città dotate di porti su cui associazioni e cittadini di nove località marinare hanno deciso accendere i riflettori. “Stop inquinamento navale” si legge sugli striscioni appesi il 20 maggio nei porti di Savona, Genova, La Spezia, Livorno, Venezia, Reggio Calabria, Ancona, Civitavecchia, Olbia, Napoli. Uno slogan che «mira a sensibilizzare le amministrazioni e autorità competenti, chi lavora in porto e la popolazione locale sull’impatto che l’industria navale ha, oggi, su queste città, sulla salute delle persone e sull’ambiente marino».

Uno dei problemi principali è che per muoversi , ancora oggi, e nonostante il mondo cerchi di andare nella direzione opposta, le navi da crociera – che in realtà sono delle enormi città galleggianti – utilizzano combustibili estremamente inquinanti. Tra questi, per esempio, c’è l’heavy fuel oil (HFO), un carburante cioè ricavato dagli scarti di lavorazione dei prodotti petroliferi. Un sottoprodotto cioè di un prodotto già di per sé altamente inquinante, e che quindi emette enormi quantità di sostanze tossiche. Queste, inevitabilmente, finiscono per riempire l’aria delle città di porto, anche quando i fumi fuoriescono in mare aperto, lontani dalla terraferma. Una situazione che peggiora una volta approdate in porto: qui le navi, per facilitare manovre e ormeggio, si muovono lasciando i motori accesi, così da tenere in funzione tutti i comandi di bordo.

«Chiediamo l’adozione urgente di misure per proteggere innanzitutto la salute delle persone dalla minaccia rappresentata dai fumi delle navi, alle quali ancora oggi viene permesso di inquinare con delle modalità che sulla terraferma non sarebbero mai consentite» scrivono gli organizzatori della protesta, fortemente voluta dalla Onlus ‘Cittadini per l’aria’ e da tutte le altre associazioni che fanno parte della rete ‘Facciamo Respirare il Mediterraneo’. Di che misure si tratta?

Secondo i gruppi, per ridurre le emissioni è prima di tutto essenziale occuparsi dell’efficientamento delle navi, che siano cioè in grado di utilizzare sistemi e metodi che riducano sensibilmente i consumi. Fondamentale, poi, la scelta di un carburante adatto e l’impiego di filtri e catalizzatori che ‘intrappolino’ le emissioni di particolato e ossidi di azoto. Richieste a cui si aggiungono quella di ridurre la velocità di navigazione e di elettrificare le banchine: in questo modo le emissioni della barca nei momenti di ingresso in un porto, o durante la sosta e l’uscita, potrebbero quasi azzerarsi installando a bordo un’alimentazione a batteria, da abbinare ad un impianto di alimentazione e ricarica elettrica da terra. «È un invito alle autorità e agli armatori a ripensare lo sviluppo per questa industria che è di grande valore per il nostro Paese, ma non può più prescindere dalla riduzione delle emissioni» e da controlli più rigidi, che ad oggi «non esistono di fatto e sono vanificati dalle norme ambigue che tutto consentono».

In generale uno studio ha rilevato che le navi da crociera che in media circolano nelle acque europee inquinano 20 volte di più di tutte le auto che percorrono le strade del continente, e che dormire su una di queste ‘città galleggianti’ consuma 12 volte l’energia utilizzata in hotel. Tant’è che, non a caso, nel 2020 la multinazionale Mediterranean Shipping Company (MSC), colosso della logistica e delle crociere, si è ‘guadagnata’ il sesto posto tra i dieci maggiori emettitori europei di anidride carbonica. [di Gloria Ferrari]

Estratto da leggo.it il 19 febbraio 2023.

Quello di Madeleine 'Maddie' McCann è uno dei misteri più assurdi degli ultimi decenni: una bambina letteralmente scomparsa nel nulla da 16 anni, e che non è mai stata ritrovata. Ora sui social una ragazza sostiene di essere lei e insiste per fare un test del Dna e parlare con i genitori di Maddie, che dal 2007 combattono con l'incubo di non sapere che fine abbia fatto la loro figlioletta scomparsa nell'Algarve, in Portogallo, che all'epoca aveva appena 4 anni […]

 La giovane che si spaccia per Maddie è tedesca e ha iniziato da qualche tempo a postare foto e video su Instagram e TikTok in cui ripete di essere sicura di essere lei la bambina scomparsa. […]

Per il rapimento e per l'omicidio è finito in carcere un presunto pedofilo tedesco, Christian Brueckner. Nella sua ultima story su Instagram, la ragazza sostiene di aver parlato con qualcuno vicino alla famiglia di Maddie e che presto li incontrerà e farà un test del Dna.

 La ragazza racconta di aver iniziato a chiedersi se fosse lei la bambina scomparsa 'qualche mese fa', ma gli inquirenti non hanno alcuna intenzione di ascoltarla: tra le sue 'prove' infatti ci sarebbero una lentiggine su una gamba e una macchiolina nell'occhio, un po' poco per avere davvero una speranza. [...]

Una ventenne polacca: "Sono Maddie. Lo proverò". Annuncio clamoroso di una giovane polacca di 21 anni su Instagram. Redazione il 21 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Annuncio clamoroso di una giovane polacca di 21 anni su Instagram. La donna, che di nome fa Julia Wendell, si è presentata sostenendo di essere convinta di essere Madeleine McCann, meglio nota come Maddie, la bimba inglese di tre anni scomparsa nel maggio 2007 in Portogallo e mai più ritrovata. L'annuncio è diventato virale, così come le prove da lei stessa pubblicate, per dimostrare di essere effettivamente la piccola di cui si sono perse le tracce oltre 15 anni fa.

I genitori di Maddie, oggi 52enni, peraltro genitori di due gemelli 17enni, Sean e Amelie, sarebbero aperti alla possibilità di eseguire il test del Dna (così sostiene Julia, ma la notizia non è stata confermata) e questo anche se diversi media ritengono che la versione della donna non sia convincente. La segnalazione di Wendell è partita nel fine settimana da un account chiamato iammadeleinemcann («Sono Madeleine Mccann»), che Julia ha usato per condividere «prove» che sia effettivamente lei la bimba scomparsa. Si tratta di una serie di fotografie che dimostrerebbero la sua somiglianza con Madeleine e i suoi genitori, Kate e Gerry McCann, segni sul corpo e una struttura facciale che lei ritiene identica, oltre a un difetto oculare come quello della piccola scomparsa.

Ad aver acceso il sospetto sulle proprie origini - racconta Julia - sono state le domande inevase della madre quando le chiedeva foto della gravidanza e cartelle cliniche. Tra l'altro, quando era molto giovane, il suo insegnante le aveva detto che non era presente a scuola sin dall'inizio, anche se i genitori le avevano assicurato il contrario.

Originaria del Leicestershire nel Regno Unito, Madeleine è scomparsa dal suo letto in un appartamento per vacanze nella località turistica portoghese di Praia da Luz la sera del 3 maggio 2007, mentre i genitori stavano mangiando in un ristorante a pochi metri dalla loro villa, nella regione dell'Algarve. Maddie aveva allora tre anni, pertanto se fosse viva oggi, ne avrebbe 19 e non 21. Ma questo non toglie a Julia la convinzione di essere la piccola scomparsa.

In pochi giorni ha macinato milioni di visualizzazioni riaprendo il caso. Maddie McCann, i genitori della ragazza che dice di essere la bambina scomparsa e chiede test del dna: “Siamo devastati”. Elena Del Mastro su Il riformista il 27 Febbraio 2023

Ha aperto un profilo su Instagram dall’evocativo titolo “immadeleinemcan”, “Io sono maddie MaCann”, e ha iniziato a pubblicare di continuo post che raccontano i motivi delle sue convinzioni. E a chiedere di poter fare il test del Dna. È bastato poco e nel giro di pochi giorni per le affermazioni di Julia, ragazza polacca di 21 anni, si è tornato a parlare della scomparsa della bimba avvenuta in Portogallo nel 2007. Le parole della ragazza hanno fatto il giro del mondo. Gli investigatori polacchi e inglesi hanno ignorato il suo appello a sottoporsi al test del dna e da qui l’esigenza di trovare un modo “via social” di arrivare ai coniugi McCann, come lei stessa ha spiegato in uno dei video postati.

Per gli investigatori la storia non è credibile perché secondo l’ultima ipotesi, Maddie sarebbe stata uccisa poco dopo la sua sparizione dal pedofilo tedesco Christian Brueckner. Ma la ragazza su Instagram insiste e pubblica le foto in cui sostiene che ci siano somiglianze con la piccola: la macchiolina nell’occhio, quelle sulle gambe e i tratti somatici. In realtà la somiglianza sembrerebbe poca. La 21enne sostiene di essersi iniziata a insospettire quando sua nonna ha fatto delle allusioni sul suo passato. E così si è convita di essere Maddie, anche se l’età anagrafica non corrisponde perché Maddie oggi avrebbe 19 anni.

Ma la storia ha navigato il web ed è arrivata molto lontano, tra chi le ha creduto e chi ha iniziato a criticarla. Dopo le ultime dichiarazioni della ragazza polacca, però, è arrivata la smentita da parte della sua famiglia attraverso un ente di beneficenza polacco chiamato “Missing Years Ago”. I genitori di Julia sostengono che la ragazza voglia farsi pubblicità: “Abbiamo sempre cercato di aiutarla a rimettersi in piedi. Julia è oramai maggiorenne. Se ne è andata da tempo via di casa. Una volta voleva diventare una cantante, poi una modella. Insomma, ha sempre voluto essere popolare. E per quello che sta succedendo ora è riuscita ad avere un milione di follower. Temiamo che il suo comportamento porti a un’inevitabile conseguenza. Internet non dimentica, ed è ovvio che Julia non è Maddie. Siamo devastati da questa situazione”, hanno fatto sapere. Aiutatemi”, riporta SkyTg24. Intanto sul profilo Instagram la ragazza ha già condiviso oltre 50 post e, in una settimana, ha collezionato più di un milione di follower.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Alessandro Venturelli.

Alessandro Venturelli scomparso da 27 mesi: «Oggi è diventato così». Andrea Melli su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023

Venturelli è scomparso da Sassuolo e la madre è convinta che sia in Olanda. Ha diffuso, anche attraverso una pagina social per le ricerche, la foto elaborata da un tecnico che lo mostra con capelli e barba lunga 

Alessandro Venturelli, com'era e a destra  la foto di come potrebbe essere oggi

Ventisette interminabili mesi, ventisette mesi di rumorosa assenza, tanto è trascorso da quando Alessandro Venturelli ha fatto perdere le proprie tracce. E nei giorni scorsi, l’esperto informatico, incaricato dalla famiglia, Salvatore Filograno, ha rielaborato un’immagine che va a raffigurare come potrebbe essere ora Alessandro. Barba lunga ed incolta, una folta chioma riccia, Alessandro sarebbe cambiato – abbastanza comprensibilmente dopo quasi due anni e mezzo – e non poco. «É stata un’escalation, il cambiamento grosso risale a 10 giorni prima della scomparsa dove dice che lui ha paura e che si sente manipolato», ha raccontato nella puntata di Quarto Grado, programma di approfondimento di Rete 4, la mamma di Alessandro, Roberta Carassai. 

Le ricerche e la pista che porta in Olanda

Non si è mai arresa la donna, che affiancata dal marito nelle settimane precedenti aveva annunciato che ci sarebbe potuto essere un nuovo elemento, utile alla ricerca del figlio. La foto sarà spedita alla squadra mobile della Polizia, e verrà fatta circolare sia in Italia che in Europa: la famiglia è fermamente convinta che Alessandro sia in vita. Le segnalazioni giunte dall’Olanda sono purtroppo cadute dall’oblio, e anche quando Roberta si recò personalmente ad Amsterdam affiancata dalla troupe della trasmissione Rai «Chi l’ha visto?», non riuscì a rientrare con elementi particolarmente utili per la ricerca. 

Un colpo al cuore forte, cuore che non ha mai smesso di battere: Roberta, come il marito Alessandro non si daranno, fino a che non lo avranno ritrovato, per vinti. «Mi diceva mamma stai attenta quando vai in giro, che non ti facciano del male. La notte prima della scomparsa è stata la prima in cui ha voluto dormire da solo», ha raccontato Roberta, che ha ricordato gli attimi di quel maledetto 5 dicembre 2020. Alla mattina Alessandro era particolarmente nervoso, tanto da rompere gli occhiali della madre. Uno degli ultimi frammenti di vita «normale», prima di uscire – nonostante il tentativo dei genitori di fermarlo - e lasciare il cellulare all’interno delle mura domestiche. Se sia davvero o meno in Olanda, in quelle condizioni, impossibile dirlo. «Faccio molta fatica ad immaginarlo come un clochard, ma devo tenere presente che quello che è andato via da casa, non era il ragazzo che conoscevo io».

Marianna Cendron.

Marianna Cendron, 10 anni dopo la scomparsa. La mamma: «Tremiamo ogni volta che viene trovato un cadavere». Nicola Rotari su Il Corriere della Sera il 26 Febbraio 2023.

Treviso: Marianna Cendron scomparve il 27 febbraio di 10 anni fa. La madre: «Sappiamo che c’è la possibilità che l’epilogo sia peggiore di quanto speriamo ma nonostante tutto la sensazione è che lei sia ancora viva»

«Noi pensiamo e crediamo sia ancora viva, continuiamo a cercarla: queste sono le nostre sensazioni. Ci spaventa l’idea di trovare un corpo e quando ne viene trovato uno di donna, come qualche giorno fa a Marghera, temiamo sempre possa essere lei. Sappiamo che c’è la possibilità che l’epilogo sia peggiore di quanto speriamo ma nonostante tutto la sensazione è che lei sia ancora viva». A parlare è Emilia Michielin, mamma adottiva di Marianna Cendron, scomparsa dieci anni fa, nel 2013, quando aveva 18 anni. 

La scomparsa

Lei e il marito Pierfrancesco non si sono mai arresi all’idea di aver perso per sempre la loro ragazza anche quando abbandonarsi alla rassegnazione sarebbe la via più agevole. Mary oggi avrebbe 28 anni e da quel maledetto 27 febbraio di dieci anni fa è sparita nel nulla dopo aver terminato il turno di lavoro al Golf club di Salvarosa di Castelfranco Veneto, dove lavorava come cuoca. La vicenda, più volte finita sotto la lente d’ingrandimento della trasmissione «Chi l’ha visto?», è arcinota: la ragazza avrebbe dovuto raggiungere il fidanzato Michele Bonello presso il convitto dell’istituto alberghiero Maffioli ma all’appuntamento non si presentò mai. Da qualche tempo Marianna, sofferente di una forma di anoressia, viveva nell’abitazione del vicino di casa della famiglia Cendron, Renzo Curtolo, a Paese. L’allarme ai genitori venne dato solo l’indomani, con colpevole ritardo, e di conseguenza anche la tardiva denuncia ai carabinieri rese vane le ricerche. Insieme a lei scomparve misteriosamente anche la sua bici, con cui si spostava sempre dal club alla fermata della corriera per fare ritorno a casa, e i suoi telefoni cellulari (il suo e quello che le aveva donato Curtolo). 

Le ricerche

L’ultimo segnale è stato tracciato in via dei Carpani, a pochi passi dal centro commerciale i Giardini del Sole. Nelle settimane e negli anni a seguire la prefettura ha condotto diverse campagne di ricerca, anche nella cava che si trova nei paraggi dell’abitazione in cui viveva Mary, e la Procura di Treviso aprì un fascicolo d’inchiesta per sequestro di persona. Il pubblico ministero che coordinava l’inchiesta, Massimo De Bortoli, interrogò più volte i due protagonisti della vicenda, il fidanzato Michele (all’epoca della scomparsa minorenne) e l’inquilino Renzo, ma nel 2018 è sopraggiunta l’archiviazione (dopo tre richieste rigettate), nonostante il lavoro degli avvocati della famiglia Cendron, Stefano Tigani e Piero Coluccio, che si sono appellati più volte alla magistratura perché venissero riconsiderate le intercettazioni. Ora la vicenda è in un limbo, come congelata e domani ricorre esattamente il decennale dalla scomparsa. 

L'evento

Emilia e Pierfrancesco sono intenzionati a organizzare un evento dedicato al caso, comune anche ad altre famiglie nella Marca. La Prefettura infatti ne conta altri otto oltre a Marianna. «Purtroppo tutto è avvolto nel silenzio più totale sottolinea Pierfrancesco. I Cendron hanno scritto e dedicato una breve lettera alla figlia adottiva (lei e il fratello sono originari della Bulgaria) nella speranza che possa arrivare a destinazione. «Il 27 novembre hai compiuto 28 anni, e proviamo a immaginare che donna sei diventata, ma sei libera o in pericolo? - chiede la famiglia di Mary - Quanto ci manchi, viviamo solo di ricordi, non vediamo più il tuo sorriso, non sentiamo la tua sensibilità, accoglienza rivolta a chi era in difficoltà. Viviamo nel silenzio che ci logora, ma qualsiasi cosa sia accaduta, non smetteremo mai di cercarti, vogliamo risposte, verità, pace. Per noi sei ancora viva, ma non sappiamo dove cercarti».

Angela Celentano.

Scena del crimine. La pista turca, le segnalazioni su Angela Celentano: "C'era una forte somiglianza ma poi..." Angela Celentano scomparve all'età di 3 anni il 10 agosto del 1996. Gli ultimi sviluppi sulla vicenda portano a una pista turca. "Il giudice ha prorogato di altre 6 mesi le indagini", spiega a ilGiornale.it l'avvocato Luigi Ferrandino. Rosa Scognamiglio l'11 Agosto 2023 su Il Giornale.

"Ci sono state due circostanze in cui ho fortemente creduto che potesse trattarsi di Angela". Lo rivela a ilGiornale.it l'avvocato Luigi Ferrandino, che assiste i genitori di Angela Celentano, la bimba scomparsa all'età di 3 anni durante una gita con la famiglia sul Monte Faito il 10 agosto 1996. A luglio, il gip del Tribunale di Napoli Federica Colucci ha ordinato una proroga di altri sei mesi delle indagini relative alla cosiddetta "pista turca", un'inchiesta avviata dalla Dda partenopea nel 2009 e per la quale, nei mesi scorsi, la procura del capoluogo campano aveva chiesto l'archiviazione.

Sintetizzando i fatti: secondo la testimonianza di una blogger, Angela Celentano, che oggi avrebbe 30 anni, si troverebbe in Turchia con un uomo che "si finge suo padre". Gli accertamenti condotti all'epoca non trovarono riscontro ma la gip, facendo capo alle annotazioni di fine rogatoria, ha ritenuto che vi fossero delle circostanze ancora da approfondire.

Angela Celentano, resta ancora aperta la pista turca ma "serve tempo"

Avvocato Luigi Ferrandino, ci sono novità riguardo alle indagini sulla scomparsa di Angela Celentano?

"L'unica novità è che il gip del Tribunale di Napoli ha prorogato di altri sei mesi le indagini sulla 'pista turca'. Credo, però, che l'attività investigativa vera e propria non sia ancora cominciata, perché bisogna dapprima tradurre tutta la documentazione relativa agli accertamenti che furono condotti all'epoca, 14 anni fa".

E invece per le segnalazioni?

"Di nuove non ce ne sono state. O meglio non segnalazioni che abbiamo ritenute degne di approfondimento. Poi chiaramente ne riceviamo molteplici, anche tramite l'associazione Manisco World, che si occupa della ricerca di persone scomparse in tutto il mondo".

In base a quale criterio decide se procedere o meno con le verifiche?

"La prima scrematura viene fatta sulla base delle caratteristiche fisiche. Nel senso che si mette a confronto la foto della persona segnalata con la Age Progression, in questo caso di Angela. Qualora vi siano delle somiglianze si procede con ulteriori approfondimenti. Il passo successivo è quello di acquisire materiale biologico da cui poi estrarre il Dna, che chiaramente fuga ogni dubbio".

"C'è una pista". E spunta una nuova foto di Angela Celentano

In questi anni di ricerche, c'è mai stata una volta in cui ha creduto di essere a un passo dalla svolta?

"Da avvocato cerco di non lasciarmi mai sentimentalmente coinvolgere, ma le confesso che ci sono state due circostanze in cui ho fortemente creduto che potesse trattarsi di Angela perché c'erano molteplici compatibilità".

A quali circostanze si riferisce?

"Uno è il caso di Celeste Ruiz e l'altro, più recente, della modella sudamericana. In questo ultimo caso, per un amaro scherzo del destino, c'era una somiglianza impressionante anche con una delle due sorelle di Angela. Ci abbiamo creduto e sperato poi, purtroppo, il Dna ha dato esito negativo".

Qual è l' ipotesi investigativa che ritiene più veritiera rispetto alla scomparsa di Angela?

"È un po' complicato rispondere a questa domanda. Tutte le ipotesi sono attendibili, a partire dalla pedofilia fino al traffico di organi e alle adozioni illegali. Purtroppo non ci sono mai stati elementi che abbiano veicolato in modo certo e inequivocabile le indagini in una sola direzione".

Ritrovata Angela Celentano? Il papà: "Aspettiamo riscontri, poi il Dna"

Perché arrivano maggiori segnalazioni dal Sud America?

"Nei Paesi del Sud America, forse per una questione culturale o sociale, c'è una grande attenzione alla ricerca delle persone scomparse, specie se si tratta di minori. Nel senso che c'è maggiore passaparola, anche attraverso i social. Poi chiaramente è anche una questione di tratti somatici. Per intenderci, non è così raro che una ragazza sudamericana assomigli a una dell'Italia meridionale".

Nel primo quadrimestre del 2023 ci sono stati più di 5mila bambini scomparsi in Italia. Come lo spiega?

"Le motivazioni sono diverse. In molti casi vanno ricercate all'interno della famiglia. In altri, invece, ci sono piste alternative al contesto familiare".

Del tipo?

"Quelle relative sia al traffico di organi che alle adozioni illegali. Purtroppo sono 'mercati' ancora fervidi".

Quale consiglio darebbe ai genitori dei bambini scomparsi?

"Di attivarsi velocemente perché il fattore tempo è fondamentale. Poi di fornire a chi di dovere tutte le informazioni e gli elementi utili al ritrovamento della persona scomparsa, soprattutto se si tratta di un minore. In tal senso i genitori di Angela Celentano sono stati pionieri".

In che modo?

"Hanno creato un sito internet apposito su cui hanno condiviso le foto di Angela da bambina, persino quelle dei giocattoli, e l'audio della canzoncina che la madre le cantava per farla addormentare. Accade spesso, soprattutto quando trascorre molto tempo, che sia la persona scomparsa poi a riconoscersi in alcuni dettagli o immagini e a contattare la famiglia d'origine. In tal senso, può essere utile rivolgersi a un'associazione che si occupa di supportare i familiari delle persone scomparse anche nella diffusione dei contenuti multimediali. Oggi per fortuna abbiamo anche i social, che sono un potentissimo mezzo di comunicazione".

Ha sempre la speranza di ritrovare Angela?

"Guardi io le rispondo con una frase di Catello Celentano, il papà di Angela: 'Finché non avrò la certezza che mia figlia è morta, finché non avrò un corpo su cui piangere, continuerò a cercarla viva. Dovessi arrivare fino in capo al mondo'".

Angela Celentano, la nuova foto e la pista turca "ancora aperta". In occasione del trentesimo compleanno di Angela Celentano, la famiglia ha diffuso una nuova foto della ragazza. Sul fronte delle ricerche "resta ancora aperta la pista turca", dice a ilGiornale.it l'avvocato Luigi Ferrandino. Rosa Scognamiglio il 10 Giugno 2023 su Il Giornale.

Domenica 11 giugno, Angela Celentano, la bimba di 3 anni scomparsa sul Monte Faito il 10 agosto 1996, compirà trent'anni. In occasione del compleanno, la famiglia ha diffuso una nuova foto della ragazza: "Si tratta di una nuova age progression dell'immagine di Angela, ormai donna, sottratta alla propria famiglia 27 anni fa", spiega alla redazione de ilGiornale.it l'avvocato Luigi Ferrandino. Sul fronte delle indagini non ci sono ancora novità "ma resta ancora aperta la 'pista turca' e continuiamo a valutare tutte le segnalazioni che arrivano", continua il legale.

Il blog, il sedicente avvocato, la foto di Angela Celentano: "Cosa nasconde la pista turca"

La nuova foto di Angela

La nuova immagine di Angela è stata realizzata dagli esperti dell'associazione Missing Angels Org, con sede in Florida (Usa), mediante uno speciale e avanzato software che ha permesso di elaborare una age progression del volto della bimba. Già l'anno scorso, in occasione del ventinovesimo compleanno della ragazza, Maria e Catello Celentano avevano diffuso una nuova "foto in progressione" della loro figlia. "Questa age progression, però, è leggermente diversa rispetto a quella diffusa nel 2022. - spiega l'avvocato Ferrandino - Anche se ad occhio nudo le differenze sono quasi impercettibili, sono stati aggiunti dei dettagli nuovi al volto".

"C'è una ragazza...": le ricerche, la speranza. Dov'è Angela Celentano

Le novità sulla pista turca

A giugno dello scorso anno, aveva suscitato grande clamore mediatico l'ipotesi di una 'pista turca'. Riassumendo i fatti: a detta di una blogger, Angela si troverebbe in Turchia con un uomo che "si finge suo padre". Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, Federica Colucci, si era opposta alla richiesta di archiviazione della Procura del suddetto filone d’inchiesta, avviato dalla Direzione distrettuale antimafia partenopea nel 2009, ritenendo che vi fossero circostanze da approfondire. "A giorni scadranno i termini dell'indagine. - dice Ferrandino - Siccome credo che non abbiano completato tutte le operazioni necessarie per poter dare seguito agli accertamenti sul posto, è probabile che ci sarà una proroga della richiesta di indagine".

Ritrovata Angela Celentano? Il papà: "Aspettiamo riscontri, poi il Dna"

Le nuove segnalazioni

A ottobre dello scorso anno, una segnalazione dal Sudamerica aveva riacceso le speranze di Maria e Catello Celentano. Ma il test del Dna ha smentito una corrispondenza genetica tra la ragazza, una modella straniera, e i genitori di Angela. "Al momento - continua il legale - non ci sono novità, ma continuiamo a valutare tutte le segnalazioni che arrivano". Domani Angela compirà trent'anni: "I suoi genitori ogni anno festeggiano il suo compleanno e acquistano per lei un regalo che vieni custodito in un armadio nella sua cameretta. - conclude Ferrandino - Tutti i regali accumulati in quel mobile saranno scartati tutti insieme quando Angela finalmente varcherà la porta di casa".

"C'è una ragazza...": le ricerche, la speranza. Dov'è Angela Celentano. La piccola aveva 3 anni quando scomparve dal Monte Faito. Era il 10 agosto 1996. Dalle prime ricerche all’ultima segnalazione: cosa è accaduto in questi anni di attesa. Rosa Scognamiglio e Francesca Bernasconi il 7 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La scomparsa

 La pista messicana

 L’ipotesi della pista turca

 La segnalazione dal Sudamerica

 Il test del Dna: "Non è Angela"

Era l'agosto del 1996. Come tutti gli anni, la Comunità Evangelica di Vico Equense, in provincia di Napoli, aveva organizzato una gita sul monte Faito. Una quarantina le persone che avevano aderito all'iniziativa. Tra loro c'era anche una bambina di soli tre anni, Angela Celentano, scomparsa nel nulla proprio mentre si trovava lì con la famiglia. Da quel giorno, per 27 anni si sono susseguite ricerche, segnalazioni e false piste e delusioni. E Angela, ancora oggi, non è stata ritrovata.

La scomparsa

Il 10 agosto 1996 la famiglia Celentano si trovava appunto sul monte Faito, per partecipare alla gita annuale della Comunità Evangelica. Insieme a papà Catello e mamma Marisa c'erano le tre figlie: Rosanna di sei anni, Angela di tre e Naomi di un anno. Alcune immagini, catturate da una videocamera, mostrano Angela che gioca insieme ad altri bambini a poca distanza dai genitori. Sono gli ultimi fotogrammi testimoni della presenza della piccola nella zona in cui si stava preparando il pic nic. Poi il silenzio.

Infatti, quando poco dopo il padre la chiamò per il pranzo, la bimba non rispose. Non vedendola nelle vicinanze, la famiglia si mise a cercarla nella zona, aiutata dal resto della comunità. Ma di Angela non c'era più alcun segno. "Un momento di distrazione e della piccola Angela Celentano, tre anni, s'è persa ogni traccia". Così il Tg2 Notte del 10 agosto 1996 dava a tutta Italia la notizia della scomparsa.

I presenti alla gita cercarono Angela nei boschi del Monte Faito e, non trovandola, avvisarono le forze dell'ordine. Decine di uomini, cani molecolari ed elicotteri perlustrarono la zona nei giorni successivi, mentre mamma Marisa montò una tenda nel luogo in cui la figlia era stata vista l'ultima volta, con l'intenzione di attendere lì il suo ritorno. Ma a nulla valsero le ricerche e gli sforzi della famiglia, della comunità e delle forze dell'ordine. Angela non venne ritrovata.

Quei bambini sospesi nel nulla

Venne però rintracciato un ragazzino di undici anni, Renato, che raccontò di essere sceso insieme ad Angela lungo il sentiero che porta al parcheggio. Lui voleva riportare il suo pallone in macchina e la bambina avrebbe voluto accompagnarlo. Secondo la versione del bambino, riportata anche da Chi l'ha visto?, a metà discesa, quando il sentiero incontra un'altra viottola sterrata, Renato avrebbe chiesto ad Angela di tornare dai suoi genitori. A quel punto, il ragazzino avrebbe continuato da solo la strada verso l'automobile e sarebbe poi tornato dalla comunità, senza incontrare nessuno nel bosco.

Qualche settimana dopo, spuntò la testimonianza di un altro ragazzino, Luca di dodici anni, che disse di aver incontrato Renato e Angela mentre risaliva il sentiero e di aver consigliato all'amico di riportare la piccola dalla mamma. Luca raccontò che non solo i due avrebbero continuato la loro discesa, ma anche di aver visto due uomini rapire Angela e caricarla a bordo di un'auto. Testimonianze contrastanti che per 27 anni hanno avvolto la scomparsa in un velo di ombre.

Nel frattempo arrivarono diverse segnalazioni, molte delle quali anonime, che portarono gli inquirenti a perquisire diverse abitazioni della zona, senza arrivare però a nessun risultato. Il 19 agosto, a casa Celentano arrivò una telefonata: era il pianto disperato di una bambina. Ma dall'altra parte del filo nessuno parlava, nessuno fece richieste di riscatto e non vi fu alcun tipo di interazione.

La pista messicana

Dopo anni di ricerche vane e segnalazioni finite nel nulla, nel 2010, una speranza sembrò farsi strada. Alla casella di posta legata al sito web creato dalla famiglia per raccogliere possibili notizie su Angela arrivò una e-mail. A scrivere era una certa Celeste Ruiz, residente in Messico, che sosteneva di poter essere la bambina scomparsa. Una foto inviata alla famiglia mostrava una certa somiglianza con le sorelle di Angela e alcuni dettagli raccontati da Celeste fecero pensare che quella potesse essere davvero la bambina scomparsa. La ragazza infatti sostenne essere stata adottata dalla sua attuale famiglia, dopo essere stata abbandonata dalla domestica di casa Ruiz, una colf che viveva sotto falso nome. Celeste quindi sosteneva di essere in realtà Angela, rapita quando aveva solo tre anni e poi finita in Messico.

Dopo queste rivelazioni la donna scomparve, tanto che dovette intervenire la polizia postale, la quale riuscì a recuperare l'Ip del computer dal quale erano partiti i messaggi, e l'Ip corrispondeva all'apparecchio di una casa ad Acapulco. Un mandato internazionale permise agli inquirenti italiani di recarsi sul posto. Ma, una volta arrivati in Messico, all'indirizzo rintracciato non trovarono nessuna Celeste Ruiz, ma una famiglia con un figlio e una figlia con un età che non corrispondeva a quella che avrebbe dovuto avere Angela. Il padre, Cristiano Ruiz era un pubblico ministero della Giustizia messicana e negò che dal computer potessero essere partite le mail indirizzate alla famiglia Celentano. Si scoprì poi che dietro la ragazza messicana si nascondeva un uomo: José Manuel Vazquez Valle, figliastro di Cristino Ruiz.

Il depistaggio messo in atto dal ragazzo però aprì la strada a un'altra speranza: la donna della foto, che era stata trovata in Rete, poteva essere davvero Angela. Così gli inquirenti cercarono di rintracciarla: si trattava di una psicologa messicana residente in Francia che disse di non avere nulla a che fare con la piccola scomparsa nel 1996. Il test del Dna confermò la versione della donna: non si trattava di Angela Celentano.

L’ipotesi della pista turca

Tra ricerche e segnalazioni, nel 2009 saltò fuori anche l’ipotesi di una “pista turca”. Una blogger, Vincenza Trentinella, raccontò di aver appreso da un prelato alcune informazioni su Angela Celentano. E nello specifico che la ragazza fosse ancora in vita e si trovasse in Turchia.

Di sua iniziativa, la donna si sarebbe recata sull’isolotto turco di Buyukada dove avrebbe conosciuto un sedicente veterinario, tal Fafhi Bey. Questi gli aveva lasciato un biglietto da visita, con annesso numero di telefono. Di ritorno in Italia, la blogger riferì agli inquirenti che costui avrebbe avuto una cicatrice sul collo e che avrebbe tenuto Angela “in una condizione di segregazione, o meglio, senza farla mai venire eccessivamente in contatto con la realtà esterna” (lo si legge nella relazione del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri redatto il 16 novembre 2010).

Trentinella scattò anche la foto di una ragazza che, a suo dire, avrebbe avuto una somiglianza con la piccola Celentano. Tramite una rogatoria internazionale, la magistratura italiana riuscì a interrogare l’uomo che usava l’utenza segnalata dalla blogger. Fatto sta che la persona sentita dagli investigatori rispondeva all’identità di Farih Dal e non aveva una cicatrice sul collo. Pertanto, a seguito degli accertamenti, i Ros ritennero che le attività svolte avessero prodotto "esito negativo".

Il blog, il sedicente avvocato, la foto di Angela Celentano: "Cosa nasconde la pista turca"

Nel 2022 la procura di Napoli ha chiesto di archiviare questo filone d’indagine che, al tempo, fu avviato dalla Direzione distrettuale antimafia partenopea. A dicembre 2022, il giudice del tribunale partenopeo, Federica Colucci, ha respinto la richiesta di archiviazione ritenendo che vi siano delle circostanze ancora da chiarire: “Permangono degli elementi di dubbio che non consentono di ritenere le indagini definitivamente complete". Il gip ha assegnato 180 giorni per ulteriori accertamenti sulla pista turca.

La segnalazione dal Sudamerica

Una svolta nel caso c’è stata nell’estate del 2022. In occasione del 26esimo anniversario della scomparsa, Maria e Catello Celentano hanno diffuso una nuova foto della figlia. L’immagine, una age progression realizzata da un team di esperti dell’associazione MissingAngels, mostra come potrebbe essere Angela oggi, all’età di 30 anni.

A sorpresa i due genitori avevano poi rivelato di aver ricevuto una segnalazione dal Sudamerica tramite l’associazione Busco mi familia biologica, che si occupa della ricerca di persone scomparse in tutto il mondo. "C’è una nuova pista", erano state le parole dell’avvocato Luigi Ferrandino, legale dei Celentano, in un’intervista rilasciata a ilGiornale.it.

A darne conferma alla nostra redazione era stato anche il papà di Angela. "C'è una ragazza che assomiglia a nostra figlia - aveva spiegato Catello -Stiamo verificando una serie di elementi prima di procedere, qualora dovesse esserci un riscontro positivo, col test del Dna”. Nella fattispecie i coniugi Celentano avevano notato “una forte somiglianza” tra la ragazza sudamericana e le altre due figlie, Rosa e Noemi. Un dettaglio aveva catturato la loro attenzione: “una voglia sulla schiena” che “per forma e colore” era simile a quella di Angela, aveva precisato successivamente l’avvocato Ferrandino.

Il test del Dna: "Non è Angela"

Dopo una lunga attesa, a febbraio 2023, un collaboratore dell’avvocato Luigi Ferrandino è riuscito ad incontrare la donna sudamericana, che pare viva in Venezuela ma lavori come modella in un Paese del Nord Europa. Alla giovane è stato prelevato del “materiale biologico” - queste le informazioni sommarie trapelate ai giornali - da cui è stato estratto il Dna necessario per gli accertamenti di laboratorio.

Successivamente è giunta notizia che il test di comparazione genetica tra i coniugi Celentano, le sorelle di Angela e la donna sudamericana ha dato esito negativo. La conferma è stata data con un breve comunicato stampa diffuso dal legale della famiglia per conto della coppia: “Purtroppo non c’è corrispondenza”, si legge nella nota.

"Non è Angela Celentano". Il test del Dna spegne le speranze

L’ennesima pista sfumata per Maria e Catello che, nonostante la delusione del momento, non si danno per vinti. “Continueremo nelle nostre ricerche e qualunque altra segnalazione meritevole di approfondimento verrà percorsa - le ultime dichiarazioni rilasciate dalla coppia tramite il legale - Sollecitiamo tutto il popolo del web nella condivisione della foto age progression. Ringraziamo quanti hanno contribuito nelle segnalazioni”. La speranza è ancora viva: “Non smettiamo di sperare di poter riabbracciare la nostra amata figlia”.

La ragazza sudamericana non è Angela Celentano: test negativo. Lo rende noto l'avvocato Luigi Ferrandino, legale della famiglia di bambina, assieme al team di consulenti che coordina: l’avvocato Enrica Visconti, il Generale Luciano Garofano e il social team della “Manisco World”, presieduto da Virginia Adamo. Il Dubbio il 21 febbraio 2023

È negativo il test del Dna effettuato sulla giovane ragazza sudamericana che si ipotizzasse fosse Angela Celentano, la bimba scomparsa a 3 anni il 10 agosto del 1996 durante una gita sul Monte Faito a Vico Equense, in provincia di Napoli. Lo rende noto l'avvocato Luigi Ferrandino, legale della famiglia di bambina, assieme al team di consulenti che coordina: l’avvocato Enrica Visconti, il Generale Luciano Garofano e il social team della “Manisco World”, presieduto da Virginia Adamo.

Il team ha appreso «da poche ore» che «dalla comparazione tra il Dna dei signori Celentano e quello della giovane donna attenzionata purtroppo non vi è corrispondenza genetica. La ragazza a cui era stato prelevato il materiale genetico, dunque, non è Angela Celentano».

Angela Celentano, la voglia sulla schiena: tam-tam sulla clamorosa svolta. Libero Quotidiano il 14 febbraio 2023

Ore di ansia e attesa per la famiglia di Angela Celentano, la bambina di 3 anni scomparsa il 10 agosto 1996 mentre si trovava con i genitori in gita sul monte Faito. La mamma e il papà stanno aspettando di conoscere l'esito degli esami del Dna sui campioni biologici prelevati sulla ragazza di 31 anni di origini sudamericane che assomiglierebbe tanto alla loro figlia. 

"Per ora i miei assistiti preferiscono non rilasciare dichiarazioni ufficiali. Non appena gli esiti dei test saranno noti, decideremo insieme come rendere nota la notizia", ha fatto sapere l'avvocato Luigi Ferrandino, che chiede quindi un po' di riservatezza per la famiglia in questo momento così delicato. In questi 27 anni, spesso sono arrivate segnalazioni su un possibile ritrovamento della piccola, ma tutte finora si sono rivelate sempre infondate. Ora, però, quella che porta alla pista sudamericana, e più precisamente a una ragazza di 31 anni impegnata nel mondo della moda e molto conosciuta nella sua terra, sembrerebbe molto di più di una semplice ipotesi.

Pare che i genitori di Angela Celentano, vedendo la 31enne, avrebbero notato una "straordinaria somiglianza" con la piccola sparita nel 1996 e anche con le altre due sorelle. La donna, tra l'altro, avrebbe anche una voglia sulla schiena, proprio come la bimba scomparsa.

La famiglia stretta nel riserbo e nella speranza. La scomparsa di Angela Celentano, le ultime notizie sul dna della ragazza sudamericana: “straordinaria somiglianza”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Febbraio 2023

Più di dieci giorni fa l’avvocato della famiglia Celentano ha annunciato che un suo collaboratore era riuscito a prelevare un campione di Dna dalla ragazza 31enne di origine sudamericana che potrebbe essere Angela Celentano. I risultati dovrebbero arrivare a breve ed è per questo motivo che cresce la speranza e la trepidazione nel conoscere il risultato di quella unica prova che inconfutabilmente potrà rivelare la verità. Dopo 27 anni di dolore e speranze disattese, delusioni e false piste, per Catello e Maria Celentano questi sono giorni di grandissima apprensione.

Per ora i miei assistiti – spiega l’avvocato Luigi Ferrandino – preferiscono non rilasciare dichiarazioni ufficiali. Non appena gli esiti dei test saranno noti, decideremo insieme come rendere nota la notizia”. I due genitori hanno deciso di procedere con i piedi di piombo per non rischiare di rimanere ancora una volta feriti. Da quel terribile 10 agosto 1996, quando la piccola Angela che all’epoca aveva solo 3 anni scomparve nel nulla durante una gita sul monte Faito, Maria e Catello non hanno mai smesso di cercarla. La speranza di trovarla non si è mai affievolita sin dal primo istante in cui la cercarono ovunque su quella montagna in provincia di Napoli, con il cuore in gola. E solidali con loro anche milioni di italiani che da allora ogni volta che si parla di Angela sentono riecheggiare nella testa la voce angosciata della giovanissima Maria che chiamava la figlia “Angela, dove sei? Angela, ti aspettiamo”.

Oggi dopo miriadi di segnalazioni e delusioni la riservatezza della famiglia è comprensibile. “Restiamo con i piedi per terra – hanno detto al Riformista Angela e Maria qualche mese fa, poco dopo che la pista sudamericana fu resa nota – Dopo la fase di Celeste Ruiz che è durata alcuni anni, quando davvero abbiamo creduto di aver ritrovato Angela, per poi scoprire che era tutto un bluff, per noi è stata una mazzata. Questa volta l’ho detto dal primo momento: stiamo con i piedi per terra, non ci dobbiamo illudere di niente”.

Il loro approccio, dopo 27 anni di ricerche è ora diverso. I due genitori lo hanno spiegato nella stessa intervista al Riformista di qualche tempo fa: “Il nostro intento non è più quello di riportare Angela a casa, perché ora è grande e ha una vita sua, ma quello di ritrovarla. Vogliamo farle sapere che ci siamo sempre stati, ci siamo, questa è la sua famiglia, casa sua. La decisione sul prosieguo della sua vita poi spetta a lei. Sono cambiati un po’ gli obiettivi delle ricerche in un certo senso. Stiamo facendo tutto questo perché la nostra speranza è che sia lei a trovare noi”. E dopo la pista messicana, e quella turca recentemente riaperta, ora si apre anche quella in Sud America.

Quella che porta alla pista sudamericana, e più precisamente ad una ragazza di 31 anni impegnata nel mondo della moda e molto conosciuta nella sua terra, è più di una semplice ipotesi. Almeno per i genitori di Angela Celentano, che quando l’hanno vista avrebbero notato una ”straordinaria somiglianza” con la piccola sparita nel 1996 e in particolare con le altre due sorelle. Inoltre, la trentunenne presenterebbe una voglia sulla schiena: ”Proprio come l’aveva la nostra piccola’‘ avrebbero detto all’avvocato Ferrandino prima di chiudersi nel più stretto riserbo, in attesa degli esiti degli esami del Dna sui campioni che sarebbero stati recuperati quando la ragazza sudamericana, che sarebbe figlia di un personaggio noto nel suo Paese, era venuta in Europa per un impegno lavorativo nel campo della moda. Ora non resta che attendere i risultati.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

"Questa è mia figlia". Il caso di Angela Celentano a una svolta? Il mistero della bimba scomparsa dal Monte Faito 27 anni fa. L'avvocato della famiglia Celentano: "La mamma di Angela ha pianto quando ha visto la foto. Siamo in attesa dell'esito del Dna". Rosa Scognamiglio il 13 Febbraio 2023 su Il Giornale.

"Siamo riusciti ad acquisire delle immagini, delle fotografie ed è stato emozionante quello che ha detto Maria, quando ha visto la fotografia, perché ha pianto e ha detto: 'Questa è mia figlia'". A dirlo è l'avvocato Luigi Ferrandino, il legale che assiste Maria e Catello, i genitori di Angela Celentano. I familiari della bimba scomparsa 27 anni fa, durante una gita sul Monte Faito, sono in attesa sapere se la ragazza sudamericana a cui è stato prelevato il dna nelle scorse settimane sia o meno la loro figlioletta che, all'epoca dei fatti, aveva soli 3 anni.

"C'è il Dna". Svolta sulla scomparsa di Angela Celentano

Le parole della mamma di Angela

Una speranza che, dopo anni di attese e segnalazioni andate a vuoto, si rinnova ancora una volta. Maria e Catello Celentano, così come Rosa e Noemi, le sorelle di Angela, non hanno mai smesso di credere "al miracolo". E oggi più che mai, con le dovute cautele, incrociano le dita. La ragazza sudamericana sembrerebbe avere "forti somiglianze" con la bimba scomparsa in quel lontano 10 agosto 1996. "Quando Maria ha visto la foto - spiega l'avvocato Ferrandino ai microfoni del Tgr Campania - ha pianto e ha detto: 'questa è mia figlia'". Non solo. "Una delle due figlie dei signori Celentano, guardando la foto ha detto: 'mamma, questa sembro io'", racconta il legale.

Ritrovata Angela Celentano? Il papà: "Aspettiamo riscontri, poi il Dna"

Chi è la ragazza sudamericana

L'identità della ragazza sudamerica chiaramente, per ragioni di privacy, non è nota. Ma vi sarebbero dei "dettagli" compatibili con alcune caratteristiche fisiche, più o meno evidenti, della piccola Angela (oggi ha 30 anni). C'è di più: "La storia di questa ragazza, la storia di questa famiglia, - continua Ferrandino -il fatto che il papà adottivo abbia avuto rapporti con la Campania e sembrerebbe anche con la zona circostante di Vico Equense, è un elemento per noi molto importante".

Il blog, il sedicente avvocato, la foto di Angela Celentano: "Cosa nasconde la pista turca"

Il test del Dna

Il legale dei coniugi Celentano è riuscito ad acquisire, tramite un collaboratore, un campione di Dna della ragazza straniera. "Una volta ottenuto il profilo genetico, lo consegnerò al generale Garofano, che è il consulente di fiducia della famiglia Celentano, il quale provvederà poi a confrontare i profili genetici di Maria e Catello per verificare se c’è una corrispondenza. - conclude il legale - Una volta ottenuto il profilo genetico, lo consegnerò al generale Garofano, che è il consulente di fiducia della famiglia Celentano, il quale provvederà poi a confrontare i profili genetici di Maria e Catello per verificare se c’è una corrispondenza.".

Angela Celentano, la speranza nella pista sudamericana in attesa del dna: “Il papà ha avuto rapporti con la Campania”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Febbraio 2023

“Siamo riusciti ad acquisire delle immagini, delle fotografie ed è stato emozionante quello che ha detto Maria, quando ha visto questa fotografia, perchè ha pianto e ha detto: ‘Questa è mia figlia’. Inoltre una delle due figlie dei signori Celentano, guardando la foto ha detto: ‘Mamma, questa sembro io'”, ha detto l’avvocato Luigi Ferrandino, legale della famiglia Celentano, ai microfoni del Tgr Rai Campania. Ma questa non sembrerebbe l’unica coincidenza ad aver vivamente riacceso la speranza nella famiglia Celentano che, distrutta dal dolore di 26 anni di ricerche andate a vuoto, sin da subito ha deciso di andarci con i piedi di piombo anche sull’ultima pista, quella che porta a una ragazza sudamericana.

Nei giorni scorsi l’avvocato della famiglia ha raccontato che “un collaboratore del mio studio, in un paese nordeuropeo , ha incontrato la ragazza sud americana che sospettiamo possa essere Angela Celentano, la bambina scomparsa nel 1996 sul Monte Faito – Vico Equense (Na) ed ha proceduto al prelievo del materiale genetico e a spedirlo al mio studio di Napoli”. Quella è la prova regina, l’unica che potrà dimostrare se la ragazza che somiglia in maniera impressionante a come sarebbe oggi Angela è davvero lei.

Ad aumentare la speranza un’altra coincidenza: “La storia di questa ragazza, la storia di questa famiglia, il fatto che il papà adottivo abbia avuto rapporti con la Campania e sembrerebbe anche con la zona circostante Vico Equense, è un elemento per noi molto importante”, ha spiegato il legale nell’intervista con il Tg3 Campania. Stessa età anagrafica, tratti somatici simili e persino la stessa macchia sul dorso che però si sarebbe spostata di qualche millimetro. Tante le coincidenze che spingono la famiglia a sperare che la ragazza sud americana che lavora nel mondo della moda, che apparterrebbe a una famiglia molto facoltosa che in passato ha avuto contatti con la Campania, possa essere Angela.

“Una volta ottenuto il profilo genetico, lo consegnerò al generale Garofano, che è il consulente di fiducia della famiglia Celentano, il quale provvederà poi a confrontare i profili genetici di Maria e Catello per verificare se c’è una corrispondenza. Noi ci auguriamo che ci sia corrispondenza“. Intanto sono ancora aperte indagini sulla pista turca, per non lasciare nulla di intentato dopo che i giudici hanno chiesto di portare avanti le indagini anche su quel fronte per via di alcune incertezze. Certo è che la foto della ragazza sud americana ha fatto battere proprio forte il cuore di Maria, la mamma di Angela.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto dell’articolo di Dario Del Porto per repubblica.it il 24 gennaio 2023.

Un nuovo test del Dna potrebbe riaprire il giallo di Angela Celentano, la bambina scomparsa sul Monte Faito, in provincia di Napoli, nell'agosto 1996. L'avvocato Luigi Ferrandino, che assiste la famiglia Celentano, rende noto che un suo collaboratore ha incontrato, in un paese del Nord Europa, "la ragazza sudamericana che sospettiamo possa essere Angela e ha proceduto al prelievo del materiale genetico e a spedirlo al mio studio di Napoli. 

Non appena ne sarò in possesso provvederò ad inviarlo ad uno dei laboratori di mia fiducia specializzati nella individuazione di profili Dna. Conto entro una decina di giorni poter procedere al confronto del profilo genetico della ragazza sudamericana con il profilo dei Signori Celentano", conclude Ferrandino. […]

Il blog, l'avvocato, la foto di Angela: "Cosa nasconde la pista turca". Secondo le dichiarazioni di una blogger, Angela Celentano vivrebbe in Turchia. Il gip del Tribunale di Napoli ha chiesto ulteriori indagini riguardo alla segnalazione. Rosa Scognamiglio il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Nei giorni scorsi ha suscitato grande clamore mediatico la notizia di una "pista turca" relativa alla scomparsa di Angela Celentano, la bimba di 3 anni sparita dal Monte Faito il 10 agosto 1996. Riassumendo in estrema sintesi i fatti: a detta di una blogger, la ragazza - che oggi ha 30 anni - si troverebbe in Turchia con un uomo che "si fingerebbe" suo padre.

Va detto, a onor del vero, che non si tratta di una nuova ipotesi investigativa bensì di una vicenda "risalente a 13 anni fa", precisa l’avvocato Luigi Ferrandino, legale della famiglia Celentano, alla nostra redazione. Fatto sta che il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, Federica Colucci, si è opposta alla richiesta di archiviazione della Procura del suddetto filone d’inchiesta - avviato dalla Direzione distrettuale antimafia partenopea nel 2009 - ritenendo che vi siano circostanze da approfondire.

Proviamo a riavvolgere il nastro partendo dall’annotazione dei Ros in cui si fa riferimento alla vicenda.

La "pista turca"

Questa storia risale, come detto, a 13 anni fa. Una donna, Vincenza Trentinella, raccontò di aver appreso da un prelato (don Augusto) alcune informazioni su Angela Celentano. Il prete, a sua volta, aveva acquisito suddette notizie nel corso di alcune confessioni decidendo poi di "liberarsi di questo peso" quando era in fin di vita. Le dichiarazioni furono riportate anche in una relazione dei Ros risalente al 2010: "La Celentano risulterebbe essere attualmente in vita - si legge nel documento - Secondo quanto dichiarato dalla Trentinella, la ragazza vivrebbe presso l’abitazione di un sedicente veterinario, tal Fahfi Bey, residente sull’isola turca di Buyukada. Tale veterinario lascerebbe vivere la Celentano in una condizione di segregazione, o meglio, senza farla mai venire eccessivamente in contatto con la realtà esterna".

La Trentinella verificò tali informazioni recandosi in Turchia con un interprete "su iniziativa personale", precisa l’avvocato Ferrandino aggiungendo che "la signora non ha alcun legame con la famiglia". Una volta sul posto, la donna recuperò un gatto randagio dell’isola per portarlo in visita dal sedicente veterinario. Questi gli aveva lasciato un biglietto da visita, con annesso numero di telefono, e il libretto sanitario del felino. Non solo.

Trentinella, che fornì agli inquirenti una descrizione dettagliata dell'uomo riguardo a una cicatrice sul collo, seguì Fafhi Bey verso la sua abitazione imbattendosi, durante il percorso, in due ragazze. Una in particolare, a detta della donna, avrebbe avuto una forte somiglianza con Angela Celentano. Motivo per cui aveva scattato la foto che, di ritorno in Italia, aveva consegnato alla polizia con anche il numero di Bey.

Una volta entrata in possesso di tali informazioni, la magistratura italiana le aveva verificate riuscendo, mediante una rogatoria internazionale, a interrogare l’uomo che usava quell’utenza. Fatto sta che la persona sentita dagli investigatori rispondeva all’identità di Farih Dal (e non aveva una cicatrice sul collo). Pertanto, a seguito degli accertamenti, i Ros avevano dedotto che le attività svolte avevano prodotto "esito negativo" (lo si legge nella relazione del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri redatto il 16 novembre 2010).

"Servono ulteriori indagini"

C’è un dettaglio - forse più di uno - che in questa storia non quadra. Così come aveva anticipato la giornalista Giusy Fasano, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera qualche giorno fa, nell’annotazione di fine rogatoria c’è scritto che l’uomo interrogato è Fafhi Bey. E c’è anche un altro numero di telefono che, secondo il Servizio di Cooperazione internazionale di polizia, è un’utenza intestata a Fafhi Bey.

Secondo il giudice Federica Colucci, che si è opposta alla richiesta di archiviazione dell’inchiesta relativa alla pista turca "permangono degli elementi di dubbio che non consentono di ritenere le indagini definitivamente complete". Nello specifico, dalla disamina degli atti di indagine "svolti in sede di rogatoria, emerge una discrasia che resta ad oggi priva di logica spiegazione".

Riassumendo: i dubbi del gip sono due. Il primo: l’uomo interrogato è Fafhi Bey o Fahri Dal? Poi il secondo: se c’è un’utenza intestata a Fafhi Bey vuol dire che esiste un uomo con questa identità. Pertanto "occorre procedere alla sua compiuta identificazione ed escussione nonché alla sua descrizione - annota il giudice - (con particolare riferimento alla cicatrice riferita dalla Trentinella); va altresì verificato se abbia dichiarato una figlia o conviva comunque con una giovane di età compatibile con Angela Celentano".

Errore di trascrizione o "scambio di identità"? "Noi crediamo che si tratti di un refuso - dice alla nostra redazione l’avvocato Ferrandino - Le indagini sono state condotte dai Ros, stiamo parlando di un nucleo specializzato dei carabinieri, tra i migliori in Europa. Dubito fortemente che ci sia stato un errore così grossolano". Non è tutto.

Il sedicente avvocato turco

In questa intricatissima vicenda c’è un anche un sedicente avvocato, Ali Cem Sener, che sostiene di essere il legale delle due ragazze immortalate nella foto scattata da Trentinella. Questi avrebbe avuto uno scambio di messaggi con la blogger.

"Infine, deve darsi atto che risultano documentati in atti i messaggi ricevuti nel giugno 2021 dalla Trentinella da parte di un sedicente avvocato turco, Ali Cem Sener", scrive il giudice. Il presunto avvocato ha inviato alcune mail anche al legale dei Celentano. "Occorre altresì verificare se in Turchia, ed in specie ad Istanbul, esiste realmente ed opera un avvocato Ali Cem Sener e contattarlo affinché chiarisca il motivo per cui ha contattato l’avvocato Ferrandino e la Trentinella, e fornisca informazioni in merito a quelli che, nei messaggi inviati alla Trentinella, definisce sui clienti".

Il gip ha assegnato 180 giorni per ulteriori approfondimenti sulla pista turca. "Ben vengano le ulteriori indagini - afferma l’avvocato Ferrandino - Così avremo modo di fugare ogni dubbio".

Gli ultimi sviluppi sulla scomparsa di Angela Celentano

Un "giallo" quello della scomparsa di Angela Celentano che dura ben 27 anni. Le ultime segnalazioni ricevute dalla famiglia fanno riferimento a una ragazza latino-americana "che avrebbe forti somiglianze" con la bimba - oggi 30enne - scomparsa dal Monte Faito il 10 agosto del 1996.

Ci sono novità in arrivo: "Siamo in attesa di ricevere il materiale genetico di questa persona - conclude l’avvocato Ferrandino - Non sono in grado di definire i tempi ma suppongo che saranno brevi. Così, finalmente, potremo procedere con il test comparativo del Dna e sapere se si tratta di Angela".

«Angela Celentano è in Turchia»: la gip chiede di indagare ancora. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023

La bimba sparita nel ’96, il caso non è chiuso. «È stato interrogato l’uomo sbagliato»

«Papà, non mi fanno salire sull’amaca...». La bambina guarda il babbo con l’espressione imbronciata. «Non ti preoccupare» risponde lui, «Adesso ti ci porto io». L’uomo si volta verso sua moglie. Ride. Lei: «Le bambine hanno mangiato? Chiedi se vogliono altro...». Lui allunga la mano dietro di sé senza guardare. Cerca il contatto con i ricciolini di sua figlia: «Angela, a papà, vuoi...». Non riesce a toccarla. Si volta, lei non c’è. Plana con lo sguardo fra le piante, sulla radura, fra gli altri bambini che giocano. Niente. Angela non si vede. Allora si alza e va verso l’amaca. Non è nemmeno lì. Incrocia di nuovo gli occhi della moglie. «Catello, che cosa vuoi nel panino?», chiede lei. Ma il cuore di lui batte già fortissimo: «Ma quale panino! Io non vedo più Angela...».

Il giallo

Comincia così, in un giorno di sole sul Monte Faito, uno dei misteri italiani più fitti degli ultimi decenni. La bambina è Angela Celentano. Quel 10 agosto 1996 aveva 3 anni e con suo padre Catello, sua madre Maria e le sue sorelle Rossana e Naomi, partecipava a una gita organizzata dalla Comunità frequentata dai suoi genitori: quella della Chiesa evangelica pentacostale di Vico Equense, vicino a Napoli. Da un momento all’altro più niente, la piccola svanisce nel nulla. E in questa storia infinita di finte piste, Dna, appelli, indagini e segnalazioni senza risultato, ora c’è un nuovo colpo di scena. La giudice delle indagini preliminari di Napoli, Federica Colucci, si è rifiutata di chiudere l’ultimo filone d’inchiesta ancora aperto per il quale la Procura aveva chiesto l’archiviazione. Erano scampoli di un’indagine sulla cosiddetta «pista turca» avviata dalla Direzione distrettuale antimafia partenopea nel 2009 a seguito dell’iniziativa privata di una signora che si chiama Vincenza Trentinella.

Le confidenze

Lei (nessun legame di parentela o di amicizia con la famiglia Celentano) ha sempre detto di aver raccolto le confidenze di un prelato (don Augusto) che a sua volta le aveva raccolte da una donna nel confessionale. «Mi disse: non posso tenermi questo peso sulla coscienza. E così dopo la sua morte decisi di andare in Turchia a verificare il suo racconto. Aveva detto la verità», giura Vincenza. E cioè : Angela sarebbe stata rapita e vivrebbe «su un piccolissimo isolotto turco che si chiama Buyukada, con un uomo che crede sia suo padre, che io ho incontrato in uno studio veterinario e che ha una cicatrice sul collo». Tutto questo messo a verbale, assieme alla fotografia della presunta Angela e a molto altro.

La Gip

Torniamo alla decisione della giudice Colucci di non archiviare il caso. «È vero» scrive in sostanza la gip, «che Trentinella non ha titolo per opporsi all’archiviazione, ma posso farlo io». E così fa: perché, spiega, «permangono elementi di dubbio» e «in sede di rogatoria emerge una discrasia che resta priva di logica spiegazione». Insomma: ci sono cose che non tornano. Quindi: che il pubblico ministero indaghi altri sei mesi e sciolga i nodi. I «dubbi» e la «discrasia priva di logica spiegazione» riguardano sopratutto l’uomo sospettato di essere il finto padre di Angela. Fra le tante indicazioni date, Vincenza Trentinella aveva fatto anche il suo nome, Fahfi Bey, e aveva dato agli inquirenti un numero di telefono che proprio Fafhi Bey le aveva scritto a mano su un biglietto da visita. Lei lo aveva scovato in uno studio veterinario dove si era presentata fingendosi una turista che voleva portare a casa un gattino dell’isola. Quindi: Fahfi Bey le scrive il numero di telefono sul bigliettino e quando la magistratura italiana chiede ai colleghi turchi di interrogarlo, e manda i suoi investigatori per la rogatoria, succede che viene interrogato l’uomo che usa quell’utenza. Che però non è Fahfi Bey ma Fahri Dal, il veterinario che evidentemente conosce Bey e gli lascia utilizzare lo studio. Fahri Dal non ha nessuna cicatrice, ovviamente, e non ha mai conosciuto la signora di quel gattino... Ma nell’annotazione di fine rogatoria c’è scritto che quell’uomo è Fahfi Bey. E c’è anche un nuovo numero telefonico che secondo il Servizio di Cooperazione internazionale di polizia è un’utenza aperta a nome Fahfi Bey. «Vuol dire che un soggetto con questo nome esiste», deduce la giudice. «E questa circostanza dev’essere approfondita» perché «non è spiegabile con un “refuso”» (di refuso si parla nella richiesta di archiviazione). In sostanza: è stato interrogato l’uomo sbagliato. O per dirla con la giudice: «A Fafhi Bey viene attribuito l’interrogatorio di Fahri Dal». Ecco. C’è abbastanza per ricominciare daccapo. Dopo 26 anni e mezzo.

Mirella Gregori.

Grazia Longo per “la Stampa” il 12 gennaio 2023.

Tutte e due quindicenni. Tutte e due more. Tutte e due svanite nel nulla a distanza di 40 giorni l'una dall'altra. Ogni volta che si parla di Emanuela Orlandi si impone all'attenzione un altro caso di scomparsa. Quella di Mirella Gregori, sparita il 7 maggio 1983, dopo aver raccontato alla madre che sarebbe andata a un appuntamento con un amico, Alessandro, a Porta Pia. Ma Alessandro smentì l'appuntamento e Mirella, come Emanuela, non è mai più tornata a casa. Certo, Emanuela era cittadina vaticana e Mirella no.

Ma tra le due sparizioni esiste un collegamento? Secondo l'allora procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, intervistato ieri da La Stampa, sarebbe stato meglio non archiviare i due casi (come volle l'allora procuratore capo Giuseppe Pignatone) perché «nel 1983, sono scomparse a Roma decine di ragazze dell'età di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori. Queste scomparse sono rimaste senza un perché. Mi è sembrato un motivo importante che avrebbe dovuto spingere a non chiudere frettolosamente il dossier delle ragazze scomparse».

 E ora che il Vaticano ha deciso di riprendere le indagini su Emanuela, Maria Antonietta Gregori, sorella di Mirella, si augura che la procura ordinaria di Roma faccia altrettanto: «Ho dato mandato al mio avvocato di chiedere di riaprire il caso. Non so se c'è un legame tra le due scomparse, dopo 40 anni troppe domande aspettano ancora una risposta e forse questa è la volta buona per scoprire la verità».

Tanto più che nell'83 tra Roma e dintorni sparirono, come ricordava Capaldo, molte ragazze. Secondo Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, «furono più o meno una quindicina, ma molte fecero ritorno a casa perché si trattava di allontanamenti volontari. È un peccato che l'inchiesta sia stata archiviata nel 2015». Lo ribadisce anche la sua avvocata Laura Sgrò, che aggiunge: «La vicenda di Mirella Gregori ha sempre brillato di luce riflessa del caso Orlandi, ma non c'è mai stata un'indagine seria sulla sua scomparsa».

E allora, Emanuela e Mirella sono finite nelle mani di predatori sessuali legati al Vaticano? Un suggestivo possibile intreccio venne fornito dalla mamma di Mirella Gregori. Nel 1985, durante una visita del Papa nella parrocchia romana di San Giuseppe, riconobbe in un agente della Gendarmeria vaticana della scorta un uomo che secondo lei si intratteneva spesso con la figlia nel bar sotto casa. Ma in un secondo momento, circa 7 anni dopo quando ormai era gravemente malata (sarebbe morta nemmeno un anno dopo), durante un confronto all'americana, non riconobbe l'agente della Gendarmeria.

A complicare il quadro hanno contribuito anche intrighi internazionali e l'autodenuncia di un italiano poi bollato come un mitomane. I Lupi grigi, organizzazione di estrema destra turca a cui apparteneva Ali Agca (arrestato per aver cercato di uccidere Papa Wojtyla), rivendicarono il sequestro sia di Emanuela sia di Mirella. In cambio della loro liberazione chiesero anche loro la liberazione di Agca. Una pista poi risultata un bluff.

Come l'autodenuncia di Marco Accetti, fotografo, che nel 2013 si presentò in procura per dichiarare di aver partecipato al rapimento delle due quindicenni per conto di un gruppo di tonache che volevano ricattare Papa Wojtyla. Lo scopo sarebbe stato quello di contrastare la politica fortemente anticomunista del papa polacco, ma poi per una serie di complicazioni (non ultima l'enorme clamore mediatico) le ragazze non tornarono a casa.

 E come non bastassero queste dichiarazioni, a rendere ancora più intricata e inverosimile la situazione si aggiunse la storia di Ketty Skerl, una diciassettenne di origini svedesi rapita e uccisa nei dintorni di Roma, a Grottaferrata, nel 1984. Nel 2015 Accetti si presentò di nuovo in procura per sostenere proprio che la bara della ragazza morta in circostanze misteriose non si trovasse più nel cimitero del Verano.

Skerl, secondo il fotografo, sarebbe stata uccisa su commissione da «una fazione interna ad ambienti vaticani» opposta a quella di cui avrebbe invece fatto parte Accetti e «contraria alla politica anticomunista di Papa Giovanni Paolo II». Ma le sue parole furono ritenute completamente infondate.

Sonia Marra.

Parla la sorella di Sonia Marra, salentina scomparsa nel 2006 a Perugia: «Chi sa, parli». Le dichiarazioni dopo la riapertura del caso di Emanuela Orlandi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Gennaio 2023

«E' tempo che chi sa parli, che si liberi la coscienza del peso di un orribile omicidio": è un nuovo appello quello lanciato da Anna Marra, la sorella di Sonia Marra, studentessa di Specchia (Lecce) scomparsa da Perugia il 16 novembre 2006 quando aveva 25 anni e mai ritrovata. Fatto in una dichiarazione dopo la riapertura delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.

«L'apertura dell’inchiesta vaticana a 40 anni dalla scomparsa apre un inedito capitolo di speranza per la famiglia di Emanuela Orlandi» sostiene Anna Marra. «Credo - aggiunge - che l’impegno quotidiano per avere verità e giustizia sia il filo rosso che unisce idealmente i sentimenti dei parenti delle persone fatte sparire nel nulla. Sonia, mia sorella, è stata ammazzata ed il suo corpo occultato. Non ha potuto neppure avere una degna sepoltura: una ingiustizia nella ingiustizia che dura da sedici anni».

Per Anna Marra «è tempo che chi sa parli, che si liberi la coscienza del peso di un orribile omicidio». «Giorno dopo giorno - prosegue - combattiamo il dolore e l’oblio. Ci sentiamo vicini alla famiglia Orlandi alla quale rivolgiamo l’auspicio che finalmente ci possa essere quella svolta tanto attesa per avere, appunto, verità e giustizia. dalla famiglia Orlandi».

Per la scomparsa di Sonia Marra è stato definitivamente assolto l’unico imputato. La famiglia, con l’avvocato Alessandro Vesi, continua comunque a tenere vivo il caso alla ricerca di elementi che possano far ripartire le indagini. La Procura aveva ipotizzato un omicidio con il successivo occultamento di cadavere e gli accertamenti lambirono anche ambienti vicini al mondo ecclesiastico del capoluogo umbro.

Daouda Diane.

Daouda Diane scomparso ad Acate, i carabinieri perquisiscono il cementificio dove lavorava. Il 37enne mediatore ivoriano aveva denunciato lo sfruttamento degli operai nei cantieri della zona. Le sue ultime immagini riprese da una telecamera di sorveglianza il 2 luglio. Il caso anche a «Chi l’ha visto». Felice Naddeo su Il Corriere della Sera il 7 Dicembre 2022

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2022.

«Se fino a qualche anno fa su dieci rider controllati ne scoprivamo uno che per lavorare usava l'account di un caporale, adesso il rapporto è di uno a cinque, anche se in certi casi anche di uno su due». A lanciare l'allarme è il generale di brigata Antonio Bandiera, alla guida del Comando carabinieri per la tutela del lavoro. 

Un fenomeno in crescita in tutta Italia, sul quale - conferma l'alto ufficiale dell'Arma - «stiamo indagando ovunque, perché rappresenta anche un grave pericolo per gli stessi lavoratori da un punto di vista di sicurezza stradale: spesso gli sfruttatori forniscono ai fattorini clandestini biciclette a pedalata assistita modificate per andare più veloce in modo da indurli a effettuare più consegne in un lasso di tempo inferiore e far guadagnare di più proprio i caporali. La conseguenza è che gli stessi lavoratori in nero utilizzano mezzi pericolosi per loro e per gli altri utenti della strada».

Secondo una stima recente, in Italia il popolo dei rider è composto da circa 570 mila persone, quelli assidui sarebbero almeno 350 mila. Si tratta di una cifra altissima, come gli abitanti di una città di provincia. Oltre che dalle organizzazioni sindacali, che hanno combattuto a lungo con le grandi multinazionali del settore per assicurare ai lavoratori contratti e regole a cui attenersi, una fotografia della situazione attuale arriva proprio dai controlli su strada dei carabinieri scattati fin dal 2019 dopo un incidente stradale. 

All'epoca la delega a compiere accertamenti fu firmata dai magistrati della Procura di Milano, la prima in Italia ad affrontare la questione della figura giuridica del rider, non considerato fino ad allora un lavoratore subordinato a tutti gli effetti, con diritto non solo al versamento dei contributi ma anche a vedere rispettate le norme della legge sulla sicurezza sul lavoro.

Il finto account «Adesso, con i caporali più attivi che mai - sottolinea il generale Bandiera - i diritti vengono di nuovo negati sempre di più a chi è clandestino e più diffusamente a chi si trova in stato di bisogno». Due sono i «pacchetti» che gli sfruttatori riservano alle loro vittime: il primo prevede la cessione dell'account del caporale, aperto da lui stesso su una delle tante piattaforme di registrazione online dei lavoratori, dove bisogna inserire foto, documento d'identità (anche il permesso di soggiorno), informazioni personali e richiesta del kit dell'azienda (borsa, fratino, dotazioni di sicurezza oggi previste per legge). Una volta ottenuto l'«Id courier», viene subito ceduto al rider clandestino che, con il secondo «pacchetto», viene equipaggiato anche con bici o monopattino.

Nel primo caso il caporale trattiene il 20% dei guadagni, nel secondo anche il 50%. In media ognuno di loro può avere una decina di sub-fattorini, ciascuno dei quali può effettuare anche 15 consegne al giorno per un guadagno di 60-70 euro ciascuno. Si stima che un caporale arrivi a incassare così anche 400 euro al giorno, ottenendo due vantaggi. «Scalare rapidamente il ranking dei fattorini dell'azienda per cui risulta impiegato, assicurandosi così il diritto a lavorare nelle fasce orarie migliori (di sera) e in un raggio più vicino a lui - sottolinea il comandante -, e di poter guadagnare anche una volta tornato nel Paese d'origine, perché con questo sistema è come se fosse rimasto in Italia».

Laura Anello per “La Stampa” il 9 gennaio 2023.

«Qui si muore». Sono le ultime parole di Daouda Diane, scomparso dopo avere girato un video che è insieme testamento e denuncia, la sua faccia in primo piano, il telefonino a inquadrarla dentro un cementificio del paese di Acate, in provincia di Ragusa. «Qui si muore», dice Daouda, profeta del suo destino, parlando da quel che sembra l'interno di una betoniera, una mascherina logorata sul viso, un martello pneumatico nelle mani, senza guanti, senza protezioni. «Inutile - racconta in quel video-denuncia che invia al fratello in Costa d'Avorio - che nel nostro Paese andiamo a raccontare che lavoriamo in fabbrica. Questi sono posti pericolosi, qui si muore».

 È sabato 2 luglio. E da allora Daouda Diane, 37 anni, della Costa d'Avorio, operaio, mediatore culturale, sindacalista, marito e padre di un bambino, è diventato Daouda il fantasma. Scomparso nel nulla, con la procura di Ragusa che ammette: «Quasi certamente non è vivo». Fatto sta che manda quel video intorno alle due e mezzo del pomeriggio, poche ore dopo il suo cellulare si spegne, la "cella" telefonica è talmente grande che non si possono distinguere i suoi spostamenti nel dettaglio, le telecamere interne al cementificio della Sgv Calcestruzzi sono rotte, quelle sulla strada non registrano il suo passaggio.

Secondo il titolare dell'azienda, Gianmarco Longo, «è uscito a mezzogiorno, io non c'ero ma me l'hanno riferito. È venuto alle otto, chiedendo di svolgere qualche lavoretto di pulizia, è stato pagato e se n'è andato. Non abbiamo nulla da temere». Lo stesso titolare secondo cui Daouda era «una presenza saltuaria e amichevole, teneva compagnia al personale, rendendosi utile a spazzare il cortile, ottenendo in cambio una piccola somma».

Versione, questa, spazzata via dalle indagini: «Una delle poche certezze è che lavorasse in nero nel cementificio», per dirla con il procuratore di Ragusa, Fabio D'Anna, che ha aperto un fascicolo per omicidio e occultamento di cadavere e ha iscritto nel registro degli indagati i responsabili legali dell'azienda, come atto dovuto. Gianmarco Longo è figlio di Carmelo, coinvolto in passato in indagini per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla turbativa d'asta. Il fratello di Carmelo, Giovanni, è stato arrestato nel 2019 in un'operazione che ha consentito di fare luce sul clan mafioso di Vittoria. Il padre era Salvatore Longo, ucciso nel '90 ad Acate in un agguato di stampo mafioso.

 Alle 14.30, quando Daouda manda il video, il cementificio è chiuso da più di due ore («Forse l'ha girato in un altro giorno - dice il titolare dell'azienda - o forse in un altro posto») e che nulla è stato contestato all'azienda se non l'utilizzo di manodopera irregolare.

Di sicuro c'è solo, secondo gli inquirenti, che l'operaio non era lì di passaggio. Ma i cani molecolari sguinzagliati in ogni angolo del cementificio e le apparecchiature più sofisticate che cercano resti umani non hanno fiutato niente. Ricerche e perquisizioni tardive, perché la denuncia è scattata solo otto giorni dopo la scomparsa, quando l'amico Marcire Doucoure (destinatario pure lui di quel video) non sa più dove cercarlo.

 Quel video lo ha rivisto centinaia di volte, stupendosi del fatto che Daouda parli in francese, e non nel loro dialetto, come se volesse farsi capire da tutti. Non uno sfogo privato, ma una denuncia. L'ipotesi dell'allontanamento volontario suona quasi come un insulto: Daouda sarebbe partito venti giorni dopo per riabbracciare la moglie Awa e il figlio, dopo cinque anni. Per questo aveva comprato il biglietto aereo, 600 euro, che ha lasciato a casa insieme al permesso di soggiorno, i soldi, il passaporto.

I sindacati sono in rivolta, un paio di volte le manifestazioni di protesta hanno rischiato di finire con l'assalto del cementificio. Il magistrato Bruno Giordano, fino a pochi giorni fa direttore dell'Ispettorato nazionale del lavoro, ha scritto al presidente Mattarella: «Non possiamo sciogliere Diane nell'acido dell'oblio e dell'indifferenza». La moglie Awa, che nelle fotografie sorride abbracciata a lui, dice: «Queste cose possono accadere da noi, in Africa, non in un Paese civilizzato come l'Italia». E poi esprime il suo unico desiderio: «Restituitemi almeno il suo corpo in modo che possa pregare per lui».

Ettore Majorana.

A caccia di Majorana. "L'atomo inquieto" che scelse di sparire. Che fine ha fatto? È quasi un'ossessione. Mimmo Gangemi per anni è stato lì a rimuginare su questa domanda, con l'idea magari di incarnare, pagina su pagina, la vita e le opinioni di uomo che è un mistero, una leggenda. Vittorio Macioce il 3 Maggio 2023 su Il Giornale.

Che fine ha fatto? È quasi un'ossessione. Mimmo Gangemi per anni è stato lì a rimuginare su questa domanda, con l'idea magari di incarnare, pagina su pagina, la vita e le opinioni di uomo che è un mistero, una leggenda, un genio di quelli che l'umanità vede raramente, un'anomalia, un divergente, uno che faceva i conti su tutto e faticava a farli con i suoi demoni, da sotterrare, da nascondere, fino a lasciarli andare tutti insieme, perché non riusciva a vivere senza di loro.

Ci vuole coraggio per scrivere, dopo Sciascia, un romanzo che porta in scena Ettore Majorana. Gangemi non ha paura, perché ha imparato a riconoscere le voci, le tante voci, di Majorana, quelle che si rincorrono nelle sue sette vite e si portano dietro quella pagina incerta che è il confine della sua biografia, la notte tra il 26 e il 27 marzo del 1938, la notte della scomparsa. Le voci parlano e stanno nella testa di Ettore, anche quando non ricorda più quale sia il suo vero nome, quando per troppo tempo si è detto l'io è un altro, quando ha cancellato le sue tracce, senza più sapere quale luogo avrebbe mai potuto chiamare casa. «A chi vuoi darla a bere? Ma quale suicidio e suicidio. Quale prima e seconda occasione. È tutto un teatrino. Lo sai tu e lo so io. Non ha mai avuto intenzione di affogarti in mare. Ne ero così sicuro che neanche t'ho dato la confidenza di affrontarti all'andata, quando guardavi le acque e ti dicevi pronto al grande rifiuto. Stai ingannando te stesso». È Torè, la voce di dentro che agita l'anima di Ettore.

È un grande romanzo L'atomo inquieto (Solferino, pagg. 311, euro 18,50). È un Majorana mai raccontato. È tutto quello che c'è oltre la Sicilia, oltre la famiglia, oltre la magia della matematica, oltre la capacità di far sentire Enrico Fermi un fisico qualunque, oltre i ragazzi di via Panisperna. È un Majorana senza santità, umano troppo umano, che rinuncia a decifrare l'enigma dell'universo, perché sta perdendo se stesso.

Che fine ha fatto? Gangemi sposa la tesi della procura di Roma, che per quattro anni, fino al 2015, indagò sulla scomparsa di Ettore. Il più freddo dei casi freddi, ma che fissa punti sostanziali, con una manciata di prove, fotografiche e non solo. Non è il suicidio. Non è l'omicidio. Non è il finale di redenzione che evoca Sciascia. Non è la pace dello spirito. Majorana era vivo tra il 1955 e il 1959 e si trovava in Venezuela, nella città di Valencia, con una falsa identità e il cognome Bini. E prima? E stato uno scienziato al servizio di Hitler, in corsa contro il tempo per costruire l'arma definitiva, la bomba capace di vincere la guerra. E stato un paziente in un sanatorio altoatesino, precario rifugio per ex nazisti braccati. È stato appunto un tecnico di laboratorio in Venezuela, dopo essere arrivato in Sud America in compagnia di Adolf Eichmann. E poi è tornato di nuovo in Italia, ha attraversato altri luoghi e altre identità, fino a non averne alcuna se non quella di un disperato che campa di poco e niente in terra ionica: come a voler espiare, facendosi fantasma in vita, i troppi errori di troppe reincarnazioni.

Lo seppelliranno alla marina e di lui, scomparso nel '38, non rimarrà traccia. «Ti stai guastando. Il tempo ti ha conciato male. Se occupi la mente con gli studi vedrai che ti rimetti in forma. Prendi le parole di chi ti conosce bene. Torè».

Ettore Majorana, 85 anni fa la scomparsa. Le ipotesi, dal suicidio al ritiro a vita monastica. Marco Bruna su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.

Il 25 marzo 1938 il fisico salì sul traghetto postale che da Napoli portava a Palermo e sparì. Sciascia dedicò alla sua scomparsa un saggio narrativo. Fermi disse: «Con la sua intelligenza, una volta che avesse deciso di scomparire, Majorana ci sarebbe certo riuscito»

Leonardo Sciascia spiegò così le ragioni che lo avevano spinto a indagare sul mistero della scomparsa del fisico Ettore Majorana, avvenuta 85 anni fa: «“Vivere contro un muro, è vita da cani. Ebbene, gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle facoltà, hanno vissuto e vivono sempre più come cani”. Grazie anche alla scienza, grazie soprattutto alla scienza». Sciascia, scrittore coraggioso, abituato a sostenere posizioni minoritarie, citò le parole di Camus in un articolo apparso sulla «Stampa» nel dicembre 1975, subito dopo la pubblicazione del suo saggio La scomparsa di Majorana (Adelphi).

Il 25 marzo 1938 Majorana salì sul traghetto postale che da Napoli portava a Palermo. Poi sparì. Dal giorno dopo nessuno ebbe più sue notizie. Lasciò due lettere, che avevano l’aria di due messaggi d’addio. In una, destinata alla famiglia, si legge: «Ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi».

In molti, non solo Sciascia, si sono interrogati sulla sua fine. Gianni Amelio, autore del film I ragazzi di via Panisperna (1989), ha indagato il rapporto controverso tra Enrico Fermi — che definì Majorana uno di quei geni che compaiono una, al massimo due volte, nel corso di un secolo — e il fisico catanese. Il regista Egidio Eronico ha girato il docufilm Nessuno mi troverà (2015), realizzato in collaborazione con il dipartimento di Scienze fisiche del Cnr, nel quale presenta documenti e materiali d’archivio oltre alla testimonianza inedita di Ettore Majorana jr, un nipote, fisico anche lui.

Nato a Catania il 5 agosto 1906, Majorana era uno dei «Ragazzi di via Panisperna», un gruppo di giovani fisici che collaborò nel 1934 con il gigante Fermi all’identificazione delle proprietà dei neutroni lenti, scoperta di importanza cruciale per la realizzazione del primo reattore nucleare e in seguito della bomba atomica — scoperta che darà poi il via al «Progetto Manhattan» su cui si lavorò nei laboratori americani durante la Seconda guerra mondiale.

Le implicazioni «morali» di tale scoperta potrebbero avere influito sulla sua decisione di sparire.

Penultimo di cinque fratelli, Majorana sin da giovanissimo rivelò una grande passione per la matematica. Già all’età di cinque anni si metteva alla prova con calcoli complicati. La fisica lo affascinava da sempre. Alla sua educazione contribuì anche il padre, Fabio Massimo Majorana. Nel 1923, dopo la maturità classica, Ettore si iscrisse alla facoltà di Ingegneria di Roma.

Questa lettera, datata 16 aprile 1938, arrivò nelle mani del capo della polizia, Arturo Bocchini. Era firmata dal filosofo e senatore del Regno d’Italia Giovanni Gentile:

«Cara Eccellenza,

«Vi prego di ricevere e ascoltare il dott. Salvatore Majorana, che ha bisogno di conferire con Voi pel caso disgraziato del fratello, il professore Scomparso.

« Da una nuova traccia parrebbe che una nuova indagine sia necessaria, nei conventi di Napoli e dintorni, forse per tutta Italia meridionale e centrale . Vi raccomando caldamente la cosa. Il prof. Majorana è stato in questi ultimi anni una delle maggiori energie della scienza italiana. E se, come si spera, si è ancora in tempo per salvarlo e ricondurlo alla vita e alla scienza, non bisogna tralasciar nessun mezzo intentato.

«Con saluti cordiali e auguri di buona Pasqua.

Vostro

Giov. Gentile»

Mussolini, supplicato dalla madre di Majorana e chiamato in causa da una lettera di Fermi, chiese il fascicolo dell’inchiesta e vi appuntò sulla copertina un «voglio che si trovi». Arturo Bocchini, soprannominato viceduce, aggiunse al fascicolo questa postilla: «I morti si trovano, sono i vivi che possono scomparire».

Incoraggiato dal collega Emilio Segrè e da Fermi, Majorana, uomo dal carattere riservatissimo, lasciò Ingegneria per la facoltà di Fisica. Fermi condivise con Majorana i suoi studi sul modello statistico dell’atomo e, in particolare, la tabella in cui erano raccolti i valori numerici del cosiddetto potenziale universale di Fermi.

In quegli anni Majorana cominciò a frequentare proprio l’Istituto di via Panisperna, a Roma. Nel luglio 1929 conseguì la laurea con il voto di 110 e lode (relatore Enrico Fermi). Nel 1933 intraprese un viaggio fondamentale per la sua carriera: andò in Germania, a Lipsia, da Werner Heisenberg, autore di studi cruciali sulla meccanica quantistica.

L’ultimo viaggio

La sera del 25 marzo 1938 Ettore Majorana partì da Napoli a bordo di un piroscafo della società Tirrenia alla volta di Palermo: il soggiorno gli era stato consigliato dai suoi più stretti amici per «prendersi un periodo di riposo». Fu l’ultimo viaggio di cui abbiamo notizie certe.

«La scienza come la poesia, si sa che sta ad un passo dalla follia: e il giovane professore quel passo lo aveva fatto, buttandosi in mare o nel Vesuvio o scegliendo un più elucubrato genere di morte. E i familiari, come sempre accade nei casi in cui non si trova il cadavere, o si trova casualmente più tardi e irriconoscibile, ecco che entrano nella follia di crederlo ancora vivo», scrive ancora Sciascia ne La scomparsa di Majorana.

Majorana aveva 31 anni quando decise di fare perdere le sue tracce. A chiunque fosse in possesso di notizie su di lui venne proposta una ricompensa di 30 mila lire, quasi 30 mila euro nella valuta corrente. Ma di lui non si seppe più nulla. Tra le numerose ipotesi avanzate, oltre al suicidio, l’unica certezza è il prelievo di una considerevole somma di denaro che Majorana fece prima di far perdere le sue tracce (circa 10 mila euro attuali), unito alla sparizione del suo passaporto.

Tra le ipotesi sulla scomparsa c’è anche il trasferimento in altri Paesi, soprattutto sudamericani: si è parlato spesso di Germania, Argentina e Venezuela, dove si faceva chiamare signor Bini; c’è lo spettro di implicazioni politiche nell’Italia fascista; c’è l’ipotesi del ritiro a vita monastica, presa in esame dallo stesso Sciascia: «Il suo è stato un dramma religioso, e diremmo pascaliano. E che abbia precorso lo sgomento religioso cui vedremo arrivare la scienza, se gia non c’è arrivata, è la ragione per cui stiamo scrivendo queste pagine sulla sua vita».

L’uomo che decise di scomparire

Per Sciascia si tratta di una partita da giocare contro un uomo intelligentissimo: «Che Majorana non fosse morto o che, ancora vivo, non fosse pazzo, non si sapeva né si poteva concepire: e non soltanto da parte della polizia. L’alternativa che il caso poneva stava tra la morte e la follia. Se da questa alternativa fosse uscita, per darsi alla ricerca di Ettore Majorana vivo e, come si suol dire, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, sarebbe stata la polizia a entrare nella follia. Peraltro, nessuna polizia in quel momento, e tantomeno quella italiana, poteva essere in grado di sospettare un razionale lucido movente nella scomparsa di Majorana; e nessuna polizia sarebbe stata in grado di far qualcosa “contro” di lui. Perché di questo si trattava: di una partita da giocare contro un uomo intelligentissimo che aveva deciso di scomparire, che aveva calcolato con esattezza matematica il modo di scomparire. Fermi dirà: “Con la sua intelligenza, una volta che avesse deciso di scomparire o di far scomparire il suo cadavere, Majorana ci sarebbe certo riuscito”».

La storia del grande scienziato. Una particella fantasma si aggira per l’Europa: il suo nome è Majorana. Annarosa Macrì su Il Riformista l’8 Gennaio 2023

La prima scena, se fosse un film, è di quelle che sobbalzi di sdegno e lasci da parte i popcorn. Un barbone. Trasandato, malmesso, anche se profuma di pulito. Appare vecchissimo, ma ha solo 54 anni. Siamo in un luogo non precisato della costa jonica calabrese. Due o tre ragazzi si accaniscono contro di lui e gli lanciano addosso dei pomodori. Acerbi. Gli fanno male. Lui non si offende. Pensa solo che è uno spreco, distruggere così i pomodori.

Si chiama Andres, o meglio: decide di chiamarsi così, il nostro povero eroe che in realtà non sa più chi è. È stanco, è malato, si guarda allo specchio e parla a se stesso, una voce gli risponde, è quella della creatura che ha dentro, il suo doppio, la sua coscienza, il suo mostro. Forse è schizofrenico, forse è un originale, forse è un genio. Forse è matto. Certo è infelice. “Sono nato infelice”, dice di sé. Nella notte, l’oltraggio dei pomodori diventa agguato, e Andres viene colpito da una gragnuola di pietre, alla testa. È ferito. Entra in coma. Perde conoscenza, come si dice, del tempo e dello spazio intorno a lui, ma la riacquista, la conoscenza, di sé, del suo passato, della sua storia, della sua vita. Quell’uomo è Ettore, Ettore Majorana. Il genio della fisica atomica, l’enfant prodige della meccanica quantistica, uno dei ragazzi di via Panisperna, il più enigmatico, misterioso e inquieto, quello che sparì all’improvviso, da Napoli, o forse da Palermo, quello che si suicidò, forse, o forse no, voleva solo fare perdere le sue tracce. Era così intelligente che ci riuscì benissimo. Sparì e nessuno seppe più niente di lui.

Questo era solo il prologo. In quella notte d’estate del 1960, Ettore Majorana trattiene con le mani la morte, lui sa come si fa, ha già rubato, come Prometeo, con le sue ricerche un lampo di luce al sole; un attimo, solo un attimo, per piacere, signora Morte, il tempo di ricordare la mia vita, cioè, insomma, le sette vite che ho vissuto: se fosse un film sarebbe un flashback, l’avvincente flashback di un thrilling sentimentale-storico-scientifico di grande impatto. Ma è un romanzo, è L’atomo inquieto, un romanzo di rara potenza, perché, a raccogliere la confessione di Ettore Majorana, c’è uno sceneggiatore strepitoso, un biografo magistrale, un sorprendente Mimmo Gangemi, uno dei più inquieti tra i nostri scrittori, che abbandona giudici meschini e contadini, calabresi emigrati e possidenti corrotti, minatori e jazzisti, New York, la Sicilia, la Louisiana e l’Aspromonte e s’infila nel labirinto di uno dei misteri civili, esistenziali e scientifici più fitti della storia italiana recente: la scomparsa di Ettore Majorana.

In tanti avevano provato a decifrarla – scienziati, poliziotti, magistrati, giornalisti – e tra loro Leonardo Sciascia, che aveva avvalorato la tesi del ritiro di Majorana nel Romitorio di Serra San Bruno; altri avevano dato credito al suicidio, altri ad una fuga in Argentina, altri ancora a un trasferimento, o rapimento, in Germania. Tutte le ipotesi e le ricostruzioni lasciavano buchi, enigmi, interrogativi. Nessuno ci aveva scritto su un romanzo e Mimmo Gangemi, con la forza immaginifica che solo la grande letteratura riesce a fare, inventa la vita di Majorana dopo la sua ultima lettera, e racconta i ventidue anni che vanno dalla sua scomparsa, nel 1938, alla nottata del coma, nel 1960. Restituisce la vita a Ettore Majorana, la sua straordinaria esistenza inquieta, fatta di sette vite, sette identità, sette capitoli di un unico romanzo, il romanzo dell’inquietudine.

Questo fa la letteratura, mostra quello che non c’è, illumina le zone d’ombra, riempie vuoti, inventa vite verosimili, dà senso alla insensatezza del caso e del destino, e qualche volta ci prende, più della cronaca, più della storia. Come nei migliori romanzi classici, Mimmo Gangemi è lo scrittore onnisciente, che sa tutto, e tutto crea, anzi, si sdoppia. Perché non racconta in terza persona, ma diventa lui stesso Ettore Majorana e racconta la sua vita in un lungo, dolente e appassionato flusso di memoria. Charles Foucault diceva che la letteratura è trasgressione – certo, lo è sempre – e che è parente della follia – certo, lo è sempre – perché non è forse follia inventare le vite di chi non è esistito e, ancor di più, inventare la vita di chi è esistito? Annarosa Macrì

Federico Caffè.

Il giallo dell'economista mai ritrovato. Il mistero di Federico Caffè, il maestro di Draghi scomparso nel nulla e mai ritrovato. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Febbraio 2021

Sul comodino di Federico Caffè vennero ritrovati il suo orologio, le chiavi, gli occhiali, il passaporto e il libretto degli assegni. Nessuna traccia, a parte qualche avvistamento, l’incontro che racconterà un allievo e una sfilza di ipotesi che non porteranno mai a una soluzione. Alle 5:30 del 15 aprile del 1987, un mercoledì, l’economista e accademico abruzzese usciva dalla sua casa sulla Balduina, a Monte Mario a Roma, e spariva nel nulla. Non è stato più ritrovato. Un nuovo caso Ettore Majorana, quarant’anni dopo la scomparsa del geniale fisico siciliano su un piroscafo da Napoli a Palermo. Alla Facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma si conservano ancora la libreria e la scrivania di Caffè, economista e pensatore tra i più influenti e brillanti della sua generazione, maestro anche dell’ex Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi.

Quando la notizia della scomparsa cominciò a circolare gli studenti, gli assistenti, gli amici setacciarono Roma per ritrovare l’accademico. Caffè aveva 73 anni, alto 1 metro e cinquanta. Si aspettò qualche giorno per portare il comunicato all’Ansa: per non generare troppo scalpore. L’accademico era nato a Pescara, figlio di una famiglia di modeste condizioni economiche. Si era laureato con lode alla Sapienza in Scienze economiche e Commerciali. Allievo di Guglielmo Masci e Gustavo Del Vecchio, studiò alla London School of Economics a Londra, e lavorò alla Banca d’Italia prima di insegnare a Messina, Bologna e all’Università di Roma fino alla pensione. Fu anche attivo nell’editoria, per Laterza, e nel giornalismo, soprattutto per Il Messaggero e Il Manifesto. Da sempre attento al tema del welfare, divulgatore del pensiero degli economisti svedesi, profondo conoscitore delle politiche di John Maynard Keynes. Era definito infatti “il più keynesiano degli economisti italiani”.

Fu maestro di Mario Draghi, come si accennava, già governatore della Banca d’Italia e Presidente della Banca Centrale Europea – e probabilmente prossimo Presidente del Consiglio – del governatore della BdI Ignazio Visco e del preside della facoltà di economia e commercio della Sapienza Giuseppe Ciccarone. Come ha scritto il direttore di questo giornale Piero Sansonetti, da un incontro proprio con Draghi: “Era un allievo di Caffè. Insistette molto su questo, mi raccontò del rapporto molto stretto che aveva avuto con il professor Caffè, e di quanto il pensiero di Caffè l’avesse influenzato”. Dopo il pensionamento l’accademico era caduto in depressione: viveva con il fratello malato, Alfonso; da poco aveva perso le due donne della sua vita: la madre e la governante; fiaccato probabilmente problemi finanziari; negli ultimi anni tre dei suoi migliori allievi erano scomparsi tragicamente: Ezio Tarantelli ucciso dalle Brigate Rosse, Franco Franciosi per un tumore al fegato e Fausto Vicarelli in un incidente stradale; forse era frustrato dal poco seguito che le sue idee riscontravano nell’economia liberista.

Chi ha parlato di fuga, chi di suicidio, chi di un esilio volontario. Da Memorie di un intruso, edito da Castelvecchi, emerge il suo stupore per il presunto suicidio di Primo Levi, l’11 aprile dello stesso 1987: “Perché così? Perché sotto gli occhi di tutti? Perché straziare i parenti?”. Una coppia di conoscenti disse di averlo visto su un pullman, il giorno della sparizione. L’allievo Bruno Amoroso, confidente, amico di Caffè, al Corriere della Sera, rilasciò una frase enigmatica, “non ti posso dire nulla su Federico Caffè, questo reato non è ancora prescritto”. Quale reato? È morto nel 2016 Amoruso, che aveva anche detto di aver incontrato il suo maestro, aggiungendo solo un’altrettanto enigmatica frase: “Non c’è niente da sapere su Federico Caffè, se n’è andato via da Roma e ha passato il resto della sua vita nella stanza rossa”. La stanza rossa è il libro sulle Riflessioni scandinave dell’economista scomparso, scritto dallo stesso Amoroso. Un non-indizio.

Suicidio, o convento, le ipotesi secondo Daniele Archibugi, economista e direttore al Cnr, saggista e docente. “Negli ultimi mesi mi diceva che l’unico modo in cui avrei potuto aiutarlo era facilitandogli il suicidio. Ma parlavamo anche di sparizione”, ha raccontato sempre al Corriere. Quindi un progetto, non un caso o una tragedia? Chissà. Dello stesso avviso la ricostruzione dello scrittore napoletano Ermanno Rea nel suo romanzo L’ultima lezione. La traccia dell’opera parte dall’ultima lezione nel 1984 e dalla lettura dall’opera Le suicide del sociologo francese Emile Durkheim. “Finirà che perderò la testa, ma la carcassa andrà avanti”, avrebbe confidato il professore.

La morte, presunta, in circostanze non appurate, venne dichiarata dal tribunale di Roma l’8 agosto 1998, quando Caffè avrebbe avuto 84 anni. È stata definita come un’uscita di scena da maestro, possibile soltanto per un genio, come per esempio Ettore Majorana. Il caso resta comunque irrisolto. Una lezione annuale è dedicata all’economista a La Sapienza, oltre ad altri omaggi; quella del maggio 2012 venne introdotta da Visco e tenuta da Mario Draghi. Antonio Lamorte

Sara Pedri.

Caso Sara Pedri, reintegrato il primario accusato di maltrattamenti. Il medico era stato licenziato dopo essere stato accusato di maltrattamenti nei confronti della giovane dottoressa, scomparsa il 4 marzo 2021. Linda Marino il 15 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il licenziamento di Saverio Tateo, l’ex primario di ginecologia dell'ospedale Santa Chiara di Trento, è illegittimo e il medico dovrà essere reintegrato nel suo posto di lavoro e ricevere le retribuzioni pregresse. Lo ha deciso il giudice del lavoro di Trento, Giorgio Flaim, dopo che l'ex primario Saverio Tateo era stato licenziato l'8 novembre del 2021. Il medico ha, dunque, vinto la causa di lavoro contro l’Azienda sanitaria trentina.

Tateo, 61 anni di Bari, era stato allontanamento dalla struttura sanitaria per volere dell'Azienda Provinciale Servizi Sanitari, in seguito alla scomparsa della ginecologa originaria di Forlì, Sara Pedri. Della giovane donna si erano perse le tracce il 4 marzo 2021 all'età di 31 anni, vicino il Comune di Cles, in Trentino. Il corpo della dottoressa non è mai stato ritrovato, ma nei giorni successivi, dopo che la sua famiglia aveva sporto denuncia di scomparsa, i carabinieri avevano ritrovato la sua automobile, una Volkswagen T-Roc, parcheggiata nei pressi del ponte di Mostizzolo, sul fiume Noce, in Val di Non, un luogo tristemente conosciuto come il 'ponte dei suicidi’.

Per Tateo, che era stato accusato di maltrattamenti nei confronti della giovane dottoressa, e che già nei prossimi giorni potrebbe tornare a dirigere l’unità di Ginecologia, il licenziamento era stata una scelta d’obbligo, dopo i pareri della commissione disciplinare dell'Apss, di un'indagine interna ed il parere favorevole del comitato dei garanti. La procura aveva inoltre individuato altre 20 parti offese, destinatarie, in ambito ospedaliero, di presunti atteggiamenti vessatori, ingiurie e intimidazioni, commessi dall'ex primario. La difesa del primario ha sempre respinto le accuse, sostenendo che i disagi della ginecologa non erano da imputare alla sua ultima esperienza lavorativa, ma a fatti passati. L'Apss, a seguito della sentenza del giudice del lavoro, ha fatto sapere che "non intende esprimere commenti, almeno fino a quando non sarà in possesso del testo con le motivazioni e avrà avuto modo di fare le valutazioni necessarie per attuare i conseguenti adempimenti".

Vincenzo Ferrante, legale di Saverio Tateo e partner dello studio legale Daverio&Florio, dopo la sentenza del giudice del lavoro che ne dispone il reintegro ha invece detto: "La sentenza ricostruisce l'integrità del dottor Tateo dal punto di vista umano e professionale. Abbiamo sempre detto che si trattava di un processo alle streghe, con un provvedimento di licenziamento preso a giudizio di popolo e molto lontano dal mondo moderno. Tutte le singole contestazioni sono state oggetto di analisi e di precisa ricostruzione, sentendo una ventina di testimoni, tra medici, infermieri, personale di sala, amministrativi e vertici dell'azienda sanitaria”. Linda Marino

Estratto dell'articolo di Dafne Roat per corriere.it l’1 febbraio 2023.

«Umiliazioni pubbliche durante i meeting. Ogni volta prendeva di mira una persona diversa, senza una ragione». Così aveva raccontato in aula una delle ginecologhe ascoltate nelle lunghe udienze con la formula dell’incidente probatorio davanti al gip Enrico Borrelli, spiegando il difficile clima che si respirava all’interno dell’unità di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Santa Chiara di Trento, in cui lavorava la ginecologa Sara Pedri, scomparsa a marzo 2021.

Indagini chiuse

Per mesi la pm Licia Scagliarini e la collega Maria Colpani hanno ascoltato il racconto sofferto di ginecologhe e ostetriche e ora a distanza di poco più di un anno dall’apertura dell’inchiesta la Procura ha chiuso le indagini sul procedimento a carico dell’ex primario dell’ospedale Santa Chiara di Trento, Saverio Tateo e della sua vice, Liliana Mereu.

 Nel documento di 28 pagine, notificato ieri, la Procura conferma l’accusa di maltrattamenti e indica 21 parti offese, tra cui anche Sara Pedri, la giovane ginecologa di Forlì, 31 anni, scomparsa il 4 marzo del 2021 (la famiglia pensa a un gesto estremo). La giovane aveva fatto perdere le sue tracce dopo avere inviato una lettera di dimissioni all’azienda sanitaria.

 L'accusa: da Tateo atteggiamenti denigratori e «inquisitori»

Secondo l’accusa si configura il reato di maltrattamenti in concorso e in continuazione in quanto Tateo e quindi la dottoressa Mereu che era la sua vice […] L’accusa parla di ingiurie, intimidazioni, atteggiamenti denigratori e «inquisitori» di ricerca di un possibile colpevole. Alcune ginecologhe sarebbero state minacciate di sanzioni disciplinari, ma la Procura parla anche di vessazioni motivate da ragioni di risentimento e non giustificate da errori professionali. Per ogni vittima vengono contestati sette, otto episodi.

Sentiti i professionisti più vulnerabili

In una delle ultime udienze davanti al gip le vittime hanno tratteggiato i contorni di un ambiente lavorativo nocivo raccontando di essere sottoposte a sofferenze costanti. […] si parla anche di grida in sala operatoria e umiliazioni costanti. […]

 La difesa: disagio cominciato prima del lavoro a Trento

È un quadro delicato e choccante quello che affiora dai racconti, ma la difesa del primario, che stato licenziato (è tuttora in corso una causa davanti al giudice del lavoro) e dalla sua vice, attualmente in forza a un’altra struttura in Calabria, rappresentata dagli avvocati Salvatore Scuto e Franco Rossi Galante, hanno sempre respinto con forza le accuse. […] 

Gli Altri.

Elena, la piccola Diana, il mostro: un 2022 di sangue. Due bambine uccise dalle madri, una famiglia che si presume abbia ucciso e occultato il corpo di una 18enne, una donna dolce e riservata al centro di un giallo: la cronaca nera del 2022. Angela Leucci il 26 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Nel 2022 diverse tragedie private, poi diventate pubbliche per il coinvolgimento di giustizia e forze dell’ordine, hanno sconvolto l’Italia. Ce ne sono state anche altre che, fortunatamente hanno riaperto alla speranza, o che hanno trovato nelle sedi processuali un punto, o ancora che sono giunte in qualche modo a una svolta o a nuovi possibili scenari di indagine.

Saman Abbas

L’omicidio di Saman Abbas è un caso del 2021. Però è stato solo a novembre 2022 che il corpo della 18enne, uccisa a Novellara perché si era opposta al matrimonio forzato, è stato ritrovato.

Quest’anno è stato catturato anche uno dei cugini latitanti, Noumanoulaq Noumanulaq, che si era rifugiato nell’area Schengen in attesa di tornare in Pakistan. È stato tradotto in Italia, dove si trova in carcere. Arrestato anche il padre di Saman, Shabbar Abbas, in Pakistan, ma non c’è ancora sicurezza per l’eventuale estradizione.

Il processo, che vede Noumanoulaq e Shabbar tra gli imputati (gli altri sono il cugino Ikam Ijaz, lo zio Danish Hasnain e la madre Nazia Shaheen, ancora latitante), inizierà il 10 febbraio 2023.

"Vi spiego perché i genitori di Saman non saranno estradati"

Liliana Resinovich

Dopo essere scomparsa il 14 dicembre 2021, il 5 gennaio 2022 è stato ritrovato nel boschetto dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste il corpo di Liliana Resinovich. Quello che circonda la donna è un vero giallo: gli inquirenti stanno indagando per suicidio e per sequestro di persona, ma non ci sono mai stati indagati. Durante il corso dell’anno sono stati resi noti vari dettagli emersi dalle indagini, da una contaminazione di Dna maschile sul corpo alle chiavi di casa mancanti. Ma niente è servito a sciogliere il mistero.

Serena Mollicone

A luglio 2022 la corte di assise si è pronunciata sulle responsabilità nell’omicidio di Serena Mollicone, assolvendo i 5 imputati “per non aver commesso il fatto”. La giovane era scomparsa ad Arte a giugno 2001 e fu ritrovata morta due giorni dopo la sparizione. Gli imputati erano la famiglia Mottola (il padre Franco, ex maresciallo dei carabinieri il figlio Marco e la madre Anna Maria), oltre che il maresciallo Vincenzo Quartale e l’appuntato Francesco Suprano.

Angela Celentano

Nella storia delle persone scomparse in Italia ci sono due bambine accomunate da alcuni particolari: la tenera età e il fatto di non essere mai state ritrovate. Oltre che naturalmente dal fatto che l’opinione pubblica è particolarmente affezionata ai loro casi e spera che un giorno queste famiglie possano avere un lieto fine. Una è Denise Pipitone, l’altra è Angela Celentano.

Ma se purtroppo per Denise sembrano emergere con forza sempre maggiore possibili errori o presunte mancanze negli approfondimenti delle indagini, per Angela ci sono state delle novità importanti. Il volto di Angela e la sua nuova age progression sono state infatti diffuse sui bancomat di molti Paesi del mondo quest’estate, e sono giunte tantissime segnalazioni, tra cui una particolarmente importante per cui si attende l’esame del Dna.

Elena Del Pozzo e Diana Pifferi

Purtroppo i casi di cronaca nera che hanno visto i bambini protagonisti sono stati diversi nel 2022. Uno di questi, a giugno, è l’omicidio di Elena Del Pozzo, una bimba di 5 anni di Mascalucia, uccisa dalla madre Martina Patti, che tra l’altro ha inscenato un rapimento per depistare le forze dell’ordine.

A luglio l’omicidio di Diana Pifferi a Milano: per questo reato la posizione della madre è al vaglio degli inquirenti. La donna, Alessia Pifferi, l’avrebbe lasciata per una settimana sola in casa, nel mese di luglio, senza alcun tipo di sostentamento o cure. In casa della donna è stata trovata una boccetta di benzodiazepine, ma non si sa ancora se le abbia somministrate alla bambina: potrebbe essere un’ipotesi, dato che nessuno dei vicini ha mai sentito Diana piangere

Carol Maltesi e i corpi nel fiume

L’11 gennaio 2022 è stata uccisa Carol Maltesi. Il suo corpo depezzato è stato ritrovato alcune settimane dopo in un boschetto: inizialmente non se ne conosceva neppure l’identità, cui si è riusciti a risalire però attraverso i tatuaggi. Per l’omicidio è indagato Davide Fontana, che ha confessato di aver ucciso Carol durante la realizzazione di un video hot per OnlyFans: è stato proprio un utente della piattaforma a riconoscere i tatuaggi della donna. Fontana si è spacciato per Carol in chat con parenti e giornalisti, cosa che ha permesso agli inquirenti di arrivare a lui.

La "vita", la droga, la morte: quel "mostro" dal mantello cremisi

Quello dei corpi senza identità è stato però un tristissimo fil rouge di questo 2022. Il Po e i suoi affluenti hanno restituito resti umani relativi a due donne ancora senza nome, rammentando così a tutti la storia del mostro di Modena, il caso mai sciolto di un ipotetico serial killer.

La tragedia dei minori scomparsi, in Puglia e Basilicata sono 5mila. Ogni giorno spariscono quasi 30 under 18, soprattutto stranieri. «Penelope» in prima linea da 20 anni. Giampaolo Balsamo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Dicembre 2022

Li chiamano i «desaparecidos» d’Italia. Sono un esercito di scomparsi nel nulla, senza lasciare traccia. Un caso su due riguarda i minori. È impietoso il quadro che emerge dalla relazione dell’Ufficio del commissario straordinario del Governo per le persone scomparse di cui non si è più avuta notizia. Ogni giorno in Italia scompaiono circa 30 minori, la maggioranza sono stranieri ma anche i più difficili da rintracciare rispetto agli italiani perché entrano nel Paese clandestinamente, vengono inseriti nel circuito di protezione da cui spesso si allontanano facendo perdere le tracce.

In Puglia, dei 5.250 scomparsi ancora da rintracciare, oltre 4mila sono minori, poco più i un centinaio italiani e i restanti tutti stranieri. Un numero drammatico e preoccupante. Dietro ogni bambino dileguato, scappato, rapito, perduto, ci sono famiglie in cerca di risposte e straziate. Una piccola parte è vittima di rapimenti, altre di sfruttamento, di tratta di esseri umani, di scontri tra ex coniugi. Ci sono i casi nazionali più noti (Denise Pipitone, Angela Celentano, Emanuela Orlandi, Mirella Gregori, Sergio Isidori) e i «missing» pugliesi, quei minori inghiottiti nel nulla da anni, decenni: è il caso Mauro Romano (scomparso da Racale nel 1977 quando aveva appena 6 anni) o Salvatore Marino (la sua famiglia è originaria di Castrignano del Capo), scomparso all’età di 4 anni sulle rive del Rodano nel 1984, o Vincenzo Monteleone di Adelfia scomparso nel 1978 all’età di 10 anni o Alessandro Ciavarella scomparso da Monte Sant’Angelo nel 2009 all’età di 16 anni.

In Basilicata, dal 1974 sino al 2022, sono 812 le persone svanite nel nulla, più della metà sono minori di anni 18: di questi 20 hanno meno di 10 anni. «La legge sulle persone scomparse ha compiuto 10 e già necessita di una revisione a cui l'associazione sta lavorando. La figura del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse (attualmente è il prefetto Antonino Bella) è stata istituita nel 2007 per assicurare il coordinamento tra le amministrazioni statali competenti in materia, per monitorare l'attività delle istituzioni e degli altri soggetti privati impegnati a fronteggiare il fenomeno dei «missing», favorendo il confronto tra i dati a carattere nazionale su persone scomparse e cadaveri non identificati e quelli a carattere territoriale. «Penelope», l’associazione che dal 2002 riunisce voci e aspettative di famiglie e amici delle persone di cui si sono perse le tracce, monitorando e sollecitando l’operato degli organi istituzionali, è tra i soggetti maggiormente impegnati a sostenere le famiglie che subiscono la scomparsa di un loro congiunto.

«Penelope nei suoi vent'anni di attività al fianco delle persone scomparse - spiega Annalisa Loconsole, presidente di Penelope Puglia e lei stessa figlia di una persona scomparsa e non ancora trovata (il papà Antonio, il vigile del fuoco malato di Alzheimer, uscì dalla sua abitazione di Bari il 4 agosto del 2006 senza più farvi ritorno) - chiede omogeneità delle risorse messe in campo in caso di scomparse. Non possono esserci regioni più o meno virtuose e dice basta ai ritrovamenti a km zero di persone non più in vita. Reclama a gran voce l'attivazione a regime della banca dati del Dna e poi un focus sui minori. Sono sempre tantissimi e spesso più invisibili tenuto conto che molti sono stranieri». «Quest'anno - continua Annalisa Loconsole - come Penelope Italia abbiamo voluto dare spazio ai piccoli lanciando il fumetto "Allarme al parco", disegnato da Emanuela Pedri (sorella di Sara, ginecologa scomparsa in Trentino quasi due anni fa), con il quale vogliamo spiegare ai più piccoli cosa fare in caso di scomparsa di un familiare, un amichetto. L'auspicio è quello di portare questo fumetto nelle scuole per spiegare ai bambini un tema così delicato e le emozioni che si vivono quando ci si ritrova a vivere il dramma della scomparsa, dalla preoccupazione, alla disperazione, all'attesa trepidante di notizie, alla felicità del ritrovamento della persona cara».

Le Leggi.

I Nonni.

L’Assegno di Mantenimento.

La Rottura.

Alienazione parentale

Il Ricatto dei Figli.

Le leggi.

Da ansa.it il 20 febbraio 2023.

Dal primo marzo 2023 entreranno in vigore le nuove norme che regoleranno la separazione e il divorzio, introdotte con la riforma avviata dall'ex ministra della Giustizia Marta Cartabia.

 L'obiettivo è rendere queste pratiche più semplici e veloci, accorciando notevolmente i tempi. Saranno diverse le novità per chi inizierà un processo di separazione e di divorzio da quella data: con un unico atto si potrà richiedere separazione e divorzio giudiziale. L'atto dovrà essere completo di ogni domanda, eccezione, prova e richiesta riconvenzionale da subito e per ottenere il divorzio la sentenza di separazione sullo status dovrà essere passata in giudicato.

Sarà, inoltre, necessario che la non convivenza sia ininterrotta. L'udienza del giudice dovrà tenersi entro 90 giorni. I figli saranno sempre ascoltati. Con il ricorso introduttivo la parte dovrà depositare un piano genitoriale con gli impegni quotidiani dei figli e le attività ( il giudice potrà sanzionare il genitore che non ottemperi a quanto stabilito dal piano, una volta accolto) e allegare la situazione reale patrimoniale ed economica degli ultimi tre anni (in caso di omissioni sono stabilite sanzioni e il risarcimento del danno).

"Ad oggi c'è ancora molta confusione in merito a questa complessa riforma, che, almeno sulla carta, sveltirà di molto i processi. - commenta la avvocata Valentina Ruggiero, esperta in diritto di famiglia - Occorrerà molto più personale, sia di cancelleria, sia della magistratura, e molta specializzazione dei giudici. L'auspicio è che non si vada a penalizzare la correttezza della decisione finale in nome di una maggior celerità dei processi, poiché si tratta della vita di persone, e di minori in particolare".

Estratto dell'articolo di Massimiliano Jattoni Dall’Asén per corriere.it il 26 febbraio 2023.

Il “divorzio all’italiana” cambia le sue regole. Dal 28 febbraio, infatti, partirà la riforma del processo civile, con l’obiettivo di ridurre i tempi delle cause e la mole degli arretrati (riforma inserita tra quelle previste dal Pnrr).

 Così, per snellire gli iter della giustizia civile una delle novità più importante riguarda proprio la fine dei matrimoni, con la possibilità di proporre in un solo atto e davanti allo stesso giudice sia la richiesta di separazione sia il divorzio. Dal primo marzo, dunque, addio ai due riti distinti, come stabilito dalla riforma del diritto di famiglia dell’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che il governo Meloni ha deciso di anticipare.

Riduzione dei tempi a 90 giorni

La riforma prevede un tempo di attesa massimo di 90 giorni per fissare la prima udienza, questo per accorciare i tempi procedurali a circa 8 mesi […] La velocizzazione comporta però la presentazione di qualche documento in più, soprattutto in caso di figli, per i quali viene previsto un piano genitoriale. Ma se il primo step è l’accorpamento in un’unica domanda di separazione e divorzio, l’obiettivo finale è l’istituzione di un giudice specializzato. 

Entro ottobre 2024, infatti, deve vedere la luce il nuovo tribunale «per le persone, per i minorenni e per le famiglie», destinato ad occuparsi, nelle sue diverse articolazioni sezionali, di tutte le materie ora divise fra tribunale ordinario, tribunale per i minorenni e giudice tutelare. […]

 Come funziona

La domanda per divorzio/separazione dovrà essere presentata con ricorso. Il ricorrente deve dimostrare immediatamente al giudice i mezzi di prova, gli elementi di diritto e i documenti utili al ricorso, oltre la propria condizione patrimoniale attraverso il deposito dell’elenco dei beni mobili registrati di proprietà, le quote societarie, gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari e la dichiarazione dei redditi degli ultimi tre anni.

«In caso di omissioni il coniuge che non attesta la propria reale condizione economica potrà essere condannato dal giudice al pagamento delle spese legali nonché ai danni patiti dalla controparte», spiega l’avvocato Alessandro Caporelli Siriati, esperto in materia di diritto della famiglia. […] La conciliazione verrà tentata alla prima udienza del giudice, insieme alla precisazione delle conclusioni.

[…]

Divorzi e separazioni più veloci: ecco cosa cambia da marzo. Si punta a ridurre i tempi di attesa e a concludere le procedure in circa 8 mesi. Ecco tutte le novità che arriveranno a partire da marzo. Federico Garau su Il Giornale il 26 Febbraio 2023.

A partire dal 28 di febbraio – fra pochi giorni, dunque -, entreranno in vigore le novità contenute nella riforma voluta dal ministro della Giustizia del precedente esecutivo Marta Cartabia. Fra gli effetti, anche dei significativi cambiamenti nelle procedure del divorzio, con passaggi più snelli che dovrebbero accorciare i tempi della separazione fra coniugi.

Divorzi più rapidi: cosa succederà

La nuova normativa arriva con qualche mese di anticipo rispetto a quanto programmato. Fra le novità più importanti che saranno introdotte dal prossimo primo di marzo, vi è la possibilità di proporre richiesta di separazione e di divorzio in un unico atto, che sarà presentato al giudice competente. Non ci saranno più due riti distinti, dunque. Si punta a un tempo di attesa di massimo 90 giorni per la prima udienza, riducendo di fatto a 8 mesi i tempi procedurali. Per ottenere questa rapidità, tuttavia, sarà necessario presentare una documentazione più corposa, specie in caso di figli.

I coniugi che intendono separarsi dovranno presentare domanda con ricorso. A questi sarà quindi richiesto di mostrare diversi documenti come prova della separazione, fra cui una dichiarazione della situazione economico-patrimoniale, con relative informazioni finanziarie e dichiarazione dei redditi degli ultimi tre anni. Sarà poi richiesto di presentare un piano genitoriale con indicate le attività quotidiane dei figli, se presenti, con incluso scuola, attività extrascolastiche, vacanze e visite dai parenti. Ciò servirà al giudice per decidere sull'affidamento.

"In caso di omissioni il coniuge che non attesta la propria reale condizione economica potrà essere condannato dal giudice al pagamento delle spese legali nonché ai danni patiti dalla controparte", spiega al Corriere Alessandro Caporelli Siriati, avvocato esperto in materia di diritto della famiglia.

Non vi sarà più la comparizione davanti al presidente del tribunale. Una volta fissata l'udienza, la coppia in via di separazione comparirà di fronte al Collegio, o al giudice delegato. Nel corso della prima udienza, sarà tentata la conciliazione.

Un nuovo tribunale entro il 2024

Al momento, secondo i dati Istat, ci vuole circa un anno e mezzo per un divorzio. L'intento è quello di velocizzare la macchina giudiziaria. Per adesso il governo procederà con l'unione delle pratiche di separazione e divorzio, come abbiamo visto, ma in futuro si pensa all'istituzione di un giudice specializzato incaricato di gestire tutto l'iter.

È previsto per ottobre 2024 un nuovo tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie, che si occuperà interamente di questa delicata tematica.

I Nonni.

Pro.

Contro.

Pro.

DIRITTO DI FAMIGLIA. I NONNI HANNO IL DIRITTO DI VEDERE I NIPOTI ANCHE SE VI È CONFLITTUALITÀ FRA I DUE RAMI FAMILIARI (A cura dell’Avv. Maria Grazia Di Nella)

La Cassazione ancora una volta interviene a tutela dei nonni e ribadisce il loro diritto ad instaurare e mantenere una relazione affettiva con i propri nipoti. Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con ordinanza n. 21895/22 depositata l’11 luglio 2022, ha dichiarato ammissibile la richiesta avanzata da un nonno paterno nei confronti della madre della nipotina, di poter avere e mantenere rapporti con la bimba nonostante il conflitto in essere tra loro e ha respinto il ricorso della donna che chiedeva l’interruzione dei rapporti.

Il procedimento in esame trae origine dal decreto del Tribunale per i Minorenni di Perugia del 21 maggio 2021 che disponeva che il nonno paterno, eventualmente insieme alla nonna, potesse incontrare la nipote una volta alla settimana per due ore pomeridiane e che venisse offerto un percorso di sostegno sia al ruolo del nonno che alla genitorialità.

Il Tribunale per i Minorenni, infatti, pur dando atto della latente conflittualità esistente fra il nonno e il padre della minore da un lato e la madre dall’altra, osservava che la richiesta del nonno di vedere la nipote andava accolta nonostante il parere negativo espresso dal PM.

I Giudici, infatti, tenevano conto delle qualità soggettive del nonno e dei valori dallo stesso condivisi per confermare che tale rapporto fosse da tutelare nell’esclusivo interesse del minore. Il nonno, si legge nel decreto, “appariva persona per bene e per la sua carriera svoltasi fra gli ufficiali dei carabinieri, egli era in grado di trasmettere alla bambina valori di legalità” mentre le accuse di inidoneità svolte della madre della minore erano prive di qualsiasi riscontro concreto.

Contro tale decisione ricorreva in Cassazione la madre della piccola ritenendo che fossero state valorizzate la caratteristiche personologiche del nonno ma sottovalutata l’elevatissima conflittualità all’intero dell’ambiente familiare.

Gli Ermellini, però, respingevano il ricorso della donna rilevando come la donna non avesse indicato alcuna lacuna argomentativa o carenze logiche del ragionamento dei Giudici del Tribunale per i Minorenni di Perugia e ricordavano che il legame instaurato tra i nonni e i nipoti deve essere salvaguardato in nome del superiore interesse del minore, con ciò richiamando le più recenti pronunce della Corte europea che anche con la pronuncia n. 21052 del 13 gennaio 2021 ha ribadito che il legame fra gli ascendenti e i nipoti rientra certamente nella nozione di vita familiare ai sensi dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e rappresenta un legame da tutelare e preservare attraverso misure idonee.

Il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall’art. 317-bis c.c., non ha, però, valore assoluto e incondizionato, essendo il suo esercizio subordinato ad una valutazione del Giudice avente di mira l’esclusivo interesse del minore, ovverosia la realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità  del minore nell’ambito del quale possa trovare spazio anche un’attiva partecipazione degli ascendenti quale espressione del loro coinvolgimento nella sfera relazionale ed affettiva del nipote (cfr. Cass. n. 15238/2018).

Diverse pronunce di merito e di legittimità hanno, negli anni, coadiuvato a delineare i confini del diritto degli ascendenti, fino a identificare tale diritto come pieno soltanto qualora il coinvolgimento dei nonni nella crescita del minore si sostanzi in un fruttuoso progetto educativo e formativo, idoneo ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità dei nipoti. Proprio per tali caratteristiche,

Il diritto dei nonni di frequentare i nipoti minorenni è “strumentale alla piena realizzazione della personalità del minore” e, pertanto, “recessivo rispetto allo speculare e preminente diritto di quest’ultimo di crescere in maniera serena ed equilibrata” in armonia con tutte le figure affettive ed identitarie del proprio contesto familiare. Per tale motivo, in caso di conflittualità fra le figure di riferimento e di provata inidoneità degli ascendenti, il Giudice minorile — al solo fine di assicurare la realizzazione del preminente interesse del minore — potrà adottare un provvedimento limitativo o interruttivo dei rapporti con i nipoti, qualora non risulti funzionale ad una crescita serena ed equilibrata per il minore o quando la frequentazione con i nonni comporti per lo stesso un turbamento e disequilibrio affettivo (cfr. Cass. 19/05/2020, n.9145). Confermata, quindi, la legittimità della scelta dei genitori che avevano impedito ad un nonno di avere contatti con i nipoti, in ragione del suo comportamento negativo e inquietante tenuto dall’uomo, solito appostarsi nei luoghi frequentati dai nipoti e seguirli poi con l’autovettura e respinta anche la richiesta di avviare gli incontri in Spazio Neutro.

Diverso nel caso di cui si tratta, poiché il coinvolgimento del nonno paterno nella vita della nipote, costituente il presupposto indispensabile per una fruttuosa cooperazione degli ascendenti all’adempimento degli obblighi educativi e formativi dei genitori, è stato condivisibilmente riconosciuto come positivo dal Tribunale per i Minorenni di Perugia e dalla Corte territoriale.

Avv. Maria Grazia Di Nella. È Avvocato Collaborativo del Foro di Milano, componente del Comitato Scientifico della SOS Villaggi dei Bambini Onlus, membro attivo dell’Associazione Camera Minorile di Milano, socia dell’AIAF (Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i minori), socia dell’AIADC ( Associazione Italiana degli Avvocati di Diritto Collaborativo) nonché delle IACP ( International Academy of Collaborative Professionals), socia dell’Associazione ICALI (International Child Abducion Lawyers Italy) ed iscritta nell’elenco avvocati specializzati all’assistenza legale delle donne vittime di violenza (BURL – Serie ordinaria n.46 17.11.2016).

Contro.

Cassazione: ecco chi paga se i genitori sono inadempienti sull’ assegno mantenimento per i figli minori. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Maggio 2023 

Qualora il padre e la madre non sono nelle condizioni economiche giuste per onorare il pagamento dell’assegno di mantenimento per i figli minori, spetta ai nonni sostenerli economicamente. La loro è un’obbligazione subordinata, perché quella dei genitori resta primaria

Non ci sono dubbi per la Corte di Cassazione: compete ai nonni versare l’assegno di mantenimento ai minori qualora il genitore non rispetta la regola che lo obbliga a pagare la somma decisa dal giudice nel momento in cui è stata stabilita la separazione consensuale. La sezione civile della Suprema Corte lo ha stabilito con la sentenza 8980/23 dello scorso 30 marzo. Si tratta, in ogni caso di un’obbligazione sussidiaria, non solidale. In parole più semplici, l’assegno pesa proporzionalmente su tutti gli ascendenti di pari grado indipendentemente da chi sia il genitore che non adempie al versamento del mantenimento.

Nel caso della sentenza 8980/23 della Cassazione, la nonna non è riuscita a far coinvolgere anche la consuocera nel versamento dell’assegno perché “il giudice non poteva integrare d’ufficio il contraddittorio, mentre il provvedimento che nega la chiamata in causa di un terzo implica valutazioni discrezionali e non può formare oggetto di appello o ricorso per Cassazione”.

Le conseguenze della sentenza

Rispetto alla decisione assunta dalla Cassazione, comunque, non è necessaria la presenza di più attori, o di più convenuti, o di più attori e di più convenuti. Ecco un esempio pratico: se una madre ha chiamato in causa la nonna per pagare l’assegno di mantenimento, quest’ultima non può rivalersi, almeno in questa fase, sulla consuocera ma deve provvedere da sola. Il mantenimento viene stabilito in misura fissa, per dodici mesi all’anno, e serve per aiutare l’altro genitore a sostenere le spese di vitto, alloggio, istruzione ed educazione dei figli minori.

Cosa prevede il codice civile

Ad avvalorare la decisione della Suprema Corte sugli obblighi a carico degli ascendenti vi è anche l’articolo del codice civile 316 bis su cui ha influito la riforma dell’ex ministro Marta Cartabia che nello scorso febbraio ha modificato i commi 2,4 e 5. In pratica, qualora il padre e la madre non sono nelle condizioni economiche giuste per onorare il pagamento dell’assegno di mantenimento per i figli minori, spetta ai nonni sostenerli economicamente. La loro è un’obbligazione subordinata, perché quella dei genitori resta primaria. Ciò significa che se uno tra il padre e la madre è in grado di ottemperare al pagamento dell’assegno non si può chiedere l’aiuto economico ai nonni. Redazione CdG 1947 

Estratto dell’articolo di Valentina Errante per “Il Messaggero” il 5 aprile 2023.

Se il papà non riesce a mantenere il figlio, lo faccia la nonna. E se dopo la decisione della Cassazione, nel nuovo appello, quest'ultima prova a chiamare in causa la sua omologa dal lato materno, affinché anche lei contribuisca alle spese per il nipote, non può farlo, a meno che non sia stata chiesta la modifica del provvedimento iniziale. […]

 È una controversia giudiziaria che dura da anni, quella sulla quale la Cassazione è tornata a pronunciarsi. Comincia tutto nel 2010, quando il tribunale di Velletri impone ai nonni paterni di un bambino di contribuire all'assegno di mantenimento che avrebbe dovuto versare il padre, separato dalla mamma del piccolo.

L'uomo, all'epoca, viveva con i genitori e il giudice aveva imposto ai nonni di pagare 200 dei 350 euro stabiliti come mantenimento in fase di separazione. I nonni paterni si erano opposti in appello, presentando un ricorso. Ma si erano visti dare torto: innanzi tutto perché le condizioni economiche della madre del bambino, diventato intanto un ragazzo, non erano migliorate.

 […]  Mentre a incrementare le entrate era stata proprio la nonna paterna che, dopo la morte del marito, aveva ereditato un notevole patrimonio immobiliare. Il papà del ragazzo invece aveva rinunciato all'eredità. La nonna paterna però non si era arresa e si era rivolta alla Cassazione per essere sollevata dall'onere economico.

I giudici avevano confermato che «L'obbligazione solidaristica, sussidiaria e subordinata grava proporzionalmente su tutti gli ascendenti di pari grado indipendentemente da chi sia il genitore che ha creato l'insorgenza dello stato di insufficienza dei mezzi economici». Ossia: se i genitori non mantengono i figli tocca ai nonni, in quanto ascendenti più prossimi, farsene carico, come disposto dall'articolo 316 bis del codice civile.

 […] La Suprema Corte aveva disposto un nuovo appello per definire i termini economici. Nell'appello bis la nonna paterna aveva tentato di coinvolgere anche la sua omologa materna. Ma di nuovo si era vista dare torto. Per i giudici, l'altra nonna avrebbe dovuto essere citata in giudizio come parte, affinché la Corte potesse valutare le sue condizioni economiche e decidere se gravarla dell'onere nei confronti del nipote, sin dall'inizio.

Ma la donna non si è arresa ed è tornata in Cassazione, ribadendo la richiesta di coinvolgere la sua omologa. E adesso i giudici di piazza Cavour scrivono la parola fine a questa lunga controversia […]

Il bambino non può essere costretto a vedere i nonni. Debora Alberici su Italia Oggi l’01 febbraio 2023

I bambini non possono essere costretti a vedere i nonni. E ciò perché il diritto degli ascendenti non può assolutamente prevalere sull'interesse dei minori, che non possono e non devono subire costrizioni.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con l'ordinanza n. 2881 di ieri, ha accolto il ricorso dei genitori di due ragazzini che si opponevano...

La Cassazione, 'non costringere i bimbi a vedere i nonni'. Sì al ricorso. 'Relazioni sgradite non si impongono manu militari' ANSAROMA l’01 febbraio 2023

Il diritto dei nonni a frequentare i nipoti minorenni non può prevalere sull'interesse degli stessi bambini che manifestano contrarietà a tale relazione e non possono essere costretti, da provvedimenti del giudice, a frequentare gli 'ascendenti' in base alla considerazione che non ne trarrebbero comunque "un pregiudizio".

Lo sottolinea la Cassazione che avverte: non ci può essere alcuna "imposizione 'manu militari' di una relazione sgradita e non voluta" soprattutto se si tratta di ragazzini capaci "di discernimento" o che abbiano compiuto 12 anni.

E' stato così accolto il ricorso dei genitori di due bimbi costretti a vedere nonni.

Ad avviso della Cassazione - che ha affrontato il caso di una famiglia con rapporti molto difficili tra i genitori di due bimbi e i nonni e lo zio paterni che si erano rivolti alla magistratura per vedere i nipotini - "il compito del giudice non è quello di individuare quale dei parenti debba imporsi sull'altro nella situazione di conflitto, ma di stabilire, rivolgendo la propria attenzione al superiore interesse del minore, se i rapporti non armonici (o addirittura conflittuali) fra gli adulti facenti parte della comunità parentale si possano comporre e come ciò debba avvenire". Nella vicenda valutata dalla Suprema Corte, gli stessi servizi sociali - hanno fatto presente i genitori nel reclamo agli 'ermellini' - avevano constatato "l'impossibilità di provvedere alla mediazione perchè il conflitto risultava irrisolvibile". In primo grado il Tribunale di Milano aveva disposto gli incontri tra i nonni e lo zio paterni alla presenza di un educatore e aveva stabilito che i rapporti potessero procedere "in forma libera" quando la nonna "avesse provato di essersi fatta assistere da uno psichiatra dando continuità alle cure". La signora infatti era molto aggressiva verso i genitori dei piccoli, cosa che evidentemente veniva percepita dai nipotini. Poi la Corte di Appello di Milano, aveva ritenuto "che non fosse utile" mantenere la prescrizione alla nonna "di rivolgersi allo psichiatra" dal momento che la donna non aveva "coscienza della propria condizione di disagio psichico". Piuttosto, secondo i magistrati milanesi "occorreva far maturare nei genitori la consapevolezza del danno psichico cui espongono i loro figli, costretti a vivere privati degli affetti che potrebbero arricchirli, in un clima indotto di paura e di rancore". In conclusione, la Corte di appello invitava tutti gli adulti a seguire "un percorso allargato di terapia familiare" e incaricava i servizi sociali "a vigilare sulla situazione dei due bambini e a regolamentare i loro incontri con i nonni e lo zio paterni". Insomma dato che "non sussisteva un reale pregiudizio per i bambini nel passare del tempo con i nonni e lo zio", che erano stati descritti dai consulenti come "sinceramente legati ai nipoti", occorreva che fosse riconosciuto il diritto del clan paterno a mantenere i rapporti con i due bambini. Ma la Cassazione non ha assolutamente condiviso questa modo di vedere le cose e ha sottolineato che non basta "l'insussistenza di un reale pregiudizio nel passare del tempo con nonni e zio" per imporre la frequentazione ma occorre semmai verificare se gli ascendenti sono in grado "di prendere fruttuosamente parte attiva alla vita dei nipoti attraverso la costruzione di un rapporto relazionale e affettivo e in maniera tale da favorire il sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità". In nessun modo si può ricorre alla "costrizione" dei nipoti ma si può provare a utilizzare "l'arsenale" di strumenti "soft di modulazione delle relazioni che sappiano creare spontaneità (e dunque significatività) di relazione con i minori piuttosto che imporre rapporti non desiderati". Gli 'ermellini' infine non sono affatto d'accordo nel "coinvolgimento della nonna paterna nel progetto educativo e formativo dei nipoti nonostante la sua mancata disponibilità a sottoporsi alle indicazioni cliniche" suggerite dalla Ctu e dato il suo "riconosciuto mantenimento di un atteggiamento aggressivo verso i genitori dei bambini". Ora la Corte di Milano deve rivedere tutta la situazione e rimettere i minori al centro della sua attenzione.

Cassazione: «Non si possono costringere i bambini a vedere i nonni». Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2023.

È stato accolto il ricorso dei genitori di due bimbi costretti a vedere nonni e lo zio paterni nonostante i rapporti con loro fossero tesi. La Corte di Appello aveva invitato tutti i parenti a partecipare a una terapia familiare

Il diritto dei nonni a frequentare i nipoti minorenni non può prevalere sull’interesse degli stessi bambini che manifestano contrarietà a tale relazione. Lo ha deciso la Cassazione, accogliendo il ricorso dei genitori di due bambini che avevano rapporti molto difficili con i nonni e lo zio paterni, che pur di vedere i bambini si erano rivolti alla magistratura. I bambini, secondo quanto scrivono gli ermellini, non possono essere costretti, da provvedimenti del giudice, a frequentare gli «ascendenti» in base alla considerazione che non ne trarrebbero comunque «un pregiudizio». La Cassazione avverte: non ci può essere alcuna «imposizione `manu militari´ di una relazione sgradita e non voluta» soprattutto se si tratta di ragazzini capaci «di discernimento» o che abbiano compiuto 12 anni.

Un conflitto irrisolvibile

Ad avviso della Cassazione «il compito del giudice non è quello di individuare quale dei parenti debba imporsi sull’altro nella situazione di conflitto, ma di stabilire, rivolgendo la propria attenzione al superiore interesse del minore, se i rapporti non armonici (o addirittura conflittuali) fra gli adulti facenti parte della comunità parentale si possano comporre e come ciò debba avvenire». Nella vicenda valutata dalla Suprema Corte, gli stessi servizi sociali - hanno fatto presente i genitori nel reclamo agli ermellini - avevano constatato «l’impossibilità di provvedere alla mediazione perché il conflitto risultava irrisolvibile».

La nonna aggressiva

In primo grado il Tribunale di Milano aveva disposto gli incontri tra i nonni e lo zio paterni alla presenza di un educatore e aveva stabilito che i rapporti potessero procedere «in forma libera» quando la nonna «avesse provato di essersi fatta assistere da uno psichiatra dando continuità alle cure». La signora infatti era molto aggressiva verso i genitori dei piccoli, cosa che evidentemente veniva percepita dai nipotini. Poi la Corte di Appello di Milano, aveva ritenuto «che non fosse utile» mantenere la prescrizione alla nonna «di rivolgersi allo psichiatra» dal momento che la donna non aveva «coscienza della propria condizione di disagio psichico». Piuttosto, secondo i magistrati milanesi «occorreva far maturare nei genitori la consapevolezza del danno psichico cui espongono i loro figli, costretti a vivere privati degli affetti che potrebbero arricchirli, in un clima indotto di paura e di rancore». In conclusione, la Corte di appello invitava tutti gli adulti a seguire «un percorso allargato di terapia familiare» e incaricava i servizi sociali «a vigilare sulla situazione dei due bambini e a regolamentare i loro incontri con i nonni e lo zio paterni». Insomma dato che «non sussisteva un reale pregiudizio per i bambini nel passare del tempo con i nonni e lo zio», che erano stati descritti dai consulenti come «sinceramente legati ai nipoti», occorreva che fosse riconosciuto il diritto del clan paterno a mantenere i rapporti con i due bambini.

La relazione deve essere spontanea

Ma la Cassazione non ha assolutamente condiviso questa visione: e ha sottolineato piuttosto che non basta «l’insussistenza di un reale pregiudizio nel passare del tempo con nonni e zio» per imporre la frequentazione ma occorre semmai verificare se gli ascendenti sono in grado «di prendere fruttuosamente parte attiva alla vita dei nipoti attraverso la costruzione di un rapporto relazionale e affettivo e in maniera tale da favorire il sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità». In nessun modo si può ricorre alla «costrizione» dei nipoti ma si può provare a utilizzare «l’arsenale» di strumenti «soft di modulazione delle relazioni che sappiano creare spontaneità (e dunque significatività) di relazione con i minori piuttosto che imporre rapporti non desiderati». Gli ermellini infine non sono affatto d’accordo nel «coinvolgimento della nonna paterna nel progetto educativo e formativo dei nipoti nonostante la sua mancata disponibilità a sottoporsi alle indicazioni cliniche» suggerite dalla Ctu e dato il suo «riconosciuto mantenimento di un atteggiamento aggressivo verso i genitori dei bambini». Ora la Corte di Milano dovrà rivedere la situazione e rimettere i minori al centro della sua attenzione.

La Cassazione: “Non si possono costringere bambini a vedere nonni”. La Suprema Corte ribalta il giudizio di appello e accoglie il ricorso dei genitori: in caso di una “relazione sgradita e non voluta” non ci può essere “imposizione manu militari”. Il Dubbio il 31 gennaio 2023.

Non si possono costringere i bambini a vedere i nonni quando sono proprio i minori a manifestare contrarietà. Lo sottolinea la Cassazione aggiungendo che davanti a una “relazione sgradita e non voluta” non ci può essere “imposizione manu militari”.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dei genitori di due bambini costretti a frequentare i nonni nonostante ci fosse una situazione conflittuale evidente. In particolare, si legge nella sentenza, “il compito del giudice, non è quello di individuare quale dei parenti debba imporsi sull’altro nella situazione di conflitto, ma di stabilire, rivolgendo la propria attenzione al superiore interesse del minore, se i rapporti non armonici (o addirittura conflittuali) fra gli adulti facenti parte della comunità parentale si possano comporre e come ciò debba avvenire”.

All’attenzione della Corte il caso di una famiglia dove esisteva una situazione conflittuale tra i genitori dei due bambini, i nonni e lo zio paterno. Nonni e zio si erano rivolti alla magistratura per vedere i nipoti. Il tribunale di Milano, con decreto del febbraio 2019, accoglieva la domanda, “disponendo che i ricorrenti potessero intrattenere rapporti con i nipoti nei limiti e con le modalità specificamente indicati nel provvedimento; incaricava i servizi sociali di regolamentare gli incontri e i rapporti fra i ricorrenti e i bambini con la presenza di un educatore e successivamente, allorquando la nonna avesse provato di essersi fatta assistere da uno psichiatra di sua fiducia dando continuità alle cure, anche in forma libera".

La Corte d'appello di Milano, a seguito del reclamo presentato dai tre, in particolare sull’obbligo per la nonna di sottoporsi a visita psichiatrica, “condivideva le valutazioni del primo giudice in ordine alla possibilità di dar corso agli incontri richiesti, essendo stato accertato, all'esito della consulenza tecnica d'ufficio svolta dal tribunale, che non sussiste[va] un reale pregiudizio” per i minori “nel passare del tempo con i nonni e lo zio paterni apparsi in corso di CTU sinceramente legati ai nipoti”. Ma sottolineava che “la vera questione irrisolta riguardava l'incapacità - dimostrata in particolare dalla nonna paterna e dalla madre dei minori, a causa dei rispettivi limiti caratteriali - di superare le incomprensioni, le svalutazioni e le aggressività reciproche manifestatesi nel passato”.

La Corte d’Appello, riteneva che non fosse utile mantenere la prescrizione per la nonna di rivolgersi a uno psichiatra, mentre riteneva che occorreva, far maturare “nei genitori la consapevolezza del danno psichico cui espongono i loro figli, costretti a vivere privati di affetti che possono arricchirli, in un clima indotto di paura e di rancore persistente che certamente è di pregiudizio per una armoniosa crescita psichica dei bambini”. Veniva quindi revocata la prescrizione alla nonna paterna e si invitavano “tutti gli adulti coinvolti nella vicenda a intraprendere un percorso guidato di terapia familiare allargata, onde evitare ogni pregiudizio al benessere dei minori”, sotto vigilanza dei servizi sociali regolamentando “gli incontri con i nonni e lo zio paterni, inizialmente in spazio neutro o con la presenza di un educatore e con facoltà di un successivo ampliamento in assenza di un loro pregiudizio”.

Ma la Cassazione ha ribaltato tutto sottolineando in particolare che non basta “l'insussistenza di un reale pregiudizio nel passare del tempo con nonni e zio” per imporre la frequentazione, piuttosto bisogna accertare se gli ascendenti sanno “prendere fruttuosamente parte attiva alla vita dei nipoti attraverso la costruzione di un rapporto relazionale ed affettivo e in maniera tale da favorire il sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità”. Quindi, nessuna costrizione ma semmai, “l’arsenale da predisporre, secondo la giurisprudenza europea, per la tutela del diritto degli ascendenti, consiste nell'individuazione di strumenti 'soft' di modulazione delle relazioni che sappiano creare spontaneità di relazione con i minori piuttosto che imporre rapporti non desiderati”.

L’Assegno di Mantenimento.

Danni enormi sia per la perdita di tempo, sia per i costi. Divorzio, affidamento e mantenimento dei figli: l’odissea di una ragazza madre e le sentenze di primo grado sballate. La rubrica “Giustizia in-civile” di Andrea Viola, avvocato e consigliere comunale. Perché una Giustizia civile che funziona, non solo aiuta il cittadino a sentirsi tutelato e protetto, ma crea le condizioni basilari per il funzionamento di ogni comparto economico-produttivo. Andrea Viola su Il Riformista il 18 Giugno 2023 

I problemi della Giustizia in-civile continuano a suscitare numerose segnalazioni da parte Vostra. Pian piano cercheremo di affrontarle tutte e nel frattempo un grazie enorme ai lettori. Vi invitiamo, quindi, a scriverci sempre all’indirizzo avvandreaviola@tiscali.it. Nel marasma della Giustizia Civile i problemi sono sempre i più disparati e vanno incontro a realtà quotidiane.

Oggi parleremo di una questione sempre più di attualità: le separazioni e i conseguenti divorzi, nonché le questioni che riguardano soprattutto i figli anche fuori da un regolare matrimonio. Per prima cosa è doveroso segnalare sul tema la recente c.d. riforma Cartabia.

La Riforma che prende il nome dalla Ex Ministro della Giustizia, risponde alla necessità di velocizzare i tempi del processo. In materia di famiglia, la novità più evidente è sintetizzata nell’art 473 bis n. 49 c.p.c. Tale novità legislativa prevede la possibilità di presentare la domanda di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, unitamente alla domanda di separazione. Ossia, con un ricorso unico si può chiedere la separazione e il conseguente divorzio.

Come molti sanno già, precedentemente prima si incardinava la richiesta di separazione e poi si poteva fare il successivo divorzio. Tuttavia, leggendo la nuova norma, ci si rende conto che la fine del matrimonio non avviene in maniera diretta ed immediata. Infatti, anche se la domanda è unica, occorre comunque che tra la data della separazione e quella del divorzio, intercorra il lasso di tempo di sei mesi o di un anno, a seconda dell’assenza o presenza dei figli minori (o maggiorenni non autosufficienti).

Il legislatore ha specificato che le domande sono procedibili “decorso il termine a tal fine previsto dalla legge e previo passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione personale”. Per detti motivi la presunta novità legislativa è semplicemente nelle modalità in cui il giudizio che porta alla fine del matrimonio si svolge. Insomma, poco cambia nella realtà di tutti i giorni e soprattutto nei Tribunali.

Ora è utile raccontare un caso da poco accaduto in uno dei tanti Tribunali Italiani. Una ragazza madre si è rivolta al proprio Avvocato per ottenere l’affidamento esclusivo della bambina, avuta da un ex compagno, e un mantenimento dignitoso per la figlia. Veniva, pertanto, avviato il procedimento con un Ricorso davanti al Tribunale competente.

L’atto veniva depositato in data 21/06/2021. La prima udienza veniva fissata per il 22/02/2022. E già basta questo dato temporale per capire le lungaggini eccessive ed inutili. Nelle more si costituiva l’ex compagno della ragazza madre e scriveva: “Tuttavia, ove il Tribunale adito ritenga la distanza (si ribadisce che il Omissis dimora stabilmente a Omissis) elemento ostativo all’affidamento condiviso della minore alla madre, nulla oppone, rimettendosi al prudente apprezzamento del Giudice nell’esclusivo interesse della minore”. In sostanza la ragazza chiedeva l’affido esclusivo per due motivi: uno per l’evidente distanza fra il luogo di residenza della bimba e il luogo di residenza del padre e per l’effetto conseguente di vedere la bambina educata e mantenuta soltanto dalla madre. Il secondo anche per ragioni pratiche di tutti i giorni con varie questioni burocratiche. Insomma, anche lo stesso padre nel proprio atto riconosceva il problema.

La ragazza chiedeva, altresì anche un assegno solo per la bambina di almeno 500 euro. La prima udienza veniva rinviata ai primi di luglio 2022 e veniva sentito il padre, il quale asseriva a verbale: “dichiara di vedere la bambina ogniqualvolta il lavoro gli consente di tornare in Omissis”…”Dichiara di prestare attività lavorativa a Omissis, ove vive con la compagna. Dichiara di non poter programmare le giornate di ferie sul lungo periodo. Anche dette dichiarazioni facevano capire il reale problema e soprattutto che sulle spalle della giovane mamma si estendevano non solo tutte le responsabilità quotidiane dell’educazione e della crescita della figlia ma anche quelle strettamente economiche.

Per detti motivi ben si sperava per il giusto riconoscimento di diritti basilari. Orbene, in data 17/10/2022 il Tribunale emanava un provvedimento abbastanza vergognoso. Infatti, il Giudice oltre a non riconoscere l’affido esclusivo in favore della ragazza madre, riconosciuto dallo stesso padre, attribuiva alla bambina un assegno di mantenimento di € 250. Avete capito bene, solo 250 euro.

Da evidenziare che anche su questo punto lo stesso padre dava già in precedenza 400 euro mensili per la bambina e si era reso disponibile  riconoscere tale cifra. Ma non basta, il Giudice ha addirittura condannato la madre al pagamento delle spese legali (2.500 euro) a favore dell’ex compagno. Motivo: aver avuto parzialmente respinte le richieste. Un fatto gravissimo che in casi come questi è impossibile possano accadere. Ovviamente detto provvedimento è stato reclamato in Corte D’Appello e da poco completamente ribaltato per l’evidente assurdità della decisione di primo grado. Ma i fatti sono questi e lasciano aperte numerose domande e problematiche.

Come è possibile che un Giudice oltre a non aver buon senso possa emanare un provvedimento contro ogni principio giuridico? Come è possibile che questi fatti non facciano pensare il CSM e facciano verificare certi comportamenti da parte dei Giudicanti? Purtroppo, questo accade spesso e i danni sono enormi sia per la perdita di tempo e sia per i costi che il cittadino deve sopportare. In tutto questo la macchina della giustizia si va a ingolfare anche a causa di decisioni di primo grado completamente sballate e prive di senso. Per oggi ci fermiamo qui. Alla prossima. 

Andrea Viola, Avvocato, Consigliere Comunale Golfo Aranci, Coordinatore Regionale Sardegna Italia Viva; Conduttore Rubrica Vivacemente Italia su Radio Leopolda

Estratto dell’articolo di Giordano Tedoldi per “Libero Quotidiano” il 18 febbraio 2023.

La Corte di Cassazione ha condannato un uomo a versare l’assegno di mantenimento alla ex moglie anche se, come ha ammesso durante il processo di primo grado, in dodici anni, tra due di fidanzamento e dieci di matrimonio, non c’è mai stato un rapporto sessuale.

Lunghissime nozze bianche che se sono state ritenute una giusta causa per la dissoluzione del vincolo matrimoniale, non minano però, secondo i giudici della Suprema corte, il dovere dell’uomo di pagare alla ex coniuge il mantenimento mensile che, stabilito in prima istanza in una somma di 750 euro, ora verrà ricalcolato dalla Corte d’Appello.

Questa stessa corte aveva respinto la liquidazione mensile sulla base del fatto che la donna, residente a Padova, aveva intrapreso un «legame stabile, con carattere di continuità, quanto meno dall’inizio del 2014, con altro uomo, indice di un progetto comune di vita, pur in assenza di convivenza di fatto tra i medesimi», giacché il nuovo amore della donna risiedeva invece a Bologna. 

In Cassazione i due ex coniugi si sono scontrati nuovamente, lei sostenendo che la sua nuova relazione non avesse il carattere di una convivenza more uxorio, e quindi non interrompesse i doveri di mantenimento dell’ex marito, lui invece ha ritrattato la sua dichiarazione circa l’inesistenza dei rapporti sessuali, venendo però contraddetto dalla Cassazione […]

[…] La Cassazione sottolinea come la mancata consumazione sia annoverata dal diritto canonico tra le cause che definiscono la non validità del sacramento; in ambito civile, invece, il matrimonio resta valido, ma l’astensione prolungata dal sesso può essere giusto motivo di divorzio, in quanto «concorre a formare la presunzione alla mancanza di comunione spirituale e materiale tra i coniugi, che resta il fondamento individuante l'istituto matrimoniale».

Ma di là da tutto il ginepraio legale, e dal fatto che, dicono definitivamente i giudici, il casto ex marito dovrà pagare gli alimenti alla casta (evidentemente suo malgrado) ex moglie, nonostante questa abbia un nuovo amore in un’altra città, è il mistero della storia personale dei due protagonisti a intrigare: come sarà stato questo matrimonio di dieci anni in bianco? Come è stato il loro amore platonico? […]

Estratto dell'articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 6 febbraio 2023.

Era il maggio 2017 e l’«autosufficienza» sostituì il «tenore di vita» tra i principi di attribuzione dell’assegno di divorzio. I giudici della I sezione civile della Cassazione avevano optato per un mantenimento light: il matrimonio è «un atto di libertà e autoresponsabilità» dissero, non un mantenimento a vita. L’ex coniuge, precisarono ridimensionando (di molto) le aspirazioni di Lisa Lowenstein già moglie dell’ex numero uno del Tesoro Vittorio Grilli, dovrà reinventarsi e non gravare. […]

 Invano Lowenstein si dipinse come una forzata della mondanità a riprova che, nel matrimonio, aveva contribuito al raggiungimento delle fortune dell’allora ministro («Le serate scintillanti in cui si tessevano relazioni, si accordavano favori, si costruivano carriere? Io sorridevo e soffrivo») […]

Quasi sei anni dopo ecco un nuovo alt al mantenimento forzato. La Cassazione impone uno stop all’idea che uno dei due debba garantire a oltranza il tenore di vita acquisito con il menage e decurta l’assegno a una signora di Ancona «colpevole» di aver declinato un’apprezzabile offerta di lavoro: «La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi – scrivono i giudici — non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita coniugale ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi».

 […]  Riflette l’avvocato matrimonialista Annamaria Bernardini De Pace: «È giusto che all’idea di moglie e madre sacrificale in voga negli anni Cinquanta si sostituisca una nuova visione della realtà. Le donne hanno lottato per la parità: si adeguino e non chiedano sempre». […]

«Il vento è girato — commenta il presidente dei matrimonialisti Gian Ettore Gassani — la Cassazione impone un giro di vite attorno all’assegno di divorzio. Gli ex coniugi sono uguali di fronte alla legge. Nel resto d’Europa è tramontata l’idea di un assegno di mantenimento simile al vitalizio».

Certo, la strada intrapresa non è un rettilineo dell’alta velocità. E infatti, nel 2018, una sentenza (la Cassazione a sezioni unite) mise in crisi l’assegno light dando ragione a una ex moglie che, dopo 39 anni di matrimonio, aveva presentato ricorso contro il ridotto mantenimento in appello. I giudici qui definirono il contributo uno strumento «assistenziale». Eppure, per gli esperti, la via è tracciata. Lo è per Gassani che sussurra all’orecchio delle clienti: «Volete il divorzio? Ebbene trovatevi un lavoro...». […]

Da open.online il 28 gennaio 2023.

La Corte di Cassazione stabilisce che l’assegno di mantenimento dopo il divorzio può essere revocato a chi effettua «spese voluttuarie». Oppure a chi invece di lavorare si dedica allo svago, fa acquisti non necessari, passa le giornate in palestra invece di cercarsi un’occupazione. Con una sentenza depositata il 18 gennaio scorso il Palazzaccio infatti spiega che l’assegno di divorzio ha una funzione «assistenziale e compensativa». E quindi richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. L’importo si calcola proprio sulla base della «valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti».

L’importo e la valutazione comparativa

L’assegno, spiega oggi il Messaggero, per i giudici si calcola anche tenendo in considerazione il contributo alla vita familiare e alla formazione del patrimonio comune di ciascuno degli ex coniugi. Con l’obiettivo di consentire «il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare. In particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate», si legge ancora nella sentenza. Non è dovuto se il coniuge si rifiuta di lavorare. E se ha redditi adeguati a mantenersi e ad affrontare le spese che derivano dalle nuove condizioni di vita. La decisione dei giudici riguarda una coppia di Velletri in provincia di Roma. Il tribunale aveva sentenziato che l’ex marito avrebbe dovuto versare un assegno divorzile di 100 euro al mese all’ex moglie, più 450 per il mantenimento del figlio. La Corte d’Appello di Roma aveva revocato la decisione.

La decisione del Palazzaccio

Il figlio, diplomato in un istituto tecnico industriale, aveva nel frattempo scelto di lasciare il lavoro nell’officina del padre impiegandosi nell’edilizia. Dove gli aveva offerto un posto il nuovo compagno della madre. Di qui il ritiro del sussidio per lui. La donna invece «disponeva di redditi provati dalle risultanze dei conti correnti e dalle spese, anche voluttuarie, sostenute».

 Ma anche «dalla capacità lavorativa dimostrata dal fatto che aveva letteralmente trasformato il proprio fisico dedicandosi a un’intensa e costante attività di body building». Il ricorso della donna è stato quindi respinto. I giudici l’hanno anche condannata a pagare le spese processuali. E hanno aggiunto che l’assegno di mantenimento va parametrato al fatto che il divorzio ha prodotto «uno squilibrio effettivo e non di modesta entità» tra i due componenti della coppia.

 Le spese voluttuarie

E se l’eventuale differenza di reddito sia riconducibile «alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla definizione dei ruoli dei componenti della coppia, al sacrificio delle aspettative lavorative e professionali». La donna, secondo gli ermellini, «al momento della dissoluzione del matrimonio aveva la capacità di dedicarsi all’attività lavorativa». E non lo ha fatto. Infine, «dal suo conto corrente e dalle spese sostenute, anche voluttuarie», è emerso che «disponeva di redditi idonei a renderla economicamente autonoma e in grado di sostenere i corsi dell’abitazione presa in locazione».

La Rottura.

L’ossessione del risparmio è reato. Estratto dell'articolo di tgcom24.mediaset.it il 21 febbraio 2023.

Il comportamento di un marito avaro può configurarsi come reato di maltrattamento.

A dirlo la Corte di Cassazione che ha confermato la condanna di un coniuge che per anni ha costretto la moglie a una condizione di "risparmio domestico" diventata impossibile da sopportare. La coppia residente a Bologna non aveva problemi economici eppure l'uomo aveva creato in casa un clima di sopraffazione che imponeva sacrifici e limitazioni alla consorte anche sulle spese ordinarie.

 Nessun acquisto di marca

Alla moglie non era consentito neppure scegliere dove fare la spesa, era il marito - ossessionato dal risparmio - a decidere dove e quando poteva recarsi a fare acquisti. Solo in negozi "notoriamente a costo contenuto", si legge nelle motivazioni. I prodotti ammessi in casa erano solo quelli comprati "in offerta, sia per la casa che per l'abbigliamento". A tavola c'era l'obbligo di usare una sola posata e un solo piatto.

Limitazioni su carta igienica e docce

La sopraffazione dell'uomo nei confronti della coniuge arrivava a renderle impossibile persino prendersi cura di sé stessa.  La donna ha raccontato di essere stata costretta a servirsi "solo di due strappi di carta igienica" alla volta, a recuperare l'acqua in una bacinella dopo la doccia, "che poteva fare solo una volta a settimana".

[…]

Marito tirchio condannato dalla Cassazione, moglie costretta a una doccia a settimana e a tagliare tovaglioli in 10 pezzi. Francesca Sabella su Il Riformista il 21 Febbraio 2023

Una sola doccia a settimana, due strappi di carta igienica e non uno di più, niente abiti di marca, manco a dirlo per scherzo, una sola posata e un solo piatto durante il pranzo e la cena e una bacinella per recuperare l’acqua utilizzata per lavarsi il viso: l’ossessione del risparmio è reato. Siamo a Bologna e questa è la storia di un marito che ha imposto questo stile di vita alla moglie che ha raccontato i comportamenti patologici del coniuge davanti a un giudice che le ha dato ragione.

Secondo la Corte di Cassazione infatti la costrizione di un comportamento di risparmio estremo è più vicino all’ossessione che a una gestione economica lungimirante. Anzi la sentenza della Cassazione conferma la condanna del marito che ha costretto la donna a subire condizioni di risparmio domestico più vicini a maltrattamenti che a una sana economia domestica. A dirlo è la sentenza 6937/23 pubblicata il 17 febbraio 2023 dalla sesta sezione penale. Raccontata dal sito Cassazione.net.

E non è la prima con questo orientamento: dalla sentenza n. 6785 del 7 giugno 2000 gli ermellini hanno sempre seguito questo orientamento giurisprudenziale. Un comportamento violento, segnato da manie del controllo e manipolazione psicologica. La moglie, terrorizzata dal comportamento del marito, ha raccontato che era costretta a buttare via gli scontrini e a fare la spesa solo quando e dove diceva lui. E il marito la chiamava spesso “sprecona”. Secondo i giudici si trattava di “comportamenti accompagnati da modalità di controllo particolarmente afflittive”. Per i magistrati la situazione è chiara: clima di sopraffazione e comportamenti vessatori. È una situazione che è andata peggiorando nel tempo e che da “risparmio domestico” è diventata sopraffazione.

I giudici scrivono nella sentenza che “il rapporto matrimoniale impegna ciascuno del coniugi a un progetto di vita che riguarda anche le spese e il risparmio”. Ma questo non può diventare un obbligo: “È indiscutibile – si legge ancora nella sentenza – che tale stile di vita debba essere condiviso e non possa essere imposto, men che meno in quelle che sono le minimali e quotidiane esigenze di vita in casa e accudimento personal”. Un altro episodio: la donna ha gettato un tovagliolino di carta nel secchio. L’uomo l’ha prelevato per mostrarglielo: “Si può utilizzare ancora, tagliandolo addirittura in dieci pezzi”. Una vita impossibile che ha portato la donna a soffrire di stress e depressione. Come darle torto…

Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Che bella famiglia. Quando le relazioni durano a lungo, si può anche stare con qualcuno e odiarlo. Ester Viola su L’Inkiesta il 16 Gennaio 2023.

In "Voltare pagina" (Einaudi), Ester Viola consiglia i libri migliori per superare i problemi affettivi. E così “Lacci” di Domenico Starnone diventa il balsamo perfetto per una coppia in crisi

Le ho portato un romanzo, quella sera a cena, Lacci di Domenico Starnone. Siamo a Napoli negli anni Sessanta. Aldo e Vanda si sposano a vent’anni, e poco dopo arrivano i due figli. Immaginabile copione dell’epoca: lei si sacrifica alla famiglia, lui fa quello che può e molto di quello che vuole. A trent’anni Aldo lascia tutti e arriva a Roma per iniziare la vita che fino a poco prima non sapeva di volere, con Lidia, bella, colorata e giovanissima.

Passano anni in cui Vanda e Aldo non si sentono. Finché non succede qualcosa. È questione di un attimo, una scena indimenticabile: i figli – Sandro di tredici anni e Anna di nove – un pomeriggio gli chiedono di mostrare come si allaccia le scarpe. Sandro, che se le allaccia in un modo strano, sostiene sia stato il padre a insegnarglielo, ma Anna non ci crede. Aldo si china sulle scarpe: due occhielli, e poi un fiocco. Bastano quei cinque minuti. E la parola «papà» allarga i lacci che diventano funi, e poi catene. Aldo deve tornare a casa, deve tornare per loro. La vita a colori con Lidia sbiadisce in pochi mesi.

Come sono queste vite dopo tali fratture? Cosa succede dentro matrimoni che sembrano interi e invece sono solo frantumi? Perché reggono? Com’è possibile? Questo libro è un racconto fatto di lettere, monologhi, confessioni, rabbia che diventa parole, parole che si fanno veleno, recriminazioni, vecchi ricatti.

Aldo alla fine torna, sí, e da lí in poi, dovrà sopportare le paure di Vanda, ingoiare le pasticche amare del risentimento di lei, i giorni tutti infausti, la rabbia della moglie che tocca a lui – perché lui se n’era andato – trasformare in quieto vivere. Tornano a essere una famiglia, ma per modo di dire. Sono pezzi incollati, appunto non stanno piú insieme come devono, cedono.  Una specie di ostilità silenziosa scava sotto i pavimenti della loro casa, mangia le pareti come una muffa e alla fine prenderà tutto, loro, i figli, e quello che resta di due persone che molto probabilmente avrebbero fatto meglio a perdersi che a ritrovarsi.

Eppure sono rimasti a rendersi infelici a vita. Perché piú si va avanti, piú è raro riuscire a disfarsi delle consuetudini, delle cose che si conoscono, anche se rendono infelici. Quelle del matrimonio non sono ragioni, sono forze.

L’ultimo capitolo del libro è su Sandro e Anna. I figli vivono nei matrimoni molto piú dei genitori. Sentono ogni scossa, si preoccupano di ogni crepa. In Lacci, è Anna, la figlia, che beve tutto il veleno: «Me la prendo con la gratitudine che i figli dovrebbero ai genitori per la vita che hanno ricevuto. Gratitudine? Rido, esclamo: sono i nostri genitori che ci devono un risarcimento. Per i danni che ci hanno causato al cervello, ai sentimenti. O no?».

Carolina davanti al secondo caffè, quella mattina, mi aveva detto di rimanere soprattutto per i figli, e le case, «i miei genitori non lo sopporterebbero, e poi mi ha dato troppi soldi per l’avviamento dello studio, quelli li chiederebbe indietro». Guardando i figli sul divano, mentre mi chiede di prenderle il dolce dal frigorifero, si avvicina e mi dice: – Non fanno una bella fine i figli, in quel libro. Guarda che l’ho visto, il film.

Sí, ma i genitori c’entrano e non c’entrano.

E perché allora sono rimasti insieme?

Avranno trovato il sostituto all’amore. L’odio funziona, funzionano mille cose. Perché lasciarsi è un atto di fede molto piú dell’amore.

È come dice Domenico Starnone: «L’amore è un contenitore dentro cui ficchiamo di tutto», perfino non prendere decisioni, o il pensare «non ci riesco» e poi riuscirci. E ancora perdonare e dimenticare, non sempre in quest’ordine.

La serata poi va bene come al solito. Carolina ha cucinato spaghetti e vongole, Leonardo la prende in giro per la sabbia nei piatti, i figli ridono e poi si appollaiano sui braccioli del divano a guardare una serie tv, Massimo come al solito alla fine della serata mentre torniamo a casa mi dice: – Ma che bella famiglia.

Da “Voltare pagina, dieci libri per sopravvivere all’amore,” di Ester Viola, Einaudi, 144 pagine, 14 euro

© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency

Il Ricatto dei Figli.

Alienazione parentale: il j'accuse di dieci attiviste contro un sistema che trasforma le madri da vittime a imputate. Mara Accettura su La Repubblica l’1 febbraio 2023.

Per la prima volta in Italia un libro smaschera l’orrore dell’alienazione parentale, in tutti i suoi risvolti e tutte le sue implicazioni. Al centro, la cancellazione dei diritti della madre e dei bambini, usati come pedine di un gioco violento, combattuto con carte bollate. A volte con epiloghi tragici

La chiamano violenza istituzionale. Pratica barbara. Si tratta dei figli allontanati a forza dalle madri in base all’accusa di alienazione parentale. Figli sacrificati sull’altare della bigenitorialità, costretti a recidere il legame con la madre e a incontrare il padre anche quando non vogliono, anche quando è violento. Per la prima volta in Italia un libro smaschera l’orrore dell’alienazione parentale, in tutti i suoi risvolti e tutte le sue implicazioni.

Il comico Maurizio Battista contro la ex: «Non mi fa vedere mia figlia, io faccio una battaglia». Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

«Qui ci sono dei problemi seri, devo chiedere l’elemosina per vedere due giorni mia figlia? Ma secondo voi si fa così? Ogni telefonata è un problema. La bambina va tenuta una settimana uno e una settimana l’altro (...). Andiamo ancora in tribunale (...), io ci faccio una battaglia». Con uno sfogo acceso affidato a un video su Facebook, il comico romano Maurizio Battista ha denunciato i suoi problemi famigliari e nello specifico l’impossibilità di vedere la figlia Anna, 6 anni, poiché a suo dire la ex compagna non starebbe rispettando la suddivisione dei giorni in cui è affidata a ciascun genitore e starebbe ostacolando i loro incontri.

Battista, che dal 31 dicembre è atteso all’Auditorium della Conciliazione di Roma con il suo spettacolo «Uno contro tutti», ha detto di non vedere la piccola da due settimane e di sperare di poterla avere con sé in teatro per Capodanno: «La bambina sono 15 giorni che non la vedo per vari motivi. Adesso sti giorni c’ha un po’ di febbre, arriviamo al 31, dico “va bene se sta con me?”. Du’ giorni, la devo vedè sta bambina o no? E la signora dice “vediamo”». Battista, visibilmente arrabbiato, ha accusato la ex di voler creare dei problemi e ha detto in modo esplicito di essersi stancato e di voler ricorrere alle vie legali.

Video correlato: Lo sfogo di Maurizio Battista sui social. «Devo chiedere l'elemosina per vedere mia figlia? Andiamo in tribunale» (Corriere Tv)

In un altro video, il comico ha detto poi di voler regalare la cameretta della figlia, visto che non viene utilizzata: «A oggi siamo a circa due settimane che non vedo la signorina Anna per vari motivi, veri o inventati, sono due settimane che non vedo la signorina e gli sviluppi mi costringono, con piacere verso qualcuno, a regalare, vendere non sono capace, la cameretta della signorina Anna, visto che non può venire perché le manca la mamma, visto che c’ha altro tipo di problemi, reali o indotti».

Valentina Ruggiu per repubblica.it l’11 gennaio 2023.

Non uno sfogo, ma violenza mediatica. Ci tiene a usare "le parole corrette" Emanuela Valente, giornalista e fondatrice dell'osservatorio sui femminicidi In quanto donna, quando parla del video in cui il comico Maurizio Battista accusa l'ex moglie di non farle vedere la figlia e la minaccia di chiedere una Ctu psicologica. Un filmato diventato virale, "su cui però - spiega - nessuno si è posto una domanda cruciale: sappiamo se quello che dice è vero?". 

Insieme ad altri esponenti del mondo dell'attivismo contro la violenza sulle donne, a giornalisti e sindacalisti, Valente è la promotrice di una petizione pubblicata su Change.org dal titolo Basta violenza mediatica: un appello che, prendendo spunto dal caso del comico romano, si rivolge agli utenti e ai media per far notare la disparità di trattamento che su casi simili ricevono le donne, "e i padri che hanno meno visibilità".

"Da oltre dieci anni mi occupo di violenza contro le donne - spiega Valente - e nel tempo mi sono dedicata anche ai figli portati via da uomini denunciati per violenza. Figli sottratti alle madri anche nel cuore della notte, con irruzioni dentro casa, proprio dopo una Ctu, che è lo stesso strumento invocato da Battista per l'ex moglie. Sono donne che quasi mai vengono credute se non hanno prove in mano, nemmeno dai media, perché se a una donna viene tolto un figlio deve per forza aver fatto qualcosa di grave. Per un uomo famoso invece basta un video pubblicato sui social per avere tutta l'attenzione possibile ed essere creduto".

Per Valente quello del comico romano è "il racconto di una verità parziale. Un attacco preciso che contiene offese e minacce nei confronti dell'ex moglie, del suo nuovo compagno e di chiunque, anche sotto al video, abbia provato a fargli notare che stava sbagliando i toni".

 "Senza contare - continua la fondatrice dell'osservatorio sui femminicidi - che dice di agire nel bene della figlia, ma in realtà facendo così l'ha esposta pubblicamente con nome e cognome su un contenuto che quando sarà più grande potrà rintracciare online". Tutti elementi che, in questo come in altri casi, andrebbero considerati prima di decidere se riprendere o meno un contenuto.

L'appello pubblicato su Change.org è arrivato anche a Battista, che al tema ha dedicato qualche post sul suo profilo Facebook. Tra questi c'è un video indirizzato alla fondatrice di In Quanto Donna: "Ma cara signora lei sa cosa c'era prima? Dov'era quando un milione e mezzo di uomini e donne hanno lo stesso problema? O lo fa ora perché sono io e le fa comodo?".  "Eppure - conclude Valente - pensavo fosse chiaro che il nostro appello non fosse contro di lui, ma un invito alla riflessione per i media e per i cittadini".

Teo Mammuccari a "Le Iene": «Quando ti separi devi pensare ai figli». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l’11 gennaio 2023

Il conduttore del programma di Italia1 racconta, in un monologo, il suo punto di vista dopo la separazione. E ha lanciato un appello ai papà nelle sue stesse condizioni: “Non cercate rivincite”.

Teo Mammuccari, conduttore de "Le Iene", si è lasciato andare a un monologo personale, legati anche alla sua situazione dopo la separazione dalla compagna , l’ex velina Thais Wiggers. Mammuccari è padre di una bambina, Julia, che non ha potuto vedere per tre anni: "Quando due persone che hanno un figlio e si separano si soffre sempre - ha detto il conduttore durante la trasmissione su Italia1 -, perché è difficile in quella situazione dare il meglio di sé. Io sono stato travolto, avevo meno sicurezze di lei, perché la mamma è sempre la mamma, ma anche un padre è sempre un padre mi ripetevo, ma non suonava altrettanto bene".

«Bisogna pensare ai figli»

Il volto televisivo (molto amato anche sui social) confessato la sua sofferenza in quella situazione: "Una volta mia figlia mi ha detto: papà è colpa mia, se non ci fossi stata io non avresti avuto questi problemi - ha raccontato davanti alle telecamere -. Eh no, amore mio, no, tu non sei il problema, sei la mia forza. Ecco è lì che ho capito che quando ti separi non devi pensare ai tuoi problemi, devi pensare ai figli, è solo così che puoi essere un buon genitore, io certo di esserlo tutti i giorni, anche grazie alla mamma che dopo quei tre anni in Brasile ha capito che non poteva essere una buona madre negandomi la possibilità di essere un buon padre, non tutti hanno la sua sensibilità, lo capisco, non tutti hanno la mia fortuna". In chiusura, Mammuccari non si è risparmiato e ha lanciato un appello a chi è nella stessa situazione: A tutti i papà voglio dire non cercate rivincite, non pensate ai vostri problemi, pensate ai vostri figli".

Teo Mammucari, il monologo alle 'Iene' sui papà separati: "Non ho visto la mia Julia per tre anni". Giovanni Gagliardi su La Repubblica l’11 Gennaio 2023.

Il conduttore ha parlato delle difficoltà che ha avuto, come padre di una bambina dopo la rottura con la ex velina Thais Souza Wiggers. "A tutti i papà voglio dire: non cercate rivincite, non pensate ai vostri problemi, pensate ai vostri figli"

"Quando due persone che hanno un figlio e si separano si soffre sempre". Ha esordito così Teo Mammucari alle Iene. Lo showman ha lasciato per qualche minuto il ruolo di conduttore del programma ed è diventato protagonista del consueto monologo della trasmissione di Italia1, per parlare della sua vicenda personale di padre separato.

Dal 2006 al 2009 il conduttore è stato legato alla ex velina Thais Souza Wiggers. Dalla loro relazione è nata nel 2008 la piccola Julia. Nel corso del monologo ha raccontato di non aver potuto vedere la bimba per tre anni. Poi, l'appello finale a chi si trova a dover affrontare la stessa situazione: "A tutti i papà voglio dire non cercate rivincite, non pensate ai vostri problemi, pensate ai vostri figli".

Il monologo integrale di Teo Mammuccari

"Dunque, quando due persone che hanno un figlio si separano si soffre sempre, perché è difficile in quella situazione dare il meglio di sé. Io sono stato travolto, avevo meno sicurezze di lei e molte più paure perché 'la mamma è sempre la mamma', ma anche un padre è sempre un padre mi ripetevo, ma non suonava altrettanto bene".

"Non ho visto mia figlia Jiulia per tre anni, era in Brasile con sua mamma, 'la mamma è sempre la mamma' e una volta mi ha detto 'papà è colpa mia se non ci fossi stata io non avresti avuto questi problemi'".

"Eh no, amore mio, no, tu non sei il problema, sei la mia forza. Ecco è lì che ho capito che quando ti separi non devi pensare ai tuoi problemi, devi pensare ai figli, è solo così che puoi essere un buon genitore, io cerco di esserlo tutti i giorni, anche grazie alla mamma che dopo quei tre anni in Brasile ha capito che non poteva essere una buona madre negandomi la possibilità di essere un buon padre, non tutte hanno la sua sensibilità, lo capisco, non tutti hanno la mia fortuna, ma a tutti i papà voglio dire: non cercate rivincite, non pensate ai vostri problemi, pensate ai vostri figli".

Leonardo Di Paco per “la Stampa” il 20 dicembre 2022.

Sono considerati alla pari dei figli e proprio per questo provocano incredibili reazioni di affetto, tenerezza, attaccamento. Ma possono essere causa di litigi e conflittualità, ad esempio quando una coppia si separa, divorzia, o nei casi di successione. Il codice civile si occupa da sempre di animali domestici, ma lo fa con poche norme, sparse e spesso datate. 

Per questo il dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Torino ha attivato un corso universitario (di 40 ore e 6 crediti formativi) a cui potranno accedere gli iscritti (quando raggiungeranno il quarto e quinto anno), che ha l'obiettivo di preparare i giuristi di domani ai nuovi problemi che la «questione animale» pone intersecandosi con i temi cruciali del diritto privato: dalla proprietà ai rapporti contrattuali, dal fatto illecito alla disciplina della famiglia e delle successioni.

«Nella società di oggi - spiega il professor Luciano Olivero, l'ideatore del corso - gli animali, soprattutto quelli da compagnia, attirano spesso l'attenzione della giurisprudenza perché sempre più spesso danno adito a conflittualità». Inoltre agli screzi che aumentano per via di una società sempre più «pet friendly» «si aggiungono problemi che si trascinano da sempre». 

Ad esempio, «se ad un allevatore uccidono gli animali, è previsto un risarcimento di tipo economico. Ma se ad una persona anziana, magari sola, viene a mancare il suo amatissimo cagnolino perché è rimasto ucciso, le richieste di danni non possono limitarsi solo la sfera patrimoniale». In pratica tanto più il valore affettivo dell'animale cresce, tanto più sarà insoddisfacente limitare la tutela del risarcimento in un'ottica economica.

In Italia gli animali da compagnia sono oltre 60 milioni, tanti quanti gli abitanti. Questo significa che ogni famiglia, in media, ne possiede più di due. Ognuna di esse, per mantenere e curare tali animali, spende ogni mese cifre che oscillano da 30 a oltre 300 euro. Tra il 2007 e il 2021, inoltre, le spese per il cosiddetto «pet food» sono più che raddoppiate. Questi dati, prosegue il docente, «restituiscono l'effetto misurabile di un movimento culturale da mettere in relazione con i fenomeni che attraversano le società occidentali, come la denatalità delle giovani coppie e l'invecchiamento della popolazione, che concorrono a riversare sugli animali domestici un'affettività che non si può indirizzare in altri modi». 

A livello di diritto, le questioni irrisolte sono varie: durante lo scioglimento della comunione dei beni, gli animali d'affezione rappresentano un'entità che non è possibile dividere e neppure trattare secondo una logica «di proprietà». Ciò ha spinto i giudici ad adottare schemi che mimano quelli della disciplina dell'affidamento dei figli; ma l'impiego di tale strumento non ha mancato di sollevare discussioni. «In generale - chiosa il direttore del dipartimento di Giurisprudenza dell'università di Torino, Raffaele Caterina - si tratta di problematiche spesso affrontate in maniera sparpagliata, ma che invece devono essere trattate in modo unitaria e approfondite nell’insegnamento».